SEZIONE PRIMA – OGGETTO E SCOPO DELLA COMPARAZIONE
1.OGGETTO DELLA COMPARAZIONE Le regole giuridiche non sono identiche ovunque. Da quando il diritto ha attirato l’attenzione degli osservatori, questi hanno constatato che le soluzioni giuridiche variano da un luogo all’altro o da un gruppo umano all’altro. L’analisi di queste differenze forma oggetto di una scienza (ossia di un sapere criticamente vagliato) che si è sviluppata quando sono maturate alcune circostanze favorevoli. Fino ad una certa epoca infatti il giurista studiava un modello giuridico dato, da lui stesso giudicato come ottimo: questa premessa non consigliava di sospingere la propria attenzione su altri modelli, sebbene si sapesse che essi esistevano. Solo con il XX secolo si è cominciato a riconoscere che i diversi sistemi positivi sono tutti pienamente legittimi e allora è sorto l’interesse a constatarne e misurarne le affinità e le divergenze. In un primo tempo la comparazione considerò come proprio scopo quello di ricavare dall’insieme delle istituzioni particolari una base comune o, quanto meno, punti di contatto capaci di mettere in luce l’unità fondamentale della vita giuridica universale. Ma questa visione è da respingere perché pone alla comparazione e ai suoi fini limitazioni non giustificate. La comparazione porta la sua attenzione sulle regole appartenenti ai vari sistemi giuridici per stabilire in quale misura queste coincidono e in quale misura invece differiscano. Questa analisi finirà poi per consentire una migliore conoscenza dei modelli studiati comparativamente. Chi scambiava la comparazione con la dimostrazione della unità di tutte le esperienze giuridiche, se era posto di fronte a soluzioni molto diverse fra loro, proclamava che esse non erano comparabili . Ma questi atteggiamenti devono essere respinti: la comparazione dispone di strumenti in grado di analizzare e mettere a confronto ogni e qualsiasi sistema , e per misurare ogni e qualsiasi differenza, grande o piccola che sia. 2.LA COMPARAZIONE NELLA FORMAZIONE DEL GIURISTA I grandi insegnamenti giuridici fioriscono quando le scuole parlano ad un livello più elevato della regola giuridica immediatamente applicabile. Il primo pericolo da cui guardarsi è il rischio di un insegnamento troppo potivo e come tale territoriale e casistico, poco aperto alla problematica ed esposto ad una rapida obsolescenza. L’insegnamento valido è quello problematico, volto ad insegnare non tanto una soluzione quanto un modo di ragionare, capace di guardare al diritto da un punto di osservazione elevato, aperto alle esigenze culturali e professionali del discente. Da quando la comparazione viene praticata , essa costituisce uno strumento formidabile per la formazione del giurista. Testimonianze in questo senso si sono moltiplicate (in sende nazionale e internazionale) a partire dalla metà del XX secolo in poi . In Italia le facoltà si sono mostrate aperte a questa impostazione. Lo studio della comparazione aiuta lo studente a scoprire le discontinuità che sussistono fra regola e definizione, fra enunciato e applicazione, e a evidenziare i dati profondi e relativamente costanti propri di ogni ordinamento. In secondo luogo la comparazione permette di affrontare con competenza la ricerca del modello giuridico migliore. Infine la comparazione insegna a capire il diritto degli altri paesi a vantaggio di chi darà assistenza professionale (come avvocato o giurista d’azienda) all’operatore economico attivo attraverso le frontiere. SEZIONE SECONDA – IL METODO 1.VARIETA’ DEI FORMANTI DELL’ORDINAMENTO Chi compara mette a confronto norme giuridiche appartenenti a sistemi diversi. Ma cosa intendiamo per norma giuridica di quel dato sistema? Se gli interpreti appartenenti a quel dato sistema si contraddicono, a quale di essi crederemo? Può il comparatista farsi una convinzione sua propria, diversa da quella degli interpreti locali? Può scegliere una interpretazione fra le molte proposte dagli interpreti locali? Il comparatista in quanto tale, non formula interpretazioni sue proprie (al massimo constata che sarebbe possibile formulare interpretazioni diverse da quelle dei giuristi del sistema considerato); non sceglie fra le varie ricostruzioni del diritto (operate dai giuristi legati a quel sistema): se coesistono più interpretazioni egli non deve rifiutarne nessuna ma deve “inventariarle” tutte, in quanto tutte costituiscono dati veri e reali inerenti a quel sistema giuridico che egli si propone di conoscere. Ciò che diciamo per le varie interpretazioni vale anche per le diverse formulazioni presenti nel sistema. Si prenda ad ESEMPIO gli artt 832 e 534.2 cc italiano: a) solo il proprietario può disporre del bene che gli appartiene b) l’erede apparente dispone efficacemente del bene ereditato. Quest’ultima norma derogatoria corrisponde , in italia, alla formulazione “legale” e al risultato dell’interpretazione (dottorale e giudiziaria); in belgio la deroga non figura né nella legislazione né nella interpretazione; in francia non esiste nella legislazione ma figura nell’interpretazione. Di fronte a questa situazione, diremo che il diritto italiano differisce da quello belga (perché le soluzioni sono opposte) e da quello francese (perché i testi legali sono diversi) e che il diritto francesce differisce dal diritto belga (in quanto la regola enunciata e applicata dagli interpreti differisce nei due paesi). Dunque al comparatista interessa tanto la formulazione legale (dotata di un suo significato letterale) quanto la regola estratta e formulata dagli interpreti. Se, come avviene in francia (in tema di erede apparente) le proposizioni giuridiche divergono, il comparatista ne prende atto e constata che il sistema francesce contempla in materia due proposizioni disomogenee (di cui l’una, quella legale, potrebbe in qualsiasi momento riprendere il sopravvento sull’altra). Il comparatista distinguerà allora nel sistema francesca una norma legale e una non legale: entrambe appartengono ad un solo ordinamento giuridico ma fanno parte di due insiemi distinti ,ed ognuno di questi insiemi costituisce uno speciale formante dell’ordinamento. I sistemi giuridici moderni possiedono un gran numero di formanti: quelli legali (uno a livello costituzionale, altri a livello di norma ordinaria, legale, regolamentare ecc) alcuni formanti giudiziari, alcuni formanti dottorali, ed altri formanti che possono apparire non necessari alla funzione del diritto (esempio le dichiarazioni di scienza ecc..). Il comparatista non può considerare uguali le soluzioni giuridiche appartenenti a due diversi sistemi quando uno dei formanti(anche uno di essi) si presenti diversificato. La comparazione non può dunque fare a meno di analisi giuridiche che procedano distinguendo (ossia dissociando) i vari formanti. Questo procedimento consentirà anche di misurare le distanze intercorrenti fra un formante e l’altro. La comparazione offre precisamente questo apporto alla conoscenza del singolo sistema di cui si occupa. La misurazione di queste distanze consente di valutare se il sistema in esame è piu compatto o piu diffuso (ossia se lo scarto fra i vari formanti è piu limitato o piu ampio). Si noti che la percezione di questi scarti trova poco di disponibile il giurista appartenente al sistema che viene esaminato: questo infatti è indotto a pensare che le proposizioni giuridiche situate nei diversi formanti non possono contraddirsi l’una con l’altra. La comparazione aiuta a superare queste illusioni ottiche. 2.I SINGOLI FORMANTI Anche un esame superficiale di un sistema giuridico moderno suggerisce di distinguere un formante legislativo, uno dottrinale (o dottorale) e uno giurisprudenziale. Ma un’analisi piu attenta obbliga a distinzioni ulteriori. Nella sentenza noi possiamo distinguere la regola effettivamente praticata dal giudice e la regola di diritto (la c.d. massima) che il giudice enuncia per motivare la sua decisione. Ogni proposizioni giuridica può presentarsi assistita da una argomentazione (che costituisce anche essa una proposizione giuridica, inideonea a decidere di per sé sola una questione giuridica): ad esempio la frase “chi detiene e intende essere usufruttario è possessore” è preceduta logicamente dalla proposizione “l’usufrutto è un diritto reale” (quest’utlima è una argomentazione). Anche le argomentazioni sono formanti dell’ordinamento in cui sono inserite. Nell’ordinamento troviamo dichiarazioni non precettive, le “declamazioni” (esempio l’affermazione che il dovere di difendere la patria è sacro (art 52 cost)). Le proposizioni di tipo declamatorio sono spesso collegate ad un’ideologia. Un formante importantissimo di molti ordinamenti è la legittimazione (o giustificazione) invocata a favore delle norme appartenenti al dato sistema (esempio il diritto ebraico è legittimato dalla volontà rilevata di Dio). La norma giuridica è un precetto ma la legittimazione che la sostiene deve formularsi come una teoria, una verità: questo implicherà che all’interno dell’ordinamento un qualche soggetto abbia il potere di definire e affermare la verità. I vari formanti dell’ordinamento tendono a influenzarsi: in un dato ordinamento, la proposizione dottorale influirà sulla massima giudiziaria; in un altro avverrà l’opposto ecc.. Si noti ora che la dicotomia piu importante in tema di formanti è quella che distingue le regole operazionali che costituiscono esse stesse altrettanti criteri di decisione e le proposizioni elaborate per pensare mediante concetti, enunciare, recitare e comunicare la norma stessa: regola è ad esempio il criterio in base al quale il giudice decide; definizione è la massima enunciata dal giudice. Le contraddizioni fra regole ed enunciazioni si colmano ricorrendo a finizioni, presunzioni assolute e a definizioni accomodanti, volte ad affermare l’identità di due fatti disomologhi (es la nozione “dichiarazione tacita” implica l’equazione : silenzio=dichiarazione). Gli enunciati, le formulazioni, i concetti appartenenti ad ordinamenti molto diversi tra loro tendono a diversificarsi tanto piu quanto piu sono generali. viceversa le regole applicative e le soluzioni pratiche tendono ad una maggiore compatibilità. Taluni concetti molto generali possono essere presenti in alcuni sistemi e non avere avere un corrispondente in altri (ad ESEMPIO la categoria del diritto soggettivo non ha un omolgo nelle concezioni asiatiche del diritto; La stessa categoria generale del diritto (in senso oggettivo) del modello occidentale non ha un omologo nelle altre concezioni). 3.I CRITTOTIPI Alcuni formanti del diritto nascono già verbalizzati, ossia enunziati mediante parole (es la definizione dottorale nasce verbalizzata). Altri invece non vengono espressi: tali modelli impliciti, la cui importanza è immensa, si possono dire crittitipici o interferenziali. Quando noi comparando troviamo che leggi identiche in vigore in due aree diverse danno luogo a soluzioni applicative diverse e troviamo che soluzioni applicative identiche sono prodotte da leggi diverse, o convivono con definizioni dottorali diverse, dobbiamo concludere che oltre alla legge, influirà sulla soluzione, in almeno una delle aree considerate, un ulteriore criterio di decisione non verbalizzato, ossia crittotipico. La scoperta di un crittotipo mediante la comparazione è falicilitata quando una nozione implicita in un sistema è esplicita nell’altro. Le regole non verbalizzate hanno un importanza centrale nel diritto. Esse vengono percepite e trasmesse da una generazione di giuristi a quella successiva. Il portatore della regola non verbalizzata suole trovarla “ovvia” e non trova facile liberarsene nel corso del ragionamento giuridico. L’insieme dei crittotipi che dominano un dato ambiente incide in modo rilevante sulla mentalità dell’ambiente in questione. Le asimmetrie tra i bagagli di crittotipi che dominano in ambienti diversi rappresentano il principale ostacolo ad una felice mutua comprensione fra i giuristi di provenienza territoriale diversa. SEZIONE TERZA – I PROBLEMI DI LINGUA 1.LINGUE E SISTEMI GIURIDICI Il comparatista pensa ed esprime poi il proprio pensiero in una determianta lingua positiva. Normalmente , poiché egli si occupa di piu sistemi, alcuni di questi saranno stati verbalizzati/illustrati/analizzati in una lingua che non è quella del ricercatore né quella in cui il ricercatore descrive i risultati della comparazione svolta. Spesso un sistema utilizza nozioni e parole che, non avendo riscontro nel diritto di un paese diverso, non hanno riscontro nei concetti noti ai giuristi di questo paese né nella terminologia presente nella loro lingua. Questa circostanza è notissima anche ai non specialisti, perché categorie proprie del diritto inglese e americano (es. equity, estoppel ecc..) non hanno corrispondente nel diritto europeo continentale e perché tradizionalmente alcune istituzioni straniere (es lo zar, il tenno, lo shogun ) vengono chiamate da chi parla una lingua diversa dal russo e dal giapponese con il vocabolo tratto dalla lingua di origine sebbene non manchi l’espressione che può corrispondere al concetto (in italiano imperatore, consiglio,ministro). Per affrontare i problemi che tutto ciò pone, si deve tenere presente che il vocabolo giuridico appartiene contemporaneamente sia ad un sistema linguistico sia ad un sistema giuridico (che si esprime con parole sue proprie). Tenedo presente questo, si può comprendere come paesi che parlano la stessa lingua possano avere vocaboli giuridici differenti (ad esempio il francesce e l’italiano utilizzati per verbalizzare il diritto svizzero usano il termine possession (possesso) per indicare il potere di fatto sulla cosa scompagnato dall’intento di considerarsi proprietario, mentre in francia e in italia questo potere viene chiamato per lo più detention ( detenzione)) Può avvenire che il vocabolario di un dato paese si modelli in modo da poter agevolmente indicare i concetti elaborati per descrivere un sistema giuridico affine a quello del paese indicato. Può anche succedere che in uno stesso paese si succedano nel tempo due distinte rielaborazioni linguistiche ispriate a due diversi sistemi (come in italia, dove la lingua giuridica fu resa perfettamente interscambiabile prima con la lingua giuridica francece durante il XIX e poi con quella tedesca nel XX secolo : vocaboli come nullità, annullamento, hanno finito per acquistare significati divergenti nelle due diverse fasi storiche). 2.LA TRADUZIONE Le differenze fra norme giuridiche dei diversi sistemi creano difficoltà di traduzione (quest’ultima necessaria al giurista). L’importanza della traduzione e i problemi che la affliggono, hanno fatto nascere una letteratura: viene chiamato traduttologia. Dal confronto di significati si passa al confronto dei concetti: la parola francesce “contrat” fa pensare alla parola inglese “contract” e molte volte si potrà tradurre un vocabolo con l’altro senza incovenienti maggiori. Però in inghilterra non si chiamano “contracts” gli accordi di tipo liberale (cioè le donazioni) e neanche gli accordi volti a operare il trasfermimento di una proprietà: il concetto di contrat non corrisponde a quello di contract”. E non esiste in inglese un vocabolo che corrisponda pinamente a “contrat” né in francesce uno che corrisponda pienamente a “contract”. Alle difficoltà di traduzione si aggiungono anche quelle poste dalla diversità delle strutture linguistiche: es il francese (e con questo la vecchia lingua italiana) esprime con la parola acte (in italiano “atto”) due diverse nozioni che la ligua tedesca (e con questa la lingua italiana recente) esprime con le parole Rechtgeshaft e Rechtshandulung (in italiana negozio giuridico e atto giuridico semplice). Diversità tra le strutture delle diverse lingue possono derivare da un dato più insidioso. La lingua può ammettere speciali figure retoriche che si inseriscono nella correlazione parola-significato, alterandola rispetto alla regola generale. La scienza giuridica si è già occupata del fenomeno della sineddoche, per cui certe lignue indulgono alla partica che consente di indicare una certa fattispecie mediante un solo costituente di essa (es “incontro di volontà” per dire incontro di due dichiarazioni e due volontà, “colpa” per dire “violazione colposa di un diritto della vittima” ecc…). Ulteriori difficoltà dipendono anche dal fatto che spesso le parole dei giuristi sono fatte per indicare non solo i caratteri che circoscrivono una categoria ma anche una serie di emozioni che il giurista ricollega alla categoria (ESEMPI: il termine “risparmio” induce una impressione di simpatia che manca nel suo sinomino “capitalizzazione”; il termine proprietà individuale richiama una visione del diritto borghese capitalistica mentre proprietà personale inquadra l’istiuto in un sistema socialista). All’interno di ogni sistema giuridico operano poi parole destinate ad avere due diversi livelli di interpretazione: così che si distingue una definizione piu generica ed elastica, ed un’altra piu precisa e puntuale (ESEMPIO: il fatto illecito può definirsi genericamente come il comportamento genericamente antigiuridico oppure come la fattispecie costituita dalla condotta imputabile/la colpevolezza/l’ingiustizia/il nesso cauase /il danno): si parla al proposito di un genotipo (definizione meno puntuale) e di un fenotipo (definizione piu circostanziata). Riprendendo l’esempio di prima, abbiamo visto le differenze che intercorrono fra la figura del contract e quella del contrat. Ma ora giunge il momento di osservare che forse contract e contrat mettono in gioco un genotipo unico e cioè legittima la traduzione di un termine con l’altro. Normalmente spettta alla scienza giuridica definire i concetti giuridici (ossia le categorie ordinanti in cui incasellare i risultati dell’interpretazione giuridica). Infatti non spetta al legislatore costruire l’apparato concettuale utile alla conoscenza delle regole. Ma proprio nell’area del diritto queste corrispondenze naturali fra parola e concetto subiscono alterazioni che provengono dalle scelte di un potere costituito, da peculiari eventi storico-linguistici e da intermediazioni dovute a personaggi autorevoli. Può avvenire che un legislatore affermi piu o meno puntigliosamente una data qualificazione e classificazione: in tal caso il giurista (e soprattutto il comparatista) può contestare, ma non ignorare questa scelta del legislatore. L’errore di classificazione proveniente dall’autorità non può far diventare conforme a logica la classificazione contradditoria, ma comunque è un formante del diritto. Può avvenire che un legislatore manifesti la sua volontà in molte lingue e in tal caso le multiple dizioni legislative non possono non essere ridotte ad un significato uniforme (esempio il diritto formulato da fonti europee). Talora un reticolato di vocaboli, più o meno ampio e dotato di coerenza viene introdotto in una lingua per inserirvi un reticolato concettuale proveniente da una cultura che si esprime in un’altra lingua. La uniformità concettuale è allora assicurata.[ ESEMPIO: Il giurista del rinascimento si esprimeva in Latino. Quando si formarono le lingue giuridiche francesce, tedesca, italiana ecc.. ognuna di queste versioni assegnò a vocaboli scelti a questo fine il compito di tradurre le corrispondenti espressioni latine e questa circostanza assicurò l’omogeneità dei termini appartenenti alla varie lingue]. 3.IL COMPARATISTA E LA TRADUZIONE Posto di fronte ad un problema di traduzione, il comparatiste ha davanti a sé varie soluzioni e fra queste deve scegliere quella corretta. Talora la corrispondenza concettuale e semantica è ben garantita e la traduzione può essere eseguita senza difficoltà; altre volte non bisogna tradurre (es non si traducono estoppel, kolhoz ecc..); altre volte bisognerà invece accertare quale sia la disparità del significato dei termini in questione e accertare se questa disparità nuoccia alla precisione del discorso giuridico; altre ancora il traduttore dovrà introdurre nella lingua in cui si esprime il neologismo necessario per rendere l’espressione presente nell’altra lingua. SEZIONE QUARTA – COME SEMPLIFICARE L’INDIGINE SUI TEMI, RACCOGLIENDOLI IN FAMIGLIE 1.LE DIFFERENZE SUPERFICIALI E PROFONDE NEL DIRITTO Le differenze fra sistemi possono essere maggiori o minori. Il comparatista dispone delle tecniche che occorrrono per misurare queste piccole e grandi differenze. Le differenze piu profonde sono quelle che possono scomparire soltanto nei lunghi periodi in quanto involgono la mentalità e i procedimenti logici dell’interprete . I dati piu profondi ( e quindi le differenze piu profonde rispetto agli altri sistemi) riflettono spesso regole non scritte, osservate spontanemanente dagli interpreti (esempio: il grado di ottemperanza prestato dal giudice all’insegnamento dottorale e al proprio precedente): fra queste regole non scritte le piu difficili da neutralizzare sono quelle crittotipiche presenti nello spirito dell’interprete in modo inconsapevole, così che egli è nell’impossibilità di vagliarle criticamente. 2.LA SISTEMOLOGIA Quanto detto sopra porta ad una conseguenza: se il comparatista inventaria i dati piu stabili di un dato sistema, egli redige una specie di ritratto dei connotati propri e caratterizzanti dell’ordinamento preso in esame. Già sappiamo che si tratta di dati su cui non semrpe può esercitarsi l’autorità del legisaltore (es.il peso reciproco dell’insegnamento teorico e della prassi, il valroe di fatto del precedente giurprudenziale ecc..). Può essere la tendenza a ragionare in base a regole giuridiche di dettaglio; possono essere i modi scelti per la trasimissione del sapere giuridico e per la formazione del giurista; lo stile delle leggi; la qualità (saggistica o divulgativa) della produzione letteraria. Una disciplina apposita è nata, la sistemologia, che si preoccupa di raccogliere i dati utili a questi fini. Alla descrizione dei sistemi operata mediante l’indicazione delle fonti verbalizzate (tipo di costituzione, modello di codice civile ecc..) è sotituita una descrizione operata indicando gli elementi relativamente permanenti dei sistemi: elementi che ovviamente si ricollegano spesso con la storia del diritto del paese considerato. Il carattere relativamente stabile degli elementi che vengono messi in conto per definire un sistema non esime il comparatista dalla necessità di tenerli continuamente sott’occhio perchè nella vita del diritto nulla è statico e tutto può mutare rapidamente (ad ESEMPIO in germania è mutato rapidamente l’importanza del precedente). 3.LE FAMIGLIE DI SISTEMI E I RAGGRUPPAMENTI PROPOSTI DA RENE’ DAVID Ogni scienza che si occupa di fenomeni comparabili tende a raggrupparli in base alle loro somiglianze : come lo zoologo raggruppa gli animali in classi, ordini famiglie ecc... , il comparatista fa lo stesso con gli ordinamenti. Una prima schedatura, dovuta a R.David, ha contrapposto i sistemi romano germanici ai sistemi socialisti, ai sistemi imperianti sul common law di origine inglese e alle “altre concezioni” dell’ordine sociale e del diritto (fra cui il diritto musulmano, il diritto indiano, i diritto dell’estremo oriente e i diritti dell’africa e madagascar). - La famiglia romano-germanica comprende originariamente i sistemi che dal XIII sec ad oggi si sono sviluppati nel continente europeo a sud dello Jutland e ad ovest della frontiera orientale del s.r. impero. Questi sistemi ci appaiono oggi come sistemi codificati, ma il loro connotato essenziale non risiede in ciò ma nel fatto che i giuristi dell’area si sono formati in università in cui il diritto insegnato era un estratto del diritto giustinianeo e del diritto canonico. I sistemi così formati ebbero numerosi imitatori e l’area in esame non ha comunque mai cessato di allargarsi in varie direzioni (est europeo, Asia, America latina, Africa) - I sistemi socialisti incominciareno ad esistere quando Lenin, impadronitosi del potere in russia indirizzò il paese verso un’esperienza socialista che implicava la statalizzazione dei mezzi di produzione industriali, la colettivizzazione dei mezzi di produzione agricoli e la subalternazione dell’attività economica al piano di stato. Questo modello si diffuse dall’unione sovietica ai paesi socialisti europei, alla cina e al viet nam, a cuba e molti paesi africani lo imitarono. - L’inghilterra è la culla della terza grande famiglia, quella del common law, ossia un diritto che si suppponeva comune a tutto il regno, ove sarebbe stato radicato in via consuetudinaria. E il giurista inglese si formava a contatto con la pratica del common law e non sul diritto romano. Questo sistema originariamente Inglese si è diffuso poi nelle colonie inglesi : stati uniti d’america, canada, india, australia, nuova zelanda e molti paesi africani. - Buona parte del mondo adotta poi soluzioni di altra origine. Fra queste , r. david evidenzia la sari’a islamica, i sistemi asiatici (indiano, cinese, giapponese) e quelli africani. - In alcuni ordinamenti poi sono presenti alcuni elementi romanistici e altri di tipo anglo-americano , e sono stati classificati dunque come “misti”. L’esempio di R. David ha fatto scuola e tutti gli studiosi hanno convenuto sulla necessità di presentare i sistemi raggruppandoli per famiglie e a molti è parso che le famiglie potessero circoscriversi in conformità dei criteri proposti dal famoso comparatista francese. La configurazione delle varie discipline comparatistiche insegnate nelle facoltà giuridiche di tutto il mondo testimonia a favore del modello Davidiano. Peraltro la ripartizione di R. David ha ricevuto varie critiche , tra loro molto diverse. In particolare, la classificazione Davidiana è stata piu radicalmente contestata da piu parti assumendo che il suo carattere è eurocentrico (ossia incentrato sull’europa e l’america): R.David ha infatti confinato ordinamenti extraeuropei in un capitolo residuale della sua opera intitolato alle “altre concezioni dell’ordine sociale e del diritto”. Infine David insiste soprattutto sulla dicotomia fra sistemi common law e sistemi romanisti: ma questa dicotomia non piace a tutti sia perché si sono rivalutati i contatti storici fra il diritto inglese e quello continentale, sia perché numerosi modelli scorrono dall’area nordamericana a quella europea, sia perché le convergenze sono importanti) e si creano settori di diritto uniforme (come il diritto amministrativo), sia (e soprattutto) perché si constata che le divergenze fra il diritto angloamericano e quello europeo-continentale riguardano piu l’apparato concettuale/didattico/espositivo predisposto per conoscere il diritto(e trasmetterne la conoscenza) che non il contenuto delle norme e i valori che le ispirano. 4.I PROBLEMI POSTI DALLA CLASSIFICAZIONE Per facilitare la conoscenza dei sistemi è necessario raggrupparli e sostituire così un’unica ricostruzione (valida per molti sistemi analoghi) ad una molteplicità di ripetizioni ridondanti. Per raggruppare i sistemi bisogna classicifarli: tuttavia non si può pretendere troppo da una classificazione. Innanzi tutto gli elementi che possiamo mettere alla base delle distinzioni e delle classificazioni sono numerosi (come la Storia, il modo di legittimazione del potere,al grado di importanza che assumono le varie fonti ecc…). Ma bisogna tenere in conto una difficoltà maggiore: quella della variabilità dei sistemi giuridici, della compresenza in ognuno di strati e substrati diversi, dalla giustapposizione di imitazioni e recezioni disparate (che si dividono il campo per materie o per formanti) e così via. (Esempio: se il sistema francesce del tempo del re sole fosse in vigore in qualche parte del mondo, questo non apparterebbe alla stessa famiglia cui appartiene il sistema francesce odierno: i sistemi giuridici non giacciono mai anzi diventano in continuazione. Un tempo il divenire era lento ma il discorso cambia se ci occupiamo degli ultimi 250 anni (sistemi arcaici sono diventati romanisti , poi socialisti; sistemi tradizionali hanno accolto modelli europei; sistemi di common law e romanisti hanno preso a convergere ecc…)). La variabilità di ogni sistema rende piu delicata l’opera di classificazione. Può succedere infatti che la recezione di un modello investa visibilmente la parte piu appariscente del diritto ossia i rapporti che si svolgono al vertice della società (gestiti dalle corte centrali, dai ministeri, dai circoli cittadini piu istruiti) e che nelle campagne si pratichi un diritto conservatore (gestito da organi o personaggi riconosciuti o non dallo stato). Nei casi limite si parla allora di un diritto “somerso”, diverso dal diritto statale. Può anche succedere che la recezione di piu modelli esterni operi contrapponendo settori diversi dell’ordinamento(ESEMPIO: il diritto privato è romanista, quello costituzionale e amministrativo proviene dagli stati uniti d’america). E può darsi che i modelli stranieri incidano in misura diversificata sui diversi formanti dell’ordinamento: l’italia del 1930 aveva leggi francesci e un apparato concettuale giuridico di matrice tedeca. In sintesi, molti sistemi accolgono nel loro interno una molteplicità di modelli che si spartiscono gli strati sociali del paese o i vari settori del diritto o i vari formanti dell’ordinamento. A ben vedere poi nessun sistema è pienamente fedele ad un unico modello (ESEMPIO: nel diritto inglese il modello “common law” è diverso dal modello “equity” ecc..). Infatti l’unità di un dato ordinamento significa solo che le sue norme sono immaginate come volontà di un unico legislatore, ma le norme possono avere provenienza diversissima. In conclusione, in ogni momento ogni sistema stà mutando la propria collocazione e nessun sistema combacia strettamente con un solo modello. Ne deriva che si può fare una comparazione di modelli e guardare ai caratteri intrinseci di ognuno di essi o fare una comparazione di sistemi e misurare quali modelli vi siano presenti e quale spazio vi abbia ognuno dei modelli presenti. La comparazione che ci accingiamo a condurre si rivolgerà a sistemi, non a modelli: il sistema è qualcosa di reale e storicamente presente, il modello è qualcosa di astratto. Di volta in volta bisognerà peraltro saper riconoscere i modelli presenti nel sistema considerato. CAPITOLO SECONDO – LA DIVERSITA’ E L’UNIFORMITA NEL DIRITTO SEZIONE PRIMA – IL VALORE DELLA DIVESITA 1.LA DIVERSITA’ NELLA CULTURA E NELLA NATURA Il giurista sa che alcune differenze intercorrono tra un sistama o l’altro. Egli sa anche che iniziative vengono prese (nell’ambito planetario o in altri ambiti territoriali (Es. europeo)) per rendere uniforme il diritto che regola questa o quella materia. È facile enumerare le ragioni che sono in favore dell’unificazione e uniformazione: i conflitti di diritto (tra gli ordinamenti nazionali) ostacolano gli scambi. Diritto uniforme significa unità culturale e , dunque, eliminazione delle difficoltà e dei malintesi fra le diverse civiltà che devono convivere. Se i diritti nazionali restano diversi, questo significa peraltro che ostacoli si frappongono all’unificazione, che alcune forze sostengono l’ordine presente prevalentemente orientato verso il carattere nazionale del diritto (ESEMPI: la tradizione, la storia, la specificità delle diverse culture nazionali, l’assenza di un’autorità legislativa sovranazinoale, l’assenza di una lingua giuridica universale). Ci si pone una domanda: si deve desiderare la diversità dei diritti o si deve auspicare (fin dove possibile) la loro uniformità? Interroghiamoci sul significato e sull’orgine della diversità nel campo del diritto. Si deve ricordare che il diritto non è isolato , né separato dagli altri fenomeni sociali: accanto al diritto, la lingua, il sapere, la qualità dei prodotti dell’attività umana (oggetti materiali e creazioni intellettuali) costituiscono nel loro insieme la cultura dell’uomo. Tra quesi, lingua e diritto hanno un significato speciale: i mebri di una comunità non possono comprendersi reciprocamente se non usano la medesima lingua; allo stesso modo una regola giuridica stabilita per regolare la relazione fra creditore e debitore, tra proprietario e terzi, non può essere identica per il titolare del diritto e per il soggetto del dovere. Se la comunità degli umani non parla una sola lingua, questo contraddice lo scopo della lingua (cioè la comunicazione). Se gli umani non osservano un solo diritto, questo va contro lo scopo del diritto (che consiste nel garantire un meccanismo di soluzione dei conflitti uguale per tutti e prevedibile). Il carattere astratto della regola implica l’uniformità. L’uniformità è perduta se le soluzioni previste per due ipotesi identiche sono moteplici. Diritti e lingue differicono: la spiegazione stà nella natura delle cose. Tutto cià che è reale è dominato dalla diversità . questo vale per sia per il reale materiale che per il reale culturale: il cavallo è diverso dall’asino, l’aria è diversa dall’acqua, il carbone è diverso dall’idrogeno. La diversità (proprietà del reale) proviene dalla variazione, dal mutamento. (ESEMPIO: la vita ha organizzato la cellula, la cellula si è specializzata diventando cellula animale o vegetale aggregandosi poi con conspecifici fino a comporre un essere pluricellulare e da qui proseguire il cammino che porta agli animali superiori e alle piante piu evolute. La diversità può implicare l’incompatibilità e persino il conflitto anche mortale: il leone uccide la gazzella; la gazzella erbivora distrugge una certa pianta o un certo frtutto ecc…) La varaizione ha portato il reale ad autodistruggersi in parte con le proprie forze e i propri mezzi. 1.LA VARIAZIONE, MADRE DELLA DIVESITA’ Senza variazione, homo habilis non sarebbe mai succeduto ad australopithecus; l’animale e il vegetale non avrebbe superato la fase del protozoico; le molecole non avrebbero raggiunto le strutture complesse che hanno preparato la vita. La variazione produce la diversità. Al di sopra del motore che trasforma il reale, nessuna forza superiore ha predisposto una corisa unica che il fenomeno in movimento dovrà percorrere. Questa possibilità di seguire piu di un sentiero è la chiave della riccheza e della qualità del mondo reale. Senza variazioni non avremmo progresso, perché il progresso è la variazione. Se il diritto non si fosse differenziato in mille sistemi diversi, esso sarebbe restato ciò che era al momento dell’umanizzazione dell’homo habilis. La variazione non intende arrestarsi dopo aver raggiunto un traguardo: il progresso non ha di mira il conseguimento di una situazione statica prodotta da un equilibrio che vorrebbe essere definitivo. Al contrario, ogni nuovo assestamento produce nuovi squilibri, ossia situazioni favorevoli ad ulteriori innovazioni. SEZIONE SECONDA CONTRAPPOSIZIONI NOTEVOLI NEI CARATTTERI DEI DIVERSI MODELLI 1.LE DIVERSITA ESTREME NELL’AMBITO DEL DIRITTO Nel mondo sono presenti ordini giuridici portatori di strutture e connotati assai diversi da quelli a noi familiari. Qui sopravvivono situazioni cui siamo soliti accedere non tramite l’indagine comparatistica sincronica ma con un approccio diacronico, reso possibile dall’indagine storica, protostorica o preistorica. 2.DIRITTO CON O SENZA IL LEGISLATORE Una prima distinzione riguarda la presenza o l’assenza nell’ordinamento di organi o di autorità (umane) dotate di una competenza legislativa generale cioè parlamento e autorità costituente: il meccanismo composito formato da questi due organi, potrà creare qualsiasi norma giuridica. Questo meccanismo oggi esiste ovunque. Ma non è sempre stato così. Fino alla del XIII secolo si supponeva che la produzione del diritto fosse compito riservato a Dio, o svolto una volta per sempre dagli antenati mediante lo spontaneo adeguamento della propria condotta ad una immutabile regola non scritta (Es. consuetudinaria). 3.DIRITTO CON O SENZA IL GIURISTA Il comparatista deve abituarsi all’idea di un diritto senza giuristi. Certo , la tradizione giuridica occidentale è ben caratterizata da giuristi presenti nel suo seno cui il sapere giuridico è stato trasmesso da personaggi versati nella teoria giuridica. In modo analogo il giurista dell’area islamica illumina tutti i contenuti della sari’a con la sua scienza resa illustre da una tradizione ininterrotta piu che millenaria. Ma fuori di questi sistemi noi non troviamo nulla che corrisponda ad un giurista professionale o ad una scienza o dottrina o teoria giruidica. La dove manca il giurista manca anche una terminologia giuridica specialistica e adatta per i bisogni della scienza. Mancano anche concetti nitidi e rigorosi. Il giurista esiste per la prima volta nell’antica roma. Prima della grande fioritura della civiltà romana la dottrina giuridica non esiste e manca una conoscenza del diritto dotata di un carattere scientifico. L’elaborazione scientifica ha avuto (tra i tanti) il merito di elaborare la nozione unitaria di diritto: ius. La dove l’elaborazione ha sonnecchiato , noi troviamo che non si concepisce la riduzione ad unità di tutte le norme che contribuiscono all’assetto della società mediante la prevenzione e composizione dei confliti e la strutturazione dei pubblici poteri. 4.DIRITTO CON O SENZA LO STATO Il comparatista deve capire che lo stato nasce non prima del 3.500 a.c. : prima di allora mancava uno stato che provvedesse a tutti i bisogni collettivi della società così come mancava un’auotrità centralizzata sovraordinata ai gruppi familiari. Dal 3.500 a.c. quattro regioni del mondo hanno visto all’opera lo stato e nei millenni successivi questa struttura statuale si diffusa. Nonostante ciò esistono oggi società in cui le strutture statuali non sono operanti. Gli antropologi distinguono tra società “a potere centralizzato” e le società” a potere diffuso” (oggi le prime corrispondono alla regola, le seconde all’eccezione). Un’analisi attenta consente tra l’altro di scoprire che in aree geografiche estese ed importanti il diritto (o quantomeno alcune banche del diritto) fa a meno dello stato: in tutta l’america, in australia, in africa e in singole parti dell’asia troviamo un diritto a carattere tradizionale praticato da autottoni all’insaputa dello stato o con la piena approvazione da parte dello stato. E questo diritto non presuppone un potere sovraordinato ai gruppi familiari; in cina e in giappone la regolazione dei conflitti a carattere privatistico si svolge in larga misura senza l’internvento dello stato il che obbliga a concludere che altri apparati (diversi da ogni potere centralizzato) prendono in mano la definizione della controversia. 5.DIRITTO E SOPRANNATURALE La storia dell’europa insegna al giurista che un millennio fa intensi legami intercorrevano tra il potere spirituale (capace di assicurare vantaggi e protezioni soprannaturali) e il potere mondano. Il potere spirituale sponsorizzava e legittimava (con l’incoronazione) l’imperatore. Non poteva diventare imperatore chi non era membro della chiesa, né chi fosse scominicato. Numerosi vescovi gestivano feudi di grande importanza. I personaggi ecclesiastici e i beni desinati al culto o al servizio della chiesa erano sottratti alle giurisdizioni mondane. Ad un giurista moderno i rapporti fra chiesa e stato qui sopra descritti, possono apparire come un limite di clericizzazione della vita civile e di intrusione del soprannaturale nelle cose terrene. Ma risalendo ancora piu indietro nel tempo, possiamo notare esperienze in cui il rapporto tra soprannaturale e giuridico si allenta e altre in cui il rapporto si fa piu denso. Il comparatista deve rivolgersi agli ordinamenti vigenti tenendo presente che le correlazioni fra soprannaturale e il giuridico non sono necessariamente tanto tenui e razionalizzate quanto può apparire ad un esame del moderno diritto ecclesiastico dei paesi occidentali: il soprannaturale può immettersi nella sfera del diritto condizionandone le fonti o legittimandole e ciò sia attraverso formulazioni verbalizzate, sia attraverso norme manifestate dalla pratica dei credenti, ispirata dalla fede. Il soprannaturale può anche pretendere al monopolio assoluto nella creazione del diritto. 6.IL PLURALISMO GIURIDICO Se due comunità sono legate a soluzioni giuridiche molto diverse , ognuna di esse è refrattaria alla soluzione dell’altra. La comunità dotata di un peso poltico sufficiente per far riconoscere la propria vocazione giuridica non avrà grossi problemi: quanto meno i suoi membri saranno legittimati a seguire la propria tradizione (così nel medioevo il singolo utente del diritto indicava il proprio ordinamento). Allo stesso modo, la norma circondata da alto prestigio non verrà minacciata. I problemi incominciano quando una comunità tecnologicamente meno avanzata e sfornita di potere politico si trova immersa in una società dominata da un’etnia piu avanzata (il diritto della prima , diverso da quello declamato dallo stato, sarà chiamato folk-law). Questo è avvenuto centiania di volte via via che gli europei hanno colonizzato l’america, l’oceania, l’asia e l’africa. Gli eventi di allora possono aver lasciato due diversi esiti: - Talora scarne minoranze autottone sono circondate da una maggioranza legata alla tradizione giuridica occidentale - Talora dopo la decolonizzazione, gli autottoni costituiscono la totalità (o la maggioranza) della popolazione del paese ma molti di essi non si sentono di rigettare i modelli occidentali cui hanno avuto accesso in occasione dei contatti con le culture europee o con l’america. Nel primo caso può avvenire che un silenzio circondi la sopravvivenza delle pratiche legate al diritto tradizionale. Ne parla l’etnologo ma non ne parlano le fonti del diritto scritte e legate allo stato , come non ne parla l’insegnamento giuridico universitario locale. Aparato statale e insegnamento attestano con il loro silenzio una valutazione sostanzialmente negativa del particolarismo giuridico delle comunità “arretrate”, “ignoranti”, “incivili” ,”infedeli” all’ideologia dello stato e alla cultura nazionale. Al limite le pratiche in questione vengono confinate nell’antidiritto se si trovano in collisione con le norme applicate dai tribunali e dai ministeri. Si parla allora di un diritto “sommerso”. Sempre nel primo caso la soluzione del “pluralismo giuridico” può avere un riconoscimento. L’etnia dominante riserva esplicitamente alla minoranza la possibilità di praticare e garantire la propria regola giuridica (come succede in canada, oceania, groenlandia). Nel secondo caso sono possibili giustapposizioni di un modello di tipo europeo e un modello autottono. La libertà del diritto autottono può essere garantita dalla presenza di corti di diritto tradizionale. Il problema non verte sulla protezione di minoranze; è in gioco piuttosto la scelta politica di fondo fra lo sviluppo e la modernizzazione (che stanno a cuore ad una parte dei politici e della popolazione) e la fedeltà alla matrice autoctona. SEZIONE TERZA – LA MUTAZIONE GIURIDICA 1.L’EVOLUZIONE Il diritto muta senza interruzione da sempre. Lo studioso si domanda se queste mutazioni obbediscono a ritmi e a scansioni misurabili; se seguano regole (nel senso di “leggi naturali” ) intelleggibili; sulle cause di queste mutazioni. Anche altre scienze studiano le mutazioni , ossia il divenire delle diversità: ad esempio gli studiosi della natura spiegano le diversità dei viventi con l’evoluzione. Anche il giurista ha pensato di spiegare con l’evoluzione il divenire giuridico. Da forme giuridiche elementari, semplici, idonee a risolvere problemi elementari, sono derivate per evoluzione forme giuridiche via via piu complesse, idonee a risolvere problemi più difficili. 2.IL SOGGETTO DELLA MUTAZIONE Si è soliti dire che ciò che muta è la norma giuridica, appartenente all’ordinamento. Ma a veder bene, la mutazione colpisce dapprima uno dei formanti dell’ordinamento, e da qui poi si diffonde sugli altri. Ogni formante può mutare, in modo alquanto indipendente dagli altri. E ogni formante può indurre (per via di immediata imitazione o per l’intermediazione di un organismo formalmente deputato ad hoc, specialmente una camera legislativa) gli altri formanti a recepire la nuova mutazione.(ESEMPIO: il diritto italiano dal 1865 al 1939 era derivato da modelli francesi, ma la dottrina giuridica italiana dal 1900 in poi era largamente influenzata dalla scienza tedesca (di qui la persenza di parole quali “negozio giuridico”, “fattispecie” ecc nel linguaggio del giurista italiano nonostante l’estraneità di questi termini al linguaggio legislativo). Un identico fenomeno si è verficicato anche in altri importanti paesi del mondo. Che una legge possa imitare una legge; che una dottrina possa imitare una dottrina è ovvio: ma anche la giurisprudenza qualche volta prende esempio dalle corti di altro paese. Piu spesso , le corti di un paese influenzano quelle del paese imitatore tramite l’intermediazione di una recezione dottrinale e scolare. 3.LE CAUSE DELLA INNOVAZIONE Al giurista interessa conoscere le cause delle innovazioni giuridiche. La causa prossima di un mutameno può consistere in certi casi in un fenomeno appartenente al mondo del diritto (ESEMPIO: una norma vecchia ha assunto un carattere anomalo rispeto al sistema e perciò viene abrogata o disapplicata); altre volte la causa remota può consistere in un dato extragiuridico (ESEMPIO: l’adozione di una nuova religione da parte della popolazione, l’affermazione di un nuovo indirizzo politico ecc..). il giurista e a maggior ragione lo storico e il sociologo, pongono alla base delle mutazioni giuridiche fattori economici e strutture sociali: ma si noti come le lingue mutino meno meno del diritto, e tuttavia alla base di questi mutamenti raramente si riscontrino fattori economici, mutamenti di strutture sociali (cioè l’affermarsi di nuovi valori etici o religiosi). Così come la lingua anche il diritto può evolvere per stimoli che provengono dal suo interno e non da condizionamenti provenienti dall’interesse economico e dall’ideologia. A riprova di ciò si dica che l’era schiavistica si conclude con un ritocco giuridico assai limitato, ossia semplicemente escludendo la persona umana dalla cerchia delle cose che possono formare oggetto di una proprietà. Gli elementi della cultura extragiuridica di una data società (lingua, religione, cultura materiale ecc..) non condizionano il diritto in modo univoco: l’inghilterra e i paesi bassi , dotati di un’economia\lingua\religione\politica simile appartengono ad aree giuridiche diverse (rispettivamente common law e tradizione romanista) mentre una sola tradizione giuridica è all’orginine del diritto nederlandese e di quello cileno. Quanto detto ha però un limite: alcune mutazioni cardinali degli ordinamenti sono correlate a mutazioni sociali altrettanto cardinali (vedi retro sezione seconda). Nella storia dell’uomo, queste mutazioni cardinali non furono molte e sono: l’uso della parola ai fini del diritto; il ricorso al soprannaturale ; la nascita del potere centralizzato facente capo ad organi di vertice . l’innovazione giuridica può dunque essere dovuta ad una radicale trasformazione della società, ma questo interessa piu la storia del diritto che non la comparazione fra sistemi moderni. In un numero non elevato di casi l’innovazione creativa dipende da una scelta politica, veicolata da mutazioni nella scala di valori e nella ideologia delle persone in grado di influire sul dato giuridico (ESEMPIO: alla fine dle XIX i giudici italiani hanno smesso di applicare la norma sulla carcerazione per debiti); in qualche caso, opera una tendenza all’analogia (regole romane sull’actio legis aquilinae hanno preso a reggere ogni ipotesi di fatto illecito nel diritto dei paesi romanisti; regole romane sulla compravendita hanno preso a reggere ogni ipotesi di contratto); in altri ancora opera sicuramente (a favore delle diversificazioni) un’attitudine del giurista a scorgere nelle peculiarità dei fatti ragioni di distinzione e di trattamento speciale. SEZIONE QUARTA – L’UNIFORMAZIONE GIURIDICA 1.LA DIFFUSIONE Il meccanismo evolutivo non basta a spiegare le mutazioni del diritto. Le forme culturali (religione, lingua, comportamenti economici, diritto, arte) possono essere imitate. Ogni gruppo umano , purchè conosca la lingua e il diritto del vicino , può far sue le strutture linguistiche e le soluzioni giuridiche del vicino. Il fenomeno in esame , chiamato “diffusione”, controbilancia gli effetti dell’evoluzione. Il diritto di un’area data può mutare per effetto della diffusione di un modello esterno nell’area considerata (ESEMPIO: il diritto romano si è diffuso in germania; modelli francesi in italia/russia/africa, modelli inglesi in america). La nascita di un modello originale si deve considerare come un episodio molto piu raro di una imitazione. Dal 1804 in poi sono entrati in vigore centinaia di codici civili: fra questi 4 o 5 possono considerarsi originali. Anche nel mondo della biologia si può notare che un dato modello si diffonde e un altro scompare, e ciò per effetto di una selezione naturale o per effetto di una ibridazione. In un certo senso l’imitazione e la selezione sono processi paragonabili, basati sul fatto che piu modelli entrano in conflitto e uno di essi soccombe e scomapre e un altro , in quanto piu efficiente, vince e si diffonde. Questi conflitti, assieme all’innovazione, sono la molla del progresso. Se poco fa abbiamo trovato difficile trattare della cause delle innovazioni giuridiche, è invece relativamente semplice indagare sulle cause delle imitazioni. Queste sono principalmente: 1) il desiderio di appropriarsi di attribuzioni altrui in quanto dotate di un certo “prestigio” (imitazione o recezione spontaea : ad ESEMPIO, la diffusione della dottrina germanica in italia all’inizio del XX sec); 2) il desiderio di diffondere il proprio modello culturale accompagnato dal potere di condizionare ulteriori aree giuridiche (ESEMPI: Napoleone, come conseguenza delle sue consquiste, diffuse le leggi francesi in europa; l’europa nel corso delle sue colonizzazioni, diffuse i propri modelli in america/africa/varie parti dell’asia). 2.L’EPOCA DELL’UNIFICAZIONE Viviamo in un’epoca che vede con favore l’unificazine e la incoraggia: i dialetti spariscono, le lingue scritte si diffondono. Nel mondo occidentale, le diversità nel campo del diritto pubblico e privato vanno riducendosi : organi sovranazionali unificano il diritto privato; convenzioni internazinali rendono unifrome il diritto privato; l’imitazione rende uniforme il diritto civile/ processuale/penale/amministrativo; si progettano futuri codici europei ecc.. Quali vantaggi ci promette l’uniformazione delle norme? Innanzituto questa evita le pericolose contraddizioni create dai conflitti di norme nello spazio. Oltre a questo, la disparità di trattamento dei rapporti può disincentivare gli scambi o distorcere il mercato o disorientare gli operatori. Ciò porta a conisderare l’uniformazione del diritto come un bene e molti giuristi vedono l’uniformazione come lo sbocco naturale della comparazione. 3.QUALCHE OBBIEZIONE ALL’UNIFORMAZIONE Nonostante quanto detto , l’unificazione viene anche contestata, in nome delle tradizioni nazionali (che nessuna autorità avrebbe il diritto di sovvertire) e in nome della storia (che ha sacralizzato i valori e le specificità del diritto locale). Questa critica vorrebbe rendere eterna questa o quella soluzione in nome della storia: ma la storia (che implica il divenire) non può creare nulla di eterno e nulla di invariabile. Le soluzioni del diritto sono molteplici perché sono il prodotto di variazioni, ed è ridicolo difenderle in nome di una pretesa invariabilità. Non è sensato diffidare delle soluzioni del proprio vicino: l’uomo sarebbe davvero povero se non avesse mai approfittato delle soluzioni che il suo vicino gli ha offerto (quale sarebbe lo stato dei mezzi di trasporto,della scienza, delle comunicazioni , del diritto, se le etnie e le tribu non avessero imitato le altre?). L’ideologia dell’autosufficienza culturale è il nome che si è dato all’ideologia dell’arretratezza. Il diritto non è statico: le sue soluzioni circolano, si diffondono, producono imitazioni. L’imitazione è la prima alleata dell’uniformazione. Nel mondo occidentale, il diritto della famiglia poco prima del 2000 era praticamente uniforme. Liberamente tutte le nazioni avevano preferito modelli talvolta privi di storia alle soluzioni consacrate dalla cultura nazionale e dalla tradizione. Respinte queste obbiezioni male argomentate altre invece maritano una maggiore attenzione. L’uniformazione non è sempre un bene. Talora essa sacrifica l’identità culturale dell’area portatrice del modello piu debole e inoltre, la riduzione del numero di modelli attualmente in vigore restringe i possibili punti di partenza utili per le future evoluzioni e i futuri progressi e impedisce di trarre i frutti della concorrenza che si dovrebbe istituire fra essi. L’uniformità imposta (risultato di un trattato o di un atto sovralegislativo) introduce un ostacolo importante allo sviluppo e al progresso che è ancora piu arduo se l’uniformità è il prodotto di un accordo multilaterale le cui conclusioni non potranno essere riformulate in futuro se non sulla base di una nuova decisione unanime presa da tutti i partecipanti. Il pericolo che l’uniformazione imposta porta con sé è reso piu grave dalla circostanza che la fonte del diritto uniforme imposto è di solito una legge: nella misura in cui la fonte del diritto è la volontà degli interessati (usi commeriali, clusole suggerite dalla camera di commercio ecc…) la nuova regola si appoggia sul consenso generale (il soggetto che non è d’accordo può comunque sottrarvisi) e dunque non vi è frattura traumatica con il diritto preesistente. Un codice e una legge non hanno la medesima duttilità. 4.L’OSTACOLO ALL’UNIFORMAZIONE Nell’ambito di grandi aree dotate di una cultura omogenea, la diversità giuridica è raramente dovuta a scelte politiche opposte. Proprio nei settori in cui la scelta giuridica è a valle di un’opzione politica travagliata e sofferta, noi vediamo che le grandi trasformazioni giuridiche investono un paese dopo l’altro ricreando quell’uniformità che la prima mutazione verificatasi in paese avanguardista aveva distrutto. La diversità giuridica tende a vivere piu a lungo quando la diveristà è presente negli apparati concettuali in cui la realtà giuridica viene sistemata nelle varie aree. Talora regole operazionali uniformi vengono schermate dietro definizioni/spiegazioni/giustificazioni diversissime. (ESEMPIO:si veda la domanda che segue a giuristi che debbano rispondere secondo il diritto franesce/tedesco/inglese: A vende a B una cosa mobile e prima che avvenga la consegna al compratore A vende a C questa stessa cosa e gliela consegna, C acquista la proprietà? la risposta sarà per tutti e tre i sistemi la medesima: “C acquista la proprietà se è in buona fede altrimenti è tenuto a rilasciare la cosa a B”. Tuttavia la risposta uniforme è giustificata da qualificazioni giuridiche e spiegazioni molto diverse: in francia A, dopo aver venduto a B non è piu proprietario ma la regola possesso vale titolo assicura a C (acquirente in buona fede dal non proprietario) una speciale protezione; in germania A vendendo a B non perde la proprietà della cosa perché non glielìha consegnata e dunque C acquista dal proprietario e con la consegna diventa indubbiamente proprietario (ma se ha agito con dolo i principi di responsabilità delittuale lo constringono a rilasciare la cosa a B vittima della sua macchinazione); in inghilterra la vendita da A a B trasferisce la propreità ma poiché A non ha consegnato la cosa a B se ne desume che è incaricato di alienare la cosa al terzo.Queste disparità nelle qualificazioni e nelle spiegazioni potrebbero scomparire senza creare problemi operativi. Ma il rimedio per la dissoluzione di queste diversità operanti nel solo campo delle idee è molto piu nelle mani della scuola che nella disponibilità dei legislatori nazionali. CAPITOLO TERZO – LA TRADIZIONE GIURIDICA OCCIDENTALE 1.L’OPPOSIZIONE TRA COMMON LAW E CIVIL LAW La comparazione giuridica moderna ha esplorato a lungo l’opposizione tra la tradizione di common law e quella di civil law. La prima raggruppa tutte quelle esperienze che storicamente hanno il loro ceppo nel diritto inglese medievale e moderno dal quale si sono distaccate solo in epoca contemporanea. Si tratta essenzialmente della tradizione giuridica anglosassone la quale (come la lingua inglese) accomuna l’inghilterra, l’irlanda , il Canada, gli stati uniti, l’australia e la Nuova Zelanda. Essa inoltre influenza anche il diritto di altri paesi i quali hanno conosciuto per un certo periodo di tempo l’influenza dominante del diritto inglese (quali pakistan , indiano e israeliano). La seconda tradizione giuridica (detta di “civil law”)raggruppa le esperienza germogliate in epoca medievale nell’europa continentale . Queste esperienze che si collocano nella tradizione di civill law hanno peraltro conosciuto nel corso della loro storia piu metamorfosi rispetto a quelle che hanno contrassegnato l’evoluzione della tradizione di common law. Dunque la tradizione di civil law si presenta già subito come meno compatta, tanto da suggerire una sua ulteriore scansione in varie sottofamiglie, le quali servano a distinguere una tradizione latina, una germanica, una nordica, una post-socialista ed una latino americana. La metafora cui si ricorre piu lagarmente per rappresentare la presenza di queste due grandi famiglie è quella dell’albero. Cos’ ad esempio, la tradizione di common law viene dipinta come un albero il cui tronco o ceppo è costituito dal diritto sviluppatosi storicamente in inghilterra a partire dal 1066 grazie alla giurisprudenza delle corti ivi istituite dai re normanni e dai loro successori; i rami di questo albero sarebbero costituiti da esperienze sviluppatesi altrove dopo che il common law inglese vi è stato trapiantato da coloni provenienti dall’inghilterra. Seguendo questa immagine la tradizione di civil law sarebbe rappresentabile mediante un albero che abbia alla sua radice il diritto romano e la sua riscoperta compiutasi nell’XI secolo ad opera di Irnerio e dei professori dell’università di Bologna. Per questo si usa parlare di una “tradizione romanistica”, la quale accomuna tutte le tradizioni giuridiche dell’europa continentale nonché quelle dell’america latina e non poche altre esperienze che pur avendo radici molto diverse hanno attinto in epoca contemporanea a modelli europei al fine di modernizzare il proprio sistema giuridico (cosi che si possono annoverare tra i rami della civil law , sistemi giuridici vigenti in paesi che sono rimasti storicamente lotani dalla cività europea quali la turchia e il giappone). Questa immagine è una metafora attraente ma può risultare fuorviante perché descrive la tradizione di civil law e quella di common law come due entità ben distinte e perfettamente separate. Solo che questo appare in netto ed insanabile contrasto con la nozione stessa di tradizione giuridica che si definisce come l’insieme dei modi di pensare/applicare/insegnare il diritto che siano storicamente condizionati e profondamente radicati nella mentalità giuridica.questa definizione sottolinea quindi la correlazione tra tradizione giuridica e cultura, anzi pone il fenomeno giuridico all’interno di una cultura che sia radicata in una civiltà. Ora, anche una conoscenza superficiale della storia europea aiuta a percepire come non sia mai esistita una civiltà inglese separata da una civiltà europea. Infatti tutte le volte in cui si è voluto discorrere di una civiltà inglese, lo si è dovuto fare in un contesto discorsivo in cui si doveva parallelamente ammetttere l’esistenza di una civiltà olandese/spagnola/francese ecc.. SE non si può parlare di una civiltà inglese contrapposta ad una civiltà europea-continentale, ci si pone di fronte al seguente dilemma: o si abbandona l’idea che il common law e il civil law siano due esperienze giuridiche radicalmente contrapposte oppure si abbandona il concetto per cui una tradizione giuridica è la settoriale espressione di una cultura e di una civiltà. 2.LE ORIGINI CULTURALI DELLA CONTRAPPOSIZIONE TRA COMMON LAW E CIVIL LAW ED I MOTIVI DEL SUO RIPENSAMENTO La problematica attiente al raggruppamento delle diverse esperienze giuridiche nelle c.d. famiglie, costituisce uno dei punti focali della sistemologia contemporanea. Ciò che qui rileva non è però la diversa composizione delle famiglie giuridiche affacciate dai comparatisti ma bensì i criteri cui i comparatisti hanno fatto ricorso per demarcare le diverse famiglie giuridiche tra loro. La percezione che la tradizione di common law fosse affatto diversa da quella del’europa continentale si è nutrita di dati significativi, i quali però apparvero eclatanti agli inizi della comparazione giuridica moderna (ossia nei primi anni del XX secolo) in fuzione delle concezioni generali del diritto allora imperanti (e che oggi non sono piu condivise). I dati usati allora come criteri di classificazione (detti demarcatori sistemologici) riguardavano essenzialmente l’assetto delle fonti: “era l’epoca in cui forte impressione aveva destato la codificazione del diritto civile in germania. Per tutto l‘800 la dottrina tedesca si era segnalata in europa per la sua forte contrarietà all’idea di codificazione ed i suoi insegnamenti avevano avuto eco tra i girusti colti di ogni paese inclusa l’inghilterra. Sicchè la codificazione del diritto civile in germania venne avvertita come una sorta di fine della storia ed il codice come forma principe di legislaziona sembrava caratterizzare il modo di essere dei primi sitemi europei assieme al suo corollario che vedeva nella legge la fonte unica del diritto. Grande sorpresa suscitava perciò il rifiuto di ricorrere alla codificazione nei sistemi di comon law”. Perciò si disse che la differenza essenziale tra la famiglia di civil law e quella di common law stà nel fatto che i primi erano sistemi di diritto codificato mentre i secondi no. I primi anni del XX secolo segnarono anche l’epoca del piu rigoroso positivismo legislativo. Nonostante correnti critiche di minoranza cominciassero a corroderne le fondamenta, la maggior parte dei giuristi era feele all’idea che l’unica fonte del diritto fosse la legge in senso formale. Grande sorpresa suscitava l’apprendere che, mediante il criterio del preceente vincolante, la giurisprudenza fosse pacificamente considerata una fonte del diritto nei sistemi common law. Poiché però la teoria ortodossa (allora in auge nelle esperienze common law) considerava che la decisione giudiziale non era creativa di nuove regole di diritto ma svolgeva solo una funizone ricognitiva di norme consuetudinarie latenti, si disse che la seconda grande differenza tra i due sistemi stesse nel fatto che gli uni erano sistemi di diritto scritto e gli altri di diritto consuetudinario non scritto. Queste percezioni ,come accenanato prima, non sono più attuali e comunque , come la critica successiva ne ha messo in rilievo ,sono infondate: riguardo alle esperienze civil law, basterà ricordare come nessuno creda piu che il codice civile sia la cifra riassuntiva di tutti gli elementi strutturali del sistema giuridico. Allo stesso modo non è oggi piu proponibile riguardo ad alcun sistema di civil law l’immagine della legge in senso formale come unica fonte del diritto non essendo piu materia di disputa il riconoscimento che il formante giuriprudenziale concorre con altri nella creazione di regole giuridiche. Per quanto riguarda i sistemi di common law basterà qui enunciare che oggi si percepisce con chiarezza come la loro evoluzione durante il XX secolo li abbia condotti a basare la produzione di regole sulla legge emanata dal parlamento e sulla c.d. legislazione delegata: qualificarli come sistemi a diritto consuetudinario non scritto sarebbe oggi piu ridicolo che altro. Nemmeno la forma del codice è del tutto assente nel panorama delle sperienze di common law. Questo non solo e non tanto perché alcuni stati degli Stati Uniti conoscono da tempo la presenza di codici civili ma perché il successo dell’Uniform Commercial Code ha iniziato a familiarizzare il giurista americano con la problematica tipica dell’interpretazione di un corpus di norme sistematicamente organizzato. Né le diversità che pure sussistono riguardo al modus operandi del formante giurisprudenziale si prestano ad essere stilizate in una netta linea di demarcazione basata sulla presenza/assenza del criterio del precedente vincolante: da un lato infatti alcune corti supreme di paesi di civil law (es la cassazione di francia) sono piuttosto attente al valore dei propri precedenti che rispettano e fanno rispettare; dall’altro lato , ormai definitvamente tramontata in tutti i sistemi di common law la teoria dichiarativa della decisione giudiziale, ci si è ben resi conto di quanto il rispetto del precedente sia un vincolo assai elastico. Sicchè tra un sistema che, pur senza dichiararlo troppo apertamente, rispetti di fatto le decisioni precedenti ed un sistema che pur proclamando di volerle rispettare in linea di principio tuttavia contorni tale principio con una robusta dose di eccezioni, le differenze divengono alquanto sottili ed appaiono più una questione di enunciazione che di sostanza. In definitiva, oggi nessun aspetto del sistema delle fonti pare idoneo a costituire un demarcatore sistemologico tra le esperienze di common e di civil law. Sotto questo profilo la graduale convergenza dei sistemi appartenenti alle due famiglie giuridiche appare evidente. 3.L’AVVENTO DEL COSTITUZIONALISMO E L’EMERSIONE DEI SISTEMI GIURIDICI MISTI Quanto si è appena osservato circa l’ideoneità del sistema delle fonti a fungere da demarcatore sistemologico tra civil law e common law è reso palese da un altro avvenimento di primaria rilevanza. Nel corso del XX secolo infatti è venuta meno una caratteristica dei sistemi europei ottocenteschi, costituita dal principio della onnipotenza della legge, la quale era intesa sia come l’unica fonte legittima del diritto nazionale, sia come la fonte suprema (nel senso che essa era assolutamente insindacabile). Oggi molti stati dell’europa continentale si sono dotati di costituzioni rigide che prevedono un sincadato di costituzionalità sulle leggi demandato ad una apposita corte costituzionale. Benchè deformato, questo assetto costituzinale ripete sostanzialmente il modello americano ed implica l’esistenza di un livello di legalità costituzionale superiore alla volontà del singolo parlamento, il quale quando emana una qualsiasi legge non può essere più concepito come il veicolo di manifestazione della suprema volontà generale della nazione ma come un organo il quale nelll’esercitare il proprio potere legislativo è vincolato da norme/principi/valori che si collocano ad un livello superiore. Né si può trascurare il fatto che la maggior parte dei sistemi giuridici europei attuali partecipa all’unione europea ed è quindi soggetta a tale ordinamento giuridico che si pone in una posizione di supremazia rispetto agli ordinamenti giuridici statali, disponendo tra l’altro una responsabilità civile dei singoli stati per l’inattività dei loro legislatori in caso di mancata trasposizione di direttive comunitarie. L’idea del legislatore responsabile ha suscitato ritrosie, ma è ormai comumenete accettata segnando il definitivo tramonto del mito del legislatore onnipotente. La costituzionalizzazione degli ordinamenti attuali ha condotto ad una espansione dei moduli di pensiero in territori antecedentemente riservati al dominio del politico. Ma lo stesso fenomeno ha condotto a modificare alcuni aspetti niente affato secondari del ragionamento giuridico, il quale ha dovuto farsi carico della possibilità di tradurre in moduli di coerente razionalità formale i valori , le gerarchie di valori e gli standard di valutazione contenuti nei testi costituzinoali. L’ottica dei valori ha condotto a scoprire come essi siano sorprendentemente simili in tutti gli ordinamenti occidentali a prescindere dalla distinzinone sistemologica tra esperienze di civil e di common law. Non solo i fondamenti della democrazia rappresentativa sono egualmente presenti in tutti gli ordinamenti giuridici occidentali dalla seconda metà del XX secolo, non solo i grandi principi politici dell’eguaglianza, della libertà di espressione, della laicità dello stato sono vastamente comuni; ma è soprattutto vero che essi si concretizzano in un modo piuttosto uniforme. In effetti le modalità uniformi mediante le quali vengono concretizzati i grandi principi politico-costituzionali danno origine ad alcuni “topoi” classici in cui si esprime il concetto occidentale di legalità. Senza l’ausilio di questo concetto e senza l’ausolio di moduli concretizzatori uniformi, i grandi ideali politici di democrazia / liberà / uguaglianza sarebbero privi di quella funzione che invece è ad essi comunemente attribuita ed in virtu della quale ci si attende di vederli concretamente all’opera tra governanti e governati e dei cittadini tra loro. Posta l’indagine comparatistica sulla strada dei valori si è potuto anche evidenziare come alcune regola cardinali che intessono sistematicamente le esperienze di common law e quelle di civil law appaiono di nuovo dotate di radici comuni, ancorchè la loro concretizzazione avvenga in forme piu o meno forti. La regola generale per cui la responsabilità è personale e non della famiglia o del clan , si collega infatti a quella che riconosce anzitutto all’individuo alcuni diritti naturali di libertà , e quest’ultima si sviluppa nel riconoscimento della intangibilità della sfera privata come valore , il quale, a sua volta assume la struttura di tutela che è stata messa a punto in riferimento al diritto di proprietà privata. L’ordito di un qualunque sistema giuridico sia di civil che di common law è tessuto da non pochi fili che hanno il medesimo colore. Messe insieme, tutte queste osservazioni evidenziano un continuo rimando biunivoco tra valori di civiltà e principi giuridici. Ed in effetti se si guarda alla storia del XX secolo, si scorge come l’evoluzione delle esperienze giuridiche sia di common law che di civil law mostra non solo i segni di una similitudine di fondo, ma anche quelli di una certa sincronia nelle direzioni di sviluppo. Ciò è avvenuto in forme particolarmente accentuate e quindi meglio palesi, nella seconda metà del secolo scorso. [ESEMPI: i grandi movimenti a favore di una miglior tutela dei diritti dei lavoratori e delle donne che non sono altro che accentuazioni del generale principio di eguaglianza, hanno percorso i sistemi giuridici occidentali grosso modo nelle medesime decadi. Del pari, il problema di una più accurata tutela dell’ambiente, che può essere vista come una estrinsecazione del medesimo principio in direzione transgenerazionale, si è manifestata nei sistemi occidentali piu o meno nello stesso periodo. La stessa osservazione potrebbe ripetersi a proposito di tutte le tematiche giuridiche moderne, da quelle piu tecniche (come la tutela delle minoranze azionarie) a quelle piu immediatamente legate all’universo dei valori (come la bioetica)]. Tutto ciò ha introdotto motivi di perplessità circa la distinzione sistemologica tra esperienze di civil law e common law, distinzione che inizialmente sembrava così netta ed autorevole. D’altra parte rinunciare ad una demarcazione sistemologica tra civil e common law sembra una follia, perché non si possono ignorare una serie di dati che emergevano da qualsiasi rierca comparatistica non appena questa si spinge ad esaminare la struttura tecnica di qualunque istituto giuridico. Nel campo delle forme giuridiche e del loro articolarsi in strutture tecniche, così come nel campo dei percorsi argomentativi mediante i quali i giuristi giustificano le loro conclusioni, qualunque dialogo o confronto tra civil e common law evidenzia subito l’esistenza di diversità notevoli. Di simile stato delle cose è testimonianza l’emersione di un vasto interesse per la categoria dei sistemi giuridici misti. Quasi tutti i sistemi giuridici sono misti nel senso che hanno subito l’influenza di diversi modelli giuridici. Tuttavia l’espressione “sistemi giuridici misti” è riservata ormai ad un piccolo gruppo di esperienze giuridiche che sono state influenzate sia dal modello di common che di civil law. Queste esperienze sparse in tutto il mondo, sono quasi sempre il frutto di una sovrapposizione di modelli nel senso che ad un sostrato derivato dalla civil law si sono agguinte vaste influenze del modello di common law in seguito ad una dominazione politica inglese o americana. I sistemi giuridici misti traggono quindi origine da un fenomeno di circolazione dei modelli per imposizione ; ma come al solito l’imposizione non ha avuto effetti effimeri. Quando i paesi dominati sono tornati in piena indipendenza politica hanno conservato quasi tutti gli aspetti del common law assimilati durante il periodo precedente. L’aspetto interessante dei sistemi misti, oltre a consentire un confronto sperimentale tra i lati forti e deboli delle tradizioni di civil e common law, è che essi sono pienamente sistemi occidentali pur non potendo esssere ascritti in nessuna delle due tradizioni principali. 4.LA NOZIONE DI TRADIZIONE GIURIDICA OCCIDENTALE Agli albori della comparazione giuridica moderna, quando la scansione tra common e civil law apparve molto netta, la storiografia allora in voga rafforzava nettamente questa conclusione. Sulla scia del nazionalismo romantico gli storici dell’800 erano propensi a sottolineare le particolarità di ciascuna esperienza nazionale. Di questa tendenza furono massima espressione proprio gli storici inglesi, i quali erano convinti della insularità della loro esperienza e perciò assai inclini a sottolineare la radicalità della diversità giuridica inglese rispetto alle esperienze continetali. In realtà questo romanticismo storiografico è fuorviante. Il suo meccanismo probatorio si svolge in sintesi secondo il seguente modello: siccome ogni regola ed ogni istituto guiridico hanno una origine causale piuttosto precisa, si mettono insieme tutti i fatti storici dai quali sono scaturite le singole regole e le singole istituzioni giuridiche. In quest’ottica è inevitabile peraltro che rivolgendosi , ad esempio , a regole ed istituzioni inglesi la loro origine causale risulti invariabilmente essere un accadimento storico avvenuto in inghilterra (ad esempio, lo storico ricorda che tale regola deriva dalla statute quia empoteres e talaltra regola da una celebre decisione giudiziaria del XVI secolo). Ma da tali osservazion non si può trarre la conclusione che l’insieme dei fatti storici svoltasi in Inghilterra, essendo così diversa dall’insieme dei fatti storici svoltisi sul continente europeo, non poteva non generare un sistema giuridico profonadmente diverso singolare. È ovvio infatti che l’insieme dei fatti storici avvenuti in inghilterra differisca in ogni suo punto da quelli accaduti in francia o in qualsiasi altro luogo. Ma ciò è vero anche a proposito dei fatti storici accaduti a Lione piuttosto che a Parigi, mentre nessuno oserebbe sostenere che il diritto lionese è radicalmente diverso da quello parigino. Non solo occorre tenere conto che nonostante la diversità di accadimento storici locali, il diritto attualmente vigente a Lione non si diversifica in modo significativo da quello vigente a parigi , ma, misurate in termini di distanze relative tra loro, le tradizioni giuridiche sembrano essere dotate di una evidente singolarità rispetto ad ogni altro aspetto della cultura. [ESEMPIO: è ben noto come sotto molti profili esistano similitudini storicamente radicate tra Inghilterra e Olanda mentre sono parimenti note le dissimilitudini tra Olanda e Spagna. Sul piano religioso la cività inglese moderna, come quella olandese, ha radici nella riforma protestante mentre quella spagnola è rimasta a lungo profondameta cattolica. Sul piano della organizzazione politica sia l’inghilterra che l’olanda sono state i prototipi delle monarchie costituzionali mentre la monarchia spagnola fu uno dei prototipi delle monarchie assolute. Sul piano della vita economica sia l’inghitlerra che l’olanda sono satate economie marittime e commerciali, mentre non la spagna. Solo nel campo del diritto le distanze relative si invertono infatti sotto il profilo del sistema di fondo, Amsterdam sembra molto piu vicina a Madrid che a Londra]. Quando il comparatista interroga la storia, egli cerca di trovare una spiegazione ai dati enigmatici che rintraccia nel suo lavoro e rispetto ai quali la storiografia giuridica ottocentesca non diede risposte appropriate. Perciò solo l’indagine storica condotta da studiosi ben addentro alle problematiche sistemologiche poteva dare qualche frutto. In questo secondo contesto due ricostruzioni storiche meritano di essere ricordate: una prima conduce a rilevare come nell’alto medioevo (ossia tra i secoli V e XI) si sia creata in europa una vasta area di diritto comune nel senso che tutte le diverse organizzazioni politiche presenti sul territorio si sono evolute utilizzando i medesimi moduli organizzativi e procedurali. L’importanza di questa ricostruzione si coglie non tanto nella rivendicazione dell’esistenza di un diritto comune europeo altomediovale, perché questo dato potrebbe essere speigato anche in riferimento ad un certo innegabile primitivismo del mondo giuridico europeo in quel periodo, quanto nella sottolinatura del carattere dinamico insito in quella esperienza, la quale sarebbe stata capace di evolversi in forme piu sofisticate e complesse. Tale carattere si ricollega alla fusione di vari elementi sia tardo romani che germanici , nel sensoche procedure , legislazioni, linguaggi, forme e formule erano largamente riconducibili a modelli comuni all’intera europa cattolica (un territorio che abbracciava tutta l’europa occidentale comprese le isole Britanniche e la Scandinavia sino al confine, mutevole, con la civiltà bizantino ortodossa). Il carattere dinamico di questo diritto comune europeo altomedievale non è derivato solo dalla mescolanza di mentalità diverse, ma anche dalla natura aperta dei sistemi giuridici il cui contenuto era il continuo frutto della concorrenza tra fonti diverse: ecclesiastiche e laiche, regie e consuetudinarie. La diversità tra civil law e common law si sarebbe così sviluppata a partire da un ceppo comune altomedievale, e ciò spiegherebbe la consonanza di valori di fondo e la dissimilitudine di forme tecniche di espressione. In quest’ottica risulta anche agevole scorgere che mentre il diritto inglese non è altro che la prosecuzione in forme organizzative sempre piu ricche e complesse di istituti tipici del diritto comune altomedievale, la frattura è addebitabile alla diffusione della scienta juris, la quale ha improntato di sé, delle sue categorie ordinanti e dei suoi metodi scientifici di pensare, la tradizione di civil law. La seconda ricostruzione storica che ha destato attenzione rivolge principalmente la sua attenzione alla svolta avvenuta tra l’XI e il XII secolo. Questa visione concepisce sia la tradizione di civil law che quella di common law come espressioni di una medesima tradizione giuridica di fondo, chiamata tradizione giuridica occidentale, la quale si sarebbe sviluppata all’epoca della riforma gregoriana, come sottoprodotto del grande sforzo intellettuale e politico di rifondazione della chiesa di roma. Nella sintesi offerta dal suo proponente, i caratteri della tradizione giuridica occidentale sembrerebbero i seguenti. Anzitutto il diritto viene concepito come relativamente autonomo rispetto alla religione e alla politica (nel senso che queste ultime possono influire sul diritto, ma non sono il diritto). Come conseguenza di questa relativa autonomia, l’amministrazione dello spazio giuridico viene affidata ad un ceto di professionisti i quali svolgono attività legali sulla base di una cultura specialistica, usano un proprio linguaggio settoriale e sviluppano una propria cultura ed una propria letteratura. Il patrimonio di consocenze e di tecniche idonee ad acquisirle che questi specialisti del diritto mano a mano accumulano diviene un formante organizzativo del sistema, nel senso che mentre da un lato tali conoscenze descrivono l’insieme delle regole e delle istituzioni giuridiche vigenti, dall’altro queste ultime divengono percepibili solo attraverso il sistema di concetti che serve per conoscerle professionalmente e per conseguenza, le regole stesse vengono trasformate dall’apparato concettuale dei giuristi. Essenziale per connotare la tradizione giuridica occidentale è che il diritto viene concepito come un insieme coerente, ossia : un sistema integrato e parzialmente autopoietico. Infatti questo corpus è organico nel senso che esso è capace di svilupparsi attraverso il tempo e comprende nel suo interno meccanismi di autoregolazione i quali ne dirigono l’adattamento al mutare delle circostanze esterne. La vitalità del sistema è data dalla necessità di assicurare un coordinamento tra la pluralità di ordinamenti che convivono e competono all’interno della stessa comunità, mentre la sua legittimità si fonda essenzialmente sul fatto che esso si identifica con il concetto sovraeminente di ordine. La tradizione giuridica occidentale è infatti parte integrante della civiltà occidentale la quale ha prevalentemnete concepito le cose del mondo come un insieme ordinato di fenomeni; il diritto quindi è tale perché esso è l’ordine dei rapporti umani, il quale rispecchia nella sua coerenza intellettuale l’ordine universale frutto della razionalità del suo creatore. Da quanto si è indicato discendono due caratteristiche fondamentali della tradizione giuridica occidentale. La prima consiste nel postulato secondo il quale le singole regole sono intelleggibili solo quando siano collocate nel contesto di procedure ed istituzioni concettualmente coordinate; la seconda consiste nel postulato per cui la legalità è superiore alla sovranità nel senso che la volontà politica non può sovvertire l’ordine legale, il quale apparecchia apposite procedure affinchè la prima possa esprimersi in modo legittimo. Al contrario, l’esistenza di tali procedure atte a fornire un canale di espressione legale della volontà politica implica che la pura volontà soggettiva del sovrano (sia esso singolo o un corpo collettivo) non è sufficiente a fondare una regola di diritto. La ricostruzione storica da ultimo ricordata, al di là delle forzature che ne caratterizzano alcuni aspetti, non solo identifica il proprium della tradizione giuridica occidentale, ma ne colloca le radici in un tipo specifico di mentalità storicamente formatosi nell’europa del XI secolo, il quale attiene all’eterno problema dei raporti tra giustizia, diritto, politica, moderna, religione. In tale contesto si chiarisce come la mentalità occidentale abbia assegnato al diritto uno spazio autonomo sovraordinato alla dimensione delle scelte puramente politiche in cui si esprime un potere sovrano. D’altra parte la relativa autonomia del diritto rispetto alla sfera religiosa e politica consente di collocare in un quadro di valori etico-politici tendenzialmente unitari le differenze di struttura tecnica, di categorie ordinanti e di nomenclatura specifica quotidianamente riscontrabili nel dialogo tra civil lawyers e common lawyers. Paradossalmente ciò è possibile all’interno della medesima tradizione giuridica occidentale proprio perché in tale tradizione l’autonomia del giuridico è essa stessa un valore fondamentale. 