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CHIARIMENTI PRELIMINARI: SIGNIFICATO DI DIRITTO

1. Diritto come un insieme di regole di condotta, ovvero di norme: inteso come funzione prescrittiva.
Questa definizione è una delle prime usate poiché fa leva sulla comprensione intuitiva (espressione non
effettivamente tecnicamente corretta).
La norma è la regola di condotta (comportamento in una certa situazione), questa informazione vien
tratta da testi giuridici (scritti da organi e strutture istituzionali), il punto è che dal testo alla regola di
condotta in mezzo c’è l’attività interpretativa (attribuzione di un significato ad un testo giuridico), solo
dopo questa attività avremmo una regola di condotta, ovvero una norma.
Quindi per avere le regole di condotta dobbiamo intraprendere un’attività interpretativa dei testi
giuridici.

La norma viene dopo l’interpretazione non prima (testo > interpretazione > norma) per questo motivo
questa definizione non è corretta, poiché prima bisognerebbe chiarire l’attività interpretativa, che è
un’attività difficilmente controllabile (esiti non necessariamente univoci). Quindi: se il diritto è un insieme
di norme che devono essere interpretate alla fine di quale interpretazione si tiene conto? Poiché due
persone potrebbero interpretare un testo in due modi diversi, arrivando ad avere due “definizioni di
diritto” diverse.

Per dare una definizione scientifica/rigorosa di diritto, in modo che si eviti questo problema, viene data
un’altra definizione di diritto:

2. Diritto come insieme di testi normativi: due persone potrebbero anche essere in disaccordo
sull’interpretazione dei testi giuridici, che vengono scritti in continuità con il linguaggio ordinario
(linguaggio di tutti i giorni), ma nessun soggetto sarà in disaccordo nel dire che quel testo ha una
determinata disposizione (disaccordo sull’interpretazione ma non sul testo materiale).
Dentro l’esperienza giuridica, dentro la parola diritto, troviamo una componente testuale/istituzionaledi
cui, tramite un processo di interpretazione (che coinvolge delle comunità), arriveremo all’individuazione
delle regole di condotta.

Comunità di riferimento principali per dare un senso ai testi in funzione delle regole di condotta:
- Dottrina: professori e insieme degli studiosi del diritto, con l’obiettivo di intervenire
nell’interpretazione dei testi normativi, cerca di costruire una visione sistematica
- Giurisprudenza: collettività dei giudici, insieme coloro che applicano il diritto (corte
costituzionale, corte di cassazione...)

Queste comunità si formano e crescono all’interno di determinati paradigmi di pensiero


Quando parliamo di diritto parliamo di testi, regole di condotta e collettività che hanno la funzione di
portare dai testi alle regole, o attraverso uno studio sistematico (dottrina) o attraverso un’attività pratica
di decisione (giurisprudenza).
Queste comunità si incrociano/comunicano: certe sentenze diventano dottrina, o giudici leggono la
dottrina.
Non esiste un’unica definizione di diritto, dietro la parola diritto ci sono diversi fenomeni e diverse teorie.
La complessità del diritto è strutturale. Il diritto ha a che fare con il tema del conflitto sociale (non esiste
un atto di legislazione che possa impedirlo).

Diritto:

- Momento testuale
- Momento delle comunità interpretative:
- Momento finale/assetto delle norme: prodotto dell’attività di interpretazione (norme)

Definizione di norma: la norma giuridica è il prodotto dell’attività interpretativa di disposizioni giuridiche


(disposizione giuridica = testo)
**sentenza innovativa: i testi sono sempre uguali ma le sentenze sono cambiate/diverse/innovative, cioè
interpretazioni diverse dei testi da parte della corte di cassazione a sezioni unite (punto di riferimento).
Nel nostro ordinamento non esiste una gerarchia → CIVIL LAW, un giudice può andare contro la sentenza
della corte di cassazione (Corte di cassazione ha funzione nomofilattica: deve garantire l’osservazione e
l’uniformità dell’interpretazione delle leggi)

Definizione diritto vivente: letture interpretative dei testi che raccolgono un consenso diffuso in una
comunità interpretativa (questo si collega al fatto che nel sistema giuridico italiano non c’è una gerarchia,
importanza dell’orientamento giurisprudenziale e non del singolo precedente).

L’interpretazione è un fenomeno ricorsivo:


Testualità > comunità interpretative > norma giuridica, non esiste altro modo per esplicitare la norma
giuridica se non producendo un altro testo, che dichiarerò essere l’interpretazione del primo (ci
ritroviamo con un altro testo e un’altra interpretazione) la dinamica si riapre con quesiti diversi. Si crea
sempre un conflitto interpretativo, sia sui primi testi che sulle interpretazioni dei testi, ciò dà vita ad un
ciclo continuo (fino al limite dell’interpretazione = discorso razionale e sensato).

Giusnaturalismo: tesi che sostiene che è essenziale che il diritto sia un nucleo di giustizia, di valori e un
insieme di principi di giustizia rispetto ai quali gli atti di normazione (frutto della volontà politica) vengono
giudicati. Diritto e morale devono essere necessariamente collegati/legati, altrimenti non potremmo
distinguere il diritto dalle organizzazioni criminali.
Come distinguere il diritto dalle organizzazioni criminali se faccio riferimento solo alle leggi? Deve esserci
per forza un nucleo di principi.
Es: il diritto nazista è diritto? Ha leggi, norme ma secondo il giusnaturalismo non è affatto diritto poiché
produce distruzione dell’uomo e non relazionalità.

Giuspositivismo: non c’è una connessione essenziale fra diritto e morale (es: il diritto nazista è diritto,
personalmente con giudizio morale lo ripudio). Anche secondo i giuspositivisti, un diritto del tutto
scollegato dalla struttura morale (senso diffuso di giustizia) della società che si intende regolare, sarà
inefficace.
Dentro il fenomeno del diritto c’è anche un problema con il rapporto della morale.

3. Diritto come insieme di istituti: l’istituto giuridico è un certo concetto giuridico che esprime in maniera
unitarie, coerente e sistematica un certo complesso normativo (es: istituto giuridico = negozio giuridico =
rappresentazione unitaria di un complesso normativo, con una struttura sistematica e coerente, di atti
giuridici) → elemento logico/razionale del diritto.

Linguaggi:
Il linguaggio giuridico è in continuità con il linguaggio ordinario, possiamo inoltre catalogarlo fra i
linguaggi amministrati o semitecnici.
- Linguaggio ordinario: linguaggio quotidiano
- Linguaggio amministrato/semitecnico: linguaggio ordinario con concetti che richiedono una
determinata conoscenza/formazione
- Linguaggio artificiale: linguaggio totalmente costruito (linguaggi simbolici)

4. Diritto come una realtà complessa fatta di testi, processi e dialettica delle pretese soggettive
Processo: luogo nel quale vengono portate le pretese soggettive, e discusse razionalmente (dialettica),
nel nome del diritto. Nel diritto ci deve essere necessariamente l’istituzione di luoghi per la risoluzione
delle controversie, il piano del conflitto viene portato in un contesto che consenta il più possibile la
risoluzione razionale degli argomenti, ovvero di fronte ad un terzo in condizioni di imparzialità (es:
giudice). Le regole processuali sono strumentali alla risoluzione dei conflitti.