5.SIGNIFICATO E LIMITI DELLA RICOSTRUZIONE STORICA DELE TRADIZIONI GIURIDICHE La visione classica che puntava tutte le sue carte sulla opposizione tra civil law e common law richiamava quasi naturalmente un approccio esplicativo di carattere marcatamente storicistico, in quanto alle vicende storiche era affidato il compito di evidenziare le origini delle diversità e spiegarne le cause. Perciò i manuali di sistemologia giuridica assumevano lo stile dei manuali di storia del diritto europeo diffonendosi sulle radici storiche del diritto inglese come su quelle del diritto francese o tedesco. Quanto si è appena evidenziato circa il carattere problematico tra le due branche della tradizioen giuridica occidentale, non contraddice l’importanza della consocenza storica. Si tratta di chiarire quali contingenze storiche abbiano effetivamente contribuito a creare le differenze che è dato riscontrare tra civil law e common law. Queste contingenze storiche debbono però essere identificate con precisione poiché la maggior parte degli avvenimenti storicamente accaduti al di qua ed al di là della manica sono ininfluenti sulla distinzione tra common e civil law. Perciò qui di seguito si narreranno le vicende dei vari periodi nel tentativo di cogliere quei fatti che hanno avuto la capacità di trascendere il loro tempo per divenire fattori influenti nella lunga durata. La dimensione della lunga durata è infatti essenziale per porre in rilievo i caratteri di una tradizioen giuridica la quale è tale proprio perché presenta mentalità , stili e morfemi giuridici che si sono consolidati in un arco di tempo plurisecolare. Benchè sia da ammettere che nella formazione di ogni carattere tipico di una determinata tradizione giuridica, alcuni avvenimenti hanno avuto piu influenza di altri, tuttavia non bisogna dimenticare mai come essi siano il prodotto di una pluralità di fattori che agiscono sul piano storico in modo concomitante. Le radici del nostro diritto se osservate nelle sue grandi linee sono remote, ma ad uno sguardo piu ravvicinato la maggior parte del diritto che attualmente usiamo, compresa la mentalità con cui gli operatori lo affrontano, deriva direttamente da quelle palingenesi e da quelle rivoluzioni che si collocano nel XIX e XX secolo, quando la tradizione giuridica occidentale ha dovuto affrontare il passaggio epocale da una civilizzazione materiale in lentissima evoluzione ad una civilizzazione materiale in cui si susseguono leondate delle rivoluzioni tecnologiche. CAPITOLO QUARTO – COMMON LAW ED EQUITY IN INGHILTERRA SEZIONE PRIMA – IL PERIODO FORMATIVO 1.I CARATTERI GENERALI DEL REGNO NORMANNO È stato efficacemente detto che il common law inglese è il sottoprodotto di un capolavoro di organizzazione amministrativa. In effetti la conquista normanna dell’inghilterra ha comportato due innovazioni importanti nel sistema di governo del regno: in primo luogo questi introdussero in inghilterra un sistema feudale; in secondo luogo introdussero (come parziale correttivo del primo) un sistema di amministrazione centralizzata piu moderno ed efficiente non solo rispetto a quello in uso sotto i sovrani sassoni, ma anche piu avanzato di quello adottato in tutti gli atlri stati europei del periodo. Riguardo al sistema feudale basti qui sapere che dal punto di vista di Guglielmo il Conquistatore e dei suoi immediati successori l’adozione di un sistema feudale costituì una scelta obbligata per due fonadmentali ragioni: innanzitutto, bisognava ricompensare i cavalieri (quasi tutti di origine francesce più che normanna) che lo avevano seguito nella dubbia avventura e grazie ai quali il regno d’Inghilterra era stato conquistato. Poiché l’unica ricchezza di cui disopneva il conqusitatore era la terra conquistata, con essa compensò i suoi accompagnatori. Inoltre occorreva provvedere al controllo militare ed al governo civile del paese sottomesso. A tale scopo una presenza capillare sul territorio di persone costrette dalla forza delle cose ad essere solidali con il re nei confronti della popolazione indigena sembrò di gran lunga la soluzione migliore.percià il regno fu tagliato in feudi assegnati a circa 2000 cavalieri franco-normanni ed essi furono incoraggiati a costruire castelli (cosa che fecero con grande passione). In tal modo si attuò la sostituzione di una classe dirigente con un’altra, che coincideva con una aristocrazia guerriera. Se da un lato ciò permise di sorvegliare il territorio conquistato ed impose una collaborazione tra i signori ed il sovrano, dall’altro le caratteristiche della nuova classe dirigente la rendevano costituzionalmente pericolosa. Colto nella sua struttura fondamentale il rapporto di vassallaggio era un rapporto personale diretto tra il sovrano ed i primi feudatari, mentre costoro contraevano altri rapporti personali di vassallaggio con i propri seguaci. Come si sa dalla storia europea il sistema feudale è un sistema che alimenta le spinte centrifughe: e questo in gran parte perché la società feduale si presentava come gerarchicamente strutturalta anche ai suoi vertici, pertanto i cavalieri si riunivano in primo luogo attorno al loro signore feudale e solo indirettamente , e per tramite di quest’utlimo, si riferivano al sovrano. Per contrastare queste spinte e mantenere l’unione del regno i sovrani normanni presero alcune contromisure: sul piano politico-militare ebbero cura di non creare grandi signorie; sul piano costituzionale tentarono di creare un legame diretto tra i valvassori ed il solvano (come fece Guglielmo il Conquistatore quando pretese durante il consiglio del 1086 a Salisbury che i valvassori rendessero omaggio a lui personalmente). Più che a queste contromisure politiche (le quali ebbero efficacia piuttosto effimera) la saldezza del regno risultò fondata su alcune tecniche amministrative già collaudate con successo nel ducato di Normandia: la base ideale di tali tecniche consisteva nel riservare al sovrano alcuni poteri di polizia e di esazione fiscale concernenti l’intero reame , scavalcando la sua organizzazione feudale. Questa riserva non contraddiceva apertamente la delega delle funzioni di governo del territorio ai signori del luogo. Tuttavia, limitandola, contrastava con l’accezione estremista del sistema feudale che vedeva il sovrano solo come vertice di una serie di rapporti di vassallaggio costruiti a piramide. La base materiale di queste tecniche amministrative risiedeva nella possibilità del sovrano di reclutare i c.d. chierici: costoro erano normalmente ecclesiastici che avevano ricevuto una educazione scolastica. Possedevano quindi una capacità a quel tempo di carattere elitario: sapevano leggere e scrivere . oltre a ciò però essi possedevano almeno una infarinatura di cultura ereditata dall’impero romano cristiano la quale consentiva di costruire una amministrazione ordinata secondo i dettami di una logica razionale. Grazie alla loro opera Guglielmo il Conquistatore potè organizzare l’esazione fiscale attorno ad una sorta di catasto (il c.d. Domesday Book) censendo e registrando per iscritto tutte le ricchezze del reame. Simile abilità fu posta al servizio dell’amministrazione della giustizia, rispetto alla quale conviene proporre un discorso piu articolato. Nella mentalità medievale spetta al sovrano il compito eminente di conservare la pace e la giustizia nel regno. Pertanto era potere e dovere del re decidere le liti le quali potessero mettere in pericolo sia l’uno che l’altro valore. Ma nel svolgere questa funzione il sovrano non era lasciato solo ma era assistito da un consiglio, la Curia Regis, (organo inizialmente composto dai personaggi piu illustri del reame nonché continuazione di una istituzione germanica che in inghilterra aveva preso il nome di Witan). In ciò vi è una evidente continuità nelle forme di governo e perciò la legittimità delle decisioni emesse dal re con l’assistenza della Curia Regis non poteva essere disputata. Il problema era che non si aveva al tempo una chiara distinzione tra decisione giudiziale e decisione legislativa. Potere esecurivo, potere legislativo, potere amministrativo sono categorie che subentreranno molto piu tardi. Al tempo della conquista normanna l’esercizio di questi tre poteri era un tuttuno indistinto. Una distinzione cominciò a crearsi grazie alla presenza dei chierici. Questi erano specialisti dell’amministrazione: conservavano documenti scritti e potevano rifersi ad essi. Però non avevano alcun rango feudale e quindi non erano legittimati ad inserirsi nelle decisioni politiche: se bisognava decidere una questione che fosse percepita come una questione di interesse generale il re era assistito dalla Curia Regis nella sua composizione baronale ove erano presenti i personaggi che occupavano una posizione di rilievo all’interno di quella classe dirigente che assicurava il governo del territorio. Ma accanto a queste decisioni (che confluirono poi nelle c.d. scelte legislative) ve ne erano altre di tipo ricorrente le quali potevano benissimo essere affidate ai chierici. Perciò si delineò una divisione del lavoro in seno alla Curia Regis: da una aprte il Magnun Concilium (che generò poi il parlamento) dall’altra un’assemblea ristretta alla quale partecipava il cancelliere ma anche i chierici cui erano devolute l’amministrazione fiscale e le questioni giudiziarie (da cui presero avvio le corti di giustizia). Queste corti, ereditando i poteri della Curia Regis, traevano la loro competenza dalla giustizia del re. La competenza del Re in materia di giustizia era eminente nel senso che non era affatto generale ma limitata perché la maggior parte dei compiti di amministrazione della medesima erano stati delegati ai feudatari nelll’ambito del sistema di governo del territorio loro attribuito. Al re rimaneva il compito di giudicare due tipi di cause: quando insorgevano questioni attinenti l’investitura dei primi vassalli (tenants in chief) la questione era devoluta al re nell’ambito della concezione tradizionale dei vincoli di vassallaggio (questi infatti erano reciproci e quindi comportavano in capo al sovrano concedente l’obbligo di mantenere il feudo concesso al suo vassallo diretto e di tutelarlo contro le usurpazioni); quelle che nascevano da litigi in cui era messa in forse la pace del regno. 2.IL SISTEMA DEI WRITS Il meccanismo di attivazione della giustizia regia può essere riassunto nel modo seguente. Chi avesse voluto rivolgersi al re per ottenere giustizia e riparazione di un torto subito, si rivolgeva all’ufficio dellaa canelleria ove i chierici ad essa addetti provvedevano ad emanare (su sua richeista, e dietro pagamento delle somme necessarie) un documento chiamato breve (writ). Il contenuto di questo documento assumeva la forma di una lettera missiva , e poteva avere due destinatari: allo sceriffo nella sua qualità di procuratore locale del re (cioè di organo di polizia) : in tal caso la lettera del re ordinava allo sceriffo di compiere certe azioni; Al signore locale, contenendo l’ordine di provvedere a fare guistizia nel caso di specie. La prima forma era quella piu efficace perché metteva in moto una procedura che si svolgeva interamente nella sfera di controllo dei funzionari regi: in sostanza, nel writ di questo tipo si ordinava allo sceriffo di procurare il necessario per lo svolgimento di un processo da attuarsi avanti ai giudici regi e quindi di procuare in primis la presenza del presunto autore del torto che assuemeva quindi il ruolo di convenuto in un processo. La possibilità di ricorrere alla giustizia regia era gradita agli attori per via della maggiore neutralità che essa assicurava rispetto ai condizionamenti locali; inoltre la redazione dei writs era anche un buon affare sia per i chierici della cancelleria (che erano remunerati per la loro opera) sia per il sovrano che in tal modo estendeva la sua influenza. La convergenza delle due spinte (che si manifestavano rispettivamente sul lato della domanda la prima e dell’offerta la seconda) produsse l’ovvio risultato di dilatare il numero dei writs preparati dalla cancelleria: infatti il numero dei writs standardizzati nei registri della cancelleria passò da una cinquantina verso il 1200 a oltre cinquecento verso la metà del secolo. Questa espansione non rimise mai in discussione il principio teorico secondo il quale la giustizia regia era sussidiaria ed eccezionale ma è ovvio però come la pace del regno sia un concetto vago e che , volendo, ogni lite è potenzialmente in grado di turbarla perché esiste un contrasto ontologico tra il concetto di pace e quello di lite. Su questa base, l’attivismo dei chierici della cancelleria moltiplicò le occasioni di intervento ed erose l’area assegnata alla giustizia baronale. Il risultato fu che quando i baroni si ribellarono approfittando della debolezza dei sovrani, uno dei terreni di disputa fu quello della giustizia: nel 1215 i baroni ottennero che il re si impegnasse a rispettare i loro diritti, i quali vennero elencati in buona misura per iscritto nella Magna Charta. Successivamente ottennero le “Provisions of Oxford” del 1258 in cui fu stabilito che i chierici della cancelleria potessero continuare ad emanare i soli writs che a quell’epoca si trovasero già nei loro registri (brevia de curso) ma non potessero crearne di nuovi. Il rigore di questa serrata venne un po’ attenuato qualche anno dopo con lo Statute of Westminster II del 1285 che consentiva ai chierici di creare nuovi writs qualora riguardassero casi simili a quelli già previsti dai brevia de curso. La questione insegnò ai proto-giuristi inglesi che le questioni attinenti la giurisdizione diventano presto o tardi questioni a carattere politicocostituzionale. Simili questioni quindi non sono riconducibili solo a norme (ossia alla sfera della stretta legalità) ma debbono essere valutate nel quadro di un sistema di equilibri costituzionali e richiedono in definitiva che i protagonisti dell’amministrazione della giustizia abbiano una prudente consapevolezza del loro vario atteggiarsi in ciascun momento storico. In effeti (forse senza rendersene compiutamente conto) i chierici della cancelleria creando a raffica nuovi writs avevano fatto una cosa non facilmente tollerabile: avevano legiferato. In effetti non vi erano differenze tra la creazione di un nuovo writ e la istituzione di un nuovo diritto soggettivo: riconoscere un rimedio efficace a tutela di un interesse della vita è del tutto equivalente ad istituire un diritto sostanziale, come fa qualsiasi nuova legge attuale. Questa conseguenza derivava infatti dal modus operandi dei chierici i quali se formulavano un nuovo writ ne conservavano una copia nei propri registri con la conseguenza che tale formula diveniva disponibile per altri richiedenti successivi e questo sia perché si faceva meno fatica a riprodurre una formula già esistente piuttosto che a cercarne una nuova, sia perché essendoci già un precedente non ci si doveva interrogare circa la sua ammissibilità. Però legiferare non era compito esclusivo del Re, ma del Re assistito e consigliato dalla Curia Regis nella sua composizione feudale. Anche dopo la Statute of westminster II i giuristi furono molto cauti nel creare nuove azioni, ed in seguito il parlamento divenne assai geloso nel riservare a se stesso il compito di provvedere nuove leggi per il regno. Nella storia del common law si coglie nettamente il differenziarsi del polo della legalità da quello della politica: la legalità riguarda la materia dei diritti positivamente riconosciti e viene amministrata secondo gli schemi di un ragionamento logico da persone addestrate a tale tipo di ragionamento; la politica implica scelte di altra natura la cui formazione richiede il consenso di tutti coloro che rappresentano gli interessi politicamente rilevanti dello stato. L’emergere della legalità nel senso tipico cho che questo concetto ha assunto all’interno della tradizione giuridica occidentale, richiede il ricorrere di entrambi le condizioni. Sino a quando vi sia un seggetto che possa dire “è legale perché lo voglio io” non si potrà avere una sicura tutela dei diritti individuali, il riconoscimento dei quali è all’origine della legalità occidentale. D’altra parte la necessità costituzionale di compiere scelte politiche con il consenso dei portatori degli interessi rilevanti, può sussistere solo quando dare o negare il consenso sia un diritto soggettivo. Nella Magna Charta infatti i baroni fissarono i contorni del loro potere di partecipazinoe alla gestione politica del reame come una concretizzazione dei loro diritti soggettivi. Sicchè in quel documento che viene considerato una protocostituzine si trovano elencati e mescolati tra loro diritti politici e civili. In ogni caso il problema principale che rimase dopo lo scontro tra Re ed i Baroni (che si eaurì nel quadro di un nuovo equilibrio costituzionale appunto) era quello di mandare avanti in qualche modo l’amministrazione della giustizia regia. La soluzione adottata fu un compromesso: il re manteneva la sua giustizia sulla base dei writs creati sino al 1258 ed il resto rimaneva compito delle corti decentrate. Ma presso queste corti (eccetto quelle ecclesiastiche) non esisteva né poteva formarsi quella tecnostruttura di specialisti dell’amministrazione della giustizia che invece aveva iniziato a coagularsi attorno al sovrano: se è vero che sotto il profilo sostanziale tutti i tipi di corti applicavano un diritto consuetudinario, certo è che il diritto applicato dalle corti locali decentrate era assai piu prossimo (sia per sostanza che per procedura) ai costumi ed alle tradizoni di ciascun gruppo di quanto non fosse il diritto regio. Ma questo localismo, questo radicarsi della giustizia nelle tradizioni di ciascun territorio, era proprio ciò che contrastava con la cultura medievale e, quindi, con le aspirazioni di tutti coloro i quali in una qualche misura a quella cultura partecipavano. Questi aspiravano esattamente al contrario di quello che le corti locali potevano offire e che invece era caratteristico della gisutizia regia: una idea di legalità come ordine universale, capace di esprimersi mediante regole generali ed astratte, costantemente applicate a tutti i casi singoli. La scrittura, la sapienza, il tecnicismo formale erano percepite come espressione di quella esattezza nel misurare la ragione ed il torto che è stata una delle piu potenti idee latenti di cui si è pervasa la cultura europea. Le corti regie e non le corti locali incarnarono la tensione dinamica nata da fermenti culturali profondi e furono infatti esse e non le corti locali quelle che diedero vita al sistema di common law. SEZIONE SECONDA – IL CONSOLIDAMENTO DEL COMMON LAW E LA NASCITA DELL’EQUITY 1.LA FORMAZIONE DEL CETO FORENSE IN INGHILTERRA Nel 1178, Enrico II Plantageneto, al fine di rimediare ad alcuni incovenienti manifestatisi in precedenza quando i giudici usavano spostarsi da un luogo all’altro decise che 5 di essi dovessero risidere permanentemente a londra. Essi fissarono la loro sede a Westminster Hall vicino alla cancelleria e al dipartimento degli affari finanziari (Exchequer). Da questi primi 5 giudici derivarono le corti della King’ Bench e di Common Pleas. La prima di queste due corti acquistò giurisdizione per le cause (specie penali) in cui era particolarmente in gioco la pace del regno ed alle quali il sovrano era interessato; Pleas of the Crown, la seconda, concentrò la propria giurisdizione sulle cause comuni, prive di rilevanza politica (common pleas). La giustizia perciò fu amministrata nelle corti e non piu coram rege. Questo facilitò la formazione del ceto forense. Inizialmente i justiciarii (giudici) si consideravano come dei pubblici funzionari, addetti ad una determinata branca delll’amministrazione regia. Coloro che sedevano nelle corti di common pleas , di king’ bench e nell’Exchequer erano sia chierici che cavalieri i quali possedevano il vocabolario tecnico e le conoscenze necessarie per assicurare uniformità dei procedimenti amministrativi. Le regole che bisognava seguire furono illustrate in libri, come allora si usava. Ne nacquero i due grandi trattati dovuti a Glanvill e Bracton. Entrambi i trattati hanno lo stesso titolo (“de legibus et consetudinibus angliae”): il primo , attribuito a Ranulf Glanvill (uno dei primi e tra i piu celebri giudici di inghilterra) fu composto verso il 1187/89 e tratta essenzialmente dei writs, di cui fornisce un elenco delle formule e delle diverse procedure cui ciascuno di essi dava origine; il secondo attribuito a Henry de Bracton (giudice regio tra il 1240 e il 1250) fu composto tra il 1120 e il 1130, benchè incompleto (forse non finito dal suo autore) fu più ampio in quanto intendeva fornire una trattazione di tutto il diritto inglese, offrendo così una rappresentazione esaustiva dell’intero scibile giuridico. Il trattato di Bracton rimane centrato sui writs e sulle loro procedure ma non mancano tuttavia pensieri e problemi tratti dal diritto romano e canonico (anche se questi ebbero un impatto modesto sul sistama complessivo). L’ovvio tecnicismo imposto dal formalismo rimediale richiedeva infatti che i giudici fossero anzitutto periti della tecnica dei writs. Questa necessità ebbe sul piano pratico due conseguenze di rilievo: in primis, accanto ai giudici apparvero gli avvocati i quali dovevano possedere eguale perizia in materia di writs. In secondo luogo divenne regola che i giudici fossero tratti dal novero di coloro che tale perizia tecnica avevano già dimostrato di possedere, instaurandosi così la consuetudine per cui diventavano giudici coloro che avessero assistitito in qualità di cancelliere (clerk) i giudici precedenti, perché era verosimile che costoro , a furia di redigere atti scritti e tenere i verbali, avessero imparato tutto ciò che vi era da imparare in materia. In poco tempo però la nascita di una professione forense composta da avvocati delle parti condusse ad un perfezionamento della consuetudine: divenne regola infatti nominare guidici coloro che in precedenza erano stati avvocati ed in tale veste avevano verosimilmente appreso tutti i segreti dell’arte. L’emergere della professione forsense portò anche ad un mutamento della composizione sociale del personale di giustizia: come si è ricordato, i primi re normanni avevano affidato le funzioni amministrative piu elevate a Chierici, perché gli ecclesiastici erano le persone colte del tempo. Questa consuetudine non fu del tutto abbandonata , tant’è che il cancelliere (ossia il ministro posto al vertice dell’amministrazione regia) rimase un ecclesiastico (piu precisamente, un vescovo) sino al XVI secolo. Tuttavia i chierici in linea di principio non potevano (per ragioni canonistiche) patrocinare le cause a pagamento, perciò la professione forense si popolò di laici e quando i giudici furono tratti per conseutudine dal novero degli avvocati si attuò una completa laicizzazione della giustizia regia. Gli sviluppi della professione legale come corporazione, seguirono l’itinerario normale del corporativismo medievale: all’inizio vi fu un accorrere di persone le quali semplicemente pensavano di avere qualche capacità di parlare a nome delle parti in processo nonché qualche abilità nel comprendere il sistema dei writs; a questa fase di libero mercato segui una fase di regolamentazione pubblicistica, diretta in primo piano a reprimere gli abusi e a creare controlli preventivi ,creando così corporazioni dotate di propri statuti e regole organizzative. La specializzazione nello svolgimento dei diversi compiti comportò il formarsi di una gerarchia: l’attività piu prestigiosa in seno alla professione fu quella dei narratores, ossia da coloro i quali per conto della parte, narravano i fatti avanti i giudici e si impegnavano poi nella discussione degli argomenti. Un gruppo di narratores avanti la corte di Common Pleas, conosciuto come serjeants, si organizzò verso il 1330 in una corporazione, o gilda. L’ammissione al gruppo avveniva seguendo un cerimoniale abbastanza elaborato con l’intervento dei giudici della corte e nel corso del quale veniva imposto al nuovo serjeant una berretta di seta bianca detta Coif. Da qui il nome di order of the Coif. Questa gilda monopolizzò abbastanza a lungo i posti di giudice, anche se tale monopolio divenne poi piu formale che sostanziale in quanto si prese l’abitudine di ammettere all’ order of the Coif tutti coloro che venivano nominati guidici alle corti regie. L’order of the Coif fu il prototipo di una serie di corporazioni che si sono conservate sino ai nostri giorni. I serjeants sono oggi scomparsi ma i loro eredi (detti barristers) sono tuttora organizzati in quattro Inns: Inner Temple, Middle Temple, Gray’s Inn, Lincoln’s Inn. Tali Inns sono tradizionalmente luoghi di riunione, lavoro ed anche di formazione dei futuri membri della corporazione. Il modello cui si ispirarono fu quello conventuale, già imitato e rimodellato dai grandi ordini cavallereschi medievali. Per quanto riguarda la formazione del giurista, gli Inns furono luoghi di residenza e di apprendistato mediante lo studio ma e soprattutto mediante la vita in comune la quale consente l’apprendismento per mezzo dell’imitazione da parte dei piu giovani, della condotta e dello stile dei piu anziani. Nel XV secolo gli Inns, in cooperazione con quello della cancelleria che si occupava di equity, formarono una sorta di scuola di diritto occupando tutto lo spazio educativo. Simile formazione del giurista non è necessariamente inferiore a quella che si ottiene nelle scuole universitarie. Tuttavia è chiaro come tale schema comporta alcune conseguenze necessarie. Inevitabilmente esso contempla una procedura di cooptazione, essendo la corporazione arbitra di ammettere o non ammettere un aspirante apprendista, nonché di escluderlo durante l’apprendistato. La procedura di cooptazione, per sua natura , può dare origine sia ad un circolo virtuoso (quando i membri della corporazione hanno interesse a rafforzarla mediante la cooptazione degli elementi piu promettenti) sia ad un circolo vizioso (quando i membri della corporazione ritengono maggiormente vantaggioso per loro sceliere elementi mediocri o più che mediocri). Lo schema di formazione del giurista attraverso l’apprendistato mantiene ristretto il numero di coloro che accedono al Bar (gli avvocati che sono ammessi a rivolgersi ai giudici. Di qui il nome di Barrister, per quegli avvocati che hanno conservato a lungo il monopolio del patrocinio avanti le corti di common law). Nei suoi sei secoli di vita l’ordine dei serjeants raccolse in totale meno di 1000 membri. Questo favorì la coesione sociale del gruppo, ma mantenne il sapere giuridico all’interno di una logica iniziatica che è esattamente l’opposto del modello universitario basato sul sapere professato in pubblico il quale quindi rende disponibile ad una cerchia indefinita di fruitori. Questa tendenza verso lo schema del sapere che si apprende mediante iniziazione spiega l’atrofia della letteratura giuridica inglese. Dopo i due grandi trattati di Glanvil e Bracton (i quali significativamente si situano nel periodo in cui la corporazione forense era ancora in fase di gestazione) si deve attendere il XV secolo per trovare altri trattati giuridici. 2.L’EVOLUZIONE DEL SISTEMA DEI WRITS TRA CONSENSO DEI GIURISTI E CONSENSO SOCIALE Fu attraverso il sistema dei writ che i protogiuristi inglese poterono affermare il principio di legalità all’interno della giurisdizione delle corti regie. Il punto di partenza di ogni ragionamento giuridico fu quindi l’adesione scrupolosa alla lettera della formula di ciascun writ e la conservazione altrettanto tenace della procedura tradizionale alla quale ciascun tipo di writ si ricollegava. Questa base di partenza non escludeva però innovazioni anche sorprendenti e caratterizzate dalla più notevole fantasia inventiva. Chiuso dal 1258 il registro dei writs, lo sviluppo del common law è stato filtrato dalle formule ivi contenute. Ciò ha significato che qualunque pretesa doveva poter essere calata nei calchi di una delle formule in uso, altrimenti non vi era rimedio avanti le corti regie. Questa situazione è durata sino alle riforme giudiziarie del XIX secolo quando le c.d. forms of actions sono state abolite. Ciò implica che il common law ha vissuto per oltre mezzo milennio entro le griglie di formule tendenzialmente rigide. Per cogliere le conseguenze di lungo periodo di questa situazione occorre però precisare alcuni particolari storici: in realtà il numero dei writs non è mai stato del tutto chiuso, né le formule di essi sono rimaste immutabili. Tuttavia, è indubitabile che in Inghilterra sia stato a lungo in vigore un sistema di tipicità delle azioni nel quale il diritto veniva pensato come rimedio e come procedura collegata a quello specifico rimedio. Infatti le diverse forme si collegavano anche ad un diverso rito processuale. Questo perché inizialmente si fece una netta distinzione tra i writs in cui si rivendicava un diritto e quelli in cui ci si lamentava di un torto subito. La differenza tra i due tipi di writs riposava sulla comune percezione per cui rivenducare un diritto (tipicamente un diritto di natura feudale), significava assegnare un qualcosa che aveva le caratteristiche dell’eternità. Per conseguenza tale assegnazione poteva segnare per sempre i destini di due famiglie. Il processo relativo ai diritti era quindi circondato dalle piu grandi cautele ed era anche decisamente arcaico perché originariamente le prove regine erano l’ordalia ed il giuramento; la materia dei torti poteva essere tratta più speditamente perché riguardava un singolo episodio il cui accertamento poteva essere demandato ad una giuria. Il tradizionalismo dei giuristi inglesi ha preservato a lungo questa distinzione fondamentale ma per un ovvia eterogenesi dei fini, da ciò è derivato che i processi riguardanti la materia piu importante (quella dei diritti) venivano schivati dagli attori, mentre i processi originariamente pensati per la materia meno rilevante (quella dei torti) sono divenuti il vero processo di common law. In sostanza, nel periodo intermedio si è assistito ad un graduale abbandono dei writs nella forma “praecipe quod reddat” (ossia alle azioni che avevano un effetto dichiaratamente restitutorio) e ad una estensione dei writs derivati dal trespass (e specialmente da quel writ che assunse il nome di trespass on the case). Il passaggio essenziale si attuò verso il 1360 quando dalla formula del writ of trespass fu eliminato il riferimento al requisito della vilenza armata: inizialmente il writ of trespass era stato concepito per reprimere scoppi di violenza molto elevati e da ciò il riferimento alla vi et armis, mediante il quale si accusava il convenuto di aver perpetrato un assalto alla sfera giuridica . L’eliminazione del requisito della violenza armata lasciava quindi la formula del writ of trespass on the case disponibile per reprimere qualsiasi invasione non autorizzata della sfera giuridica altrui. Il cambiamento fu forse stimolato dalla considerazione che la violenza non è necessariamente un elemento caratterizzante dell’aggressione, ma un elemento che può caratterizzare la situazione complessiva derivata dall’aggressione. Assunta alla lettere la formula del trespass non faceva troppo senso perché imponeva di trattare molto diversamente tre situazioni che erano del tutto simili tra loro: si immagini che un rapinatore si scagli improvvisamente contro la vittima e la ferisca e la malmeni prima di strappargli la borsa. In questo caso il rimedio è senza dubbio quel del trespassi vi et armis. Ma si immagini che il rapinatore non ricorra alla violenza ma solo alla minaccia di usare la violenza e che la vittima ceda subito la borsa: in questo secondo caso il rimedio non sussiste. Si immagini allora che la vittima non ceda alla minaccia e si difenda si che dal tentivo di rapina nasce una zuffa in cui corre sangue: in questo caso la formula del trespass vi et armis è sicuramente applicabile solo se la vittima dell’aggressione subisce una lesione nel corso della zuffa. ma un simile sistema presenterebbe un preoccupante deficit di razionalità e di congruenza coscienza sociale diffusa secondo la quale il torto è sempre dell’aggressore. Comunque siano andate le cose, il trespass on the case (in quanto riferibile a tutte quelle situazioni in cui vi era stata una illegittima invasione nella sfera giuridica altrui) divenne il ceppo da cui si diramarono una vasta serie di rimedi che assunsero nomi propri: negligence, deceit, assumpsit, ejectement, trover ecc… Particolarmente istruttiva appare la diramazione nel settore delle promesse contrattuali (vedi qui sotto). 3.L’ANALOGIA DA UN CASO ALL’ALTRO NEL PERCORSO DAL TORTO ALL’INADEMPIMENTO Il common law originario aveva rimedi adatti a fronteggiare l’inadempimento delle obbligazioni contrattuali , ma essi erano caratterizzati dall’arcaismo tipico dei writs nella forma “praecipe”: in particolare il writ of covenant poteva riguardare il contratto in generale , ma la sua procedura contemplava il giuramento decisorio del convenuto , confermato da quello di 12 testi addotti dal medesimo convenuto (wager of law). La stessa procedura si applicava al writ of debt che riguardava le azioni rivolte all’adempimento di obbligazioni. Il criterio del giuramento decisorio, confermato da 12 testi, poteva rappresentare un espediente processuale efficace davanti le corti locali: in tal caso infatti il procedimento si svolgeva in una comunità normalmente ristretta nella quale tutti i partecipanti al processo vivevano ed erano radicati, cosi che il minimo che ci si potesse attendere era che lo spergiuro o gli spergiuri perdessero la propria reputazione. Ma poiché il processo si svolgeva a Londra, lontano dagli occhi della comunità ed anche senza l’intervento delle parti che erano rappresentate dai loro avvocati, il wager of law diveniva un meccanismo poco sensato, (poiché era facile reclutare in qualche bettola 12 sfaccendati pronti a prestare qualsiasi giuramento). Inoltre in materia contrattuale il problema che si pone è costituito dalla difficoltà a ricostruire il contenuto di un accordo e, quindi, a stabilire se il convenuto ha adempiuto esattamente o inesattamente alla prestazione dovuta. Il giuramento decisorio di 12 testi poteva al massimo consentire di accertare se un accordo era intercorso o meno, ma riguardo l’accertamento del suo contenuto la procedura era chiaramente inaffidabile. Di fronte a quest’ultima difficoltà si adotto il criterio di ammettere solo le azioni in cui l’attore poteva produrre un documento scritto e munito di sigillo. In tale ipotesi il convenuto poteva solo negare che il documento provenisse da lui (ossia replicare che il documento era falso). Ma questa replica era rischiosa perché esponeva il convenuto a sanzioni penali se, al contrario, il documento fosse stato ritenuto autentico. Per conseguenza le obbligazioni di pagare una somma di denaro assunsero la forma scritta munita di sigillo (questa forma documentale assunse il nome di “Bond”). Il creditore pertanto si proteggeva piuttosto efficacemente se si faceva rilasciare un bond contenente il riconoscimento di debito o la promessa di pagamento. Da questo rimedio però rimase esclusa la maggior parte degli accordi contrattuali, i quali naturalmente non assumevano forma scritta ,ma il bisogno sociale di tutelare l’affidamento nascente dal contratto rimaneva chiaramente avvertito. In un ambiente dominato dal procedimento formulare si dovette procedere mediante adattamenti dei writs piu flessibili e dotati di una procedura piu moderna di quelli derivati dal trespass. Questa evoluzione si svolse (non senza acuti contrasti di idee) lungo il corso di almeno due secoli sempre procedendo lungo una catena di analogie tra casi simili. Il punto di partenza fu assicurato dalla naturale ambivalenza di alcune ipotesi di inadempimento di obbligazioni di “fare”. Al riguardo basti ricordare come l’esecuzione di molte obbligazioni di fare comporta un contatto molto stretto tra debitore della prestazione e la sfera giuridica del creditore (ESEMPIO se si vuole che un artigiano ripari un aggeggio occorre permettere che quest’ultimo detenga e maneggi l’oggetto in questione; la stessa cosa per chi affidi il proprio corpo ad un medico o ad un chirugo perché lo sani; occure ancora nel caso di chi si faccia trasportare oppure si faccia trasportare cose proprie da altri ). In tutte queste ipotesi può accadere che l’artigiano malaccorto fracassi l’aggeggio che doveva riparare, che il chirurgo inocmpetente storpi il corpo che deve sanare, che il vettore imprudente trascini in aqua le persone e le merci che doveva traghettare. Questi eventi disgraziati possono essere visti alternativamente sotto il profilo della responsabilità per inadempimento contrattuale oppure sotto quello della responsabilità extracontrattuale per il torto arrecato al proprietario dei beni o per la lesione arrecata all’integrità fisica altrui. Nel diritto civile italiano attuale si adotta la regola del cumulo delle due forme di respnsabilità che lascia all’attore la scelta tra l’agire a titolo di responsabilità contrattuale oppure a titolo di responsabilità extracontrattuale. Poiché nel common law era penalizzante (come abbiamo visto) agire a titolo di responsabilità contrattuale, ci si rivolse all’ottica degli illeciti extracontrattuali (torts). In tema di torto il trespass on the case (spogliato del requisito della violenza a mano armata) era pronto ad accogliere simili casi. Nel celebre “Humber Ferry Case” del 1348, l’attore agiva per trespass on the case nei confronti di un traghettatore cui aveva affidato una cavalla perché la trasportasse sulla riva opposta del fiume Huber. Il traghetto si era rovescaito e la cavalla era annegata. Il traghettatore convenuto si difese asserendo che i suoi rapporti con il proprietario della cavalla erano regolati da un contratto e perciò costui avrebbe dovuto agire con il writ of covenant . però la sentenza fu nel senso che rovesciare un’imbarcazione ed annegare una cavalla era comunque un trespass e che era irrilevante l’esistenza di un contratto. Inizialmente dunque si ragionò in questi termini: se un maniscalco promette di ferrare un cavallo, e agendo in maniera malaccorta conficca un chiodo nella carne del cavallo, azzoppandolo si è di fronte ad un caso di invasione illecita della sfera giuridica altrui, infatti l’autorizzazione a maneggiare il cavallo è limitata all’ipotesi di ferratura a regola d’arte la quale contempla che i chiodi siano messi nello zoccolo del cavallo e non nella sua carne. In questa ultima ipotesi si è di fronte al classico trespass on the case, ed è chiaro che al maniscalco malaccorto non serve invocare il contratto perché il contrato non lo autorizza ad azzoppare l’animale. Raggiunto questo stadio, la coerenza del sistema venne posta in situazione di sofferenza, perché risultava ad esempio che il medico il quale curava male il paziente poteva rispondere per trespass, il che equivaleva a dire che poteva essere ritenuto responsabile il medico che avessse somministrato medicamenti risultati inefficaci; mentre se un medico prometteva di curare e poi non faceva nulla (ossia non vedeva nemeno l’ammalato né gli prescriveva alcun farmaco) così che l’ammalato periva, non poteva in alcun modo essere convenuto con il writ di trespass on the case, perché non vi era stata alcuna invasione della sfera giuridica altrui. Ragionando su quest’eventualità, i giuristi inglesi si convinsero che anche l’ipotesi di non fare poteva essere repressa con un rimedio tratto dal trespass: il passaggio cruciale tra l’ipotesi di mal fare e quella di non fare fu facilitato dall’idea di frode (mediante la quale il debitore inadempiente aveva raggirato il creditore deluso). La frode può essere in qualche modo ricollegabile all’idea di una illecita invasione della sfera giuridica altrui, ma perché l’analogia sia percepibile occorre che la macchinazione abbia dato frutti (ossia che il creditore deluso abbia pagato in anticipo la sua controprestazione): solo in questio caso infatti l’ipotesi di chi con artifici e raggiri induce un altro a cavare fuori dalla propria tasca una somma di denaro può essere accostata all’ipotesi di chi allunga la mano nella tasca altrui per cavarne del denaro. Però questa analogia era ammissibile perché ormai i giuristi inglesi ragionavano in termini di contratto e quindi ciò che scorgevano nel pagamento anticipato era un “executed consideration” atta a sorreggere la vincolatività della contropromessa: ciò che quindi la vittima della supposta frode otteneva a titolo di danno non era solo la restituzione di quanto aveva già pagato, ma il danno sofferto per aver confidato nella esecuzione della controprestazione(danno che comprendeva anche il lucro cessante). Era solo per calarla nello stampo del writ of trespass on the case che quest’ottica contrattualistica venne distorta e torturata. Se l’analogia tra frode e mal fare poteva sorreggere una azione in case per responsabilità contrattuale [quando la parte delusa avesse già adempiuto (executed consideration)], rimase invece dubbio e discusso tra i giudici delle diverse corti di common law se lo stesso rimedio fosse esperibile nel caso in cui le parti avessero solo programmato due controprestazioni. La questione che si trascinò con sentenze confliggenti per parecchi decenni, fu risolta nel “Slade’s Case” (che fu discusso a lungo fra il 1597 e il 1602): in quel caso Slade sostenne di essersi accordato con un certo Morley per vendergli il proprio raccolto ad un prezzo prefissato, ma di essere rimasto deluso. Al riguardo la giuria aveva accertato che l’accordo era stato effettivamente concluso, ma che Morley non aveva fatto una promessa unilaterale di pagare la somma pattuita ma solo concluso un affare: si trattava dunque di accertare se nella struttura di un affare come quello fosse implicita la promessa vincolante di eseguire la propria prestazione (anche se, ovviamente, Slade non aveva ancora eseguito la propria prestazione dato che il raccolto non era ancora maturato). La risposta affermativa a questa domanda aprì definitivamente le porte alla tutela delle promesse contrattuali sorrette da una controprestazione che poteva però essere solo promessa (executory consideration) anziché essere già eseguita (executed consideration) ed a questo punto la funzione del requisito della consideration cambiò segno e da elemento cui ricollegare l’idea della frode divenne un requisito richiesto per verificare che la promessa fosse seria ed atta a suscitare un affidamento tutelabile. Pertanto i writs of debt e covenant, ed il connesso wager of law, vennero totalmente accantonati e l’assumpsit (nelle varie forme speciali tra le quali la principale era quella di indebitatus assumpsit , cioè la promessa di pagare una somma di denaro) divenne la form of action nella quale venne riversata la problematica contrattuale. L’origine delittuale del rimedio non è però rimasta senza effetti. Ancora oggi i common lawyers vedono il contratto nell’ottica della tutela dell’affidamento del destinatario di una promessa vincolante, la cui tutela è parzialmente fungibile con quella offerta dalla law of torts mentre rimane estranea alla loro mentalità giuridica l’idea che il contratto in sé, in quanto in idem placitum consensus, sia una valida fonte di obbligazioni. 4.LA TECNICA DEL PLEADING Il sistema dei writs deve essere collocato nel contesto del processo. Si è già ricordato come il procedimento dei writs in forma trespass prevedesse una scissione tra l’accertamento del fatto storico accaduto (demandato ad una giuria ) e la sussunzione del fatto così come accertato dalla giuria nella formula del writ invocato dalll’attore (attività riservata ai guidici). La scissione tra fatto e diritto richiede una cucitura. Il nesso tra le due fasi è stato assicurato dal meccanismo del pleading. La trattazione di una causa iniziava con il racconto del fatto da parte dell’attore: questa narrazione doveva essere evidentemente armonica con il tipo di rimedio invocato. Nella narratio (detta anche count), l’avvocato dell’attore esponeva davanti al tribunale i fatti su cui si basava la pretesa del suo cliente. Poiché il processo si svolgeva davanti ad una giuria di semplici cittadini ai quali occorreva porre una domanda seplice alla quale potesse rispondere con un si o con un no, si doveva creare una contraddizione tra le due parti in punto di fatto, ossia creare una situazione in cui l’attore affermava un certo fatto e il convenuto lo negava, sicchè questa contraddizione poteva essere sciolta con il verdetto della giuria. La logica che presiedeva a questo itinerario era quella tipica medievale che tendeva a risolvere i dilemmi conducendo a formularli in modo tale che la loro risposta potesse essere solo un “si” o un “no” . perciò dopo che l’attore avesse fatto la propria esposizione dei fatti , toccava al convenuto replicare e questi poteva logicamente scegliere tra quattro possibilità: il covenuto poteva negare tutto (general traverse: in questo caso creandosi la contraddizione il caso poteva essere sottoposto alla giuria avanti la quale ciascuna parte produceva le sue prove) il convenuto poteva ammettere che fatti narrati dall’attore erano veri (in questa ipotesi il caso non veniva sottoposto alla giuria, in quanto non si era creata una situazione di conflitto tra le parti: non vi era un exitus –o issue- su cui la giuria dovesse pronunziarsi) il convenuto poteva ammettere alcuni fatti e negarne altri ( special traverse: in questa ipotesi solo i fatti contestati erano sottoposti alla giuria perché solo rispetto ad essi si era creata la contraddizione che richeideva la risposta della giuria) il convenuto poteva ammettere i fatti narrati dall’attore, ma agiungerne altri tendenti a svuotare l’esposizione dell’attore del suo significato giuridico (confession and avoidance). Ad esempio il convenuto in un’azione di trespass vi et armis (il quale dunque veniva accusato di aver picchiato/ferito/malmenato l’attore) poteva ammettere i fatti narati dall’attore ma aggiungere che aveva fatto tutto ciò nella sua qualità di aiutante dello sceriffo, nel mentre l’attore tentava di sottrarsi alla cattura: in questa ipotesi il caso non poteva essere sottoposto subito alla giuria perché in base ai fatti narrati da entrambe le parti non si era creata alcuna contraddizione tra le due parti. Piuttosto, la parola tornava all’attore il quale doveva prendere posizione rispetto ai fatti aggiunti dal convenuto: se li nevaga si creva immediatamente un issue da sottoporre alla giuria, ma se li ammetteva la giuria diveniva inutile poiché il problema era di diritto e spettava ai giudici risolvere la questione relativa all’uso legittimo della forza nell’esecuzione di un arresto. È ovvio che in questa schermaglia (spesso paragonata al gioco degli scacchi perché alla mossa di una parte corrisponde la contromossa dell’altra) ciascuna cercava di creare l’exitus sul terreno che le era più favorevole. Si pensi alla seguente situazione esemplificativa: se si sa che l’attore può addurre numerosi testimoni in grado di riferire di aver visto il convenuto mentre malmenava l’attore ed inoltre costui può esibire alla giuria numerose echimosi sul proprio corpo non conviene al convenuto scegliere la strada di negare tutto (general traverse) ma conviene trovare qualche scusa (confession and avoidance) come ad esempio narrrare che l’attore ha assalito il convenuto prima dell’arrivo dei testimoni sulla scena. Al di là di questo esempio, è facile intuire quale grado di elevato tatticismo richieda il c.d. pleading, e come da ciò derivi la necessità per le parti di farsi assistere da avvocati esperti e dotati di un cervello non torpido. In effetti, nel contesto del processo completo (che comprendeva tanto l’accertamento del fatto quanto la sua valutazione giuridica) la seconda possibilità che si apriva al convenuto (cioè quella di ammettere i fatti narrati dall’attore) aveva due volti: o si ammettevano i fatti e non si disputava attorno alla loro rilevanza ai fini dell’accoglimento della domanda (e con questa la lite era perduta) oppure si ammettevano i fatti ma si disputava attorno alla loro rilevanza giuridica: Demurrier è il nome tecnico di quel pleading in cui il covenuto sostiene che i fatti narrati dall’attore sono veri ma da essi non discendono le conseguenze giuridiche poste a fondamento della sua domanda in questa ipotesi la questione diviene di puro diritto e spetta ai giudici e non alle giurie decidere la questione. Nonostante i numerosi mutamenti delle regole processuali, il demurrier si è preservato anche per ragioni di economia processuale, in quanto è inutile procedere alla raccolta delle prove ed alla fase di verdetto della giuria quando i fatti narrati dall’attore , anche se debitamente provati, non possono produrre le conseguenze giuridiche da quest’ultimo sostenute. 5.LE CONSEGUENZE DI LUNGO PERIODO DEL SISTEMA DEI WRITS Narra Grant Gilmore che nell’autunno del 1941 un gruppo di studenti della Yale Law school decise di cheidere al preside della stessa un corso sulle forms of action at common law, corso che non era previsto nel piano di studi per la buona ragione che non avrebbe dovuto interessare a nessuno. Il corso fu tenuto dallo stesso Gilmore che, rievocando a molti anni di distanza quel singolare episodio si chiede che cosa gli abbia insegnato: “sostanzialmente ci insegnò molto sull’uso e gli usi delle parole”. Secoli di fatiche trascorse sulle formule hanno lasciato in eredità al giurista di common law l’arte di interrogarsi criticamente sull’uso delle parole, sul loro significato, sulle situazioni che possono (e non) essere ricondotte a tale significato. L’indubbia frammentazione che il sistema dei writs impose al corpus del diritto inglese, impedì di operare attraverso gerarchie di concetti, perciò il giurista , che non poteva tentare di risalire da un’idea ad un concetto più generale che la ricomprendesse, ripiegò sulle parole, problematizzando al massimo grado l’esplorazione analitica del loro significato (ma sempre conservando il principio per cui il linguaggio è una istituzione sociale e pertanto il significato delle parole non può essere stravolto dall’argomentazione del singolo). Un secondo atteggiamento mentale è rimasto caratteristico ai common lawyer: la capacità di ragionare per analogia da un caso all’altro. Lo sviluppo del trespass e del traspass on the case , costituiscono il paradigma storico di questa capacità. Essa è tuttavia rimasta ancora oggi una caratteristica essenziale per il giurista che faccia riferimento al criterio del precedente giudiziale. Non si può infatti utilizzare correttamente la giurisprudenza come guida alla scoperta del diritto senza l’abilità a ragionare per analogia da un caso all’altro. Il che comporta essenzialmente la capacità di distinguere un caso dall’altro ; ed in definitiva di cogliere il giuridicamente rilevante nell’insieme dei fatti accaduti. Un terzo retaggio del sistema delle forms of actions è la tendenza dei giuristi inglesi a ragionare a fattispecie svincolate dal sistema complessivo e quindi senza procedere al loro inserimento in una gerarchia di concetti formali, ma rapportando ciascuna fattispecie ad un sistema di valori sociali. 6.LA COURT OF CHANCERY E L’EQUITY Dopo la chiusura del registro dei writs nel 1258, il common law amministrato dai giudici di westminster seguì una crescita organica , ma lenta. Le gabbie delle forms of action servirono a radicare nella coscienza degli operatori, quei principi di legalità e di prevedibilità del diritto i quali trovavano attuazione nella adesione alle forme tradizionali e nella adesione spontanea alle decisioni precedenti, sicchè non era possibile attuare alcun cambiamento senza vincere accanite resistenze, con l’ovvio risultato di rallentare l’evoluzioni del common law. La velocità dei cambiamenti economico-sociali è invece determinata da ben altri fattori, perciò è inevitabile che si creino discrasie tra le due velocità di mutamento. nella vita di qualsiasi comunità vi sono momenti in cui la storia sembra accelerare il suo corso poiché si assiste ad un numero elevato di cambiamenti in un arco ristretto i tempo. L’inghilterra a partire dal XV secolo entrò in una di quelle fasi di accelerazione della storia che sono desinate a mettere in crisi il sistema giuridico vigente: nel XV secolo , quando l’inghilterra entrò pienamente nel circuito mercantile europeo ed importò dal continente gli ideali e gli atteggiamenti della cultura umanistica, l’accelerazione della storia fu un fenomeno meno drammatico rispetto al terribile shock tecnlogico connesso alla prima rivoluzione industriale (altra fase di accelerazione della storia), tuttavia bastò a porre in risalto tutte le lacune del common law. Di fronte ad una domanda di giustizia che non trovava udienza presso le corti di Westminster, né poteva trovarne altrove, la valvola di sfogo su un ritorno alle prerogative del sovrano. Conformemente agli ideali medievali, il sovrano aveva sempre conservato il potere-dovere di rendere giustizia, ma poiché questa funzione era stata delegata ai giudici dal re, questo potere-dovere rimaneva solo a livello teorico e le sue sporadiche incarnazioni riguardavano interventi a favore di soggetti svantaggiati a tal punto da non potersi permettere le spese della giustizia ordinaria. Lo stato delle cose cambiò in modo sostanziale nel periodo considerato quando il sovrano cominciò ad essere investito da un numero crescente di suppliche da parte di coloro che non potevano ricevere giustizia nelle corti regie per ragioni tecniche e quindi il grosso delle questioni per le quali si chiedeva l’intervento diretto del sovrano cessò di riguardare i poveri/deboli/ oppressi , per concernere invece dispute attinenti la Real Property (dispute sorte come conseguenza del diffondersi della prassi degli uses e , poi , del trust). La quantità di simili richieste di intervento ex gratia, creò la necessità di ammministrarle in un qualche modo, e la modalità concretamente attuata chiamò in causa la figura del cancelleire ed il suo ufficio: sotto il profilo formale si trattava della persona adatta perché le suppliche rivolte al sovrano si appellavano alla sua coscienza e il cancelliere (il quale come si è ricordato era normalmente un vescovo) non era solo il più alto funzionario del regno , ma anche il confessore del re e veniva quindi considerato “the keeper of the king’s consciensce” (rettore della coscienza del re): pertanto delegando ad esso la cura delle supppliche che gli erano rivolte, il sovrano metteva la propria coscienza in pace e risparmiava tempo. Più concretamente, il cancelliere era la persona adatta allo scopo perché la sua cultura gli consentiva di scorgere la giustizia nel contesto di un’etica di matrice religiosa largamente condivisa e poi perché, essendo un personaggio potente , aveva i mezzi per farsi ubbidire. La procedura davanti al Cancelliere era assai informale ed iniziava con una petizione in cui l’attore lamentava una ingiustizia. La petizione poteva essere scritta (Bill) oppure orale. Il cancelliere se si persuadeva che vi era materia per un suo intervento chiamava il convenuto mediante un semplice atto di citazione detto writ of subpoena (perché vi si annunciava una penalità in denaro se il convenuto non fosse comparso). L’accertamento dei fatti seguiva un modello sostanzialmente inquisitorio (ed infatti il writ of subpoena non conteneva l’enunciazione delle ragioni per cui il convenuto era chiamato avanti il cancelliere). Non vi erano termini processuali: l’inchiesta andava avanti con i suoi ritmi dettati dalla necessità di accertare la verità. Giudice era il cancelliere, mai una giuria. Poiché il cancelliere esercitava una giurisdizione di coscienza egli mirava anche a mondare l’anima dell’autore dell’ingiustizia. La sua giurisdizione era quindi solo in personam, perché quando l’autore dell’ingiustizia avesse riparato convenientemente il torto commesso e si fosse mondato la coscienza , tutto era concluso nel migliore dei modi. Perciò non si tenevano registri in cui registrare l’accertamento o l’attribuzione di un titolo di proprietà: simili accertamenti avrebbero avuto effetti nei confronti di terzi e ciò fuoriusciva dagli scopi dell’intervento del cancelliere. Nemmeno la condanna al pagamento di una somma di denaro sembrò un rimedio adeguato perché incide sul patrimonio del condannato e quindi sul tenore di vita della sua famiglia e dei suoi eredi: piuttosto dunque il cancelliere preferiva emanare ordini di fare o non fare. Inizialmente non vi era un vero e proprio diritto di equity, nel senso che non esisteva un corpus di regole giuridiche costituenti un ordinamento specifico: le regole applicate erano grosso modo quelle della morale cristiana (in virtu delle quali bisogna mantenere la parola data, altrimenti si commetteva il peccato di spergiuro, non si deve fare violenza ad altri, non si deve frodare il prossimo, non si deve approfittare della debolezza o ignoranza altrui ecc…). nell’applicare queste norme di giustizia etica, il cancelliere non poteva però contraddire le regole di diritto positivo (ossia, in larghissima misura, quelle di common law) perché non poteva sostenere che esse erano ingiuste. Poteva però sovvertirne il risultato ricorrendo ad un espediente retorico: il cancelliere sosteneva infatti che le regole in sé (cioè in astratto) erano giuste però in fatto la parte convenuta ne aveva abusato distorcendole a fini di ingiustizia (ESEMPIO: una parte prometteva all’altra di trasferirgli una proprietà immobiliare e poi non poneva in essere l’atto formale di trasferimento: la regola di diritto attribuiva la proprietà al promittente e non al promissario. Quest’ultimo poteva ricorrere a rimedi contro le promesse non mantenute per farsi risarcire in denaro il danno sofferto. Il cancelliere però poteva guardare lo stesso fatto in tutt’altra ottica e considerare il mancato perfezionamento dell’atto formale di trasferimento come lo strumento mediante il quale si era ottenuto un risultato ingiusto. Quindi poteva ingiungere al promittente di effettuare l’atto di trasferimento e nel contempo proteggere le aspetative del promissario ingiungendo ad un terzo che avesse manifestato l’intenzione di rendersi acquirente del medesimo bene di astenersi dall’acquistarlo). Nell’ottica di una giustizia basata sulla morale cristiana, il formalismo non ha alcuno spazio, pertanto i diritti potevano essere attribuiti a Tizio o a Caio prescindendo completamente dal formalismo negoziale di cui era ricca la common law. Perciò anche i titoli di credito , che basavano la loro celerità e certezza proprio su requisiti di forma, non resistevano all’indagine del cancelliere. Se si convinceva che un bond era stato ottenuto in modo ingiusto, il cancelliere non negava che il bond fosse valido, ma ingiungeva al suo possessore di non esigerne il pagamento; viceversa se una parte deteneva un documento comprovante le ragioni dell’altra il common law non riteneva che essa dovesse privarsi di una sua proprietà per favorire l’avversario in quanto è nella natura dei diritti soggettivi il fatto di essere previsti a favore e non contro i suoi interessi… però il cancelliere scorgeva nella mancata esibizione di un documento che dimostrasse le ragioni della controparte un attentato alla giustizia oggettiva ed un uso egoistico del diritto contrastante con i precetti dell’altruismo cristiano:perciò non aveva dubbio nell’ordinarne la produzione in guidizio. 7.UNA CREAZIONE DELL’EQUITY Il successo dell’equity venne anche facilitato da un fatto accidentale ossia la protezinoe che essa offrì ai trusts. Semplificando il discorso storico, basti ricordare che era diffusa la prassi di affidare un patrimonio (specie immobiliare) a qualcuno “fiduciae causa”. Scopo del trust era quellaodi garantire la riservatezza. In termini astratti ed universali, è ovvio che se qualcuno intesta a se stesso una grande proprietà o un cospicuo patrimonio, inevitabilmente appare. Chi non vuole apparire agli occhi della gente, e mantenere così il riserbo sulla sua sostanza economica può intestarla a qualcun altro (nel quale riponga fiducia) in modo da mantenerne il controllo, senza dover necessariamente apparire. Il common law non aveva e non poteva avere nel proprio arsenale di writs alcun riemedio atto a proteggere le aspettative del fiduciante: infatti non solo il fenomeno delle intestazioni fiduciarie era sconosciuto nell’inghilterra del periodo formativo del common law (e dunque nessun “breve” presente nel registro della cancelleria prima dle 1258 poteva riguardare i rapporti fiduciari) ma soprattutto è da sottolineare come il trasferimento fiduciario per sua natura esige che il passaggio della proprietà del fiduciante al fiduciario avvenga nel più scrupoloso rispetto delle forme previste dal dirito civile, altrimenti l’intestazione fiduciaria mancherebbe il suo scopo principale. Il common law del resto era terreno fertile per questo tipo di trasferimenti fiduciari poiché, concependo il passaggio della proprietà secondo il modello dell’investitura (cioè per atto di attribuzione unilaterale) non richiedeva che la ragione del trasferimento (vedinta o donazione) fosse espressa nelll’atto di attribuzione. Forse le corti di common law sarebbero riuscite ad offire una quache protezione ai fiducianti, ma poiché la loro evoluzione fu lenta rispetto alla pressione della domanda sociale, la giurisdizione del cancelliere arrivò prima a proporre una soluzione soddisfacente (accapparrandosi con ciò l’intera materia dei trusts). Il dato fondamentale è che se qualcuno riceve un cospicuo patrimonio a titolo di fiducia (cioè senza dare nulla in cambio) promettendo di amministarlo con cura nell’interesse del fiduciante (di cui evidentemente si è previamente conquistato la fiducia) ma poi non mantiene la promessa fatta ed approfitta dela intestazione formale per godere del patrimonio acquistato gratis a proprio esclusivo vantaggio, costui è (sotto il profilo del giudizio morale) un cialtrone fatto e rifinito. Esaminiamo ora un esempio di quello che poteva accadere in un caso paradigmatico: “Sir John, ricco signore ha un solo erede (Albert), il quale secondo il padre è debole di carattere, tardo di comprenodonio e frequentatore di cattive cmpagnie. Preoccupato di ciò sir john trasferisce fiduciariamente tutto il suo patrimonio a mr. Coke (vecchio avvocato di famiglia da sempre suo fidato consigliere d’affari) con l’intesa che coke amministerà detto patrimonio , ne verserà le rendite a Sir John sinchè questi è in vita e dopo la sua morte, verserà una rendta mensile di tot sterline a favore di Albert. Alla morte di Albert trasferirà tutto il patrimonio ai suoi eredi. In questo schema il fiduciante Sir John diviene il costituente di un trust (fiduciante) e danche il primo beneficiario (beneficiary) di esso; mr.coke assume la posizione di fiduciario (trustee), albert il secondo beneficiario e i suoi eredi i beneficiari susseguenti. In tal modo sir. John conta di realizzare quattro obiettivi : a) far apparire Albert come pressochè nullatenente (il che diraderà sicuramente il numero di amici scrocconi usi a ronzargli attorno) b) non diminuire il proprio tenore di vita (poiché le sue rendite rimarranno invariate) c) garantire a suo figlio albert un livello di reddito soddisfacente (proteggendolo contemporaneamente dalla sua leggerezza d) perpetuare le fortune della famiglia agli eredi di Albert. Se però, contrariamente alle attese ed alla fiducia in lui riposta, Mr. Coke, alla morte di Sir John prende a comportarsi come pieno proprietario di cià che gli è stato trasferito (defraudando sia Sir Albert che i suoi eredi legittimi) è chiaro che un cancelliere il quale sia guardiano della giustizia ha ampi motivi ad intervenire. Tuttavia sarebbe controproducente un intervento del cancelliere che impartisse a Mr. Coke di restituire tutti i beni ricevuti da Sir John a Sir Albert: da un lato contraddirebbe infatti l’attribuzione operata in base alle regole di common law (in base alle quali Mr. Coke è divenuto pieno e legittimo titolare del patrimonio in questione); dall’altro rovinerebbe (con riguardo ai punti A,C, D) il congegnato piano architettato ed attuato da Sir John. Dunque il cancelliere non ordinerà mai al trustee di restituire i beni ma piuttosto gli ordinerà di comportarsi come trustee e non come proprietario nel proprio interesse: con ciò lo schema del trust viene preservato ed il common law non viene contraddetto, anzi si potrà dire che “equity follows the law”. Mr. Coke, da buon avvocato, prevendoo le mosse del cancelliere potrebbe cedere ad altri tutti (o gran parte) dei beni ricevuti da Sir John. In tal caso si prospettano due ipotesi: 1. Nella prima, la cessione avviene a titolo oneroso ed allora in luogo dei beni primitivi si troverà il corrispettivo, sicchè il patrimonio del trust sarà grosso modo quello di prima e quindi Mr Coke continuerà ad essere gravato dell’obbligo di comportarsi come trustee rispetto a ciò che ha ricevuto come corrispettivo: il cancelliere riterrà che l’alienazione dei beni del trust è stata attuata dal trustee in vista del miglior rendimento e considera i nuovi beni come oggetto di obbligazione fiduciaria esattamente come quelli precedenti. SE il corrispettivo risulterà inferiore al valore dei beni primitivi, senza che esista una valida scusante, Mr. Coke dovrà risarcire i danni attigendo al proprio patrimonio (il che è ovvio trattandosi di inadempimento all’obbligo assunto con l’atto costitutivo) 2. Nela seconda, il trasferimento avviene a titolo gratuito: in caso il terzo acquirente si troverà nella posizione di chi cerca di preservare un vantaggio con danno altrui. Dunque il cancelliere gli ordinerà di comportarsi come un trustee e non come un proprietario normale. 8.LA DIALETTICA TRA GIUSTIZIA E LEGALITA’ E LA FASE DI CONTRAPPOSIZIOEN TRA COMMON LAW ED EQUITY L’adesione delle decisioni assunte in materia di trust al sentimento comune irrobustì il consenso attorno alla giurisdizione in equity del cancelliere. Del resto gli stessi common lawyers erano beno contenti di sgravarsi del difficilie compito di risolvere simili casi: 1) se avessero continuato a denegare giusti rimedi ai fiducianti , sarebbero incorsi nel biasimo dell’opinione pubblica ; 2) se sostituirsi al cancelliere in simili compiti avrebbe comportato un radicale distacco dalle formule tradizionali scuotendo quindi la certezza del diritto. 3) invervenire in materia di rapporti fiduciari avrebbe comportato la necessità di immischiarsi nella ricostruzione dei fatti perdendo la distinzinoe tra questioni di fatto (devolute al verdetto delle giurie) e questioni di diritto (riservate invece al giudizio dei giudici) con conseguente smarrimento di tutta la procedura di common law che era il cardine del loro agire. Ma i nodi vennero poi al pettine. Un sistema di regole di diritto esiste essenzialmente per poter allocare con passabile precisione diritti e doveri (anche quando sul piano morale torto e ragione siano frammischiati). Viceversa una giustizia che si fondi unicamente sui precetti della morale funziona bene solo quando si tratti di rimediare ad una ingiustizia clamorosa sulla cui valutazione tutti consentono. Al di fuori di questi casi, una giustizia equitativa corre tre tipi di pericolo: 1. In primis, può corrispondere ad una equità cerebrina (cioè basata su valutazioni soggettive del giudicante non prevedibili da altri)con consenguente possibile vulnus inflitto alla certezza del diritto e certa lesione del sentimento di giustizia comune; 2. In secondo luogo, le regole morali sono normalmente formulate in modo piuttosto ampio ed elastico, pertanto esse non possono offrire soluzioni certe almeno nei casi complicati. E l’incertezza del diritto favorisce invece la corruzione dei giudicanti. 3. Il terzo rischio è che la giustizia equitativa diventi strumento della lotta politica e dunque sia usata per angariare i nemici e proteggere gli amici. Fu nel corso della contrapposizione con l’equity che i giudici di common law seppero precisare in formule dotati di grande efficacia quei principi e quei valori di legalità i quali costituivano il sostrato della loro giurisdizione e che da allora in poi divennero patrimonio storico delle istituzioni anglosassoni. Secondo una ricostruzione storica,protagonisti principali della contrapposizone tra common law ed equity furono Lord Ellesmere (cancelliere di Giacomo I Stuart) e Sir Edward Coke (avvocato e uomo politico). Il conflitto tra common law ed equity si svolse su tre piani: un piano giuridico-tecnico in primis, perché i cancellieri avevano iniziato ad intromettersi in materia di contratto per esentare dal dovere di adempiere la parte che fosse stata vittima di dolo o di errore. Questa intromissione comportava la possibilità che il giudizio espresso dalla Corte Di Cancelleria fosse diverso ed anzi opposto a quello espresso in precedenza da una corte di common law. Benchè non si trattasse d’appello in senso tecnico (in quanto i cancellieri non rivedevano affatto il giudizio delle corti di common law) è evidente però che chi giudica per secondo ed ha il potere di ribaltare con il proprio giudizio l’esito materiale della lite, viene naturalmente percepito come giudice superiore. E proprio questo esito fattuale era ciò che i giudici di common law non potevano accettare. Coke si ribello a simili intromissioni con energia, incoraggiando le parti soccombenti a sfidare le ingiunzioni dei cancellieri, liberandoli poi dalle prigioni in cui venivano rinchiusi ed invitandoli ad agire contro chi li aveva trascinati avanti la Corte Di Cancelleria per ostruzione alla giustizia. Al colmo della controversia, Coke minacciò gli avvocati che avessero patrocinato cause avanti la Corte Di Cancelleria di escluderli dal patrocinio avanti le corti di Common Law. Questa crisi fu risolta da un decreto di Re Giacomo I del luglio 1616 in cui si stabilì che in caso di conflitto tra common law ed equity, quest’ultima avesse la prevalenza. Ma intanto la controversia si era diffusa su un altro piano, quello dei rimedi. I giudici di common law avevano infatti usato i c.d. prerogative writs per contrastare e nullificare gli ordini del cancelliere. Ciò rese manifestato il principio per cui sono i giudici e non i funzionari del re coloro che hanno l’utima parola in tema di libertà delle persone. Questo secondo livello di scontro portò ad un terzo di carattere politico. Se i giudici di common law volevano guadagnarsi la fiducia ed il rispetto della gente , non bastava che essi amministrassero rimedi astrattamente idonei a tutelare i diritti dei cittadini, dovevano anche apparire indipendenti rispetto al sovrano così da poter garantire imparzialità ed equità di giudizio anche nel caso in cui si trattasse di giudicare persone che dal sovrano erano malviste in quanto suoi oppositori politici. In teoria i giudici di common law erano funzionari del re esattamente come gli altri e perciò il sovrano così come delegava ad essi il compito di aministrare la giustizia regia in suo nome, poteva ritirare la delega (ossia poteva licenziare un giudice con la giustificazione che lo aveva dispiaciuto). Tuttavia questa teoria configurava i rapporti tra sovrano e giudici esattamente come essi erano agli inizi, mentre nel corso della storia il common law aveva elaborato le proprie regole ed i propri principi indipendentemente dalla volontà normativa del sovrano e, dunque, i creatori di tale diritto percepivano se stessi come (almeno parzialmente) indipendenti dalla volontà del sovrano. Quando la crisi tra common law ed equity giunse al suo culmine nel 1616, re Guglielmo I chiamò i giudici avanti a sé per chiedere ad essi se si sarebbero astenuti dal giudicare un caso qualora il re lo avesse ordinato. Tutti risposerò di si, a parte Coke il quale disse che quando il caso fosse giunto avanti la corte avrebbe fatto ciò che per un giudice era appropriato fare. Questa risposta sottolineava che il principio di imparzialità rendeva comunque inappropriato per un giudice enunciare preventivamente come avrebbe giudicato prima di aver sentito le ragioni delle parti. Ma la risposta aveva implicazioni maggiori, poiché la domande di Re giacomo sottointendeva una questione fondamentale: se si ammetteva infatti (come tutti fecero) che i giudici del re non facessero altro che applicare la legge del regno, si poteva dedurre come l’ordine del sovrano di astenersi dal giudicare un caso equivalesse all’ordine di non applicare la legge a quella controversia e, dunque, rispondere affermativamente equivaleva ad ammettere che il sovrano è superiore alla legge. Ciò era invece quello che Coke non voleva ammettere perché , basandosi sulla consuetudine costituzionale inglese attestata sin dai tempi di Bracton, Coke sosteneva che il sovrano è soggetto a Dio ed alla legge. Ci si poteva chiedere però se il Re stesso potesse giudicare un caso sottraendolo alla cognizione dei suoi giudici. Re Giacomo pose anche questa questione, che era ancora piu imbarazzante della prima: in effetti non solo negare ad un sovrano la possibilità di giudicare comporta una valutazione negativa circa le sue capacità intellettuali, ma anche sotto il profilo tecnico fa parte del comune bagaglio delle conoscenze giuridiche che quando il delegante compare sulla scena, il delegato perde automaticamente la facoltà di rappresentarlo e quindi cessa dall’esercizio dei poteri a lui delegato. Perciò negare al sovrano la possibilità di giudicare al posto dei suoi giudici significava disconoscere il carattere delegato della funzione giudiziaria. La risposta di Coke fu assai ingegnosa: egli ammise che il sovrano era dotato delle piu grandi doti di intelligenza e di senso del giusto ma negò che potesse giudicare in una corte di common law perché il diritto quivi applicato non corrisponde alla ragione comune ma è il frutto di una ragione artificiale che non si può apprendere e padroneggiare senza lungo studio ed esperienza. In tal modo la indipendenza politica dei giudici venne ancorata all’autonomia del discorso giuridico rispetto a tutti gli altri tipi di discorsi (morali/politici/filosofici) dando così uno sbocco concreto e rilevante a quel sentimento di autonomia del giuridico che si era affermato come conseguenza della sua creazione da parte di un gruppo di specialisti. Naturalmente dopo simili risposte Coke venne licenziato in quelllo stesso anno così come parecchi altri giudici nei decenni successivi (incorsi nel “dispiacere” di Giacomo I e di Carlo I) ma le parole di Coke rimasero come modello ed esempio di ciò che deve fare e dire un buon giudice , e la pressione politica fu tanto forte da costringere nel 1642 Carlo I a nominare i giudici con un incarico a vita e non sino a quando al sovrano fosse piaciuto mantenerli nella carica. Con la cacciata degli Stuart e il nuovo assetto costituzionale Inglese, venne capovolto il risultato attinto nel 1616 : questo perché molte delle attività svolte dai sovrani e dai cancellieri precedenti vennero considerate come l’incarnazione dell’arbitrio. In questo nuovo clima plitico-costituzionale, la Corte Di Cancelleria potè sopravvivere grazie al fatto che la giurisdizione del cancelliere seppe adeguarsi al nuovo clima di legalità ed assunse le forme di una giurisdizione speciale, ma prevedibile. Inizialmente l’equity non si era sentita legata a regole, ma solo alla giustizia: tuttavia il suo svolgimento storico aveva reso palese come senza l’adesione a regole generali ed astratte non vi può essere garanzia che casi analoghi vengano risolti in modo analogo e se casi uguali sono sirolti diversamente si lede l’eguaglianza e non si fa giustizia. Fu così che la giustizia del cancelliere si cristallizzò in certe materie , nelle quali l’utilità del suo intervento era universalmente riconosciuta (come quella dei trusts); mentre altre materie (come quella contrattuale) si ritirò prudentemente e già nel 1675 si disse che un contratto senza consideration vincola in coscienza ma non in equity. Dopo il 1660 le decisioni della corte di cancelleria vennero regolarmente conservate in appositi reports e furono motivate. Nel XVIII secolo la tendenza a seguire i precedenti divenne soverchiante tanto che si potette parlare di un rigor aequitatis come del rigor legis. Grazie a questo periodo di cristallizzazione l’equity potè permanere e trasformarsi in un settore del diritto inglese, con i suoi istituti/regole/princpi ben definiti, rinunciando quindi alla pretesa di rendere una giustizia secondo morale, separata e sovraordinata al sistema legale. I lasciti della giurisprudenza della Corte Di Cancelleria sono due: in primis, esiste tutt’oggi un settore del diritto inglese retto dall’equity (come la materia dei trusts, quella delle ipoteche ecc..); in secondo luogo alcune clausole generali di equity sono divenute parti del patrimonio del diritto inglese attuale. Anche quando la loro influenza non è stata tale da promuovere una giurisprudenza innovativa tuttavia la presenza di questi principi di equity condiziona il ragionamento giuridico dol common lawyer attuale. Anche al di la di essi il giurista inglese trova comunque nella propria esperienza storica una fonte di continua ispirazione ogni volta che si debbano bilanciare le ragioni della giustizia con quelle di legalità/certezza/prevedibilità del diritto. SEZIONE TERZA – LE RIFORME GIUDIZIARIE DEL XIX SECOLO E LE LORO CONSEGUENZE 1.DIRITTO INGLESE DI FRONTE ALLA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE L’uomo del XIX secolo ebbe a subire uno shock tecnologico quale non se ne ricorrevano da parecchi millenni. Oggi siamo quasi abituati a subire l’impatto del progresso tecnologico sulla nostra vita quotidiana, ma chi visse durente la prima rivoluzione industriale non aveva questa esperienza. Eppure coloro che nacquero (per esempio) nel 1800 per vivere sino a 70 anni videro la civiltà materiale trasformarsi sotto i loro occhi: naquaro infatti n un tempo dominato ancora dalla civiltà del legno e sarebbero passati a miglior vita in una civiltà del metallo. Nell’anno 1800 la velocità massima degli spostamenti su terra era quella del cavallo così come lo era nei passati millenni. Nel 1870 migliaia di km di ferrovie ricoprivano le antiche strade. La velocità degli spostamenti che prima si misurava in giorni, si misurò in ore. I trasporti di merci e derrate su lunghe distanze si svolgevano ancora in certi periodi dell’anno, quando i venti dei mari erano propizi. Verso la fine del secolo i trasporti per mare divenero regolari per tuta la durata dell’anno e con ciò si accrebbero a dismisura i volumi. Il grano americano, la carne australiana ed argentina divennero ospiti stabili delle mense europee ed il mutamento dell’alimentazione innescò un’altra grande rivoluzione. Questi mutamenti epocali della civiltà materiale investirono l’inghilterra prima di ogni altra nazione occidentale. Ma il sistema giuridico inglese fu l’ultimo ad essere formalmente aggiornato. Giova anche osservare che molte riforme inglesi furono precedute da analoghe riforme americane. Anche gli stati uniti infatti sperimentarono (in quanto sistema di common law) le medesime difficoltà di adattamento del modello giuridico importato dall’inghilterra alle necessità di una società sviluppata e sempre più complessa; però essendo l’america meno tradizionalista e coltivando invece il progresso e la sperimentazione come valori, avvenne che le riforme istituzionali che hanno cambiato totalmente il volto del common law furono introdotte e realizzate prima negli stati uniti e poi in inghilterra. In simili condizioni storiche non era possibile seguire la ricetta di Voltaire perché era proprio questo tipo radicale di riforme quello che non poteva ottenere il consenso della maggioranza. La scelta politica fu quindi quella di liberare i giudici dalle gabbie/ limitazioni/pastoie organizzative e procedurali che ne limitavano la capacità di autoriforma. In termini comparatistici, può ben sembrare che il carattere delle riforme introdotte in Inghilterra nel XIX secolo abbia istituito una ulteriore frattura tra l’esperienza inglese e quella continentale: in effetti si è già detto come la storia abbia apparecchiato una serie di occasioni in cui l’esperienza giuridica inglese si è distaccata da quelle continentali. Ma l’occasione storica di cui stiamo discorrendo è però particolarmente importante perché attiene al modo con cui due culture e due esperienze giuridica , già differenziate dalla storia precedente, hanno affrontato il problema di come adeguarsi alla civiltà industriale. Così posto , il problema dell’adeguamento delle due branche della tradizione giuridica occidentale alle sfide della civiltà industriale, la sua soluzione pare riassumibile nella contrapposizione tra un mutamento radicale ed una evoluzione progressiva. In molti paesi dell’europa continentale le radicali riforme illuministiche e l’ondata rivoluzionaria hanno mutato completamento l’assetto delle fonti del diritto già nei primi decenni del XIX secolo. È vero che molto della sapienza passata era stato travasato nelle nuove leggi, sicchè la ricetta di Voltaire non era stata attuata in alcun luogo e la continuità storica si impose in dosi piu o meno accentuate, ma ciò non toglie che il nuovo assetto delle fonti che vedeva al proprio vertice la legge dello stato, relegando a ranghi subordinati la dottrina e giurisprudenza, abbia rappresentato una cesura catastrofica rispetto al periodo precedente, nel senso che ad un equilibrio se ne era sostituito un altro diverso, anche se composto dai medesimi formanti: legge, dottrina casistica giurisprudenziale. La cesura catastrofica sta nel fatto che la posizione di questi fattori era radicalemente mutata. E tale catastrofe cominciò da subito ad incidere sulla forma mentis giuridica (cioè sulla tradizione di civil law). L’esperienza tedesca che pure aveva conosciuto per prima l’impatto delle riforme illuministiche ha rimandato grazie alla robusta reazione della scuola storica (di Savigny), l’impatto con la codificazione sino alla fine del XIX secolo, ma alla fine si arrese anche essa. Le esperienze di common law non hanno conosciuto una cesura catastrofica, ma hanno intrapreso una rivoluzione la quale, in una certa misura, non è ancora terminata. 2.LE RIFORME DELL’ORGANIZZAZIONE GIUDIZIARIA E LA FUSIOEN TRA COMMON LAW ED EQUITY Alcune di quelle che sono ricordate tra le più importanti riforme introdotte dal parlamento inglese del XIX secoolo vennero a sanzinare e consolidare risultati già sostanzialmente attinti dallo sviluppo organico del common law; altre invece furono effettivamente innovative poiché si ponevano obiettivi che erano al di fuori della portata di uno sviluppo organico del diritto per via di evoluzione giurisprudenziale. In sintesi, le riforme principali che vennero introdotte in inghilterra riguardarono: 1) l’organizzazione delle corti di giustizia 2) la fusione della competenza giurisdizionale tra corti di common law e corti di equity 3) l’abolizione delle forms of action. Le prime due riforme sono intrinsecamente connesse tra loro ed entrambe furono riforme necessariamente legislative , vale a dire che realizzano obiettivi posti al di fuori della portata di una organica evoluzione del common law tradizionale e tuttavia furono in un certo senso preparate da tale evoluzione. In ogni caso esse erano necessarie: dal punto di vista degli utenti del servizio di giustizia infatti gli inconvenienti derivanti dalla separazione tra corti di common law e di equity erano gravi e non più giustificabili . Gravi perchè la complementarietà dei rimedi di common law e di equity faceva si che per una medesima lite potesse essere necessario adire entrambe le giurisdizioni e sopportare cos’ i costi di entrambe e cumulare la lunghezza di due procedimenti separati; Non giustificabili perché levoluzione dell’equity aveva comportato una sua omologazione con i metodi di common law perdendo la iniziale vocazione per le valutazioni singolari fondate sulla moralità del caso , così che non vi era ragione per escludere che anche i giudici di common law fossero in grado di amministrare i rimedi di equità. Se si dovevano unificare le giurisdizioni di equity e di common law, diveniva anche opportuno riformare tutto il sistema organizzativo delle corti. Questa riforma era forse più matura della precedente ed anch’essa derivava dal successo delle corti di common law. Come si è sottolineato queste ultime furono inizialmente corti speciali per adire le quali bisognava teoricamente allegare non solo che l’attore aveva subito una lesione di suoi diritti, ma che il sovrano poteva essere interessato alla soluzione di simile controversia. Tutte le altre erano infatti devolute alle corti locali o quelle speciali (come quelle mercantili). Però alla fine l’ipertrofia delle corti di common law e l’atrofia di tutte le altre, rese la finzione insopportabile (cioè assurda ed irrazionale). Ciò che l’opinione pubblica percepiva era che vi era un solo paese ed una sola giurisdizione (quella dei giudici di common law) il resto erano finzioni. Perciò quando i Judicature Acts del 1873/75 portarono a termine la maggior parte dell’opera, un gran numero di corti che risalivano al medioevo ma che non avevano ormai piu giurisdizione furono abolite. Il potere giudiziario fu fondamentalmente accentrato nella hight court of judicature (che al suo interno prevedeva una hight court of justice ed una court of appeals). In una simile atmosfera si impose anche la terza delle riforme menzionate : quela concernente l’abolizione delle forms of action. In realtà quest’ultima riforma era vicina a ciò che il common law tradizionale aveva già conseguito. La gran parte delle forms of action originarie era infatti caduta in disuso e con esse le arcaiche forme procedurali che si accompagnavano ai writs nella forma praecipe. Ciò che era effettivamente in uso erano i writs derivati dal ceppo del trespass, la cui procedura era stata riconosciuta come unitaria. La riforma legislativa che segnò il seppellimento delle forms of action ebbe quindi in buona parte l’effetto di una razionalizzazione dell’esistente, ancorchè non fosse del tutto inutile. In effetti la riforma abolì del tutto i writs nominati sostituendoli con un semplice atto di citazione. Il che comportò un mutamento di rilievo nellla struttura del processo: prima dei judicatures acts del 1873/75 era ancora possibile alla parte convenuta disputare, a fini dilatori, circa la congruità dell’azione intrapresa; dopo di allora questo espediente (spesso solo azzeccagabugliesco) non fu nemmeno proponibile. 3.L’ABOLIZIONE DELLE FORMS OF ACTIONS E L’AFFERMARSI DEL PRECEDENTE VINCOLANTE Quando il loro jus dicere fu liberato dalle gabbie delle forms of action, i giudici di common law dovettero affrontare uno shok opposto a quello dei giudici continentali (questi ultilmi infatti si videro ingabbiati da una legislazione che pretendeva essere chiara e completa e quindi privati di ogni funzione e di ogni potere creativo mentre i giudici inglesi al contrario vennero liberati ad opera del legislatore dalle gabbie delle forms of actions proprio affinchè potessero essere maggiormente creativi). Quelle gabbie erano anche i parametri della legalità e delle loro affermazioni: le forms of action costituivano infatti il sistema all’interno del quale si era sviluppato il ragionamento giuridico e sul quale quindi qualsiasi giustificazione si doveva fondare, ed inoltre indicavano l’insieme delle fattispecie che ricevevano una valutazione giuridica e rispetto alle quali esistevano regole di decisione. [ESEMPIO: se un gentiluomo di campagna avesse agito in trespass lamentando che un servizio giornalistico non diffamatorio aveva invaso la sua privacy, i giudici potevano ben simpatizzare per il gentiluomo, ma avrebbero risposto press’a poco così:”l’attore pretende di agire con writ of trespass, tuttavia è saldo principio di common law che affinchè vi sia trespass occorre l’invasione fisica della sfera giuridica altrui e l’attore non è stato in grado di dimostrare alcuna invasione fisica, pertanto la sua azione deve essere rigettata”. Questa risposta sarebbe stata impeccabile: tale era la legge ed essi non potevano giudicare diversamente. Tolte le gabbie delle forms of action la possibilità di esibire ragionamenti cos’ lineari veniva meno] La non sorprendente reazione dei giudici inglesi alle riforme giudiziarie del XIX secolo fu quella di irrigidire il criterio del precedente vincolante. Questo non è sorprendente perché l’aternativa era lo scivolamento in una sorta di dirito libero che avrebbe sconvolto i caratteri di certezza e prevedibilità della decisione giuridica i quali invece erano il fulcro della legalità costruita durante tanti secoli di sforzi. Sino al XIX secolo il criterio del precedente era stato inteso nel senso che un giudice deve conoscere e tener nel massimo conto le precedenti decisioni sue e di altri giudici in casi analoghi poichè se un giudice si discostasse immotivatamente dalle decisioni precedenti non solo mostrerebbe disprezzo per i suoi predecessori, ma porrebbe in crisi il principio di eguaglianza di fronte alle regole di diritto che esige che casi eguali ricevano soluzioni identiche. Tuttavia tutta la fase di sviluppo organico del common law dimostra come i giudici fossero consapevoli del loro potere di discostarsi dalle decisioni precedenti. Nel XIX secolo prese invece piede una teoria secondo la quale il precedente giudiziale è giuridicamente vincolante in modo assoluto, in quanto ciò che è stato enunciato nella decisione precedente non è l’opinione legale di un giudice più antico o più anziano ma la verbalizzazione di una regola di diritto consuetudinario positivo. Ne derivò la c.d. teoria dichiarativa del precedente giudiziario, che è stata considerata come una delle dottrine fondamentali del common law sino a quasi i giorni nostri. Questa teoria parte dal presupposto che il common law non sia un diritto giurisprudenziale ma invece una consuetudine giuridica esistente ab immemorabile in Inghilterra che si compone di una serie di norme non scritte ma conosciute da ogni buon inglese. Il compito di dare ad esse una verbalizzazione spetta ai giudici quando risolvono una controversia che è sottoposta ad essi. Nel fare cià i giudici enunciano quale sia la regola di diritto consuetudinario in base alla quale la controversia viene risolta in un modo o nell’altro. Quando una regola del diritto consuetudinario è stata scoperta e verbalizzata da un giudice essa cessa una volta per sempre di esistere allo stato amorfo, e perciò il giudice seguente non deve far altro che applicare al caso da decidere la regola formulata in precedenza. Discostarsi dalla decisione precedente quindi non è un attentato alla certezza ed imparzialità del diritto ma un errore di diritto che può essere censurato per motivi tecnici, in quanto consiste nella falsa o erronea applicazione di una regola di diritto positivo. Questa teoria è chiaramente ispirata al positivismo giuridico e perciò presenta chiare assonanze con quanto si predicava e proclamava contemporaneamente anche in europa continentale. Essa aveva lo scopo preciso di difendere l’imagine della legalità giurisprudenziale, preservando però tutto il tecnicismo che si era accumulato attorno all’operato delle corti. In effetti una volta affermato che solo il giudice in sede di decisione di una controversia era dotato del magico potere di verbalizzare correttamente una norma consuetudinaria amorfa, diveniva necessario individuare nel testo della sentenza, il punto esatto in cui il giudice enunciava la regola che costituiva la ragione del decidere (ratio decidendi) mentre tutto il resto veniva considerato “obiter”. Al riguardo è bene ricordare che lo stile delle sentenze inglesi si era nel frattempo consolidato nel senso che ciascun giudice poteva esprimere una sua opinione a sostegno e giustificazinoe della decisione da lui suggerita così che le motivazioni delle sentenze sono piuttosto estese, in quanto riflettono il dibattito interno della corte. Nel motivare la propria posizione il giudice è quindi indotto ad esprimere una vasta gamma di considerazioni. Distinguere all’interno di un contesto argomentativo ciò che è ratio decidendi e ciò che è “obiter dictum” è una operazione del tutto innaturale per compiere la quale è necessario (come affermava Coke) aver acquisito una ragione artificiale che si può apprendere e padroneggiare solo dopo lungo studio ed esperienza. Alla distinzione tra ratio decidendi e obiter dictum fa seguito un altro corollario: se infatti si ritiene vincolante la sola ratio decidendi del caso, questo implica che si debbono identificare con precisione i fatti di causa. La ratio decidendi quindi vive in simbiosi con la descrizione del caso operata dal giudice. Il giudice seguente infatti è vincolato alla decisione precedente solo se ritiene che il problema che egli deve risolvere si ponga negli stessi termini in cui si è posto il problema risolto mediante la regola enunciata nella ratio decidendi della sentenza precedente. Il guidice non è vincolato dalle pronunce precedenti se ritiene che il problema a lui sottoposto sia distinguibile da quello(o da quelli) affrontati nelle sentenze precedenti. Ciò significa che i fatti di causa a lui sottoposti debbano contenere almeno un elemento giuridicamente rilevante che li distingua dai fatti precedentemente giudicati. È questa l’arte del distinguisching in cui si è preservato il tradizionale addestramento al ragionamento from case to case. In definitiva dopo l’abolizione delle forms of actions ,se il gentiluimo di campagna avesse agito in giudizio lamentando che un servizio giornalitico non diffamatorio, aveva invaso la sua privacy, i giudici avrebbero risposto che non vi era alcun precedente secondo il quale si poteva ottenere un risarcimento per una invasione non fisica della sfera giuridica altrui e da ciò si traeva la conclusione che in mancanza di una regola di diritto la sua azione deve essere rigettata. 4.IL DECLINO DELLA TEROIA DICHIARATIVA DEL PRECEDENTE GIUDIZIALE Benchè sia stata oggetto per quasi un secolo di penetranti sforzi di razionalizzazione la teoria dichiarativa del precednete giudiziale non è riuscita a divenire una teoria completamente sensata. Il punto di frattura della teoria attiene al livelllo di generalizzazione del problema che si deve risolvere. La controversia sottoposta ad un giudice è infatti tutta intessuta di fatti concreti non ripetibili. Ad esempio, la lite concernente il chiodo che il maniscalco malaccorto conficca nella carne anziché nello zoccolo del cavallo, concerne sempre un cavallo o una cavalla di una certa età che il padrone chiama con un certo nome, mentre il fatto è avvenuto in una certa località ecc… se ci si cala sino a questo livello di concretezza la teoria dichiarativa genererebbe un sistema in cui nessun precedente è vincolante in quanto il problema susseguente presenterà sempre elementi di differenziazione. Ma una soluzione del genere sarebbe assurda perchè il principio di eguaglianza di fronte alla legge impedisce che tutta una serie di elementi concreti possano essere utilizzati per distinguere due casi. [ESEMPIO: che il malaccorto maniscalco si chiami Adam oppure John deve essere reputato del tutto irrilevante. Per la stessa ragione il giudice nel decidere la controversia tra il maniscalco malaccorto e il proprietario dell’animale che chiede il risarcimento del danno, non formula la ratio decidenti in relazione a tutte le particolarità concrete del caso, ma in relazione ad un certo grado di astrazione di esso. Sennonchè è evidente che non vi è limite sicuro alle possibilità di generalizzazione. Ad esempio , la decisione sul caso del maniscalco può essere formulata in relazione ad una cavalla malferrata; ed in tale ipotesi il giudice seguente può chiedersi se è vincolato a seguire la stessa ratio decidendi anche nel caso di quadrupedi diversi da cavalli. Ma la soluzione della stessa controversia può essere formulata anche astrattizzando al massimo il problema. il primo giudice potrebbe infatti sostenere che il vero problema che deve risolvere riguarda il tema generale di ogni condotta che porti una persona a penetrare nella proprietà altrui senza il consenso espresso del proprietario. In tal caso il giudice susseguente potrebbe cheidersi se è vincolato ad applicare la stessa ratio decidendi all’ipotesi in cui qualcuno sia penetrato distrattamente nel giardino altrui e sia rimasto ferito da una trappola per orsi ivi collocata dal proprietario per tenere lontani gli estranei. Come si è visto la teoria dichiarativa del precedente giudiziale richiede che il giudice seguente sia vincolato a considerare come regola di diritto il risultato raggiunto nella sentenza precedente sulla base dei fatti che quei giudici hanno considerato come rilevanti ai fini del decidere. Tuttavia il problema insolubile è che la individuazione dei fatti rilevanti ai fini del decidere non è dissociabile dal livello di astrazione a cui si pone la regola di decisione. Se ad esempio la regola di decisione è formulata nel senso che esiste nell’ordinamento la regola del neminem leadere, tutti i fatti che attengono attengono agli strumenti materiali mediante i quali è stata perpretrata la lesione divengono giuridicamente irrilevanti; se invece la regola di decisioen è formulata nel senso che è illecito percuotere il prossimo con un martello, lo strumento della lesione è rileavante e si porrà nei casi susseguenti il problema della posibile analogia tra il caso della lesione arrecata con un martello e quello della lesione arrecata brandendo il manico di una scopa. In realtà se se si pone il problema dei molti possibili livelli di generalizzazione dei fatti rilevanti, diventa piuttosto artificioso sostenere che il giudice trova la regola e non la crea, perché il livello di astrazione in cui un enunciato si colloca è la regola e non la mera verbalizzazione neutrale di essa. Storicamente però la teoria dicahirativa del precedente è servita allo scopo cui mirava. In sostanza, anche dopo l’abolizione delle forms of actions, i giudici inglesi posti di fronte all’azione del gentiluimo che lamentava la violazione della sua privacy, non potendo più sostenere che essa non rientrava nel writ of trespass, dovevano porsi nella condizione di poter dire “mi dispiace ma non trovo alcun precedente in cui si affermi che la condotta del convenuto sia illecita” , mantenendo così l’idea che il giudice non giudica secondo il suo capriccio ma secondo regole prestabilite. Nel 1966 tuttavia la House of Lords ha emanato un documento (Practice Statement) per annunciare che da allora in poi essa non si sarebbe più ritenuta strettamente vincolata ai propri precedenti , pur continuando a tenerli nel massimo conto al fine di preservare il principio della certezza del diritto. Tale annuncio da parte della massima autorità giudiziaria inglese ha segnato la sepoltura ufficiale della teoria dichiarativa, anche se c’è da dire che tale teoria era ormai già corrosa dalle critiche e circondata dall’incredulità generale. 5.IL SORGERE DI NUOVE CATEGORIE ORDINANTI I singoli writs hanno costituito a lungo la tassonomia di base del giurista di common law.ciascuna form of action infatti identificava una fattispecie ben definita grazie all’opera della giurisprudenza. Il vocabolario tecnico del common lawyer era quindi costituito dai nome dei writs mediante i quali continuava a designarsi l’insieme degli elementi costitutivi della fattispecie che la giurisprudenza accoglieva sotto tale nomenclatura (Ad Esempio il termine “negligence” identificava una fattispecie, generata dal ceppo del trespass, in cui la responsabilità risarcitoria veniva allocata su qualcuno quando questi avesse arrecato danno ad un altro in violazione di un dovere di diligenza precedentemente assunto nei suoi riguardi: se mancava l’elemento della violazione del dovere di diligenza non si poteva parlare di negligence). Nella tassonomia fragmentata delle forms of action era del tutto illogico trascorrere da una categoria all’altra, poiché ciascuna aveva la propria autonomia concettuale. Tuttavia già Blackstone, risistemando tutta la common law secondo un piano organico tratto dalla scuola del diritto naturale , aveva in realtà sovraposto alle categorie particellari del common law, le macro categorie giusnaturaliste, le quali, a loro volta, avevano la loro origine nella cultura romanista (il diritto delle persone, i diritti sulle cose, i contratti e la responsabilità da illecito). Approfondendo questa impostazione , la letteratura successiva aveva raggruppato le diverse fattispecie di common law a fini apparentemente solo didattici ed espositivi ma, come sempre accade , le categorie didattiche si trasformano però presto o tardi in categorie del ragionamento giuridico operativo: in tale nuovo contesto abbisognano di venire giustificate in relazione all’insieme delle regole di diritto e non per la loro efficacia euristica. Al riguardo sono ammissibili vari tipi di giustificazioni. Si può adottare un criterio di carattere sociale e far riferimento quindi alle categorie che vengono percepite dalla generalità dei cittadini ed utilizzate nei loro discorsi quotidiani [ ESEMPIO i cittadini inglesi, per evidenti condizionamenti storici e sociali, considerano distintamente ciò che attiene al traffico marittimo da ciò che attiene alla proprietà fondiaria. Socialmente parlando sono in effetti due mondi completamente separati. Perciò quando i guiristi trattano la materia della real property (propreità immobiliare) e quella della Admiralty Law come due sottosistemi distinti tra loro, non hanno eccessivo bisogno di giustificare una categorizzazione giuridica che corrisponde ad una distinzione fondata anche su categorie sociali In alternativa a questa prima ipotesi si può ricorrere a qualche principio logico implicito in ciascuna categoria. Le categorie giusnaturalistiche utilizzate da Blackstone corrispondono a quest’utlimo tipo, perché distinguendo tra il diritto dei soggetti e quello riguardanti le cose , pretendono di avere un carattere logico Infine ci si può attenere a ragioni di ordine precipuamente storico. Ad esempio la distinzione tra real e personal property corrisponde solo a questo tipo di ragioni. Se il common law fosse rimasto ancorato effettivamente alla sua propria tradizione , solo quest’utlimo tipo di categorizzazioni avrebbe pouto avere cittadinanza nel diritto inglese. Al contrario, esse assunsero carattere recessivo. Liberati dalla gabbia delle forms of action, i giuristi inglesi andarono alla ricerca di categorie che potessero essere giustificate in base ai primi due tipi di giustificazioni (cioè la congruità con il pensiero socialmente diffuso o la corrisopndenza ai canoni della logica colta). Duanrte questa rivoluzione, non sono mancate resistenze: non pochi rappresentanti del ceto forense tendevano a conservare la logica delle antiche forms o action anche se queste sono scomparse da tempo. Tuttavia prevale su questo attaccamento verso la conservazione, la logica della rivoluzione industriale ormai giuta alla sua terza fase. Tanto più che la forza di questo sviluppo viene costantemente accresciuta dal sostegno della legislazione. A partire dalle riforme del secolo scorso, sotto il velo del profondo tradizionalismo veicolato dalla teoria dichiarativa del precedente giudiziale, il common law inglese si è in realtà impegnato in una rivoluzione silenziosa nel corso della quale tutte le categorie tradizionali sono state riscritte e risistemate. Ciò che è rimasto delle antiche forms of actions è solo una nomenclautra tecnica, la quale però non corrisponde più ad una tassonomia avente funzione ordinante. La nuova tassonomia che si è andata formando(la quale prevede distinzioni piuttosto familiari al giurista di civil law, come “family law, property, tort, contract ecc..”) è stata lentamente organizzata attorno ad alcuni principi cardinali. Il dato più rimarchevole per chi osservi lo sviluppo del diritto giurisprudenziale inglese del XX secolo è che i giudici , scandagliando nel “mare magum” delle decisioni precedenti, hanno cercato di fare emergere alcuni principi generalmente applicabili ad una determianta materia. È attorno all’individuazione e formulazione di questi principi che si è svolto il dibattito giuridico esterno alla legislazione ed è ancora più rimarchevole osservare come in tale dibattito si assite ad una crescente integrazione del formante dottrinale con il giurisprudenziale (il quale peraltro in inghilterra è sempre il formante dominante rispetto al primo) ad esempio, nel campo della law of torts (responsabilità extracontrattuale) si è discusso attorno al ruolo della colpa. Alcuni infatti hanno inteso ricavare dai precedenti il criterio per cui, almeno nel caso del torto of negligence, era necessario che l’autore dell’evento dannoso avesse posto in essere una condotta caratterizzata da uno “state of mind” valutabile con riprovazione , ossia che il responsabile del danno fosse in colpa. Per conseguenza si è a lungo dibattuto circa il ruolo della colpa nella responsabilità civile secondo le linee di una problematica non diversa da quella affrontata in qualsiasi sistema di civil law. Gli esempi potrebbero moltiplicare ed indicherebbero come l’itinerario evolutivo del common law inglese (ed ancora più quello americano) si è rivolto alla formulazione di principi a carattere generale e, naturalmente, su tale ricerca si è riflettuto anche metodologicamente, sembrando ad alcuni che principi molto generali fossero una insidia sulla via di una giustizia materiale adeguata. La convergenza di stili, problemi e metodi che si è venuta quindi a creare tra le esperienze di common law e di civil law a partire dall’epoca della rivoluzione industriale non deve il alcun modo suggerire che si è verficata una uniformazioen tra esse. Il fatto è che nel formulare i principi organizzativi delle varie categorie in questione, ciascuna esperienza ha seguito un suo proprio itinerario evolutivo. Un esito diverso potrebbe derivare solo da una generale ricezione dei modelli continentali in grado di appiattire le differenze che in tal modo si sono venute creando su altro fronte. Questa possibilità esiste all’orizzonte per effetto della graduale convergenza del diritto che si sta attuando a livello di Unione Europea, ma si tratta di un evento futuro. Ciò che è ragionevole fare in tali circostanze è solo una paziente analisi dei diversi principi invocati per verficare se la loro formulazione sia solo declamatoria oppure corrisponda effettivamente a regole operazionali divergenti ; e se dietro principi e regole formulati in modo diverso non si nascondano esiti operazionali convergenti. Ad esempio, si è ricordato come molte dei rimedi di common law siano nati dal ceppo del trespass, e che la fuga dai writs in forma praecipe abbia condizionato a tal punto il common law classico che anche la tutela della proprietà e del contratto tragga le proprie radici dalla formula del trespass on the case, il quale fotografava un’ipotesi assai larga di illecito civile, quale l’invasione della sfera giuridica altrui. Si deve però agiungere come il sistema delle forms of action ha fatto si che ciascun rimedio una volta distaccatosi dal ceppo del trespass acquisisse una fisionomia/forumazione sua propria , sicchè agli inizi del secolo scorso anche il sistema degli illeciti civili si presentava scandito in figure tipiche: nuisance, negligence, ejectement, trover, conversion, detinue ecc… Vi era qualche buona ragione per mantenere questa tipicità degli illeciti ed era quella che un sitema basato sulla tipicità delle fattispecie di responsabilità acquiliana è più agevole da dirigere che non un sistema fondato su clasuole generali. Tuttavia, nella prima metà del X secolo il tort of negligence ha manifestato una straordinaria capacità espansiva che lo ha condotto ad assorbire le altre figure, riducendo la tipicità degli illeciti ad una questione di nomenclatura. Tale potenzialità di espansione è derivata dalla rottura di un argine che manteneva il tort of negligence in limiti di aplicazione ristretti. Nell’impostazione tradizionale la fattispecie di negligence ricorreva quando vi fosse la violazione colposa di un dovere di diligenza, ma si specificava che simile dovre di diligenza poteva nascere solo da uno specifico patto con cui si assumeva tale dovere. Questa limitazione però non era sempre rispettata: all’epoca in cui i farmaci venivano preparati manualmente di volta in volta, capitava che qualcosa andasse storto e la pozione preparata fosse velenosa anziché curativa. In questi casi i giudici sia inglesi che americani non esitavano a condannare il preparatore negligente senza curarsi del fatto che egli avesse assunto uno specifico obbligo nei confronti dell’avvelenato. Però nella maggior parte delle circostanze continuava ad essere richiesto come elemento costitutivo del tort of negligence, l’esistenza di un impegno specifico. Questa regola tuttavia era incompatibile con i moderni sistemi di produzione e distribuzione dei prodotti industriali. Negli stati uniti , Cardozo riuscì a convincere la corte suprema di new york che simile limitazione non era mai esistita e giudicò che la fabbrica di automobili che pone in commercio una vettura difettosa (e dunque pericolosa) era responsabile per negligence nei confrotni del consumatore acquirente anche se il contratto di acquisto era stato formalmente concluso con un concessionario e non direttametne con il fabbricante. In inghilterra alcuni anni dopo la House of Lords giunse alla stessa conclusione in un caso di semi-avvelenamento di una consumatrice che aveva bevuto una bibita contenuta in una bottiglietta di vetro opaco sul cui fondo era apparso lo scheletro di una chioccolina in decomposizione. La regola divenne percià quella per cui si deve adotyare uno standard di cautela (duty of care) ogni volta che si può ragionevolmente presumere di poter danneggiare il prossimo. Il che concide con il precetto del nemin leadere, e come quest’ultimo deve essere tenuto a freno da una serie di contro regole. SEZIONE QUARTA – IL DIRITTO INGLESE DELL’EPOCA CONTEMPORANEA ED I SUOI FORMANTI 1.IL SISTEMA DELLE CORTI ED IL PROCESSO CIVILE NEL SISTEMA INGLESE ATTUALE Le riforme giudiziarie del XIX secolo possono essere intese come un’apertura di credito del potere politico verso il ceto dei giuristi. Infatti esse furono soprattutto riforme dell’organizzazione giudiziaria tese a liberare i giudici dai lacci che impedivano uno sviluppo organico del diritto , alienato con la velocità dei mutamenti storici. Ma la velocità della storia è stata ancora una volta superiore a quella del cambiamento giuridico: nel secondo dopoguerra (cioè dopo il 1945) la distanza tra i due mutamenti è divenuto evidente e le riforme sono state veicolate attraverso la legislazione, che è divenuto il formante egemone anche nella esperienza giuridica inglese. La sequenza è stata inversa rispetto a quella delle riforme del secolo precedente: prima sono state introdotte continue riforme del diritto sostanziale; infine si è modificata l’organizzazione delle corti supreme e del sistema di reclutamento dei giudici. Queste ultime riforme sono state più di forma che di sostanza , essendo tese essenzialmente ad eliminare (sotto la spinta dell’integrazione europea) tutti gli arcaismi formali che ancora sussistevano alla fine del XX secolo (dal cumulo di funzioni governative/parlamentari e giudiziarie formalmente esecitate dal Lord Chacellor carica ormai abolita perché in contrasto con il principio della divisione dei poteri; alla ibrida natura parlamentare e giudiziaria del Judicial Committee della House of Lords, destinato ad essere sostituito da una Supreme Court del regno unito). Nel sistema inglese attuale la maggior parte delle questioni contenziose civili e amministrative, vengono risolte dalla county courts e da un considerevole numero di tribunali speciali che hanno il compito di dirimere la gran massa di controversie che possono insorgere tra cittadini e stato e tra i cittadini stessi in materie che attengono groso modo alla organizzazione del c.d. welfare state. Alla lista sono da aggiungere i Magistrates Locali, i quali svologno essenzialmente fuzioni in materia di giustizia penale, ma hanno anche competenza in materia civile, come nelle cause di divorzio. Con il country courts jurisdiction order del 1991 le county Courts hanno acquistato una giurisdizione di primo grado sostanzilametne senza limiti di valore alleggerendo notevolmente in carico dela High Court ma dando luogo ad un decentramento della amministrazione della giustizia che interrompe il monopolio londinese con conseguente incentivo a decentrare anche gli studi legali. Tutti questi organi giudicanti applicano il diritto e seguono le indicazioni delle corti superiori , ma non sono composte necessariamente da giuristi di professione tale prerogativa è riservata alle corti superiori che hanno sede a londra e che oggi si riassumono nella supreme court of judicature e nel judicial committee della House of Lords (quest’ultimo avrà vita breve, come annunciato, perché si trasformerà in una corte suprema del regno unito). La court of judicature è l’erede delle corti di common law e della court of Chancery, i guidici che le compongono sono tratti dal novero dei barrister, anche se ormai la legge consente che siano nomianti giudici anche i solicitors. Tradizionalmente si accedeva alla carica di giudice per scelta del Lord Cancelliere, scelta che attraverso il primo ministro, veniva poi ratificava dalla regina nel cui nome la nomina era fata. Tuttavia la constitution reform del 2005 prevede che la figura del Lord Chancellor sia soppressa e che parte delle sue funzioni siano trasferite al secretary of state for justice e che la scelta dei giudici sia affidata ad una commissione indipendente dal governo. La supreme court of judicature è scomposta in due gradi: la high court per il primo grado e la court of appeal per il secondo grado. La high court ha sede a londra, ma sono istituite sedi decentrate avanti le quali si può iniziare una causa che rientri nella competenza della high court. Nelle sezioni decentrate tuttavia sono presenti anche giudici delle County Courts, mentre i membri effettivi della corte operano normalmente a londra. Contro le pronunce della high court si può ricorrere alla court of appeal; contro le pronunce della court of appeal si può ricorrere alla house of lords e dal 2009 alla supreme court uk, che è destinata ad ereditare alcune fuznioni sino a qui affidate al privy council. Il ricorso al giudice superiore non è un diritto della perte soccombente ma una possibilità che può concretizzarsi a condizione che la parte soccombente lo richieda e che il giudice a quo lo consenta mediante il rilascio di un “leave” ed infine che il giudice di appello consenta a rivedere il giudizio. Dunque il sistema dell’appello serve in realtà a produrre decisioni più mature e vagliate al massimo livello di autorevolezza. L’attività delle corti di revisione non è quindi principalmente diretta a rendere giustizia nel caso singolo ma a pronunciare sentenza su casi che conivolgono questioni di principio oppure quando la decisione appellata sembri così poco persuasiva da rendere necessario un intervento correttivo, prima che possa seminare incertezza. D’altra parte, la presenza dei filtri suddetti rende poco numerose le decisione dei giudici d’appello : in media la house of lords esamina circa 60 casi l’anno. Quando quindi la court of appeal o, in misura ancora maggiore , la house of lords , si è pronunciata su una certa questione è ben difficile che la stessa questione si ripresenti alla medesima corte per un periodo di tempo piuttosto lungo. In queste condizioni , il criterio del precedente comporta che la regola di diritto giurisprudenziale sia dotata di notevole stabilità. La house of lords (e prevedibilmente la supreme court uk), è stato sino ai nostri giorni l’unico organo giudiziario munito del potere di overruling, cioè del potere di discostarsi dai propri precedenti. Il già ricordato Practice Statement con cui la House of Lords annunciò di voler disporre di un potere di discostarsi dai propri precedenti è tuttavia inteso con molta prudenza, sicchè la tecnica dell’overruling è tutt’ora piuttosto estranea alla giurisprudenza inglese. Il rifiuto dei giudici inglese di porsi come policy makers, lasciando tale ruolo al parlamento costituisce un tratto distintivo piuttosto notevole rispetto al’atteggiamento dei giudici americani. Va segnalato tuttavia che, in quanto stato membro, il regno unito nel suo complesso riconosce la supremazia (in materia comunitaria) della corte di giustizia, le cui sentenze si impongono anche alle corti supreme. In generale quindi l’organizzazione giudiziaria del regno unito si avvia ad essere parecchio simile alla struttura giudiziaria degli altri stati europei, abbandonando ogni arcaismo ed accettando una più formale adesione al principio della divisione dei poteri. Non vi è piu il lord cancelliere che era contemporaneamente membro del governo , speaker della house of lords e magistrato supremo. Presto non vi sarà più il judicial comimittee della house of lords (che era composto da giudici legislatori, in quanto membri di una assemblea legislativa). Anche la procedura civile ha abbandonato i propri arcaismi: con le civil procedure rules 1998 anche il venerando vocabolo writ è sparito. Ma in questo campo le riforme non si sono limitate alla nomenclautra ed alla forma: con la civil litigation reform del 2000 la procedura civile inglese è stata profondamente rivista. L’idea di fondo è che occorre adottare procedure diversificate in funzione della complessità della controversia. L’opposta idea secondo cui la procedura deve essere la uguale sia per la lite in cui si disputano poche centinaia di sterline che in quella in cui sono in gioco diverse migliaia di sterlina, è risultata incompatibile con il desiderio di velocizzare il processo civile. Le liti vengono dunque suddivise (a seconda del loro valore economico) in small claims (quelle avviate nel fast track) e quelle più complesse (inserite nel multi track). Non è solo questione di gestire il processo in un modo efficiente : è che al fine di garantire che ciascun procedimento segua il binario che gli viene assegnato, è necessario conferire un ruolo direttivo al giudice. Tradizionalmente il giudice inglese è un arbitro silente ed il processo viene condotto dalle parti in contrapposizione dialettica tra loro (c.d. modello adversary ,che si contrappone al modello inquisitorio, che al contrario, assegna al giudice il ruolo di cercare la verità dei fatti anche servendosi di un proprio ausiliario come il consulente tecnico d’ufficio e di giudicare in conseguenza con il solo vincolo di non andare ultra petita, ma con ampie possibilità di riqualificare i fatti senza essere legato alle prospettazioni giuridiche delle parti. In realtà i due schemi - anche al solo fine di dare l’apparenza di poter funzionare – devono essere ibridati ed allo stato puro non si riscontrano in alcuna disciplina processuale. Ciò che si può dire è che il sistema inglese si sta spostando da una impostazione genericamente adversary ad una che assegna al giudice un ruolo direttivo di notevole pregnanza, essenzialmente in funzione della identificazione precoce delle questioni che meritano di essere trattate e discusse , ed eliminazione di quelle che non hanno effettiva rilevanza). Sempre alle influenze europee è dovuta la riforma nota come “human rights act 1998” che è in sostanza una trasposizione nel diritto interno della CEDU. La rilevanza della riforma non stà in una più elevata protezione dei diritti umani quanto nel fatto che lo Human Rights act 1998 obbliga l’interprete a seguire il canone dell’interpretazione costituzionalmente adeguata (nel caso, l’interpretazione più adeguta al fine di promuovere la tutela dei diritti umani): simile tipo di interpretazione teleologica era del tutto sconosciuto all’ermeneutica dei testi legislativi. Nell’emanare lo Human Rights Act , il parlamento non ha sciolto il dubbio circa gli effetti verticali o anche orizzontali della tutela dei dirittu umani: da un lato è stato osservato che anche la CEDU ha effetti solo verticali (posto che ammette solo azioni rivolte contro gli stati che ne siano firmatari); dall’altro lato si è notato come la section 6 disponga che le “pubbliche autorità” non debbano agire in modo tale da violare i diritti tutelati dalla convenzione europea, e poiché in mancanza di una esclusione espressa le corti debbano essere considerate “pubbliche autorità”, anche esse sono tenute a decidere le questioni ad esse sottoposte in conformità alle esigenze di tutela dei diritti umani anche quando si tratti di vertenze tra due parti private. Tradizionalmente nei sistemi di common law le carte costituzionali sono intese come vincolanti per i governi (i cui poteri vengono appunto limitati dalla loro esistenza dando così lugo al c.d. effetto verticale). I rapporti tra privati regolati dal common law non sono influenzati dai documenti costituzinali. Il fatto che oggi la maggior parte dei rapporti privati siano discilplinati con leggi, ha reso piuttosto obsoleta la visione tradizionale. Nel frattempo è mutato profondamente il ruolo delle corti come fonte di produzione del diritto: nel XX secolo, il parlamento ha vinto la ritrosia ad intervenire legislativamente nei settori del diritto privato ed ha introdotto riforme spesso radicali mediante l’emanazione di nuove leggi organiche (ad esempio nel 1928 tutto l’arcaico sistema della real property fu riformato radicalmente dal real property act che ha provveduto a ridurre il numero dei legal estates on land a due tipi solamente: il fee simple absolute ed il leasehold / il diritto di famiglia è stato rivoltato da cima a fondo mediante una serie di nuove leggi che hanno espressametne ripudiato una vasta massa di principi di common law, nei quali trovava concretizzazione giuridica il sentimento della superiorità maritale ecc..). La grande fioritura della legislazione è collocabile nel secondo dopoguerra al tempo della edificazione del welfare state. La presenza di un apparato pubblico molto sviluppato e la pervasività della presenza dello stato cui si affidano compiti assai vasti e penetranti, comporta che sia elevato il numero di persone le quali hanno a che fare con le regole di diritto, ma che non sono specialisti del diritto. Costoro necessitano di una guida nello svolgimento delle loro attività quotidiane, ed è impensabile che tale guida sia offerta dal diritto giurisprudenziale. Come si è visto il diritto giurisprudenziale è altamente problematico, mentre costoro abbisognano di regole scritte in forma giuridicamente semplice le quali assumano come punto di partenza dati e figure delle singole discipline tecniche. In una parola, il diritto del welfare state è necessariamente scritto in forma legislativa. L’apparente complicatezza del dettato legislativo deriva in gran parte dal desiderio di guidare gli esperti presenti nelle diverse tecnostrutture pubbliche e private usando il linguaggio settoriale tipico delle diverse specializzazioni (ESEMPIO: il diritto legislativo usa quindi il linguaggio settoriale dei medici quando interviene nei settori della salute; quello degli ingegneri nel campo della tutela ambientale ecc..) . In questo scenario il diritto colto che si esprime nelle elaborate opinions dei giudici, finisce con l’occupare uno spazio quantitativamente marginale (anche se non qualitativamente marginale: infatti è insito nei mecanismi complessi del diritto del Welfare State che tutti i casi problematici siano affidati alle decisioni delle corti. Ogni volta che nel tessuto delle norme legislative insorge un problema, questo dieviene lo spazio in cui risorge il diritto tradizionale, con le sue categorie/modo di ragionare ecc.. ossia, in sinesi, con la mentalità che si è formata durante una tradizione secolare). 2.LE PROFESSIONI LEGALI Tradizionalmente la professione forense in inghilterra non è unitaria. Si è infatti conservata sino ai giorni nostri la distinzione tra Barristers e Solicitors: i primi sono gli eredi della parte elevata della professione legale (quella che ha iniziato a coagularsi nel medioevo attorno alla funzione dei narratores e poi si è organizzata corporativamente nelle gilda dei Serjeants). Pertanto i barristers hanno monopolizzato le funzioni tipiche dell’avvocato d’udienza, essendo stati gli unici abilitati a rappresentare le parti avanti le corti superiori. Di conseguenza i giudici sono tratti unicamente dal novero dei barristers, essendo questi i soli che abbiano compiuto il necessario apprendistato. Per meglio marcare questo loro monopolio, i barristers nel ‘800 definirono con precisione le loro funzioni, escludendo i contatti diretti con i clienti e richiedendo che tali rapporti fossero sempre intermediati da un solicitor. Questa scelta si è rivelata nel medio periodo disastrosa poiché nel mondo moderno le vertenze contenziose sono divenute relativamente scarse e riguardano principalmente settori mediamente poveri della prestazione di servizi legali mentre i settori più ricchi (quali quelli che ruotano attorno al mondo della finanza londinese) richiedono attenta pianificazione legale, ma non danno norlamente adito a vertenze giudiziarie, essendo al massimo risolte in sede arbitrale. Per conseguenza lo sviluppo delle moderne attività economiche ha espulso la branca più nobile della professione legale (i barristers) dalla parte più redditizia dei servizi legali. I due grandi studi legali londinesi sono associazioni di solicitors. I barristers sono rimasti chiusi negli Inns, i quali hanno sede nel cuore di Londra, ma rapresentano anche fisicamente un’isola di pace conventuale nel ronzio di attività che si sviluppano tutt’attorno. D’altro lato è venuta mano a mano ad assottigliarsi (anche se non ancora a scomparire) la funzione educativa svolta degli Inns: la stragrande maggioranza dei barristers oggi operanti ha ricevuto una educazione giuridica unviersitaria , rispeto alla quale la formazione pratica degli Inns risulta essere complementare. È però anche da osservare come dopo aver guadagnato il monopolio del patrocinio avanti le corti , i barristers hanno fatto ben poco per rendere l’accesso alla giustizia (I costi dei litigi sono stati resi piuttosto alti: nel 1965 il costo delle spese legali assorbiva tutto o quasi l’ammontare dei litigi). Non stupisce perciò che negli ultimi anni del XX secolo in inghilterra si sia arrivati ad una radicale riforma delle professioni legali , e poi, delle regole di procedura (collegate alle prime) . Al riguardo è bene però ricordare come l’assetto della professione dei barristers non dipendeva solo da scelte di tipo corporativo ma anche dall’essetto del sistema giudiziario: in inghilterra sino alla fine del XX secolo la giustizia è stata amministrata da un numero straordinariamente piccolo di giudici togati. È vero che essi erano coadiuvati da una miriade di altri organi con funzioni paragiurisdizionali che scremano la maggior parte delle controversie, ma questo non toglie che l’efficienza della giustizia inglese in rapporto al numero dei magistrati ad essa addetti è stata spesso citata come esempio mirabile in congressi e studi internazionali. Uno dei segreti di tale rimarchevole risultato è che i barrister sono ammessi al patrocinio avanti le corti da una decisione delle corti medesime. In altri termini, per apparire avanti i giudici occorre avere il gradimento degli stessi giudici. È vero che tale gradimento non è mai negato a chi sia presenato con i tradizionali requisiti, ma in realtà i barristers dipendono molto dalla reputazione di cui godono presso le corti avanti le quali essi operano: di conseguenza la loro lealtà verso i giudici è leggendaria. Ai giudici non va nascosto nulla, né documenti che possono essere sgraditi, né precedenti che posono essere (o apparire) contrastanti con la tesi giuridica sostenuta. I giudici inglesi spesso non hanno tempo di compiere estese ricerche di giurisrudenza e non hanno a loro disposizione dei law clerks come i loro colelghi americani, dunque si affidano a quelle dei barristers contando sulla loro “leale collaborazione”. Ne discende che il barrister si sente un ausiliario della giusitizia, e quindi rifiuta di patrocinare un caso se ritiene che il cliente che lo vorrebbe come avvocato ha torto sotto ogni ragionevole profilo. In questo senso i barristers hanno svolto una importante funzione di scrematura delle vertenze frivole. 3.LA LETTERATURA GIURIDICA INGLESE E LO STILE DELLE SENTENZE L’autonomia del diritto dalle altre discipline si manifesta nella presenza di una letteratura specialistica che tratta questioni giuridiche e si rivolge esclusivamente a lettori giuristi. Nel medio e lungo periodo questa letteratura diventa anch’essa una tradizione di ricerca nel senso che ogni autore nello scrivere le proprie opere si rifà ai modelli anteriori, rivede le questioni già affrontate da coloro che lo hanno precedeuto confermandone o smentendone le soluzioni ed a questo corpus tralaticio di problemi aggiunge nuove questioni insorte nel frattempo. Di tanto in tanto però questa tradizione di ricerca sembra interrompersi e si assiste ad un cambiamento di paradigma grazie al quale il modello espositivo subisce una ben visibile metamorfosi. Come si è accennato, la letteratura giuridica inglese ebbe un’origine piutosto precoce: i due grandi trattati di Glanville e Bracton (entrambi intitolati “de legibus et consuetinibus Angliae”) risalgono l’uno alla fine del XI secolo e l’altro alla metà del XIII secolo. Il numero di manoscritti del trattato di bracton giunti sino a noi, indicano che esso ebbe una diffusione notevole sino al XIV secolo. Tuttavia questi due trattati non hanno avuto un seguito paragonabile a quello delle prime opere della letteratura giuridica di civil law; ne pur consistendo essi a lungo l’unica guida sistematica al diritto di common law, sono stati oggetto di commenti o glosse successive. Il dato rilevante è che dal momento della chiusura del registro dei writs (1258) e per almeno due secoli la letteratura giuridica inglese fu tipicamente professionale. I forensi e gli aspiranti tali dovendo affrontare il problema capitale della scelta del writ adatto a veicolare correttamente la pretesa del loro cliente, non avevano alcun interessa alla sistematica giuridica e si rivolgevano quindi alla ricerca dei lumi necessari per lo svolgimento della loro attività ossia ai reports in cui erano annotati i dicta dei giudici nonché alle spiegazioni circa la procedura seguita per ciascuna forms of action. Questi reports, detti Year-Books, sono letteratura giuridica solo se si intende questo termine in senso molto ampio (cioè opere scritte che trattano del diritto): ma se per letteratura giuridica si intende solo ciò che è scritto all’esclusivo scopo di divulgare un pensiero critico, gli year-books non sono letteratura ed anzi manifestano l’estrema atrofia del formante dottrinale nel periodo di consolidamento del common law. Sino a quando l’unica forma di conservazione dell’attività della giurisprudenza fu quella del manoscritto, non vi furono stimoli ad andare al di là della semplice registrazione. Fu l’introduzine della stampa che incentivò una editoria giuridica (la quale si preoccupò non solo di informare i lettori sui casi discussi nelle corti di common law, ma anche di insegnare i principi e le regole di commmon law attraverso l’esposizione dei casi). la mancanza di una letteratura faceva si che spettasse ai giudici inserire nel tessuto del sistema quei principi senza i quali un sistema giuridico divenne un insieme disordinato ed inafferrabile: ma lo scopo prevalentemente didascalico di molte raccolte a stampa rendeva aassai soggettiva la selezione dei casi e la sottolinatura dei principi che, secondo l’autore della raccolta, era veramente importante apprendere. Da ciò fu breve il passo a stampare raccolte di giurisprudenza in cui il prestigio del loro autore potesse garantire al lettore la bontà e l’autorevolezza delle scelte selezionatrici. A partire dal XVI secolo aparvero quindi reports nominativi (come quelli di Plowden e poi di Coke). Significativamente i reports di Plowden sono noti come commentaries poiché il loro autore non si limitò ad un’opera di selezione , ma aggiunse anche commenti e glosse personali ai casi riportati e li corredò con un sistema di riferimenti in cui si manifesta l’intento di pervenire ad una esposizione ragionata del diritto, già di per sé ben lontana dall’intento puramente documentaristico dei primi year-books. Con i reports personali siamo di fronte ad una letteratura giuridica sotto forma di raccolte di giurisprudenza. L’avvento della stampa stimolò anche una nuova produzione di libri scritti da un singolo giurista per i giuristi, segnando così una ripresa della letteratura giuridica in senso stretto. Quest’utlima si sviluppò partendo da dove era rimasta al tempo di bracton: esempi sono l’opera “Littleton on Tenures” (1481) rapidamente divenuto un manuale indispensabile per comprendere la complicata materia dela real property; la New Natura Brevium (1534) la quale aveva come scopo quella di fornire un’aggiornamento sulle nuove forms of action entrate nell’uso in quei tempi. Una rottura fu data nell’opera “Doctor and Student” nella quale sotto forma di dialogo tra un teologo ed uno apprendista del common law le ragioni della giurisdizione di coscienza del cancelliere e quelle della legalità di common law: ideata nel contesto della controversia tra equity e common law (la quale aveva le valenze politiche ed ideologiche di cui si è detto) l’opera fa leva su argomenti di filosofia morale (ed infatti non era diretta agli avvocati ma al pubblico colto). Tuttavia la precisione con cui seppe identificare gli opposti principi dai quali erano animate le due giurisdizioni, trasformò questo scritto in un’opera autorevole anche nelle corti. La rottura con il paradigma precedente si coglie nell’inserimento di idee, visioni ed argomenti tratti dall’esterno della cultura giuridica professionale, ed è grazie ad essi che l’autore (Christopher St German) riuscì a portare chiarezza di formulazione anche nel settore giuridico. Questo esempio, fruttificò oltre due secoli dopo nel grande trattato di Blackstone, mentre nel frattempo si consumarono invano gli sforzi per pervenire ad una esposizione sistematica del diritto inglese. Con Blackstone la rottura del paradigma della letteratura professionale è completa: quest’utlimo infatti, pur avendo una formazione forense, era divenuto il primo professore di common law in una università inglese (essendogli stata assegnata la prima cattedra di common law istituita presso l’università di Oxford nel 1753). La sua grande opera intitolata “commentaries on the Laws of England” (1765/69) fu scritta dopo che il suo autore aveva maturato una notevole esperienza didattica tenendoi suoi corsi sul common law agli studenti di oxford per oltre 10 anni. I commentari furono scritti per gli studenti e, per immediato traslato, si rivolsero a tutte le persone colte , non gli avvocati (i quali non si formavano all’università). Sciolto dal vincolo di dover fornire un aiuto ai forensi nella loro ricerca di una soluzione pratica di immediata fruizione professionale, Blackstone potè dedicarsi ad un altro scopo: quello di dimostrare come la struttura fondamentale del common law corrispondesse ad uno schema razionale ordinabile in forma logica e coerente. Dunque egli assunse come piano dei suoi commentaries i modelli della scuola del diritto naturale. Blackstone adottò deliberatamente tali modelli per presentarsi al pubblico come una persona di cultura che aveva ben assimilato le dottrine ed i metodi che qualificavano un autore come tale. Basta scorrere i titoli dei quattro libri in cui si suddividono i commentaries di blackstone per rintracciare le articolazioni familari ad un lettore europeo continetale: il primo libro infatti è intotolato “of persons”, il secondo “rights of things” (ed è aperto da un primo capitolo intitolato “of property in general”), il terzo libro è intitolato “of private wrongs”, il quarto “of public wrongs” ed è sostanzialmente un trattato di diritto penale. Le distanze con la letteratura professionale non derivano però solo dalla sovrapposizione delle grandi partizioni di origine romanistica alle microcategorie derivanti dal sistema delle forms of action. Il fatto è che Blackstone pur non trascurando affato il momento rimediale, parte sempre dal dato sostanziale (cioè dall’attribuzione dei diritti e dei doveri soggettivi) perché è questa la prospettiva dalla quale il non tecnico osserva il funzionamento delle regole istituzionali. Quel tanto di organicità sistematica per la quale i commentaries divennero celebri viene quindi acquisito mediante il ribaltamento della prospettiva professionale, rendendo così palese come nessuna organicità espositiva era attingibile se si continuava a seguire l’impostazione problematico-casistica orientata alla scelta del rimedio (ossia se si continuava a seguire l’impostazione che caratterizzava la “forma mentis” dell’operatore inglese). Ancora più espressivo del modello giusnaturalistico restrostante, è il fatto che Blackstone faccia precedere i suoi commentaries da un capitolo introduttivo dedicato al diritto in generale ed al diritto inglese in particolare. Emergono in tale occasione due caratteristiche tipiche ancorchè contrastanti dell’opera di Blackstone. Il capitolo sulla legge in generale è svolto in forma teoretica e rende manifesta la rottura con il paradigma della letteratura professionale. Prima di Blackstone nesuna opera giuridica aveva svolto un simile argomento per la ragione che agli avvocati non interessava affatto. Il capitolo seguente sul diritto inglese è svolto invece in forma rigidamente storicistica ed ha un precedente molto simile all’opera di Sir Matthew Hale, “the history of the common law of England” ed aderisce quindi ad un modello espositivo preesistente. Il problema cruciale si coglie nel fatto che il common law poteteva essere spiegato mediante la sua storia, ma non poteva essere facilmente calato negli stampi di una logica razionalizzatrice di origine esterna alla tradizione giuridica. Forzando ed a volte falsificando i dati storici, grozio e pufendorf erano riusciti a presentare i materiali romanistici cui attingevano abbondantemente come perfettamente congruenti con la loro visione del sistema giuridico (la quale era in realtà frutto de loro razionalismo filosofico). Ma avevano potuto fare ciò perché per secoli la letteratura giuridica di area romanistica aveva forzato (e talvolta falsificato) la lettera del corpus juris al fine di sistematizzare e razionalizzare il sistema giuridico. Blackstone fu invece un pioniere (il quale si mosse con l’entusiasmo del pioniere e anche con tutta l’insperienza dello stesso). Ciò però non noque alla sua fama né noque allo sviluppo della letteratura giuridica inglese successiva. Al contario: da un lato la presentazione in forma culturamente accettabile di tutta la materia del common law lusingò anche i pratici i quali non esitarono a proclamare che i commentaries erano da considerarsi una esposizione giuridicamente autorevole della loro disciplina. Perciò la letteratura giuridica successiva si orientò nettamente verso la forma espositiva di tipo trattatistico e sostanzialistico, dando corpo ad alcune categorie che sino ad allora erano sconosciute alla tradizione di common law. Si cominciò quindi a parlare di una law of contract in luogo di assumpsit; di real property in luogo di tenures; di damages in generale ecc… Questa letteratura (la cui utilità divenne palese dopo l’abolizione delle forms of actions) era una letteratura professionale nel senso che il suo pubblico era costiutito da operatori pratici i quali perciò furono indotti a formare il proprio bagaglio tecnico sulla lettura di trattati organici e non su riassunti di casistica giurisprudenziale. Il grado di coerenza logica di queste opere venne naturalmente affinandosi con il trascorrere del tempo, e sotto questo profilo l’opera pionieristica di blackstone diede i suoi frutti. Dall’altro lato si deve ricordare come l’opera di Blackstone generò per reazione un altro filone letterario del tutto nuovo: alcuni scrittori inglesi della prima metò del XIX secolo, sia perché legati ai circoli riformatori sia perché meglio acculturati in fatto di logica giuridica, percepirono appieno le aporie in cui blackstone era caduto e pensarono di porvi rimedio. Bentham ad esempio, dedicò critiche feroci ai commentaries di Blackstone perché mascheravano sotto la veste di una apparente organicità sistematica tutte le contraddizioni di quella common law che secondo bentham occorreva riformare per via legislativa. Con maggiore precisione concettuale, Austin ricavò dalla lettura di blackstone l’impressione che occorresse liberare il discorso dei common lawyers da tutte le aporie e le anfibologie che lo rendevano illogico. L’impostazione analitica di austin, se non ebbe un immediato impatto sulla cultura dei common lawyers, diede tuttavia origine ad una scuola di pensiero che richiamandosi alla necessità di una teoria generale del diritto effettivamente coerente sotto il profilo logico, divenne particolarmente influente nell’ambito universitario e seppe anche condizionare la forma mentis dei common lawyers assicurando alla c.d. jurisprudence il ruolo di anello di congiunzione tra la pratica del diritto e la cultura filosofica. In ogni caso le opere di Austin ebbero poco successo quando furono scritte, ma stabilirono un modello di trattazione comprensiva del diritto inglese che successivamente si radicò nella cultura inglese grazie alle opere di Frederick Pollok e di John Salmond, alle quali fu riconosciuta una autorevolezza notevole. Nel XX secolo, la letteratura giuridica inglese, pur non essendo quantitativamente fiorente come quelle continentali, è divenuta completamente trattatistica. Si tratta di una letteratura in buona misura professionale (destinata cioè ai forensi) ; anche se non manca una letteratura accademica di alto livello che però viene considerata più come un apporto culturale che come un ausilio alle attività professionali e dunque non viene citata negli atti processualli, nella pareristica e meno che meno nelle sentenze, dalle quali infatti ogni citazione di autori viventi è formalmente bandita (anche se si tratta di un divieto non accompagnato da sanzioni). Il prestigio della letteratura giuridica professionale è ormai consolidato. Alcuni trattati come quelli inseriti nella collana “the common law library” sono strumenti indispensabili per un primo approccio al diritto inglese. Normalmente si tratta di opere che ricevono molte edizioni, nel corso delle quali, pur conservando il nome dell’autore originario subiscono non poche trasformazioni. La caratteristica della letteratura giuridica inglese rimane peraltro il dato per cui vi è scarso dialogo tra gli autori, le citazioni ed i punti di riferimento sono quasi esclusviamente le sentenze dei giudici (che sono considerate le uniche “autorità” che un professionista può invocare e quindi che è interessato a conoscere). Il fatto è che l’elaborazione del diritto (e così il pensiero critico) è materia riservata alla letteratura accademica e soprattutto alla stessa giurisprudenza. Spetta sempre ai giudici rifornire il sistema dei nuovi concettti e delle nuove regole giurisprudenziail che sono necessari per il loro funzionamento. Ma l’attività della dottrina è crescente. Anche per effetto di regole universitarie che impongono ai professori di pubblicare un certo numero di saggi ogni anno o biennio, il numero delle riviste giuridiche è straordinariamente cresciuto e la massa di commenti dottrinali è divenuta imponente. Anche sotto questo profilo la letteratura giuridica inglese tende ad assomigliare a quella americana e a quella europea continentale, perdendo ogni aspetto di insularità. Nel sistema inglese la sentenza è l’opinione personale del guidice. Anche quando più giudici siedono in una stessa corte , la sentenza è generalmente individuale, rari essendo i casi di opinioni collettive (judgment of the court). Normalmente peraltro molti giudici si limitano a segnalare di essere d’accordo con l’opinione di uno di loro. Ben conosciuta è però l’opinione dissenziente in cui il giudice rimasto in minoranza motiva le ragioni del suo disaccordo. Le dissenting opinions non sono però frequenti nella giurisprudenza come in quella americana, ma come in quella talvolta contengono espressioni di una certa nettezza. Lo stile della giuripsrudenza inglese, oltre che dal carattere individuale della motivazione è condizionato dal fatto che il giudice deve motivare secondo uno standard elevato di ragionamento giuridico: si ritiene infatti che la motivazione (opinion) debba convincere gli altri membri della professione forense. Poiché il giudice è un personaggio di prestigio elevato ci si attende che le sue motivazioni siano redatte secondo uno standard di ragionamento giuridico ed uno stile linguistico altrettanto elevato. Non ci si potrebbe accontentare di uan mtoivazione qualsiasi ed ancora meno di una sentenza che contenga solo pochi e sciatti rilievi. Anche uno stile linguistico disadorno o piattamente burocratico non sarebbe accettabile, perché in contraddizione con il carattere personale dell’opinion. I grandi giudici sono stati maestri dela lingua inglese e le loro sentenze sono considerate anche sotto il profilo letterario. Nelle sentenze inglesi (specie quelle delle Corti Supreme) grande attenzione è ad esempio dedicata alla ricostruzione dei fatti. Non sono rari i casi in cui il fatto è analizato per pagine e pagine in cui il giudice spiega perché accetta una versione dei fatti e rigetta l’altra versione di essi. La minuta analisi del fatto di causa (non dell’iter del processo come avviene in italia) è considerata necessaria al fine di consentire una completa valutazione del ragionamento giudiziale. Vi sono due motivi che sorreggono questa tendenza: da un lato vi è il peso della tradizione che spinge ad un’esame analitico del caso e, del resto, ha conferito ai giuristi inglesi una singolare maestria in tale tipo di analisi; dall’altro lato si deve ricordare che molte leggi moderne affidano al giudice poteri discrezionali proprio affinchè essi possano rendere giustizia “according to all the circumstances of the case”. Perciò i giudici si sentono vincolati dal principio per cui le loro sentenze debbono essere convincenti a dedicarsi ad una dettagliatissima descrizione dei fatti che essi sono chiamati a valutare. Naturalmente quanto si è qui detto concerne essenzialmente le sentenze dei giudici superiori e quelle nelle quali insorga una questione che merita attenzione. I giudici inglesi poi sono soliti fare una distinzione tra le sentenze che riguardano regole e principi di comon law o in cui essi esercitano un potere discrezionale e quelle che concernono solo problemi di interpretazione della legge scritta. In quest’ultimo caso il ragionamento è più stringato, perché i criteri ermeneutici impiegati al rigaurdo si riducono spesso alla sola interpretazione letterale. 4.UN ESEMPIO DI DIVERGENZA SOSTANZIALE: LA LAW OF PROPERTY Nel mondo occidentale attuale, la disciplina di molti istituti cardinali dei rapporti civili (famiglia , proprietà, contratto , responsabilità ecc…) tende ad uniformarsi in quanto viene forzata a generare esiti omologhi dalla accentuata omogeneizzazione di costumi e di modelli economico-sociali convergenti. Sussistono tuttavia diversità più o meno accentuate a seconda dei settori, perché ad esiti analoghi sotto il profilo economico e sociale, si può pervenire mediante itinerari alternativi. Vi sono alcuni settori del diritto civile in cui l’esperienza accumulata in passato ha consentito di pervenire ad una omologia di risultati conservando forti differenze di struttura giuridica. In questi settori si coglie con maggior nettezza il perdurante divario tra l’impostazione di civil law e di common law. Vale dunque la pena di dare conto delle particolarità del Common Law assumendo come esempio i diritti reali da un lato ed il processo civile dall’altro. Si è parlato di “diritti reali” : la traduzione correta per indicare in lingua inglese la categoira romanistica dei diritti reali è “law of property”. Questa locuzione rischia indurre il civil lawyer a pensare esclusivamente in termini di disciplina del diritto di proprietà: ma sarà bene chiarire che tale denominazione identifica l’area dei problemi relativi alle situazioni di appartenenza. La distinzione fondamentale adottata dal diritto inglese in materia di appartenenza incorre tra real e personal property. Questa distinzione risale al periodo formativo del common law e rinvia alla natura dei rimedi invocati per la loro tutela. Come si è ricordato, i writs in forma “precipe quod reddat” avevano carattere recuperatorio, ed erano perciò detti azioni reali; altri writs (come il trespass) avevano carattere risarcitorio , e perciò erano considerati azioni personali in quanto “personale” era considerata l’obbligazione risarcitoria. A livello di rimedi, la distinzione è scomparsa da molto tempo, ma nel frattempo le due categorie di proprietà si erano cristallizzate poiché ognuna aveva ricevuto una raffinata elaborazione sulla base della natura di ciascuna. Oggetto di real property furono inizialmente i possedimenti feudali: una investitura feudale nasceva da un atto solenne e pubblico in cui un signore (Lord) assegnava al proprio vassallo un certo feudo; il vassallo riceveva certi specificati benefici che poteva trarre dal feudo mentre il lord riceveva i servizi del vassalllo. Per ciò che riguarda i benefici ed i servizi , il contenuto del rapporto doveva essere specificato nell’atto di investitura, la disciplina del rapporto era prevista dalla consuetudine, ed ineriva naturalmente ad esso [ESEMPIO : se il vassallo diveniva fellone verso il suo Lord perdeva l’investitura / se le sue figlie si sposavano il signore doveva approvare il matrimonio per impedire che sposassero i suoi nemici ecc..] Per quanto riguarda la natura dei benefici, la titolarità di un feudo dava diritto ad esercitare ed esigere certi benefici che erano tradizionalmente dovuti dalla popolazione locale al signore del luogo (Ad esempio: il diritto di nominare il parroco, di esigere il pedaggio ad un guado, di esercitare la bassa giustizia ecc..) ma era ovvio che il medesimo territorio forniva benefici o utilità anche ad altri soggeti collocati nella catena dei rapporti feudali (ad esempio: la concessione di un feudo da parte del sovrano non comportava di solito l’attribuzione delle ricchezze che potevano scoprirsi nel sottosuolo che era invece del sovrano, assieme al diritto di caccia ecc.. ) In tal modo il medesimo feudo forniva utilità a differenti soggetti, ognuno dei quali era titolare di certi diritti e non di altri. Inizialmente quindi l’attribuzione di un feudo non comportava che la terra di quel feudo appartenesse al feudatario: ciò che apparteneva ad esso erano solo i vari benefici che gli venivano attribuiti con l’investitura. Il carattere fortemente dematerializzato dell’appartenenza che si rivolge a diritti su utilità precise è rimasto una delle idee portanti della concezione della real property. Al contrario il carattere personale del rapporto feudale di vassallaggio è svanito abbastanza presto in Inghilterra : il costume feudale già prevedeva che in caso di morte del vassallo, il suo filgio legittimo dovesse essere investito del medesimo feudo anche se occorreva procedere ad una nuova cerimonia di investitura ma la tutela offerta direttamente a tutti i titolari di feudi contribuì a far cedere nell’oblio simile cerimonia, per cui i feudi si intesero come trasmissibili per via di successione ereditaria legittima (e , assai piu tardi, anche testamentaria). Nel 1290 lo statute Quia Empores diede poi ai feudatari il diritto di alienare liberamente i loro feudi. Con ciò la posizione del vassallo (che originariamente si inseriva in un rapporto) si cristallizzò in una posizione di diritto soggettivo indipendente dal rapporto con il Lord e quindi i benefici che teneva come vassallo divennero perpetuamente suoi, ossia divennero il suo “estate” (status). Inizialmente i tipi di estates furono molti. Tuttavia ma in inghilterra la legislazione ha ridotto i tipi di “estates” validi per il commmon law a due soli tipi: il “fee simple absolute” ed i “leasehold”; gli altri sono tutelabili in equity. La c.d. doctrine of estate, è costituita su tre dimensioni: la prima misura la durata di un estate; la seconda misura l’estensione del diritto di disporre; la terza misura il godimento delle utilità racchiuse nell’estate. Se si assegna un valore massimo a ciascuna di queste tre dimensioni, si ottiene il tipo di estate più elevato:il “fee simple absolute”. Il fee simple absolute è la base del calcolo degli estates, poiché si tratta di una situazione proprietaria in cui il tempo di durata è illimitato, il potere di disporre (nel senso di trasferire ad altri) è illimitato ed il godimento è quello massimo consentito dall’ordinamento giuridico. Ne consegue che da questa posizione possono essere distaccate altre posizioni minori , purchè però , l’insieme di queste posizioni minori componga sempre un fee simple absolute. L’immagine metaforica è quella del bastone: il bastone intero corrisponde al fee simple absolute; quando da esso si ritagliano porzioni minori , rimane necessariametne qualche pezzo del bastone originario: ad esempio, se A titolare di un fee simple absolute dà a B un fee for life (ossia un’estate che dura per tutta la vita di B) rimane in capo ad A il diritto di godere del fondo per un periodo di tempo illimitato meno la durata della vita di B. però ciò che vienen trasmesso a B è un diritto che, a parte la durata minore, ha le stesse carattteristiche del precedente fee simple absolute: il diritto di alienare è quindi illimitato ed il diritto di godimento è parimenti quello massimo ammesso dall’ordinamento (ovviamente se B aliena il suo diritto o lo concede in garanzia, ciò che aliena/da in garanzia può essere solo ciò che ha ricevuto, ossia un diritto la cui durata nel tempo è misurata dalla sua vita). Entrambi gli estates sono contemporanemanete in essere: se infatti da un fee simple absolute si distacca un fee for life, significa che sullo stesso fondo esisteranno nello stesso momento due estates. Di questi, il fee for life sarà un estate in possession perché il godimento immediato delle utilità spetta al suo titolare; il fee simple absolute sarà un’estate in expectancy, perché il godimento sarà rinviato alla scadenza del fee for life. Entrambi però possono essere alienati/divisi/ concessi in garanzia. Se entrambi gli estates sussistono sul medesimo fondo, ciò significa che colui il quale ne è attualmente in possession deve comportarsi in modo da non danneggiare il dirito di colui che ha un estate in expectancy. Questi doveri si raccolgono nella nozione di waste e sono piuttosto ovvi. Sino a qui la doctrine of estates non sembra contenere alcunchè di particolare. In effetti le singolarità iniziano quando negli atti di attribuzione si fa entrare il gioco delle condizioni. Giova quindi ricordare come il carattere unilaterale dell’atto di investitura abbia del tutto impedito di pensare al trasferimento della real property come all’effetto di un contratto, e come inoltre la debolezza del diritto dei contratti nel common law classico abbia indotto i giuristi inglesi a provvedere a disciplinare le conseguenze degli avvenimenti futuri ed incerti ritagliando direttamente le situazioni di appartenenza che venivano create. In altri termini: mentre il civil law (ove il diritto dei contratti è tradizonalmente sviluppatissimo) il gioco delle condizioni inerisce alla fonte del rapporto e da essa incide sugli effetti del contratto; nella tradizione della law of property invece, il gioco delle condizioni incide direttamente sul contenuto della situazione di appartenenza che viene attribuita. Ad esempio il fee simple absolute è incondizionato. Pertanto se A, titolare di un fee simple absolute, vuole attribuire il suo diritto a B, ma vuole anche che l’estate sia preservato per un certo uso (ad esempio un campus universitario) attribuirà a B un fee simple determined (ove la determinazioen è costituita dal fatto che il fondo sia destinato a campus universitario). In questa ipotesi, il principio sopra richiamato per cui l’insieme degli estates in essere deve comporre un fee simple absolute, indica che qualcosa deve rimanere in capo ad A ed ai suoi eredi , perché l’estate di B è meno di un fee simple absolute. Infatti in capo ad A ed ai suoi eredi rimane una possibility of reverter, ciè la possibilità che l’estate di B ritorni ad A quando viene meno la destinazione a campus universitario. Siccome la determinazione dell’uso inerisce all’estate di B, la sua estinzione in caso di mutamento di destinazione è automatica. Si può allora introdurre una variante mediante una diversa formulazione dell’atto di attribuzione, in cui si specifichi che l’attribuzione è in fee simple absolute, ma con la condizione risolutiva (condition subsequent) che se il fondo cesserà di essere destinato a campus universitario, il titolare delll’originario fee simple absolute potrà esercitare un right of entry. In tal caso se si verifica il fatto del mutamento di destinazione d’uso l’estate di B non scompare automaticamente ma solo in seguito all’esercizio da aprte di A o dei suoi eredi , del right of entry. Come è ovvio il gioco delle condizioni moltiplica le sfaccettature della situazione di appartenenza cui inerisce , ed è questo gioco ciò che rende complicata la materia della real property ed assai delicata la redazione e l’interpretazione degli atti di attribuzione. Lo snodo principale risiede nel fatto che la nozione originaria di investitura rende l’attribuzinoe compatibile con qualsiasi condizione risolutiva (condition subsequent) e concettualmente incompatibile con qualsiasi condizione sospensiva (condition precedent). Ciò si coglie meglio se ci si riporta alla logica originaria del rapporto di vassallaggio: in tale contesto la frase “ti attribuisco il tal feudo, ma se sarai fellone lo riprenderò”. Tale frase era perfettamente allineata con il modo di sentire dle tempo, tanto che la seconda parte non veniva nemmeno pronunciata ed ineriva egualmente al rapporto; invece la frase “ti attribuirò il tale feudo, se ritroverai il santo graal “ non valeva come atto di investitura, perché non poteva valere come atto di attribuzione. Infatti, nell’attesa di trovare il Graaal , il cavaliere non aveva alcun feudo; egualmete non si poteva investire di un feudo una persona che non fosse esistente, perché in tal caso non poteva crearsi alcun rapporto personale di vassalllaggio. Con la cristalllizzazione dei feudi e la loro trasformazione in estate, la logica primitiva si è preservata, ma anche in parte adattata: se A, titolare di un fee simple absolute, attribuisce a B un estate for life e a C ciò che resta del suo estate primitivo (remainder), la somma dei due estates deve comporre un fee simple absolute. Ma poiché il fee simple absolute è incondizionato, anche la somma dei due estates deve essere incondizionata. Pertanto se A, titolare di un fee simple absolute, dispone per testamento nel modo seguente : “ a mia moglie per la durata della sua vita, ed il rimanente (remainder) a mio figlio Giacomo a condizione che si laurei in giurisprudenza prima della morte di sua madre”, ne risulta una attribuzione incompleta dell’estate originario. Il calcolo da farsi in proposito è il seguente: qualolra la moglie muoia il suo estate per la vita si estingue automaticamente e se in quel momento giacomo