5. Diritto come insieme di comportamenti


Sociologia del diritto: scienza che studia comportamenti sociali influenzati dalla presenza di regole e
istituzioni, osservazione dei comportamenti sociali.
L’elemento dei comportamenti sociali viene rilevato in due modi:
- sociologia: comportamenti di tutti i cittadini
- parte qualificata della società: comportamento dei giudici (Giusrealismo)

Giusrealismo (scandinavo e americano): ricerca del diritto nell’analisi dei comportamenti dei giudici,
diritto in quanto prodotto di certi soggetti qualificati (ovvero i giudici). Pretende di osservare il diritto
reale.
Questo atteggiamento ci interessa poiché esistono fenomeni in cui i giudici si attribuiscono un ruolo
anche nella posizione di regole nuove e non soltanto nell’applicazione ed interpretazione delle norme

Fonti del diritto: atti (leggi, regolamenti) e fatti (consuetudini) idonei a produrre regole/norme giuridiche.
Tradizionalmente tra le fonti del diritto non c’è la giurisprudenza (poiché applica le leggi, non le fa) ora
come ora non è corretto dirlo poiché il giudice crea diritto (creatività giurisprudenziale)

6. Diritto come complesso di comandi di un’autorità: analogia fra l’insieme di comandi e l’insieme di
norme (il comando è una norma). Il diritto è l’insieme delle volontà imperative dell’autorità statale
(insieme dei comandi dello stato) comandi = obbligatorietà.
Nella regola di condotta è sfumato l’elemento della obbligatorietà, si concentra maggiormente
all’elemento morale –> l’idea del comando metteva come caratteristica intrinseca della norma
l’obbligatorietà, quando non è così poiché nell’enunciato linguistico della norma non c’è nulla che mi
vincola.
Lex imperfecta: disposizione di condotta che non ha una sanzione → la forza obbligante sta nella nostra
morale, se nessuno decide di seguire una certa regola quest’ultima cade in desuetudine.
Tema dell’accettazione della regola (obbligatorietà) → regola come ragione per agire, motivo per il quale
decidiamo di adempiere ad una norma (torna il tema della morale del diritto, es: obbligo di leva)
7. Diritto come istituzione (=/= insieme di istituti!!): (critica del normativismo) rimonta alla teoria
dell’istituzionalismo, il significato di diritto come istituzione significa che ovunque emerga una società
organizzata/gruppo umano organizzato (in qualunque modo) c’è il diritto.
Diritto = istituzione sociale. Questa teoria voleva porre l’accento sull’elemento sociale e vitale della
regola. (dov’è società li vi è diritto, dove vi è diritto vi è società).

Confine fra regola sociale e regola giuridica: tema della distinzione fra le regole, problema delle fonti del
diritto (le fonti del diritto sarebbero quei luoghi che mi permettono di distinguere le regole giuridiche da
quelle sociali) → il confine è labile.
Il nostro ordinamento prevede una disposizione che disciplina le fonti del diritto (art.1 delle disposizioni
preliminari del codice civile => piramide delle fonti)

Metanorme: hanno per oggetto altre norme, modo in cui devono essere prodotte altre norme (norme
sulla produzione giuridica).
Le fonti del diritto (che è ciò che ci consente di distinguere la regola giuridica dalle altre regole) è tale in
ragione di altre regole (regole sulla produzione giuridica) → che cosa è fonte dipende da ciò che è
disciplinato da altre regole.
[L’identificazione del diritto passa attraverso l’interpretazione].
Viene prima la regola giuridica o l’interpretazione? L’interpretazione - delle regole sulle fonti giuridiche.

LE I.C.T

I.C.T sta per Information and Communication Technologies “Le tecnologie per l’informazione e
comunicazione”, espressione largamente usata in un senso anche atecnico per indicare la totalità delle
tecnologie, nella nostra disponibilità quotidiana, che hanno come caratteristica fondamentale quella di
essere in comunicazione tra loro e di gestire le informazioni. Si tratta dello studio di come le I.C.T si
muovano, la loro massificazione in relazione alle esperienze sociali.

1. Modalità con cui le I.C.T incidono sulla regolazione giuridico-sociale


Viene utilizzato il termine regolazione perché con esso si indica una totalità degli atti normativi, più in
generale. Ma cosa vuol dire che le I.C.T incidono sui contenuti della regolazione?

Ciò significa due cose:

a. L’introduzione o modificazione dei testi, conseguenza dell’innovazione


b. Il significato dell’esperienza viene ampliato e/o modificato

Una nuova innovazione tecnologica suscita una controversia e i primi movimenti saranno di tipo
giurisprudenziale.

Es: Internet Service Provider = Un fornitore di servizi Internet (Internet service provider, in sigla ISP), nelle
telecomunicazioni, indica un'organizzazione o un'infrastruttura che offre agli utenti (residenziali o
imprese), dietro la stipulazione di un contratto di fornitura, servizi inerenti a Internet, i principali dei quali
sono l'accesso al World Wide Web e la posta elettronica. Pensando a una ISP che cura la pubblicazione di
notizie o informazioni, ma nel caso venissero divulgate delle informazioni errate o costituenti reato, la ISP
può essere ritenuta accusabile? Quindi può essere ritenuto un editore? Problema

Pertanto, saranno due momenti ad essere toccati:


• La via testuale
• Insieme alla modifica dei testi giunge quella dell’interpretazione di essi
Questi due punti si sviluppano attraverso un lento processo, durante il quale si osserva come lo sviluppo
sociale evolve, costruendo un nuovo concetto elaborato dalla giurisprudenza dopo che essa ha
“osservato”.

2. Le I.C.T modificano la semantica dei termini prasseologici (modifica dei termini dei comportamenti
concreti)

Semantico: ci si riferisce ai termini utilizzati, capacità dei termini di riferirsi a qualcosa di esterno a sé
Prasseologico: da prassi, ovvero il comportamento (discorso sopra i comportamenti)

Esempio: si tratta del processo telematico, l’attività prima era svolta senza l’ausilio di internet, ma ora è
possibile depositare gli atti a mano tramite una piattaforma online, precedentemente ci si doveva recare
al deposito atti in cancelleria in certi orari e incontrare e relazionarsi con certe persone. Ora è cambiato
solamente il comportamento, nuovi riferimenti prasseologici, ma l’istituto rimane tale e quale.

Esempio: fornito dall’attuale situazione: la prassi, il comportamento di frequentare le lezioni è cambiato;


attraverso zoom o altre piattaforme sempre online. Nasce il dibattito se le lezioni a distanza possano
essere ritenute frequenza (esiste ancora il non frequentare? Le lezioni sono registrate e posso vederle
quando si vuole).

3. Le I.C.T trasformano la disponibilità e l’utilizzabilità dell’informazione giuridica

Dal punto di vista storico, costituisce la prima manifestazione di incidenza di queste tecnologie nel
mondo giuridico, la costituzione di banche dati giuridiche (le prime attorno al 1999-2000). Inizialmente le
banche dati raccoglievano testi normativi che consentivano fonti di ricerca, a quel tempo, elementari, ma
col tempo e lo sviluppo della tecnologia esse si sono arricchite fino a dare accesso a tutta la legislazione
(decisioni di merito, di legittimità, della Corte Costituzionale, delle corti sovranazionali), prima con la
giurisprudenza delle corti supreme (massime), poi progressivamente con il testo completo (normativa).
Avendo una molteplicità di dati forniti dalla rete e conservati nelle banche dati sorge il problema di
verificare l’inerenza e la distribuzione dell’informazione, e non di come raggiungerla. Ha subito
un’estensione molto importante come l’aumento della potenza tecnica, della memoria, della disponibilità
della potenza di calcolo e un momento cruciale nell’avvento delle ICT nella società è stata l’introduzione
del PC (Personale Computer), per la prima volta nelle case private entra il computer.

Piattaforma importante, dell’editore Giuffrè, è DE IURE o IUS EXPLORER che rappresenta una grande
banca dati che contiene dottrina, giurisprudenza

Questa fase di ricerca ha a che fare con la topica (da “topos” in greco= luogo) fa parte del discorso
retorico (Aristotele, compaiono i tre tipi di discorso retorico, tra i quali quello giudiziario). La retorica
(arte di costruire il discorso argomentato quando è in gioco la questione di decidere quale sia preferibile
tra i discorsi in conflitto tra loro, mira al persuasivo) romana suddivide poi il discorso retorico in momenti:
Topica, momento in cui raccogliamo gli argomenti (inventio retorica) - momento nel quale si ricercano gli
argomenti - viene modificata dalle nuove modalità di ricerca
Oggi la topica “digitale” consisterebbe nel capire tra le varie risposte fornite dal sistema digitale quali
informazioni prendere.