non si è ancora laureato , egli non può pretendere niente. Però il fee simple absolute originariamente in campo ad A non può distruggersi, quindi il fee simple già appartenente sarà devoluto mortis causa ai suoi eredi anziché essere attribuito al solo giacomo al quale quindi, non è attribuito un estate, ma solo la mera possibilità che quanto gli viene attribuito diventi un estate. Da ciò discende la distinzione fondamentale tra vested e contingent (condizionanti) remainder. Infatti A potrebbe disporre nel suo testamento “ a mia moglie per la vita, il rimanente a mio figlio giacomo, ma questi perderà il suo diritto se non si sarà ancora laureato in giurisprudenza al momento della morte di sua madre”. Una simile disposizione comporta che giacomo sarà immediatamente vested del suo estate in expectancy, salva la condizione risolutiva (subsequent) del mancato conseguimento della laurea. Il caratteristico rompicapo che deriva da questa netta opposizione è che gli effetti pratici delle due condizioni possono essere perfettamente analoghi, ma la posizione giuridica è formalmente assai diversa: se infatti un remainderman è vested, egli può disporre liberamente del suo estate /è sicuramente tutelato dalle regole di in tema di waste/non può decadere dalla sua titolarità per effetto della rule against perpetuities; ove invece sia contingent : non può alienare /è meno protetto dalla rule of waste/ è soggetto alla invalidità comminata dalla rule against perpetuities. In quest’ultimo caso il livello di complicazione giunge a gradi parossistici. Per ragioni accidentali infatti la rule against perpetuities è stata formulata con scarsa chiarezza: essa prevede essenzialmente che non può essere validamente creato un future interest (sia in law che in equity) se non è sicuro che l’interest in questione potrà divenire vested entro il termine di 25 anni dalla morte di una persona in vita. L’enorme incertezza della regola è in gran parte imputabile al fatto che essa invalida l’atto di attribuzione e dunque il calcolo deve essere fatto ex ante. In altri termini, bisogna valutare se esistono sufficienti ragioni per ritenere che detto interest diverrà vested entro 25 anni dal momento in cui il futur interest viene creato. Essendo però il termine assai lungo, ciò mette a dura prova la capacità di previsione degli essere umani (giudici compresi). Oltre al fatto che si tratti di una regola di assai delicata applicazione, giova ricordare la sua primitiva funizone di policy: l’obiettivo era quello di impedire i fedecomessi familiari perpetui che venivano posti in essere mediante il trust. Era infatti possibile trasferire un estate in trust indicando come benificaries successivi il proprio erede legittimo e poi l’erede legittimo del proprio erede legittimo e così via all’infinito. Il termine di 25 anni dalla morte di una persona in vita sbarrava quindi simili attribuzioni. [ESEMPIO: Si supponga ad esempio che A, costituente il trust, avesse al momento della costituzione un figlio. In tal caso poteva designare come beneficiari successivi del trust se stesso, e poi il proprio figlio, e poi ancora l’erede del proprio figlio anche se costui non era ancora nato (infatti in tale circostanza può essere ragionevole attendersi che il figlio già in vita abbia un erede, che può essere vested del beneficio entro 25 anni dalla morte del figlio. Ma non può essere validamente designato il bisnipote del costituente poiché la possibilità che costui sia in vita (e quindi possa divenire vested) entro il termine predetto è troppo speculativa]. Essenzialmente quindi la rules against perpetuities funziona come un limite temporale allo scadere del quale un fedecommesso viene necessariamente a cessare. Al di là di tutto ciò, è bene ricordare come la opposizione tra vested e contingent è la causa di tre fattori che sono crittotipi potenti all’interno della logica della law of property e che posono essere così riassunti: la concezione dell’atto di attribuzione come atto unilaterale; la concezione della proprietà come misura certa dei diritti che la compongono; la concezione per cui l’atto di attribuzione può definire la misura e l’estensione della proprietà, ma non può definire la misura dei suoi effetti. Pertanto l’opposizione tra vested e contingent ha un raggio di applicazione che travalica di molto la posizione del remainderman, per divenire una delle categorie ordinanti dell’intero settore delle situazioni di appartenenza. Accanto agli estates che derivano dai rapporti feudali (detti freehold estates) esiste un altro tipo di estates che trae origine da rapporti fondiari a carattere commerciale (non freehold estates). Nel medioevo , quando un Lord voleva procurarsi denaro liquido, poteva prenderlo a prestito e concedere il suo feudo in godimento al creditore per certo numero di anni (leasehold) quanti erano necessari a ripagare il debito, oppure poteva concederlo in godimento in cambio di una rendita (firma). In sostanza si trattava di un rapporto funzionalmente analogo al nostro affitto. Né il termor né il firmarius erano investiti , perché l’investitura era riservata ai rapporti di vassallaggio: perciò la loro situazione non era tutelata con le real actions e dunque non faceva parte della real property. Tuttavia l’evoluzione dei rimedi (ossia il decadere di quelli che tutelavano la real property e lo svilupparsi invece di quelli che derivavano dal trespass) non solo condusse a fornire la termor of years una tutela recuperatoria che inizialmente non esisteva ma portò poi anche i titolari di freehold estates a ricorrere questi rimedi. A questo punto le differenze basate sui rimedi erano completamente scomparse, ma l’opposizione tra frehold e non frehold estates si era ormai consolidata. Ciò conferisce a questi estates (in particolare al leasehold) una posizione ambigua sotto il profilo classificatorio. Poiché esso è protetto con i medesimi rimedi che proteggono gli altri estates e , soprattutto, poiché riguarda il settore immobiliare, esso è assimilato alla property; ma la classificazione tradizionale lo inserisce ancora nella personal property, all’interno della quale occupa una posizione particolare : quella dei chattels real. Ma va da se che l’assimilazione del leasehold alla real property è la tendenza moderna che appare sempre più prevalente, mentre la classificazione tradizionale è solo un reliquato storico con scarsa ragion d’essere. La collocazione sistematica del leasehold fa da ponte tra real e personal property. Riguardo la personal property, occorre precisare che le sue scansioni interne prevedono una opposizione tra chattels real e chattels personal: la prima categoria comprende solo il leasehold; i chattels personal rappresentano tutti gli oggetti della personal property in senso stretto. La categoria del chattels personal si suddivide in choses in action e choses in possession (quest’ultima comprende i goods ed il denaro). Come si percepisce immediatamente l’asse portante dell’intera materia della personal property è data dalll’opposizione tra choses in action ed in possession. Choses in possession sono quei beni mobili materiali che si possono godere direttamente (l’ulteriore sotto distinzione che è presente in essa tra goods e money dipende in parte dal fatto che, nel diritto inglese, la definizione di goods si trova nel “sale of goods act” e naturalemnte nello schema della vendita il denaro è la controprestazione che è data in cambio di un bene corporale, distinta pertanto da essi). In buona misura tuttavia la ragione per cui è covneniente distinguere il denaro dagli altri beni è la diversa regola di circolazione e tutela. Solo nel caso del denaro infatti la regola per cui chi l’acquista a non domino in buona fede ed a titolo oneroso ne diviene senz’altro proprietario, mentre per gli altri beni mobili il principio (pur contornato da numerose eccezioni) rimane quello per cui “nessuno da quello che non ha” e pertanto non si può acquistare un titolo di proprietà da chi non ne sia titolare. La categoria più interessante è tuttavia quella delle choses in action: il nome deriva dalla posizione del diritto di credito che può essere esercitato solo proponendo azione in giustizia. La categoria si è mano a mano estesa sinoa comprendere tutta una serie di beni immateriali (dal diritto d’autore, all’avviamento commericiale goodwill ecc..) la lista a questo riguardo è sempre aperta essendo solo necessario che si tratti di una utilità definita che possa essere ceduta ad altri senza mutare natura: pertanto un credito certo che possa essere ceduto (assigned) è un chose in action, mentre è dubbio che possa essere considerato un chose in action una pretesa risarcitoria (claim) in quanto la pretesa non può essere ceduta e l’ammontare del risarcimento non è certo. La larghezza con cui la lista delle chose in action(e quindi la law of property) si apre a nuovi beni immateriali è una immediata conseguenza della concezione fortemente dematerializzata della law of property. Se si assume che (come sempre accade) sia la proprietà immobilare la forma che da tono e caratteristica alla struttura del diritto di proprietà, discende da quanto si è rilevato in tema di real property come nella concezione di common law l’oggetto della proprietà non sia mai la cosa materiale, ma un diritto ben definito. Da ciò discende un rafforzamento della tendenza di fondo del common law ad essere property oriented: infatti tutti i nuovi diritti che sono stati introdotti dalla rivoluzione industriale e dalla rivoluzione informatica , possono essere agevolmente classificati tra gli oggetti della law of property. Questo spiega perché, ad esempio, nei sistemi di common law (a partire da quello statunitense) il problema della tutela dei programmi per computer sia stato immediatamente incanalato verso la tutela mediante la concessione di copyright, mentre nei sistemi di civil law si sono manifestate perplessità e resistenze. La latidutine che la sua concezione dematerializzata conferisce alla law of property, ha riscontri in numerosi settori dell’ordinamento. Qui giova richiamare l’attenzione sul fatto che essa consente di ritagliare situazioni “proprietarie” (cioè situazioni che nelle categorie romanistiche si direbbero di diritti reali) da fattispecie in cui il giurista romanista riesce a scorgere solo diritti di credito. Questa diversità di ottica è tutt’altro che di interesse esclusivamente teorico, perché invece è alla base delle diversità di struttura che caratterizzano il moderno mercato finanziario CAPITOLO QUINTO: L’ESPERIENZA GIURIDICA DEGLI STATI UNITI D’AMERICA SEZIONE PRIMA: L’ORIGNALITA’ DELL’ESPERIENZA AMERICANA IN PROSPETTIVA STORICA 1.LA RICEZIONE DEL COMMON LAW NELLE COLONIE AMERICANE Gli attuali stati uniti d’america si proclamarono uno stato indipenente e sovrano nel 1776. In tale anno la nuova nazione si cosituì in una confederazione di 13 stati, derivati da 13 colonie tutte poste sulla costa atlantica. Ognuna di queste 13 colonie si popolò a partire dal 1607 di coloni venuti dall’inghilterra, scozia e irlanda scacciando gli americani nativi. Nel XVII secolo si formò anche un insediamente olandese, ma esso fu conquistato dagli inglesi e mutò il suo nome da New Amsterdam in quello di New York. Il diritto in base al quale vivevano le popolazioni locali non era il common law d’inghilterra ma bensì un miscuglio di attti e documenti para-legislativi e consuetidini locali rapidamente formatisi. Del resto , alla ricezione del sistema giuridico inglese mancava una componente fondamentale: la presenza di un numero sufficiente di giuristi in grado di porlo in essere. Inizialmente il numero rarefatto di abili avvocati era imputabile da un lato alla naturale ritrosia degli avvocati di successo ad emigrare (scelta quasi sempre derivante dalla disperazione) e d’altro lato, ad un sentimento antilegalistico diffuso in una popolazione formata da persone che, invece, ad una certa disperazione erano stati ridotti dalle leggi oppressive vigenti nella madre patria. Anche quando, successivamente, furono presenti nelle colonie più sviluppate giuristi dotati di buona cultura giuridica, si era nel frattempo formato una sorta di circolo vizioso per cui l’assenza di una offerta adeguata da parte dei giuristi indirizzava la domanda sociale di ordine e giustizia verso forme alternative, e la presenza di queste ultime scoraggiava la formazione di giuristi aventi una preprazione tecnica conforme agli standard britannici. Questo circolo vizioso fu parzialmente spezzato intorno alla fine del XVIII secolo dalla apparizione dell’opera di Blackstone che, fornendo una sintesi del sistema giuridico inglese in una dimensione abbordabile, ne consentiva l’apprendimento iniziale da parte di una cerchia più larga di persone. L’accresciuto numero di persone acculturate nel common law avvicinò il ceto dei giuristi a quella massa critica la quale consente ad essi di monopolizzare l’amministrazinoe della giustizia imponendo l’uso di quella ragione artificiale che integra il tecnicismo della common law. Questo meccanismo per cui quando il gruppo di coloro che sono acculturati nelle tecniche giuridiche diviene sufficientemente ampio da imporre il proprio modo di pensare come paradigmatico in seno alla professione legale e spinge sotto pena di esclusione tutti gli altri membri del gruppo a perfezionare le proprie conoscenze tecniche, non si verificò all’unisono in tutte le ex colonie. Anzi, esso fu reso assai diluito nel tempo per effetto dell’espansione degli stati uniti verso la costa del pacifico. Mano a mano che procedeva la colonizzzazione verso ovest si riproducevano nei nuovi territori, le condizioni iniziali delle colonie originarie. Nei nuovi insediamenti formatisi nell’ovest la scarsezza di giuristi preparati apriva le porte della professione legale ad ogni tipo di persone (anche davvero poco preparate tecnicamente). Sicchè nell’esperienza americana la definitiva conquista del monopolio dell’amministrazione della giusitzia da parte di giuristi esperti si è verficata solo nel XX secolo, epoca in cui la ricezione del sistema di common law può dirsi completata. Nel tempo occorso per portare a termine questa ricezione si è verificata peraltro anche una profonda rielaborazione dei materiali e degli schemi giuridici inglesi, sicchè quella americana può dirsi più una esperienza di common law rivissuta in forme fortemente originali che non una ricezione pura e semplice. In effetti, se si riflette criticamente sui dati storici e sociologici , si può notare come la situazione inglese e quella americana fossero (e rimangono) assolutamente dissimili. L’unico llegame peculiare sia all’esperienza americana che a quella inglese è costituito dalla lingua e dalla cultura. 1) È da considerare come dai tempi dell’invasione normanna sino al XX secolo, l’inghilterra è stata una nazione etnicamente compatta, con una popolazione relativamente stabile. Gli stati unti sono la nazione multietnica per eccellenza. 2) L’inghilterra è una paese tradizionalmente accentrato e la preponderanza del centro londinese è stata massima nel settore dell’amministrazione della giustizia e dell’esercizio delle professioni legali. Gli stati uniti sono tradizionalmente un paese policentrico: alcuni centri urbani come Boston, Philadephia e (soprattutto) new york city , hanno assunto in certi periodi storici ruoli protagonistici ma non mai paragonabili all’egemonia Londinese sulla vita inglese. La vicenda del diritto americano è originale e non una riproduzione storicamente più tarda dei modelli europei. Se da un lato l’esperienza giuridica americana ha indubbiamente mutuato dal common law d’inghilterra il proprio vocabolario giuridico di fondo e moltissime nozioni giuridiche istituzionali, è anche vero che, sotto altro angolo visuale, l’esperienza americana sembra rivivere nel giro di meno di tre secoli l’intera esperienza giuridica occidentale. In simile moto accelerato , si è assistito ad una competizione più accesa tra i diversi formanti ed una loro inedita ricombinazione sino a ricavarne esiti innovativi rispetto alle esperienze europee. Sicchè quella accelerazione proietta l’originalità dell’esperienza americana nel futuro dell’europa anziché confinarla in una ripetizione del suo passato. 2.LA RILEVANZA DELLA COSTITUZIONE FEDERALE: IL CONTESTO STORICO-POILTICO DELLE SUE ORIGINI Nella seconda metà del XVIII secolo non si verificò solo (grazie ai commentari di Blackstone) una più intensa ricezione del modello giuridico inglese, ma anche un profondo influsso di cultura europea non religiosa, veicolato essenzialmente dalle opere dei giusnaturalisti e degli illuministi. Gli americani dell’epoca espressero una èlite culturale che univa al forte senso della libertà e della resistenza all’oppressione maturato dal ceppo storico della dissidenza religiosa, un altrettanto forte sentimento di autonomia individuale, maturato nelle condizioni economiche e sociali degli insediamenti coloniali. Essi trovarono quindi nella ideologia dell’epoca dei lumi l’espressione più potente e convincente del loro modo di sentire. La dichiarazione di indipendenza approvata il 4 luglio 1776 è un documento chiaramente ispirato dalla filosofia di Locke, in cui si manifesta appieno l’intenzione dei padri fondatori di dotare la nuova nazione di ideali universali imperniati sul riconoscimento e sul rispetto dei diritti umani. Nel 1787 si riunì a Philadelphia una convenzione composta dai rappresenanti di 12 stati con il proposito di progettare una nuova forma di governo federale. A riprova della loro sostanziale compattezza ideologica e culturale, i gentiluomini li riuniti riuscirono a redigere in un tempo piuttosto breve il testo di una costituzione che ha retto la prova di oltre due secoli di storia (tra le costituzioni scritte attualmente in vigore nei paesi occidentali, la costituzione federale americana è di gran lunga la più antica). La trama della costituzione americana è leggibile come ricerca di tre punti di equilibrio: il primo doveva essere trovato all’interno del sistema di governo federale, ed esso fu individuato in base alla più schietta adesione alle teorie di Montesquieu sulla divisione dei poteri. Pertanto il sistema di governo federale fu suddiviso in tre poteri indipendenti che si possono controllare a vicenda. Il potere esecutivo è affidato al presidente degli stati uniti (eletto per 4 anni ad opera di un collegio di grandi eletttori). Il presidente nomina i propri ministri e tutti i funzionari federali, compresi giudici federali, ma tali nomine debbono essere ratificate dal senato degli stati uniti. Il potere legislativo è affidato al congresso ,organo bicamerale composto da una camera dei rappresentanti e da un senato: I rappresenanti durano in carica per due anni mentre i senatori sei. Tuttavia il presidente può opporre il suo veto alle leggi votate dal congresso ed in tal caso il congresso può riapprovarle solo con una magioranza qualificata dei 2/3. Il potere giudiziario federale è affidato a giudici nominati dal presidente con l’approvazione del senato. Questo primo equilibrio è stato abbastanza facile da ottenere perché la ricetta della divisione dei tre poteri dello stato elaborata da Montesquieu era moneta corrente nella cultura della seconda metà del 700 e, d’altra parte, il potere federale essendo nuovo di zecca poteva essere edificato secondo un progetto illuminato senza quegli adattamenti e compromessi che lo hanno piuttosto annacquato in Europa. Il secondo punto di equilibrio riguarda i poteri assegnati al sistema di governo federale rispetto a quelli mantenuti dai singoli stati facenti parte dell’unione. Nella convenzione di Philadephia si confrontarono due visioni, le quali poi diedero luogo a due partiti politici: i federalisti (inclini ad un potere federale forte) ed i nazionalisti repubblicani moderati (i quail, pur a favore di una unione più stretta, desideravano però mantenere il maggior potere poltiico possibile ai singoli stati). Questa contrapposizione aveva due facce: da un lato si doveva individuare che cosa fosse di competenza del sistema di governo federale e che cosa rimanesse agli stati; dall’altro si trattava di individuare in quale modo i singoli stati concorressero al sistema di governo federale. Questo secondo aspetto del problema era reso acuto dal fatto che i singoli stati (ossia le ex colonie) non erano per nulla eguali quanto ad estensioen territoriale/popolazione/peso economico. Però era impossibile rinunciare al sistema elettivo sia del congresso federale come del presidente e vice presidente degli stati uniti, sicchè il problema diveniva quello del meccanismo elettorale. Il compromesso, raggiunto in seno alla Convenzione Di Philadephia, prevede di far eleggere la camera dei rappresentanti in base alla popolazione e disporre invece che ciascuno stato (indipendentemente dalla sua popolazione) invii due senatori per l’altra camera. Il carattere rigido della costituzione divenne la pietra d’angolo su cui venne fondato il terzo equilibrio che i costituenti volevano creare. Il loro sentimento aristocratico li indusse infatti a scorgere con lucidità la contraddizione che intercorre tra potere sovrano del popolo e quindi tra il principio democratico maggioritario e la tutela dei diritti individuali, tra i quali appariva ai loro occhi eminente quello di proprietà. Poiché essi ritenevano che il diritto di proprietà fosse destinato ad interessare una frazione minoritaria della popolazione ne trassero la conseguenza che occorreva ricercare a livello costituzionale un equilibrio tra principio maggioritario e tutela dei diritti individuali, la cui esistenza doveva essere in una certa misura protetta contro i possibili esiti estremi della democrazia rappresentativa. Secondo alcuni tra i costituenti, la ricerca di questo equilibrio doveva essere condotta a livello di struttura del sistema di governo, ossia quest’ultima doveva essere disegnata in modo tale da garantire il rispetto dei diritti individuali anche se questi politicamente rappresentano interessi minoritari. Ed erano tanto convinti di essere riusciti nell’intento che omisero di inserire nel loro testo costituzionale un “Bill Of Rights” (cioè un elenco di diritti umani inviolabili): omissione significativa perché un simile elenco sembrava costituire parte integrante di una costituzione sia in base alla tradizione specificamente americana delle dichiarazioni e carte coloniali, sia in base ai dettami della cultura illuministica e giusnaturalistica europea. 3.IL PROGETTO DI UN “LIMITED GOVERNMENT” NELLE INTENZIONI DEI COSTITUENTI In sintesi si può dire che alcuni dei più influenti redattori del testo della costituzione federale (soprattutto Madison) pensavano che il diritto sostanziale della nuova unione dovesse essere il common law e che questo tutelasse in misura sufficiente i diritti individuali. Il pericolo era quindi che il common law venisse derogato dalla legislazione votata da assemblee elettive in preda a febbri demagogiche. Contro tale pericolo : a livello di assemblee statali, la costituzione apprestò misure ben esplicite, sottraendo alla competenza degli stati i tutte quelle materie che potevano concretizzare questo pericolo; a livello di sistema di governo federale la costituzione invece processo legislativo in cui per emanare una legge federale occorre trovare un compromesso tra un numero così elevato di interessi costituzionalmente diversificati, da rendere sperabilmente inagibile la legislazione come strumento di riforma del diritto privato comune. Legiferare a livello federale implica infatti la necessità di tenere conto degli interessi immediati degli stati più popolosi (altrimenti non si ottiene la maggioranza in senso alla camera dei rappresentanti i cuoi membri debbono affrontare la rielezione ogni due anni; degli interessi di piu lungo periodo della maggior parte degli stati, altrimenti non si ottiene la maggioranza in senso al senato i cui membri sono due per stato ed affontano la rielezioen ogni sei anni); dell’interesse dell’unione così come interpretato dal presidente in carica, altrimenti ci si scontra con il suo veto. I padri costituenti speravano che da un simile processo legislativo potessero sortire solo leggi di rilevanza triviale o grandi leggi politiche ma non leggi civili , perché tutti quei centri di interesse non si sarbbero mai coordinati per derogare al common law. Da questa impostazione deriva una conseguenza basilare. La costituzione americana, al fine di trovare un equilibrio tra il principio maggioritario e la tutela dei diritti individuali delle minoranze politiche, non concepisce il mito della volontà generale la quale si manifesti in una assemblea nazionale (e, di conseguenza ripudia anche il mito della legge come strumento di manifestazione dell’onnipotenza della nazione): al contrario si adopera molto per limitare il principio maggioritario. Però la struttura fondamentale del sistema di governo americano rimane quello di una democrazia e perciò non può rifiutare il primo corollario di essa, cioè quello per cui alla fine la maggioranza vince sempre. Per tutto il XIX secolo il disegno di Madison per equilibrare la democrazia con il rispetto dei diritti individuali delle minoranze mediante la struttura di governo è stato complesivamente rispettato, poiché la legislazione federale è rimasta essenzialmente una legislazione politica e non civile, la quale quindi poco ha interferito con la crescita organica del sistema di diritto giurisprudenziale. Ciò ha consenito al commmon law di svilupparsi e consolidarsi come diritto nazinale degli stati uniti d’america. Ma nel XX secolo il vento è mutato e la maggioranza degli americani ha voluto che la legislazione divenisse direttamente o indirettamente la fonte principale del diritto. In queste nuove condizioni è venuta ad emergere un’altra visione risolutiva del problema dell’equilibrio tra la ragione dei più ed i diritti dei pochi. A tal riguardo va innanzittutto ricordato come la lacuna riguardante l’elenco dei diritti sia stata presto colmata: all’indomani della ratifica della costituzione, essendo risultato che tutti i partiti ritenevano desiderabile una espressa menzione dei principali diritti umani (come barriera esplicita ad una seppure improbabile tirannia federale) 10 emendamenti alla costituzione vennero unanimamente ratificati nel 1791. Di questi primi 10 emendamenti, i primi nove sono comumente detti “Bill Of Rights” perché contengono l’elenco dei diritti e dei valori fondamentali. Sul riconoscimento di tali diritti e valori non vi su mai alcun contrasto. Piuttosto alcuni tra i costituenti pensavano che la loro concreta tutela non deve essere solo il frutto indiretto di un accorto disegno costituzionale (come nel XIX secolo) ma dovesse invece risultare dal pieno rispetto di quel principio generale per cui l’azione politica è subordinata alla legalità. Una volta inseriti i diritti individuali nel testo di una costituzione rigida, essi vengono collocati ad un livello di legalità non intaccabile da parte dei legislatori se non tramite apposito procedimento di revisione costituzionale. In definitiva, in questa visione, la maggioranza non potrà affatto legiferare secondo la sua sola volontà , ma dovrà esprimere la propria volontà politica all’interno dei confini tracciati da una costituzione la quale incorpora i diritti individuali come valori di fondo su cui si regge l’intera convivenza civile. In ciò si coglie il punto di equilibrio di cui si era alla ricerca, perché sino a quando la costituzione non viene emendata (tramite l’apposito procedimento aggravato) è compito dei giudici (i quali sono costituzionalmente sottratti al circuito rappresentativo e dunque non sono necessariamente espressione della maggioranza del momento né sono necessariamente succubi di essa) vigilare affinchè la legislazione non travalichi i suoi confini invadendo il territorio della legalità costituzionale. Questa lettura della costituzione conduceva a configurare un controllo di costituzaionalità dei giudici sulle leggi votate dal congresso; controllo che invero non era chiaramente prefigurato dai padri costituenti. 4.L’INTRODUZIONE DELLA JUDICIAL REVIEW La costituzione federale, essendo il frutto di un compromesso tra le due visioni sopra ricordatenon parla espressamente di un sindacato di costituzionalità sulle leggi votate dal Congresso. Tuttavia il rapporto di supremazia che essa indubbiamente istituisce tra la norma costituzionale e la legge ordinaria, rende la judicial review praticamente inevitabile . Infatti nell’ipotesi in cui un giudice debba giudicare un caso al quale si applichino contemporaneamente una disposizione della costituzione e una norma di legge ordinaria le quali siano in contrasto tra loro, egli non avrà altra scelta se non quella di applicare l’una e disapplicare l’altra. Se si impone al giudice di attenersi alla legge ordinaria nonostante l’antinomia con la disposizione costituzionale, questo implica che la costituzione si riduce per una parte ad un programma politico privo di valore legale e per altra parte alla organizzazione di una struttura politica dominata dal principio maggioritario. Poiché entrambe queste implicazioni erano inaccettabili per tutti i costituenti, unanime era la credenza che nel caso sopradescritto un buon giudice avrebbe dovuto disapplicare la legge ordinaria ed attenersi alla costituzione. La differenza era che alcuni (come Madison) erano tanto sicuri di aver disegnato un sistema di governo federale così ben calibrato da escludere la possibilità di una palese antinomia tra costituzione e legge ordinaria. Contrariamente alle aspettative di Madison, il caso di una palese antinomia tra legge federale e testo della costituzione si verificò per ironia della sorte in un caso che lo coinvolgeva personalmente come parte in causa: il caso Malbury v. Madison nacque nel delicato frangente del passaggio da una presidente ad un’altra. Dopo la ratifica della costituzione , George Washington era stato eletto presidente (1787). Benchè ufficialmente al di sopra delle parti, egli era il nume tutelare dei federalisti e poiché dopo il secondo mandato rifiutò di farsi rieleggere per la terza volta fu eletto un altro federalista: John Adams. Nelle elezioni del 1800 vinse però il partito repubblicano-democratico guidato da Jefferson. Tuttavia tra il momento delle votazioni e quello della entrata in carica del nuovo presidente vi era un intervallo di alcuni mesi. I federalisti che dominavano ancora sia la presidenza che entrambe le camere pensarono in tale inervallo di preoccuparsi anche delle loro sorti personali. Uno degli espedienti a questo scopo fu quelo di approfittare del Judiciary Act del 1789 per votare nuove leggi di complemento le quali prevedessero la creazione di un buon numero di nuovi posti di giudice federale. Votate le leggi, il presidente Adams ed il suo segretario di stato Marshall (che si fece nominare presidente della corte suprema federale) si dedicarono a nominare i nuovi giudici scegliendoli accuratamente tra i membri del tramontante partito federalista; il senato si dedicò ad approvare tali nomine. Come ogni manovra scopertamente tesa a favorire un partito, anche questa era naturalmente destinata a suscitare le reazioni negative del partito avverso. Trovate tra le carte ereditate dal suo predecessore l’atto di nomina di un certo Malbury quale giudice federale di pace del distretto di columbia , Madison (divenuto il nuovo segretario di stato dell’amministrazione jeffferson) si guardò bene dal procedere alla notifica, impedendogli così di assumere la carica. Malbury ricorse alla corte suprema facendo appello ad una norma del Judiciary Act mediante il quale poteva a buon diritto contare sulla vittoria, perché la sua nomina era stata validamente completata e la notifica era un atto dovuto. Se il nuovo segretario di stato si rifiutava di provvedere, ecco che la norma del Judiciary Act sembrava fatta apposta per garantirgli un riemdio appropriato e inoltre poteva contare sulla simpatia della corte (tutta composta da federalisti con a capo Marshall, al quale si offriva una occasione per rimediare al pasticcio combianto in quailtà di segretario di stato quando, nella fretta, aveva omesso di provvedere alla notifica al povero Malbury). Sotto il profilo legale quindi Malbury aveva ragione così come sotto il profilo della pubblica virtù e della decenza politica, Jefferson e Madison avevano ragione da vendere nel rifiutarsi di dar corso ad una procedura così evidentemente connotata dalla lottizzazione pratica. Effettivamente una larga parte della sentenza del caso Malbury contro Madison è dedicata alla non difficile dimostrazione di quanto Malbury avesse giuridicamente ragione e quanto Madison avesse giuridicamente torto: però nel momento in cui tale dimostrazione avrebbe dovuto tradursi nell’emanazione del provvedimento richiesto da Malbury, la sentenza muta improvvisametne rotta e prende a considerare il contrasto tra l’articolo del Judiciary Act (in base al quale la corte suprema era stata adita) ed una chiara previsione della costituzione secondo la quale quella legge non avrebbe potuto consentirgli di adire la corte suprema quale giudice di primo grado. Marshall aveva dunque scovato un caso di contrasto tra norma ordinaria e norma costituzionale avente carattere palmare. Inoltre ciò gli dava il destro per affermare il principio della Judicial Review facendo vincere a Madison una causa che altrimenti avrebbe largamente perso. Esito quindi che non consentiva a quest’ultimo alcuna possibilità di replica. Questa decisione ha fondato in modo definitivo il sindacato giudiziale di costituzionalità sulle leggi. Da allora in poi infatti il potere di ogni giudice federale di disapplicare una norma di legge ritenuta in contrasto con la costituzione non è stato oggetto di seria contestazione. Sotto il profilo del funzionamento del sistema positivo, il potere di sindacare la costituzionalità delle leggi diffuso tra tutti i giudici (e non accentrato in una apposita corte come accade nei sistemi europei attuali) ha avuto l’effetto di addestrare generazioni di giuristi ad affrontare la problematica connessa alla interpretazione ed applicazione di un testo normativo e a non trascurare mai la dimensione costituzionale di un qualsiasi problema. Quest’ultimo punto è invero basilare per intendere l’esperienza giuridica americana che (specie nel XX secolo) è fortemente permeata dal problema relativo alla conformità alla costituzione di qualsiasi regola di diritto (comprese quelle di common law). Pertanto tutta la fase di applicazione del diritto è condizionata dalla ricerca di una “interpretazione costituzionalmente adeguata” delle regole vigenti, nonché dalla promozione dei valori costituzionali attraverso qualsiasi strumento giuridico. Ciò è fortemente distante dall’esperienza inglese nella quale non si è dovuto affrontare né il problema della interpretazione di un testo costituzionale scritto (che NON esiste) né quello di un controllo sulla costituzionalità dellle leggi (essendo prevalso il principio per cui la volontà del parlamento è suprema e non conosce limiti). 5.LE RIFORME LEGISLATIVE E L’ABOLIZIONE DELLE FORMS OF ACTIONS NELL’ESPERIENZA AMERICANA La presenza di una costituzione scritta munita di Judicial Review costituisce il primo fattore di differenziazione tra l’esperienza americana e quella inglese. Il secondo fattore è la dissimilitudine relativa alla organizzazione giudiziaria: se si tiene presente quanto del common law inglese tradizionale è derivato dalla struttura delle corti, si può apprezzare la rilevanza del dato qui richiamato. È vero che inizialmente le singole colonie tentarono di modellare il proprio sistema processuale e l’organizzazione delle proprie corti sul modello inglese, tuttavia tale ricezione non fu mai completa ed il modello organizzativo inglese non funzionnò mai tropppo bene nella diversa realtà americana. Nel periodo (successivo all’indipendenza) in cui la crescita culturale avrebbe consentito (e in parte consentì) una ricezione più completa del modello inglese, vennero realizate riforme radicali della procedura che anticiparono quelle inglesi. Tali riforme furono in parte il frutto delle specifiche condizioni in cui il sistema di aministrazione della giustizia dovette strutturarsi negli Stati Uniti, in parte dovute anche alla cutura illuministica di cui erano partecipi i fondatori della nuova repubblica la quale li induceva a ridisegnare le procedure giudiziarie su basi razionali (basi difficilmente percepibili in un sistema come quello inglese tutto costruito mediante stratificazione di istituzioni e consuetudini storicamente formatesi). La spinta verso una democratizzazione delle istituzoni diffusasi a partire dala “rivoluzione jacksoniana” influì poi sia sulla organizzazione delle corti, sia sui problemi del processo. Riguardo il primo tipo di riforme basterà accennare ad esempio come il credo democratico-partecipativo rese normale in tutti i nuovi stati (in via di rapida formazione ad ovest degli Apalachi) l’adozione del criterio della elettività dei giudici al posto di quello della loro nomina da parte del Governatore dello stato. Questa scelta attenuò di molto il ruolo della preparazione tecnico/professionale nel procedimento di selezione dei giudicanti, le cui conoscenze (spesso non molto approfondite) della tecnica del pleading ne resero obsoleto l’uso. Al secondo tipo di riforme (quelle del processo) il nuovo credo democratico offrì poi un principio guida, riassumibile nel desiderio di rendere la macchina della giustizia accessibile e comprensibile a tutti i cittadini. Se dunque l’intento di rendere effettiva la giustizia aveva già da tempo eliminato il principio di common law per cui contro le sentenze non vi è normalmente appello (così che le corti americane si strutturarono per provvedere a più gradi di giudizio) i bisogni di razionalizzazione e democratizzazione del processo indussero a riforme più radicali, le quali vennero attuate in via legislativa nei diversi stati. La loro formulazione più compiuta si coglie nel “field Code”. Questa riforma venne introdotta a New York nel 1848 e fu rapidamente adottata in altri stati, specie quelli di nuova formazione. Essa prevedeva (anticipando di qualche decennio le riforme guidiziarie inglesi) a) l’abolizione delle forms of action; b) la fusione processuale tra common law ed equity (salvo che le cause di equity continuarono ad essere trattate senza la giuria); c)la generalizzazione della procedura di discovery. La mggior parte degli stati che compongono gli attuali stati uniti non ha quindi mai conosciuto un’epoca in cui vigevano le forms of action. Inoltre se è vero che il tecnicismo delle regole di procedura è una componente ineliminabile della dialettica processuale e che quindi nel medio periodo si manifesta la tendenza a ricreare una serie notevole di complicazioni, non è meno vero che nell’esperienza americana è tuttavia perennemente all’opera anche la tendenza a semplificare il processo purgandone la procedura delle questioni più dibattute in modo da eliminare le barriere che il formalismo introduce sulla via della giustizia sostanziale. Un punto fermo è tuttavia costituito dal “trial by jury” nelle vertenze di common law, perché tale diritto è stabilito a livello costituzionale: mentre in inghilterra la giuria è quasi scomparsa nelle vertenze civili, nell’esperienza americana è rimasta. La separazioen netta tra accertamento del fatto e valutazione degli aspetti giuridici del caso è per conseguenza un cardine del processo civile americano. La conseguenza correlata è la concentrazione del processo tendenzialemnte ridotto in a day in court ed anche quella della differenziazione tra le tecniche di persuasione delle giurie rispetto a quelle che sono atte a persuadere i giudici. Naturlamente la maggior parte del contenzioso viene risolto prima del trial alla presenza di una giuria, altrimenti i costi dell’amministrazione della giustizia diverrebbero insopportabili, ma tutti gli atti di citazione iniziali prevedono la richiesta di full trial (cioè di procedimento di fronte ad una giuria che quindi continua ad essere il paradigma procedurale di riferimento). 6.LA LETTERATURA GIURIDICA DEL XIX SECOLO Si è accennato che nella lenta ricezione del common law negli stati uniti notevole influenza ebbero i commentari di Blackstone. Quest’opera godette negli stati uniti di un successo editoriale quasi superiore a quello (già assai notevole ) riscosso in patria. La ragione di questo successo fu soprattutto di carattere funzionale, in quanto essi fornivano una visione del common law in una dimensioen abbordabile. Poiché , in campo editoriale, nulla ha più imitatori del successo, era da attendersi che alcuni giuristi americani seguissero le trace di Blackstone. Fu così che la trattatistica dilagò divenendo il genere letterario favorito da studenti e pratici. Due ragioni principali hanno contribuito a promuovere la letteratura giuridica ad un rango che in inghilterra era invece ancora sconosciuto: 1) La prima è che in inghilterra l’amministrazione della giustizia è sempre stata fortemente accentrata a Londra e la formazione del giurista avveniva in una unica sede foriera di contatti personali e di discussioni stimolanti. Negli stati uniti, chi viveva a Boston, New York City o a Philadephia poteva forse trovare un ambiente intellettualmente stimolante ma la grande maggioranza dei praticanti la professione legale viveva e si formava in un certo isolamento. La letteratura era per costoro l’unico veicolo per l’apprendimento del diritto. 2) La seconda , parzialmente connessa con la prima, è che in Inghilterra i giudici sono stati tratti di preferenza dal rango degli avvocati di successo. Oltre che a beneficiare dei colloqui con i colleghi e gli altri membri della professione, i giudici inglesi hanno sempre ritenuto di beneficiare anche di una intelligenza giuridica non comune. Per conseguenza sono sempre stati poco inclini ad affidarsi alla letteratura, ed ancora meno a riconoscere che le opere degli scrittori di cose giuridiche possano essere considerate come delle autorità. Si è già detto del resto che l’accoglienza tributata all’opera di Blackstone debba considerarsi eccezionale. Negli stati uniti si è conservata la tradizione di nominare giudici avvocati di una certa esperienza, ma in materia di qualificazione professionale si è sempre stati assai più corrivi anche a livello federale. In molti stati poi i giudici sono eletti e la loro perizia tecnico giuridica non è che uno dei fattori più influenti sul giudizio dell’elettorato. Per conseguenza (specie nel XIX secolo) molti giudici quando divenivano tali avevano bisogno di studiare il diritto e si rivolgevano quindi alla letteratura trattatistica. Era piuttosto spontaneo che gli stessi giudici riconoscessero almeno un notevole prestigio alle tesi svolte nei testi su cui avevano studiato, ed essi perciò finirono con il costituire le fonti comuni di riferimento per giudici ed avvocati. Questa crescita della letteratura giuridica significava naturalmente una crescita del ruolo della dottrina. 7.L’AFFERMARSI DELLE UNIVERSITA’ NELLA FORMAZIONE DEL GIURISTA AMERICANO L’aver affidato alla letteratura un ruolo portante nella formazione dei giuristi, comportò non solo il rapido declino del metodo della formazione mediante apprendistato nelle botteghe degli avvocati, ma incentivò un ulteriore sviluppo dei metodi formativi: leggere Blackstone, Story ed altri autori era un modo più rapido e più economico di apprendere il diritto in confronto alla prospettiva di lunghi anni di tirocinio presso uno studio legale. Sentire ripettere e spiegare un testo dalla viva voce di un insegnante è però un metodo ancora più agevole rispetto al puro autodidattismo veicolato dalla lettura solitaria. Perciò non stupisce che negli stati uniti sorgessero scuole di preparazione alla professione forense. Queste scuole tuttavia erano poco più che scuole serali. I corsi duravano un anno e le lezioni consistevano essenzialmente nella spiegazine e riassunto di un’opera trattatistica sugli argomenti del corso. Il loro successo derivò dall’indubbio vantaggio che l’apprendimento dalla viva voce ha sull’apprendimento dallo scritto. Il panorama cambiò radicalemnte con la rivoluzione che Langdell introdusse alla scuola di Harvard nel 1871. Langdell cambiò un po’ tutto. 1) regolò su basi più rigide l’accesso alla Law School; 2) raddoppiò la durata dei corsi portandoli da uno a due anni per giungere più tardi (1876) a tre; 3) mutò la didattica , abolendo la lettura ed il commento di espoosizioni trattatistiche, per sostituirla con raccolte di casi giurisprudenzali selezionati dal docente che gli studenti dovevano leggere e studiare prima della lezione in modo da renderne proficua l’analisi e la discussione in classe; 4) cambiò il corpo accademico, sostituendo giudici ed avvocati in pensione con giovani brillanti interamente dediti all’insegnamento ed alla ricerca. Premessa basilare della visione di Langdell era che lo studio del diritto doveva essere uno studio scientifico, in quanto era rivolto alla scoperta dei principi giuridici i quali emergono dai materiali giuridici prodotti dalla storia. Tali materiali giuridici si identificavano con i casi risolti dalle corti perché solo in essi si manifestava lo sviluppo organico del sistema. La scelta dei casi giurisprudenziali come materiale di analisi si sposava apparentemente assai bene con la tradizione di common law, e ciò ha tratto in inganno. Ma Langdell ebbe cura di precisare come , ai fini di uno studio scientifico del diritto, la maggior parte delle decisioni giurisprudenziali erano inutili e solo pochissimi casi insegnavano qualcosa perché da essi emergeva un principio ispriatore capace di governare un ambito assai vasto di problemi. L’esito ultimo di simile impostazione era che non spettava ai giudici formulare le dottrine giuridiche generali le quali: ai giudici capita casomai di inciampare ogni tanto (raramente) in uno di questi principi il quale si manifesti come evidente soluzione di una data controversia. Ma la verbalizzazione compiuta del principio, idoneo a rendere palesi tutte le valenze precettive, è compito dello scienziato del diritto. Poiché la scoperta del pieno significato dei principi esistenti e la loro esatta verbalizzazione sono anche sommamente efficaci sotto il profilo didattico, ne derivava la necessaria coniugazione del ruolo dello scienziato e di quello del docente. Ciò che stava a cuore a Langdell era che la formazione del girista avvenisse in università, ossia che essa si radicasse nel luogo in cui avviene la elaborazione e la trasmissione della cultura generale della nazione. Ed è stato proprio questa la vera stella polare che ha giudato la riforma langdelliana. Se ne può apprezzare il contenuto rivoluzionario se si tiene presente come la tradizione inglese fosse del tutto opposta caratterzzandosi per il fatto di aver separato la formazione del giurista dall’università e da tutto ciò che l’università rappresentava. In questo senso la riforma langdelliana segna il momento in cui l’esperienza americana relativa al tema cruciale della formazione del giurista rovescia il modello inglese nel suo esatto contrario. Come si è osservato , il secolo XIX è stato un periodo rivoluzionario per l’esperienza di common law in generale, in quanto l’abbandono delle forms of action e della tipicità delle singole procedure ha costretto i common lawyers alla ricerca di nuove categorie ordinanti. Si deve ora aggiugnere come il medesimo fenomeno toglieva ogni giustificaizone al sistema di formazione del giurista mediante apprendistato pratico: se infatti l’usus fori non era pià la parte essenziale della tecnica giuridica, non era agevole scorgere il fondamento razionale del monopolio corporativo nella formazione dei nuovi giuristi, e diveniva di gran lunga preferibile che costoro potessero formarsi a contatto con la cultura generale del paese. Gli stati uniti giunsero di gran lunga prima dell’Inghilterra a comprendere questa verità. Se in un primo momento la riforma langdelliana generò sconcerto e ripulsa tra gli studenti come tra i membri della professione forense, in un periodo di tempo reelativamente breve la riforma didattica iniziata ad Harvard si diffuse in tutto il paese. Nel giro di pochi decenni tutte le maggiori Law Schools adottarono il medoto di Harvard e la stessa cosa fecero le nuove che stavano sorgendo in varie parti del paese. 8.IL RINNOVAMENTO INTELLETTUALE ED ISTITUZINALE DELL’ESPERIENZA AMERICANA NELLA PRIMA META’ DEL XX SECOLO Tra le eredità lasciate da Langdell vi fu la fede nelle possibilità di scoprire nella tradizione giuripsrudenziale del common law quei principi primi che applicati con coerenza avrebbero conferito un volto logicamente accettabile all’intero sistema. In questo contesto culturale, L’AMERICAN BAR ASSOCATION incoraggiò la fondazione (nel 1923) DELL’AMERICAN LAW INSTITUTE, il quale riunisce un gruppo di eminenti avvocati/giudici/professori al fine di promuovere la semplificazione e la chiarificazione del diritto e incoraggiare la ricerca scientifica. Il primo compito cui si dedicò l’american Law Institute fu quello di redigere una serie di esposizioni (chiamate Restatements) delle branche principali del common law americano (contracts, trusts, agency, property, torts ecc..). Il restatement si doveva basare sulle decisioni delle corti statali, ossia doveva riflettere il common law americano, ma le regole che venivano estratte dalla giurisprudenza americana dovevano essere formulate con linguaggio di tipo legislativo ed esposte in un ordine sistematico. Il restatement era quindi un’opera concepita secondo i canoni del metodo Langdelliano, che presupponeva la possibilità di estrarre verità giuridiche dalla massa delle decisioni giudiziali, travasandole in regole chiare e precise e sistematicamente ordinate. Ma proprio in questo tentativo si evidenziò la fragilità metodologica dell’intera costruzione langdelliana e, dall’altra parte , ci si scontrò con una fase di veloce rinnovamento di quella esperienza giuridica che si pretendeva di sistematizzare una volta per tutte: la pubblicazione del Restatement sui Contratti (del 1932) servì a rendere palese come il tipo di ordine sistematico che si voleva imporre alla caotica vitalità del diritto giurisprudenziale era eminentemente soggettivo , ossia rifletteva la visione dei redattori del Restatement (e ciò feriva a morte la pretesa schientificità dell’approccio langdelliano. Inoltre era inopportuna (e politicamente conservatrice) un’opera di sistemazione che avrebbe codificato regole obsolete proprio nel momento in cui il diritto legislativo ed il common law dovevano acquistare (e stavano acquistando) maggior consapevolezza verso la dimensione sociale. Nonostante certi eccessi polemici , tuttavia la maggior parte dei c.d. realisti non rimise in discussione lo status di scienza assegnato alllo studio del diritto, solo cambiò il paradigma della scientificità. Al posto di una vaga e non ben definita analogia con i metodi delle scienze naturali, il paradigma scientifico fu quello delle scienze sociali, prima fra tutte la sociologia. Il cambiamento del paradigma scientifico portò mutamenti maiuscoli nei metodi di analisi giuridica. Preliminare ad essa fu considerato lo studio delle situazioni fattuali cui seguiva lo studio di tutti i casi giurisprudenziali e non solo di quelli in cui si era accidentalmente evidenziata una qualche verità giuridica che nessuno sapeva più come evidenziare. Perciò lo sforzo di pervenire alla redazione di un Restatement era riguardato come privo di significato in quanto l’individuazione della vera regola giuridica non interessava più. Nella misura in cui conservava una sua distinta fisionomia professionale il giurista dotto divenne colui che studia il legal process (ovvero l’insieme dei meccanismi istituzionali che portano ad una data decisione giuridica) ed anche colui il quale utilizza i dati tratti da altre scienze sociali per progettare un legal process in grado di garantire soluzioni accettabili. L’immagine del giurista come ingegnere sociale divenne una icona significativa. Il più articolato pensiero dei c.d. realisti era naturalmente nutrito delle lezioni di metodo fiorite nel contesto europeo, ed al flusso delle idee si aggiunse l’apporto personale di esponenti notevoli della diaspora tedesca, ma non fu questo apporto intellettuale ciò che contribuì al successo del movimento. Il realtà (come sempre accade in tali diatribe sul metodo giuridico) risultò decisiva la maggior sintonia del movimento realista con i sommovimenti introdotti nel fluire dell’esperienza giuridica americana dal New Deal Rooseveltiano; ed al contrario dall’essere apparso che il formalismo Langdelliano fosse allineato con l’atteggiamento conservatore dei fautori del laissez faire economico e del substantive due process sponsorizzato dalla corte suprema. Sicchè il dibattito intellettuale terminò per ragioni storiche, di cui è bene prendere conoscenza. 9.L’IMPATTO DEL NEW DEAL Il New Deal iniziato da Rossvelt, fu un lungo esperimento di governo dell’economia da parte del potere politico , simili a quelli programmati dalle socialdemocrazie europee che in sostanza anticipò il welfare state socialdemocratico che si imporrà nell’europa occidentale nel secondo dopoguerra. L’idea base era che toccasse al governo federale la manovra del ciclo economico, ma da questo fondamento era facile trarre molti corollari. L’accrescimento dei compiti dello stato comportò un aumento della struttura burocratica dotata di vasti compiti di controllo su tutti gil aspetti della vita economica. L’esigenza di stimolare la domanda comportò una politica rivolta ad una più larga distribuzione dei redditi tra le varie fasce sociali. La ricerca scientifica divenne stabilmente uno dei compiti dello Stato federale accanto alla realizzazione di grandi opere pubbliche su scala inusitata. Tutto ciò contrastava così fortemente con il sistema del common law tradizionale da rendere necessario derogarvi tramite apposita legislazione, la quale sottraendo poteri alle corti ne affidasse di nuovi (e non poco vasti) alle diverse agenzie governative che si venivano istituendo. Lo scontro di mentalità fu assai robusto e se esso si incarnò (come è naturale) in ideologie politiche (repubblicani conservatori contro democratici progressisti) o in ideologie economico-sociali (laudatori della repubblic of bees contro i fautori del big government) non mancò nemmeno una dimensione giuridica nella quale il valore della certezza del diritto racchiuso nella fedeltà al sistema tradizionale si scontrava con il desiderio di giustizia che sospingeva ad un allargamento della sfera dei diritti dei cittadini, la cui promozione non poteva non interferire con i diritti economici consolidati. In simile contesto le corti americane divennero necessariamente un luogo in cui lo scontro di mentalità era destinato ad emergere con una certa intensità. A dire il vero il più risoluto campione di una giurisprudenza innovativa, il giudice Cardozo, fu abilissimo nel manipolare la tecnica del precedente , cos’ nascondendo in modo magistrale il sovvertimento delle regole di diritto che egli introduceva. Essendo per 20 anni giudice alla corte di ultima istanza dello Stato di New York, riuscì a riformare il common law di quello stato in forme così impeccabilmente argomentate, che anche un presidente repubblicano e conservatore si sentì costretto a promuoverlo alla corte suprema federale, in quanto “grande giurista “ posto super partes. Il che ovviamente non era afatto vero, ma certo l’esempio di Cardozo fornì ai giudici innovativi degli altri stati un modello di riforma impercettibile del diritto giurisprudenziale evitando una troppo scoperta visibilità politica della loro opera. Questa operazione non riuscì invece alla corte suprema federale, ove grandi giudici (come cardozo, holmes e branderis) furono in minoranza a fronte di una maggioranza di giudici tenacemente conservatori e molto meno abili nel nascondere la scelta politica del diritto dietro il manto di argomenti giuridici impeccabili. Assumendo il ruolo di guardiana dell’ordine costituzionale basato sull’individualismo proprietario , la corte suprema federale si trovò ad invalidare in quanto costituzionalmente illegittime molte delle leggi votate dal congresso nel primo mandato di Roosevelt. Invero si trattava di pessime leggi, ma il problema non era questo: piuttosto era in gioco il sapere se fosse costituzionalmente legittimo che il governo federale ricorresse alla legislazione come strumento di governo dell’economia e di redistribuzione della ricchezza. La corte suprema apparve negare simile legittimità e questo era insopportabile in un contesto democratico. La maggioranza dei cittadini voleva infatti (e molto nettamente) che il governo federale assumesse il ruolo di signore ell’economia. Del resto, il mondo degli affari (demoralizzato dopo il grande crollo del 1929 e la depressione che ne era seguita) era così debole da non poter svolgere il tradizionale ruolo dirigente, mentre il paese aveva letteralmente fame di governo. Perciò, il conflitto tra la corte e l’amministrazione democratica divenne semplicemente il problema di chi deve governare: il presidente ed il congresso eletti dal popolo (e quindi i suoi naturali rappresentanti) o i nove vecchi giudici della corte suprema (costituzionalmente collocati al di fuori del circoiuto democratico). Così impostata la questione, non potevano sussistere dubbi sul prevalre della ragione dei più. L’opposizione della corte suprema fu sterile ma la vicenda fu spettacolare. Quando le elezioni del 1936 confermarono l’enorme popolarità del programma del New Deal, Rososevelt andò subito all’assalto della corte e, questa, per evitare il peggio, attuò un rapido revirement giurisprudenziale iniziando a considerare legitime leggi che poco prima avrebbe considerato costituzionalmente blasfeme. La drammatica capitolazione della corte suprema federale del 1937 rese palese che una costellazione di valori era crollata per sempre ed un’altra prendeva stabilmente il suo posto. La pretesa dei Langdelliani di estrarre regole giuridiche dai casi giuripsrudenziali e di considerarle alla stregua di verità immutabili non poteva sopravvivere in un simile clima di cambiamento radicale. Il tentativo di edificare una summa del diritto americano basato sul corretto mappaggio di tutte le regole ed i principi di common law, si prestava ad essere ridicolizzato come una fatica inutile dal momento che non teneva conto della nuova regolamentazione di origine legislativa ed amminsitrativa la quale andava sommergendo le nozioni tradizionali di proprietà, contratto, responsabilità ecc.. Furono naturalmente gli operatori pratici i primi ad accorgersi come la legislazione che il New Deal iniziò ad introdurre copiosamente non era affatto intesa ad assimilare selettivamente i risultati della secolare elaborazione del common law, ma solo a derogarvi , e che la burocrazia (la quale da tale legislazione traeva i propri poteri ed i motivi della propria esistenza) non parlava il linguaggio del common law tradizionale ma quello dei fatti economici sociali e della disciplina dettagliata dei conflitti da essi scaturenti. Anzi, l’ideologia diffusa nell’amministrazione vedeva il sistema del common law come un sistema che rifletteva tutti gil anacronismi, l’inefficienza e l’ingiustizia del laissez faire economico. Non riconosceva quindi (e non poteva riconoscere) i principi del common law come parte integrante del sistema amministrativo. Proprietà e contratto vennero pensati come strumenti atti ad isolare le posizioni private del controllo sociale, come i pilastri di un modello atto a generare ingiustizie e disastri economici. Al loro posto, i seguaci del New Deal ponevano il diritto al lavoro all’abitazione, all’educazione e pensavano che tali diritti potevano diventare effettivi solo grazie all’azione del governo federale. Il risultato in termini di allargamento della sfera di competenza amministrativa del governo federale fu straordinario: in pochi anni vennero create una vasta serie di nuove “agenzie” (esempio la civil works administration;la rural electrification administration 1933 ecc…). la loro istituzione manifestava in pieno l’allargamneto della sfera d’azione economica del governo federale. Ma il new deal si dedicò anche ad esercitare un controllo più stretto sulle attività economiche e finanziarie dei privati. A questo scopo vennero rafforzati i poteri di alcune agenzie precedenti (come la food and drug administration e la federal trade commission che, assieme alle nuove trasformarono radicalmente il diritto degli affari). Il mutamento principale risiedeva nel fatto che queste agenzie riunivano in sé poteri tradizionalmente separati. Agendo infatti in base a leggi che fissavano obiettivi di politica economica abbastanza generali e che delegano ad esse il compito di emanare le norme di maggior dettaglio, nonché di regolare i ricorsi e le controversie con i soggetti amministrati, esse finivano con il condensare poteri legislativi, giudiziali ed amministartivi. Tutto ciò avveniva senza che esistesse un solido sostrato di tradizioni amministrative, poiché gli stati uniti si erano ben guardati dall’imitare le centralizzate amministrazioni statali di tipo europeo. Il paradigma del buon amministratore dovette essere inventato, ed il clima del tempo spingeva a dipingerlo come un personaggio entusiasta verso l’iniziativa pubblica, immaginativo nel trovare le soluzioni ai problemi concreti, flessibile nel suo processo decisionale e disposto a subire lo scrutinio del pubblico. Ovvio che questo ingegnere dell’intervento pubblico si rivolgesse anzitutto ai fatti economici e sociali. Ciò su cui avevano insistito i realisti era esattamente la necessità di analizzare dettagliatamente i fatti e di illuminarli mediante una loro comprensione scientifica prima di procedere ad una loro valutazione giuridica. Sotto il profilo educativo, il movimento realista si trovò meglio attrezzato a formare un giurista pratico capace di dialogare con le burocrazie dello stato attivista , ed in questo senso il succcesso del suo metodo permise di salvaguardare il ruolo dell’avvocato americano come intermediario tra il cittadino e l’organizzazione giuridica. D’altra parte la capacità degli operatori del diritto formati alla scuola del realismo di dialogare efficacemente con le burocrazie delle “agenzie” governative (dialogo che comprendeva anche un fativo scambio di ruoli tra settore della professione privata esettore della pubblica amministrazione) infuse in quest’ultime la coscienza che dietro concetti elastici come “public policy”, “unconscionability”, “unequal bargaining power” vi erano sempre diritti individuali che andavano presi sul serio. Questo risultato fu però solo prodromico di altri. La controversia sul metodo non scosse il prestigio delle grandi scuole universitarie, ma lo rafforzò, aggiungendo gli alti gradi della pubblica amministrazione ai possibili sboccchi professionali dei suoi laureati; con ciò fu salvaguardato e rafforzato il connubio tra ricerca scientifica del diritto e successo pratico dell’insegnamento universitario. La necessità di giustificare i metodi della prospettazione scientifica diede poi al giurista americano dotto una maggior consapevolezza del proprio modus operandi, aprendo le porte a tutti i possibili processi di revisione che fossero teoricamente giustificati. Lo smantellamento del sistema langdelliano attuato negli anni tra le due guerrre, non diede solo inizio ad un periodo di ansia per i giuristi americani, ma fu anche un periodo di passione ideale da cui poi sorsero nuovi modelli teorici. Alla fine degli anni 40 del XX secolo, il metodo realistico trovò la sua fisionomia definitiva nell’opera inedita ma comunque notissima di Hart e Sacks (due professori di Harvard) intitolataa “The legal process”. L’idea base dei due autori era quella di addestrare gli studenti e capire il diritto in un sistema istituzionale divenuto complesso, in cui fare il diritto era divenuto stabilmente il compito di diversi attori: il legislatore, le agenzie federali nella loro funzione di regolatore delle attività economiche, le corti. A ciò aggiungevano una attenzione inedita ai problemi di interpretazione del dettato legislativo, mostrando consapevolezza del fatto che la maggior fonte delle regole giuridico era ormai la legge scritta che deve essere interpretata e che presenta una incredibile varietà di morfologie, ciascuna delle quali deve essere compresa come l’esito di un processo politico decisionale. La lezione metodica del realismo venne in tal modo posta al servizio di una visione piuttosto ottimistica in cui il diritto vigente è un sistema che si compone di regole dettate da istituzioni in vista del raggiungimento di certi scopi, ma non si possono comprendere le regole senza una adeguata comprensione delle istituzioni e delle loro relazioni reciproche e senza una comprensione degli scopi che esse perseguono. Mentre Langdell aveva immaginato che lo studente uscito da Harvard, avendo capito i principi fondamentali del diritto potesse applicarli con costante facilità a tutta la costellazione dei casi pratici, Hart e Sacks pensavano che l’avvocato dei loro tempi dovesse essere anzitutto consapevole della gamma di alternative che si presenta al suo cliente per risolvere un contrasto di interessi ed essere di conseguenza un conoscitore dei meccanismi che atteggiano ciascun procedimento in una certa direzione. Ma al di là dell’addestramento professinale questa visione istituzionalistica e funzionale del diritto indicava quello che ciascun formante è in grado di fare meglio di altri , e quindi quando è opportuno affidarsi all’intervento del legislatore, quando è opportuno affidarsi all’attività regolatrice delle agenzie amministrative e quando invece è opportuno che la faccenda sia risolta all’arbitrato delle corti, coniugando così l’esperienza forense con la sensibilità per la soluzione di problemi politici, il che ha rappresentato l’ultima epifania della tradizione politica americana che vede i forensi come i naturali candidati alle cariche pubbliche. SEZIONE SECONDA: LE FONTI DEL SISTEMA AMERICANO ATTUALE 1.L’ORDINAMENTO FEDERALE ED IL SISTEMA GIUDIZIARIO Gli stati uniti sono uno stato federale. Ciò comporta che, a rigore, coesistano in seno ad essi tanti sistemi giuridici quanto sono gli stati federati + uno (ossia l’ordinamento giuridico federale). Oggi quindi vi sono a rigore 51 sistemi giuridici. Giova anche chiarire subito come negli Stati Uniti non sia mai stato posto in dubbio che i singoli stati dovessero mantenere il proprio apparato di amministrazione della giustizia e che le norme di diritto sono create sia dai legislatori che dai giudici e pertanto che il federalismo in un paese di common law dovesse contemplare sia parlamenti dei singoli stati che i sistemi giudiziari autonomi degli stessi. Ciò pone problemi di coordinamento non semplici. Per quanto riguarda i rapporti tra le giurisprudenze dei singoli stati, la costituzione prevede che ciascuno stato debba riconoscere pienamente (ai fini dell’efficacia) le sentenze rese da un altro stato mentre per quanto riguarda il suo valore di precedente giurisprudenziale ogni sentenza dei giudici statali ha fuori dallo stato solo valore persuasivo. In ogni caso ,per quanto riguarda la fonte giurisprudenziale il problema principale concerne il coordinamento tra il sistema federale e quello dei singoli stati. Iniziamo con il ricordare che ogni stato adotta ha un proprio modello organizzativo al quale introduce abbastanza spesso variazioni e perfezionamenti. L’unico dato stabile e comune è costituito dal fatto che tutti gli stati prevedono tre gradi di organi giudiziari ed un vertice costituito da un’unica corte suprema. Il sistema giudiziario federale è invece contempla un primo grado di giurisdizione composto corti distrettuali ripartite in base alla popolazione; corti federali d’appello (che comprendono nella loro circoscrizione una pluralità di stati) ed infine la corte suprema federale. Accanto a queste corti ordinarie però sussistono numerose corti speciali. Sia nel sistema federale che in quello degli stati la distinzione fondamentale è tra corti di primo grado (trials courts) le quali conoscono sia il fatto che il punto di diritto , e le appelate courts, le quali rivedono soltanto il punto di diritto deciso dalle trials courts. Come sempre nei sistemi di common law, la garanzia costituzionale concerne solo la possibilità di vedere il proprio caso ascoltato e giudicato da una corte. Esaurito tale diritto con il giudizio di primo grado si apre solo una fase di correzione di eventuali errori di diritto o di procedura commessi. Per quanto riguarda la procedura va poi ricordato che se nell’800 l’iniziativa riformatrice è stata assunta dagli stati (mentre il sistema giudiziario federale si è adeguato alle riforme statali grazie alla regola che impone alle corti federali di applicare le regole dello stato nel cui territorio esse hanno sede) nel 1934 il congresso federale ha delegato alla corte suprema il compito di redigere norme di procedura valide per tutto il sistema federale. Nel 1938 fu così approvato un regolamento, al quale si uniformarono mano a mano anche le legislazioni dei singoli stati, dando quindi origine ad un processo inverso rispetto a quello che si era manifestato nel ‘800 secolo: oggi sono le regole procedurali federali a costituire il nucleo comune della procedura civile americana. Questo regolamento (noto come “RULES OF FEDERAL PROCEDURE “) riforma il processo ispirandosi fondamentalmente alla procedura di equity e prosegue nella tendenza a deformalizzare le regole del procedimento in vista di un suo snellimento e di una diminuzione dei costi processuali. Quest’ultimo obiettivo è stato in realtà del tutto mancato, mentre è vero che le varie riforme delle federal rules, emanate a vari intervalli sotto l’autorità della corte suprema federale, sono riuscite a mantenere assai bassa la soglia del tecnicismo formale almeno nella maggior parte delle controversie. 2.IL RIPARTO DELLE COMPETENZE LEGISLATIVE TRA IL LIVELLO FEDERALE E QUELLO STATUALE Il potere legislativo federale si estende a singole materie specificatamente enumerate dalla costituzione ancorchè le single clausole di tale elenco siano interpretate con grande larghezza. Tutte le altre materie sono affidate al potere legislativo degli stati, i quali quindi possono intervenire legislativamente anche nelle materie assegnate al potere federale nella misura in cui un qualche problema non sia compiutamente regolato dalla legislazione federale. Sotto un profilo quantitativo, l’estensione del diritto sostanziale federale rispetto a quello degli stati ha subito profondi mutamenti nel corso della storia. Nel XIX secolo, come si è accennato, il congresso federale ha legiferato pochissimo in materia di diritto privato, tralasciando in alcuni periodi anche materie che sono espressamente assegnata alla sua competenza. Nel XX secolo (e soprattutto a partire dagli anni ’30) il congresso ha invece legiferato con abbondanza in materia economica e, negli anni ’80, è intervenuto massicciamente nei settori della tutela dell’ambiente e dei consumatori. Ciò è potuto accadere grazie alla interpretazione estensiva che la corte suprema federale ha datto alla “commerce clause”. La legislazione federale che concerne il diritto dell’economia forma oggi un corpus sterminato, ma esso corrisponde grosso modo a quello che nei sistemi di civil law è considerato il diritto pubblico dell’economia. I rapporti privatistici di base non sono stati federalizzati nella legislazione del New deal, e lo sono stati solo marginalmente nella legislazione ambientalistica e consumerista degli anni 80. Il grosso delle materie che poi consideriamo di diritto privato sono quindi affidate al diritto degli stati. Perciò gran parte delle questioni di diritto privato viene affrontata nelle corti degli stati secondo il diritto sostanziale dei singoli stati. 3.LA RIPARTIZIONE DELLE COMPETENZE TRA GIURISDIZIONE FEDERALE E GIURISDIZIONE DEGLI STATI ED IL PROBLEMA DEL FEDERAL COMMON LAW Per quanto riguarda la divisione delle competenze, bisogna ricordare che la costituzione federale prevede che i giudici federali abbiano giurisdizione “ratione materiae”, per tutti i casi e le controversie che sorgano in materie regolate dalla costituzione stessa, dalla legge federale e dai trattati internazionali stipulati dagli stati uniti nonchè in materia marittima e di navigazione; aggiunge però che gli stessi giudici federali hanno giurisdizione , per ragioni soggettive, nei casi e nelle controversie in cui siano parti ambasciatori o ministri o consoli, in cui siano parte gli stati uniti o due stati, oppure un cittadino ed uno straniero oppure uno stato straniero oppure ancora (e si tratta dell’ipotesi più importante) qualora siano parti in causa cittadini di due stati diversi (Diversity Clause). Mentre nei casi in cui i giudici federali sono competenti per ragioni di materia non vi è dubbio che il diritto sostanziale applicabile sia quello federale, la costituzione non dice nulla circa il diritto sostanziale applicabile nei casi in cui i giudici federali siano competenti per ragioni soggettive. Il judiciary act del 1789 (alla sec. 34) affontava il problema prevedendo che i giudici federali debbano applicalre la “laws of the several states”. Nel 1842 la corte suprema federale, in una opinion scritta da Sotry, ritenne però che la parola “laws”significasse leggi in senso formale, ossia statutes (secondo il linguaggio americano). Pertanto decise che in materia commerciale, qualora il diritto dello stato in questione non contenesse una disposizione legislativa relativa al caso in questione, il giudice federale doveva far ricorso non al common law dello stato, ma ad un federal common law. Naturalmente il problema non era quello astratto di applicare un diritto piuttosto che un altro. Infatti riferirsi al common law dello stato significava che i giudici federali si sarebbero attenuti ai precedenti giurisprudenziail di quello stato considerandoli vincolanti secondo il normale criterio dello stare decidis. Riferirsi ad un common law federale significava invece dire che spettava ai giudici federali creare un diritto la ove gli stati non avevano legiferato e che quindi il potere di guidare lo svluppo del diritto spettava alla stessa corte suprema federale. Story, il quale era uno dei giuristi piu colti del suo tempo, motivò la decisione del caso Swift v. Tyson con acri di citazioni di autori sia inglesi che (nella maggior parte) continentali, per dimostrare come il diritto commerciale è jus gentium e per sua natura universale e non nazionale. Per conseguenza in siffatta materia è assurdo fare riferimento al diritto di un singolo stato dell’unione. In questi argometi vi era indubbiamente del vero. Ma a favore della decisione assunta nel caso Swift v. Tyson, militavano altri due potenti ragioni. La prima era una questione di opportunità: Nella prima metà dell’800 molte corti statali (anche supreme) erano composte da giudici poco attrezzati tecnicamente. Il caso Swift v Tyson era una buona dimostrazione di ciò perché la controversia riguardava un titolo cambiario creato per pagare un debito preesistente; il diritto applicabile doveva essere quello dello Stato di New York (ossia di uno stato tra i più avanzati) e tuttavia alcune corti di New York avevano fatto confusione ed esistevano precedenti che applicando anche ai titoli di credito la classica doctrine of consideration , consideravano nulla (perché priva di consideration) la consegna di una cambiale a fronte di debiti già esistenti. Si trattava indubbiamente di una sciocchezza perché la doctrine of consideration non si può applicare alla materia dei titoli di credito ; ed è evidente come l’idea che i giudici federali dovessero seguire ed applicare simili sciocchezze debe aver fatto inorridire molti e non solo Story. La seconda ragione che suggerì il ricorso al concetto di un common law federale era di carattere ideologico. Ricollegandosi all’idea diffusa tra i membri del discolto partito federalista che il diritto sostanziale degli stati uniti fosse (o devesse essere) unico così come essi erano (o dovevano essere) una unica nazione,diveniva quasi spontaneo credere che fosse appropriato per i giudici federali applicare sempre il medesimo diritto nazionale. Questa ideologia unita alla molla della naturale tendenza all’espansione di ogni decisione innovativa, contribuì a spingere (per quasi un secolo successivamente alla decisione del caso Swift v. Tyson) i giudici federali ad estendere la teoria delle federal common law (andando anche molto al di là della materia commerciale). In tal modo , peraltro, si creò fatalmente una duplicazione di regole giurisprudenali con la conseguenza che una medesima questione poteva essere risolta in modo antitetico a seconda che entrasse (o non) in gioco il fattore della diveristà di cittadinanza delle parti. Nel 1928 Holmes scrisse una delle sue più vigorose dissenting opinions per protestare contro il sofisma che distinguedno tra il diritto giurisprudenziale e quello legislativo di uno stato , aveva condotto ad ad una incostituzionale assunzione di poteri da parte delle corti federali. Né mancò di sottolineare l’incauto risultato ottenuto da chi, per unificare il diritto commerciale a livello nazionale, aveva finito con lo spaccare in due il diritto degli stati. Dieci anni dopo, la stessa corte suprema seppellì l’idea di una federal common law nella decisione del caso Erie R.R. v. Tompkins, dichiarnado che la imposizione di un common law federale era (ed era sempre stata) incostituzionale. In realtà, cadute con il progresso dei tempi le differenze verso la giurisprudenza dei singoli stati, ci si era avveduti come un sistema federale di common law richiede un duplice livello di rinvio. Quando il sistema dispone che il giudice federale competente per ragioni soggettive applichi il diritto dello stato in cui è collocato, ciò significa che esso è vincolato sia alla legge formale invigore in quello stato , sia al diritto creato dai giudici di quello stato (poiché entrambi sono espressione del modo di essere di quella comunità statuale). Fermo ciò, rimane aperto il problema dell’ambito di discrezionalità di cui dispone il guidice federale nell’interpretare l’uno e l’altro. Inizialmente sulla scia del caso “Erie” si era ritenuto che il giudice federale dovesse seguire la giurisprudenza dello stato anche se questa si manifestava attraverso pronunce di giudici inferiori o pronunce obsolete; successivamente la regole è stata attenuata, ammettendosi che i giudici federali godono della stessa discrezionalità di cui godrebbero se fossero giudici dello stato in questione. Tutto ciò non significa che non esiste un federal common law, perché la espansione del diritto federale di origine legislativa sul quale si è innestata una interpretazione ed un completamento giurisprudenziale, costituisce un corpus precettistico ormai assai sviluppato. 4.LE ARTICOLAZIONI ATTUALI DEL RAPPORTO TRA FONTI FEDERALI E STATALI Assunto nelle sue basi istituzionali, il sistema delle fonti federali e statali del diritto americano attuale si articola nel modo seguente. Esiste un diritto federale di origine legislativa, poiché per fondarlo occorre che il congresso abbia legiferato in materia. Oltre al diritto pubblico dell’economia , alla tutela dell’ambiente e dei consumatori, questo diritto riguarda le materie che corrispondono grosso modo a quelle ricomprese negli ambiti disciplinari dei nostri diritti della navigazione, dell’insolvenza e dei diritti sulle opere dell’ingegno ed a una serie di altre materie che vanno dalla disciplina dei ditoli del ebito pubblico emessi dagli stati uniti, a quello dei contratti di lavoro ,alla responsabilità verso i terzi di cooloro che hanno contratti con il governo federale. In questi ambiti si applica la c.d. supremacy clause, in base alla quale il diritto ed i giudici statali danno la precedenza al diritto federale. Ciò ha due implicazioni. In primo luogo la norma federale prevale su quella (eventualmente antinomica) che sia stata emanata dal legislatore statale, ma soprattutto significa che nella applicazione delle norme federali il giudice statale deve attenersi ai precedenti giurisprudenziali dei giudici federali e recepirli secondo la loro gerarchia. Corollario di questa regola è che una pronuncia della corte suprema federale sarà consdierata come precedente vincolante per tutti i giudici(federali o statali) i quali debbano applicare la regola o il principio di diritto federale su cui la corte suprema si è pronunciata. In tutte le altre materie si applicherà il diritto del singolo stato in cui siede la corte federale adita. Tuttavia tale diritto comprende anche le norme di diritto internazionale privato (conflict of laws) e quindi il diritto sostanziale applicabile può essere quello di un altro stato ancora. Un uso accorto dei talvolta elastici criteri di collegamento di diritto internazionale privato consente quindi di recuperare elasticità. Inoltre fermo restando che il diritto applicabile comprende sia il diritto legislativo sia quello giurisprudenziale, è tuttavia ormai canonico ritenere che il giudice federale (così come quello di un altro stato) abbia un potere di scelta tra le diverse interpretazioni giurisprudenziali locali. Insomma, in un sistema federale di common law come quello degli stati uniti è risultato inevitabile che il giudice, il quale debba recepire (in omaggio al federalismo) il diritto di un altro stato, sia doppiamente vincolato dalla legge in senso formale e dalla giurisprudenza dello stato in questione.; tuttavia anche se gravato da questo doppio vincolo, il giudice del foro non può essere ridotto alla condizione (per esso del tutto innaturale) di bocca inanimata la quale ripete i procedimenti altrui. Tuttavia all’interno dell’ordinamento federale come all’interno dell’ordinamento dei singoli stati , si assiste ad una ulteriore stratificazione delle fonti, essendo la produzione di regole giuridiche ripartita tra la legislazione in senso stretto (ossia gli atti votati dalle assemblee legislative) la legislazione delegata (cioè le regulations emanate dalle agenzie amministrative) ed il diritto giurisprudenziale (ossia le regole adottate dalle corti che divengono regole universali grazie al principio dello stare decisis). 5.LO STARE DECISIS NEL SISTEMA ATTUALE L’assetto appena riassunto svela anche un corollario implicito in un sistema federale di common law, ossia che in tale contesto risulta terribilmente svantaggioso ricorrere ad un rigido criterio del precedente vincolante. Anche negli stati uniti la teoria dichiarativa del precedente giudiziale è stata per qualche tempo in auge. In particolare nel non breve periodo che va 1870 al 1930, giudici e giuristi americani proclamarono come un dogma della loro fede giuridica che i tribunali si limitano a dichiarare regole di diritto già esistenti e non inventano mai alcunchè di nuovo. La forza del dogma li rese incuranti del fatto che la teoria dichiarativa poteva avere qualche senso in Inghilterra ma non in un paese come gli Stati Uniti. In realtà , il collante di un sistema federale consiste nel consentire che il giudice di uno stato possa in una qualche misura ispirarsi alla giurisprudenza di un altro stato se questa gli pare particolarmente persuasiva. Invece, il rispetto rigido del criterio del precedente all’interno della singola giurisdizione di ciascuno stato imprimerebbe una traiettoria di allontanamento ai diversi diritti statuali, ed inoltre renderebbe più difficilmente rimediabili gli errori commessi da qualche giurisprudenza statale. Perciò anche quando la teoria dichiarativa del precedente era in auge, le corti supreme dei singoli stati hanno sempre evitato di dichiarsi vincolate ei loro propri precedenti , ed anno invece seguito il modello della corte suprema federale la quale, sia pure con la massima cautela, ha sempre ammesso di disporre del potere di overruling (cioè il potere di rovesciare una propria decisione precedente dichiarando che tale precedente pronuncia è da considerarsi errata). Nel caso della corte suprema federale questa scelta era sostanzialmnete obbligata visto che essa esercita al massimo ed al più appariscente dei livelli, il potere di Judicial Review. Altro è in effetti proclamare l’intangibilità della ratio decidendi precedentemente individuata quando , come in Inghilterra, il diritto si fondi su una mitica consuetudine non scritta sebbene esistente da tempo immemorabile ed altro è proclamare la stessa cosa in sede di interpretazione di un testo scrito e, soprattutto , di un testo costituzionale. Già il fatto che l’interpretazione della costituzione data dalla corte suprema federale prevalga e si imponga a qualsiasi altra interpretazione (compresa quella del congresso) ha suscitato (e continua a suscitare) incomprensioni ed attriti; se poi la stessa corte avesse osato proclamare che le sue interpretazioni sono intangibili e sostanzialmente infallibili a guisa di una intepretazione cattolica delle scritture, essa avrebbe suscitato reazioni tanto violente da metterne in pericolo la sopravvivenza o , almeno, i poteri. È stato quindi necessario non escludere a livello di principi che la corte stessa possa ravvedersi , dichiarando che la sua lettura del testo costituzionale deve essere corretta, perché solo il testo è intangibile, mentre le sue costruzioni possono essere riviste. Tuttavia, se la decisione precedente non è mai vincolante per i vertici della piramide giudiziaria, ciò non è senza conseguenze nemmeno per i giudici intermedi o anche quelli posti alla base della piramide. In teoria costoro debbono seguire fermamente le decisioni dei giudici superiori (ed in effetti così avviene nella stragrande maggioranza dei casi). ma la flessibilità del sistema li costringe anche a vagliare la valenza del singolo precedente: se ad esempio in una certa giurisdizione esiste un precedente abbastanza remoto, che al momento della sua decisione era allineato con le sentenze degli altri stati ma succesivamente la giurisprudenza degli altri stati è mutata ed anche la giuripsrudenza della corte suprema di quel singolo stato, pur non avendo avuto occasione di riaffrontare quella specifica questione, è tuttavia mutata tanto da rendere quella specifica ratio decidendi incoerente con i suoi nuovi indirizzi, allora diviene inevitabile che anche il giudice inferiore non consideri quello specifico precedente come perfettamente vincolante, anche se si attaglia perfettamente al caso da decidere, perché può legittimamente pensare che se il caso fosse di nuovo esaminato dalla corte suprema, questa utilizzerebbe il proprio potere di overruling. In simile contesto non stupisce che le corti americane abbiano adottato tecniche innovative, la più celebre delle quali va sotto il nome di “prospective overruling”. Questa tecnica consente di conciliare due esigenze opposte: da un lato la giustizia del caso singolo rispetto al quale la innovazione giurisprudenziale si pone sempre come una ex post facto law; dall’altro la necessità di adeguare il comon law. Queste due opposte esigenze vengono contemperate ove la corte statuendo il diritto riconosca la nuova regola, ma nel contempo applichi al caso da decidere la regola vecchia in quanto la condotta oggetto del giudizio è stata posta in essere in un momento in cui le parti facevano legittimo affidamento sulla sua esistenza. Naturalmente questa tecnica ha un costo. Questo non consiste tanto nel fatto che il ricorso alla tecnica del prospective overruling rende palese la funzione sostanzialmente legislativa svolta dalle corti (cosa che non scandalizza più nessuno negli stati uniti) quanto nel fatto che essa non riesce a rendere completamente giustizia. Anzi, al riguardo manifesta una certa dose di schizofrenia,: infatti la parte soccombente si sente dire che la regola in base alla quale essa perde la causa è sbagliata e viene applicata per l’ultima volta proprio nel suo caso. Posto però che quest’ultimo è per essa quasi sempre il solo che la interessi, diviene giustificabile l’insorgere di un sentimento di profonda frustrazione. A volte quindi la tecnica del prospective overruling viene impiegata dopo che le corti hanno già manifestato in vari modi insoddisfazione per la regola esistente. Talvolta ciò avviene in obiter dicata in cui si invoca l’intervento del legislatore e dando ad esso tempo ragionevole per intervenire; talatra i giudici si esprimono in termini ancora più espliciti. In tutti questi casi la parte soccombente viene in un certo senso preavvisata circa lo stato del diritto e la sua prevedibile evoluzione. In ogni caso la tecnica del prospective overruling è adottata solo in quelle materie (come la proprietà e i contratti) in cui l’esigenza di proteggere l’affidamento nella certezza e conoscibilità del diritto è più alta. Negli altri casi i giudici hanno meno remore a ricorrere ad un overruling normale, oppure a discostarsi dai precedenti senza condannarli espressamente. Da ciò consegue che il criterio dello stare decisis è assunto negli stati unti come una concretizzazione del principio generale di certezza e prevedibilità del diritto e come tale esso deve essere contemperato con i principi altrettnato generali che dirigono il sistema verso i poli della giustizia e della coerenza complessiva. Perciò il rispetto del precedente non è mai il risultato di una operazione meccanica , ma il risultato di un fine bilanciamento tra opposte esigenze tra le quali il peso assegnato al valore della certezza varia da un settore all’altro. Vi è anche da osservare che nell’esperienza americana si assiste ad un diffondersi dello stile delle opinioni separate di ciascun giudice. Negli stati Uniti(come in inghilterra) non si è mai messo in dubbio che l’opinione dei giudici era la loro opinione personale : tuttavia sino alla fine del XIX secolo si preferiva , ove possibile, che le corti emettessero opinioni unanimi. Normalmente si trattava di opinioni scritte da un giudice, al quale tutti gli altri aderivano. Le c.d. dissenting opinions (espressione di una minoranza di giudici contrari alla decisione assunta) erano piuttosto rare. È stato lo stile della corte suprema federale (ove nel XX secolo le opinioni dissenzienti sono divenute quasi una regola) a segnare un mutamento di tendenza. Sono poi fiorite (accanto alle opinioni dissenzienti) le opinioni concorrenti, mediante le quali un giudice il quale ha votato con la maggioranza al fine di formare la decisione, tuttavia motiva la sua adesione con ragioni diverse da quelle espresse dai restanti componenti della maggioranza. In tal modo vi possono essere sentenze nelle quali il dispositivo è sostenuto da una pluralità di ragioni senza che vi sia una maggioranza a sostegno di una di esse. È evidente che in simile scenario la ricerca della mitica “ratio decidendi” è impossibile. In effetti negli Stati Uniti la stessa distinzione tra ratio decidendi ed obiter dicta è avviata ad un rapido tramonto. Del resto le corti superiori non pretendono che le loro decisioni individuino regole vincolanti, quanto criteri di valutazione vincolanti, passando così da una forma di ragionamento giudiziale che pone capo alla formulazione di regole di condotta per le parti, ad una forma di ragionamento giudiziale che pone capo alla formulazione di standard di valutazione ai quali i giudici inferiori debbono attenersi in casi analoghi. 6.IL FORMANTE LEGISLATIVO A parte la presenza della costituzione, il cui testo pone però problemi ermeneutici peculiari, anche negli stati uniti (come in tutti i sistemi) i parlamenti hanno semrpe legiferato. Pertanto il formante legislativo è stato in ogni tempo presente nel panorama delle fonti ed è stato incessantemente proclamato il principio per cui la legge in senso formale deve essere rispettata ed applicata fedelmente dai giudici. In effetti tale proclamazione di principio è indipendente dall’abbonadanza quantitativa e dall’incisività della legislazione. Le tecniche interpretative si atteggiano invece in modo sensibilmente diverso in funzione del ruolo complessivo che la legislazione ricopre all’interno dei raporti tra formanti del sistema. Come si è ricordato il XIX secolo non fu un periodo di particolare incisività degli interventi legislativi. Per conseguenza anche le teorie interpretative furono piuttosto trascurate. Al contrario nel XX secolo si è assistito ad uno sviluppo quantitativamente impressionante della legislazione, tanto che si è parlato di una “Staturification” del common law. La ragione è analoga a quella che si è già esaminata rispetto all’Inghilterra. Lo stato intereventista (che regola vasti aspetti della vita economica e sociale della nazione) richiede una raccolta sistematica delle informazioni e la creazione di nuovi apparati pubblici. I giudici non sono attrezzati per la raccolta di informazioni perché posseggono solo quelle che vengono loro fornite dalle parti; tanto meno possono creare nuove istituzioni e provvedere al loro finanziamento. Decisamente i compiti più impegnativi dello stato moderno sono al di là della portata del diritto creato dai giudici. Accanto a questi fattori decisivi non è da trascurare il cambiamento di mentalità verificatosi nel XX secolo, ed in america con particolare intensità a partire dal New Deal. Nel secolo scorso i legislatori consideravano il common law con la più grande riverenza ed avevano quindi grande cautela a riformarlo per via legislativa. Oggi si tende a considerare il diritto qualcosa di interamente plasmabile , anzi, che deve essere continuamente riplasmato per mantenerlo a contatto con i tempi. Una volta che questa mentalità perpetuamente riformatrice abbia preso piede è inevitabile che la legislazione si affermi in quanto è di gran lunga lo strumento di riforma più rapido. Ma il dato maggiormente rilevante per spiegare la crescita esponenziale della legislazione è che una volta iniziata la spirale essa si avvita necessariamente su se stessa, poiché vi è un continuo bisogno di nuove leggi per correggere i difetti e gli effetti perversi di quelle precedenti. Sia che ciò derivi da diversità di apprezzamento politico naturalmente incanalate da un sistema fondato sulla alternanza di parti al potere , sia che ciò derivi dai c.d. fallimenti della legge, rimane che la maggior parte delle leggi votate ogni anno non pretendono di correggere difetti del common law, ma difetti di leggi precedenti. Negli stati uniti, e ancora di più in Inghilterra, il diritto dello stato interventista è un diritto rivolto a grandi apparati pubblici i quali hanno bisogno di norme scritte per funzionare adeguatamente e ciò provoca una forte divisione in senso al corpus legislativo. È vero quindi che esiste ormai nel sistema americano un diritto amministrativo vagamente simile a quello che è tradizionale nei sistemi di civil law, ma è anche vero che l’unità della giurisdizione mantiene la divergenza tra il diritto degli apparati ed il diritto comune, entro limiti molto più ristretti rispetto alla dicotomia diritto pubblico/diritto privato presente nei sistemi di civil law. È inoltre da considerare che, mentre nelle esperienze europeo-continentali il diritto amministrativo nasce come statuto privilegiato degli apparati, negli stati uniti la sovraeminenza dei principi del diritto comune rimane assicurata dal fatto che in essi si sono concretizzati i valori assunti nella costituzione. Su altro piano si deve richiamare l’attenzione sul fatto che lo strumento legislativo è stato ampiamente usato a fini di uniformazione del diritto all’interno del sistema federale. La migliore e la più interessante dimostrazione di questa capacità dello strumento legislativo di agire come strumento di uniformazione del diritto dei singoli stati è stata fornita dall’Uniform Commercial Code. Dopo il ripudio della dottrina del caso Swift v. Tyson, la corte suprema federale ha del tutto cessato di guidare su base uniforme lo sviluppo del diritto commerciale, ma la necessità di una certa uniformazione in tale campo è rimasta intatta. Del resto tale necessità era già stata avverita di fronte al divergere delle legislazioni dei singoli stati sicchè verso la fine del XIX secolo, la National Conference of Commissioners on Uniform State Laws si era costiuita con il preciso scopo di preparare leggi modello le quali potessero essere uniformemente adottate da tutti gli stati. Il ricorso al metodo delle leggi modello da porre in vigore in ciascuno singolo stato , è analogo al metodo delle direttive perciò in una certa misura può esserci familiare (anche se va notato come nell’esperienza americana, si è tentato di far adottare dai diversi stati esattamente il medesimo testo, spingendo quindi il grado di uniformazione legislativa ad un livello il più elevato possibile). Il criterio delle leggi modello ha avuto il suo coronamento con la redazione dell’Uniform Commercial Code, preparato in seno all’american law institute (lo stesso che redige il restatement) ed alla national conference of commisioners on uniform state laws. I lavori di redazione iniziarono nel 1942 e giunsero ad una prima conclusione nel 1952. Una volta redatto un testo definitivo , questo è stato proposto ai legislatori dei diversi stati perché lo adottassero come loro legge interna. Simile operazione (grazie alla grande capacità di pressione dell’american bar association che aveva sponsorizzato l’iniziativa) ha avuto successo. Oggi L’U.c.c. è stato adottato (almeno in parte) da tutti gli stati dell’unione. L’UCC ha la struttura ed il contenuto di un codice nel senso europeo continentale del termine, nonostante la sua sistematica sia decisamente realistica e non dogmatica. Posto che nel lessico giuridico americano per diritto commerciale si intende il diritto dei contratti commerciali (ed in primis della vendita mobiliare) l’UCC è strutturato in modo da seguire le varie fasi di una negoziazione commerciale. La sua sistematica procede quindi per nuclei di problemi connessi dalla loro pratica inerenza ad una medesima fase operativa. Sotto il profilo strutturale l’UCC si presenta composto da 9 articoli, corrispondenti grosso modo ai singoli libri di un codice europeo: l’art 1 di carattere introduttivo fissa anche le regole ermeneutiche; l’art 2 riguarda la vendita mobiliare; gli artt 3, 4 e 5 riguardano le varie promesse ed i mezzi di pagamento (titoli di credito o strumenti bancari) l’art 7 concerne il trasporto, il deposito ed i titoli rappresentativi;l’art 9 le garanzie immobiliari mentre gli arr. 6 e 8 riguardano alcune eventualità che sono correlate ad una negoziazione commerciale, ma non ne fanno necessariamente parte (cioè la vendita di tutto uno stock in frode ai creditori e gli investimenti in titoli mobiliari). Con ciò l’intera materia dei contratti commerciali è coperta da una legge uniforme, anche se nell’introdurre la legge modello alcuni stati hanno adottato emendamenti parziali. Più rilevante è il fatto che dopo la prima versione , la national conference si è attrezzata per suggerire modifiche ed aggiornamenti parimenti uniformi. Tuttavia queste revisioni debbono poi essere adottate come leggi dai diversi stati e non accade mai che questi procedano all’unisono. Sicchè è inevitabile che diverse versioni dell’UCC siano in vigoe nei diversi tati nello stesso momento. L’importanza dell’UCC non è tuttavia limitata alla sua funzione uniformatrice, ma si estende all’addestramento che esso impone all’esegesi di un testo normativo sistematicamente organizzato in forma di codice. A parte le regole interpretative verbalizzate nel codice stesso (art. 1) la uniformità e la sistematicità delle sue previsioni impone alle corti un procedimento interpretativo che tenga conto del funzionamento dell’insieme e non solo dell’analogia con casi simili precedentemente giudicati. Si deve tuttavia sottolineare sarebbe fuoriviante considerare la crescita quantitativa del formante legislativo ed il ricorso ad un codice come fenomeni in grado di per sé di avvicinare le esperienze di common law a quelle di civil law. Diversità di non poco conto continuano infatti a risiedere nel modo con cui le fonti legislative vengono integrate nel momento della aggiudicazione. Anche a questo riguardo si avvertono traiettorie di avvicinamento tra le due esperienze , ma è importante percepire come ciò avvenga secondo linee diverse e più complesse di quanto può suggerire un rozzo calcolo basato sulla quantità di provvedimenti legislativi in vigore o sulla magica parola “codice”. In buona parte quindi il problema coincide con quello delle tecniche di interpretazione delle norme legislative. 7. L’INTERPRETAZIONE DELLA LEGGE NELL’ETA’ DEGLI STATUTES Nell’età degli Statutes i giudici hanno ovviamente dovuto procedere ad una revisione radicale dei canoni ermeneutici tradizionali. Infatti, secondo tale teoria tradizionale uno statute viene emanato dal parlamento per correggere un difetto del common law. Per interpretare la legge basta quindi seguirne il testo letterale. Se questo non è chiaro, l’interprete deve identificare il difetto (mischief) del common law che si è voluto correggere e ciò esaurisce la ricerca della ratio legis. Queste due semplici regole esauriscono il bagaglio delle tecniche intepretative in senso stretto. Tuttavia la teoria per cui la legge è emanata per correggere un difetto del comon law, impone anche di interpretare restrittivamente qualsiasi testo legislativo , e fa quindi divieto di applicare per via analogica le sue previsioni. Viceversa, le applicazioni interpretative di un qualsiasi provvedimeto legislativo verbalizzate nelle sentenze dei giudici non perdono la loro normale efficacia vincolante e perciò nel medio lungo periodo qualsiasi norma di origine legislativa viene inglobata nel tessuto del diritto giurisprudenziale, conferendo ai giudici il compito di dotare la norma di senso sia perché spetta ad essi chiarire il significato delle parole del legislatore, sia perché spetta ad essi riconnettere tale significato al sistema complessivo. Queste teoria ermeneutica peraltro non si è mai del tutto applicata alla costituzione, rispetto alla quale non avrebbe molto senso. In una certa misura la costituzione federale ha quindi costituito la fonte di un modello di interpretazione alternativo a quello tradizionale di common law, e questo modello alternativo sta oggi prendendo piede in tuto il vasto campo del diritto a base legislativa. Conviene quindi ricordare come ai fini del suo intendimento il testo della costituzione viene normalmente assunto come un insieme di principi, ciascuno dei quali ha la sua base in una espressione verbale che ricorre nel testo e che viene denominata “clause”. Con l’andare del tempo su ognuna di queste singole clausole si è stratificata una interpretazione giurisprudenziale (specie della corte suprema federale) che peraltro è (come accennato) variabile (ad ESEMPIO: la interpretaizone del “due process” di cui al XIV emendamento in termini di valutazione sostanziale dei limiti imposti al property rights è stata seguita per decenni, ma poi è stata nettamente ripudiata nel 1936; l’interpretazione dello stesso emendamento nel senso che esso permetteva la segregazione razziale purchè i cittadini delle diverse razze ricevessero un trattamento separato ma eguale, è stata affermata nel caso Plessy v. Ferguson (1896), ma nettamente respinta nel caso Brown v Board of Topeka (1954)). Se dunque è vero che le diverse clausole della costituzione federale vengono lette dai cittadini e dagli operatori attraverso l’interpretazione che ad esse viene data dai giudici, non è però meno vero che i concetti di cui è costellato il testo della costituzione assumono il ruolo di fonte generativa dei conceti secondari che da essi sono desunti mediante l’interpretazione giurispruenziale, la quale deve mantenere tra le parole della costituzione e l’attribuzione ad esse di un significato una relazione giustificabile. Il problema è dunque quello relativo ai criteri madiente i quali si può giustificare una determinata operazione di estrazione del significato da una clasuola della costituzione. Su ciò , come sempre accade in tema di teoria ermeneutica, non vi è completo accordo tra i giuristi americani, ed anzi nei tempi più recenti si sono aperte a questo proposito accanite controversie, tra le diverse scuole di pensiero. Una di queste predica che l’unico modo giustificabile di intendere la costituzione è quello di rifarsi alla intenzione originaria dei costituenti, mentre sarebbe una pura e semplice usurpazione del potere costituente ogni aggiunta di senso che vada al di là dell’original understanding. Altri ritengono che sia perfettametne giustificata una interpretazione estensiva dei diritti umani consacrati nella costituzione tale che simili diritti possano ricevere la pienezza di riconoscimenti che essi meritano in quanto principi morali su cui si fonda il patto sociale. Altri ancora hanno elaborato strategie argomentative più sofisticate. La corte suprema federale oscilla a seconda della sua composizione tra la tendenza più attivista nel campo dei diritti umani, (la quale l’ha condotta ad elaborare nuovi diritti della personalità che non sono iscritti nel testo) ed una tendenza più prudente che sembra essere consapevole del carattere controverso (perché controvertibile) delle giustificazioni che la stessa corte ha addotto in passato al fine di dichiarare , per esempio, che è ricavabile dalla “penumbra” del I, III e IV emendamento un diritto all’autonomia personale del cittadino , in base al quale risultano incostituzionali leggi statali che proibivano la vendita di contraccettivi , e che incriminavano indiscrimantamente l’aborto. Queste oscillazioni non si possono spiegare solo con il fatto che ad una corte composta da giudici di orientamento liberale è succeduta una corte composta da giudici scelti in funzione del loro orientamento conservatore, richiamando piuttosto il dato per cui i periodi creativi non possono durare in eterno e richeidono invece pause di consolidamento, nel corso delle quali i risultati dei periodi creativi possono essere più pacatamente discussi e saggiati sotto il profilo della loro giustificabilità ed accettabilità. Ciò che rileva è che proprio le controversie del XX secolo hanno posto in risalto un dato che esiste da sempre e cioè che la giurisprudenza in materia costituzinoale è legata a procedimenti interpretativi e non alla ricerca della soluzione più giusta (o più efficiente, o più rispondente ai valori comunemente accolti) di un caso della vita. Questa esperienza fruttifica nel campo della interpretazione della legge in generale ove si riscontra la tendenza ad includere il dettato legislativo nel procedimento di aggiudicazione tipico di un diritto giurisprudenziale(quindi molto attento agli esiti fattuali del procedimento ermeneutico) considerando in definitiva l’insieme integrato costituito dai testi e dalle interpretazioni autorevoli che esso ha ricevuto, come il diritto in senso obiettivo. Questo punto di approdo dell’esperienza americana attuale non è affato stabile. La dottrina accademica insiste affinchè il procedimento ermeneutico sia ulteriormente integrato mediante l’inserimento di un altro elemento che proviene dall’esperienza di common law (ossia il controllo sulla coerenza complessiva delle regole operazionali con la costellaizone dei principi fondamentali che reggono il sistema juris). Da circa 10 anni la dottrina accademica continua a criticare quelle sentenze che ai suoi occhi sono unprincipled (ossia prive di riferimento ad un qualche principio di carattere etico rispetto al quale la regola operativa rappresenti uno sviluppo coerente). Il bersaglio di simili critiche non sono solo le sentenze. Come aveva avvertito Savigny, la legislazione è per sua natura disorganica e frammentaria. Questo carattere è particolarmente evidente nella legislazione degli stati occidentali della fine el XX secolo, quando le grandi tematiche sono esaurite e la produzione legislativa si rivolge ad argomenti interstiziali. Nell’esperienza americana le leggi federali sono normalmente ben formulate. Le grandi leggi che danno sbocco a periodi di fervore riformatore (come quelle sui diritti civili degli ani 60 e sull’ambiente degli anni 80) costituiscono lo sviluppo di principi ispiratori ben visibili e ben noti. Esaurite queste tematiche tuttavia la massa delle leggi annualmente emanate paiono prive di un baricentro. Un autore particolarmente influente ha auspicato che in futuro le leggi siano considerate come prodotto del common law ed interpretate come tali, il che consentirebbe di dotarle mediante una interpretazione assai libera da costrizioni letterali, di quella coerenza dottrinale che stà svanendo. 8.LE FONTI DI COGNIZIONE La descrizione del sistema delle fonti del diritto americano attuale può lasciare la falsa impressione di un sistema giuridico molto frammentato. In realtà esistono e sono all’opera forze centipete assai potenti. Queste ultime si collocano quasi tutte a livello di formanti culturali del sistema. L’educazione giuridica uniforme è uno di questi fattori; l’altro può essere il linguaggio giuridico. Ma, tra tutti, occorre segnalare essenzialmente il fatto che il diritto americano è pensato dai suoi protagonisti come il prodotto di una esperienza giuridica unitaria a livello nazionale. Esistono certo alcune disciplina di grande dettaglio in cui le variabili locali hanno estrema rilevanza (esempio il diritto ipotecario è quasi sempre diritto di nicchia che solo i pratici locali possono conoscere a fondo). Tuttavia il dato rilevante è che il diritto americano è studiato in modo uniforme e le sue fonti di cognizione sono nazionali e non locali. Il problema delle fonti di cognizione del diritto americano non è il loro insabbiarsi in ambiti locali, quanto la loro abbondanza che richiede il ricorso a qualche forma di sintesi. Una sintesi è quella che continua ad essere offerta dal Restatement. Le critiche dei realisti sembravano aver seppellito il primo tentativo, ma la forza dell’idea che stava dietro di esso è rimasta intatta. Il dato di fondo è che la massa dei casi decisi è semplicemente troppo grande per essere usata come fonte del diritto. La richiesta di una semplificazione del sistema è da sempre la domanda che viene avanzata a gran voce dagli operatori del diritto americani. Da essa hanno tratto linfa i movimenti a favore di una codificazione che furono attivi nella prima metà del secolo XIX. Il successo che ha arriso alla teoria langdelliana (e che è andato indubbiamente al di là dei suoi meriti teorici) si spiega in buona parte con il panico che si diffuse tra gli operatori del diritto quando , negli anni 70 del secolo XIX, la West Pub Company iniziò a pubblicare il National Reporter System , il quale rendendo accessibile agli avvocati la giurisprudenza delle corti superiori di tutti gli stati, moltiplicava da un lato il tempo e le energie che bisognava dedicare alle ricerche dei precedenti in termini e, dall’altro , li metteva in contatto con una realtà giurisprudenziale brulicante di contraddizioni; il che spiega perché il grido di Langdell secondo il quale la maggior parte delle decisioni guirisprudenziali erano inutili o peggio che inutili, fosse accolto come un segnale liberatorio. Nel momento attuale, l’editoria giuridica disponibile in forma di trasmissione elettronica dei dati è andata al di là dello scenario da incubo prodotto dall’accumularsi dei volumi del National Reporter System, perché ha reso disponibili tutte le decisioni giurisprudenziali. Il Restatement è una delle possibili risposte a questa sempiterna domanda di semplificazione del diritto e delle sue fonti di cognizione. Esso tuttavia è sopravvissuto alle critiche iniziali anche perché ha cambiato paradigma. Nelle sue successive edizioni il Restatement non si propone più di estrarre dalla massa dei casi i veri principi organici allo sviluppo del common law ma, più laicamente, si propone di tradurre in regole i trends evolutivi più promettenti che emergono dalla giurisprudenza. Attualmente l’american law institute è impegnato nella terza edizione dei restatements già editi ma, accanto ad essi (a testimonianza della vitalità del progetto) si stanno elaborando altri restatements. Certo, a differenza dell’UCC che è legge degli stati, il restatement rimane una compilazione privata, la cui efficacia è affidata alla sua forza persuasiva, ossia al prestigio che ogni singola compilazione acquista presso le corti. Un particolare indice ne misura il successo presso le corti: lo Shepard conteggia tutte le volte in cui una regola del Restatement è citata nel testo di una decisione giudiziale: più alto è il numero delle citazioni, più elevata è l’autorevolezza della regola stessa e naturalmente si tratta di un successo che si autoalimenta. In un certo senso il restatement è l’anello di congiunzione tra le fonti autoritative e le fonti di cognizione del diritto americano, avendo a questo riguardo una natura ibrida. La struttura delle fonti di cognizione del diritto in senso stretto è stata recentemente rivoluzionata dalla introduzione delle tecniche di trattamento dei dati per via elettronica. La conoscenza dei formanti legislativo e giurisprudenziale avviene oggi mediante collegamenti con banche dati ,mentre i supporti cartecei sono stati quasi intermanente eliminati. Tuttavia la struttura organizzativa delle fonti di informazioni ha subito metamorfosi assai variabili da settore a settore. L’impatto dell’informatica è stato assai elevato nel caso dei dati giurisprudenziali. Prima dell’avvento dell’elettronica, le sentenze federali potevano essere lette in specifiche raccolte organizzate in modo cronologico. Per le sentenze della corte suprema esistono tre raccolte, la più citata delle quali è la collezione ufficiale United States Reports (u.s.) cui normalmente si fa riferimento per citare una pronunzia della corte suprema federale. La citazione di una sentenza è eseguita nella seguente forma: 1) nome delle parti 2)numero del volume della raccolta u.s. 3) numero della pagina del volume ove inizia la sentenza 4)menzione , tra parentesi, dell’anno in cui la sentenza è stata emessa (esempio: “obsorne v.ohio, 495u.s. 103(1990)). Le sentenze delle altre corti federali si leggono in diverse collezioni , le più importanti delle quali sono la seconda serie della Federal Reporter (F.2d) ed il Federal Supplement (F.supp). I criteri di citazione sono analoghi a quelli della corte suprema, ma viene aggiunta, tra parentesi, una referenza alla corte che ha emanato la sentenza (ESEMPIO: “united states v. English, 521 F2d 63 (Ca9 1975)” significa che la sentenza del caso Stati Uniti contro Inghilterra è stata emanata nel 75’ dalla corte d’appello federale del 9° circuito e si legge nella raccolta federal reporter seconad serie al volume 521 pagina 63). Per la giurisprudenza degli stati esistono raccolte specifiche per ogni stato, tuttavia si tratta di strumenti di consultazione usati pochissimo al di fuori del singolo stato. Regnava invece sovrano sul campo il già citato National Reporter System, il quale è organizzato suddividendo il territorio nazionale in sette grandi circoscrizioni ognuna delle quali contiene più stati, salvo che alla giurisprudenza dello stato di New Yori è stata dedicata dal 1888 una raccolta apposita e lo stesso è avvenuto a partire dal 1959 per la giurisprudenza della california. Queste due raccolte pubblicano anche decisioni di corti non supreme, mentre per tutti gli altri Stati il National Reporter System pubblica solo le decisioni delle corti supreme, e non tutte. Le limitazioni alla pubblicazione delle sentenze sono crollate con l’avvento dell’informatica, così come sono diventati inutili i complessi sistemi ideadi dalla West Pubb.Co per ricercare le sentenze per argomento, tra cui spiccava il key number system. La ricerca per via elettronica prescinde da simili complicazioni e quindi risultano obsolete anche le raccolte specializzate per materia, le cui funzoni possono essere facilmente surrogate in fase di interrogazione di una banca dati. Ciò che rimane per ora del vecchio sistema basato sul supporto cartaceo è il sistema di citazioni della giurisprudenza statale che nelle sue sigle fa rinvio al National Reporter System. Occorre quindi ricordare che le sigle fanno riferimento a grandi aree geografiche e quindi i sette reports sono così suddivisi: Atlantic (A.) North Eatern (NE) North Western (NW) South Eastern (SE) South Western (SW) Southern (SO) Pacific (P). Poichè però da tale indicazione non risulta a quale stato appartenga la corte suprema che ha emanato la sentenza, la citazione è sempre preceduta da quella per il resto superflua , del repertorio del singolo stato (Esempio, nella citazione Kaczhowski v Bolubasz 491 Pa. 561,421 A.2d 1027 (1980) la prima indicazione serve solo per indicare che si tratta di una sentenza della corte suprema della Pennsylvania., il che implica che lo straniero deve familiarizzarsi anche con la tabella la quale contiene le sigle di tutti i 50 stati. Per quanto riguarda i dati legislativi, va premesso che collezioni ordinate esistono solo per le leggi federali. Tra esse spicca quella della West, nota come united states codes annotated (u.s.c.a.) , che contiene anche annotazioni redazionali che danno conto delle decisioni giurisprduenziali intervenute in materia, rinvii alle opere di dottrina , e rende accessibili i lavori preparatori. Oltre che su supporto cartaceo è disponibile nel sistema Westlaw. Un buon aiuto alle ricerche con speciale riguardo al formante giuripsrudenziale è fornito dai digests e dalle enciclopedie rispetto alle quali la ricerca si può condurre per materia ed ordine alfabetico. Le ricerche rivolte al formante dottrinale sono necessariamente più complesse poiché questo formante si esprime mediante generi letterari assai diversificati. Come si è accennato la letteratura giuridica americana si è formata attorno al genere del trattato. Questo genere letterario ha avuto il suo apice verso la metà del XX secolo in cui si poteva contare sulle grandi opere di Williston e Corbin sui contratti ; di Powell sulla Real property; Di Wingomore in materie di Evidence; di Gilmore sulle personal securities. Negli ultimi decenni la trattatistica è appassita, così come è in parte appassito un genere affine anche se di minor mole: L’hornbook (ossia il manuale). Fioriscono invece (per una scelta di carattere editoriale) le esposizioni manualistiche su scala ridotta, note come Nutshells, le quali in effetti riescono a fornire una prima panormaica informativa su una specifica materia, ma non possono ardire ad acquisire autorevolezza, come invece accadeva non di rado ai milgiori Hornbooks. Sempre ad una ragione editoriale (legata all’alto numero di studenti delle Law Schools) si deve attribuire il perdurante impegno nella redazione di Casebooks, i quali peraltro hanno mutato assai fisionomia rispetto al prototipo messo a punto da Langdell. Questo era una raccolta di casi senza alcun commento. I moderni casebooks contengono (accanto ai casi giurisprudenziali) numerosi altri materiali e, soprattutto, sono arricchiti da ampie introduzioni di stile trattatistico su ogni singolo argomento; sicchè in parte sopperiscono al declino degli Hornbooks. Se non fosse per la necessità imposte dalla didattica che stimola la redazione dei Casebooks, la dottrina americana manifesterebbe appieno la sua propensione a scrivere opere che si rivolgano al circuito accademico e non all’operatore del diritto, come è avvenuto sino alla generazione precedente a quella attuale. La produzione dottrinale è nella sua grande maggioranza rivolta a saggi che vengono pubblicati nelle riviste edite da ciascuna Law School, ed in misura minore (ma di importanza crescente) alla pubblicazioni di libri aventi una impostazinoe nettamente teorico-critica. Ciò riflette in larga misura il metodo di selezione del personale accademico per la cui carriera è fondamentale pubblicare saggi in cui si manifesti la creatività scientifica dell’autore, ma riflette anche una scelta di ruolo che è stata compiuto dal formante dottrinale il quale ha rinunciato a seguire l’evoluzione della casistica divenuta sterminata ed ingestibile, scegliendo invece di fornire ai giudici ed agli operatori in genere la guida di teorie che possano generare soluzioni coerenti ed accettabili della costellazione dei casi pratici. Con ciò l’influenza della dottrina sulla vita del dirirtto non pare diminuita essendo l’elaborazione di teorie più o meno comprensive un antidoto al disordine in cui il sistema americano precipiterebbe a causa della sua stessa complessità. 9.GLI ORIENTAMENTI DELLA CULTURA ACCADEMICA E DELLE PROFESSIONI LEGALI È stato giustamente osservato come le moderne correnti di pensiero che dominano la scena accademica americana attuale come la law-and-economics e il critical legal studies movement, sono essenzialmente Langdelliani nel loro spirito profondo. Se il realismo giuridico ripeteva da Ehrlich la pretesa di poter dare (grazie all’apporto della sociologia) una spiegazione esaustivamente scientifica dei fenomeni istituzionali, occorre dire che il paradigma sociologico non ha mantenuto le sue promesse. Al contrario, l’uso dei paradigmi dell’analisi economica ha consentito progressi più rapidi, fornendo al giurista la possibilità di prevedere esiti fattuali dell’adozione di regole giuridiche. La pretesa dell’analisi economico-giuridica di consentire una adeguata scientificità al discorso giuridico si fonda su due fattori. In primo luogo il ricorso ai criteri di dimostrazione geometrica tratti dall’economia teorica consente di scorgere verità controintuitive. In questo senso il parallelismo con le scienze naturali costituisce ancora un paradigma significativo e ciò spiega il grande successo ottenuto dall’analisi economica nelle università americane ove il criterio di selezione dei docenti richeide che essi forniscano apporti conoscitivi e scientifici. In secondo luogo l’analisi economico-giuridica ha dotato lo studio del diritto di una certa capacità predittiva che sino al suo avvento era sempre stata piuttosto lacunosa. Riuscire ad esempio a prevedere quali effetti sociali possono derivare dall’adozione di forme di responsabilità oggettiva al posto di forme di responsabilità per colpa, è un completamento indispensabile dello studio del Legal process, perché consente a tale studio di uscire dalle secche in cui si dibattono le scienze storiche e sociali. Esse infatti contraddicono la loro ambizione di comprendere e di spiegare perchè le cose siano andate in un certo modo e come i fatti si colleghino tra loro ogni qual volta sono costrette a confessare che è impossibile prevedere come le cose andranno in futuro. La capacità predittiva (seppur modesta)dell’analisi economico-giuridica consente in ogni caso di formulare ipotesi le quali non solo possono essere falsificate mediante una migliore analisi teorica, ma possono anche essere sottoposte al collaudo della loro sperimentazione della realtà (come è avvenuto ad esempio nel settore della responsabilità civile automobilistica le cui riforme sono state prima esplorate teoricamente alla luce dell’analisi giuridica ed economica). Su tutt’altro fronte i cosidetti criticals (abbreviato: crits) stanno affrontando la complessità della semantica giuridica decostruendo il significato delle proposizioni precettive all’interno del sistema. Mentre l’analisi economico-giuridica deve basarsi su assunti astratti e semplificatori, quella critica arricchisce al massimo il contesto nel quale le regole giuridiche vengono analizzate, assumendo sovente contesti alternativi al fine di far emergere l’influenza di visioni contrapposte della giustizia nella società contemporanea a livello di regole operazionali. Il lato conoscitivo di questa impostazione si coglie nel fatto che essa costringe a separare nettamente all’interno delle strategie argomentative dei giuristi , ciò che è retorica da ciò che è logica, ciò che è verbalizzato da ciò che è crittotipico, munendosi quindi di strumenti indispensabili ai fini dell’analisi delle pratiche discorsive le quali condizionano in modo decisivo gli esiti delle valutazioni giuridiche. A differenza dell’analisi economica che è muta sul terreno dei valori e disarmata di fronte al problema del loro bilanciamento (in quanto riescee a misurare solo quali siano le regole migliori una volta che i valori da perseguire sono stati prescelti al suo esterno) l’analisi dei crits si colloca di preferenza su questo piano sia perché essa è rivolta a mettere in risalto le elezioni di valore espresse o inespresse, sia perché ciò che accomuna i mebri del Critical Legal Studies Movement è l’elezione esplicita di certi valori di riferimento come preminenti. Anche se ciò non costituisce una conseguenza logicamente necessaria della loro metodologia, i crits si considerano tali anche perché preferiscono privilegiare i valori dell’eguaglianza e dell’equità, nonché tutti queli che si riconnettono alla sfera dei nostri diritti della personalità, mentre trascurano quelli di carattere patrimoniale. Accanto alle scuole di pensiero principali il fertile terreno delle università americane produce continuamente nuovi indirizzi di ricerca, alcuni dei quali abbandonano l’ambizione di perseguire visioni generali, per sposare invece interessi francamente settoriali, sovrapponendosi perciò in alcuni ambiti alle scelte dei crits. L’esempio sortì negli anni del New Deal quando alcuni giuristi sposarono l’ottica giusindacale che imponeva di ripensare le regole del diritto dal punto di vista degli interessi dei lavoratori (sindacalizzati) e si è poi moltiplicato negli ultimi decenni del nostro secolo con l’emergere di studi e tendenze dichiaratamente orientati a promuovere ciò che è bene per l’ambiente, le donne, le minoranze etniche ecc… Il dato di fondo che ancora tiene insieme queste tendenze frammentarie è la comune adesione all’idea che se è tramontata l’illusione nella neutrale impersonalità delle regole giuridiche tuttavia continua a sussistere (grazie all’aggancio tra analisi giuridiche ed elaborazione culturale generale) un terreno comune di confronto e di dialogo critico tra le diverse tendenze sul quale ciascuna può misurare la propria forza intellettuale. Soprattutto peraltro è da sottolineare come le diverse scuole di pensiero convergano nel privilegiare le analisi giruidiche condotte in termini di policy (ossia rivolta agli esiti economico-sociali di meccanismi giuridici complessi). Il momento della valutazione è spostato su tali esiti, mentre la valutazione rivolta alla coerenza del sistema juris diviene un elemento secondario, di cui si tiene conto solo perché funzionale alla certezza e prevedibilità del diritto. Le tendenze più esposte sul fronte dell’avanguardia culturale e scientifrica sono peraltro tenute severamente a freno dalla comune coscienza che lo scopo principale della Law School rimane quello di preparare avvocati e, eventualmente , giudici. Negli stati uniti la professione legale è unitaria. Per ottenere la qualifica di avvocato (lawyer) la quale consente il patrocinio avanti le corti (c.d. ammissione davanti al bar) è necesssario passare un esame che si svolge secondo modalità piuttosto uniformi, ma in linea di principio è regolato dalle leggi di ciascuno stato. Questo test è solo il momento conclusivo di una carriera scolastica, infatti per esservi ammessi occorre aver precedentemente ottenuto un law degree da una delle law school approvate alla american bar association. Queste tuttavia sono oltre 170, di cui non poche sono scuole serali. In un numero così vasto di istituzioni educative si associa inevitabilmente a forti differenza tra le elites law school e quelle meno qualificate e meno qualificanti. In effetti tali differenze non solo sono assai rimarcate, ma tendono a preservarsi anche nell’attività professionale successiva. Benchè esistano casi di abili avvocati ed anche di giudici di rango elevato o di uomini politici di successo formatisi in una Law School poco prestigiosa, si tratta di eccezioni legate a qualità personali o a circostanze di carattere singolare. Anche nella professione legale esistono fortissime differenze in sintonia con la vastità e la dispersione spaziale del ceto forense. Vi sono attualmente negli stati uniti circa 700.000 avvocati ed è difficile trovare qualcosa in comune tra chi eserciti da solo in un piccolo centro di provincia di uno stato poco popoloso e colui che faccia parte di un grande studio associato attivo nei centri come New York, Chicago, Washington D.c. e los angeles. Tuttavia il tono della professione legale è dato dai grandi studi cittadini, così come il modello di educazione legale è fornito dalle celebri law school di èlite. Nessuno dubita della superiorità (nei loro rispettivi campi) degli uni e delle altre e tra le due realtà esisteni anche una stretta simbiosi nel senso che i grandi studi legali reclutano solo laureati nelle migliori law school. È pero da considerare come tra il mondo della educazione universitaria e quello della pratica professionale sussistano ovvie differenze strutturali. Nel mondo universitario lo stile delle lezioni e i libri di testo sono sostanzialmente uniformi: ciò che varia è la quantità degli insegnanti e degli studneti, due fattori che tendono ad autoalimentarsi. L’ammissione ad una Law School avviene infatti sulla base di un test eguale per tutti sul piano nazionale. Lo studente che ha ottenuto un punteggio molto alto può aspirare ad essere ammesso in un law school di prestigio e ad una di esse rivolgerà la sua domanda; gli altri dovranno mano a mano accontentarsi di facoltà meno prestigiose. Viceversa queste ultime dovranno a loro volta accontentarsi di ricevere domande di studenti meno qualificati in base al punteggio. Poiché in tutte le law school si insegna un immaginario diritti nazionale e non il diritto positivo locale, la competizione tra le law school per attrarre i migiori studenti si svolge sul piano nazionale. Per ottenere tale risultato le facoltà cercano di attrarre i migliori professori (cioè quelli che con le loro pubblicazioni ottengono una elevata reputazione scientifca). La letteratura giuridica accademica è quindi dominata dai professori delle unviersità più prestigiose, poiché chiunque scriva qualche saggio veramente interessante finisce con il ricevere una offerta da parte di una buona facoltà. Il meccanismo quindi è dominato da criteri di valutazione di tipo nettamente accademico-scientifico nel senso che al loro professore promettente si offrono le migliori condizioni di stipendio e di lavoro, le quali però per essere integralmente mantenute richiedono una produttività scientifica continua. Contrariamente a quanto si pensa, non è il carattere privato l’elemento dominante del meccanismo di selezione (in effetti molte università comprese alcune di èlite come l’university of california sono pubbliche) ma la competizione esistente tra le diverse facoltà ciò che crea una forte pressione per la produzione di opere (molto spesso lunghi saggi, più raramente libri) scientificamente valutabili e quindi innovativi. Gli studenti delle migliori law school sono quindi esposti più direttamente alla espressione di un pensiero critico ed originale. La loro formazione avviene attraverso lo sviluppo di facoltà di esercizio critico e di creatività innovativa. Viceversa l’attività forense è caratterizzata da una maggior dose di prudenza. Ciò che si richiede ad un buon avvocato è infatti un elevato senso della misura e dell’equilibrio, purchè ciò non trasmodi in un castale conservatorismo ideologico, ormai fuori moda. Doti “diplomatiche” sono poi altamente apprezzate , così come le capacità di coordinaemnto un tempo tipica virtù imprenditoriale che il gigantismo degli studi cittadini ha travasato nelle professioni forensi. Come accade nelle attività imprenditoriali moderne , l’originalità delle soluzioni (che in questo contesto si chiama “creatività”) è altamente apprezzata, essendo spesso alla scaturigine di forme economiche invidiabili ed invidiate. È invece ormai del tutto tramontata nel panorama americano la figura dell’avvocato “uomo di cultura” nel senso umanistico del termine. Nelle università la tendenza alla scientificizzazione dei discorsi giuridici hanno emarginato gli insegnamenti di tipo tradizionalmente culturale. Nella professione il gusto per le buone letture di stampo classico è stata soppiantata dalll’apprendimento delle tecniche comunicative moderne, le quali sono le autentiche succedanee delll’ars retorica veicolata dalla lettura dei classici del pensiero occidentale. La molla che spinge gli avvocati americani verso certi comportamenti piuttosto che altri è ovviamente la ricerca del successo professionale. Un traguardo misurabile in modo molto concreto. Sotto il profilo causale il successo dell’avvocato dipende essenzialmente dalla capacità di intessere un dialogo persuasivamente fruttuoso con due personaggi principali: il giudice ed il burocrate. Mentre il dialogo con le burograzie è forzatamente frammentato, quello con i giudici è maggiormente coeso grazie alla relativa compattezza di questi ultimi. Molte delle caratteristiche della professione legale ameicana si spiegano in funzione delle caratteristiche del ceto dei giuristi. Pur tenendo conto delle non piccole differenze che intercorrono tra giudice e giudice (ed in particolar modo tra giudici statali e federali che in effetti sono una casta a parte rispeto ai primi) è ben percepibile la tendenza generale dei giudici americani a considerarsi dei policy makers (ossia di proporsi come persone in grado di offrire la soluzione giusta ai loro concittadini, i quali nel caso dei giudici statali coincidono spesso con i loro elettori). Il giudice americano non è necessariamente un avvocato di sperimentato successo , anzi lo è sempre più raramente. Trasferisce perciò nell’esercizio dell’attività giudiziale un entusiasmo creativo che non ha riscontri in altre esperienze di common law. Certamente rispetta il criterio della certezza del diritto (attraverso il duplice rispetto verso il testo legislativo ed il criterio del precedente) purtuttavia riserva le sue energie intellettuali nell’individuare la soluzione che possa costituire la regola guida migliore possibile per la comunità cui si rivolge. Questo atteggiamento , naturalmente , trova il suo punto di emersione più evidente nella giurisprudenza delle corti supreme (sia statali che federale) le quali ormai tendono a selezionare solo casi dai quali possano ricavarsi regole nuove piuttosto che sorvegliare l’uniformità della giurisprudenza delle corti inferiori. CAPITOLO SESTO : LE RADICI DELLE ESPERIENZE DI CIVL LAW 1.IL CONTESTO STORICO Se il common law d’inghilterra è apparso come il sottoprodotto di un capolavoro amministrativo ideato e portato a compimento dai sovrani normanni e Plantageneti, l’esperienza di civil law nacque da un seme del tutto opposto: non dal potere politico e dalle sue strutture di governo, ma dalle lacune di queste strutture ed indipendentemente da ogni potere politico. È stato efficacemente scritto che “il fiorire del sistema di civil law che si verifica nel XII e XIII secolo nn è dovuto in alcun modo all’affermazione d’un potere politico, né alla centralizzazione operata da un’autorità sovrana. Il sistema di civil law si differenzia perciò dal diritto inglese (nel quale lo sviluppo del common law è legato al rafforzarsi del potere regio ed all’esistenza di corti reali fortemente centralizzate). Sul continente europeo non si osseva niente di simile. Il sistema di civil law si afferma al contrario in un’epoca in cui l’europa non costituisce una unità politica e in cui perfino l’idea che le cose potrebbero o dovrebbero andare altrimenti sconfina nel chimerico: in un’epoca cioè in cui è chiaro che gli sforzi del papato o dell’impero non riusciranno mai a ricostruire, sul piano politico, l’unità dell’impero romano. Il sistema di civil law non è mai stato fondato altro che su una comunità di cultura. È nato ed ha continuato ad esistere indipendentemente da ogni mira politia”. Il dato essenziale che si coglie nella prospettiva del confronto tra le due branche della tradizione giuridica occidentale è che mentre la radice dell’esperienza di common law si colloca nelle prassi di corti centrali di giustizia istituite da un potere sovrano, la radice dell’esperienza di civil law si colloca in dati e fenomeni storici più incerti (ossia nella metamorfosi di un insegnamento accademico che diviene ordinamento). Il primo problema che si pone è quindi quello di spiegare come tale metamorfosi sia potuta avvenire. 2.GLI ESORDI DELA SCIENTA JURIS E L’INSEGNAMENTO UNIVERSITARIO Al tempo della rinascita economica, cioè nel XI secolo, era generalmente avverito il problema di individuare uno schema generale che potesse consentire quella leggibilità del mondo cui la cristianità occidentale non rinunciò mai ed, insieme, potesse fungere da modello paradigmatico nell’agire quotidiano. Era infatti evidente come il modello dell’antichità classica fosse irriproponibile nella sua interezza, mentre quello altomedievale non fosse più in grado di riflettere ciò che nella vita quotidiana accadeva. Questa situazione storica connota molte correnti di pensiero dell’epoca, ma essa fu anche il brodo di coltura del formante più caratterizzante della esperienza di civil law : la scientia juris. A dire il vero quella della scientia juris è un’avventura che inizialmente coinvolge schiere umane molto ristrette le quali si muovono in un ambiente tutto domianto da quelle fonti/regole/ procedure/schemi che erano tipici del diritto comune europeo altomedievale; ma che tuttavia appare subito dotata di una dinamicità straoridinaria, grazie alla quale tale scienza è riuscita ad imporsi in sfere sempre più ampie. Come è noto, fu Bologna la prima sede in cui si prese ad analizzare in modo scientifico il corpus juris giustinianeo ed a divulgare i risultati di tali analisi mediante il pubblico insegnamento. E altrettanto noto è che il primo maestro che fornì pubblico insegmaneto al riguardo fu Irnerio (un magister artium il quale privatamente coepit docere in legibus verso la fine del XI secolo). La biografia di Irnerio non ci è stata stramandata e moto probabilmente non è mai stata scritta, come del resto si addice ad un oscuro docente di provincia. Ma i suoi quattro discepoli (Bulgaro , Martino, Hugo, Jacopo) erano già considerati tanto autorevoli da comparire come consiglieri dell’Imperatore nella dieta di Roncaglia (1158). Più impressionante ancora fu l’accorrere di studenti desiderosi di essere introdotti nella scienza del diritto. Nei secoli XII eXIII la presenza di studenti stranieri a bologna, oscillante tra i 1000 e i 2000, era abbastanza vasta da richiedere una loro organizzazione in due universitates; una di citramontani suddivisi nelle quattro nationes formate da Lombardi, Toscani, Romani E Campani ed una di ultramontani che raggruppava ben tredici nationes europee. Questo successo di pubblico serve a mettere in luce il carattere pratico dell’insegnamento di quei maestri che di per sé si limitavano a coordinare il testo del corpus juris mediante le glosse di commenti ai singoli passi. Guardato con i nostri occhi quell’accorrere di studenti è quasi inesplicabile se si riflette come il dirito insegnato nella proto-università bolognese non era il diritto applicato in alcuna zona d’europa. Tuttavia lo studio delle pandette mostrava come fosse possibile ripensare l’andamento apparentemente caotico di ogni conflitto di interessi sotto l’aspetto dell’ordinamento di un sistema integrato di regole e procedure. In ciò gli studenti non fecero altro che interpretare quel bisogno di ordine che era fortemente sentito in tutta l’europa dei secoli XI e XII e rispetto al quale la riforma della chiesa fornì un modello catalizzante. I giovani quindi vennero alle scuole private di diritto per imparare ad amministrare un ordine legale; le cariche a cui aspiravano (e che molto spesso raggiunsero) erano quelle di funzionario degli apparati pubblici che si andavano costituendo presso le nuove entità politiche le quali , a loro volta, erano alla ricerca di una propria stabilità a prescindere dall’inserimento in un ordine politico universale rappresentato dalla chiesa o dall’impero. In questo senso la capacità di pensare ai problemi istituzionali in termini di logico ordine mentale costituiva un bagaglio tecnico prezioso. Non dissimilmente da quanto accadde secoli dopo negli stati uniti al’epoca della rivoluzione Langdelliana, l’insegnamento universitario del diritto impartito a bologna e poi nelle altre università che si formarono per un processo di imitazione, non mirava a formare giuristi pratici , ma era diretto a formare sapienti (ossia i dottori). La conclusione degli studi bolognesi era rappresentata dal conferimento della licentia docendi, si chè si è potuto dire che lo scopo dell’educaizone legale consisteva nel preparare futuri docenti. La distanza con la formazione del giurista inglese tutta incentrata sulll’addestramento operativo non avrebbe potuto essere maggiore. Tuttavia non si colgono tutte le implicazioni di questa diversità se non si sottolinea il fatto , di nuovo analogo a quello riscontrabile nelle grandi Law Schools americane dopo Langdell, per cui una educazione giuridica diretta alla formazione di scienziati del diritto può ben generare operatori di grande successo pratico allorquando la capacità più preziosa di un operatore del diritto consista nel poter intendere un insieme in trasformazione. I secoli XIII-XV presentano una fitta galleria di papi, cardinali, ministri e consiglieri di re e di principi che in gioventù avevano ricevuto una educazione giuridica. Meno impressionante, ma forse ancora più indicativa, è la immediata derivazione dalll’insegnamento bolognese di una rinnovata ars notariae, cui conseguì la sottrazione della formazione dei notai alle corporazioni ed ai collegi dove erano docenti i notai più anziani, per affidarla alle università. Sin dall’alto medioevo, i notai controllavano il crocicchio che dal fatto conduce alla legalità mediante la rappresetanzione dei primi in “instrumenta e Chartae” dotate dei prescritti requisiti. È perciò istruttivo ricordare come formulari notarili (da quello di raniero di perugia sino a quello conosciutissimo di rolandino dei passaggeri) si adeguarono immediatamente alla sapienza giuridica sprigionata dall’insegnamento universitario, mostrando come esso potesse essere immediatamente fruito in una attività che è pratica per eccellenza. Sin dai suoi esordi quindi la scientia juris non fu nullamente neghittosa verso i bisogni della prassi, piuttosto è da dire che li collocò nel contesto della piena comprensione di un ordine e delle tecniche e delle categorie che erano essenziali per percepire tali bisogni e per amministrare i fatti della vita come se a quell’ordine mentale dovessero essere ricondotti. 3.LA SCIENTIA JURIS ED IL PROBLEMA DELLA LEGITTIMAZIONE Infondo, l’educazione del giurista era la risposta ad un bisogno sociale largamente avvertito. La domanda sociale latente era la medesima che si manifestò in inghilterra: il bisogno di disciplinare i rapporti umani secondo regole e procedure prestabilite e non in base ai meri rapporti di forza. Mentre in Inghilterra questo bisogno comune all’europa dell’epoca successiva all’anno 1000 venne soddifatto prima dalla corona e dalle sue prerogative e poi dal ceto di giuristi formatosi attorno alle corti regie regolarmente istituite, in europa continentale le cose ebbero uno svolgimento più tortuoso e sottile perché mancava l’autorità in grado di istituire tribunali e di fare rispettare le sentenze. L’osservanza del diritto dovette essere conquistata in altro modo. Guardato con gli occhi moderni, il primo sviluppo della scientia del diritto sembrerebbe addirittura un fenomeno paradossale, poiché i suoi protgagonisti erano tutti personaggi privati (essendo soltanto professori di università da essi stessi istituite). Si trattava quindi di soggetti sommamente svestiti di ogni legittimazione a jus dicere. Odofredo , parlando di un certo Pepo (oscuro predecessore di Irnerio) dice che costui “acutoritate sua” iniziò a “legere in legibus”. Però il povero Pepo non acquisì autorità e prestigio. Mentre Irnerio lo stesso odofredo dice che fu “primis illuminator scientiae nostrae”. In questo confronto appaiono ben scolpiti sia il problema che la strategia adottata per superarlo. Il problema era sostanzialmnte quello della legittimazione a proclamare un diritto destinato all’osservanza da parte dei consociati quando coloro che lo proclamavano non erano rivestiti di alcuna autorità al rigaurdo. È evidente infatti (anche se Odofredo scivola sulla questione) come Irnerio non avesse inizialmente maggiore legittimazione di Pepone ed abbia anch’esso preso l’iniziativa di insegnare il diritto “auctoritate sua”. Però irnerio acquisì autorevolezza perché riuscì a persuadere i suoi ascoltatori di poter illuminare una materia oscura per mezzo della forza del suo intelletto, e ciò indica bene come il mezzo adottato per superare l’handicap di legittimazione fu l’appello all’autorità della scienza. In questo senso la scienza del diritto si segnala come un fattore di demarcazione sistemologico rispetto alla parrallela esperienza di common law ed insieme come un formante di lunga durata all’interno della tradizione giuridica europeocontinentale. Inserirsi nella struttura elastica o quasi inesistente delle fonti del diritto medievali, fu forse relativamente facile; inserirsi tra i formanti della tradizione di civil law è stato un risultato strepitoso. Sino all’illuminismo ed alla riovluzioen francese, in tutto il mondo europeo si concepiva in modo assai elastico la struttura delle fonti e si attribuiva grande autorità alla cultura in generale; tuttavia l’esistenza di un vasto spazio per la scienza del diritto dischiuso dall’apertura del sistema delle fonti, non spiega appieno il radicarsi del formante dottrinale nella tradizione del civil law, perché tale spazio indica solo una possibilità, la quale poteva essere colta come no. È quindi il caso di analizzare più da vicino le strategie seguite , quasi sicuramente in modo inconscio , per concretizzare le possibilità offerte dal contesto storico in cui nacque la scientia juris. Il prestigio della dottrina giuridica è oggi assicurato dal suo radicamento nelle università ove si concentra e si riflette il prestigio generale dell’alta cultura e del progresso scientifico e sorpattutto assume il monopolio della formazione professionale dei giuristi. Inizialmente però questi vantaggi erano insussistenti. L’univerisità è un prodotto della scienza del diritto e non il suo veicolo di diffusione. Come è stato acutamente notato, la scienza giuridica europea è stata la figlia primogenita del razionalismo europeo, quella che ha instillato in tutte le altre il suo spirito sistematizzatore e legistico, il quale ha indotto anche le scienze delle natura a ricercare nel mondo fisico quelle leggi che i giuristi avevano proclameto esistere nell’ordine sociale; perciò il suo prestigio iniziale non può farsi risalire al suo presentarsi in collegamento con l’istruzione superiore. In realtà fu essenziale il lavoro di ricostruzione filologica e sistematica compiuto su un testo. Gli appellativi di glossatori e commentatori con cui si designano le prime due grandi scuole giuridiche medievali, implicano entrambi un rinvio ad un testo da glossare e commentare, tendono dunque ad indentificare l’attività del giurista come un’attività rivolta alla spiegazione di un testo. Il giurista in effetti rinasce in europa continentale come interprete dotto. Interprete perché il suo jus dicere non è un trovare le regole secondo saggezza ed esperienza ma partendo da un testo cui viene attribuita una actoritas sua propria; dotto perché la tecnica dell’interpretatio è scandita dagli strumenti intellettuali prevalentemente di origine logica mutuati dalla cultura filosofica medievale, la quale si era lungamente allenata (sin dai tempi della patristica) all’analisi del testo per antonomasia (cioè le sacre scritture). Il problema era che, mentre le sacre scritture contengono il verbo di dio e quindi la loro autorità era assolutamente indiscutbile, il testo del corpus juris giustinianeo doveva essere accreditato come fonte autoritativa e legittima. Non è da credersi che il diritto romano fosse legittimato dal suo porsi come diritto imperiale e quindi come naturale candidato al ruolo di diritto positivo nel contesto di un rinnovato impero romano germanico. Simile modo di intendere le cose è una superfetazione dei moderni nelle cui pieghe mentali è tanto radicato il mito per cui il diritto proviene dallo stato da metterlo precocemente all’opera, anche rispetto ad epoche in cui l’equazione diritto=stato era sicuramente estranea alla mentalità corrente. Ma vi è di più: mancava persino lo stato (in senso moderno) perché, come si è ricordato, la scientia juris nacque e prosperò in un epoca di declino e di dissoluzione del potere imperiale. In effetti l’imperatore medievale non ha assolutamente alcun merito nella ‘rinascita’ del perfezionatissimo diritto (di cui viene ad essere , quasi a sua insaputa, erede e fonte). Questo diritto glielo regalano i giuristi di bolgona. In un certo senso i giuristi bolognesi riscoprendo l’utilità del corpus juris interpretarono in modo geniale il desiderio medievale di una renovatio (ossia il desiderio di ripartire dall’esperienza romana verso nuovi orizzonti). L’intreccio sagace fu costituito dalla trasformazione di un testo originariamente solo venerabile , in una fonte di diritto legittimamente posto. In linea con l’idea generale di renovatio, questa trasfromazione richiedeva che il diritto romano fosse anzitutto fruibile e promettente. La prima operazione cui provvidero i giuristi medievali fu attuata mediante quella interpretatio assai libera, la quale consentì di attualizzare i precetti contenuti nel testo giustinianeo, ma è subito da aggiungere come essi , mentre traevano prestigio dal fatto di riferirsi al corpus juris, dall’altro rinvestirono tale prestigio accreditando il testo di qualità che non aveva. L’esito ultimo di questa seconda operazione si coglie bene nel fatto che infine i giuristi medievali ardirono attribuire all’ispirazione divina il diritto contenuto nei testi giustinianei , e già dante accolse appieno questa leggenda. Naturalmente non rileva che questo cammuffamento di un diritto perfettamente laico fosse certaemnte falso, rilevò invece il dato per cui l’attrubuzione del testo ad una ispirazione divina abilitava i suoi interpreti a ricoprire un ruolo quasi sacerdotale, accentuando l’imitazione del paradigma offerto dalle strutture del religioso. 4.L’INTERPRETATIO COME MOMENTO DI SUTURA TRA AUTORITA’ E RAGIONE E TRA LOGICA ED ADESIONE Gli interpreti medievali erano però ben consci che l’origine divina del corpus juris fosse sostanzialmente una finzione, perciò non divennero adoratori della parola , ossia meri esegeti. La base prima della loro legittimazione era sapienziale e non positiva: la loro ammirata venerazione verso il corpus juris era rivolta non alle singole frasi , ma all’insieme. Questo aspetto merita una sottolineatura. Il corpus juris racchiude tutto il diritto romano, ossia un diritto ricco ed articolato quantitativamente in grado di soddisfare i bisogni di una società anche molto più sviluppata e complessa di quella medievale. In linea generale anzi è indubbio che , se si prescinde dalla adeguatezza o dalla giustizia delle diverse soluzioni giuridiche, il testo del corpus juris racchiude tutto il diritto civile di cui una qualsiasi collettività possa avere bisogno. È , in altri termini un ordinamento tendenzialmente completo. Il common law originariamente era programmaticamente incompleto perché costituito da rimedi eccezionali. Esso quindi fu ben percettibilmente completato nel corso della sua storia. Il diritto colto dell’europa continentale nacque invece come un sistema già esaustivo. Nel corso della evoluzione, molte sue parti dovettero essere rifatte più volte , si che alla fine ben poco è rimasto della fisionomia primitiva, ma ciò non toglie che la sua presenza (cioè la presenza di un edificio già costruito e completo) fu un dato costante dell’esperienza di civil law. L’aver ereditato in blocco il prodotto finale dello scibile giuridico Romano esentò i giuristi dotti dell’europa dal dovere di pensare direttamente alla miglior soluzione possibile per colmare le evidenti e ben note lacune dell’ordinamento. Il teleologismo così robustamente presente nel modo di ragionare dei common lawyers, appare in tracce ridotte e sempre inconfessate nel ragionamento giuridico di civil law, in cui domina invece il criterio dell’autorità di un testo antecedente alla interpretazione. Da ciò uno dei vincoli maggiori tra quelli che hanno storicamente condizionato l’esperienza di civil law. Come l’interprete è sempre immerso nel c.d. circolo eremeutico in cui ogni parte deve essere intesa in relazione al tutto ed il tutto deve essere inteso in relazione alle sue parti, così il giurista ponendosi come interprete di un sistema il quale si presenta come completo , deve anzitutto organizzare la sua visione in forma sistematica , e verso la sistematica i giuristi medievali furono condotti. Commentando ed analizzando le varie parti del testo (con particolare predilezione per il Digesto) si mise in luce che esso si poteva comporre in un sistema, cioè in un modello di ordine. Quest’ordine racchiudeva un insieme di regole altamente articolate che potevano quindi appagare il bisogno di complessità allora avvertito. D’altra parte il modello di ordine ricavato dal corpus juris non era nemmeno la riproduzione del sistema del diritto romano , ma un meta-modello che per quanto impregnato di logica medievale, si collocava in una dimensione posta fuori dalla storia, ossia in una dimensione tipicamente universale. L’ordine che si proponeva come modello di convivenza civile era sottratto ai condizionamenti delle opportunità locali per potersi proporre come sistema valido per ogni luogo. In ciò si colgono le connessioni tra ordine giuridico ed ordine di giustizia, poiché quest’ultima , non più percepibile solo nella natura delle cose, poteva pretendere di rimanre tale solo interpretando una universalmente costante corrispondenza tra il momento etico e quello pratico. Sino a qui la ragione ordinatrice che dava albergo a bisogni concreti. Questi ultimi pealtro rimanevano quelli che erano e tutt’al più con il loro esserci sollecitavano il giurista a farsene carico, inserendoli sì nella trama concettuale che rendono leggibile il mondo normativo prometteva di dare ad essi non solo una risposta regolare e costante, ma anche una risposta giusta nel senso di rispondente (sul piano normativo) a principi etici comunemente ocndivisi. La propensione della scientia juris ad incarnarsi in momenti pratici (di cui si è già accennato) significa essenzialmente la sua propensione a farsi carico dei problemi concreti. L’interpretazione del testo giustinianeo non poteva quindi essere letterale. È comune l’affermazione che i giuristi medievali non furono sicuramente romanisti nel senso moderno. Infatti non cercarono di individuare le vere regole di dirittoromano (classico o giustinianeo) ma , tutt’al contrario, si accaparrarono grande libertà verso il testo , ed atttribuirono alle loro interpretazioni (una volta che si fossero convenientemente solidificate) una autorità non inferiore a quella del testo originario. Da ciò il riproporsi del problema della legittimazione non più rispetto al jus dicere, ma rispetto ad un jus dictum apertamente svincolato dal testo. La matrice della soluzione escogitata a questo riguardo ricalcò quella precedente, ma con qualche valenza diversificata che è opportuno evidenziare. Lo strumento ermeneutico con cui la trama ordinante del diritto giustinianeo veniva ricostruito (le glosse, le summae, le difinitiones, le distincines, le questiones …tutto l’apparto insomma che veniva posto in campo per ricondurre quel testo venerabile ,ma obsoleto, ad un momento problematico fortemente giurisprudenziale )era tratto di peso dalla cultura medievale e si accreditava come opera di scoperta scientifica. L’uomo medieavle concepiva volentieri sé stesso come viator verso una dimensione eterna in cui è effettivamente presente Dio e la verità finale, ed era quindi disposto ad accettare la scienza come tramite per il raggiungimento della verità. La scienza del diritto in tanto potette conquistare stabilmente un ruolo di formante nell’ordinamento, in quanto radicò se stessa in una sfera sapienziale di alta cultura. Da ciò la radicale ambivalenza della scientia juris , che si presenta inizialmente come una strada atta al raggiungimento della verità, ma che nel percorrere detta strada non può evitare di persguire la soluzione di problemi della vita secondo una valutazione di carattere etico. 5.I LASCITI PERENNI: IL DIRITTO COME APPPLICAZIONE DI NORME È opportuno ricordare subito come dalle modalità con cui la scientia juris è pervenuta a legittimare se stessa (in quanto formante stabile della tradizione di civil law ) siano derivati a questa tradizione alcuni lasciti perenni. Le distinzioni tra struttura formale e contenuto sostanziale della decisione giuridica nonché quella tra metodologia proclamata e tecnica ricostruttiva applicata, sono esempi rilevanti di tali lasciti. A questi , su un piano piu generale, si può agguingere il particolare atteggiarsi della distinzione tra diritto e politica. Iniziamo dalla distinzione tra struttura formale e contenuto sostanziale della decisione giuridica. È stato acutamente osservato a proposito dei mutamenti irreversibili connessi alla ricezione del diritto romano in germania , che il piu antico diritto tedesco (e, si può aggiungere, la tradizione di common law) concepiva il giudicare ed il sentenziare come un “rendere diritto ciò che dirito non era, e nel contempo come un piegare al diritto” e perciò come un atto che di per sé creava ordinamento. Al contrario, nel cotesto del sistema di pensiero creato dalla scientia juris , il giudice opera secondo una tecnica radicalmente diversa. L’estrapolazione logica dei fatti giuridicamente rilevanti dall’ammasso della materia del contendere e la separazione tra fatto e diritto, rendono la sentenza del giudice una operazione di sussunzione, il completamneto cioè di quel guidizio logico già contenuto ipoteticamente nella norma generale o nel sistema dei principi giuridici. Questa operazione riproduce nel contesto della giurisdizione il metodo della scienza, perché il ridurre a problemi giuridici le realtà di fatto sussumendole sotto le norme con senteze aventi una struttura ipotetica, appartiene per sua natura al procedimento proprio della conoscenza teorica e non già al comportamento tipico del giudice. In simile procedimento si manifesta nel modo più appariscente che la decisione giuridica è applicazione del diritto e non la sua creazione o la sua invenzione. La sua perenne presenza nel contesto della tradizione di civil law si spiega con il fatto che grazie ad essa si rende possibile la pronuncia di sentenze razionalmente motivate e per ciò stesso razionalmente controllabili. Con l’ulteriore conseguenza di sottrarre tendenzialmente la valutazione giuridica dall’arbitrio del giudicante e dal gioco degli interessi privati e spingendola invece a trattare in modo eguale situazioni formalmente identiche. Naturalmente è possibile promuovere il valore della legalità mediante il ricorso ad altre tecniche, ma quella che ha improntato di sé i canoni di pensiero e di ragionamento del diritto europeo, è quella che si è appena descritta e che rende evidente nella sua struttura logica la matrice sapienziale. 