La disponibilità dell’informazione giuridica è estesa con le banche dati e più facilmente disponibile,
l’utilizzabilità si è complicata in un certo punto di vista, è cambiata la modalità con cui ci serviamo
dell’informazione giuridica, prima il problema era la scarsità dell’informazione e la difficoltà per reperirla,
oggi, invece, il problema è l’eccesso dell’informazione giuridica (ci vengono date più informazione di
quanto ne richiediamo)

Struttura del discorso giuridico: La struttura del discorso risale a tempi antichissimi e da una tradizione
che trova le sue radici nel mondo greco, Aristotele infatti evidenziò nella sua opera, Retorica, in tre generi
il discorso: deliberativo politico – giudiziario – epidittico. Si nota subito la presenza della forma giudiziaria
già nel contesto greco; successivamente, nel periodo romano si svilupparono gli studi di retorica, andando
ad analizzare la struttura del discorso stesso (inventio, topica ecc..). La retorica nel suo significato più
profondo, indica l’arte di costruire discorsi portando prove affinché risulti razionalmente preferibile ai suoi
opposti. La retorica non mira alla persuasione ma alla creazione di un testo persuasivo.

4. Le I.C.T richiedono un ampliamento dei saperi di base

Durante la costruzione dell’elemento giuridico ci sono diversi soggetti che intervengono. Infatti, tra la
disposizione e la norma vi sono le comunità interpretative, le quali si formano e crescono in un certo
paradigma (parola importante nell’epistemologia del 900’, è parte dello studio della scienza).

Se vogliamo capire il significato di paradigma dobbiamo cominciare dallo studio della logica e del
metodo, ovvero dall’epistemologia. Si era infatti sempre pensato che il metodo di sviluppo della scienza
fosse un continuo mutamento e progressione cumulativa con anche dei “balzi”, con Thomas Kuhn si ha
avuto una “rottura”, infatti lo sviluppo della scienza porterebbe a dei balzi veri e propri, pertanto Kuhn
non sostiene la continuità della scienza ma la rottura tra un’innovazione e l’altra, per cui cade la
considerazione del suo sviluppo in continuità e si affaccia la teoria di Kuhn la scienza produce
l’incommensurabilità dei paradigmi scientifici.
Per cui il paradigma è l’insieme delle credenze, del contesto, delle teorie che formano il nucleo entro cui
ci si muove. Es: il paradigma di Aristotele, il suo p. è dato dal mondo, certamente diverso dal nostro, in
cui viveva. Sorge spontanea la domanda:

Se è vero che ci sono membri di frattura tra i paradigmi non dovremmo dire che l’incommensurabilità è
ancora più grave se mettiamo a confronto due comunità differenti? Ad esempio, il diritto e la scienza?

Come fa un giudice a comprendere e capire il discorso con parametri scientifici?


Opacità normativa, l’interprete (giudice) si trova ad avere a che fare con dei testi normativi costruiti
secondo linguaggio, categoria e definizione proprie di un sapere che non è il suo
Ma quando il sapere scientifico è necessario al diritto il suo paradigma mantiene il rigore che ci si attende
dalle scienze? O perde rigore in modo da divenire comprensibile al diritto?

Dilemma dell’incommensurabilità (o accetto un discorso rigoroso ma incomprensibile o il contrario,


nasce dal fatto che tanto più i pensieri si fanno specialistici tanto meno sono le persone che lo
condividono e che lo capiscono)
Si tratta di un’alternativa non conciliabile, o si accetta un discorso vigoroso ma incomprensibile, oppure
un discorso comprensibile ma non vigoroso. Quindi se la scienza si trova all’interno di determinate
situazioni o il giudice accetta l’opacità del discorso oppure quest’ultimo perde vigore. Ma dobbiamo
ricordarci che la motivazione in sé deve essere razionalmente accettabile per cui diviene a sua volta
necessario che essa sia comprensibile, legittima e razionale

Tanto più un sapere diviene specialistico, meno persone possono rientrare in tale campo in modo da
comprenderlo, il dilemma dell’incommensurabilità che aumenta. Le I.C.T. richiedono la condizione che i
saperi specialistici si aprano alle comunità che trattano del diritto

5. Le I.C.T influenzano l’interpretazione dei valori morali che connettono diritto e società
Le differenti tecnologie modificano e hanno modificato il nostro senso morale (prima computerethics poi
cyberethics, disciplina che esiste negli stati uniti dagli anni 70). Ciò ha incidenza sul diritto, poiché tra la
morale e il diritto vi è una relazione importante (dimostrazione sono i primi 12 articoli della Costituzione).
Rapporto importante tra il diritto e la morale, perché normalmente gli ordinamenti giuridici inglobano i
momenti significativi della loro normazione riferimenti a categorie morali (carte dei diritti, costituzioni
moderne che hanno una parte dedicate ai diritti), quando non fa più questo, si dissocia dalla
comprensione morale di base e comincia a diventare ineffettivo, e verrà sempre meno osservato.
L’effettività di un ordinamento è la condizione per la quale esso è diffusamente osservato
Art, 13 libertà
L’ordinamento pretende di disciplinare i nostri comportamenti che magari ripugnano un valore della
nostra vita (ES: ABORTO, BIOETICA, EUTANASIA ciò ha a che fare con le sensibilità morali, le quali non
sono univoche).

Ci sono delle teorie che attribuiscono un valore più premiante ancora alla moralità nel diritto (un nucleo
di principi di giustizia deve essere osservato e non tradito e addirittura costantemente presente come
metro di misura del resto della legislazione, altrimenti non si potrebbe parlare di diritto
(GIUSNATURALISMO).
DATIFICAZIONE

Questo tema rappresenta la questione principale della società attuale e rappresenta la trasformazione o
produzione di dati. Un primo senso è che rappresenta la proliferazione dei dati, è una dimensione
concepita da poco e sta assumendo importanza su vari livelli, inoltre, ha a che fare con alcune
caratteristiche fondamentali da protezione del diritto, il quale non è il protagonista del fenomeno ma in
corsa con esso.

Tappe fondamentali

Ha subito un’evoluzione importante, di cui sono due gli aspetti fondamentali:

- l’incremento esponenziale della datificazione


- l’introduzione sempre più attuale di fenomeni di automazione

Nei primi anni 90 comincia a diffondersi capillarmente Internet, inventato tra gli anni 60, ma che era
rimasto solo un progetto. Internet era presente in alcuni centri ed era un insieme di pagine testuali
(ipertesti) che potevano essere trasferiti nell’hard-disk (digitalizzazione + possibilità di raggiungere
informazioni). Grazie all’uso dei PC ci si poteva collegare con altre persone.

Nel 1995, lo 0,5% della popolazione usa Internet (infrastrutture erano lente e connessioni scarse),
vengono quindi emesse sempre più informazioni in rete. Si inizia ad usare il concetto di dato, cioè la
traduzione simbolica manipolabile di una proprietà secondo certi fini e connesse regole.
Si digitalizzato le proprietà e nasce così la datificazione (ciò che è gestito dal digitale), fin da subito ci si
pone il problema della manipolazione e dell’abuso dei dati personali.

Nel 1984 viene istituita la direttiva dell’UE (che vincola gli stati a produrre la normativa interna fino in
fondo ma non può essere invocata direttamente ma deve essere prima recepita da un atto dello stato
membro, come una legge), e nel 1996 viene emessa la prima legge sulla protezione dei dati personali

Gli anni che vanno dal 1995 al 2000 sono caratterizzati da connessioni più veloci (ADSL), l’aumento di
infrastrutture e aumento del numero di persone che usano Internet (potenziamento)

Incremento di abuso e violazione del diritto (es. copyright, diritti d’autore). La scala con cui si può
proiettare ora è molto più pericolosa, cambia la dimensione dell’abuso e la sua rapidità (fattore che
spesso rende inefficaci gli strumenti giuridici).

Nel 1998 nasce Google (non è stato il primo motore di ricerca), che si afferma come motore di ricerca
dominante, diventando il gate keeper (diventa dominante l’attitudine di accedere in rete e cercare
informazioni) e garantendo servizi di ricerca e servizi che oggi sono imprescindibili (es: Google maps).
Google riceve informazioni (come la geocalizzazione) innescando il fenomeno della personalizzazione
(risposte in base all’idea che si fa di noi grazie alle informazioni date) e di conseguenza quello della
profilazione (tanto più vedo nel web qualcosa che mi somiglia, tanto più vedo un’immagine di me).