6.LA GIURISPRUDENZA COME SCIENZA TEORETICA Da quanto si è osservato nel paragrafo precedente non consegue però che il sillogismo esaurisca tutte le tecniche del ragionamento giuridico ivi comprese quelle attinenti alle distinzioni, alla sequenziazione degli argomenti ed all’apprezzamento della loro rilevanza. Il cotenuto sostanziale del ragionamento giuridico ha anche funzioni costruttive e non è strettamente vincolato alla forma che deve assumere al momento finale in cui la valutazione giuridica si presenta come applicazione del diritto. Ciò essenzialmente perchè in tale contenuto debbono trovare posto considerazioni genericamente riconducibili all’idea di giustizia, le quali solo apparentemente vengono espunte dal modello della sussunzione. La continua dicotomia tra momento scientifico (ossia che attiene alla conoscenza teoretica) e momento pratico (ossia che attiene ad una valutazione socialmente ed eticamente adeguata della questione) cosìc ome le continue oscillazione tra l’uno e l’altro polo di attrazione dell’attività del giurista, si trovano insite nella impostazione originaria che fu data alla tradizione di civil law. Per quanto riguarda invece la distinzione tra metodologia proclamata e tecnica ricostruttiva applicata, si deve partire dalla acuta asserzione secondo la quale nessuna disciplina come la scientia juris europea abbia così affannosamente interrogato sé stessa ed i propri metodi sulla propria scientificità, sì che l’interrogarsi attorno alla scieza ed al proprio essere scienza è divenuto un tema dominante nelle riflessioni epistemologiche della giurisprudenza europea. Si deve però aggiungere che nessuna delle numerose rivoluzioni metodologiche che hanno portato a tali interrogativi, è nata sulla spinta di bisogni interni alla tecnica giuridica. Si è trattato piuttosto della necessità di non perdere i contatti con l’evoluzione della cultura in generale e quindi di importare all’interno delle tecniche giuridiche le rivoluzioni espistemologiche attuate in altri settori del sapere, onde far sì che la giurisprudenza potesse sempre presentarsi in possesso di un bagaglio sapienziale aggiornato. Come si è osservato la letteratura giuridia inglese apppare immune da problemi di metodo ed anche i mutamenti di paradigma avvengono in forme velate, perché non si è avvertito il bisogno di mantere aperte le comunicazioni che le altre scienze e le altre manifestazioni dell’alta cultura, ma quelo opposto di mantenere i legami con una consuetiudine ed una tradizione esclusivamente giuridica. In europa continentale il bisogno di legittimarsi come scienza teoretica volta alla conoscenza del diritto è ciò che spiega la costante imitazione della giurisprudenza europea dei modelli epistemologici già accreditati altrove. Nella loro attività di interpretatio del testo giustinianeo, i glossatori imitarono le tecniche filologiche colladutate nell’esegesi biblica, e fecero sfoggio di logica dialettica, sulle orme dei filosofi da Abelardo a San Tommaso. I giuristi culti del 500 muteranno queste tecniche alla luce di quelle (filologicamente più corrette) adottate in campo letterario dagli umanisti. La diffusione del pensiero razionalistico in filosofia si traddurrà in un nuovo modo di intendere la costruzione del giuridico cui si dedicarono gli esponenti della scuola del diritto naturale i quali lavorano tanto gomito a gomito con i filosofi del loro tempo da confondersi spesso con essi. La demolizione kantiana dei postulati del giursnaturalismo ebbe immediato riscontro nella rivoluzione metodologia di cui si fece banditore Savigny, la cui scuola storica mantenne lo studio della giurisprudenza dentro le linee di riferimento fornite dalla grande filosofia tedesca del suo tempo. Ma è ancor oggi quasi stupefacente osservare il modo pressochè naturale con cui la dottrina tedesca dell’800 scivolò dal vigoroso positivismo scientifico della prima metà (tutto nutrito di organicismo idealistico) al positivismo legislativo della seconda metà (che, quanto a metodi di costruzione giuridica, era il suo esatto opposto, ma presentava l’inestimabile vantaggio di imitare nel timbro e nel registro di analisi i metodi delle scienze naturali che allora stavano al vertice del prestigio culturale). In breve, la scienza del diritto europea si è quasi sempre dotata di un paradigma scientifico esterno ad essa, e su tale registro ha adeguato i propri metodi e stili di indagine. Del resto, le rotture che talvolta si sono consumate tra la metodologia giuridica e quella delle scienze conoscitive ,vengono catalogate quali periodi di regresso e di appannamento della giurisprudenza europea, contrassegnati talvolta da esiti catastrofici, come quello che nella seconda metà del 700 travolse il jus commune. 7.L’APPORTO DELLA CHIESA E DEL DIRITTO CANONICO L’XI secolo è anche il secolo della riforma (c.d. “gregoriana”) della chiesa cattolica. Questa coincidenza ha suggerito di attribuire la rinascita del sentimento di legalità (ed, in definitiva, il sorgere dell’intera tradizione giuridica occidentale) all’opera della chiesa. In realtà la sequenza delle vicende storiche non convalidano questo suggerimento, anzi, lo smentiscono. Tuttavia è vero che la chiesa cattolica (specie dopo la riforma gregoriana) fornì all’europa il modello di una organizzazione complessa che si regge in base al diritto. La rete e i poeri delle gerarchie ecclesiastiche, le attribuzioni del papato, lo stato giuridico del clero, l’apparto liturgico e amministrativo, la materia di competenza del foro ecclesiastico, il processo ed il magistero punitivo in una parola tutto il complesso edificio ecclesiastico doveva essere regolato da norme e non dalla volontà degli uomini che impersonavano momentaneamente i vari organi della chiesa. In questo senso dunque l’esempio della chiesa fu un catalizzzatore di primaria importanza delle spinte endogene che si stavano sviluppando nella società medievale verso assetti istituzionali rettti dalla rule of law. È anche vero che la chiesa in quanto era l’unica istituzione del mondo antico che fosse sopravvissuta, aveva conservato il più ampio bagaglio culturale allora disponibile; tuttavia l’apparato normativo della chiesa era caduto in un notevole stato di disordine e la sua riorganizzazione in forma sistematica fu attuata dopo la c.d. rinascita del diritto romano e sulla scia dell’insegnamento bolognese, non prima di esso. La compilazione in forma organica del materiale normativo della chiesa fu opera di Graziano (un monaco camaldolese che operò in ambiente bolognese immediatamente dopo Irnerio). La sua opera “concordantia discordatia canonum”(1140-1142) divenne la base del diritto canonico rimasto sostanzialmente in vigore sino all’emanazione del primo codex juris canonici nel 1917. Il fatto che quello di graziano non sia per nulla stato il primo tentativo di mettere ordine tra i canoni indica bene il debito che il diritto canonico contrasse con la scientia juris appena radicatasi in ambiente bolognese. Ma accanto a questo debito originario si pone il lungo apporto che il diritto canonico seppe dare nel corso dei secoli successivi alla formazione di jus commune. In primo lugo è da ricordare come il carattere universale dell’organizzazione ecclesiale garantì al diritto canonico (in quanto diritto ufficiale della chiesa di roma) una rapida diffusione; molto più rapida di quella del jus civile. Sicchè in molte parti d’europa il diritto canonico spianò la via alla ricezione el jus civile e non viceversa. Anche in inghilterra del resto il diritto canonico ebbe una influenza che il diritto romano comune non ebbe. In secondo luogo (e principalmente) è da sotttolineare come sul piano del contenuto sostanziale il diritto della chiesa, sebbene remotamente incoluato dal diritto romano del tardo impero, si sia organizzato attorno ad alcune idee-forza consoni ai precetti etici della teologia morale. Ciò comportava uno spostamento del punto focale verso gli aspetti spirituali della codnotta umana, e quindi verso le sue radici psicologiche. Da ciò discese un diverso modo di apprezzare il giudiridicamente rilevante, sintentizzabile nello spostamento epocale dagli aspetti esterni e sensibili di ogni sinogla fattispecie ai soli lati soggettivi, con conseguente valorizzazione di elementi quali : la volontà psicologica, la buona fede, l’errore innocente, la colpa ecc… Sempre sul piano dei contenuti, la ricercata consonanza con i precetti etici della teologia morale si tradusse in una serie di regole e principi di universale applicazione , poiché si riteneva che contraddirli significasse rinnegare la morale cristiana. Il divieto di mutuo feneratizio, e la secolare lotta contro le usure che ne seguita , rappresenta un ben noto esempio di questa influenza universale. Egualmente la dottrina canonistica per cui il nudo patto (in quanto impegno sincero) è sufficiente a generare obbligazioni , scavò tracce profonde nella dottrina civilistica del contratto. L’apporto maggiore del diritto canonico si ebbe però nella struttura del processo. In questo settore i professori del diritto comune entravano di mala voglia (probabilmente ben consapevoli del fatto che intromettersi in materia di giurisdizione avrebbe significato scontrarsi con i detentori del potere politico mettendone in luce la loro scarsa legittimazione). La chiesa invece non aveva le stesse remore, anzi. Perciò la lunga battaglia per la legalità del processo fu combattuta dalla chiesa in prima persona. La lotta contro le ordalie è un esempio che parla da solo. Tuttavia l’eliminazione dei residui della mentalità magica fu solo la punta di un iceberg. Il processo in generale è uno scontro di forze in cui non è attendersi che nessuna delle du eparti risparmi energie ed astuzie per prevalere. Calato nel clima di un qualsiasi processo, lo schema logico messo a punto dalla scientia juris (il quale tendeva a rendere la decisione della lite un momento della applicazione del diritto ricostruito secondo un procedimento logico-intellettivo) sarebbe risultato un velo fin troppo fragile. Per garantire in concreto una decente legalità anche la ove non si possa fare assegnamento sull’opera del giudice, occorre regolare il processo in sé. A ciò provvide il diritto canonico adottando uno schema rigido di procedimento costruito su un rigoroso meccanismo logico e basato sugli atti scritti in modo da rendere possibile un controllo successivo, in sede di appello da parte di persone lontanissime dai luoghi del litigio. Il procedimento era quindi disciplinato in forme prefissate secondo una meccanica rigorosa, in cui si stabilivano “termini” per il passaggio da una fase a quella sucessiva, si prevedeva ogni possibile questione “pregiudiziale”, “preliminare” , “processuale” di civil law: appello, litispendenza, competenza, atto notorio, revocazione della sentenza, trova la sua radice in questo tipo di processo il quale è molto diverso da quello romano classico, ed anche da quello del common law. Quest’ultimo infatti è essenzialmente un processo costruito sull’assunto che bisogna nutrire fiducia nella ragionevaolezza e imparzialità dei giudici. Il processo romano-canonico venne edificato prescidnendo da simille postulato. Sempre al fine di prevenire gli arbitri dei giudicanti infatti, tutta la procedura doveva sostanziarsi in atti scritti ed il giudizio verteva su quanto risultava dagli atti del processo, con eslcusione di qualsiasi altra fonte. Questo tipo di processo in cui si trovano fuse la passione logico razionale della scientia juris medievale ed il lucido pessimismo della chiesa circa il dispiegarsi delle inclinazioni umane quando non siano tenute a freno dalle regole, divenne il processo romano-canonico , che nelle sue linee fondamentali divenne il tipo di processo comune in europa continentale, a sua volta veicolo e tramite della diffusione del jus commune con il quale si sposava perfettamente. 8.CARATTERE UNITARIO DEL JUS COMMUNE E DELLA SCIENTIA JURIS EUROPEA NEI SECOLI XIV-XVIII Il periodo del jus commmune è oggi ricordato soprattutto da coloro che auspicano una certa uniformazione dei diritti vigenti in europa o almeno all’interno dell’UE. Tuttavia, al riguardo , bisogna ricordare in che senso ed in che modo il jus commune fu unitario o, meglio, in che modo contruibuì ad una sintesi unitaria del materiale giuridico che si era formato nelle varie zone di europa. In effetti, nonostante le diversità di metodo e di stile espositivo che colorivano della propria tonalità le diverse aree culturali, il diritto romano comune così come veniva insegnato e trasformato nella università e nei tribunali rimase una tradizione culturale transnazionale e sostanzialmente unitaria. Accanto a questa tradizione culturale continuarono ad esistere isole (anche assai estese) di diritto puramente locale disuniforme (come ad esempio accadde nel caso dei diritti territoriali tedeschi; nelle coutumes francesi; nei diritti consuetudinari dei cantoni svizzeri) ma queste isole di diritto positivo locale erano tali non tanto perché venivano considerate come diritti eccezionali ma perché al loro interno le grandi categorie ordinanti il diritto comune operarono una metamorfosi delle idee originarie mediante una rete di concetti classificatori in cui le visioni popolari e consuetudinarie smarrirono la propria compattezza di significato. Uno dei veicoli di questo lavorio di trasformazione derivò dal ricorso nei testi e documenti scritti della lingua latina, nella quale le terminologie giuridiche locali (di origine germanistica) venivano tradotte. Questo trasferimento di senso mediante il linguaggio ha generato una serie imponente di fraintendimenti, ma tali fraintendimenti in realtà sono il frutto di una ibridazione (ossia dell’insinuarsi grazie alle parole latine delle categorie romanistiche corrispondenti nel tessuto di regole ed istituti che ad esse erano estranei). La traduzione dei termini “gewere” e “saisine” con la parola “possessio” è un buon esempio di questo processo di metamorfosi indiretta dei diritti locali, perché attorno alla gewere si articolavano una serie di concezioni coerenti in tema di situazioni di appartenenza che la categoria romanistica di possessio frantumava irrimediabilmente. Il fatto è che solo il diritto romano sembrava degno di uno sforzo di chiarificazione e di sistemazione scientifica che produceva una accumulazione concettuale ed un aggiornamento delle soluzioni. Gli altri diritti positivi erano tutt’al più oggetto di esposizioni, raccolte, senza che si potesse formare una letteratura giuridica dotata della sufficiente massa critica. Sicchè non appena si voleva organizzare una sintesi unitaria che potesse abbracciare tutto il materiale giuridico, la tassonomia predisposta dalla scientia juris non aveva rivali. La scansione tra il settore del diritto della famiglia e delle persone da un lato ed il settore dei diritti patrimoniali dall’altro, l’individuazione di un diritto delle successioni come settore a sé stante, la separazione tra diritti reali e diritto delle obbligazioni e dei contratti, furono tutte tassonomie tecniche mediante le quali la scientia juris organizzava se stessa, cos’ che esse divennero categorie universali all’interno dello spazio culturale europeo continentale quando la scientia juris portò la propria attenzione su tutti i fenomeni giuridici indipendentemente dalla loro origine e fonte immediata. 9.IL GIUSNATURALISMO Nei secoli XVII e XVIII, accanto alle forme tecniche del pensiero accumulato dalla scientia juris , si collocò un’altra corrente culturale che riuscì ad abbracciare tutta l’europa esercitando una profonda influenza anche in Inghilterra e successivamente negli stati uniti. Nel periodo indicato infatti, la seconda scolastica prima e la scuola del diritto naturale poi, fornirono un movimento che si interessò essenzialmente del fondamento etico delle regole giuridiche. Storicamente i fattori di questi movimenti e del loro succeso furono assai vari. Giova richiamare l’attenzione su due di essi. Il primo dato che merita una sottolineatura è che l’autorità del corpus juris (il quale era stato assunto come piattaforma di legittimazione dell’attività del giurista) fosse destinata a scemare con il trascorrere del tempo. Proprio l’accumularsi dei prodotti di una interpretazione del testo giustinianeo così libera come quella dei giuristi medievali e moderni non poteva del resto non contribuire a corrodere l’autorevolezza del testo originario. A questo inevitabile fenomeno di corrosione, in parte surogato dall’aureola sapienziale che circondava i procedimenti ermeneutici dei giuristi, si aggiungeva preponderante l’influenza di altre traiettorie culturali. Il rinascimento aveva consentito di mettere meglio a fuoco le basi teoriche dello stato moderno e , sebbene sul piano operazionale queste basi teoriche fossero assai lontane dal trovare salda realizzazione in strutture politiche vigenti, tuttavia era facile intuire come tra i corollari delle teorie politiche di macchiavalli, jean bodin e di hobbes vi fosse quello per cui l’autorità di fondare i diritti ed i doveri dei cittadini non potessere essere riconosciuta ad un antico imperatore romano d’oriente vissuto in tempi ormai remoti ma solo alla volontà di sovrani attuali, ossia ad entità politiche che fossero nella pienezza dell’esericizio dei loro poteri. Per sfuggire agli inevitabili corollari di questa concezione era necessario rifondare la categoria universale della giustizia sulla base di un’etica comune anziché sulla base di una autorità comunemente riconosciuta. La teoria diffusa in francia per cui il diritto romano vi veniva ammesso “imperio rationis” e non “ratione imperii” (ossia per la sua razionalità intrinseca e non in quanto espressione dell’autorità riconoscibile al diritto dell’impero romano) conteneva già il suggerimento essenziale. Sennonchè in questo contesto è evidente come la razionalità delle soluzioni romanistiche richiedesse di essere giustificata. Il merito di aver dimostrato come ciò fosse possibile va riconosciuto alla seconda scolastica che fiorì in spagna nel XVI secolo, annoverando una serie di teologi-giuristi tra i più acuti (quali francisco vitoria, domingo de soto, francisco suarez). La ricerca da essi condotta finalizzata a fissare le linee architettoniche di una società rigorosamente cristiana portò a riogranizzare il materiale romanistico in funzione delle categorie aristoteliche della giustizia. Il repertorio fornito dagli autori della seconda scolastica, ineguagliabile per analiticità e sottigliezza, fornì la base per ulteriori sviluppi. Questi si ebbero con la c.d. scuola del dirito naturale (che gli angolassasoni denominarono come “secular” (ossia laica) per distinguerla da altre scuole di pensiero precedenti) e che in altri contesti culturali si è usi denominare “Giusrazionalisimo”. Al di là delle denominazioni, è da puntualizzare subito come al successo di questo indirizzo abbia dato un impulso importante un altro fattore storico. Il secondo dato su cui giova richiamare l’attenzione è fornito dalle vicende storiche dell’euorpa continentale. Il XVII secolo fu in europa un secolo di lotte di religione. Queste insanguinarono la parte centrale e quella occidentale del continente per tutta la prima metà del XVII secolo. In simile contesto , se si voleva mantenere aperto il dialogo con entrambe le fazioni in lotta (cattolici e protestanti) non era più possibile appellarsi ad una etica cristiana comune per fondare le ragioni del diritto, dato che, almeno apparentemente, era proprio la scissione circa il modo di intendere la morale cristiana la causa di questi conflitti. In un periodo ferrigno dominato da guerre pestilenze e superstizioni, se si voleva preservare uno spazio per i diritti e le regole occorreva fondarne la ragione su una morale non legata alla teoologia. Questa fondazione fu il grande merito di Ugo Grozio, il quale scelse di ancorare le regole di diritto al riconoscimento della razionalità intrinseca degli essere umani, ed in tal modo operò una saldatura tra la visione umanistica che aveva posto l’uomo al centro della vita sociale, ed il razionalismo gnoseologico comune all’atteggiamento scientifico di galileo ed all’intelletto sistematizzatore di cartesio. Perciò elaborando il suo sistema di regole valide tra gli uomini e le nazioni sia in tempo di guerra che in tempo di pace, Grozio potè scrivere che quando da lui dimostrato sarebbe rimasto valido anche se si fosse asserita l’inesistenza di dio. L’affermazione di Grozio era abilmente incastonata in una ampia frase in modo da non poter essere citata isolatamente, ma il senso della locuzione per cui il diritto delle genti era validamente fondato: “etiamsi daremus…deum non esse” rimase assai chiaro così come servì chiarire che il sistema da lui elaborato era un diritto di ragione laicamente autosufficiente. Benchè quindi sia ben noto il debito del giusnaturalismo razionale verso il diritto naturale antico che risale ai filosofi greci ed essenzialmente ad Aristotele nonché il debito rispetto al diritto naturale cristiano (sia nella versione tomistica , rinverdita di fresco dalla seconda scolastica, sia nella versione rimodellata da calvino) tuttavia la peculiarità del movimento risiede appunto nella sua emancipazione dalla teologia morale e da suo porsi come edificatore di un’etica sociale autonoma dalla visione religiosa, fondata invece su una analisi sostanzialmente antropologica della condizione dell’uomo occidentale. L’opera maggiore di Grozio (de jure belli ac pacis, 1625) fu dedicata ad esplorare un tema sino ad allora piuttosto trascurato , ossia le regole che dovevano applicarsi nei conflitti di interessi tra nazioni, sicchè Grozio è divenuto il padre riconosciuto del diritto internazionale moderno. La sua impostazione si prestava tuttavia ad essere utilizzata anche per chiarire come avrebbe dovuto essere un sistema giuridico rispettoso dei postulati della giustizia naturale. Per forza di cose l’interesse precipuo degli autori della scuola del diritto naturale rimase confinato ai fondamenti primi del loro discorso, ossia ai postulati principali. Secondo grozio il punto di partenza essenziale deve essere rintracciato nel dato per cui l’uomo è naturalmente portato ad organizzare i propri rapporti sociali. È questa la molla che lo spinge ad uscire dallo stato di natura per entrare in rapporti civili. L’appetitus societatis distingue l’uomo dalle altre creature ed è quindi ciò che caratterizza la sua natura. Il problema di fondo verso il quale le energie intellettuali della scuola vennero indirizzate, rimase il rapporto tra diritto naturale e diritto positivo vigente. Ciò che mirava a scoprire l’analisi dei giusrazionalisti erano le ragioni fondamentali dell’esistenza delle regole e degli istituti giuridici vigenti. In estrema sintesi, si dirà quindi come la scuola del diritto naturale, avendo ripreso a ragionare laicamente sui fondamenti delle istituzioni sociali, riaprì il discorso che si era chiuso nela prospettiva di una etica fondata su una religione rivelata, e con ciò reintrodusse tra i temi ed i problemi del dibattito politico e filosofico e le eterne domande attorno al che cos’è una società giusta ed al tipo di sistema giuridico che deve vigervi. Con ciò il diritto tornò ad essere pensato nel contesto della filosofia morale. In questo senso il giusrazionalismo contribuì a riorientare la coscienza europea. Se la diffusione di una coscienza della legalità attraverso la secolare tradizione giuridica aveva insegnato ad individuare in modo preciso il problema propriamente giuridico prospettato da ogni fattispcie, la scuola del diritto naturale diffuse l’idea dell’esistenza di un discorso razionalmente riconoscibile e razionalmente valutabile in ogni condotta socialmente rilevante. Sicchè implicitamente la ricerca andava acumulando strumenti logici mediante i quali regole ed istituti di diritto positivo potevano essere razionalmente criticati e squalificati avanti il tribunale della ragione. Grozio fu incline ad intessere i suoi argomenti appoggiandosi alle idee teologiche ed umanistiche generalmente accettate al suo tempo; le generazioni successive invece furono invece attratte dal metodo geometrico inaugurato da Hobbes e quindi assai più inclini all’uso dell’argomento esclusivamente logico-deduttivo. Inevitabilmente i sistemi del diritto razionale elaborati dai giusrazionalisti sconvolsero l’architettura del sistema di riferimento sino ad allora usato dai giuristi tecnici in quanto i punti di partenza erano quanto mai difformi. Sino a grozio i giuristi si erano trovati a loro agio seguendo la sistematica delle istitutiones giustinianee che secoli di didattica universitaria avevano reso così familiare a generazioni di giuristi da farla sembrare del tutto naturale. Ma questa naturalità spuria, la quale altro non era che abitudine mentale, non poteva coincidere con il sistema del diritto naturale pensato in modo geometrico. Quest’ultimo, muoveva da alcuni postulati primi e da essi traeva le regole conseguenti mediante un processo di pura deduzione logica. Solo ad un livello di maggiore dettaglio i sistemi del diritto naturale reincontravano e reinserivano nel loro contesto le regole e le categorie di origine romanistica elaborate dalle diverse scuole. Il salto di qualità fu notevole. L’esposizione sistematica delle regole di diritto non era più solo un problema collegato alla leggibilità del sistema giuridico inteso come un insieme tendenzialmente coerente , ma era qualcosa di più, ossia la garanzia della legittimità razionale della regola stessa. La impostazione del sistema diviene così essenziale, come risulta essenziale che la sistematica cui si fa ricorso sia sempre coerente con i postulati iniziali. Così in Pufendorf, il postulato iniziale è dato dai diritti soggettivi che spettano ad ogni individuo, ma poiché ad ogni diritto soggettivo è correlato un dovere, è al concetto di dovere che occorre fare riferimento distinguendo i doveri individuali da quelli sociali. I doveri sociali si rivolgono alla famiglia ed alla civitas. I doveri all’interno della famgilai si articolano in doveri tra coniugi, tra genitori e figli, tra padroni e domestici; i doveri indviduali si rivolgono a Dio, verso se stessi e verso gli altri. I doveri verso gli altri si specificano nei rapporti obbligatori (categoria che in pufendorf diviene il pilastro di tutto il diritto privato patrimoniale). La sistematica giusrazionalistica ed il suo carattere innovativo rispetto a quella romanistica tradizionale, offrirono un modello di rilevanza capitale al successivo movimento per la codificazione del diritto. Senza l’esempio fornito nelle opere della scuola del diritto naturale, non sarebbe stato pensabile il progetto di condensare tutto il diritto civile in un unico corpo organico di leggi sistematicamente organizzato. Inoltre, affascinò assai le menti riformatrici il fatto che l’impianto sistematico dei giusrazinoalisti fosse percepibile come lo sviluppo logicamente coerente di principi assiolgici collocati sul terreno della filosofia morale e della teoria politica. Poiché simili principi erano perfettamente comprensibili anche a color che non fossero tecnici del diritto, si creò l’impressione che dominando tali principi fosse possibile svolgerli coerentemente sino a governare le più minute fattispcie del dirito civile, scavalcando di colpo tutta la casistica su cui insistevano tanto le prassi discorsive pratiche dei giuristi. Questa fu senza dubbio una illusione ma di tale illusione si è nutrita tutta la prima ondata di codificazione europee. Vero è peraltro che nel suo seno l’insegnamento dei giusnaturalisti non si presentava per nulla compatto. Così, ad esempio, è noto che la maggior parte degli autori della scuola ricorse all’idea isituzinale di contratto fondando sul contratto sociale l’ordinamento della società civile. Hobbes però considerò inattendibile postulare l’osservanza dei patti sul calcolo della ragione, e scelse perciò di attribuire l’osservanza delle leggi al potere esercitato dallo stato in cui gli uomini si sono spontaneamente rifugiati per sfuggire alla ferocia bellica dello stato di natura. Grozio e la maggior parte degli autori della scuola (compreso a questo riguardo anche Hobbes) ritenevano che il passaggio dallo stato di natura alla società civile fosse un progresso sospinto dalla naturale razionalità degli uomini. Ma Thomas More, nella sua celebre utopia, aveva già dipinto come ideale una società in cui fosse inesistente l’istituzione principale delle società civili (cioè la proprietà privata) e Rousseau, meditando sulle opere della scuola del diritto naturale, giunse alla conclusione che il progresso poteva scorgersi caso mai in un ritorno allo stato di natura , invertendo in tal modo la giustificazione del diritto di proprietà nella dimostrazione contraria. In realtà quasi tutti i postulati assunti in partenza dai giusrazionalisti si prestavano ad essere svolti in varie direzioni. Perciò il loro insegnamento conteneva in sé i semi di dispute che sono durate a lungo nel dibattito culturale e politico occidentale. Quanto qui interessa è però solo mettere in rilievo come, attraverso le inevitabili dispute suscitate da svolgimenti assai divergenti, venne reintrodotto sul terreno del diritto e della legalità il pensiero critico emarginato e quasi cancellato dallo svolgimento della tradizione tecnico-giuridica in forme sempre più autoritative. Al di là della frammentazione degli itinerari intellettuali , è però egualmente da sottolineare come, sotto il profilo istituzionale, il pensiero giusrazionalita constribuì potentemente ad elevare il sentimento del diritto soggettivo da componente dello spirito signorile a centro della costruzione dogmatica della scientia juris, nonché a centro della scala dei valori in cui si riconosce la civitlà giuridica europea. A tale riguardo il modello fornito dalla scuola del diritto naturale ebbe enorme rilevanza. La dimostrazione che era possibile svolgere in modo sistematico i valori fondamentali in regole di diritto, non servì solo a modello per le condificazioni illuministiche. In realtà la sistematica giurnaturalista influì in modo determinante sul modo di pensare il diritto in tutta la tradizione giuridica occidentale. Così ad esempio: dal postulato per cui nello stato di natura ogni singolo individuo è libero nel senso di essere padrone di se medesimo ed arbitro dei propri destini, si trase la conseguenza logica per cui al fine di mantenere tale stato di libertà naturale ciascuno può essere vincolato solo da un atto della sua vonotà (ossia è legittimo solo il vincolo che nasce da un contratto liberamente voluto, poiché in tal caso l’uomo ubbidisce solo a se stesso). Il movimento che summer maine ha denominato efficacemente come il movimento “from status to contract” trovò nelle teorizzazioni del giusrazionalismo la propria base ideologica. Ancora: dal medesimo postulato poteva trarsi la conseguenza che nel caso di atto illecito l’obbligazione risarcitoria poteva essere imputata al responsabile solo se il danno era causalmente collegato ad una sua personale condotta riprovevole. Per imputare a qualcuno l’obbligo di risarcire un danno occorreva dimostrare che costui fosse individualmente colpevole, escludendo qualsiasi forma di responsabilità di gruppo. D’altra parte dall’idea per cui il diritto di proprietà è legittimo perché fondato sul diritto naturale si poteva trarre la conclusione che nulla potesse essere legittimamente tolto al proprietario senza la sua volontà e quindi ogni deroga a questo principio richiedesse un risarcimento. In generale la configurazione di molti istituti cardinali del diritto civile (contratto, responsabilità, proprietà ecc…) venne profondamente alterata dagli insegnamenti giusnaturalistici. Non è corretto quindi rappresentare il fluire ininterrotto di una tradizione romanistica (la quale peraltro può attenere solo al momento tecnico della costruzione giuridica) senza tenere conto che dopo il giusnaturalismo tutti i principali istituti civilistici furono visti con altri occhi. 10.LA CRISI DEL DIRITTO COMUNE La grande scuola del diritto naturale ebbe qualche seguace tra i giuristi operativi. Di Blackstone e di come il modello dei giusnaturalisti fu da lui adattato ad una esposizione completa e tendenzialmente razionale del common law classico si è già detto. Si potrebbero citare Domat e Pothier in francia; Christian Wolff e thomasius in germania, ed uan fitta schiera di altri nomi illustri (tra cui quello di Leibniz) . Ma il fatto storico è che mentre in inghilterra gli avvocati apprezzarono l’opera di blackstone , in europa continetale i forensi si mantennero fedeli al principio di autorità propria della loro tradizione legale e sospettosamente discosti dal criticismo giusrazionalistico. Ciò fu una delle cause del fatto che il XVIII fu l’epoca della grande crisi del diritto comune. Tale crisi fu grande perché fu duplice: crisi di legittimità e crisi di funzionamento. I due aspetti sono strettamente collegati, ma ovviamente precede la ricognizione del funzionamento degli apparati di giustizia perché la crisi del loro funzionamento è la prima che gli spettatori percepiscono. Nel XVIII secolo gli apparati di giustizia erano le conseguenze delle riforme del XVI secolo quando i giuristi furono arruolati dai sovrani per riformare ed accentrare l’amministrazione degli stati in funzione antifeudale. Si istituirono allora quelle corti supreme o grandi tribunali aventi funzioni giurisdizionali ma anche amministrative ed in generale di controllo della legalità statuale. Con il trascorrere del tempo tuttavia quei giuristi (che in teoria erano funzionari regi) acquisirono una marcata indipendenza dal sovrano ed anzi finirono con il contrastarne continuamente l’azione. Questo itinerario è simile a quello che già si era sviluppato in inghilterra e l’esempio inglese dimostra come il distacco dei giudici dalla corona non toglie necessariamente la legittimità del loro operare, piuttosto richiede che quando i giudici del re divengono gli antagonisti politici del partito regio in nome del primato della legalità, scelgano bene quale legalità intendono difendere. In inghilterra i giudici di common law furono tra i protagonisti della lotta contro i tentativi assolutistici degli stuards, in nome di quei principi di libertà e di garanzia del due process of law che si facevano risalire alla magna carta. Perciò all’opera delle corti vennero associati i rimedi che garantivano (nella misura possibile) la tutela dei diritti individuali dei cittadini contro i tentativi assolutistici. Habeas corpus, certiorari, mandamus divennero nomenclature simboliche di uan ideologia politica volta verso le libertà. In europa continetale i guidici difesero una legalità che si incarnava solo nel rispetto della tradizione, la quale comprendeva anche i loro privilegi. Nel campo della giustizia penale poi il naufragio era assicurato dalla ritrosia sempre manifestata dalla scientia iuris europea continetale ad invadere un campo che veniva consdierato (e che per natura è) il più politico tra quelli (in senso lato) giuridici. Venivano qui al pettine i nodi accumulati da una tradizione che subendo il fardello iniziale un pesante handicap di legittimazione, non aveva osato contraddire i desideri del principe, qualunque esso fosse, e che pertanto se era entrata nel campo del diritto aveva lasciato a quest’ultimo il settore della repressione, accettando anzi di porsi in tale settore al completo servizio del potere politico. Di fronte ad un sistema di repressione penale che contraddiceva nel modo più atroce ai postulati diritti naturali dell’uomo, risultò esiziale per il prestigio dei forensi la rottura consumatasi tra la tradizione giuridico tecnica e la cultura-generale del loro tempo. Rifiutando di farsi condizionare da modelli giudicati troppo astratti e teorici, i giuristi-forensi si privarono delle armi della critica al diritto positivo approntate dai giurazionalisti. Pertanto la polemica contro l’uso della trotura negli interrogatori dei sospetti, contro i c.d. crimini di magie ed i processi alle c.d. streghe e le tante altre autentiche nefandezze della repressione penale fu monopolio dei giuristi dotti (ossia i giuristi della cattedra che echeggiavano la cultura del loro tempo e cominciarono a pensare anche al diritto criminale in termini di sistema basato su principi eticamente giustificabili). Questa miscela di fattori espose i forensi a critiche micidali. A parte ciò che attiene alla repressione penale, prese singolarmente, tutte le accuse rivolte alla giurisprudenza dell’ultima fase del diritto comune possono essere rifiutabili e soprattutto è agevole porre in evidenza come le soluzoni antagoniste erano infantili. Ma ciò non toglie che nell’insieme si trattò di critiche demolitorie. Poco importa che esse riguardassero aspetti ancillari del diritto comune (come le regole di procedura civile): il fatto storico essenziale è che la debolezza della posizione pubblica dei forensi indusse a prestar fede a tesi radicali. Si volle creder quindi che la lunghezza dei processi non fosse dovuta alla patronorum versutia della parte che sa di avere torto, rimediabile quindi con una di quelle ricorrenti riforme del processo civile che hanno per scopo di spazzar via gli appigli più frequentati dagli azzeccagarbugli. Ma si diede credito proprio a costoro e si prese ad accusare la eccessiva complicatezza della legge, la sua sua oscurità e le sue incertezze, sino a dar corpo all’immagine della selva aspra e forte irta di opinioni contradditorie degli interpreti in cui il povero avvocato si smarrisce facilmente. Contro la mitica selva delle fonti del diritto, si suscitò un’immagine antagonista (altamente gradita dai detentori del potere politico): quella del “cesareo gladio” che impugnato da un principe illuminato avrebbe disboscato la selva oscura. 11.L’IDEOLOGIA DELLA LEGISLAZIONE La critica storica moderna ha messo in rilievo come sotto il profilo sostanziale la giurisprudenza delle corti dell’antico regime fosse una giurisprudenza raffinata ed acccorta, che sapeva ben decidere secondo ragione. Inoltre si trattava di una giurisprudenza tutt’altro che locale. Nonostante il riferimento al criterio del precedente giudiziale per salvaguardare la certezza del diritto, i giudici dei grandi tribunali sapevano mantenere aperti i canali di comunicazione con le altre corti conservando quel sentimento di unità del diritto europeo fondato su una trdizione comune. Questi meriti tuttavia non furono sufficienti a salvare la continuità del sistema, rimanendo lo squilibrio fondamentale di una tradizione sapienziale che non si dimostrava più disposta ad apprendere, e ripeteva (pur perfezionandoli) nel 700 gli schemi di gestione e di azione che erano stati messi a punto nel 500. Avevano quindi non poche frecce nel loro arco i riformatori i quali al posto di corti dotate di vaste competenze amministrative, ma inette ad utilizzare le idee innovative dell’economia politica, volevano che il potere tornasse alla amministrazione governativa, la quale stava reclutando i propri funzionari tra le persone più aperte alle idee nuove anche al fine di superare gli ostacoli che le corti giudiziarie frapponevano alla introduzione di nuove imposte e nuove fonti di redito per il governo. L’incompatibilità si collocò sul piano delle ideologie professate dai forensi che li condusse a schierarsi dalla parte sbagliata della barricata e ad avversare ogni e qualsiasi riforma, ma soprattutto li rese diffidenti verso i profondi desideri che animavano il pensiero illuministico. Vi era allora negli spiriti innovatori quasi un presagio della rivoluzione industriale che stava per travolgere il vecchio ordine delle cose, e questo sentimento li spingeva ad apprezzare tutte le risorse della tecnica, tutti gli avanzamenti del sapere scientifico. L’enciclopèdie, che costituì la summa del pensiero illuministico, è in larga misura dedicata ai savoir faire di carattere tecnico scientifico. Indubbiamente gli illuministi considerarono ogni conquista della tecnica come la dimostrazione di ciò che la ragione umana poteva ottenere quando si applicava ai problemi con l’animo sgombro da pregiudizi ed erano così ardentemente convinti dei vantaggi che potevano ritrarsi da questo metodo che si proposero di apparecchiare l’organizzazione sociale prendendo a paradigma quelle tecniche della meccanica che era ai suoi promettenti esordi. In questo senso il pensiero illluministico anticipò lo shock tecnlogico dell’uomo del XIX secolo e predispose un ordinamento in cui gli sconvolgenti mutamenti della civitlà materiale prodotti dalla prima rivoluzione industriale, potessero accomodarsi quasi naturalmente senza richeidere affannosi aggiornamenti delle strutture della società civile. Non deve stupire quindi che , avendo dato una simile dimostrazione di preveggenza, l’impatto della ideologia illuministica sia perdurato a lungo condizionando (per quasi un secolo) la visione che si aveva delle strutture dell’ordinamento. Vi era anche però in quella visione dell’assetto ottimale del diritto e degli appareti di giustizia non poco che risentiva del paradigma delle tecniche meccaniche e che culminava nella immagine orrifica del giudice come automa inanimato capace solo di ripetere le parole della legge senza poterne temperare la forza ed il rigore. Essenzialmente si trattava di credere che un meccanismo razionalmente predisposto potesse dominare la vita sociale guidandola verso immancabili esiti felici allo stesso modo con cui un abile orologiaio generava movimenti calcolabili e ciò poneva nelle mani del fabbricante un dispotismo intero, senza bisogno di ascoltare le ragioni dei soggetti, senza necessità alcuna di rispettare le loro tradizioni e abitudini. Anzi, ciò era nocivo perché quelle tradizioni e abitudini erano evidentemente impregnate da quei pregiudizi oscurantistici che l’età dei lumi voleva bandire per sempre. Da ciò quindi l’immagine della tabula rasa, del terreno perfettamente disboscato su cui l’umanità giunta all’età della ragione doveva costurire il suo habitat sociale disconsocendo qualsiasi valore nel sapere sino ad allora accumulato al di fuori dei campi della tecnica, della scienza e della filosofia. “Voleve avere buone leggi?”, gridò Voltaire: “bruciate le vostre e fatene di nuove”. L’attuazione di un simile programma richeideva ovviamente l’intervento del potere politico (ossia il principe illuminato). Postosi su questa china, il disegno illuministico conduceva ad un drammatico rafforzamento dei poteri dei sovrani al quale veniva affidato un compito al cui svolgimento si era sino ad allora sentito impreparato e dal quale quindi era rifuggito: quello di dettare le leggi civili (ossia le regole che erano destinate a determinare l’assetto dei rapporti sociali basilari: famiglia, successioni, circolazione della ricchezza e dei beni, rapporti di collaborazione). 12.LE CODIFICAZIONI ILLUMINISTICHE Non tutti i sovrani accolsero l’invito a superare l’ambito delle leggi politiche, che comprendevano essenzialemnte le norme di polizia, il prelievo fiscale e le materie militari, per introdursi negli aspetti molecolari della vita sociale sino ad allora affidati alla triplice autonomia delle chiese, delle comunità locali, del diritto sapienziale. In area tedesca sovrani energici come federico II in prussia e maria teresa nei domini austriaci si misero assolutamente sulla via di complete riforme progettando codificazioni del diritto civile. In altri paesi, come la Francia, la maggior complessità dell’articolazione sociale distolse i sovrani da un simile compito. Cosicchè il diverso impatto operazionale dei programmi illuministici fece si che questo movimento intellettuale a livello europeo abbia frantumato il proprio programma al momento del contatto con le diverse realtà politiche nazionali. Ma non fu solo questo fattore a svelare la dialettica dell’illuminismo universale. Laddove ci si accinse effettivamente a realizzare il programma di fare leggi del tutto nuove che concernessero anche i rapporti molecolari tra individui, si notò che i programmi filosofici non erano sufficientemente dettagliati e si fu costretti ad attingere al patrimonio sapienziale giuridico del foro ed alle regole sociali, ed al riguardo ciascuno fece quello che poteva tenuto conto di tutti i condizionamenti contingenti che naturalmente incidono sul processo legislativo, pervenendo ad adottare soluzioni compromissorie le quali avevano l’unico scopo di superare gli ostacoli che si frappongono casualmente al varo della codificazione. Pur provenendo dalla medesima area culturale e linguistica, le prime codificazioni illuministiche offrirono l’esempio di codici diversissimi tra loro sia nella struttura che nello stile linguistico , che nelle soluzioni giuridiche capitali. Quando la francia dopo la rivoluzione giunse a redigere il proprio codice civile, la divaricazione tra i diversi modelli nazionali divenne a tutti evidente. Se quindi rimane vero che intanto si risucì a redigere i codici in quanto si attinse al bagaglio di sapienza giuridica che si era accumulato nei secoli precedenti, sicchè sotto il profilo del loro contenuto tecnico-giuridico essi risultarono il punto di incontro tra la volontà politica riformatrice e le nomenclature , le categorie ordinanti, i presupposti concettuali della scientia juris europea, senza la cui conoscenza essa sono del tutto infruibili nel senso di illeggibili; ciò non di meno essi agirono selettivamente e stabilirono un proprio lessico nazionale, ormai sottratto alla circolazione delle idee attraverso le frontiere politiche e così mentre livellarono le differenze all’interno di ciascun paese, cancellando tutti i localismi (anche generali) dall’altro lato i codici istituirono una novità assoluta per l’europa, ossia un linguaggio giuridico nazionale e non più cosmopolita. L’edificazione del nuovo ordine giuridico predicata dagli illuministi non fu il riflesso della ragione universale. Ciascuno edificò il proprio sistema adattandolo alle necessità specifiche del paese e questi sistema-paese divennero i diritti nazionali fortemente divaricati sia nelle strutture complessive, sia negli stili, sia nelle soluzioni specifiche. Il tentativo di sovrapporre la ragione alla tradizione ed il tramonto della giurisprudenza colloquiante del diritto comune frantumò i legami tra i diritti europei continetali che erano stati intessuti dalla cultura giuridica, sì che da qui in poi è opportuno osservare ciascun modello. CAPITOLO SETTIMO : IL MODELLO FRANCESE 1.IL MODELLO FRANCESE IN PROSPETTIVA STORICA Il modello francese ha trovato la sua compiuta espressione nel tempo della rivoluzione e dell’impero napoleonico. Per citare solo i principali elementi costitutivi di tale modello si indicheranno qui: il primato della legge come fonte del diritto; il ricorso al codice come forma principe di legislazione ed all’interno di tale forma, la preminenza del code civil in quanto espressione quintessenziale della forma “codice” e luogo in cui si esprime la costituizone materiale della nazione; l’organizzazione piramidale delle corti con al vertice la cassazione, la separazione tra giurisdizione ordinaria ed amministrativa, con conseguente opposizione tra diritto pubblico e diritto civile comune. Tuttavia questi risultati sono stati a loro volta il frutto di una lunga esperienza storica. A tal fine è necessario ricapitolare brevemente alcuni dati della storia “generale”. A differenza dell’impero tedesco (che quando si formò all’epica degli ottoni comprendeva tutto il vasto spazio abitato dalle genti germaniche) lo stato francese naque da un nucleo centrale piuttosto ristretto. La condizioni in cui si trovava il regno di francia era infatti quella di accentuato particolarismo feudale derivato dal frantumarsi dell’impero carolingio. Quando nel 987 Ugo Capeto (iniziatore dinastia dei carolingi) salì al trono con il titolo di rex francorum, poteva controllare adeguatamente solo quei territori che erano già suoi in qualità di conte. L’unità della francia è stata un’idea indotta dall’assorbimento linguistico , culturale ed istituzionale di un territorio in uno stato e non già un’idea preesistente ad esso. Sotto il profilo politico, il principio ereditario (il quale sottraeva la monarchia ai condizioanmenti elettorali) ed una serie di sovrani energici fecero si che ogni allargamento territoriale corrispondesse ad un effettivo ampliamento dei poteri regi. Risale a questo primo periodo la caratterizzazione della monarchia francese in senso politicamente antifeudale, poiché l’estensione del controllo monarchico ai territori circonvicini il nucleo centrale potette realizzarsi solo grazie all’accanimento con cui i sovrani provvidero a limitare l’autonomia dei signori feudali (distruggendone i castelli ed assicurando il rispetto delle prerogative regie). Questo processo di riaggregazione del territorio sotto una monarchia ereditaria era quasi completato con i regni di filippo Augusto e di Luigi il Santo, quando il mutamento di dinastia ed il conflitto secolare con l’inghilterra ricrearono le condizioni di partenza, sicchè la casa di Valois si trovò quasi a ricominciare da capo dovendo eliminare la dissidenza dei grandi feduatari, i quali tendevano a comportarsi come potenze politiche indipendenti. 2.STATO , ORDINE E LEGGE NELLA TRADIZIONE FRANCESE L’andamento di cicli storici così conformi nel loro schema di fondo portò a formare il convincimento i che i momenti in cui regnava un re forte all’interno erano epoche di sicurezza, crescita economica, gloria militare raccolta su campi di battaglia esterni ; ai momenti di contestazione interna dell’autorità regia / di frattura /di indebolimento dell’unità politica dello stato corrispondevano invece tempi calamitosi contrassegnati da regresso socio-economico e dall’internvento di potenze straniere nelle cose di francia. Questa convinzione condizionò il pensiero dei più facendolo inclinare verso una certa accezione della razionalità giuridica propagandanta della scientia juris, cogliendo la dimensione della legalità non solo e non tanto nella capacità di mantenere un equilibrio tra interessi confliggenti mediante un calcolo razionale ed una autolimitazione etica, quanto nella capacità di promuovere una più perfezionata organizzazione pubblica nella quale i comandi provenienti dal vertice trovassero più affidabile esecuzione al base. Nel tentativo di riorganizzare lo stato in forme tali da tener a freno l’autonomia dei grandi feudatari, i sovrani francesi del XVI secolo ebbero in effetti l’idea di sfruttare le capacità razionalizzatrici dei giuristi, i quali furono chiamati a comporre quelle corti di giustizia e di amministrazione che già esistevano in varie parti del regno: i Parlaments. Inizialmente i parlaments di parigi, di toulouse, di bordeaux e di provence non erano altro che le antiche Curiae Regis, sostanzialmente simili a quelle inglesi, ed il disegno dei sovrani i quali chiamarono a comporre i parlements tecnici del diritto era appunto quello di privarli della loro funzione di rappresentanza degli interessi delle comunità e dei grandi del reame, per ricondurli alla sola funzione giurisdizionale ed amministrativa. Perciò tra il 1515 e il 1775 furono creati oltre a quelli sopra menzionati , altri otto parlements svincolati dall’antica discendenza e costituenti invece parte integrante dell’apparato amministrativo del regno. Anche a Milano i sovrani francesi costituirono un senato , il quale a parte il nome, ricalcava il modello dei parlements, e sopravvisse all’effimero dominio francese. Bisogna ricordare come il XVI secolo fu caratterizzzato dall’apogeo della scuola francese dei culti. La fioritura di talenti giuridici associata a tale scuola elevò notevolmente il livello della cultura giuridica francese. I sovrani quindi poterono attingere a giuristi formatesi in scuole di diritto di alto livello, ponendoli al servizio dello stato. La politica di reclutamento dei funzionari e dei parlamentari tra i giuristi contribuì a formare un ceto sociale stabile denominato “nobiltà di toga”, in contrapposizione alla nobiltà feudale che, svolgendo invece il suo servizio nell’esercito, fu denominata “nobiltà di spada”. Benchè , come si è già accennato questa nobiltà di toga sfuggì poi al controllo del sovrano sino a contrapporsi vivacemente ad esso, non c’è dubbio che essa nacque come corpo di funzionari ai quali doveva essere demandato l’applicazione del diritto secondo quei canoni di logica ermeneutica che avrebbero dovuto impedire agli interpreti di manifestare una volontà politica loro propria, lasciando così che la sfera della discrezionalità politica fosse dominata dalla sola volontà del sovrano. In sostanza quindi i giuristi vennero arruolati al servizio dello stato seguendo coerentemente con un disegno di accentramento del potere statale e facendo assegnamento sulle promesse della scientia juris di riuscire ad individuare un percorso di deduzione dei precetti concreti dalle norme astratte secondo pura logica deduttiva, assicurando in tal modo l’esatta corrispondenza dei primi alle seconde. Il senno e l’esperienza di poi ci avvertono come quella promessa potesse essere mantenuta meno che alla metà e ciò rende agevole comprendere le ragioni di questo insuccesso. Su altro fronte è da ricordare come la medesima politica accentratrice indusse i sovrani francesi ad assumere l’iniziativa della codificazione delle consuetudini. Per quanto concerneva il diritto civile comune, il regno di francia si trovava diviso in due grandi aree: in una vigevano consuetudini locali (in buona parte di origine germanica); nell’altra era riconosciuto come diritto vigente il diritto romano comune in quanto erede del dirito promulgato nella Lex romana wisigothorum e della lex romana burgundiorum. La divisione naturalmente non era così netta, sia perché alcune zone poste geograficamente nel sud erano rette da consuetudini locali, sia perché molte consuetudini del nord erano in realtà pesantemente interpolate dalle influenze del diritto comune colto insegnato nelle università (si chè, ad esempio, tutto il settore delle obbligazioni e dei contratti era in realtà romanistico dappertutto). La presenza delle consuetudini si colegava all’idea tipicamente medievale per cui ciascuno aveva diritto a vivere secondo la propria legge. Tale idea di fondo venne sottilmente incrinata dall’Ordonnance di Montil-lez tours del 1454 in cui Carlo VII dichiarava di voler procedere alla redazione scritta della consuetudini locali , degli usi e degli stili processuali vigenti. Redigere per iscritto le consuetudini significava infatti qualcosa di più che una semplice attività di accertamento ricognitivo, perché l’iniziativa regia manifestava l’iea che spettasse al sovrano controlare le fonti del diritto , ed eventualmente introdurvi le precisazioni e le modifiche ritenute necessarie primadi promulgarle in forma di decreto. Tuttavia tale iniziativa ebbe rilevanza più sull’unificazione linguistica del paese che non sulla sua unità giuridica. Infatti il risultato ultimo del processo di redazione delle consuetudini fu quelo di favorire l’unificazione dei paesi di diritto consuetudinario e non già quello di contribuire ad un rafforzamento del potere centrale. Si venne così formando la coscienza dell’esistenza di un Diritto Comune Consuetudinario (da opporre al Diritto Romano Comune) di cui i parlamenti divennero i custodi. A parte il maggior prestigio e la maggior incisività del ruolo della dottrina, per quanto concerne la struttura delle fonti, il sistema francese del secoli XVII e XVIII si avvicinò in modo significativo al sistema inglese. Con l’avvento al trono della casa di Borbone, il potere regio mutò strategia. Enrico IV ed il suo grande ministro sully affidarono le sorti dell’accentramento monarchico ad un corpo di funzionari regi i quali, a differenza dei giuristi parlamentari, non acquistavano la proprietà della propria carica. Questa rimaneva una funzione pubblica in senso moderno e perciò i funzionari di nuovo tipo non solo potevano essere licenziati in ogni momento dal loro superiore gerarchico, ma , compiuto il loro servizio, andavano semplicemente in pensione. Con questo nuvo personale gli uffici potettero essere strutturati in forma di piramide gerarchica con un vertice rappresentato da un ministro sempre resposnabile delle attività del suo dicastero di fronte al sovrano, ed una base di funzionari sia addetti ai funzioni particellari in seno agli uffici centrali sia distaccati nelle provincie e posti in continua corrispondenza con il vertice dal quale ricevevano istruzioni ed al quale fornivano informazioni circa al situazione locale. Il periodo del Re Sole (Luigi XIV) fu l’apogeo di questa nuova politica regia e signfiicataivamente essa trovò esplicazione anche nel campo della legislazione. Le tre celebri ordinanze di Louis XIV riformarono la procedura civile; la disciplina dei commerci; e riordinarono la materia della navigazioen marittima. Proseguendo su questa via, lungo la quale si manifestava pienamente la nuova pretesa dell’assolutismo regio di porsi quale fonte di produzione e non solo di ricognizione del diritto, il cancellliere D’aguesseau curò altre ordinanze nelle quali si statuì in forma legislativa la disciplina delle donazioni, dei testamenti e delle sostituzoni fedecommissorie. 3.FRATTURE E CONTINUITA’ NEL MOMENTO RIVOLUZIONARIO Entrambe le tendenze seguite dalla monarchia francese all’epoca dei Borboni (rivolta l’una all’accentramento del potere amministrativo nelle mani di una burocrazia governativa rigidamente centralistica, e diretta l’altra alla riformulazione del diritto mediante leggi) non riuscirono ad esplicarsi appieno poiché nell’ultima fase dell’ancien regime (corrispondente ai regni di luigi XV e di luigi XIV) la monarchia francese ebbe timore di allearsi con i ceti emergenti e con gli intellettuali che ne avevano assunto la guida ideologica, spaventata forse dalla libertà critica e dalla irreligiosità di questi ultimi le quali minacciavano di corrodere la sacralità del trono ossia il piedistallo ideologico della monarchia. Da qui una innatuarle allenza tra il trono e la nobiltà feudale ed una tollerante indecisione verso la riottosità dei parlamenti, i quali ormai esprimevano gli interessi contrari ad una modernizzazione istituzionale del paese. Ciò creò non poca frustrazione nei ceti borghesi grossolanamente riuniti nel c.d. terzo stato, i quali erano adusi a sentirsi partecipi dell’organizzazione statuale più moderna ed efficienete d’europa e che invece si sentirono risospinti dalle indecisioni della monarchia in posizioni di retroguardia a fronte delle riforme realizzate altrove. Tale sentimento , ben nutrito dall’altro (contrastante) per cui la borghesia francese avvertiva se stessa come il ceto più avanzato del mondo, diede esca infine ad un’ansia di rinnovamento totale. Ciò però sul piano del sentimento. Alexis de tocqueville ha efficacemente posto in rilievo come le istituzioni della rivoluzione furono il compimento dei tentativi e delle strategie politicoistituzionali dell’ancien regime. Caricando un poco questa linea di pensiero si può dire che l’accentramento giacobino, la demolizione furiosa delle autonomie locali (ed in generale dei centri autonomi di potere, tra i quali in primo luogo i parlaments) non furono altro che il proseguimento di un disegno politico monarchico e solo l’impeto con cui questi programmi vennero realizzati fu , appunto, rivoluzionario. Tuttavia se è vera l’esistenza di un forte nesso di continuità tra la formazione dello stato francese nel periodo monarchico ed il coronamento delle sue strutture nel periodo della rivoluzione e del dominio napoleonico, non si può sottovalutare come tale coronamento sia avvenuto grazie ad una rivoluzione. È piuttosto ovvio che la rivoluzione francese sia stata uno degli accadimenti più complessi della storia moderna e perciò non sorprendentemente essa persenta molte sfaccettature. Qui basterà richiamarne solo alcuni di questi fattori. In primo luogo la radicalità impressa alle riforme dal movimento rivoluzionario contribuì efficacemente a dotare il modello francese di una compattezza difficilmente attingibile altrimenti. In secondo luogo la rivoluzione francese (come la rivoluzione americana di poco precedente) si presentò come movimento politico di rifondazione dello stato sulla base di valori universali. Così: se l’ordinaemnto francese assunse come obiettivo del suo percorso il valore dell’eguaglianza formale di tutti davanti la legge, ciò si dovette alla rivoluzione. Infatti il valore dell’eguaglianza generale non discende logicamente dalla razionalizzazione giuridica del principio di legalità e difficilmente avrebbe potuto tradursi immediatamente in un principio del diritto senza il passaggio rivoluzionario; ciò è dimostrato dalla assai maggior lentezza con cui lo stesso principio venen accolto in area tedesca ed in altre esperienze europee. Questo radicarsi del valore dell’eguaglianza ha immediate ricadute a livello di visione costituzionale, in quanto si traduce nel primato della legge tutte le volte che entrano in gioco i diritto fondamentali. In terzo luogo però si deve porre in rilievo come i valori universali racchiusi nella “dichiarazione dei diritti dell’uomo e dei cittadini” solennemente approvata dall’assemblea costitituente del regno di francia il 26 agosto 1789, dovettero convivere con una visione delle strutture politiche profondamente condizionata dalle esperienze pregresse. Infatti nella dichiarazione dei diritti non si trova una lista di tutte le istituzioni di cui ha bisogno il cittadino di uno stato liberal-democratico. Essa piuttosto pone in forma accentuatamente didascalica i fondamenti di un nuovo modo di concepire lo stato e la cittadinanza, ricorrendo a forme espressive talmente efficaci da risultare ancora oggi feconde di conseguenze. A livello istituzionale tuttavia rimasero insoluti, anzi, aperti a varie soluzioni i problemi capitali che riguardano il problema della tutela e, poi, della effettività dei diritti fondamentali che la stessa dèclaration des droits formula in modo schiettamente individuale. 4.IL NUOVO ORDINE Come sempre accade l’ordine nuovo che si venne costruendo durante il turbinio della rivoluzione e che si consolitò poi in periodo napeoleonico, muoveva da una visione del duplice rapporto tra governanti e governati e tra governati tra loro. In altri termini, si potrò quindi dire che nella francia del tempo si dovette ripensare il rapporto tra stato e società civile ed i rapporti interi alla società civile. Sotto il primo aspetto, il problema era reso intricato dal fatto che i tentativi di razionalizzazione monarchica avevano insegnato come lo strumento più efficace per modernizzare l’amministrazione della cosa pubblica ed unificare le strutture amministrative del paese non ricalcasse affatto la via della legalità di diritto comune affidata alla custodia dei giuristi, anzi questa via si era palesata alla lunga come fallimentare. Lo strumento più efficace si era dimostrato invece l’apparato burocratico centralizzato, il quale benchè fosse rigidamente ordinato al suo interno secondo schemi razionali e perciò vincolato , sempre internamente, a procedere secondo modelli di azioni prestabiliti dal vertice, era dotato invece , verso l’esterno, di una vasta discrezionalità grazie alla quale poteva reagire con prontezza e flessibilità alle diverse circostanze. Nessuno dei tanti governi che si succedettero in francia a partire dalla rivoluzione pensò seriamente di rinunciare a questo strumento per ricondurre l’azione amministrativa nell’ambito della legalità di diritto comune. È stata piuttosto la giurisprudenza del Conseil D’etat a creare con paziente lavorio intellettuale le figure giuridiche adatte a limitare la discrezionalità dell’amministrazione riportandola in pieno nel solco del principio di legalità, ma quando ciò fu realizzato il baratro apertosi tra diritto comune e diritto amministrativo pubblico si dimostrò ormai incolmabile. Il risultato operativo era che nella realtà si abbandonava un vasto settore del diritto, quello amministrativo, ad una legalità attenuata in nome dell’efficienza, anche se va aggiunto subito come la storia pregressa validasse in una certa misura l’impressione diffusa per cui una amministrazione pubblica slegata dai rigidi vincoli di legalità poteva essere non solo più efficiente e vantaggiosa di una amministrazinoe controllata dal legalismo dei parlements, ma anche più equa. Né va taciuto il fatto che la storia successiva non abbia sostanzialmente smentito questa scommessa. Il che indica bene come il funzionamento del modello si regga sul piano del fatto grazie ad una burocrazia la quale è educata a concepire se stessa e la propria funzione come servizio pubblico e non come strumento di soggiogazione. Ciò che importa sottolineare è che proprio questa scelta attinente al rapporto tra governanti e governato, rese concretamente possibile la scelta (del tutto opposta) maturata in riferimento ai rapporti interni alla società civile. In questo campo non solo ci si orientò verso criteri di legalità che secoli di giurisprudenza colta avevano inseganto a conoscere ed apprezzare, ma si volle essere del tutto coerenti secondo la richiesta che proveniva dal terzo stato. Le mosse al riguardo erano perciò largamente obbligate. L’idea della sovranità della nazione comportava già di per sola la conseguenza che le fonti della legalità dovessero essere riordinate riducendole alla legge, in quanto solo quest’ultima è lo strumento di espressione della volontà della nazione. Una volta posto il diritto amministrativo (e quindi l’azione del governo) al riparo da vincoli legali troppo rigidi, si poteva finalmente disboscare l’intrico delle fonti e perciò: il diritto comune, le consuetudini, le fonti dottrinali e giurisprudenziali, gli statuti locali dovevano essere semplicemnte aboliti in quato incompatibili con il nuovo ordine costituzionale. Ma accanto a queste esigenze, la riduzione del diritto alla legge prometteva di conseguire altri risultati collocabili nella direzione di una modernizzazione del diritto civile. La drastica semplificazione del sistema delle fonti infatti era funzionale anche al progetto di ridisegnare in forme più semplici i diritti di cui godevano i cittadini per muoversi secondo le regole del gioco. Al riguardo valga qualche esempio: il diritto comune (sia scritto che consuetudinario) presentava una folla di questioni in tema di status e capacità delle persone. l’adozione del principio della capacità generale delle persone, eliminò di colpo tutte queste difficoltà. Ancora, la materia dei rapporti feudali, benchè ormai svuotata di significato politico, era rimasta fonte di questioni senza fine che animavano la vita del foro. L’abolizione di tutti i diritti feudali, e l’istituzione del paradigma di una sola forma di proprietà individuale e compatta rimosse qualsiasi questione con la stessa tagliente efficacia della lama della ghigliottina. L’affermazione radicale del principio di legalità nei rapporti civili esigeva però un apparato di amministrazione della giustizia adeguato al compito di preservarlo. Non senza tentennamenti verso forme di amministrazione della giustizia orientate in senso elettivo, si scelse infine di adottare il modello dell’organizzazione buroctratica amministrativa. Il giudice divenne quindi un pubblico funzionario addetto esclusivamente all’applicazione della legge e la magistratura (come corpo di burocratici) fu organizzata in scala gerarchica in corrispondenza con le funzioni esercitate. Queste ultime furono definite in modo che una rete di piccoli tribunali monocratici competenti per le questioni di minor rilevanza, potesse coprire tutto il territorio nazionale anche a livello di villaggio; da ciò si poteva procedere ad un livello supeirore nei Trinunali D’Istanza competenti a conoscere le controversie più rilevanti. Contro le sentenze di primo grado le parti soccombenti potevano proporre appello avanti queste corti. Al vertice della piramide giudiziaria fu posto un Tribunale Di Cassazione il quale non aveva compito di giudicare in terza istanza, ma solo quello di vigilare che l’interpretazione delle leggi fosse uniforme da parte di tutte le corti d’appello dello stato. In sostanza quindi il disegno di equiparare il diritto alla legge, venne perseguito con rigore. Non senza penetrare nella coscienza collettiva. Da allora in poi nel linguistico comune le parole “legge” e “diritto” sono divenuti termini sinonimi, cosa impensabile sino a qualche tempo prima. In tutte le lingue europee continentali esistono infatti parole diverse per designare il diritto e la legge, le droit et la loi, recht und gesetz, ley y derecho, ecc… La loro assimilaizone semantica fu il prodotto di una rivoluzione e di un programma rivoluzionario estremamente coerente. 5.LA CODIFICAZIONE Il nuovo ordine che si è appena descritto esigeva di essere completato mediante una legislazione sostanziale coerente con le finalità di fondo perseguite. Sin dalla prima fase della rivoluzione perciò , fu progettata l’emanzione di un codice civile. L’assemblea costituente decretò nella legge sull’organizzazione giudiziaria del 16 agosto 1790, e ripetè poi nella costituzione del 1791 , che sarebbe stato fatto un codice delle leggi civili semplice, chiaro e comune a tutto il regno. Tuttavia l’impresa si manifestò più ardua di quanto gli illuministi alla Voltaire avessero immaginato. Fare un codice non fu sempre arduo. Un codice penale fu redatto alla svelta e promulgato nello stesso anno 1791, ma nonostante la buona volontà e le pressanti sollecitazioni politiche, il primo progetto partorito della apposita commissione incaricata di redigere un codice civile(progetto in buona parte opera personale del presidente della stessa, Cambacèrès) fu presentato solo nel 1793 e fu povera cosa (compendiava tutto il diritto francese in soli 719 aritocoli). Tuttavia la convenzione ritenne che non fosse abbastanza filosofico e troppo vicino alle complicazioni care ai causidici. Pertnato il 3 novembre 1793 decretò che una nuova commissione si mettesse all’opera per preparare quanto richiesto. Il solito Cambacèrès presentò il 17 novembre 1794 i frutti di un rapido lavoro di semplificazione che riduceva il codice civile a solii 297 articoli. La convezione discusse svogliatamente il progetto per i soli primi articoli, poi sospese l’esame essendosi accorta che il codce breve e filosofico era solo il piano per un codice e non un codice vero e proprio, poiché in tal modo lo spazio lasciato alla giurisprudenza era immenso. Cambacères si rimise all’opera e presentò al consiglio dei 500 un progetto di 1104 articoli ma ormai l’ardore era scemato , come sempre accade quando un programma che ci si prefigura come semplice si palesa arduo, e l’ultimo progetto Cambacèrès non venne mai discusso. Toccò quindi a napoleone buonaparte (divenuto primo console) riprendere nell’agosto del 1800 la questione incaricando della redazione del codice civile una commissione compsota da soli 4 giuristi stabilendo altresì una procedura rigida per il suo esame da parte del consiglio di stato ed il tribunato e poi avanti il corpo legislativo. L’energia dimostrata dal primo console e la sensibilità politica assicurata dal suo potere vinserco ogni opposizione, sicchè nel giro di 3 anni il progetto venne discusso ed approvato il 21 marzo 1804. Nella sua struttura il code civil si componeva di tre libri che seguono da vicino lo schema delle istituzioni giustinianee, rinunciando ad una sistematica più ardita. Il primo libro è quindi dedicato alle persone e contiene la disciplna dele capacità, dello stato civile, del domicilio e dell’assenza, nonché la materia del diritto di famiglia; il secondo libro è dedicato ai beni ed alla propreità e contiene la disciplina dei diritti reali; il terzo libro infine, intolato alle differenti maniere per acquisire la proprietà, contiene in verità il diritto delle obbligazioni e dei contratti nonché quello delle garanzie e della responsabilità patrimoniale, oggi collocata in un IV libro dedicato alle garanzie del credito. Sotto il profilo del contenuto , le scelte di policy espresse nel codice si debbono confrontare con il diritto francese quale era sortito dalla legilsazione emanata durante la rivoluzione (c.d. droit intermedière). In quest’ottica è da rimarncare come il diritto di famiglia venne regolato secondo valori laico-patriarcali. Fu mantenuto il matrimonio civile, ma il governo della famigila fu affidato al padre-marito, mentre la posizione della donna venne assoggettata ad una stretta soreveglianza e gravata da incapacità che la rivoluizione aveva superato. Anche la posizione dei figli nati fuori dal matrimonio fu resa deteriore. In tale materia il regresso verso forme più consevatrici fu evidente, anche se probabilmente molta della legislazione rivoluzionaria era semplicemente fuori tono rispetto ai sentimenti della francia profonda. Nel campo delle successioni invece le barriere tradizionali del maggiorascato, che esistevano ancora in alcune aree, vennero totalmente infrante a favore di un rigido rispetto del criterio di eguagilanza tra figli legittimi. Al favore verso la famiglia legittima concepita come cellulaistituzione, fu ampiamente sacrificata la libertà di testare (ricondotta nell’ambito di una quota disponibile che la legge si preoccupò di contornare da vincoli non appena apparise in pericolo il valore più elevato attribuito alla famiglia). Nel campo della proprietà e dei diritti reali i codificatori furono abilissimi nell’eludere le difficoltà che provenivano dalle diversità di fondo tra diritto consuetudinario e diritto romano comune. Quando le difformità apparivano inconciliabili rimasero silenziosi. Dalle riforme della proprietà agraria introdotte dal droit intermedièere derivanrono il paradigma della proprietà individuale e comaptta, ma , coerentemente con l’impostazione di fondo del sistema, concepirono questo paradigma come perfettamente conformabile in altri modi non solo ad opera del legislatore, ma anche della potestà regolamentare della puissance publique. Fissato con determinazione questo punto, lasciarono (senza proclamarlo troppo apertamente) che il modello codicistico escludesse nel modo più rigido la capacità conformativa dell’autonomia privata. Effetto questo che avrebbe potuto reintrodurre la proprietà stratificata tipica del modello feudale e che quindi era interesse universale escludere. Per il resto , assunsero imparzialmente alcuni blocchi di regole dal diritto consuetudinario e dal diritto romano. Le difficoltà tecniche che provenivano dalla materia delle obbligazioni e dei contratti furono brillantemente superate assumendo come guida le opere di Domat e, soprattutto, di Pothier. Mancando questa guida sapienziale (come nel caso della responsabilità patrimoniale e del diritto delle garanzie) le scelte furono tanto infelici che si dovette poi procedere ad una radicale riforma. 6.IL CODE CIVIL ED IL LINGUAGGIO DELLA LEGGE Ad uno sguardo generale, il modello fornito dal Code Civil francese appare una equilibrata miscela di istanze provenienti da elaborazioni culturali diverse. Della tendenziale paretiticitià tra spunti romanistici e di diritto consuetudinario si è già detto. A ciò si aggiunga che alcune norme chiave furono tratte dal pensiero dei fisiocrati, a sua volta influenzato dalla scuola del diritto naturale (come il principio consensualistico nel trasferimento della proprietà e la clausola generale di responsabilità civile che enuncia il principio del neinem leadere). Si è già accennato al dato per cui la disciplina particolareggiata del diritto delle obbligazioni e dei contratti, senza la quale un codice civile di civil law non può ardire a chiamarsi tale, è largamente debitrice della accumulazione prodotta dalla cultura tecnico giuridica precedente, specie quella consacrata nella versione rinverdita da domat e Pothier alla luce della più avanzate sistematiche giusrazionalistiche. Va anche chiarito però come tutto ciò che attiene alla disciplina del gioco degli scambi di mercato non richiede una regolamentazione particolarmente perziosa perché tutto ciò che il mercato richiede per poter funzionare adeguatamente è la certezza ex ante delle regole che saranno applicate ex post. In questa direzione una decente completezza di disposizioni ed una adeguata chiarezza delle medesime, soddisfa le esigenze primarie. Sotto quest’ultimo profilo il Code Civil fu un vero e proprio capolavoro. Il linguaggio del codice è stringato , coeso ed elegante, le formulazioni sono significative e, se non si scende troppo nei dettagli tecnici, i principi generali sono espressi in locuzioni eloquentemente efficaci. Questo perchè i redattori del code civile ebbero a fare tesoro delle esperienze precedenti (cioè delle sfortunate oscillazioni degli umori che le assemblee politiche avevano imposto ai progetti Cambacèrès) perciò scelsero con lucidità di fissare i compiti del codice civile, rifiutando sia la pretesa di voler regolare ogni cosa sia il sogno di un codice civile breve, filosofico ma anche esaustivo. Il code civil si compose inizialmente di 2281 articoli, sicchè questa latitudine più che doppia rispetto al più prolisso dei progetti precedenti permise di regolare in modo soddisfacente le materie del diritto civile sfuggendo completamente alla pretesa di un codice composto da soli principi generali. Invero pensiero rivoluzionario era ormai pasato di moda al momento della codificazione napoleonica, sicchè il problema essenziale era caso mai quello opposto (cioè quello di rifuggire da una regolamentaizone troppo dettagliata, la quale peraltro poteva essere suggerita dal desiderio di essere coerenti con l’affermazione senza compromessi del princpio di legailtà nei rapporti civili). È quindi importante considerare come la redazione materiale del code civil fu resa possibile dalla inflessibilità con cui i redattori del codice imposero (sfruttando il forte desiderio personale di napoleone di pervenire comunque al compimento dell’opera) una scelta mediana, anche se essa contraddiceva in buona misura al modello di fondo. Perciò essi furono assai netti nel proclamare che “una folla di questioni è necessariamente lasciata all’impero degli usi, alle discussioni tra le persone istruite ed all’arbitrato dei giudici. L’ufficio proprio della lege è di fsissare per grandi linee, le massime generali del diritto; di stabilire principi che siano fecondi di conseguenze , e non già quello di scendere nei dettagli delle questioni che possono insorgere in ogni materie. Spetta al magistrato, spetta al giureconsulto , comprendere lo spirito generale della legge e dirigerne l’applicazione”. E d’altra parte “le leggi propriamente dette differiscono dai semplici regolamenti. Spetta alla legge porre, in ciascuna materia, le regole fondamentali e determinarne le forme essenziali. I dettagli esecutivi, le precauzioni provvisorie o contingenti, gli oggetti momentanei o variabili, in una parola: tutto ciò che sollecita assai più la sorveglianza dell’autorità aministrativa che non l’intervento del potere che istituisce o crea, deve essere affidato ai regolamenti.” Simile soluzione mediana colloca il linguaggio del codice, e della legge in generale, a metà strada tra l’empireo dei concetti ed il terreno della decisione concreta. Il ricorso da parte del legislatore di un livello espressivo intermedio tra quello che sotto il profilo semantico caratterizza la formulazione di principi teorici generali (compito lasciato alla dottrina) e quello che caratterizza la decisione giuridica relativa ad un fatto della vita (affidata alla giurisprudenza) è divenuto un tratto distintivo della intera tradizione di civil law. Renè David ha acutamente notato come la norma del diritto di civil law si pone nel mezzo tra la decisione della lite, considerata come un’applicazione pratica della norma, e i principi, dotati di una maggiore generalità (di cui la norma stessa può essere considerata come un’applicazione). L’abilità del giurista consiste nel saper formulare la norma al livello adatto: non è opportuno che la norma sia troppo generale (perché allora cesserebbe di essere una gudia sufficientemente sicura per la pratica); bisogna invece che essa sia generale quanto occorre per indicare un certo tipo di situazione senza però essere applicabile soltanto ad un caso particolare (come avviene nella decisione del giudice). Si aggiunga che in effetti questo punto di equilibrio non è necessariamente il medesimo in tutte le branche del diritto: una maggior concretezza può esser desiderabile in materie come il diritto penale ed il diritto fiscale, un maggior grado di generalizzazione può sembrare auspicabile in altre materie più fluide. Si deve anche considerare come il code civil fu l’esempio più evidente di monolinguismo legislativo. Le fonti che vennero abrogate e sostituite dal testo del codice risentivano ancora in parte delle sfumature dei diversi linguaggi presenti in francia. Il codice fu redatto nella lingua francese dell’epoca e ne preservò l’eleganza. Il significato profondo del monolinguismo legislativo consiste nel supporre istituita una unica lingua nazinoale che costituisca il codice lingusitico comune tra il legislatore sovrano ed il cittadino, si che quest’ultimo abbia il dovere di capire le parole del primo, con la conseguenza che l’intendimento letterale delle leggi sia il primo e fondamentale canone ermeneutico. I molti che hanno considerato (e tutt’ora considerano) il code civil come un capolavoro di tecnica codicistica, mostrano di apprezzare come un optimum l’equilibrio che i codificatori francesi seppero individuare circa il livello semantico in cui formulare le norme ed il monolinguismo legislativo come un presupposto naturale dell’ordine giuridico moderno, relegando tutti i problemi che sorgono dall’uso di codici linguistici differenziati tra gil accidenti della storia che sono penosi quanto passeggeri. In questo senso il modello codicistico francese si rivela come un modello delicatissimo, anche a cagione del fatto che il segreto del suo funzonamento non è appariscente. In omaggio al principio di stretta legalità nei rapporti civili, i codificatori napoleonici hanno evitato di ricorrere in modo significativo a clasule generali (come il princpio di buona fede). Il divieto di abuso del diritto e di atti emulativi non trovano alcun posto nel codice, il quale anzi, in tema di rapporti di vicinato, ricorre al criterio (preciso e gemetrico) delle distanze legali proprio per evitare di ricorrere a disposizioni elastiche. Del pari dopo aver stabilito che “il contratto ha forza di legge tra le parti” il codice non fa alcuno spazio all’equità sostanziale; rifiuta la teoria dell iustum pretium che era stata elaborata nel diritto comune soprattutto per influenze canonistiche. Anche le regole in tema di laesio enormis furono ridotte in ambiti minimali: precisamente nei soli casi di divisione ereditaria con sproporzione superiore ad un quarto , e della compravendita immobiliare a tutela del solo alienante quando il prezzo pagato dall’acquirente sia inferiore ai 7/12 del valore reale. 