Nel 2004 nasce Facebook (diventa social dominante, ma non era la prima applicazione di condivisione),
qui troviamo un riscontro dell’aumento della datificazione, sempre più persone riempiono la piattaforma
di dati e info. La ricerca di mercato diventa più veloce e facile (prima era costosissima e richiedeva di un
processo molto lungo) proprio perché ora si ha un vero e proprio luogo dove le persone inseriscono
autonomamente i loro dati, che poi verranno diffusi.

Nel 2007 abbiamo l’introduzione del primo Iphone e l’inizio dell’era dello smart mobile, l’immissione dei
dati non è più vincolata ma incorporata ed è continua. Il fenomeno dei Big Data è continuo e ricorsivo, in
ogni istante si producono dati su dati (metadati), funzionali alla funzione della macchina (machine
generate data). La maggior parte dell’immissione dei dati è a nostra insaputa

Nel 2009 nascono i BITCOIN, cripto-valute, moneta in circolazione che non ha bisogno di un’autorità che
regoli la sua circolazione, è garantita solo dal protocollo stesso (fiducia). I bitcoin persistono sulla
tecnologia a registro distribuito, di cui sono importanti le Blockchain

Blockchain: Tecnologia su cui c’è grande aspettativa per il futuro, promette di garantire una certezza
solidità e immodificabilità dei dati per garantire la certezza del traffico giuridico. Può fare questa
promessa proprio per il sistema informatico su cui si basa. Negli ultimi anni è diventato un punto di
riferimento di possibili innovazioni radicali, nella società tutta. Nel 2019 è stato introdotto un primo
articolo su queste tecnologie (conversione di una legge del 2018).

Tecnologia a registro distribuito: Offre la possibilità di trascrivere in una sorta di REGISTRO (condiviso su
una rete di macchine e sincronizzato) cose certe e immodificabili (grazie alla struttura di questa
tecnologia), quindi non c’è il bisogno di un ente autorevole che certifichi le cose (tipo il notaio). Essendo
un sistema decentrato il crollo di un nodo non pregiudica la funzionalità dell’intero sistema

Esiste una grande divisione nelle reti di blockchain:


- reti “permission less” (bitcoin e cripto-valute), chiunque può accedere liberamente, su queste
reti si sta investendo molto perché si crede che siano quelle in grado di modificare in maniera
economicamente più perfezionante e ottimante la società, sono quelle, però, che creano più problemi
perché devono avere degli standard di sicurezza elevatissimi e anche perché non si è sicuri che siano
compatibili con legislazione di varie materie.
- reti “permissioned”, bisogna essere autenticato per accedervi, danno meno problemi giuridici ma
non in questo momento non si sta investendo su queste per il miglioramento economico-sociale dei Paesi

Nasce la possibilità di automatizzare prestazione contrattuali (possibilità di trascrivere le informazioni con


certezza assoluta e queste diventano condizioni per un adempimento che può essere automatizzato).
Smart Legal contract: automatismi (non necessariamente corrisponde a una figura giuridica) che
corrispondono alle prestazioni stabilite in un contratto tra le parti, attraverso piattaforme che
garantiscano determinati livelli di certezza (col le blockchain)

Datificazione e automazione: la connessione è dovuta all’incremento della datificazione che crea un


problema sulla gestione dei dati, quindi, servono macchine per gestirli e questo porta all’automazione.
Si comincia a discutere una carta dei diritti che tuteli la proiezione dei propri dati in questa evoluzione.
Nel 2015, in Italia, viene formulata la “dichiarazione dei diritti di internet”, emanata su un progetto di una
commissione parlamentare (Camere dei deputati) e rappresenta un atto di soft-law (serie di atti
normativi che non sono giuridicamente cogenti, vincolanti, non essendo espressi giuridicamente in un
atto avente natura di fonte del diritto e che sono emessi da organi istituzionali). L’atto soft-low contiene
anche il diritto di neutralità della rete, cioè, si ha il diritto di accedere alla rete senza che i dati vengano
bloccati, filtrati e ne discriminati.
In altri Paesi è rappresentata da un atto di hard-law, più utilizzato in ambito internazionale, conferisce
agli Stati e agli attori internazionali effettive responsabilità vincolanti oltre che diritti. Negli anni in cui
veniva adottato si discuteva già sul regolamento europeo sulla regolamentazione della protezione dei
dati personali (GDPR)

General Data Protection Regulation ha sostituito la direttiva del 1994, è un regolamento emanato
dall’UE (fonte del diritto, il suo contenuto diventa efficace immediatamente nei rapporti interni dei
singoli Stati (problema di traduzione). Approvato nel 2016 ed entrato in vigore nel 2018, per alcuni è già
diventato obsoleto visto la velocità dell’evoluzione tecnologica/informatica.

Un’altra tappa importante è la legge di Moore, co-fondatore dell’azienda Intel (processori), e


rappresenta una legge non nel senso scientifico o giuridico, ma esprime un progresso evolutivo della
miniaturizzazione e dell’aumento di potenza dei circuiti elettrici, che ha ormai raggiunto il suo massimo
(fine dell’evoluzione, 2022?)

conseguenze: crollano i prezzi dei processori, conseguenza del fatto che poi non potranno più competere
con gli altri e perché non costerà niente collocare un’unità di processamento e trasferimento di dati,
ovunque (altri lo ritengono necessario per fronteggiare le spese per la nuova ricerca).
Internet of things: qualsiasi bene che ha l’utilità può essere fornita di un’unità di calcolo per la creazione
e il trasferimento di dati perché, sostanzialmente, non ha nessun costo.

CICLO DELLA DATIFICAZIONE

Tutto quello che si è disteso in questo arco di tempi ci porta a fare una supposizione ragionevole:
all’aumento esponenziale della datificazione ci sarà un aumento esponenziale dell’automazione. Quindi,
quel problema che abbiamo visto iniziare a porsi negli anni 90, la protezione dei dati personali, e che
abbiamo visto innovarsi con il regolamento europeo, è un problema che si espande.

Nel risvolto giuridico relativo al problema della datificazione ci sono delle ambiguità, che verranno fuori
in maniera sempre più presente:
- Una prima ambiguità la troviamo nel GDPR (ha una proceduta di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale
dell’UE), gli atti hanno una parte molto lunga, numerata in articoli (“considerando”, non è una parte
cogente ma si dà una prima interpretazione dell’apparato normativa che segue), non sono disposizioni
normative, le quali vengono dopo. La regolazione attraverso disposizioni normative ha una forma di
giustificazione o di esplicazione di una parte che precede il testo (novità).

ART. 1: protezione delle persone fisiche, la libera circolazione (chiasmo assiologico) dei dati (ne vietata
ne limitata), rispetto al primo e il terzo comma il rapporto di prevalenza si è invertito

Questa stessa disposizione era già presenta nella direttiva del 1994 (ma necessitava di un atto interno di
regolazione), quando la connessione era del 0,5% e c’era un minimo fenomeno di datificazione, non si è
neanche notato il chiasmo, le condizioni sociali e di sviluppo erano tali da non porsi il problema.
Quest’ambiguità è reale nell’assetto dei valori attuali nell’ordinamento continentale ed europeo.
Questione: se dato l’assetto dell’attuale evoluzione dell’implementazione tecnologica della società,
quanta di questa evoluzione è legittimata ad entrare fino ad interferire nella dimensione dei diritti
fondamentali della persona.
Quest’ambiguità ha una funzione pedagogica (comincia a pensare che l’assetto della persona fa i conti
con la proiezione del se, nella forma datificata).