7.LE LACUNE DEL CODE CIVIL L’idea di codice discendeva dalla necessità di fondare un ordine nuovo in cui la legge divenisse sinonimo di diritto. Ciò richiedeva un codice semplice , chiaro e completo (come del resto si era inizialmente domandato). I codificatori napoleonici evitarono di misurarsi con questo compito impossibile distinguendo da un lato tra i compiti del legislatore e quelli degli interpreti e dall’atlro tra materia legislativa e materia regolamentare. Tuttavia non per questo rinunciarono all’idea che il codice dovesse essere privo di ambiguità e di lacune, nonché completo (almeno a livello di principi). Gli interpreti successivi, accreditarono l’idea che questa ambizione fosse stata perfettamente realizzata nel testo del code civil. Solo verso la fine del XIX e nei primi anni del XX secolo cominciò a diffondersi in francia l’idea che il codice fosse in alcune parti lacunoso. A quell’epoca peraltro era facile trovare una spiegazione del fenomeno che di denunciava, indicando nei mutamenti sociali ed economici sopravvenuti e del conseguente insorgere di questioni imprevedibili ai tempi di Napoleone, l’origine delle lacune. Ciò è fuorivante, specie nella misura in cui accreditanto la rappresentazione di un periodo storico in cui è esistito un codice chiaro, completo e privo di antinomie, si alimenta il concetto che sia realisticamente possibile redigere un codice autoapplicantensi (ossia un testo legislativo le cui parole sono da loro suficienti ad esaurire l’intera disciplina dei rapporti civili senza bisogno di essere integrate da una cutlura giuridica esterna ed indipendente dalle intezioni del legislatore). Il code civil francese è un ottimo codice e tuttavia non può dirsi privo di ambiguità e di lacune. Né a tal fine è stato necessario attendere che la rivoluzione industriale adducesse mutamenti sostanziali nei rapporti civili regolati dal codice stesso. In realtà il code civil è stato ambiguo e lacunoso sin dal primo giorno in cui è stato ufficialmente pubblicato. Per rendersene conto basta far riferimento agli istituti maggiori (ossia a quelli che poi sono stati detti i pilastri del codice: proprietà, contratto e responsabilità civile). Riguardo la proprietà il code civil contiene una formula che è divenuta famosa: “la proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta, purchè non se ne faccia un uso vietato dalle leggi e dai regolamenti”. Questa formula è stata commentata e soppesata un numero infinito di volte, specie al fine di determinare quanto essa corrisponda ad una ideologia borghese e lasseferista. Tuttavia rimane demandato all’interprete decidere se il termine “cose” indichi solo un oggetto corporale oppure indichi qualunque oggetto di appartenenza o titolarità, comprese le cose immateriale ossia altri diritti. Sul punto ovviamente non si è mai fatta definitiva chiarezza, anche se nei tempi più moderni la seconda accezione pare nettamente prevalere. Certo è che un codice il quale lascia aperto un simile problema non può dirsi completo e privo di lacune. In tema di contratto il code civil contiene una sequenza di norme che compongono un insieme curioso. Secondo l’art 1108 “quattro requisiti sono essenziali per la validità di un contratto: il consenso della parte che obbliga; la sua capacità di contrarre; un oggetto determianto che formi oggetto dell’impegno; una causa lecita nell’obbligazione”. L’art 1131 ribadisce che “l’obbligazione senza causa o fondata sopra una causa falsa o illecita, non può avere alcun effetto”. È quindi assai chiaro dunque che se la causa è illecita il contratto è radicalmente nullo. Tuttavia l’art 1133 prevede che “la causa è illecita quando è contraria alla legge, al buon costume o all’ordine pubblico”. Riguardo a queste norme evidentemente concatenate tra loro si può osservare che non è semplice venire a capo del problema di individuare con una certa precisione la nozione di buoni costumi; ma è ben noto (e del resto è prima facie evidente) come la nozione di ordine pubblico applicata alla causa dell’obbligazione contrattuale, diviene un autentico rompicato. Ciò che qui interessa porre in rilievo come in base alla sequenza di norme qui riportata, si deve concludere che qualsiasi contratto potrebbe essere dichiarato nullo senza violare la lettera del codice. Naturalmente nel diritto applicato francese non è mai stato così, ma questa felice soluzione è il prodotto di qualcosa che si è aggiunto ab extra alla lettera del codice. Riguardo la responsabilità civile, il code si esprime mediante una formula anch’essa divenuta famosa. L’art 1382 prevede “qualunque fatto dell’uomo che arreca danno ad altri obbliga colui per la colpa del quale è avenuto a risarcirlo”. A parte ogni altra osservaizone è palmare come tale disposizione si incardini sulla nozione di “colpa”. Eppure nessuna aprte del codice la nozione di colpa viene precisata. Nel caso si può dire che si è trattato di un felix error poiché tuto il settore della responsabilità civile ha potuto evolversi sino a mutare segno sotto il profilo delle scelte di policy proprio grazie alla indeterminatezza del concetto di colpa. Tuttavia anchein questo caso parlare di un codice autoapplicantesi potrebbe apparire una manifestazione di sarcasmo. Si potrebbero riportare molti altri esempi per sfatare la leggendaria chiarezza e completezza del code civil, ma anche la leggenda in sé fu un fatto di grande rilevanza. 8.L’ECOLE DE L’EXEGESE L’immagine di un codice chiaro e completo non è frutto di caratteristiche intrinseche al testo del codice, ma è una leggenda creata dai giuristi che quel testo commentarono e che, accreditando il codice di una quailtà inesistente, in realtà mirarono a legittimare la loro opera. Nel fare ciò tuttavia dissociarono pesantemente il metodo proclamato da quelo praticato. Ciò in una certa misura rappresenta una costante nell’atteggiamento dei giuristi di civil law, perché, come si è osservato, le proclamazioni di carattere metodologico hanno spesso avuto uno scopo proprio (ossia quello di conferire una legittimazione sapienziale alla trattazione successiva). Tuttavia nel caso dei commentatori del code civil le proclamazioni di metodologia esegetica hanno avuto tutt’altro significato perché queste non facevano altro che riprodurre l’ideologia ufficiale dell’ordine nuovo, e come quest’utlima ammetteva (anzi richiedeva) una certa discontinuità operazionale a condizione che questa non fosse così palese da mettere a repentalgio la sua essenziale finalità didascalica, così la metodologia proclamata dai giruisti ammetteva una forte discontinuità con la loro prassi ermeneutica. A livello di proclamazioni anzi i commentatori del codice si dimostrarono più estremisti dei redattori dello stesso, perché mentre questi ultimi avevano francamente ammesso che il codice non può regolare ogni cosa e deve quindi necessariamente lasciare spazio ai giureconsulti ed ai giudici, questa ammissione venne invece lasciata da parte dai primi i quali invece amavano partire dall’idea della completezza del testo per non lasciare dubbi circa la loro fedeltà ad una concezione profondamente statualistica del diritto. Le equazioni al riguardo erano semplici ed alla portata anche delle menti più intorpidite (ragione non ultime del loro perdurante successo di pubblico): se il diritto coincide con la legge,e la legge è l’espressione della volontà dello stato, l’unico diritto di cui il giurista deve interessarsi è quello che proviene dallo stato (ossia, quello positivo). Naturalmente rimaneva che quanto più simili proclamazioni divenivano radicali , più devenivano goffe perché assumuno sempre (senza dirlo mai) l’univocità del significato delle parole, e quindi era difficile prenderle sul serio. Ma proprio quest’esito creava lo spazio per un intervento correttivo dei giuristi. L’intricato viluppo che nacque da questa corrispondenza può essere sciolto riflettendo sui punti seguenti. Anzitutto gli interpreti del Code Civil erano naturalmente condotti ad operare nel settore del diritto civile, ossia operavano nel settore che, nel disegno complessivo uscito dalla rivoluzione, era stato destinato alla legalità integrale. Perciò le loro idee, i loro metodi e le loro prassi erano programmaticamente rivolte solo ad una parte del sistema, e non pretesero mai di estendersi (mettendola in pericolo) all’altra, quella del diritto e della discrezionalità amministrative. Nel campo del diritto civile, l’ideologia ufficiale non poteva tollerare rivendicazioni di autonomia da parte degli interpreti, perché ciò avrebbe evidenziato una discontinuità tra legge e diritto. Tale discontinuità a livello di azione di governo era in una certa misura legittimata dall’esperienza storica pregressa; mentre la medesima esperienza appplicata alla discrezionalità dell’interprete avrebbe rievocato solo gli abusi perpretrati dai nobili di toga. Infine, andando più a fondo nell’esame delle cose, si deve sottolineare come una certa autonomia dell’interprete significhi necessariamente una certa discrezionalità del giudice, e pertanto legittimare la prima implica una legittimazione della seconda. Quest’ultima però si colloca direttamente nel contesto della distribuzione dei poteri dello stato e quindi va tematizzata in tale contesto costituzionale. Nell’ordine nuovo impostato dalla rivoluzione era accettabile la discrezionalità del governo e dalla puissance publique in generale non solo per ragioni di collaudo storico, ma anche per ragioni di coerenza sistematica e viceversa non era accettabile la discrezionalità del giudice non solo per cause attinenti all’esperienza storica, ma anche per motivi attinenti alle discrasie insite nella nozione di sovranità che si era convenuto di accogliere e che non si volevano rimettere in discussione. Tutte le varie costituzioni francesi si richiamarono alla teroia della divisione dei tre poteri dello stato: il potere legislativo, quelllo esecutivo e quello giudiziario. In ciò il parallelismo con l’esperienza costituzionale americana sembra perfetto. Ma , nell’accezione francese tutti questi poteri erano considerati come poteri delegati dal popolo sovrano, in quanto il corpo collettivo della nazione si era sostituito alla persona del sovrano ereditandone totalmente la sovranità così come la sacralità. In simile accezione la divisione dei poteri è lo strumento intelligente mediante il quale si prevengono e si controllano gli abusi dei delegati, ma ciò non mette in discussione che ogni esercizio del potere debba essere sempre riconducibile al corpo della nazione, al quale spetta oltre che un potere di delega anche un potere di controllo sui modi di esercizio dei poteri delegati. Il che in definitiva postula l’omogeneità dell’agire comunicativo (o,più brevemente, di linguaggio) tra delegante e delegato, che è un presupposto consustanziale all’idea che è alla base del monolinguismo legislativo per cui la lingua nazionale comune è l’istituzione fondamentale dello stato. Gli atti di esercizio della discrezionalità governativa sono normalmente concepiti come azioni simili a quelle dei cittadini, ed è questa la ragione profonda per cui tale discrezionalità poteva essere accettata anche all’interno di un sistema costituzionalmente fondato sul principio di legalità. Viceversa questa stessa accezione crea difficoltà quasi insormontabili al riconoscimento di un potere guidiziario, perché il giudiziario ha consistenza di un potere solo se si riconosce , a monte, l’intrinseca indipendenza intellettuale del suo modo di operare. In altri termini: la teoria pura della divisione dei tre poteri si fonda sul riconsocimento della relativa autonomia del diritto secondo la tradizione giuridica occidentale. Non era quindi arduo scorgere come il proclamare che l’ermeneutica giuridica si fonda su una “artificial reason” la quale non si può acquistare se non con grande studio e lungo apprendimento, avrebbe significato mettere in crisi la sovranità del popolo allo stesso modo in cui aveva messo in crisi la sovranità dei re. A questo compito i giuristi che uscivano da un periodo marcato da una forte polemica verso il loro ceto (le facoltà di diritto erano state chiuse d’autorità e gli ordini professionali dissolti come associazioni illegittime e pericolose) erano del tutto inadatti. La soluzione adottata dai commentatori del codice fu molto più prudente. Essi assunsero a livello di metodologia proclamata l’immagine grottesca per cui tutto il diritto si riduceva alle parole del legislatore e tacquero su tutti i problemi teorici che si collegano alla loro comprensione (ossia evitarono qualsiasi problematica ermeneutica e si dedicarono invece alla messa in opera del codice). Artigiani furono detti i redattori del Code Civil, i quali in effetti non potevano vantare credenziali di grandi giuristi secondo i canoni della scientia juris; artigiani furono sicuramente i suoi commentatori (i quali bandirono dalle loro opere ogni prospettiva culturale e critica, per ricorrere invece ad uun criterio di validazione basato puramente sulla autorevolezza della tradizione, nel duplice senso di tradizione tecnico giuridica e di tradizione repubblicana); ma a queste basi si andò aggiugnendo (sino a sovrastarle) l’autorevolezza della tradizione creata dagli stessi commentatori. Costoro seguirono di preferenza un metodo dialettico ereditato dagli stili della letteratura del jus commune, presentando la propria opinione in contrapposizione a quella di un autore precedente. In caso di dissidio tra due autori, gli scrittori successivi non mancavano di prendere posizione sulla disputa indicando l’opinione preferibile. Nelle fasi mature dell’ècolè de l’èxègese, la soluzione definitiva coincideva con quella accolta dalla corte di cassazione, alla quale ormai si riconosceva una autorità generale. In questo contesto il commento articolo per articolo aveva la funzione di facilitare la ricerca su ogni problema riferibile al codice civile. La familiarità con le partizioni del codice e le sue categorie ordinanti, consentiva di utilizzare i commentari usando il codice come una sorta di indice. Una volta individuata la norma rilevante, i volumi di quelle opere ponderose si aprivano quasi da soli sul tavolo dell’operatore desideroso di approfondire una data questione, semplificando di molto il lavoro di ricerca e generando l’impressione di una soddisfacente certezza e semplicità del sistema. Simile interazione tra il codice usato come indice ed i commenti esaustivi in cui tutti i principali dubbi venivano sciolti in modo chiaro e preciso senza ricorrere a teorizzazioni culturamente elevate, ha lasciato dietrò di sé una intensa aurea di nostalgia tra gli operatori del diritto, i quali ancor oggi considerano che un siffatto sistema sia quello ottimale per assicurare la certezza del diritto, e da ciò deriva non piccola parte di quell’attaccamento all’esegesi che contrassegna l’atteggiamento di fondo di molti operatori di civil law. 9.LA MESSA IN OPERA DEL CODE CIVIL L’accumulo del lavoro esegetico di diverse generazioni di commentatori, contribuì ad eliminare le lacune del testo , a sciogliere le antinomie più evidenti, a precisare il significato delle disposizioni legali ed a dotare di un senso quasi univoco altre che ne mancavano del tutto. Esegeti furono detti questi artigiani, ed il nome è rimasto. Tuttavia, passate le prime pagine di prefazione in cui essi procolamavano a gran voce la loro fedeltà ai valori simbolici dell’ordine nuovo (ossia al testo nella sua formulazione letterale ed alle intenzioni del legislatore storico) nelle parti rimanenti delle loro opere nessuno di loro fece il minimo ricorso a tecniche filologiche, pur ben note, per rischiarare il significato del codice in adesione alla sua lettera. Piuttosto fecero ricorso ad una equilibrata miscela di tradizione giuridica, tecnicismo sistematico, riguardo alle necessità economiche, con l’aggiunta di una certa dose di equità. Misurata con il metro della serietà la loro fedeltà alla lettera del testo ed alle intenzioni politiche del codificatore, fu inesistente. Qualche esempio per tutti: “il codice civile taceva in materia di azioni possessorie, e tacque a ragione veduta non desiderando affatto i codificatori che la tutela del possesso potesse veicolare di nuovo all’interno dell’ordinamento tutte quelle situazioni di appartenenza di origine feudale o consuetudinaria che si erano volute abolire per sempre. Tuttavia le azioni possessorie furono prontamente reintrodotte nel sistema, adducendosi un argomento letterale ma curioso. Si fece leva infatti su un articolo del codice di procedura che menzionava le azioni possessorie nell’elenco delle questioni affidate alla competenza del giudice di pace. Un minimo di coerenza logica avrebbe dovuto condurre a ritenere che tale menzione fosse irrilevante poiché un simile elenco concerne solo azioni eventuali e quindi non può surrogare il silenzio delle fonti in tema di acquisto/peridta/conservazione del possesso. Né una esegesi autenticamente legata all’indagine delle fonti avrebbe faticato a porre in rilievo quell’inciso derivava da una norma antecedente, ed era probabilmente sfuggito all’attenzione degil autori del codice di rito. Naturalmente nessuno di questi arogmenti fu mai avanzato e la conclusione è stata che nel 1975 il code civil è stato emendato con l’aggiunta di due nuovi articoli che trattano la materia delle azioni possessorie, ma la lettera della legge si è adeguata all’insegnamento del foro e della dottrina con 171 anni di ritardo. Destin analogo ebbero le fondazioni private, oggettto di uno sprezzante silenzio da parte del legislatore e reintrodotte per via di “interpretazione”. Invano poi si cercherebbe nel testo del codice un appiglio qualsiasi per giustificare la presenza dell’istituto dei troubles de voisinage, massicciamente utilizzato nella prassi operazionale; oppure tracce letterali atte a fondare la nozione di errur-obstacle, la quale in effetti corrisponde ad una pura invenizone dottrinale”. Oltre alle lacune da colmare vi era anche la necessità di correggere le norme troppo latidunarie. Tra queste spiccava l’art 1382 il quale obliterando qualsiasi riferimento all’elemento obietivo dell’illecito, spalancava alla responsabilità civile un’area enorme cui la società del tempo non era preparata. Ecco allora gli “esegeti” correre ai ripari ed invocare una serie di argomenti sofistici che ribaltavano il senso della norma riconducendolo al criterio della tipicità dell’illecito. La tecnica usata al riguardo muoveva da un atteggiamento modestamente didattico: si cominciava cioè con lo spiegare che l’art. 1382 si inserisce nel capitolo dedicato ai delitti ed ai quasi delitti, perciò al fine di qualificare un atto come illecito è necessario che esso sia proibito da una specifica norma di legge, in quanto vale il principio per cui tutto ciò che non è espressamente vietato è permesso. Da ciò si traeva la conclusione che l’art. 1382 è norma secondaria e che al fine di ascrivere la responasbilità da atto illecito è necessario rintracciare a monte una norma primaria la cui violazione qualifichi come illecita l’attività del soggetto agente. Tuttavia pur nella povertà di strumenti intellettuali messi all’opera, il prestigio dei commentatori sia il patria che all’estero fu altissimo. Nel foro le loro opere venivano citate come se fossero testi paralegislativi (ed in parte lo erano). Ciò sta a dimostrare come la codificazione non sia necessariamente antagonista all’opera della dottrina giuridica, ma anzi possa svolgere una funzione di accreditamento dei prodotti della dottrina stessa presso apparati amministrativi che altrimenti sarebbero diffidenti. Fuori di metafora, si deve osservare come il successo della scuola dell’esegesi sia legato ai bisogni di una pratica, alla quale era stato detto di affidarsi completamente ad un codice di leggi positive, chiaro e completo, nel quale si riverberava il genio di napoleone e la volontà della nazione ed al quale quindi bisognava scupolosamente attenersi. Ma era evidente non solo che il testo del codice chiaro e completo non era (sicchè i problemi interpretativi si ponevano eccome) ma anche che esso parlava il linguaggio della scienza del diritto e perciò per comprendere il significato non vi era altra alternativa all’infuori di quella di affidarsi agli studiosi. Il ruolo della dottrina ne risultò rinvigorito in modo evidente. 10.FUNZIONI E STILE DELLA GIURISPRUDENZA Gli esegeti nella maggioranza erano professori e benchè personalmente abbiano partecipato attivamente alla vita politica del loro tempo, continuavano ad impersonare la figura del pedante senza potere , la quale è poco atta a suscitare atteggiaemnti antagonistici da parte dei detentori del potere politico. La posizione dei giudici era nettamente più delicata, e di ciò fanno fede le frequenti epurazioni cui la magistratura francese andò soggetta dal periodo rivoluzionario sino al XX secolo. Vero è che in materia i pericoli vengono dalla amministrazione della giustizia penale, mentre la giurisdizione civile è tradizionalemnte più appartata, ma ciò non toglie che anche i settori più defilati rispetto al controllo politico una franca proclamazione che il sistema giuridico debba fare nel suo seno un largo spazio al diritto creato dai giudici, non avrebbe mancato di suscitare reazioni emotive fortemente negative. Non solo perché ciò avrebe contraddetto nel modo più pieno all’equazione tra legge e diritto della cui valenza si è già detto, ma perché soprattutto fare spazio ad un ruolo creativo da parte dei giudici significa assegnare alla giurirpsudenza una fuznione di protagonsita nella soluzione di conflitti sociali e, più in la ancora, una tale ridefinizione del ruolo istituzionale del guidice significa aprire l’attività della giurisprudenza alle esigenze di partecipazione ed ai bisogni di autonomia dei cittadini, alle quali la magistratura con la sua vasta articolazione sul territorio offre un alveo naturale. Tutto ciò peraltro era vastamente improponibile nell’atmosfera culturae della francia del XIX secolo. Per conseguenza l’esigenza di integrare, correggere ed adeguare il testo del codice doveva essere svolta senza proclamazioni superflue. In realtà la giurisprudenza francese fu ancora più prudente ed adottò uno stile della motivazione giudiziale che si è dimostrato uno strumento mirabile per tener lontani gli occhi indiscreti. Nella sua struttura la sentenza francese sembra una applicazione esemplare dello schema sillogistico, in quanto comprende sempre nella premessa maggiore l’indicazione della norma di legge applicabile, cui segue il fatto da sussumere nella norma, e la sintesi rappresentata dal dispositivo. Nella realtà non è così perché tutta la motivazione viene rinserrata nel giro di poche frasi, anzi, molto spesso veniva condensata in una unica frase. I un unica frase (per quanto assai elaborata) non vi è alcuno spazio né per analizzare il senso della norma, né per analizzare il fatto, né tantomeno le ragioni addotte dalle parti. Ne consegue che la norma è indicata ma non è mai spiegata l’interpretazione, con la conseguenza che essa si desume solo dal dispositivo, mentre l’itinerario ermeneutico seguito dal giudice per assegnare alla norma il significato assunto nella decisione non è mai verbalizzato; il fatto storico non è mai raccontato, perché le indicazioni riguardano solo quegli aspetti del fatto che i giudici considerano rilevanti ai fini del decidere, senza possibilità alcuna per il lettore di controllare se l’operazione di riconduzione del fatto storico alla fattispecie giudicanda è stata compiuta correttamente o meno; il silenzio totale sulle ragioni e sugli argomenti addotti dalle parti non consente di individuare l’oggetto del litigio quale è stato presentato ai giudici nel corso del processo. In sintesi si può dire che la struttura della sentenza francese rende la motivazione assai simile ad una formula del codice solo più particolareggiata. Essa infatti contiene solo la fattispecie più l’effetto giuridico , inserendovi nel mezzo la citazione della norma di legge, ma senza alcuna spiegazione. Adottando questo tile di motivazione della sentenza la giurisprudenza francese ha confinato la propria voce, ma non il proprio ruolo effettivo , al livello di pura e semplice decisione di un caso concreto. In realtà peraltro questa apparente afasia della giurisprudenza francese contrastava (e contrasta) con il sistema di organizzazione della giustizia civile, il quale, come si è accennato, prevede una organizzazione gerarchica a forma piramidale munita di un vertice costituito dalla corte di cassazione. A quest’ultima è assegnata la funzione di garantire l’uniforme interpretazione della legge. Ciò comporta che la cassazione scelga una determinata interpretazione dei testi normativi e ne imponga il rispetto a tutte le corti del paese: in altri termini è implicita nelle funzioni stesse di una corte di cassazione che essa sia chiamata a svolgere una opera di nomofilachia. Nonostatante la cassazione di francia abbia scelto di svolgere la propria funzione nomofilattica nel modo più silenzioso e meno appariscente possibile, il solo fatto che essa si mantenesse di regola fedele ai propri precedenti e non esitase a cassare le sentenze difformi delle corti d’appello senza nemmeno discutere le interpretazioni alternative accolte da queste ultime, non poteva passare inosservato. 11.LA SCUOLA SCIENTIFICA E L’AFFERMARSI DEL FORMANTE GIURISPRUDENZIALE Ciò che si è sino a qui descritto corrisponde al modello francese che è circolato più vastamente ed in modo più pregante fuori dalla francia. Le vicende successive alle quali si farà qui di seguito riferimento hanno a loro volta esercitato una influenza notevole presso altre esperienze giuridiche, ma non così accentuata come qualla rappresentata dal binomio composto dal code civil e dai suoi interpreti ottocenteschi. In ogni caso, giova ricordare come negli ultimi anni del XIX secolo e con intensità crescente nei primi due decenni del XX l’insufficienza del metodo esegetico divenne in francia sempre più palese e meno sopportabile. Del resto alcuni giuristi della seconda metà del XIX secolo se ne erano ben accorti , ed avevano quindi iniziato a praticare metodi di studio ed esposizione del diritto che tenessero in più elevato conto la logica e la sistematica concettuale. Avevano iniziato Aubry e Rau verso la metà del secolo a farsi interpreti del disagio dei giuristi colti traducendo dal tedesco un manuale di diritto francese concepito con il necessario apparato sistematico da Zachariae von Ligenthal. Quest’opera è stata fertile di conseguenza soprattutto grazie al fatto che Aubry e Rau trasformarono con il succedersi delle edizioni una libera traduzione in opera originale nella quale si creò un equilibrio tra la latente dogmatica dell’originale tedesco ed il positivismo legislativo imperante in francia. Benchè i due autori sfoggiassero in fatto di metodo professioni di fede perfettamente ortodosse (e questo agevolò il successo della loro opera) la novità insita in una sistematica basata su idee generali non poteva sfuggire del tutto ai lettori. Del resto la teoria del “patrimonio” formulata da Aubry e Rau fornì un primo esempio di una categoria puramente intellettuale creata per ordinare in modo logico una serie di problemi latenti nel codice, ma della quale nel codice stesso non vi è traccia alcuna, ad iniziare dallo stesso vocabolo “patrimoine” (che nel testo non ricorre mai). Questa teoria divenne un celebre oggetto di discussione tra i giuristi i quali, in tal modo, si distaccarono dalla lettera del codice e dalle sue sottili manipolazioni per tornare a discutere delle categorie concettuali mediante le quali si comprende il diritto. Su questa base una corrente crescente della dottrina francese iniziò a scrivere opere intessute di problemi che facevano riferimento al sistema del diritto anzichè al testo letterale del codice. Questa apertura ai problemi rinnovò l’interesse per gli aspetti di metodo, ossia verso quel tipo di operazioni concettuali che i giuristi pongono in essere per affrontare i problemi operativi. Sennonchè ogni pubblica controversia sul metodo è evidentemente fatale al metodo esegetico, perché le sue equazioni tra diritto-legge-stato si reggono sulle finzioni della completezza della legge e della intellegibilità del dettato normativo; finzioni che, conformemente alla loro natura, si reggono solo se , per il concorso di considerazioni di opportunità esterne ad esse, tutti sono concordi nell’accettarle, ma che di per se stesse sono solo un inaccettabile groviglio di asserzioni contradditorie. È stato merito di François Gèny rinverdire appieno la polemica metodologica che era latente nella cultura giuridica francese da qundo alla ècole de l’exègèse si era affiancata una corrente alternativa. Gèny fornì infatti in due vaste opere una visione consapevole ed informata delle possibilità ermeneutiche che si offrono al giurista di fronte al testo ma insistette sempre sul fatto che il giurista deve rimanere un interprete del diritto positivo e nessuno più nettamente di lui rivendicò il primato della legge su ogni altro formante. Nel grande affresco di teoria del metodo offerto da Gèny si incontrano certamente suggestioni derivanti dal dibattito contemponraneamente in corso in germania, così come una penetrante comprensione dei caratteri tipici della cultura giuridica francese, ma gli esiti della sua lunga battaglia sono stati variegati. Sotto il profilo del metodo la vittoria fu totale. Le critiche di Gèny hanno seppellito in modo talmente definitivo il metodo esegetico che esso non riuscì più a risollevarsi a livello di dignitosa prospettazione metodologiaca anche se continuò ad essere sotterraneamente applicato. Tutti i dottrinari francesi sino ai giorni nostri premettono di essere seguaci della ècole scientifique di cui riconoscono gèny come capostipite , negano di essere affetti da feticismo legislativo, riconsocono la non assimilabilità del diritto alla legge. Molte volte queste procolamazioni sono epidermiche come lo sono state quelle di fedeltà al testo normativo degli esegeti, ma ciò conferma come sul piano della metodologia proclamata la questione sia chiusa per sempre. Il programma teso alla riconquista di un vasto spazio operativo per la scienza del diritto, ha avuto destini assai più incerti. Geny aveva predicato le aperture dell’interprete ai risulttati costruttivi derivanti dalla “libera ricerca scientifica” indicando come tale l’insieme dei criteri obiettivi che consentivano di attingere elementi della costruzione giuridica dalla natura delle cose, intesa in senso assai vasto, come dalla concretezza dei rapporti sociali bisognevoli di disciplina. In effetti il risvolto negativo dell’ècole de l’exègèse è risultato consistere nell’isolamento del giurista dalla cultura nelle sue varie espressioni, ossia dalle fonti di strumenti di conoscenza del mondo sociale senza i quali l’occulto ma proficuo lavorio di integrazione dei testi codicistici diveniva privo di una guida appropriata al di là del comune buon senso (che in una società complessa è troppo poco). La dottrina francese successiva non ha in realtà utilizzato troppo accuratamente i suggerimenti scientifici di Gèny ed anzi è da sottolineare il dato per cui lo sviluppo della ricerca metodologica non c’è stato. Ha invece elaborato con intelligenza una serie di teorie giuridiche settoriali (discutendo appassionatamente riguardo la teoria dell’abuso del diritto formulata da Josserand / la teoria istituzionalistica formulata da Haurious/ la teoria della finzione della persona giuridica /la teoria della funzionalizzazione dei diritto soggettiva formulata da Duguit/ la teroia personalistica dei driitti reali formulata da Roguin e Michas/ la teoria del matrimonio putativo /la teoria de l’imprevision in materia negoziale, le varie teorie che intendevano riassumere la cifra della responsabilità civile in formule come “responsabilità per rischio” oppure “assurace oblige”). I primi quarant’anni del XX secolo sono contrassegnati da un multiforme fiorire di “teorie” giuridiche le quali in realtà non sono altro che categorie concettuali mediante le quali si tende a raccordare tra loro fenomeni e regole giuridiche apparentemente disparate riconducendole ad un principio comune che a sua volta è dotato di capacità generativa. Tuttavia questa attività costruttiva richiede a tematizzare completamente il lavoro del giurista senza di che il rischio di ricadere nelle trappole delle fonti autoritative rimane intenso. In effetti, la tesi di Gèny per cui accanto al primato della legge si possono riconoscere altre fonti secondarie (ad iniziare dalla giurisprudenza) è quella cui ha arriso maggior successo pratico. Essendo naufragati in modo quasi ridicolo i propositi di ricodificare il diritto civile francese, fu del tutto evidente come fosse merito della Giurisprudenza l’aver mantenuto aggiornato un ordinamento formalmente basato su codici invecchiati di oltre un secolo. Del resto il ricordo degli abusi dei parlamenti si era del tutto dileguato ed un secolo di fedeltà ostentata aveva ristabilito integralmente il prestigio della magistratura in seno alla compagine dello stato. Di consegunza non stupisce che fondandosi nel 1902 la “Revue trimestrielle de droit civil” a cura di A. Esmein e Saleilles, ed essendo parso necessario che il primo articolo contenesse il programma della rivista , A. Esmin scrivesse “il faut que la doctrine prenne la jurisprudence pour son principal oject d’ètude”. Il proposito era quello di fornire uno studio sistematico e scientifico della casistica, con l’aiuto del metodo storico e, accessoriamente, del diritto comparato. In effetti si debbono a questo indirizzo gli studi magistrali. Però la Giurisprudenza non si lasciò ingabbiare dalle formule dottrinali essendo (specie le due corti supreme rappresentate dalla cassazione e dal consiglio di stato) timorosissime di interdirsi evoluzioni future. Sicchè di sistematico rimase l’accanimento con cui la voce della dottrina francese divulgò le novità di una giurisprudenza in continua evoluzione. Riconosciuta quindi alla Giurisprudenza il primato nel compito di elaborare le regole del diritto vivente, non restava alla dottrina altro compito che quello di esporle. Il riconoscimento della giurisprudenza come formante essenziale del sistema non indusse infatti i giudici francesi a mutare lo stile delle loro motivazioni, tanto concise da risultare spesso incomprensibili e, comunque sempre così lontane da una esposizione soddisfacente del problema affrontato da non lasciar trasparire le novità immesse nel sistema. I grands arrets, le cui formulazioni di principio non possono sfuggire ad alcuno sono sempre stati pochissimi, la gran parte dell’evoluzione giurisprudenziale deve essere contestualizzata attraverso un esame attento della consuetudine giurisprudenziale. In ciò spetta alla dottrina un ruolo divulgativo insostiutuibile, ma certo in tale ruolo si consuma anche (ed inevitabilmente) il prestigio della competenza scientifica che aveva contrassegnato l’autorità dei commentatori del secolo precedente. 12.LA PREVALENZA DEL FORMANTE LEGISLATIVO ALL’EPOCA ATTUALE Con la V repubblica (ossia dal 1958) la francia si è dotata di una costituzione rigida nel senso che essa prevede un procedimento speciale per la propria revisione e di un organo che vigila sulla costituzionalità delle leggi votate dal parlamento. A lungo peraltro la tradizione costituzionalistica francese è apparsa orientata verso il principio della costituzione flessibile ed anche caratterizzata da una marcata instabilità degli assetti costituzionali. I due caratteri (quello della flessibilità e quello della mutevolezza) sono evidentemente collegati e tuttavia corrispondono a fattori causali diversissimi. Quanto al primo bisogna risalire al modo (di cui si è già detto) in cui fu concepita la sovranità all’epoca della rivoluzione, da cui discende il principio per cui la volontà gènèrale (o nazionale) non può essere limitata e costretta da atti di volizione espressi in un momento non attuale. In ciò la visione tradizionale francese appare conforme al principio cardinale dell’assetto costituzionale inglese per cui ogni parlamento è organo supremo e non è accettabile che l’azione del parlamento attuale sia vincolata da un parlamento precedente. Tuttavia mentre l’assetto costituzionale inglese si caratterizza per la sua continuità , quello francese si è storicamente distinto per la discontinuità dei suoi assetti. Al riguardo però occorre osservare come le dieci costituzioni che hanno retto la francia (a partire dal quella del 3 settembre 1791) sono state tutte destinate a disciplinare il modo con cui la volontà nazionale dovesse esprimersi e non miravano ad altro all’infuori di ciò. Il radicamento dei principi di libertà ed eguaglianza è avvenuto più in via di fatto che attraverso la espressa funzione promozionale di declamazioni costituzionali, le quali peraltro si sono limitate a richiami e ritocchi alla fondamentale dèclaration des droits et des devoirs de l’homme del 1789. Solo nella costituzione voluta da De Gaulle si è assistito ad un mutamento di prospettiva in larga misura addebitabile alla volontà del costituente di imbrigliare il regime partiticoparlamentare. Era necessario quindi prevedere un organo che potesse imporre al parlamento il rispetto della costituzione in materia di ripartizione della competenza normativa, evitando che l’organo normalmente deputato ad esprimere la volontà nazionale invadesse il campo della normativa regolamentare. Quest’organo fu individuato nel “conseil constitutionnel” il quale inizialmente aveva funzioni assai distanti da quelli delle corti costituzionali propriamente dette, poichè esse erano solo in minor parte dedicate al sindacato di costituzionalità sulle leggi ed anche questa funzione era limitata alle questioni sollevate dal presidente della repubblica, dal primo ministro o dai presidenti delle due assemblee in via preventiva. Poiché perlatro nel periodo delle presidenze De Gaulle e Pompidou, la maggioranza parlamentare risultò simbiotica al governo, le funzioni originarie del Conseil constitutionnel non ebbero grande impatto sul sistema. Avviato al tramonto il dominio del paritto Gollista, la loi constitutionnelle del 29-10-1974 ha aperto il ricorso preventivo sulla costituzionalità delle leggi a sessanta deputati o a settanta senatori e questa innovazione ha consentito alla opposizione di far verificare dal conseil consitutionnel la legittimità di leggi approvate su iniziativa del governo. Naturalmente le questioni così sollevate non riguardano solo lo sconfinamento dei poteri da parte del parlamento, ma la lesione di libertà fondamentali dei cittadini che sono riconosciute attraverso il richiamo espresso nel preambolo della costituzione alla Dèclaration del 1789 confermata e completata dal preambolo della costituzione del 1946. Ad iniziare da questa riforma il controllo operato dal Conseil constitutionnel è andato allargandosi secondo una tendenza espansiva insita nel fatto stesso dell’esistenza di una istituzione che ha assunto tale compito e che quindi nell’espansione di esso vede un ampliamento del proprio ruolo. Sebbene le decisioni del conseil constitutionnel abbiano lo stile delle decisioni delle corti costituizonali ed anche ne adottino le articolazioni (come ad esempio le sentenze interpretative di rigetto o quellle manipolative), tuttavia si deve rilevare come nell’attuale assetto costituzionale francese si sia ancora lontani dallo stabilire quella preminenza del testo costituzionale sulle leggi ordinarie che caratterizzo l’assetto delle fonti in altri sistemi giuridici. Al riguardo non è tanto da sottolineare il dato per cui i ricorsi significativi per la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali debbono esssere proposti da sessanta parlamentari, ovvero dal blocco di opposizione , quando il dato per cui il ricorso deve essere presentato tra l’approvazione della legge e la sua promulgazione. Una volta promulgata la legge non è più sottoposta ad un vaglio di costituzionalità se non ad opera del governo che voglia farne accertare il carattere regolamentare al fine di poterla modificare con proprio decreto. Si tratta quindi di un controllo di costituzionalità preventivo che in quanto tale non riguarda la legge già entrata in vigore, ma solo un testo normativo già approvato. La larghissima attenzione che la letteratura francese ha dedicato alla trasformazionedel conseil constitutionel da organo règulateru de l’activitè des povoirs publics a guardiano dei principi costituzionail di fondo, non deve suggerire sopravvalutazioni che porterebbero a paragoni comparativi viziati. In effetti, al fine di chiarire la gerarchia delle fonti, il confronto non deve essere istituito tra le pronunzie del conseil Constitutionnel da un alto e le senteze delle corti costituzionali vere e proprie dall’altro, ma tra sistemi complessivi di controllo della costituzionalità delle leggi. Sarà quindi da riconoscere come nel sistema francese la netta divisione tra l’attività del conseil consitutionnel e quella del sistema giudiziario non solo impedisce che la questione di costituzionalità si possa porre nell’applicazione ordinaria delle leggi, ma soprattutto che la manteuta intangibilità della legge promulgata, ostacola la formazione di una mentalità costituzionale nella interpretazione delle leggi la quale per essere significativa ha bisogno di essere guidata dalla giurisprudenza concretizzatrice di un organo giurisdizionale. Una caratteristica del sistema francese delle fonti ben scolpita nela costituzione del 1958 consiste nella separazione tra la normativa affidata alla legge votata dal paralemento e la normativa regolamentare affidata al governo. In base alla costituzione, il settore della legislazione riguarda un numero definito di materie mentre le materie diverse da quelle ivi elencate hanno carattere regolamentare. Il “domaine de la loi” è quindi fissato in modo tassativo, mentre le materie affidate ai regolamenti sono tutte quelle residuali. Tuttavia anche nelle materie disciplinate con legge è ammesso ex art. 21 cost. l’emanazione di regolamenti di attuaizone. Il potere regolamentare si suddivide quindi in potere regolamentare autonomo, ed in potere regolamentare suppletivo che si riallaccia alla nozione tradizionale di potere regolamentare ben nota anche nei precedenti assetti costituzionali. Dal testo della costituzione appare evidente il duplice intento di affidare al governo una parte della funzione legislativa e di proteggere l’attività normativa del governo contro sconfinamenti da parte del parlamento. Quanto al primo profilo basterà ricordare che al governo è attribuito il potere di emanare (per delega del parlamento) ordinanze in materie riservate alla legge; e che lo stesso è dotato di poteri di direzione del processo legislativo grazie alla regole per cui nell’ordine del giorno delle assemblee i progetti di legge governativi hanno la priorità, nonché grazie alla possibilità di imporre alle camere in qualunque momento l’approvazione di un testo o di una parte di esso con un unico voto e con contestuale decadenza di ogni emendamento salvo quelli proposti o accettati dal governo. Permane anche la possibilità per il governo di porre la questione di fiducia, anch’essa rispetto ad un progetto di legge; in tal caso il testo proposto dal governo si considera approvato senza voto, salvo che nelle 24 ore succesive non venga proposta una mozione di censura. Circa i meccanismo costituzionali di protezione della sfera regolamentare, il governo può sollevare la questione di irricevibilità circa una proposta di legge o un emendamento che fuoriescano dal “domaine de la loi”. In caso di disaccordo tra il governo ed il presidente della camera interessata, la questione è decisa dal Conseil Constitutionnel. Tuttavia è da rilevare come i governi talvolta evitino di sollevare la questione di irricevibilità circa emendamenti parlamentari e progetti di legge anche se (e talvolta in modo assai chiaro) invadono il campo dei regolamenti autonomi, preferendo che determinate discipline (sulle quali politicamente concordano) siano imposte per legge anziché per regolamento autonomo. Con il che la distinzione tra domaine de la loi e potere regolamentare autonomo è entrata in crisi perché il governo è l’unico organo che può eccepire circa la natura regolamentare di un testo legislativo. Del resto, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha subito corroso la distinzione tra potere regolamentare autonomo e potere regolamentare suppletivo assumendo che i regolamenti emanati con decreto ex art. 37 cost. se hanno natura di legge in senso materiale rimangono atti aventi natura amministrativa e pertanto sono sottoposti al controllo di legalità da parte degli organi di giustizia amministrativa il che implica un controllo (blando) anche sul contenuto precettivo dei regolamenti ed il loro annullamento in caso di contrasto con disposizioni di legge che abbiano comunque incidenza nella materia specifica. La tendenza che attualmnete appare in atto segna un ritorno all’assetto tradizionale dei rapporti tra potere legislativo e potere regolamentare, ancorchè il primo sia sostanzialmente l’espressione della volontà politica del governo piuttosto che di quella del parlamento. La situazione è quindi la seguente: in base al testo costituzionale il “domaine de la loi” è severamente limitato a vantaggio della potestà legislativa del governo; in base alla tendenza della costituzione vivente si registra un allargamento della competenza legislativa ed un assorbimento nell’alveo della tradizione della competenza normativa del governo. Il conseil constitutionnel che nei primi due decenni di applicazione della costituzione ne ha difeso la lettura, segna con le sue sentenze l’inversione di tendenza. Questa inversione è enfatizzata dalla letteratura. Sul piano comparativo simile enfasi è sommamente fuorivante. Bisogna rilevare infatti come il potere regolamentare non è tanto espressione dle governo, quanto dell’administrtion ovvero della tecnosctruttura buroctracita che da secoli regge la francia. Il dato formale introdotto dalla costituzione del 1958 ed il suo radicamento nella prassi avvenuto nel primo ventennio di applicazione ha consentito all’amministrazione di autostabilire le regole concernenti la propria attività e nel contempo ha abituato il parlamento a rispettarne l’auotonomia. Dopo di che è divenuto indifferente che ciò avvenga in modo pericolosamente diretto oppure attraverso la normazione regolamentare suppletiva che agisce attraverso i regolamenti di esecuzione. Al fondo della questione sarà da tenere presente il dato (comune a tutte le società occidentali contemporanee) per cui la complessità della macchina amministrativa comporta di per sé la preminenza operativa della fonte regolamentare rispetto ad ogni altra , ovvero la preminenza della tecnostruttura burocratica che ha le conoscenze tecniche e le informazioni necessarie per promuovere i mutamenti normativi, rispetto al sistema rappresentativo che affida ai parlamenti ed in definitiva ai partiti o ai grupppi di pressione, il compito di trovare i compromessi politici necessari per mediare tra i vari conflitti di interesse. La novità introdotta dalla costituzione del 1958 sta tutta nell’aver spostato l’asse di equilibrio a favore della normazione tecnico burocratica ed a svantaggio della normazione che nasce dal circuito democratico rappresentativo ma che prende corpo nel sistema dei pariti politici. La società francese attuale pare aver accettato nella sostanza questo nuovo equilibrio che è conforme alla sua tradizione storica profonda e non la costringe a ripudiare i dogmi nati dalla rivoluzione. La legislazione forense è (come tutte le legislazioni moderne) un corpus di norme assai complesso. Forse la distinzione tra normativa legislativa e normativa regolamentare, forse la maggior abitudine delle istituzioni francesi alla normativa statale, hanno fatto un po’ velo alla percezione del fenomeno, ma nell’orgy of statute making, la francia non è seconda a nessuno. Del resto la facilità con cui i governi francesi riescono a far adottare i propri progetti legislativi senza farli stravolgere dal parlamento, aiuta a comprendere come, al momento attuale, la fonte principale della organizzazione del diritto privato francese sia tornata ad essere la legislazione. L’attivismo legislativo non ha risparmiato i codici, i quali per tutto il secolo scorso sono stati caratterizzati da una eccezionale stabilità, grazie alla quale ha potuto depositarsi su essi la fitta coltre di interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali di cui si è detto. L’esempio più clamoroso è quello del code de commerce del 1807 ridotto allo stato di rovina dalla introduzione di leggi che ne sostituiscono le parti essenziali (come il diritto delle società, il regime del fallimento e della concorrenza). Oggi il code de commerce comprende solo circa 150 articoli rispetto ai 648 iniziali, dei quali solo 12 sono originali. Al paragone il code civil sembra un monumento legislativo più duratura del bronzo. Ma anche il testo del Code Civil è stato ampiamente rimaneggiato. Infine si deve segnalare come anche in francia operi ormai con crescente intensità il diritto comunitario che tenta di uniformare il diritto dei contratti con i consumatori ed i diversi rapporti tra imprese e mercato. In definitiva a duecento anni dalla sua emanazione non solo il code civil è profondamente mutato, ma è difficile prevedere che possa permanere per tutto il XXI secolo. La novellazione del code civil non è tuttavia l’espressione più rilevante dell’attivismo legislativo. Ciò che merita di essere segnalato è invece il fatto che tutta una serie di situazioni e di rapporti giuridici disciplinati inizialmente dal codice trovano la loro fonte in norme estranee al codice stesso. Valga l’esempio della proprietà edilizia regolata dal code de l’urbanisme, dal code de la construction et de l’habitation; o quello della proprietà agraria regolata dal code rural; si pensi al contratto di locazione, oggeto di una ricca disciplina speciale; al rapporto di lavoro; al contratto di assicurazione cui è dedicato il “code des assurances” ecc.. Questi “altri “codici (che sono essenzialmente dei Testi Unici e si presentano suddivisi in una parte legislativa ed in una parte regolamentare) sono soggetti ad una continua opera di novellazione la quale non lascia il tempo agli interpreti per una opera di riflessione e di rielaborazione organica, ma anzi costringe la dottrina a svolgere un ruolo di affannata divulgazione delle continue novità contenute in testi legislativi. Si tratta in definitiva di codici la cui “messa all’opera” è affidata più alla burocrazia e alla giurisprudenza che non alla dottrina. Ancora più rilevante è il dato per cui tutti i nuovi problemi che l’accelerazione della storia impone alle società moderne sono stati immediatamente affrontati a livello di formante legale senza dare il tempo né alla dottrina né alla giurisprudenza di organizzare risposte sullla base dei princpi di diritto civile. Il tropismo verso la legge costituisce una tendenza forndamentale dell’esperienza giuridica francese attuale: anche settori del diritto giurisprudneziale ormai assodati e ben radicati nella storia sono stati riformati mediante nuove norme legislative. Quando quindi si sottolinea il ruolo creativo della giurisprudenza nel sistema francese attuale, si indica un dato che certamente esiste, ma si fa anche velo alla realtà se non si aggiunge subito che l’attività creativa degli interpreti continua a prosperare solo in alcuni settori non invasi da una legislazione sempre più abbondante. In ogni caso non è la giurisprudenza il formante che dà il tono ed il colore al sistema francese attuale, ma la normazione sia legale che regolamentare. Da qui il ripiegarsi dell’attività interpretativa della dottrina su una nuova esegesi,ormai sfiduciata verso le valenze organizzative delle teorie dottrinali. Il tempo delle teorie sembra essere tramontato, come sottolineano con rammarico coloro che vorrebbero che risorgesse; ma dopo quanto si è detto circa il ruolo della legge e delle burocrazie che stanno dietro la legge, non deve stupire che la letteratura francese attuale sia soprattutto una letteratura che si limita a raccontare in forme sempre più elementari(per esigenze editoriali e scolastiche)il diritto che è stato creato da altri. CAPITOLO OTTAVO: IL MODELLO TEDESCO SEZIONE PRIMA : LA FORMAZIONE STORICA DEL MODELLO 1.LA FORMAZIONE DEL DIRITTO TEDESCO ALL’EPOCA DEL JUS COMMUNE Negli ultimi due secoli il modello tedesco ha influito in modo talvolta assai incisivo su altre esperienze giuridiche, tra cui anche quella italiana. Se si ha riguardo all’epoca contemporanea, due appaiono le aree fertili all’interno della tradizione giuridica di civil law: la Francia e la Germania. Da entrambi questi paesi sono infatti pervenuti modelli giuridici (pur diversi tra loro) la cui varia ricezione ha contribuito a ri-orientare l’evoluzione dei diversi sistemi nazionali dell’europa continentale, dell’america latina nonché di tutte le altre che in una qualche misura si richiamano alla tradizione di civil law. A differenza del modello francese, la cui formazione è fortemente connessa a quella dello stato francese, il modello tedesco non appare legato, se non in modo assai indiretto, alla forma di stato vigente in germania. In effetti il sistema di governo vigente in germania non è stato unitario sino alla fondazione del secondo Reich nel 1871 ed anche allora l’unificazione della germania avvenne su basi c.d. piccole tedesche (ossia escludendo dalla nuova formazione politica le popolazioni di lingua tedesca presenti in svizzera e nell’impero austriaco). Più che alle vicende statuali occorre quindi far riferimento a quelle culturali. Il modello tedesco oggetto di circolazione è stato infatti essenzialemnte un prodotto della cultura giuridica tedesca. Conviene quindi ricapitolare in forma sintentica alcuni dati di questa vicenda. Al momento del grande risveglio europeo, dopo l’anno 1000, il diritto tedesco era naturalmente un diritto consuetudinario di stampo prettamente germanico. Della sua vigenza fanno fede numerose compilazioni giuridiche (rechtsbucher) tra cui le più famose furono il sachsenspiegel (1230), lo Shwabenspiegel ed il Frankenspiegel (1275-76). Si trattava altrettanto naturalmente di compilazioni aventi per oggetto consuetudini locali. Il localismo del diritto consuetudinario contrastava però con gli ideali universali fortemenete avvertiti nella germania del tempo, nazione che si era fatta portatrice dell’idea imperiale. Le aspirazioni all’universalità furono quindi un veicolo importante per la ricezione della scientia juris diffusasi a partire dalle prime sedi universitarie dell’italia del nord. Territorio peraltro facente parte del Sacro Romano Impero. La ricezione del modello romanistico propagandato dalla scientia juris culmunò con la fondazione del Reichskammergerigt nel 1495, a comporre il quale furono chiamati esperti di dirito romano comune. La vera fonte del diritto era naturalmente la dottrina e la sua interpretazione creativa. Tenace è stata la Leggenda secondo cui l’imperatore Lothar III Von Suppligen, per rendere grazie a Matilde Di Toscana ed ai suoi fedeli alleati pisani per l’aiuto prestatogli , avesse recepito in forza di un editto imperiale il diritto romano nella sua interezza. La critica umanistica dimostrò l’infondatezza di una simile narrazione. In realtà, il modello offerto dalla scientia juris venne assimilato in modo frammentario e differenziato nelle diverse zone dell’impero. Sino all’avvento delle codificazioni settecentesche la germania (compresi i territori austriaci ma non quelli svizzeri) visse una vita giuridica completamente immersa nel jus commune, di cui riprodusse tutte le caratteristiche principali, compreso il fatto di lasciar ampiamente sussistere accanto al diritto colto le consuetudini locali concepite come diritto positivo speciale. Caso mai, come si è accennato, fu una particolarità dell’esperienza tedesca il non diminuito prestigio dell’insegnamento universitario nei secoli XVII e XVIII quando quest’ultimo si inaridì alquanto in area latina. L’ininterrotta autorevolezza dell’insegnamento dotto , fornisce una parziale spiegazione del fatto storico per cui le codificazioni illuministiche di cui l’area politica tedesca fu antesignana, non cancellarono il ricordo del jus commune. La maggior causa di simile sopravvivenza è però da indicarsi nella disunione politica della germania. Lo stato piu vasto ed importante (la prussia) si dotò di un codice (l’ALR) del 1794 piuttosto mal riuscito che non venne dunque ami assunto come modello da alcun altro stato tedesco. Mentre il codex maximilenus bavaricus civilis del 1756 era tanto impregnato da regole care al suo redattore da essere quasi condannato in partenza ad una fruizione solo locale. In realtà l’uico codice veramente moderno adottato in area tedesca fu L’ABGB austriaco del 1811. Questo modello, frutto di una lunghissima gestazione dai tempi di Maria Teresa sino alla sua promugazione, giunse troppo tardi per potersi candidare ad un ruolo guida. Nel secondo decennio del XIX secolo se gli stati tedeschi avessero voluto dotarsi di un codice civile si sarebbero verosimilmente rivolti al code civil e non all’ABGB. 2.LA SCUOLA STORICA TEDESCA Nel 1814, subito all’indomani della ritirata Francese dalla Germania, Thibaut (allora professore ad Heidelberg) pubblicò un opuscolo in cui ,partendo da un sentimento di deprecazione verso la frammentazione e la confusione del diritto vigente in germania, auspicava la introduzione di un codice civile unitario. La proposta di Thibaut ricevette larghi consensi tra i professori tedeschi. La ragione per cui la proposta di Thibaut non ebbe alcun seguito fu che essa e la sua base teorica venne demolita dalla critica che le dedicò Savigny ossia uno dei più famosi giuristi tedeschi, largamente apprezzato per i suoi scritti in tema di possesso. La proposta di Thibaut e la favorevole accoglienza ad essa tributata gli fornì l’occasione di conferire la massima risonanza al proprio “manifesto” politico e metodologico che divenne il “manifesto “ della scuola storica del diritto di cui Savigny è considerato padre spirituale. Alle tesi svolte nel suo manifesto va riconosciuta una posizione matriciale rispetto ad una vasta catena di orientamenti successivi. In questo testo, il Savigny affermava che l’idea di codice doveva essere superata in quanto risultava un inutile irrigidimento di un fenomeno di per sé non racchiudibile in schemi precisi, poiché il vero fondamento del diritto civile non poteva coincidere con il cesareo gladio ma bensì nella naturale dipendenza del diritto dai costumi e dallo spirito di ciascun popolo. Pertanto si avrà un diritto in continua evoluzione e trasformazione, analogamente a quanto avviene per il linguaggio adoperato da ogni popolo. A questo rapporto va aggiunto il vitale sviluppo offerto dalla scienza specifica dei giuristi. Da ciò lo studioso faceva discendere quanto leggi e codici non siano necessariamente in armonia con il carattere del popolo, finendo per rappresentare una rottura nell’ordinato fruire della tradizione giuridica nazionale. In conclusione, il modo corretto di procedere per l’unificazione del sistema giuridico germanico consisteva nello spronare la crescita progressiva di una scienza del diritto comune all’intera nazione. In sostanza leggi e codici non sono necessariamente in aromonia con lo spirito del popolo, al contrario finiscono con il rappresentare una rottura dell’organico fluire della tradizione giuridica nazionale. Il modo corretto di procedere per dotare la germania di un diritto unitario , consiste invece nello stimolare la crescita di una “organizzata progressiva scienza del diritto, la quale può essere comune all’intera nazione”. 3.IL METODO DELLA SCIENTIA JURIS IN GERMANIA DOPO SAVIGNY Il manifesto di Savigny ebbe un’accoglienza strepitosa. Aderendo sia alla sua metodologia come ai suoi propositi due generazioni di giuristi tedeschi si dedicarono al compito di edificare una scienza ed un sistema. Il maggior contributo a questo riguardo va riconosciuto a Puchta, allievo di Savigny e suo successore nella direzione spirituale della scuola, anche se a lui premorto. La metodologia di Puchta è ricordata soprattutto per la metafora della piramide concettuale, secondo la quale i concetti giuridici possono essere sistematicamente organizzati secondo una scala a partire dai più generali, sino ai più dettagliati. Se in questo percorso si rispettano rigorosamente i criteri di deduzione logica evitando ambiguità o contraddizioni ,si rende possibile anche il percorso inverso di tipo induttivo, che consente di risalire dall’insieme dei concetti particolari ai concetti più generali. Se il sistema poteva essere creato partendo dai concetti generali tuttavia la costruzione giuridica poteva partire da un insieme di norme di dettaglio dimostrando che il loro significato era coerente (ossia poteva essere ricompreso in un concetto generale). Questa impostazione metodologica porta due conseguenze importanti: 1) in primis, il criterio di validazione diveniva la consequenzialità logica di ogni proposizione giuridica rispetto al tutto, e tale consequenzialità veniva misurata in base al principio di non contraddizione. Con ciò si ripudiava implicitamente il gioco dialettico tra regola ed eccezione di cui era intessuto il discorso dei giuristi del jus commune ( regola è quanto si applica alla maggior parte dei casi, l’eccezione è ciò che si applica in un numero limitato e ben individuato di circostanze). Nel sistema del diritto comune il gioco tra regola ed eccezione era egregiamente servito per accomodare all’interno del sistema giuridico costruito su base sapienziale gli interventi del principe. Questi, se contrastavano con il sistema venivano catalogati tra le “eccezioni” le quali non contraddicevano la regola, che quindi continuava a susistere di vita propria ed inoltre erano incapsulati in una sorta di limbo soggetto ad interpretazioni restrittive. Nel sistema di Puchta ciò è assurdo: la sua intelaiatura complessiva rende logicamente impossibile tutta una serie di regole o di conclusioni giuridiche ad esso logicamente antagoniste. 2) Al fine di poter costruire concetti da concetti, occorreva però che ciascuno di essi fosse definito con scientifica precisione, sì da attagliarsi esattamente alla fattispecie considerata. Questo tipo di analisi minuziosa dei concetti giuridici è quanto differenzia i seguaci della scuola storica da tutti i loro predecessori. Il lavorio continuo ed entusiasta di due generazioni di giuristi tedeschi, portò ad un raffinamento senza precedenti delle idee e delle figure giuridiche e ad una delle non molte fasi di effettiva accumulazione concettuale promesse dalla scientia juris. (Ad esempio: sino a Savigny la lucizione “contratti reali” era usata per designare qualsiasi contratto in cui fosse coinvolta una cosa; nel diritto romano però alcuni contratti – come il mutuo e il comodato – si perfezionano con la consegna di una cosa, mentre altri contratti producono l’effetto di trasferire la proprietà della cosa. Si tratta quindi di due fenomeni giuridici diversi. La loro riduzione a forme concettuali analiticamente distinte è rispecchiata nel fatto che esse vegano ora designate con la locuzione di “contratti reali” nel primo caso e di “contratti ad effetti reali” nel secondo // Nel diritto comune – come tuttora nel Code Civil e nell’ABGB - la parola “mandato” serviva per designare indifferentemente l’atto attributivo della rappresntanza ed il rapporto tra il mandante e mandatario. La distinzione tra procura e mandato è frutto di un’analisi concettuale che distingue tra il lato interno e quello esterno del rapporto). In generale l’analisi pandettistica conduceva il giurista ad analizzare tutti gli elementi concettuali che costituiscono una fattispecie e ad assegnare a ciascuno di essi la qualificazione giuridica appropriata. Da ciò una continua decostruzione e ricostruzione delle diverse figure giuridiche in seguito alla quale ognuna viene trasformata. A differenza della impostazione rigidamente sistematica di cui l’immagine della piramide concettuale è un espressivo paradigma, l’analisi concettuale e rigorosa delle diverse fattispecie giuridiche della tradizione di civil law costituì una acquisisizione definitiva. 4.LA PANDETTISTICA Gli autori che seguirono le indicazioni di Savigny e di Puchta costruirono il proprio sistema assumendo come materiale giuridico quello contenuto nel Corpus Juris. Perciò essi sono noti come Scuola Pandettistica, termine derivato da “Pandette”che, nella sua ricchezza e completezza ,costitutiva la miglior palestra possibile per i loro esercizi sistematici. Il metodo di questa scuola consiste nell’applicare le tesi della scuola storica al materiale costituito dal corpus civilis giustinianeo e soprattutto a quella parte chiamata Pandette e questo perché la Pandette, nella sua completezza, costituiva la miglior palestra possibile per i loro esercizi sistematici. Ma ai Pandettisti ciò che interessava era il sistema in sé e per sé in quanto intelaiatura di concetti in grado di inquadrare qualsiasi regola di diritto e la possibilità di completare qualsiasi sistema di regole grazie alla capacità intrinseca al metodo concettuale di dischiudersi verso una giurisprduenza costruttiva, tesa a generare nuovi concetti da concetti precedentemente inseriti nel sistema. Dunque tra i pandettisti possono venir catalogati giuristi i quali della “Pandette” in senso proprio non si interssarono mai (o quasi). Infatti , indipendentemente dai riferimenti alla Pandette, il metodo sistematico basato sulla costruzione di concetti giuridici precisi dilagò in svariati settori del diritto, da quello consuetudinario tedesco, al diritto processuale civile, al dirito pubblico, ognuno dei quail venne completamente rinnovato dal paradigma “pandettistico”. In effetti, il suo apporto fu quello di fornire uno schema altamente astratto, e proprio perciò in grado di adattarsi ad inquadrare giuridicamente qualsiavoglia contenuto normativo. È questo il modello tedesco per antonomaisa, ossia il modello dottrinale che è più circolato fuori dalla germania. In questo senso il modello pandettistico ebbe una diffusione universale simile a quella del Code civil. Tuttavia questa circolazione rimase legata ad una scuola di pensiero dottrinale e venne accolta quindi essenzialmente dalle dottrine dei paesi ricettori, come espressione di un monumento elevato dalla scientia juris e non come un modello completo di ordinamento. Nella seconda metà del secolo i modelli culturali più in voga in germania mutarono: Le scoperte scientifiche che andavano accumulandosi ad un ritmo mai visto fino allora, elettrizzarono gli ambienti dotti. Il c.d. positivismo (che seguiva un approccio scientistico a tutti i problemi umani) dilagò in tutti i settori del pensiero occidentale. D’altra parte, la costruzione di un diritto sistematico appena usciva dall’ambito un po’ astratto della “Pandette” si scontrava poi con una realtà normativa che non riusciva a piegare. Si tornò a predicare ciò che Savigny aveva abilmente esorcizzato (ossia che la scienza del diritto è vera scienza solo quando si rivolge a cose esistenti in questo mondo , e quanto esiste nel mondo sotto il profilo giuridico è la regola imposta dal potere sovrano , la cui osservanza viene garantita ed assicurata dall’apparato dello stato). Nonostante ciò, la pandettistica non ha vissuto sino in fondo la sua inevitabile parabola discendente perché venne salvata dall’avvento del Codice Civile unitario della Germania Guglielmina. 5.IL BGB Nel 1870, con la vittoria sulla Francia, la Germania ritrovò l’unità politica smarrita da molti secoli in un impero federale. Per portare a compimento un codice civile tedesco occorreva attingere alla sapienza giuridica della nazione. Posta la questione in questi termini è facile percepire come l’impero tedesco fosse in una condizione di non scelta, nel senso che non vi era alcuna seria alternativa rispetto alla ricezione in blocco del modello pandettistico: il distacco sia intermini di prestigio e di completezza tra le elaborazione dei Pandettisti e quelle di qualunque altra scuola rivale, era infatti press’a poco abissale. Le discussioni furono animate, ma il progetto del BGB venne approvato nel 1896 ed il codice entrò in vigore il 1° gennaio 1900. Inevitabili i confronti con il code civil, tema su cui esiste una vasta letteratura. Sotto il profilo dello stile è parso quindi che il Code Civil parli un linguaggio comune, quello della gente, mentre il BGB parla il linguaggio dei professori, irto di terminologia aspramente tecnica. Proprio per questo si è criticato il paradosso secondo cui il codice nato da una scuola che aveva inteso il diritto come una manifestazione dello spirito del popolo, sia stato redatto in maniera tale da risultare incomprensibile a chiunque non abbia ricevuto un’appropriata educazione giuridica. In tutto ciò vi è qualche esagerazione: l’idea di un codicecoidce chiaro, semplice e preciso pur nel suo linguaggio comune sì che tutti possano comprenderne le disposizioni , è nulla più di un sogno antilegalistico nato nel seno dell’illuminismo radicale e da allora coltivato a scopi bassamente propagandistici. Gli stessi giuristi francesi se ne fanno talvolta beffe. La lettura di un codice civile , in qualunque stile letterario sia scritto, può essere utile solo per i giuristi. Il linguaggio del BGB è arido ed inelegante, ciò è vero, ma è preciso e non cade mai in sciatterie. I termini tecnici sono sempre usati rigorosamente con il medesimo significato; le anfibologie sono assolutamente evitate. Quanto alla sua struttura il BGB può a ben diritto considerarsi il frutto della pandettistica. Il BGB si presenta suddiviso in 5 libri, di cui il primo (costituente la parte generale) racchiude il patrimonio ereditato dalla dottrina tedesca ottocentesca. In essa si ritrovano quelle disposizioni che, essendo comuni a tutti gil altri quattro libri del codice, i redattori del codice avevano voluto esporre una volta per tutte in un’unica sede, nello sforzo di raggiungere nel codice un sistema perfetto privo quindi di lacune, ma anche di ripetizioni. Il secondo libro riguarda i rapporti obbligatori, ed è il cuore del BGB: proprio per questo esso è stato recentemente rimodernato. Il terzo libro è dedicato al diritto sui beni (proprietà e gli altri diritti reali compresi il pegno e l’ipoteca che nel nostro codice si trovano nel libro sulla tutela dei diritti). Il quarto e il quinto libro rispettivamente il diritto di familgia e il diritto delle successioni. Ad uno sguardo generale il BGB sembra racchiudere tutto e solo il diritto dei giuristi, tutto ciò quindi che era stato elaborato e sistematizzato nel corso della ricerca scolare di due generazioni di studiosi. La caratteristizzazione del modello tedesco come Professorenrecht (diritto dei professori) nasce da questa consapevolezza. In punto di scelte normative il BGB accogliendo le soluzioni proposte dalla maggioranza della dottrina giuridica nazionale le ha consacrate e radicate nella tradizione giuridica tedesca. (Così: nel BGB , Il contratto ha solo effetti obbligatori ed il trasferimento di proprietà è affidato al successivo negozio reale astratto nel caso di mobili ed alla registrazione nel caso di immobili. Il possesso non richeide l’animus domini. La responsabilità civile è fondata sull’elemento dell’ingisutizia del danno collegato alla lesione di alcuni diritti tipici della vittima. I patti successsori sono ammessi). In tutti i casi menzionati, il CODE CIVIL aveva fatto scelte opposte. Ne è derivato non solo un lungo dibattito volto a determinare quali scelte di politica legislativa siano le più congrue ma anche una notevole spaccatura dell’europa giuridica, perché poi ciascun ceto di giuristi si abitua a considerare le scelte del proprio codice come le più naturali ed indiscutibili. 6.GLI SVILUPPI DEL DIRITTO TEDESCO E DELLA DOTTRINA TEDESCA DOPO IL BGB SINO ALLE META’ DEL XX SECOLO La società e lo stato in funzione dei quali il BGB venne concepito ebbero vita breve dopo la sua promulgazione. Nel 1914 la germania entrò in guerra e quattro anni più tardi l’impero crollò. Con il fardello della sconfitta, la Germania entrò in una nuova era. In simile contesto la messa in opera ed il consolidarsi del BGB nel sistema giuridico tedesco è stata necessariamente una vicenda agitata. La promulgazione di un codice il quale ripeteva le categorie ordinanti insegnate da ormai oltre mezzo secolo nelle scuole di tutta la germania (e non solo di essa) aveva naturalmente recato conforto all’opinione tranquillante di chi riteneva che vi fosse un ordinamento giuridico bello e pronto il quale ha bisogno soltanto di essere applicato dal giudice al caso singolo per derivarne, mediante sussunzione , la decisione esatta. Ora che il sistema pandettistico non era più soltanto un modello dottrinale, ma diritto positivo dello Stato, anche i sentimenti di disagio provati da tutti coloro che vi si erano adeguati senza capire esattamente che cosa stesse succedendo erano svaniti. Nel periodo in cui il codice consacrava l’insegnamento pandettistico si diffuse nel mondo universitario la corrente critica più radicale, nota come scuola del dirito libero a cui deve riconsocersi il merito di aver emancipato la giurisprudenza dal ruolo secondario fino ad allora giocato. Come all’inizio del secolo XX la dottrina francese sepellì la metodologia giuridica (grazie alle critiche di Geny) del secolo precedente (marchiandola anche con il nome infamante di esegesi) le polemiche della scuola del diritto libero diedero avvio ad una profonda revisione metodologica al termine della quale la dottrina tedesca fece altrettanto con il modello pandettistico cui venne attribuito il nome (infamante) di Giurisprudenza dei Concetti. La legge non esaurice il diritto, perché di esso fa parte una componente che è sottratta alle scelte del legislatore e delle altre autorità dello stato. Questa visione di fondo (che ha trovato consacrazione nella Legge Fondamentale della Repubblica Federale Tedesca là ove si prescrive che il giudice sia vincolato “alla legge ed al diritto”) è rimasta dominante anche se negli anni ’30 del XX secolo ha trovato una opposizione nell’insegmaneto di Kelsen con il quale l’impostazione positivistica ha raggiunto il suo apice. Tuttavia sono state le premesse dell’impostazione Kelseniana a risultare poco appetibili nell’area culturale tedesca poiché implicavano un abbandono di tutto quanto la dottrina giuridica tedesca aveva costruito dai tempi di Savigny. Va invece ricordata (perché ebbe un’influenza piu duratura) quella corrente di pensiero che va sotto il nome di socialismo giuridico, la quale rimproverando al BGB (ed alla pandettistica che lo aveva preparato) il fatto di aver tradotto in assiomi logici alcune premesse assiologiche non ben rivelate, ma che in sostanza coincidevano con quelle in cui poteva riconoscersi solo la borghesia tedesca del XIX secolo tendeva a demolire la pretesa neutralità scientifica delle costruzioni pandettistiche. Ma la critica più efficacemente demolitrice del sistema pandettistico è venuta da una scuola di pensiero , la “giurisprudenza degli interessi” di cui il più significativo rappresentante (Philipp Heck) colse con precisione il punto di frattura : il tentativo di continuare ad applicare al BGB ed ogni altro testo legislativo la genealogia concettuale di Puchta sfociava inevitabilmente in in un “metodo dell’inversione”. Infatti anche ammessa la legittimità dell’operazione di riconduzione di una serie di disposizioni normative ad un unico concetto in grado di coordinare la ratio comune, non poteva essere ammesso il percorso inverso, ossia la deduzione di regole positive dal concettto così ricostruito. Anzi, così facendo si commetteva un peccato contro lo spirito santo, perché mentre si fingeva di venerare il diritto positivo come unica fonte legittima del diritto, in realtà ci si appellava sempre ad un concetto estraneo alle fonti per dedurne regole niente affatto positive. La critica di Heck servì a mettere in rilievo che i seguaci della giurisprudenza dei concetti erano caduti infine in una inversione metodologica non dissimile da quella degli esegeti francesi, quando pretesero che tutto il diritto fosse ridotto alla legge e presero poi a riscriverla. In realtà , se si accetta il principio della supremazia del legislatore, non vi è spazio per la genealogia dei concetti a fini integrativi del diritto positivo, essendo più adatti allo scopo di colmare le lacune del testo legislativo una serie altri strumenti intellettuali. Il problema che si poneva nella germania di Weimar era soprattutto legato al fatto che nonostante disponesse di un codice cronologicamente assai recente (BGB) ed anche moderno in molte sue soluzioni, la giurisprudenza tedesca iniziò subito a ribaltare alcune delle principali linee di tendenza del BGB. La c.d. fuga verso le clausole generali non ha solo aperto le porte ad una giurisprudenza creativa che assunse un ruolo guida nell’evoluzione del diritto tedesco, ma ha richiesto un’opera parimenti creativa da parte della dottrina naturalmente chiamata ad un compito non solo di divulgazione dei risultati giurisprudenziali, ma anche di riordino e di valutazione critica senza il quale l’appliacazione in sede giurisdizionale di formule troppo aperte sarebbe degenerata immediatamente nell’arbitrio. Il pericolo del resto era già in agguato. L’avvento del regime nazista ruppe le tutte le costruzioni dottrinali prima che potessero condurre a risultati largamente ondivisi. In un regime sprezzante la legalità, il rischio che la critica al formalismo pandettistico degenerasse in formule enfatiche prive di capacità di guida , trovò in effetti non poche concretizzazioni , ed alcuni giuristi si sporcarono non poco le mani in una collaborazione politica in realtà senza frutti. In simile contesto politico il declino della scientia juris era inevitabile, come è dimostrato non solo dal fallimento del tentativo di ricodificazione mediante un Volksgesetbuch di cui fu pubblicato solo il progetto del primo libro nel 1941, ma anche dalla indifferenza con cui simili tentativi furono accolti fuori dalla germania, comprendendo nell’indifferenza aree culturali ove un tempo le dottrine locali erano attentissime a tutto ciò che in germania veniva scritto o pensato. SEZIONE SECONDA: IL SISTEMA TEDESCO ATTUALE 1.L’ASSETTO COSTITUZIONALE L’attuale assetto costituzionale della germania è frutto delle vicende storiche verificatesi al termine del 2^ conflitto mondiale, quando lo stato tedesco semplicemente si sciolse ed il suo territorio assoggettato ad un regime di occupazione da parte delle forze alleate. L’attuale costituzione della germania federale, venne elaborata da un consiglio parlamentare riunitosi nel 1948 su designazione dei parlamenti dei vari Lander delle tre zone di occupaizone assegnate agli Stati Uniti, Inghilterra e Francia ed entrò in vigore nel 1949. Nel 1955 , 9 lander della germania occidentale riacquistarono la loro piena indpendenza e costituirono la repubblica federale tedesca. Dopo il crollo della repubblica democratica tedesca, costituitasi nella ex zona di occupazione sovietica, si è proceduto alla riunificazione della germania, attuata il 31 agosto 1990: i lander della repubblica democratica tedesca entrarono a far parte della repubblica federale tedesca assieme alla città di berlino che, oltre a costituire un nuovo land, è tornata ad essere la capitale della nuova repubblica federale tedesca. La costituzione ora in vigore nella germania unificata è la terza costituzione di tipo federale che la germania conosce dopo quella del 1871. Essa è di tipo rigido e richiede per la sua modificazione o revisione una maggioranza qualificata in tutte e due le camere , nell’ambito del normale processo legislativo. Vi sono inoltre alcune parti della costituzione sottratte ad ogni possibilità di variazione: i diritto fondamentali, la struttura federale del paese, non chè la partecipazione deli lander all’attività legislativa. Il controllo di costituzionalità delle leggi è demandato al Tribunale Costituzionale Federale che esercita un duplice controllo di costituzionailtà: un controllo c.d. astratto indipendentemente dall’esistenza di un caso o di una controversia giudiziale è ammissibile nei casi di questioni sulla compatibilità formale e sostanziale del diritto federale o del diritto dei lander con la legge fondamentale. Legittimati ad invocare questo controllo astratto sono il governo federale, il governo di un Land o 1/3 dei membri del parlamento federale. Un controllo concreto che presuppone invece l’esistenza di un procedimento in cui viene sollevata la questione incidentale di costituzionalità, e riguarda solo le leggi in senso formale (le costituzioni dei vari Lander, le leggi dei Lander ed i trattati internazionali). Se un tribunale ritiene incostituzionale una legge dalla cui validità dipende la sua decisione, il processo deve essere sospeso, per essere riassunto davanti al Tribunale Costituzionale Federale. Ciò vale anche nel caso in cui vi sia contrasto tra la legge di un Land ed il diritto federale. Qualora invece si tratti di un controllo di costituzionalità delle leggi dei Lander rispetto alle rispettive costituzionali locali, la questione sarà sollevata di fronte ai Tribunali Costituzionali Locali. Al centro della elaborazione della giurisprudenza costituzionale tedesca si sono collocati i diritti fondamentali. Questi diritti (il cui elenco è stato inserito nelle legge fondamentale in parte per suggestione del modello americano del “Bill Of Rights” in parte come reazione agli scempi del periodo nazista) non posseono essere oggetto di revisione da parte del legislatore. Essi quindi si pongono come elezione di valore definivita della attuale forma di stato, la quale riconosce che la sua essenza coincide con la garanzia e la tutela di tali valori. Altro importantissimo compito affidato al Tribunale Costituzionale Federale è quello di conoscere dei ricorsi costituzionali che possono essere intentati direttamente di fronte a questa da chiunque ritenga di essere stato leso dalla pubblica autorità in uno dei suoi diritti fondamentali (previsti dalla costituzione). La possibilità di esperire tale tipo di ricorso è stata prevista anche a favore dei comuni e dei consorzi di comuni, anche se solo nei confronti di una legge, mentre il ricorso esperibile dai cittadini può essere rivolto contro qualsiasi atto di governo. Simile riconoscimento da parte della costituzione ha rafforzato l’idea che la stella polare atta a guidare l’attività ermeneutica del giurista sia la promozione di una interpretazione costituzionalmente adeguata delle regole, ossia una interpretazione orientata alla promozione dei valori consacrati nella legge fondamentale. La c.d. “giurisprudenza dei valori” considerata la figlia nobile della “giurisprudenza degli interessi”, è oggi la scuola maggioritaria tra quelle fiorite in ambiente tedesco. 