Tensione normativa e ideologica, nell’interpretazione dei valori generali di riferimento (gerarchia: 1.


diritti inviolabili dell’uomo e rappresentano dei limiti)

Il ciclo della datificazione corrisponde al modo in cui qualsiasi organizzazione pensa una volta che si
strutturi, attraverso un sistema di interpretazione datificata della realtà nella quale opera e pensa al
proprio miglioramento attraverso l’uso di queste informazioni che trae sul settore, sull’ambiente
sull’attività che svolge.
Non è una novità ma una ovvietà ed è il nucleo minimale di quella che è la business intelligence (utilizzo
di strumenti variamenti scientifico- tecnologici o matematico- statistici o insieme con lo scopo di avere
una visione gestibile, manipolabile del tipo di vita di quell’organizzazione e quindi prendere delle
decisioni razionali di efficientamento). Quello che è nuovo, è come questo schema si implementi su uno
scenario molto vasto (ovunque come ovunque è la datificazione).

Il ciclo è ricorsivo:
- evento è un accadimento di qualsiasi tipo
- La traduzione in una struttura simbolica manipolabile del comportamento, dati
- Dallo studio di queste informazioni si ricaverà conoscenze interessanti
- Questa conoscenza serve per prendere decisioni sensate
- Alle decisioni seguono le azioni (modificazioni della realtà circostante)

Questo fenomeno è talmente pervasivo e in crescita esponenziale che arriva a costituire un problema e
quindi si tratta si porvi dei limiti.
Quando accadono queste rivoluzioni così radicali comincia a venir modificato anche l’assetto delle
categorie di base (rappresentano un punto solido e si credeva che non venissero mai modificate) e dei
diritti fondamentali.
Non stupisce iniziare un discorso rivoluzionario di diritti di enti non umani ma di artefatti, in quanto enti
informazionali (es: soft bot) e la possibilità di prevederne forme di riconoscimento giuridico.
Il diritto è anche un potente strumento di virtualizzazione, determina anche concetti, assetti, identità che
agiscono nell’orizzonte del giuridico, ma che non esistono in natura.
Nel 2003 viene introdotta una responsabilità per gli enti non umani.

Questi 3 casi, sono differenti modi per vedere realizzato nella società e nella pratica il tema della
datificazione con il suo ciclo.
1. INPS, una delle funzioni è quella di organizzare le” visite fiscali” per i lavoratori in malattia e
adottò un sistema basato sul ciclo della datificazione (data mining savio), attraverso il quale stilava delle
percentuali probabilistiche dei profili dei lavoratori che, al termine della malattia non si presentassero a
lavoro (assenza ingiustificata). Quelli che avranno una percentuale più alta saranno oggetto di controllo.
Tra i dati che utilizzava il sistema da cui traeva l’inquadramento del soggetto c’erano, per esempio, la
durata dei singoli episodi di malattia, la sua qualifica, il tipo di rapporto di lavoro, la retribuzione… Il
soggetto non può richiedere il “funzionamento” del sistema il quanto la conoscenza dell’esito è garanzia
sufficiente.

2. Sulla base di una serie di ricerche di mercato, una catena di ipermercati ha analizzato che c’è una
fetta di mercato interessante, le donne in gravidanza, che hanno un certo modo tipico di comportarsi nel
punto di vista dei consumi (si deve costituire un profilo, sulla base di dei prodotti e costruire delle
probabilità, non trivialmente collegati alla maternità). Questo processo si chiama data mining

3. Il metodo scientifico diventa obsoleto nel momento in cui, disponendo di un enorme quantità di
dati e potendo sottoporli a quei procedimenti di natura induttiva (da un certo numero finito di base di
dati traggo una regola generale e la uso come strumento di previsione, può fallire) e probabilistica,
perché si può non fare più questioni di verità sul mondo ma la correlazione può essere sufficiente (il
punto non è più il singolo ma la quantità e la scala).

Digital divied, misurare la civilizzazione dei paesi in paesi alla disponibilità di tecnologia digitale e di
connessioni, è una come una divisione delle nuove classi sociali in funzione sul potere che hanno sulle
società (3. Produttori di dati, 2. Soggetti che sono grandi raccoglitori di dati, 1. Soggetti che hanno la
capacità di accedere o di ricevere la grande massa dei dati, di raccoglierli, hanno gli strumenti, le persone
e le competenze per estrarre da questi dati la conoscenza con cui organizzare le azioni più incisive sulle
società)

Punti di vista per i quali è rilevante il fenomeno della datificazione:

1. Politico-utopistico, riguarda come sarà darsi una struttura socio-politica in funzione della
datificazione, intorno agli anni 90 c’è stata una diffusione degli “etica hacker” (soggetto esperto che
struttura su questa sua abilità una sorta di etica basata sull’apertura, sulla condivisione e sul lavoro
collettivo ,es: linux), la cui etica, applicata all’idea della datificazione, porta alla condivisione dei dati,
in particolare dei raw data (cioè grezzi, che non hanno subito ulteriore lavorazione) per il
miglioramento della costituzione delle società politiche.

Tecnologie civiche: strumenti con cui i soggetti interagiscono attivamente nelle decisioni politiche (hi-
tech), nascono idee di E-governance più elevate che diffondono l’idea di democrazia (governo del popolo,
le decisioni devo essere riferibili alla comunità, il problema è la sua realizzabilità quindi la democrazia si
trasforma nella sua forma rappresentativa, le decisioni concrete vengono prese da dei soggetti a numero
limitato che agiscono in nome del popolo tutto. (scelti)
La tecnologia diventa uno strumento di empowerment, dando potere a una massa di governati e
togliendo gli ostacoli e i limiti che gli permettono di agire direttamente tramite la tecnologia, questo
ribilanciamento dei rapporti di forza (tra democrazia e populismo, quindi, tra governanti e governati)
conduce a una società giusta (strumento utopistico).

2. Estetico-retorico, estetico ha un significato generale, fa riferimento alla percezione sensibile (ciò che
si rende percepibile nella costruzione del discorso pubblico) e per retorico (che ha subito
un’evoluzione del significato) si fa riferimento a un contesto ateniese (ambito giudiziario: le istituzioni
sono ispirate dal concetto di democrazia diretta) in particolare della parte attiva del cittadino
all’assemblea (ambito deliberativo). Abbiamo a che fare con la costruzione del discorso pubblico
(che, sempre più, si sta modificando nelle modalità della sua costituzione, veicolazione e ricezione in
ragione del valore che acquisisce la datificazione).

L’uso dei dati è fatto per supportare una certa percezione del discorso negli ambiti tecnici e scientifici (ha
una certa valenza e simbologia) e si rendono estetici (tabelle, grafici), ma quando questo momento della
datificazione viene usato nella costruzione del discorso pubblico perde dei tratti di specificità (logiche,
intenti diverse, intenzione comunicativa differente tra le due fasi). I due ambiti hanno un punto comune:
discorsi in conflitto e necessità di prendere una decisione.

Un’ altra dimensione estetica della datificazione: il tema della dimensione artistica, cioè la data art (es:
costruzione gioielleria che ha come dimensione estetica tracciare i GPS o una rappresentazione
paesaggistica che ritrae le persone che si sono suicidate e in che modo) che è un fenomeno nuovo ed è
un modo con cui possiamo accedere esteticamente al mondo che si sta formando. Anche il diritto ha una
potente rappresentazione estetica e grafica (es: segnali stradali), nei tempi odierni si discute sulla
comunicazione giuridica. La visione che abbiamo oggi della società è strettamente legata alla
visualizzazione visiva e grafica (evoluzione).

Epistemologico, abbiamo a che fare con il momento conoscenza del ciclo della datificazione (che cosa
significa il passaggio dal dato alla conoscenza, da cui deriva la decisione?), su questo punto sono possibili
fraintendimenti perché la parola conoscenza, ha una storia dietro e non è una parola univoca, e di
conseguenza il suo utilizzo in ambiti differenti può non farci capire il senso. La discussione su questo
punto ha un’efficacia liberatoria e ha una dimensione giuridica, cioè la profilazione (questa parola esiste
nel testo del GDPR) che rappresenta un trattamento automatizzato di dati personali (qualsiasi
informazione riferita a una persona identificabile) con lo scopo di trarre un giudizio (conosciuto e reso
possibile) valutando gli aspetti personali di una persona fisica su vari aspetti (finalità prescrittiva e
predittiva).
Nella fase data mining (fase della profilazione) avviene la scoperta di conoscenza, tra gli anni 90 si usava
l’acronimo KDD (scoperta di conoscenza in database), perché la datificazione è locale e settoriale, quando
arriva l’informatica globalizzata cade in riferimento al KDD (apertura dei dati) e il database diventa più
potente ed efficace (knowledge discovery). L’uomo si riconosce artefice della sua impresa di conoscenza,
autonomo rispetto alla garanzia di conoscenza offerta da una determinata verità rivelata (fede), ma deve
essere guidato e lo sarà dal metodo.
Sarà il metodo scientifico, l’insieme di due poli: le certe dimostrazioni (momento di costruzione teorica
della conoscenza) e le sensate esperienze (momento di valutazione empirico-sperimentale della
conoscenza). Questa è la fase della scienza moderna in cu non si dubita della propria capacità di verità e
che il mondo sia li, docile e passivo rispetto alla mia capacità di apprenderlo. Il tema del metodo
diventerà sempre più problematico e si accorgerà che il metodo funziona in base alle decisioni
metodologiche dei soggetti.

SOGGETO - METODO - MONDO

Nel ‘700 un gruppo di filosofi aveva affermato che la conoscenza non è del mondo ma delle proprie idee
che costruisce la conoscenza sulla base della percezione sul mondo (più moderati), i meno moderati
arriveranno a dire che nessuno è mai nella condizione di uscire dalla propria mente quando si tratta di
conoscenza, perché in fondo tutto ciò che dici del mondo sei tu che lo dici e lo determini. Radicalizzando
questo punto si arriva a posizioni antirealistiche (conoscenza è conoscenza di correlazione valutata sul
piano dell’utilità), cioè non si ha nessun argomento per dimostrare una realtà fuori da sé stessi. Se si è un
realista si intende che si ricava conoscenza dalla realtà in sé.
(articolo Anderson)

A metà ‘800 si mise in discussione uno dei 5 postulati di Euclide, riformulando e costruendo altre
geometrie euclidee, in quel momento fu uno shock per il concetto di scienza, portando a chiedersi se è
solo convenzione la verità scientifica
Convenzionalismo: prospettiva che attribuisce la costruzione della conoscenza su una base
convenzionale, per cui cambiando le convenzioni iniziali ottengo conoscenze diverse, mantenendo la
base convenzionale.

Tutti questi fattori, uniti alle speculazioni filosofiche, portano all’elaborazione di forme più particolari
dell’idea scientifica, e in molti casi a rinunciare a prendere una posizione rispetto alla capacità di
rispecchiare una realtà. Si parla di programmi di ricerca, quando sono progressivi vengono mantenuti,
quando sono regressivi vengono manipolati e abbandonati. La realtà è che la datificazione e la sua
trasposizione sul piano della costruzione della conoscenza ha un po’ spento le discussioni tra realisti e
antirealisti, perché dal lato pratico-operativo queste posizioni vengono degenerate e ignorate.
Oggi, non è più tanto seguita l’idea che il metodo scientifico sia uno, ma ce ne sono tanti quante sono le
scienze (pratiche epistemiche, insieme di strumenti e di definizioni il cui esito è l’acquisizione di
conoscenze particolari)

3. Ideologico-universalistico, dataismo è una dimensione inaspettata, l’idea dello spostamento (verticale)


analogo della modernità dell’autorità (nel medioevo c’era il teocentrismo, l’imperatore compiva disegno
di legge che non veniva dalla sua autorità, ma da quella religiosa), a cui ci si affida quando si devono
prendere delle decisioni, il potere politico ora nasce dal basso con il contratto sociale, gli uomini si
accordano tra di loro e attribuiscono potere a qualcuno su di loro, diventando artefici del proprio destino
spostamento verso l’umanesimo (messa in discussione dell’autorità religiosa, dei testi religiosi e il
riconoscimento dell’autorità su di se, dell’individuo e del suo affidamento verso quest’autorità)

Secondo Harari anche questi ciclo è finito, in quanto il dataismo rappresenta una
narrazione/un’ideologia, rafforzata dalla credenza, che è di superamento dell’umanismo (spostamento
verso ciò di cui riponiamo fede, come esperienza umana, a cui diamo fiducia per prendere le decisioni, le
data driven). L’autorità si sposta sul ciclo della datificazione.
Tendenza a spiegazione globale dell’impresa umana, la narrazione vuole essere una che prende il posto
di tutte le altre (universale), esistono degli ambienti nei quali è diffusa l’idea che il dataismo sia una sorta
di rielaborazione dell’evoluzionismo.
Problema di opacità: non sappiamo il perché la macchina dia certe risposte.
Non è molto diffuso come credenza, però raccoglie dentro l’idea della datazione un tema del
superamento dell’uomo, del post-uomo (concetto già esistente nella letteratura), per esempio, nella
ibridazione dell’uomo nella macchina (CYBORG)

Neil Harbisson (antenna nel cervello che trasforma i colori in suoni) riconosciuto legalmente come primo
cyborg.
Potenziamento dell’uomo? Sviluppare tecnologie che permettono si superare le normali funzioni umane.
Il dataismo, quindi, sta trasformando il modo di leggere l’umanità, l’esistenza.

Crisi del diritto contemporaneo: la produzione normativa (di testi) è alluvionale, si accresce
indefinitamente, si modifica con rapidità (es: successione dei DPCM, sono formulati in modo complicati,
danno uno stato di incertezza alla società). Per le società antiche la legge più antica e più vale, le società
moderne pensano il principio opposto, ciò che è più nuovo deve prevalere (conflitto tra i concetti di
legge).

CONOSCENZA

DATA MINING
È un insieme di attività con lo scopo di estrarre da un insieme di dati, attraverso sofisticate tecniche
matematiche e statistiche di informazioni non triviali (l’informazione che deve ricavare deve essere
potenzialmente nuova rispetto alla base di dati da cui sono partito), potenzialmente utili, implicite e
finora ignorate e traducibili in schemi idonei all’applicazione e sul presupposto che i dati riferiti al passato
possano rilevare schemi di azioni utili per il futuro (postulato che rende possibile la generalizzazione
induttiva).

Il fatto che le informazioni siano nuove crea un problema: perché qualcuno smanacci con i dati personali
occorre che ci sia una legittimità, esiste un articolo del GDPR che disciplinato le condizioni per le quali il
trattamento dei dati personali è legittimo, tra queste condizioni c’è anche il consenso del titolare dei dati.

La combinazione di informazioni di questo tipo con altre informazioni apparentemente triviali, per
esempio, la geolocalizzazione può fornire informazione anche sullo stato economico (dati sensibili, il
diritto considerano meritevoli di maggiore tutela, che diventa vana).

Criticità
- La domanda è: la base di legittimità del trattamento dei dati si estendono automaticamente ai
dati ricavati quando essi sono nuovi? Il consenso dice che il regolamento deve essere specifico. Sta
iniziando una questione, che viene sollevata come una delle criticità del data mining, cioè la
segregazione del soggetto dentro al suo profilo (una persona si rivolge a me come se la mia persona
fosse il mio profilo), la persona sarà sempre meno esposta al dissenso (dissociazione della realtà) che può
portare sia forme discriminatorie, ma ance a forme di replica di stesso

- Un’altra criticità è la possibilità che questi algoritmi costruiti così producano delle conoscenze sì
nuove, ma viziate da pregiudizi, situazione dovuta al fatto che essi sono costruiti sulla base di
informazioni e di dati che incorporano già una certa visione del mondo viziata da un pregiudizio (vizio in
larga scala).
- Un ulteriore criticità riguarda il concetto di sorveglianza sociale (concetto monodirezionale e
stabile), in particolare quando si ha una finalità del controllo sociale. Nel mondo dei social si parla di
sorveglianza partecipativa, dovuto al fatto che il controllarsi genere una situazione di sorveglianza diffusa
orizzontale.
- L’opacità dei sistemi (o se sono protetti o perché sono in sé poco trasparenti, perché utilizzano
forme avanzate di intelligenza artificiale) costituisce un’altra criticità del sistema. Il meccanismo ha
opacità intrinseca e ha l’opacità che deriva dal fatto che l’intelligenza deve essere addestrata, quindi c’è
una base di dati che serve da allenamento (training set) e una base di dati che servirà con testi della
macchina. La macchina è addestrata sulla base di dati su cui è stata posta un’etichetta, messa da persone
ignote (supervised). Nei sistemi non supervisionati l’etichetta la genera la macchina stessa. Nel grande
cerchio alveo dell’intelligenza artificiale c’è un sottosettore che si chiama machine learning, dentro il
quale c’è un sottosettore che si chiama deep learning. Quest’ultimo è la parte più avanzata
dell’intelligenza artificiale che ha come utilizzo il concetto di reti neurali e sono i sistemi più opachi,
ovvero sappiamo quando funziona perché il sistema fa quello che ci aspettiamo che faccia, ma quando
non funziona talvolta non sappiamo perché.