2.IL SISTEMA DELLE FONTI NELLA BRD Nell’attuale sistema tedesco, la competenza legislativa ordinaria è ripartita tra Parlamento Federale e Lander, i quali hanno diritto di legiferare nella misura in cui la costituzione non riservi al Parlamento Federale le competenze (competenza residuale). La costituzione indica esplicitamente le materie di competenza esclsuiva del Parlamento Federale . Accanto alla competenza esclusiva esiste una competenza concorrente, in cui i lander hanno competenza legislativa solo quando il Parlamento Federale non faccia uso del suo diritto a legiferare. Il diritto federale prevale sempre sul diritto del Land. È possibile infine per il bund di emanare disposizioni di inquadramento (simili alle nostre leggi-cornice) per deterinate materie (specificamente indicate nella costituzione). Si noti comunque che la competenza legislativa esclusiva dei Lander risulta piuttosto limitata. Il diritto comunitario della BRD non viene considerato come parte integrante del diritto federale, ma piuttosto come un complesso di norme a sé stanti, che entra a far parte del diritto nazionale tedesco, nella misura in cui i trattati che ne sono all’origine sono diventati diritto tedesco. L’esecuzione della normativa CEE all’interno della BRD avviene in base alla ripartizione delle competenze tra Bund e Lander. 3.L’ORGANIZZAZIONE DELLE CORTI E DEI TRIBUNALI Nella attuale Repubblica Federale Tedesca, l’organizzazione delle corti appare caratterizzata da uno spiccato pluralismo funzionale. La costituzione prevede oltre alle corti di giurisdizione ordinaria ed amministrativa, l’istituzione di separate giurisdizioni del lavoro, finanziaria e sociale. I 5 ordini di giurisdizione sopracitati (ordinaria, amministrativa, finanziaria, del lavoro, sociale) sono organizzati in tre gradi di giudizio (tranne quella finanziaria che ne ha solo due). L’esistenza di 5 ordini separati di corti non ha intaccato la netta separazione , tradizionale nel diritto tedesco, tra diritto privato e diritto pubblico. I tribunali del lavoro sono considerati tribunali ordinari, i quali giudicano su questioni di diritto privato, mentre quelli sociali e della finanze vengono considerati come una giurisdizione amministrativa speciale accanto a quella generale. Naturalmente però accanto a questa summa divisio, un sistema di corti specializzate come quello tedesco ha il senso di un riconoscimento al carattere specialistico che il diritto ha assunto nei settori del lavoro del sistema fiscale ed in quello previdenziale. 4.IL CORPUS DELLA LEGISLAZIONE PRIVATISTICA TEDESCA E LA MODERNIZZAZIONE DEL BGB Il BGB ha festeggiato nel 2000 il suo primo centenario di applicazione; tuttavia due anni più tardi è stato vastamente novellato nella sua parte principale (il libro II°) che concerne il diritto delle obblgiazioni e dei contratti. Non è tanto il diritto delle obbligazioni ad essere stato modificato quanto il diritto contrattuale o,meglio alcuni aspetti centrali della sua disciplina. La c.d. modernizzazione del BGB lascia intravedere due fonti di ispirazione: da un lato una serie di teorie che si erano già da gran tempo affermate in giurisprudenza e dall’alltro lato la modernizzazione è stata l’occasione per introdurre nel diritto civile tedesco riforme che necessariamente richiedono l’intervento legislativo. Accanto al BGB è da ricordare il codice commerciale tedesco (HGB). Anche la germania (come la francia) ha infatti conservato la tradizionale divisione tra diritto civile e commerciale. L’HGB nel 1900 predispone un diritto per il commerciante , definendo come tale chiunque eserciti un’impresa commerciale e prestabilendo poi una lista di attività che qualificano come “commerciale” una determinata impresa . Impresa comerciale è anche quella che, pur non rientrando nella fattispecie precedentemente delineata, sia comunque esercitata in modo commerciale e sia registrata nel registro commerciale. L’HGB si presenta scandito in 5 libri. Accanto al Codice Civile ed a quello del Commercio, il terzo pilastro della legislaizone privatistica è tradizionalmente il Codice Di Procedura Civile del 1877 poi profondamente novellato piu volte il quale si presenta scandita in ben 10 libri. Il modello di processo che essa disegna e disciplina nei suoi dettagli viene utilizzato come riferimento anche nei processi che svolgono avanti le giurisdizioni diverse da quella civile ordinaria, per colmare tutte le eventuali lacune delle singole leggi di procedura. 5.L’INTERPRETAZIONE DOTTRINALE E GIURISPRUDENZIALE Chiunque abbia a che fare con il BGB si munisce di un commentario per poterne intendere le disposizioni, o per essere sicuro di averle intese correttamente. Ciò sembrerebbe confermare il ruolo egemone del formante dottrinale ma in realtà i commenti escono continuamente aggiornati per far spazio non a nuove teorie, ma a sentenze più recenti. In generale il ruolo della giurisprudenza è andato via via crescendo nel corso dell’ultimo secolo, tanto da mettere in ombra l’apporto della dottrina. Del resto i giudici non nascondono di svolgere un ruolo sempre più creativo. La prospettazione generalmente accettata è che spetti alla giurisprudenza svolgere un ruolo di concretizzazione delle norme legislative alla luce dei valori costituzionali, della coerenza complessiva del sistema e della giustizia del caso. L’attività creativa della giurisprudenza varia naturalmente da settore a settore e mostra di essere meno intensa laddove il legislatore interviene più frequentemente oppure laddove sia intervenuto di recente. Piuttosto è da tenere presente l’esistenza di un dialogo tra dottrina e giurisprudenza: in effetti la didattica universitaria fa sempre più spazio ai casi Giurisprudenziali e la giurisprudenza tedesca ascolta molto i suggerimenti della dottrina, senza i quali sente di non poter conservare il suo alto standard qualitativo. A ciò giova lo stile della decisione giurisprudenziale tedesca. A differenza del giudice francese, il giudice tedesco motiva estesamente le sue pronunzie facendo riferimento sia ai precedenti giurisprudenziali che alle indicazioni dottrinali. Si ritiene anzi che una sentenza non sia ben motivata se la motivazione non conferisce un fondamento appropriato alla decisione finale (nel senso che quest’ultima si deve presentare come l’esito della costruzione razionale della decisione nel suo complesso). Peraltro la sentenza tedesca non è opera personale del singolo giudice ma espressione impersonale della corte e le dissenting opinions non sono ammesse. CAPITOLO NONO: I MODERNI SISTEMI DI CIVIL LAW TRA INFLUENZE FRANCESI E TEDESCHE SEZIONE PRIMA: LA TRADIZIONE DI CIVIL LAW COME MONDO COMUNICANTE 1.REALTA’ E PROSPETTIVE DEI SINGOLI DIRITTI NAZIONALI Secondo la rappresentazione più accreditata i diversi sistemi di civil law avrebbero acquistato a partire dal secolo scorso una crescente impronta nazionale. Questo stato delle cose viene normalmente imputato alle codificazioni o, meglio, ad un loro effetto collaterale, ossia alla positivizzazione delle fonti del diritto. Al posto di un ordinamento vastamente basato su un formante dottrinale cosmopolita, le codificaizoni moderne avrebbero segnato l’avvento di sistemi giuridici fondati quasi esclusivamente sul formante legislativo, il quale, per sua natura, è valido solo entro i confini del singolo stato. Si deve però notare come il peso crescente del formante legislativo non è addebitabile solo al diffondersi delle codificazioni, quanto alla dilatazione dell’intervento statale in ogni campo della vita dei cittadini. Pertanto, la prospettiva di una crescente nazionalizzazione del diritto non rimanda tanto alla codificazione come forma di legislazione, quanto alla propensione verso la legislazione tipica dello stato interventista. È però da osservare che questa tendenza (che ha largamente dominato buona parte del XX secolo) si scontra oggi con alcune controtendenze. In europa, in particolare, le tendenze suddette sono attenuate dall’azione istituzionale svolta dall’UE. Nonostante ciò va premesso che se il corpo delle regole mano a mano vigenti è necessariamente variabile ed eterogeneo, tuttavia nel loro insieme i singoli diritti nazionali (specie nel campo del diritto privato) riflettono alcuni modelli fondamentali. Negli ultimi due secoli questi modelli sono essenzialmente costituiti dai due modelli francese e tedesco (ai quali si è aggiunta in epoca contemporanea, e su un piano che rimane ben distinto, quello americano) mentre rimane sullo sfondo l’antica radice del diritto romano comune, della quale comunque entrambi i modelli menzionati (soprattutto quello tedesco) recano abbondanti tracce. L’ancoraggio ai due principali modelli di civil law serve anche a ricordare come quasi tutte le esperienze giuridiche attuali siano in larghissima misura il frutto di vicende circolatorie e di influenze reciproche sviluppatesi in epoca recente. Anzi, giova sottolineare come le influenze dei modelli stranieri sui singoli diritti nazionali siano oggi in fase di crescita accelerata, sicchè lo spazio per ciò che è veramente autoctono è poco , e quel poco si sta ulteriormente riducendo. 2.SGUARDO GENERALE SULLA CIRCOLAZIONE DEL MODELLO FRANCESE Normalmente si considera “modello francese” ciò che è nato in francia. Ma la cultura giuridica francese e le prassi giuridiche francesi fanno parte integrante della tradizione di civil law e della tradizione giuridica occidentale ed hanno quindi dialogato intensamente con le altre culture e le altre prassi facenti del medesimo ambito. La francia quindi è stato anche paese di ricezione. L’influenza di idee giuridiche tedesche sulle teorie elaborate dalla dottrina francese, benchè ben maschereta, è stata piuttosto costante da Aubry e Rau in poi. Tuttavia il prestigio della francia come paese e la diffusa conoscenza della lingua francese hanno fatto sé che anche idee/istituti/regole originariamente non francesi siano state poi importate in altre esperienze perché erano state adottate in francia. In questo senso , il modello francese è tutto ciò che i non francesi hanno trovato in francia ed hanno imitato. Naturalmente la imitazione è selettiva e non comporta mail il ricalco dell’intero sistema giuridico. Sotto questo profilo il primo modello giuridico abbondantemente ciroclato all’estero è il “code civil”. Di questa circolazione esistono tre fasi. La 1^ , breve, legata all’espansione militare dell’impero napoleonico , ha portato il Code Civil nei Paesi Bassi, Italia, Germania Renana e Polonia. Conclusasi questa fase con la caduta di Napoleone Buonaparte nel 1815, si apre la 2^ fase in cui il code civil ha potuto intraprendere la sua vera carriere fondandola invece sul proprio prestigio. Il code civil è stato quindi conservato integralmente in Beglio all’indomani dell’indipendenza; in Olanda che ne ricalcò la struttura e le norme principali; in Italia ove venne tradotto nei codici del regno delle due sicilie, nel codice albertino e poi in quello unitario del 1865; in Spagna e Portogallo ; in Romania; in egitto (e da qui il code civil si è via via diffuso in molti paesi arabi). Influenze evidenti del code Civil si colgono anche in argentina e infine in Bolivia (il cui codice fu in larga msiura una traduzione del codice francese). Una 3^ fase riguarda la ricezione del modello codicistico francese in molti paesi che hanno conosciuto la dominazione coloniale francese, i quali lo hanno adottato subito dopo il raggiungimento dell’indipendenza. Nell’ambito di questa vasta diffusione il modello francese ha subito non poche diluizioni e pertanto uno sguardo al mappamondo porta a contemplare situazioni in cui esso non è null’altro che un vago ricordo, accanto ad altre in cui il modello francese continua ad essere fonte di ispirazione. Un esempio può essere offerto proprio dalla vicenda relativa alla ricezione dei modelli francesi in italia, di cui si dirà a breve. 3.SGUARDO SULLA CIRCOLAZIONE DEL MODELLO TEDESCO Si è già annunciato come il modello tedesco più abbondantemente recepito fuori dalla Geramnia, corrisponda all’insegnamento pandettistico. Accanto ad esso (ma con minor raggio di diffusione) si pone il BGB, il quale peraltro di quell’insegnamento è figlio. Inutile qui ripetere quanto si è già osservato circa il prestigio culturale delll’insegnamento pandettistico, il quale si presentava come genuinamente scientifico e godeva quindi del prestigio sapienziale connesso a tale carattere. Più specificatamente, la sua capacità di attrazione si è affidata al fatto di presentarsi come l’ultima e più moderna espressione della tradizione romanistica. Pur essendo assai più compatto del “modello francese”, il modello tedesco è andato anch’esso soggetto ad una vasta serie di distorsioni ed adattamenti in fase di ricezione. In quanto modello dottrinale circolante per l’intermediazione del formante omologo, l’insegnamento pandettistico ha dovuto affidarsi in ciascun paese ricettore alla forza della dottrina locale in relazione ad altri formanti. In alcuni casi l’insegnamento pandettistico è stato recepito là ove era precedentemente penetrato il modello francese ed i codici redatti sul paradigma del code civil. In tali circostanze l’insegmaneto pandettistico, in quanto fonte di regole materiali, ha dovuto arrendersi di fronte a soluzioni legislativamente sancite. Inoltre un modello dottrinale, molto più di un modello codicistico, può circolare in modo indiretto (ossia per il tramite di una altra dottrina nazionale) . In tale ipotesi le possibilità di distorsioni raddoppiano automaticamente. Infine, un modello dottrinale è soggetto a forme di sbiadimento legate al trascorrere del tempo ed al sopraggiungere dell’influenza di altri modelli. A tutti questi fattori si aggiunga il più importante: la dottina tedesca di questo secolo (soprattutto nel periodo tra le due guerre) ha voltato le spalle all’insegnamento pandettistico e ne ha completamente ripudiato il metodo e stile discorsivo; Grazie ai fenomeni di ricezione indiretta, alcune esperienze giuridiche si sono accostate al modello tedesco dopo che questo era appassito in patria; Gli ultimi paesi ricettori si sono quindi trovati in una situazione imbarazzante. Dagli anni ’30 in poi i giovani giuristi avviati in germania per abbeverarsi direttamente alla fonte di quella sapienza che affascinava i loro maestri rimasti in patria non trovarono affatto la fonte promessa, perché il modello tedesco era nel frattempo cambiato. Anche per ciò che riguarda la circolazione del modello tedesco l’esperienza italiana rappresenta un esempio SEZIONE SECONDA: LE VICENDE ITALIANE 1.LA RICEZIONE DEI MODELLI FRANCESI IN ITALIA A partire dalla conquista napoleonica dell’italia nel 1796 i modelli giuridici francesi si impongono in varie regioni d’italia come modelli rivoluzionari. Simbolo e suggello di tale ricezione imposta dalla forza delle armi napoleoniche è la ricezione dei codici predisposti in francia. Si può dire che già nel 1815 tutta l’italia (eccetto Sicilia e Sardegna) seguiva pedissequamente i modelli francesi. A questa prima ricezione derivante da imposizione politica ne seguì un’altra dovuta al prestigio di cui il modello francese era assistito. Gli stati italiani preunitari in effetti volevano dotarsi di strutture istituzionail più moderne e perciò desideravano dotarsi di un codice. Tra i due modelli possibili di codice civile allora esistenti preferirono quello francese anziché quello austriaco (e ciò nonostante essi si reggessero politicamente sull’appoggio , anche militare,austriaco). Il radicamento del modello francese in Piemonte fu decisivo per gli svolgimenti susseguenti, poiché il regno d’italia costituitosi nel 1861 adottò quasi spontaneamente i modelli giuridici in vigore nello stato sabaudo da cui era partito il movimento di unificazione nazionale e ciò, unitamente ad un generale sentimento di simpatia per la francia la quale aveva agevolato in modo decisivo l’unità di italia, condusse alla adozione di un codice civile (1865) strettamente analogo al modello francese nonché di un ordinamento amministrativo ricalcato su quello in vigore in francia. Inoltre la dottrina giuridica dell’italia unita seguì da vicino i modelli dottrinali francesi dando vita ad un periodo normalmente denominato come quello della scuola italiana dell’esegesi. Conviene però analizzare più da vicino che cosa abbia significato la ricezione del modello francese. Il modello francese è stato recepito in italia tra il 1796 ed il 1865 soprattutto come modello legislativo: sono state cioè le leggi ed i codici emanati in Italia (prima dagli stati preunitari e poi dal regno di italia) a ricalcarele leggi ed i codici francesi. Sulla scia della ricezione legislativa è intervenuta una ricezione dottrinale ben spiegabile con il fatto che i giuristi essendo coscienti di quanto il loro diritto positivo fosse una copia di quello francese si adattavano volentieri a considerare come autorità i commenti e le analisi della dottrina francese. Ma la ricezione del modello francese non fu completa. In effetti poca influenza ebbe la giurisprudenza francese. Non che le pronunce della “corte di cassazione” e del “consiglio di stato” siano rimaste sconosciute, ma la loro conoscenza avveniva prevalentemente attraverso la dottrina fracense che le citava. Di conseguenza per gli operatori del diritto italiani, la conoscenza (sia pure ridotta) della giurisprudenza francese avvenne attraverso il doppio filtro della dottrina francese e della dottrina italiana. Una circolazione del modello giurisprudenziale francese tra formanti omologhi non è affatto avvenuta: la giurisprudenza italiana non si è infatti ispirata a quella francese (la quale del resto godette di un prestigio infinitamente inferiore rispetto a quello della dottrina). Riassuntivamente si può dire che il formante giurisprudenziale francese ,nonostante abbia svolto un ruolo essenziale nel modello originale, non circola in italia. Per conseguenza, la giuripsrudenza italiana è rimasto pressochè immune dalle influenze dell’omologo formante francese. A parte una superficialissima imitazione stilistica rintracciabile nell’uso delle parole iniziali “atteso che” le sentenze dei giudici italiani non si sono mai ridotte ad un’unica ed elaborata proposizione. I giudici italiani hanno sempre fatto ricorso a pagine intere per motivare la propria decisione. In italia non si è mai creduto che il giudice debba decidere e basta. Del resto l’organizzazione giudiziaria italiana non ha offerto alla giurisprudenza quel prestigio che invece assisteva la giurisprudenza francese della cour de cassation. Anche quando l’italia fu unificata, non si ebbe l’energia necessaria per sopprimere del tutto le corti supreme degli stati preunitari, sicchè vennero conservate ben 5 corti di cassazione . Ora , 5 corti di cassazione sono in contraddizione con lo scopo istituzionale uniforme da parte della giurisprudenza. A questa situazione del tutto illogica si pose rimedio con una legge nel 1923 , ma quando ciò avvenne l’influenza dei modelli francesi in italia era ormai in netto declino. A parte quindi l’osservazione generale per cui il formante giurisprudenziale è meno atto alla circolazione transnazionale di quanto non siano i formanti legali e dottrinali, in italia il formante giurisprudenziale non è circolato neanche quando sia il formante legale che quello dottrinale erano in massima auge. La dottrina francese prevedeva una letteratura dialogante con la casistica giurisprudenziale. La dotrina della scuola italiana dell’esegesi dialoga invece moltissimo con la dottrina francese ma poco con la propria giurisprudenza. L’esegesi all’italiana fu quindi una scuola di interpreti poco rifornita di problemi e di soluzioni pratiche provenienti dalla casistica giurisprudenziale e, per conseguenza, più marcatamente appiattita sulla lettera della legge. A tal proposito è anche da osservarsi come il codice civile italiano del 1865 fu si un codice largamente tributario del modello offerto dal code civil, ma essendo giunto cronologicamente più tardi i suoi redattori tennero presenti tutte le innovazioni introdotte nel frattempo dalla giurisprudenza e dottrina francesi. Di conseguenza in italia si è avvertita in modo meno chiaro la necesssità di progredire oltre la lettera del codice, e la dottrina e la giurisprudenza italiana hanno avverito in minor misura la necessità di emanciaprsi dalle parole del legislatore, né hanno appreso l’arte di procedere a quelle sottili e ben velate forme di correzione ed integrazione del suo testo poste in atto dalla dottrina e dalla giurisprudenza francese. In realtà il modello francese è stato un modello difficile. Ad esempio non era agevole pretendere che gli italiani si accorgessero come dietro declamazioni di fedeltà alla legge tanto radicali vi fossero ricostruzioni ermeneutiche disinvolte: occorreva l’occhio d’acquila di Savigny per scorgere come “i più moderni giuristi francesi spesso illustrano e completano il loro codice in modo assai ben inteso con il diritto romano”. Gli altri non potevano accorgersi della grande finzione giuridica posta in essere e ritenevano in buona fede che il messaggio pervenuto dalla francia fosse quello di essere fedeli alla lettera della legge anche se essa pareva condurre a conseguenze poco ragionevoli. Insomma, mentre la scuola dell’esegesi in francia ebbe (al di là della povertà della metodologia proclamata) grandi meriti operativi, l’esegesi italiana non è stata affatto una dottrina progressiva, capace quindi di promuovere l’adozione di soluzioni innovative. E in effetti nella storia della nostra dottrina ottocentesca si registrano scrittori notevoli solo quando l’influenza tedesca aveva cominciato a mutare il panorama intellettuale. LA RICEZIONE DEI MODELLI TEDESCHI E LA RICODIFICAZIONE DEL 1942 Al confronto del modello francese, quello tedesco appariva piu semplice (trattandosi di un modello in cui tutto ciò che era possibile verbalizzare veniva espresso nei termini più precisi possibili). La prima ragione del rapido successo acquisito dai modelli tedeschi in Italia è da indicarsi nel fatto che essi in quanto modelli scientifici promettevano una maggior emancipazione dalle parole del codice, ed insieme promettevano in quanto modelli sistematici di avere in sé gli strumenti necessari per colmare le lacune del diritto senza dover attendere interventi normativi (interventi che, dal 1865 alla prima guerra mondiale furono quanto mai scarsi). Ma i motivi di attrazione furono molteplici: 1) La propensione dei professori di diritto romano ad attribuire alla loro disciplina un ruolo di guida nel rinnovamento del diritto patrio. Vi era in effetti un evidente interesse per tutti gli accademici a vedere di nuovo coniugato il ruolo di docente con quello di scienziato del diritto. 2) Il desiderio di liberarsi una volta per tutte di quell’esegesi all’italiana la quale non poche volte riusciva a peggiorare le leggi per via di interpretazione. Tuttavia la ricezione dell’insegnamento pandettistico fu due volte limitata. Gli scrittori tedeschi della scuola storica e della scuola pandettistica furono imitati dagli scrittori italiani, e la loro influenza tra gli operatori del diritto fu sempre filtrata dalla dottrina italiana. In secondo luogo l’imitazione dell’insegnamento pandettistico si verificò in un ambiente giuridico ormai completamente codificato ed in un’epoca di trionfante positivismo metodologico. I giuristi italiani affascinati dal modello tedesco furono quindi forzati a divenire campioni del metodo dell’inversione: proclamarono sempre che i concetti da essi elaborati erano null’altro che la sintesi di disposizioni normative vigenti, salvo poi incorrere invariabilmente nel “peccato contro lo spirito santo” e dedurre le regole dal sistema di concetti da essi creato anziché dalle norme positive. In simile contesto era comunque assai arduo forzare la lettera della legge al di là di certi limiti. Le soluzioni cardinali del diritto privato rimasero quelle , di origine francese, fissate nei codici vigenti. Si può dire che l’unico settore effettivamente conquistato dai modelli tedeschi rimase quindi l’università. Una completa ricezione dei modelli tedeschi si sarebbe potuta ottenere solo se anche i codici fossero stati riscritti ad imitazione dei codici tedeschi. Ma questo tipo di ricezione non venne attuata, segnalando come la ricezione del modello tedesco non abbia raggiunto una unanime adesione. Negli anni del regime fascista in effetti l’italia ha ricodificato (essendo confluite su quell’obiettivo il regime voglioso di spacciare i nuovi codici con la consacrazione di se stesso , il desiderio della dottrina universitaria di dare la misura della propria piena maturità e l’abitudine illuministica a pensare che le leggi nuove siano per forza migliori di quelle vecchie). Tuttavia le resistenze alla consacrazione di modelli tedeschi furono talmente forti da far sì che dal processo di ricodificazioni sortissero codici ibridi. Più specificatamente, per quanto riguarda il codice civile è da ricordare come le varie commissioni incaricate della ricezione del nuovo codice civile italiano furono unanimi nel rifiutare di seguire il BGB nei suoi aspetti più caratterizzanti nonché nella predisposizione di una parte generale. Inoltre la predisposizione del testo del codice fu affidata a troppe e troppo composite commissioni per poter presentare quei caratteri di impeccabilità di linguaggio, sostanziantisi nella eliminazione di tutte le anfibologie e nell’uso coerente dei medesimi termini con significati costanti, che rimane una delle acquisizioni della tecnica legislativa del BGB. Essenzialmente però difettava la volontà politica di mutare le soluzioni qualificanti del diritto patrimoniale provenienti dal modello francese ed ormai radicate nella prassi. Ricezioni di soluzioni tratte dal BGB si rintracciano nella disciplina delle persone giuridiche e qua e là in tema di disciplina di proprietà. In realtà il codice civile italiano del 1942 segnò un indubbio progresso solo nella parte realtiva al diritto delle obbligazioni e dei contratti. La risistemazione complessiva del diritto delle obbligazioni secondo uno schema unitario richiese ovviamente la rinuncia a redigere un separato codice di commercio posto il mantenimento di un codice separato ne avrebbe sacrificato l’unitarietà.
SEZIONE TERZA: UNO SGUARDO AI PRINCIPALI SISTEMI DI CIVIL LAW
1) L’ESPERIENZA SVIZZERA La codificazione svizzera fu opera di un solo giurista, Eugen Huber. A differenza di quanto accadde in Italia ove i modelli francese e tedesco si stratificarono l’uno sull’altro per successiva ricezione, l’esperienza svizzera presentava familiarità settoriali con entrambi, nel senso che alcuni cantoni conoscevano ed apprezzavano il modello napoleonico altri, avevano assimilato quello pandettistico. Il linguaggio del ZBG tende ad essere la lingua comune evitando il ricorso alla terminologia tecnica. Il dato di fondo è naturalmente la centralità del diritto delle obbligazioni nella visione tipica della tradizione della scientia Jiuris europea rinverdita dall’insegnamento pandettistico. 2) L’ESPERIENZA AUSTRIACA L’ABGB del 1811 è ancora oggi, sia pure in ofrma rimaneggiata, in vigore in Austria. Sotto il profilo storico l’ABGB fa parte, assieme all’ALR prussiano di quel gruppo di codificazioni illuministiche aventi le proprie radici negli aneliti di riforma dei sovrani settecenteschi. L’iniziativa di codificare il diritto civile degli Stati soggetti alla casa d’Austria fu assunta da Maria Theresia. L’ABGB ha abolito i diritti civili diversificati in funzione dello status delle persone ed introdotto il principio della capacità giuridica generale attribuita a tutti. Senza essere nullamente tributario del modello francese, l’ABGB realizzò gli stessi obiettivi cui pervenne il Code civil: modernizzazione ed uniformazione del diritto medinate un equilibrato amalgama tra la tradizione romanistica dell’usu modernus ed i sistemi razionalizzanti della scuola del diritto naturale. CAPITOLO DECIMO: L’EST EUROPEO SEZIONE SECONDA: IL PERIODO DEL SOCIALISMO Con la rivoluzione d’ottobre del 1917 il potere in Russia il partito operaio socialdemocratico russo, che dal marzo 1918 si chiamerà partito comunista (bolscevico) russo. N.b. parla un po’ di marx ed Engels con eloquenza. Lenin prese alcune misure che erano destinate a rimanere in piedi: cosi la laicizzazione dello Stato e del matrimonio, e la nazionalizzazione della terra. L’industria venne prevalentemente nazionalizzata. Nel 1921 il fallimento dell’economia ispirata a criteri comunisti suggerì al partito di rinunciare all’instaurazione del comunismo, e di adottare una “nuova politica economica” (NEP) che ripristinò la proprietà privata agricola e l’autonomia delle imprese industriali. Il potere comunista dovette operare una prima e fondamentale scelta, riguardante il rapporto fra la politica e il diritto. Bisognava vedere ogni decisione giudiziaria e amministrativa come un puro atto politico, condizionato dalle esigenze della rivoluzione. L’edificazione del socialismo e la marcia in avanti verso il comunismo avevano bisogno della coazione, operata dagli organi dello Stato, cioè avevano bisogno del diritto; e che il diritto era lo strumento essenziale del partito, cui la rivoluzione assegnava un ruolo esaltato. Si imponeva dunque l’instaurazione di un diritto imperativo, dettato dalla volotnà politica di un potere efficiente e consapevole, formulato come legge, e come tale reso pubblico, è questa la base del “principio di legalità”. La politica si serve del diritto per raggiungere i suoi scopi. Nel linguaggio dei sistemi in esame, un ordine giuridico si dice socialista solo se realizza la collettivizzazione dei mezzi di produzione. Il partito, ricorrendo alla propria dottrina politica, legittimava il potere e ne giustificava le scelte. Fin dalla rivoluzione d’ottobre, il partito vittorioso in Russia soppresse ogni altra formazione politica. L’unicità del partito veniva giustificata in quanto, eliminato il capitalismo, tutti i cittadini sono lavoratori, e hanno quindi identici interessi economici. Il partito proponeva il candidato (unico) per l’elezione ad ogni compito legislativo, politico, amministrativo e giudiziario, e controllava da vicino l’attività di tutti gli organi di Stato. SEZIONE TERZA: ALCUNI ISTITUTI-CHIAVE AL TEMPO DEL SOCIALISMO La costituzione di un paese socialista non formulava programmi giuridici precisi per il futuro ma conteneva piuttosto la proclamazione di vedute politiche, oltre un bilancio delle vittorie e delle conquiste operate “dai lavoratori” fino al momento della redazione. Le costituzioni venivano adottate dall’assemblea legislativa ordinaria e abrogavano ogni norma anteriore incompatibile. Le costituzioni dei paesi socialisti delineavano la natura e i poteri degli organi posti al vertice dello Stato. Fra essi si notava l’assemblea legislativa, ovviamente elettiva, monocamerale e bicamerale. Questo collegio era dotato di una commissione ristretta, che legiferava, richiedendo poi la ratifica del proprio operato all’Assemblea plenaria. Ma per ragioni pratiche l’Unione sovietica basò la propria organizzazione sull’autonomia delle diverse nazioni e sul rispetto delle varie lingue nazionali. Il carattere federale poneva problemi di uniformità giuridica nell’area del diritto civile, della famiglia, penale, processuale, ecc. Dal 1936, l’Unione adottava “Basi di legislazione” da applicare alla materia data. Partendo dalla definizione di Jhering secondo cui il diritto è un interesse protetto da un rimedio giurisdizionale. Nella dogmatica socialista il lavoratore ha un interesse che prevale su ogni altro, e cioè l’interesse alla liberazione dallo sfruttamento; si tratta di un interesse di classe, comune a tutti i lavoratori. (parla di Jhering). I testi costituzionali enunciavano il diritto di non aderire ad alcuna religione, e sottolineavano il diritto di svolgere propaganda antireligiosa; menzionavano il diritto di professare una data fede, ma tacevano del diritto di propagarla. In Unione sovietica la norma giuridica non conosceva le Chiese e si indirizzava alle unità parrocchiali, chiamate associazioni religiose di credenti, le quali eleggevano il proprio amministratore. Le associazioni potevano operare solo dopo aver ottenuto la registrazione. All’associazione era vietata ogni attività produttiva, ad esempio la stampa di libri religiosi. L’attività religiosa Il matrimonio era monogamico, laico e dissolubile; il divorzio era connesso al venir meno del legame affettivo; marito e moglie, padre e madre avevano pari diritti; avevano pari diritti il figlio legittimo e quello nato fuori del matrimonio; il potere parentale era attribuito ai genitori perché lo esercitassero nell’interesse del figlio. Il diritto è socialista quando sottrae i mezzi di produzione al proprietario privato e li collettivizza. Nel diritto socialista è primordiale la distinzione fra i mezzi di produzione (terra, capitali) che servono per produrre ulteriori beni, e i beni di consumo che servono per soddisfare immediatamente un bisogno dell’uomo (cibo, casa e vestiario). In via di principio, i mezzi destinati alla produzione industriale debbono appartenere allo Stato. La gestione di questi mezzi è affidata ad imprese di Stato create ad hoc. I mezzi di produzione agricoli furono proclamati propri del lavoratore agricolo; questi venne indotto ad unirsi ad altri per formare una cooperativa. Il lavoratore impiegava il proprio salario per procurarsi i beni destinati a soddisfare immediatamente i suoi bisogni: cibo, abiti, beni culturali. Su questi beni egli aveva un diritto di proprietà personale. La permanenza di una proprietà personale poneva il problema della successione per causa di morte. Fu accolta l’idea di una successione legittima, all’interno della famiglia, e di una successione testamentaria. Alla produzione provvedeva l’impresa di Stato che agiva nell’area industriale e la cooperativa che agiva nel campo agricolo. L’attività dell’impresa di Stato era intermanete soggetta al piano di Stato, suddiviso in piani territorialim in piani di settore, e infine nei piani concretamente operanti, formulati per la singola impresa (narjad). Le due imprese coinvolte in un’operazione di scambio dovevano concludere, in base ai rispettivi obblighi di piano, un contratto. Tornando alle regole socialiste comuni, la cooperativa agricola non era legata ad un narjad. Peraltro, i prezzi delle derrate agricole erano regolamentati dall’autorità e gli organi dello Stato deputati alla raccolta e alla distruzione dei prodotti agricoli stipulavano all’inizio dell’anno contratti d’acquisto dell’intera produzione della data cooperativa, in tal modo conformando i programmi della cooperativa al paino dello Stato. Al commercio internazionale non accedeva direttamente l’impresa di Stato, la quale doveva affidarsi ad un organo statale ad hoc. Le corti giudiziarie ricalcavano nelle grandi linee quelle dei paesi continentali occidentali. La tradizione russa conosceva bene la figura del Profurator, “l’occhio dello zar”; a lui facevano capo i compitit di promuovere e controllare l’attività di tutti gli organi amministrativi dello Stato , di promuovere l’attività del giudice penale. Il giudizio penale e civile era deciso da un collegio, formato da alcuni giudici a tempo pieno e da un maggior numero di giudici popolari occasionali. La sentenza era manifestazione di sovranità, e perciò la parte non poteva appellarla. Però la Proguratura aveva poteri di controllo e quindi poteva chiedere il riesame del caso; e di fatto la parte poteva rivolgersi alla Prokuratura per ottenere da essa l’esperimento dell’iniziativa. SEZIONE QUARTA: L’EST EUROPEO DOPO IL PERIODO SOCIALISTA Con la seconda metà del 1989 il partito comunista perde il monopolio del potere politico e la funzione direttiva. La dottrina che lo sostiene perde la capacità legittimante nei confronti dello Stato e dei suoi organi. Quasi ovunque il partito viene sciolto. Il socialismo cessa di essere l’obiettivo politico del potere. Abbandonata la via socialista, i Paesi dell’area considerata hanno fatto proprie le soluzioni liberali vittoriose in occidente. Ovunque si redigono costituzioni scritte non modificabili dal legislatore ordinario e garantite da una corte costituzionale, o si ristrutturano a questo fine la costituzione del periodo socialista. Ovunque si proclama il principio di legalità e l’indipendenza del giudice. Tuttavia, elementi fuori dal quadro si notano in Russia. La costituzione (12 dicembre 1993) prevede, oltre la libertà religiosa, la laicità dello Stato. Il ruolo della giurisprudenza nella creazione del diritto non è uniforme. Abbiamo già visto che la piramide delle fonti scritte è sormontata da una Costituzione, che il legislatore ordinario non può modificare. La costituzione distribuisce i poteri di vertice, con il Presidente, Parlamento, quest’ultimo eletto con il sistema proporzionale. Ovunque, il parlamento è chiamato a fare leggi e il governo a fare decreti. Ovunque lo Stato è tendenzialmente laico, ciò vale anche per le repubbliche asiatiche, abitate da popolazioni musulmane. Il giudice è soggetto alla legge; è reclutato per via burocratica, e conserva le funzioni per tutta la vita. L’amministrazione è legata al principio di legalità, in Russia è rimasta in piedi la Prokuratura (già zarista e poi socialista). Le regole sulla famiglia sono quelle, moderne e aperte, cui era pervenuta la legislazione socialista più recente. Va da sé che, con l’abbandono del socialismo, è pienamente conforme a diritto la proprietà privata dei mezzi di produzione. CAPITOLO UNDICESIMO: IL DIRITTO DEI PAESI ISLAMICI Nei primi decenni del VII secolo dopo Cristo, un profeta arabo, Maometto insegnò una dottrina religiosa, imperniata su una rivelazione poi raccolta nel testo chiamata Corano. Precetti contenuti nel corano = saria = diritto. in quest’opera sono enunciati i precetti cui il credente deve attenersi, e questi precetti costituiscono la saria, ossia la via da seguire in fatto di preghiere, di digiuno, di ritualem di elemosine, di vita familiare, e cosi via. Per il musulmano, questa precettistica viene da Dio, ed è esaustiva di tutti i doveri che Dio impone al credente. Poiché viene da Dio, non può essere mutata. Nessuno potrebbe proporne una modifica anche perché la comunità islamica non possiede una vera e propria gerarchia, nell’ambito della quale i personaggi di vertice possano indicare la verità e creare regole di condotta vincolanti. La rivelazione coranica è autosufficiente. Non esistono fonti di verità e di giustizia fuori di essa. Se una situazione, apparentemente, non è regolata nel Corano, provvederà l’interpretazione a decifrare le scritture e reperire la soluzione. Il musulmano vede nella saria un sistema giuridico, anzi il modello giuridico insuperabile. Nella concezione islamica non c’è posto per una società laica, che si affianchi e si coordini con la Comunità dei credenti. Il musulmano che si proponga di studiare il diritto studia la saria. La quinta parte della popolazione mondiale si professa musulmana, e con ciò afferma di consentire al valore della saria. La laicizzazione del diritto è totale, per il momento, in Turchia, e lo è stata, in passato, nelle repubbliche ex-socialiste abitate da musulmani. Moltissimi paesi hanno occidentalizzato il diritto in genere, ma rispettato lo statuto personale (cioè le regole sulla famiglia). La saria è una precettistica rivelata da Dio agli uomini per regolarne la condotta. La conoscenza di questa saria è affidata al faqih. Prima fra le radici o fonti del fiqh è il Corano. Seconda fra gli usul del fiqh è la Sunna, cioè la condotta del profeta, ispirata da Dio e quindi esemplare. Non può ipotizzarsi che la Comunità (Umma) di tutti i musulmani convenga su un errore. Se ne ricava che l’interpretazione data alle due fonti primarie dal consenso di tutta la Umma è incontrovertibile. Quarta e ultima fonte del fiqh è il qiyas, paragonabile alla nostra analogia. Sebbene l’importanza dell’unità sia sempre stata riconosciuta da ogni musulmano, all’interno dell’Islam si sono create gravi divisioni. Si è cosi formato un Islam sunnita, un Islam sciita e un Islam kharigita. Fra i seguaci dei diversi orientamenti si sono svolte e svolgono lotte cruente. Le differenze teologiche vertono sul fondamento del valore della sunna e dei precetti che essa consegna ai credenti, sul modo di selezione dell’Imam, guida dei credenti, nonché sulle sue prerogative. L’Islam sunnita prevale largamente tanto in Asia quanto in Africa. L’Islam sunnita prevale largamente tanto in Asia quanto in Africa. L’Islam sciita domina in iran e ha un seguito importante in Iraq e Siria. Il kharigismo è minoritario SEZIONE SECONDA: LE GRANDI REGOLE DELLA SARIA Le ripartizioni in uso in occidente per distinguere le varie branche del diritto (diritto internazionale, costituzionale, privato, ecc.) non coincidono sempre con quelle utili per illustrare la concezione sciaraitica dello Stato e del diritto. nella concezione islamica, i credenti nel loro insieme appartengono ad un’unica e grande Comunità, la Umma islamica. Al vertice della Umma si dovrebbe trovare l’Imam, guida dei credenti, detto anche Califfo, cioè vicario (di Maometto). Secondo gli sciiti, egli beneficia di legami stretti con Dio, si da essere infallibile; ma da tempo l’imam, nascosto, non appare agli occhi degli uomini. La dottrina ha illustrato quali siano le procedure per la nomina dell’Imam. Egli può essere scelto dal predecessore, o può essere eletto dalla comunità unanime. La scelta deve cadere su un musulmano libero, pubere, sano e maschio. Eventuali vizi di procedura nella nomina del Califfo possono porre problemi, che il pensiero islamico risolve con realismo. Il Califfo nomina tutti i coadiutori necessari, e prepone alle pubbliche funzioni chi di dovere, in particolare i giudici. La comunità islamica è destinata ad assumere un ruolo ordinante in tutto il mondo. La religione non prevede il ricorso alla violenza per convertire l’infedele. Peraltro un’azione armata è prevista a favore dell’ordine islamico. La dottrina delle persone è imperniata su una triplice contrapposizione: fra il musulmano e il non musulmano, fra il libero e lo schiavo, fra l’uomo e la donna. Sanità e pubertà incidono sulla capacità. La pienezza dei diritti politici compete solo al musulmano. Poiché il matrimonio attribuisce al marito un potere sulla moglie e sui figli, non si consente al cristiano o all’ebreo di sposare la musulmana, mentre il musulmano potrà sposare la cristiana o l’ebrea. Il politeista, l’idolatra e il non credente non hanno tutela giuridica. Non solo sono esposti alla guerra santa, ma inoltre in quella sede sono destinati alla morte o alla schiavitù. La contrapposizione fra il libero e lo schiavo tende a perdere importanza in un’epoca in cui l’Islam enfatizza l’importanza del proprio apporto alla lotta antischiavista, consistente nell’elogio dell’atto di emancipazione. È invece centrale, nella saria, la contrapposizione in diritto della donna e dell’uomo. La donna è vista come un personaggio bisognoso di protezione. Il diritto alla protezione sarà inseparabile dal diritto al matrimonio, dal diritto al mantenimento, e da un certo rapporto di subalternazione all’uomo. Per agevolare alla donna il matrimonio, sarà consentito all’uomo di avere fino a quattro mogli contemporaneamente. Il diritto della donna al mantenimento avrà come contrappeso la riduzione dei diritti ereditari della donna ( il figlio è chiamato alla successione in misura doppia rispetto alla figlia). La considerazione della donna appare ridotta anche a proposito della capacità di testimoniare ( la sua testimonianza vale la metà di quella dell’uomo) e della misura della responsabilità civile ( la penalità da versare per morte o lesione della donna è dimidiata). La donna non può adire cariche o dignità religiose che implichino un potere giudiziario, o di guida alla preghiera, di predicazione. La famiglia islamica è fondata sull’autorità del padre e del marito. Tuttavia non mancano norme complementari e integrative di segno diverso. Ad esempio il bambino, fino a sei anni, è soggetto ad un autonomo diritto materno. Il matrimonio è un accordo fra il pretendente e la controparte. Quest’ultima si identifica nel wali, ossia nell’uomo che ha il potere sulla donna. La saria non prevede, per il matrimonio, un’età minima prefissata. Il consenso matrimoniale verte sul vincolo che viene contratto e sul mahr, corrispettivo posto a carico dello sposo. La saria regola il concubinato, rapporto praticato fra il padrone e la schiava, rilevante se da esso nascono i figli. L’uomo può avere contemporaneamente fino a quattro mogli. L’uomo pouò far cessare il matrimonio in qualsiasi momento mediante il ripudio. I beni dei coniugi sono separati. La donna amministra liberamente i propri beni; il consenso del marito è pero richiesto per le donazioni. La presunzione di maternità si ricollega al matrimonio. La struttura della famiglia condiziona le regole sulla successione per causa di morte. I chiamati all’eredità sono indicati direttamente dalla saria. Entrano nella successione gli eredi “coranici”, per lo più non agnati (fratello, sorella) e quella agnati (figli, fratello consanguinei e loro discendenti per via maschile). Una regola cardinale impone che la figlia riceva la metà di ciò che riceve il figlio. La saria conosce e considera fondamentale il diritto di proprietà individuale. La dottrina elabora distinzioni di beni ed elabora la distinzione fra il capitale e il reddito. Fra i modi di acquisto della proprietà deve ricordarsi la bonifica delle terre inutilizzate. Sono note anche le forme di proprietà collettiva e comunitaria, fino alla proprietà che compete all’intera comunità islamica. Un modo peculiare di destinare i beni consiste nel vincolarli mediante waqf, sorta di fondazione pia, o di patrimonio legato ad uno scopo. Il waqf rende utili servizi al’autonomia privata, perché consente di rendere indisponibile il bene, di sottrarlo al regime ereditario e di riservare le utilità contenute nel patrimonio del fondatore a persone diverse da quelle indicate dalla regola successoria. Vietati sono i waqf di famiglia La saria conosce bene la figura dell’illecito penale, distinta dall’illecito civile. La distinzione di base sussiste tra i delitti che comportano il taglione, quelli che comportano una pena fissata dal Corano, e quelli che danno luogo ad una sanzione rimessa al giudice. Il taglione potrà essere sostituito dalla composizione (prezzo del sangue), chiamata diya, la cui misura è basata sulle qualità personali (libertà, sesso) e sociali della vittima, e non sulla perdita patrimoniale causata. La diya interviene in casi di omicidio e di lesioni personali. Le pene coraniche (morte, amputazioni, fustigazione) colpiscono l’apostasia o la ribellione all’Islam, il consumo di bevande alcooliche, il brigantaggio e il furto, i rapporti extraconiugali illeciti, la falsa accusa di rapporto extraconiugale illecito. Gli altri reati (falsa testimonianza, falsificazione di documenti, alterazioni di pesi) danno luogo a pena giudiziale (reclusione, fustigazione, misure infamanti). Dopo i primi tempi la Comunità islamica rimpiazzò l’arbitro tradizionale con il qadi, chiamato alla funzione giudiziale. La fonte del suo potere è la delega del Califfo. Il qadi è giudice monocratico. Può delegare altri giudici ed il suo giudizio è inappellabile. La sentenza non è motivata. E non esiste un principio che vincoli il giudice al precedente. La siyasa. La dottrina islamica riconosce che l’autorità legittima, per esercitare le proprie funzioni, deve emettere ordini e imperativi; questi potranno essere rivolti ad una singola persona affiche compia un singolo atto, o avere invece un contenuto generale e astratto, essendo volti a regolare un numero indefinito di situazioni per un lasso di tempo indeterminato. Esse costituiscono la siyasa. Si contrappone alla siyasa zalima, atto di governo ingiusto. Ordine volto ad assicurare l’ordine interno. L’immutabilità della saria e lo scarso dinamismo della siyasa sono state e sono gli involontari alleati dell’attivismo dei legislatori dei paesi abitati da popolazioni islamiche. Beninteso, il potere politico ha una indiscussa investitura a dare appoggi all’attuazione del diritto. Esso può legittimamente rivolgersi al giudice dandolgi istruzioni che non si considerano eterodosse. Ma in tutti i paesi islamici l’attività del legislatore va ben al di là di questi limiti, soprattutto in dati settori. CAPITOLO DODICESIMO: DIRITTO INDIANO Il sistema presente in India risulta dalla sovrapposizione di un diritto autoritativo recente, di fonte statuale, a complessi di norme tradizionali personali, applicabili ai vari gruppi (ognuno dei quali è caratterizzato dalla rispettiva religione), e a mal conosciute regole popolari locali, parimenti tradizionali. Fra i gruppi presenti in India primeggia per importanza la comunità induista, che raccoglie almeno l’80% della popolazione. Ad essa si contrappongono i musulmani, i buddisti e i cristiani. Il connotato principale del diritto attuale dell’India consiste nella compresenza, in un unico ordinamento, di un diritto-quadro laico e atutritativo, largamente tributario dei modelli inglesi e comunque occidentali, e di diritti diversi, tradizionali e personali. Il diritto indu ha tra questi un’importanza speciale, sia perché è applicabile alla comunità più numerosa del paese. Il diritto indu legato alla religione induista può vantare una lunga storia, interrotta da varie cesure che si perpetua attraverso tre millenni. I testi sacri della religione sono chiamati Veda. L’ordine cosmico superiore agli dei, consta di regole non tutte penetrabili. L’uomo deve fare i conti con esso per proteggere il corso della propria vita. I Veda rivelano le verità che interessano l’uomo; essi sono di ispirazione divina, ma contengono opinioni del sapiente che ha intermediato la rivelazione. L’aderenza ai precetti che seguono a questa premessa è la virtù. Il mondo e la vita evolvono con il tempo. Quattro periodi si sono alternati, di cui ognuno rappresenta un regresso rispetto al precedente. Noi viviamo nella quarta e ultima epoca, immersi nelle condizioni di massima barbarie. Un secondo caposaldo riguarda le personem ognuna delle quali è strettamente e irrevocabilmente legata alla casta cui appartiene. Alle caste competono compiti, gratificazioni e doveri diseguali. La qualità sacerdotale era ereditaria, e legata essa stessa ad una casta. Alle contrapposizioni castali fa riscontro la discriminazione tra i sessi. Alle donne è negata l’immortalità. Un terzo caposaldo riguarda le regole di condotta. Esse presiedono rispettivamente al perfezionamento etico dell’uomo, al conseguimento dell’utile, e allo sviluppo del piacere. Il dharma p un insieme di precetti che sono ad un tempo religiosi (si estende alle penitenze che seguono al peccato, all’offerta dei sacrifici), etici (ospitalità, elemosine), e di prevenzione o composizione dei conflitti (capaci di ispirare al diritto). questi precetti fissano la condotta che l’uomo deve tenere, ma non si preoccupano di preordinare sanzioni. Il precetto varia secondo la condizione sociale, lo status e l’età del destinatario. Il precetto non è stato pensato o voluto da nessuna mente. Si considera come una proiezione dell’ordine cosmico. I testi vedici sono testi religiosi, che predicano una data mentalità e con ciò ispirano regole giuridiche. Bisogna evitare di dire che il diritto indù di matrice religiosa è un diritto scritto. Nelle condizioni descritte, nessun credente e nessun giudice potrebbe pensare di consultare il corpo di tutti i trattati di dharma esistenti. Si è sempre sentito il bisogno di opere sistematiche ausiliarie, che aiutino a dedurre dal dharma regole applicabili. A nessuna altra fonte piò essere riconosciuta quella speciale dignità, collegata con l’origine soprannaturale, che è propria ed esclusiva del dharma. Perciò nessuna fonte diversa dal dharma formerà oggetto di uno studio sapienziale, né di una scienza. Queste fonti, che il dharma tollera senza però elevarle al proprio rango, sono numerose, e hanno natura molto varia. A) la consuetudine, storicamente questa si presenta come una norma spontanea, praticata prima ancora che le regole scritte del dharma si diffondessero nel mondo indiano. La consuetudine era autosufficiente. B) coscienza, giustizia, equità. L’interprete decide tenendo conto della propria coscienza, cioè secondo l’immagine che si è dato della giustizia e dell’equità. C) legge. Il principe è un personaggio chiave nel mondo induista. Egli è sottoposto al dharma. Ha il compito potere-dovere di rendere giustizia, ossia di intervenire con forza e con la minaccia della pena. Poiché è garante dell’ordine, deve poter legiferare nel campo amministrativo, procedurale e fiscale. D) giurisprudenza. Il giudice è un personaggio rispettato e responsabile. Può discostarsi dal dharma, se ciò è necessario per evitare soluzioni troppo spigolose, ma non può modificare il dharma. Non esiste nella tradizione induista, l’avvocato Tre gradi di giurisdizione assicurano l’applicazione della norma sacralizzata e garantita dal principe. La giustizia regia convive con una giustizai gestita da tribunali popolari, disposti su tre livelli. Ma ogni casta ha la sua assemblea. Il processo si svolge con una meditata valutazione delle prove: scritte, testimoniale e ordaliche. SEZIONE SECONDA: VICENDE DEL DIRITTO INDU’ E DI QUELLO ISLAMICO IN INDIA La pressione islamica sull’India iniziò per tempo, e acquistò importanza dal 1001. Il potere islamico, una volta stabilizzatosi, non volle essere aggressivo nei confronti degli indù. Dopo esitazioni, li considerò come adoratori del vero Dio, e li trattò come gli ebrei e i cristiani. Essi mantennero le proprie giurisdizioni. Fino al 1726, mancarono regole sulle fonti da applicare nelle aree controllate dai britannici. L’autorità coloniale aveva certo il potere di legiferare, ma non si interessava al diritto privato né ai rapporti fra indiani. Con il 1726, l’India viene a sdoppiarsi. Da una parte abbiamo i territori di Bombay, Calcutta e Madras (Presidency Towns), direttamente soggetti all’amministrazione britannica, che vi insediò Corti giudiziarie regie; dall’altra parte operavano corti della Compagnia delle Indie. Si può ben immaginare che il diritto inglese aveva un’applicazione più ampia nelle Presidency Towns. I giudici regi delle Presidency Towns erano competenti solo se una delle parti era britannica; e applicavano il diritto inglese solo in assenza di specifiche Regulations. I britannici, divenuti i controllori del subcontinente indiano, vi insediarono giudici metropolitani. Questi dovevano applicare, in date materie, e a date persone, il diritto territoriale adottato dalle autorità coloniali; ma per il resto, se le persone da giudicare erano induisti, o equiparati, intendevano applicare il loro diritto personale. I britannici pensarono di raccogliere il diritto indù e codificarlo, ma l’iniziativa non ebbe seguito. Il risultato della parziale anglizzazione del diritto indù portò, sul piano sistemologico, varie mutazioni notevole. In primo luogo, l’elemento tratto dal dharma assunse l’andatura di una qualsiasi norma statale-positiva. In secondo luogo, la consuetudine, di cui si riaffermava la piena applicabilità venne sospinta in posizioni marginale, per quanto riguarda il diritto praticato dalle corti. In terzo luogo, la consuetudine ebbe ora come diritto rivale e alternativo non già un diritto celeste, ma una fonte giudiziale. Con l’indipendenza, l’India si separa dal Pakistan e dal Bengala, e il diritto personale indù diventa il diritto della grande maggioranza della popolazione indiana. Il momento dell’indipendenza è il momento in cui si generalizza, a beneficio degli indiani, l’applicazione di quei principi di uguaglianza e dignità umana che la tradizione giuridica occidentale ha divulgato nel mondo. La Costituzione del 1950 ha infatti ripudiato pienamente il regime delle caste SEZIONE TERZA:IL DIRITTO TERRITORIALE IN INDIA La prima Indian Law Commission fu insediata nel 1835, e prese progettare un codice penale. La commissione intraprese un’opera di codificazione di regole conformi al modello inglese. Leggi furono adottate in materia di contratti, di prove, di trasferimento della proprietà, sul trust, sui titoli di credito. L’opera di legislazione penetrò anche nei settori che riguardavano le persone, la famiglia e le successioni. Le leggi territoriali introdussero in India grossi nuclei di diritto inglese. Chiunque si occupi del diritto in India si sente legato all’idea del precedente. La recezione dei caratteri giuridici inglesi basilari non significa che il diritto indiano imiti servilmente il modello inglese. Nel momento della più intensa attività legislativa, il diritto indiano appariva come un diritto inglese modernizzato. L’indipedenza del paese ha tagliato fuori dall’India le masse musulmane, riducendo i grandi protagonista della vita giuridica indiana a due: il diritto ( a base legale) territoriale e il diritto indù. In virtù della costituzione, l’India è una federazione di 28 stati. Ogni stato opera le proprie scelte linguistiche; a livello federale, la lingua unificante dovrebbe essere lo hindi, e si augura ch’esso sostituisca l’inglese. L’India è aperta alle codificazioni. Lo testimonia un articolo della costituzione, che auspica la promulgazione di un codice civile unificato per tutta la nazione. Al vertice della piramide giudiziaria si trova la Corte suprema federale, con sede a Nuova Delhi. La Corte suprema ha una molteplicità di funzioni. In primo luogo opera come Corte Costituzionale, pronunciandosi sulle eccezioni di incostituzionalità e intervenendo quando sia violato un diritto fondamentale garantito dalla Costituzione. In secondo luogo giudica come giurisdizione di ultima istanza per le cause civile. La Corte non è tenuta a rispettare i propri precedenti. Ogni altra corte è vincolata all’insegnamento della Corte suprema. CAPITOLO TREDICESIMO: IL DIRITTO NELL’ASIA ORIENTALE Il pensiero filosofico cinese trova la sua espressione più rappresentativa in Confucio. La concezione cinese dell’ordine sociale si ricollega all’idea di un ordine cosmico basato su un’interazione fra cielo, terra e uomini. L’ordine è turbato se va perduta l’armonia che deve esistere fra l’uomo e la natura, o se manca l’armonia tra gli uomini. I rapporti sociali dovranno essere basati sul consenso, rigettando la ricerca di condanne, di sanzioni, di decisioni prese a maggioranza. Il ruolo assegnato al diritto non è basilare. Il cittadino non deve preoccuparsi di far valere in primo luogo i suoi diritti. Deve invece essere pronto a contemperare il proprio interesse con quello degli altri. L’invocazione della norma come puntello del proprio egoismo deve essere scoraggiata. Il “li arcaico” indicò un rituale religioso, poi gradatamente diventò una regola di comportamento rivolta alle attività pubbliche e private. Con Confucio e i suoi seguaci, il li viene dotato di una nuova legittimazione, e viene ridotto in regole scritte. Il li regola la successione al trono e prevede ai bisogni del diritto alto. I li sono immutabili, e non sono l’opera di un legislatore. Il fa è circondato da diffidenza e sfiducia. Colui che invocasse un fa in contrasto con il li si esporrebbe ad una riprovazione da parte della pubblica opinione. Per giustificare la durezza del fa, si dirà che esso è necessario nei confronti dei criminali incorreggibili, o nei confronti di barbari, di stranieri, di persone estranee alla cultura cinese, che non è facile sottomettere ai riti e alla tradizione del paese. La fonte del fa è la volontà dell’imperatore. L’imperatore è figlio del Cielo, ed ha un mandato celeste; il mandato gli verrà revocato se egli non sarà virtuoso. La legge, norma punitiva, repressiva, contingente, non è redatta da un dio ( si veda la differenza rispetto al diritto ebraico e islamico). L’ordine della società cinese è affidato in larga misura al fen, principio di giustizia distributiva. E il fen garantisce le disuguaglianze fra i soggetti. La filosofia illumina le regole che condizionano il reclutamento degli amministratori e la loro promozione. Il padre ha potere sui figli e nipoti, che gli devono pietà filiale; il figlio non ha poteri sui beni, ubbidisce al capofamiglia in tutto (ad esempio, nella scelta dello sposo). Il capofamiglia è personalmente responsabile per la condotta di chi gli è soggetto. Il marito ha autorità sulla moglie. Il matrimonio è monogamico, ma l’uomo può avere concubine (o spose secondarie), dotate di un rango servile. Il diritto cinese com’è stato fin qui illustrato è in parte falso; esso è stato finalmente ricostruito in modo diverso, e valutato in base a criteri nuovi. Il li conteneva regole sociali la cui osservanza era ben garantita. Queste regole costituivano un sistema giuridico. Il li si applicava alla classe egemone, sottratti alla durezza del fa. Il li aveva origini consuetudinarie; Confucio e i suoi seguaci per meglio studiarlo lo misero per scritto. Il fa non era per nulla una regola marginale, o d’eccezione. Era un pilastro fondamentale della via cinese, anche se non appare sponsorizzato dalla filosofia. Questo diritto scritto regola, oltre la materia delle pene, anche l’amministrazione; esso è dunque il diritto di cui si serve il potere pubblico. La Cina come tante altre aree nel mondo, è un paese di consuetudini, note tanto al magistrato imperiale quanto ad organi di giustizia più vicini alle strutture sociali decentrate. Al vertice della società troviamo il principe che da una certa epoca in poi è l’imperatore di tutta la Cina. L’obbedienza all’Imperatore è un cardine dell’ordine cinese. Peraltro il principe è soggetto ad un ordine naturale ch’egli stesso non può modificare e non deve violare. Il carattere non assoluto del suo potere è bene rispecchiato dall’affermazione secondo cui il suo mandato è revocato se egli non è virtuoso. Il diritto cinese non è laico. La vita cinese è impregnata di religiosità che influenzano da vicino la vita degli uomini e indirizzano agli uomini imperativi etici. L’imperatore aveva il potere di legiferare, ossia punire a mezzo del fa. Il potere veniva dal Cielo. I mandarini insegnavano al popolo che quel principe era figlio del Cielo. I mandarini non erano né sacerdoti né teologi. Ma erano maestri di verità che affondavano le radici nel sacro. La casta godeva di privilegi. Il funzionario non era soggetto alla sanzione penale, purchè si riscattasse con il pagamento di una multa. La casta dei mandarini era retta dal principio della disuguaglianza sociale, nel senso che, nella piramide della burocrazia, il funzionario di grado inferiore era sottomesso al funzionario di grado superiore. La Cina era amministrata tramite un certo numero di organi centrali. Fra questi figuravano: un collegio formato da aganti prossimi dell’imperatore, che si occupava delle questioni relative alla famiglia del sovrano; un collegio formato dai ministri e da altri funzionari di vertice; i sei ministri; la censura. La giurisdizione era mal distinta dall’amministrazione, com’è naturale la dove manca il giurista di professione. la disciplina sociale era garantita dalla sanzione penale. Le pene erano atroci. Alla base della società troviamo. Il matrimonio era concordato tra partenti, e creava un vincolo fra le due famiglie. La moglie non portava la dote. Il marito poteva ripudiare la moglie, ma non viceversa. Solo i maschi succedevano per causa di morte. Il testamento era sconosciuto. SEZIONE SECONDA: IL DIRITTO CINESE MODERNO Nella prima metà del XX secolo la Cina si è aperta ai modelli europei, e l’impero ha fatto alla repubblica. Dal 1902 furono compiuti sforzi per riformare il codice tradizionale cinese. Nel 1910 fu pronto un codice che rifiuta la pena della fustigazione, e depenalizza il diritto matrimoniale, dei beni e successorio. Dal 1912 al 1927 il governo diretto da Ciang kai shek promulgò vari codici, visibilmente ispirati ai modelli europei. Fu cosi programmata la redazione di sei codici, il cui numero è stato elevato, strada facendo, a undici: la costituzione, i codici civile, dei commercianti, penale, di procedura civile e di procedura penale, le leggi agrarie, delle società, dei titoli di credito del commercio marittimo, delle assicurazioni. Il codice civile risente dei modelli tedesco, giapponese e svizzero. Conforme alla tradizione cinese, il sistema delle fonti fece posto ai precedenti giudiziari. I tribunali vennero organizzati in tre livelli di istanza; i giudici erano professionali, con esclusione di ogni giuria. La parificazione della donna e dell’uomo nel diritto successorio, il garantismo processuale, il meccanismo della giustizia amministrativa, l’abolizione della tortura. Nel 1954 la nuova costituzione ricalcava la costituzione staliniana del 1936. Nel 1980 entra in vigore il codice penale in 192 articoli. Con inizio del 1982 si è legiferato a gran forza. Sono state promulgate leggi sui contratti economici, sui marchi, sui brevetti d’invenzione, sulle imprese, sul diritto d’autore. La costituzione nel 2004 ha posto punti fermi in materia di proprietà. Attualmente al vertice troviamo l’Assemblea nazionale popolare, elettiva, dotata dei poteri legislativi, e chiamata a nominare i grandi personaggi dello Stato (presidente, ministri) e a prendere le somme decisioni politiche. Il presidente della repubblica e il consiglio di stato ( governo formato da una presidenza e dai ministri) sono al vertice del potere esecutivo. È importante altresì la commissione centrale militare. Le assemblee locali del popolo (elettive) e i governi locali del popolo (organi esecutivi delle assemblee) sono gli organi periferici del potere amministrativo. I tribunali sono distribuiti ai vari consueti livello, fino al Tribunale supremo. Il diritto penale proibisce il ricorso all’analogia. Il matrimonio è fondato sul consenso dei coniugi, ed è regolato sulla base della monogamia, dello scioglimento in caso di caduta del vincolo affettivo, della parità di diritti fra l’uomo e la donna, fra il figlio nato nel matrimonio e quello nato fuori di esso. Il commercio con l’estero è pienamente praticabile. La Cina ha bisogno di regole chiare in materia contrattuale. La Cina ha scelto il modello economico occidentale, l’ha adottato, ne ha ricavato i benefici sperati e ha impiantato un sistema giuridico basato sulle libertà economiche. Lo strumento più facilmente imitabile del modello europeo occidentale è la legge, perciò il diritto cinese ricorre alla legislazione, e utilizza vecchi modelli sovietici, modelli angloamericani e più ancora modelli europei continentali. Il diritto cinese dell’ultima fase ben conosce l’integrazione prestata dalla giurisprudenza alla legge. SEZIONE TERZA: IL DIRITTO GIAPPONESE Nel 646 vi era un imperatore, sacralizzato e sottomesso a una legge naturale immutabile e ineluttabile; uno Stato che svolge molti compiti e prende su sé la direzione dell’economia; una divisione della società in caste, di cui ognuna si dedica ad un compito ben definito. La garanzia del rispetto delle regole è data dal ritsu, regola repressiva, e dal ryo, regola amministrativa. La regola castale del samurai è di piena di fedeltà al signore (come nel vassallaggio). Il 1868 è ricordato come l’anno d’inizio dell’era di Meji. In quell’epoca le autorità giapponesi si convinsero che il Giappone non poteva essere forte senza diventare moderno, e non poteva modernizzarsi senza ricorrere a modelli organizzativi occidentali. La codificazione si ridursse ad una traduzione di modelli romanisti. Nel 1881 iniziò i suoi lavori una commissione costituita per studiare i modelli costituzionali europei; il codice commerciale giapponese è stato codificato nel 1890. La procedura penale fu regolata sul modello francese. La nuova carta del 1946, adottata come emendamento della costituzione del 1889, è stata redatta dopo che l’imperatore aveva rinunciato alle prerogative divine. In questo quadro, essa ha laicizzato lo Stato, e ha posto al centro della scena la dieta, interamente elettiva (che legifera e designa il primo ministro), e i diritti politici e umani dei cittadini. L’ordine giudiziario è, almeno in teoria, indipendente. Anche il diritto di famiglia si modernizza. Si va verso la uguaglianza dei sessi e la parità in diritti dei figli extramatrimoniali; si lotta contro la violenza domestica. Lo spazio lasciato vuoto dal diritto scritto sarebbe riempito dai giri, regole non giuridiche. Una percentuale altissima di conflitti giudiziari termina con la conciliazione. Ma la percentuale delle liti non conciliate cresce in continuazione. Un numero sempre crescente di giapponesi si riconosce nel diritto scritto. Dall’altra parte vi è un diritto autottono che si inquadra come un diritto spontaneo. Questo diritto ha bisogno di strumenti adatti per vivificarsi e proseguire la sua marcia. Tra questi strumenti eccelle la conciliazione, specie se promossa da non giusti. La conciliazione assisitna da un intermediario mette sempre in pratica un criterio di decisione che costituisce una norma giuridica. A questo punto il diritto giapponese non si riduce al diritto scritto. È arricchito da norme non scritte, anch’esse giuridiche. La nuova costituzione giapponese si preoccupa unilateralmente e incondizionatamente delle libertà politiche ed economiche dei cittadini. La legge detta norme rivolte alla pubblica amministrazione. Il Giappone ha cura di preparare giuristi, e di selezionare fra essi i migliori, per inserirli nelle corti giudicatrici. Nessuna politica è stata praticata per la formazione di una classe di avvocati, e nella società giapponese i meccanismi spontanei non hanno condotto ad una imponente affermazione della categoria. In questo clima il giudice mantiene il potere di controllare la conduzione della lite civile, cui la parte può partecipare, se lo preferisce senza assistenza. CAPITOLO QUATTORDICESIMO: L’AFRICA SUBSAHARIANA L’africa del nord ha popolazioni che parlano lingue dette anche afroasiatiche (arabo) mentre nel sud parlano le lingue nilosahariane. In Egitto, lo Stato è nato con le dinastie faraoniche, il modello egiziano si è diffuso poi nel Sudan settentrionale e verso l’Etiopia. L’Africa sub sahariana costituisce un mondo che si contrappone a tutto ciò che esiste fuori di essa. Ciò non significa che nel suo interno l’area considerata costituisca un tutto uniforme e compatto. Le diversificazioni del diritto africano dipendono dalle differenze che intercorrono fra le singole soluzioni giuridiche. L’africa è caratterizzata dalla potenziale compresenza di opposti modelli in un’unica area. Noi non troveremo in azione un sistema africano aggregato intorno ad un modello africano, né troveremo un sistema africano aggregato intorno ad un modello europeo. Troveremo modelli diversi che si spartiscono nicchie dell’ordinamento giuridico, in conformità del peculiare regime di convivenza presente in quel dato sistema. In una famiglia di 3 fratello, potrà avvenire che l’uno si sposi con il rito del matrimonio statuale, un altro adotti il matrimonio islamico e il terzo acceda al matrimonio tradizionale. L’analisi stratigrafica della cultura africana mette in evidenza una prima componente, quella tradizionale. Un secondo strato collegato con la religione. Un terzo strato è giunto in Africa con gli europei. Un quarto strato è costituito dalle scelte effettuate dagli africani al momento dell’indipendenza, integrate dall’edificazione di un sistema rivolto al socialismo. SEZIONE SECONDA: IL DIRITTO AFRICANO TRADIZIONALE La regola africana tradizionale non è scritta. L’oralità si estende al processo e alla decisione del giudice. Manca il giurista di mestiere, manca un linguaggio giuridico sofisticato. Quanto detto dipende da una circostanza fondamentale. Dal punto di vista linguistico, la fissazione della consuetudine nello scritto implica sempre il travaso delle idee di un popolo senza scrittura e senza giuristi nei filtri concettuali dei giuristi dotti appartenenti ad un dato sistema, con alterazioni più o meno radicali dei contenuti originari. Il reperimento dei dati relativi al diritto tradizionale africano presenta difficoltà, con cui il ricercatore deve misurarsi. I dati vengono quindi raccolti mediante conversazioni in cui l’antropologo interroga l’autoctono. Una seconda difficoltà dipende dal fatto che il grado di generalità e astrattezza della norma, quale appare naturale all’europeo, non corrisponde necessariamente al grado di generalità appropriato per il sistema africano di riferimento. La norma africana sub sahariana è permeabile al sacrale. Il sacro legittima il potere. Il capo ha contati di varia natura con personaggi meta terreni, e ciò gli consente di diffondere sulla società, per via soprannaturale, vantaggi e benefici di ogni tipo. Nella famiglia africana può avvenire che il legame familiare esista solo fra madre e figlio (il parente maschio adulto più prossimo del neonato sarà allora lo zio materno), o solo fra padre e gilio. Può avvenire che la parentela fra i figli di un fratello o di una sorella (cugini parelleli) sia considerata strettissima, tanto da impedire il matrimonio. Ovunque il marito versa un corrispettivo per poter acquisire la moglie e in cambio gli apparterranno i figli e i frutti delle opere della sposa. A seconda delle culture, il matrimonio è monogamico, o meno. Il vincolo è stabile, ma il divorzio non è sconosciuto. A seconda delle culture, la nuova famiglia vivrà dove vive la famiglia dello sposo o della sposa. Nella società africana sub sahariana il diritto è tutto legato agli status, cioè alla posizione che il singolo ha nel fruppo di appartenenza, e alla posizione che esso gruppo ha nel contesto più ampio della società la persona piò essere libero o schiavo. Lo schiavo del potente piò assumere compiti sociali importanti. La proprietà africana tradizionale non è un mero rapporto patrimoniale. La terra è sacralizzata. Quest’ultima non può essere alienata fuori del gruppo, il gruppo controlla la gestione e la circolazione della terra. I singoli hanno sulla terra diritti di utilizzo, parametrati alla posizione sacrale e castale della persona. In africa conviene soffermarsi piuttosto sull’idea e sul sentimento della corrispettività fra due prestazioni, anche non patrimoniali. Le prestazioni si scambiano fra soggetti non estranei. Sono parti negli scambi gli uomini vivi, i defunti, la terra e gli dei. Il contratto- accordo non ha un riconoscimento generalizzato. Vale un accordo garantito da un pegno. Valgono gli accordi volti a promuovere un’attività comune. Fra le attività svolte collettivamente dev’essere ricordata la caccia, che mette in gioco delicate regole sul riparto della selvaggina. Nell’africa non si distingue una responsabilità civile-patrimoniale e una responsabilità penale. Distingue piuttosto la reazione del gruppo offeso – la vendetta – e la reazione della comunità. La vendetta è ritualizzata, è dominata dal principio dell’uguaglianza fra la vittima del delitto e la vittima della reazione, e di norma si ispira al taglione. Un surrogato della vendetta è il pagamento di una pena privata. Fra le sanzioni punitive fa spicco l’esclusione del gruppo. In buona parte dell’africa a sud del Sahara la società esprime un potere centralizzato. Normalmente è nota la figura del re, spesso di natura divina e dotato di poteri dispotici. L’accesso al trono è riservato ad una data etnia, e una data famiglia. Il re spesso è circondato da una corte, cui i vari membri accedono per sua nomina o per diritto proprio. Nella società africana ha un suo posto l’aristocrazia. Spesso fioriscono nelle società africane l’artigianato, il commercio, l’estrazione e la lavorazione di vari metalli, donde una più o meno accentuata divisione del lavoro e uno stimolo all’urbanizzazione. A nord e ad est del Sahara il potere centralizzato si identifica da tempo con il potere statuale. In altre zone questa centralizzazione del potere è assente (società a potere diffuso). SEZIONE TERZA: LO STRATO RELIGIOSO Tempio addietro si ebbe una diffusione primaria dell’ebraismo e poi del cristianesimo, ma ben presto questa corrente si riassorbi. Un’importanza molto maggiore deve assegnarsi alla diffusione dell’islam; l’islam è la religione oggi più diffusa in africa. L’importanza dell’islam è accresciuta dal fatto che esso manifesta un interesse molto vivo per i problemi di legittimazione del potere politico e per il dato giuridico in genere. L’islam africano è uniformemente sunnita. Le differenze fra le quattro scuole ortodosse non incidono in modo profondo sul messaggio islamico concernente il diritto. Qua e la troviamo al centro della scena sociale la confraternita, stretta intorno a un capo che è direttore spirituale ed è anche condottiero militare. La confraternita svuota dei suoi compiti lo stato. Nelle diverse aree, troviamo un islam severo nei riguardi del culto dei santi, o largamente aperto ad esso. Le due tendenze talora si sono contrastate in sanguinose guerre. Il santo può essere un personaggio storico defunto, o la personificazione di un potere benefico soprannaturale preislamico. Il culto del santo piò generare fra i suoi fedeli un legale comunitario intenso. L’islam ha un suo diritto. La saria è parte della dottrina religiosa islamica. Ma due circostanze implicano che l’islam consenta spazi al diritto tradizionale africano: nel diritto pubblico, l’islam fissa doveri al governante, ma poco si pronuncia sulle procedure da seguire per sceglierlo; anche l’islam attuale conosce monarchie legittime e repubbliche altrettanto legittime, in questo quadro, è consentito fare un posto alla tradizione; nel diritto privato, l’islam riconosce la possibilità di rispettare le consuetudini. Le costituzioni dell’indipendenza africana riflettono un modello europeo, americano o britannico. La stato africano indipendente non adotta un diritto ecclesiastico. Il diritto amministrativo dell’africa indipendente perpetua il modello coloniale: il diritto africano a modello europeo non disdegna peraltro il permanere di capi e comunità tradizionali, sopravvissuti al contatto con l’Europa. SEZIONE SESTA: IL DIRITTO AFRICANO OGGI Le costituzioni adottate in Africa su modello europeo non hanno resistito alle sollecitazioni provenienti dalla profonda tradizione africana. Mancano le base perché si radichi un ben rispettato multipartitismo. La scarsa considerazione per la democrazia maggioritaria si accompagna ad una disponibilità alla sottomissione del capo unico dotato di vasti poteri, fondato su sponsorizzazioni di tipo carismatico. Si constata in primo luogo una grande concentrazione di poteri nelle mani del capo dello stato (cita situazione costa d’avorio). Spesso il potere politico è finito in africa nelle mani dei militari ce lo hanno acquisito mediante colpi di stato e gestito sotto la guida di un Comitato militare superiore. Il potere presidenziale e quello militare sono adatti a convivere con il potere del partito, cui compete il compito di promuovere e canalizzare l’adesione dei cittadini all’ordine politico instaurato nel paese dato. Utilizzarono il mezzo dell’espropriazione per valorizzare i terreni gestiti male.