L’estrazione di nuovi dati porta con sé questo problema, la legittimità dell’utilizzo delle conoscenze nuove
che acquisisco attraverso queste tecniche. Ed anche qui quella remota distinzione tra realisti e antirealisti,
che sembrava filosofica, ha la sua importanza perché:

1. opzione realistica: se io dico Target (supermercato), il dato che io ho tratto non è un dato personale
perché io quello che ho in mano è semplicemente un modello probabilistico e, per quanto ne so, può
essere anche falso per tutti. Il modello probabilistico l’ho fatto quindi sulla base dei dati che ero
autorizzato a manipolare; tutto quello che io ho è un modello e le sue proprietà. Con questi due
elementi a mia disposizione ci faccio quello che voglio. Quello che hai scoperto non riguarda me sul
serio, per davvero e dunque è un dato personale e quindi non fai quello che vuoi, ma hai bisogno di una
ulteriore base di legittimazione rispetto a questo problema (realista = in senso ingenuo colui che
sostiene/ritiene che esista qualcosa come una realtà esterna al soggetto conoscente che possa essere
conosciuta con appropriati metodi)

2. opzione anti-realistica: quello che ho scoperto non corrisponde a qualcosa al di fuori, ma è una
“feature” del modello (antirealista = colui che sostiene che non ci sia un argomento definitivo per
sostenere l’esistenza oggettiva di una realtà esterna). Se io scelgo una via o l’altra, dal punto di vista
giuridico ho 2 soluzioni diverse, non mi serve un ulteriore base giuridica (opzione anti-realistica) o mi
serve un’ulteriore base giuridica (opzione realistica), a seconda che attribuisca quella conoscenza
nuova, natura di conoscenza di un fatto riferito ad una persona individuale, oppure una “feature” del
modello che ovviamente non porta a nessun’altra parte.

Ecco cosa significa il problema dei dati nuovi, il quale non è banale perché da dati triviali come possono
essere gli acquisti al supermercato, io posso inserire informazioni estremamente sensibili, per esempio le
opinioni religiose (Ramadan; l’adesione ad una religione che comporti certe abitudini alimentari in certi
momenti dell’anno, della settimana, può essere facilmente inferita sulla base statistica degli acquisti. Forse
non serve nemmeno un gran sistema di data mining per supporre la costruzione di un modello di questo
tipo). La combinazione di informazioni di questo tipo con altre informazioni apparentemente triviali, per
esempio la geo localizzazione, può fornire informazioni sullo stato economico. Della misura in cui, sulla
base di queste informazioni io oriento il mio comportamento, questo può provocare trattamenti diversi dei
soggetti; elaboro un modello per cui, sulla base dei tuoi dati personali (e non solo, bensì sulla commissione
dei tuoi dati insieme ad un universo di altri dati che ho elaborato altrove) ricavo per esempio che tu ti
collochi in una determinata fascia socio economica, dunque ti manifesterò opportunità, promozioni,
suggerimenti che sono riferiti a quelle ipotesi che ho su di te, della tua collocazione socio economica
Molti di questi dati, quelli riferiti alla salute, alle opinioni religiose, politiche sono dati che normalmente il
diritto considera più gravi (una volta venivano detti dati sensibili), cioè dati per i quali il diritto richiede un
surplus di tutela, perché sono riferiti ad aspetti fondamentali della persona (articolo 9 GDPR), cioè ci sono
un gruppo di dati che richiedono una protezione maggiore perché vengono ritenuti più invasivi, può
indurre una conoscenza più invasiva o potenzialmente delle violazioni più gravi, per esempio le forme di
discriminazioni, di attacco alla salute, di attacco sulle opinioni politiche o quant’altro.

Allora la cosa si fa complicata, se è vero che questa attività ci consente di estrarre da dati banali delle
conoscenze che normalmente i diritti considerano meritevoli di maggior tutela, questa tutela rischia di
diventare vana nella misura in cui io posso trarre da basi di dati triviali.
Ecco un’ipotesi in cui il diritto prevede astrattamente una tutela molto forte, ma questa viene resa
inefficace dal fatto che le tecniche di estrazione di conoscenza sono più potenti di quello che il diritto
pensava nel momento in cui prevedeva quella forma di tutela. Le informazioni non triviali portano quindi a
tutta questa serie di problemi.

Pratiche Epistemiche
è un modo per parlare della costruzione di conoscenza quando teniamo presente tutto il percorso che
abbiamo detto, quindi per non usare la parola forte, ambigua di conoscenza, invece di dire ‘costruzione di
conoscenza’, diciamo: “l’insieme di pratiche (cose che facciamo) il cui esito è l’acquisizione di conoscenze
particolari (va da sé che cambiando le pratiche cambiano le conoscenze e che le pratiche epistemiche sono
plurali). Oggi per esempio non è più tanto seguita l’idea di un monismo metodologico con riferimento alla
conoscenza scientifica, cioè che il metodo scientifico sia uno, ma i metodi scientifici sono tanti quante sono
le scienze, appunto tante pratiche epistemiche. L’ambiguità dal punto di vista della legittimità di questi
comportamenti è anche una ragione del disagio che normalmente si vive quando avvertiamo una
particolare invasività di questi strumenti che vengono utilizzati; strumenti di questo tipo vengono utilizzati
per la personalizzazione del marketing (guardo un sito di scarpe e quando leggo il giornale online mi trovo
la pubblicità di quelle scarpe). Quanto più avvertiamo come invasivo questo tipo di manifestazione, tanto
più ci mette in una condizione di disagio, ma dal punto di vista giuridico questa sensazione di disagio è
ambigua perché non è del tutto certa la sua legittimità.

COSTRUZIONE DELLA CONOSCENZA COME UN’IMPRESA SOCIALE

Il concetto di conoscenza è un concetto importante e si carica dei significati e delle ideologie che lo hanno
influenzato nella storia. In epoca moderna la scienza è diventata la forma di conoscenza per antonomasia,
anche se su questo si potrebbe discutere molto. Quando si parla di estrazione della conoscenza si tocca il
punto cruciale, quello della scienza moderna, e per la sua vaghezza esso assume anche una funzione
persuasiva. La scienza con modellizzazioni e inclusioni probabilistiche diventa il modello di estrazione della
conoscenza che sta dietro alla datificazione. La differenza rispetto al passato sta nella mole e nella ubiquità
dei dati. Anche la scienza, in tutti gli ambiti in cui c’è una dimensione empirica, usa “dati”.

C’è un altro aspetto della dimensione della conoscenza: conoscenza di senso comune. È quella parte della
conoscenza per cui non abbiamo fatto una verifica, è un sapere diffuso, di cui non sappiamo dare una
definizione compiuta. D’altro canto, abbiamo fiducia che ci sia qualcuno che questo sapere diffuso lo sa
spiegare e tanto ci basta. Tantissima parte della conoscenza riposa in una conoscenza limitata che ci basta
per quello che dobbiamo fare.
Proposizioni descrittive e prescrittive
C’è una distinzione importante; ci sono proposizioni 
- Descrittive: riferisce stati di cose; si colloca sul piano dell’essere; esempio “il computer è acceso”.
- Prescrittive: le norme sono prescrittive, modificano il comportamento dei consociati; il riferimento
della norma giuridica è il dover essere e non l’essere; ambiscono a modificare le condotte. Per esempio, la
prescrizione di fermarsi col semaforo rosso, modifica le nostre condotte.

Questa distinzione è rilevante perché i criteri di giudizio nelle due proposizioni sono differenti.
- Descrittive, verità o falsità (corrisponde allo stato di cose o no)
- Prescrittive, non ha senso verità o falsità;
ci sono altri criteri di giudizio come la validità della prescrizione. Altri criteri di giudizio possono essere:
opportuna o inopportuna, giusta o ingiusta.

Passato:
stiamo più a nostro agio con le proposizioni descrittive perché pensiamo che siano più facilmente
controllabili, il giudizio è più facilmente condivisibile. Per le proposizioni descrittive spesso si è parlato di
oggettività; agli inizi dell’800 si pensava che solo le proposizioni descrittive veicolassero conoscenza
(descrittivismo, nelle posizioni descrittiviste estreme le proposizioni prescrittive (incluse quelle morali) sono
prive di senso, sono una mera espressione linguistica di aspetti emotivi (emotivismo).
L’emotivismo è una forma estrema di descrittivismo. Questi discorsi sono importanti soprattutto per l’etica. 

Presente:
Oggi le cose sono più articolate. Entrambe le proposizioni sono importanti per il diritto: cosa è successo e
cosa dovrebbe essere. Sotto certi profili i giuristi sono più cauti con le proposizioni descrittive: anche la
proposizione descrittiva è un atto estremamente complesso della comunicazione. Sanno che le
rappresentazioni dei fatto subiscono la dialettica processuale. Questo vale per testimoni (dice quello che sa
che non necessariamente corrisponde al fatto) e anche per i periti. La descrizione è un atto comunicativo
complesso.
La descrizione non è efficace immediatamente, devono essere condivisi elementi sufficienti perché la
descrizione sia felice. Nel linguaggio comune spesso usiamo molte cose che diamo per scontate: “ci
troviamo al PAM”; insiste in una relazione comunicativa che rende la comunicazione efficace. Se non
funziona la comunicazione, chiediamo ulteriori dettagli. 
Nella comunicazione ordinaria si hanno elementi pragmatici che riempiono il vuoto nella misura sufficiente
per raggiungere lo scopo. In tribunale no, va capito ogni elemento. Noi vediamo il mondo in modo mediato
mai immediato. Passa attraverso una capacità collettiva che è nell’ambito della socialità.

Complicazioni dell’atto descrittivo


Se dovessimo istruire una macchina, dovremo darle delle istruzioni estremamente precise.
Perché è sufficiente che siano meno precise per noi? Per mille motivi, probabilmente lì quella affermazione
è sufficiente nella sua stringatezza per il fatto che insiste in una relazione comunicativa tra le parti, dove la
parte implicita riempie di significato sufficiente per quello che ci serve fare: trovarci nello stesso punto.
Verificheremo che ciò non è così, chiederemo ulteriori elementi se per caso accade che uno va di qua e
uno va di là. Cioè se falliamo nello scopo pratico. Se ci diciamo ci troviamo davanti al pub e uno va dalla
parte della zona pedonale e l’altro va dall’altra parte qualcosa non ha funzionato.
Qual è lo stato di cose che corrisponde, qual è la proposizione vera che dice cosa corrisponde a quell’
intenzione.

L'atto descrittivo è un atto estremamente complesso della comunicazione. Il fatto che nella
comunicazione ordinaria sia molto facile per noi e normalmente efficace sta nel fatto che la comunicazione
ordinaria si riempie di elementi ulteriori, si dice pragmatici, con il quale viene riempito il vuoto sufficiente
che serve per il raggiungimento dello scopo. Semmai nella comunicazione ordinaria si è normalmente nella
condizione di chiedere ulteriori chiarimenti quando quello scopo fallisce.
Quando si rappresenta descrittivamente il mondo si fa un atto estremamente complesso che richiede
enormi condizioni condivise e non è affatto detto che siamo tenuti a condividerle.
Il modo con cui vediamo il mondo è sempre un modo mediato, mai immediato. Passa sempre attraverso il
modo in cui diciamo il mondo che viviamo, passa attraverso enormi capacità costruttive di cui siamo capaci
che normalmente costruiamo nella socialità insieme agli altri. A un sapere collettivo, un sapere comune
fintanto che è comune, ci appoggiamo per i nostri atti comunicativi e funzionano, quando non funzionano
possiamo accorgerci che non abbiamo un sapere comune, ce ne accorgiamo quando non funziona e finché
funziona non lo mettiamo in discussione.

Ogni atto descrittivo persino il più apparente oggettivo, dipende da tutto questo e dalla funzione pratica
con cui lo facciamo e implica un'enormità di decisioni: la decisione del punto di vista dal quale osservare,
la decisione del linguaggio con cui descrivere, la decisione sulle definizioni da condividere, la decisione di
criteri di oggettivazione, per esempio se mi interessa fare una misura, che tipo di misura.

Presupposizioni prescrittive
L'atto descrittivo è un atto carico di presupposizioni, molte di queste presupposizioni sono prescrittive.
Quando io ti sto facendo una descrizione del mondo ti sto anche invitando, e quindi tendo ad agire sul tuo
comportamento, a metterti dentro un punto di vista, a darti certi significati, ad accettare certi presupposti e
facendo ciò condivideremo quella descrizione del mondo. Tutto ciò è implicito. Nella descrizione implicita
c’è un forte apparato prescrittivo. Per quanto banale sia la descrizione (es. la rosa è rossa) in realtà io ti sto
già Invitando a vedere quella certa cosa che ti compare nell'esperienza del mondo dandogli un nome (in
un'altra cultura magari gli attribuiamo un nome diverso).
L'intento comunicativo è fatto di un forte apparato prescrittivo che non è violento, è nella pace della
comunicazione ordinaria. Ti sto invitando a vedere il mondo come me, secondo certi presupposti, dando
un certo linguaggio che possiamo condividere e concluderci quindi insieme che per noi è vero quello.
Quindi ti sto invitando a condividere un’idea di verità.
Non esiste atto della comunicazione che cade nel vuoto di relazione.
Ogni atto comunicativo è tale nel momento in cui si struttura nella socialità, e viene arricchito del senso
della socialità; perfino gli atti di descrizione del mondo. D'altronde il linguaggio è una struttura sociale per
eccellenza.

L’atto descrittivo include quello prescrittivo


Ogni descrizione include un apparato prescrittivo. Questo è molto importante ed è piuttosto recente nelle
acquisizioni della filosofia del linguaggio, il descrittivismo per esempio non lo comprendeva, in tal caso
diciamo che una proposizione descrittiva ha senso perché è tale in ragione di un certo apparato
prescrittivo. Si veicola nella comunicazione assieme ad un apparato prescrittivo, che d'altronde è quello che
mi serve per verificarla. Come faccio a verificarla? Se uno mi dà una misurazione in yard e io non ho idea di
cosa sia, non posso neanche verificarla; anzi quella parola se non l'ho mai sentita non mi sembra neanche
una parola mi sembra un suono strano informe e non posso dunque neanche verificarla, dunque non posso
rispondere alla domanda se è vero o falso. Quindi non ho una rappresentazione del mondo.

ESPERIMENTO DI ASCH
L'esperimento di Asch è stato un esperimento di psicologia sociale condotto nel 1951 dallo psicologo
polacco Solomon Asch. L'assunto di base del suo esperimento consisteva nel fatto che l'essere membro di
un gruppo è una condizione sufficiente a modificare le azioni e, in una certa misura, anche i giudizi e le
percezioni visive di una persona. L'esperimento si focalizzava sulla possibilità di influire sulle percezioni e
sulle valutazioni di dati oggettivi, senza ricorrere a false informazioni sulla realtà o a distorsioni oggettive
palesi.

Il protocollo sperimentale prevedeva che 8 soggetti, di cui 7 collaboratori/complici dello sperimentatore


all'insaputa dell'ottavo (soggetto sperimentale), si incontrassero in un laboratorio, per quello che veniva
presentato come un normale esercizio di discriminazione visiva. Lo sperimentatore presentava loro delle
schede con tre linee di diversa lunghezza in ordine decrescente mentre su un'altra scheda vi era disegnata
un'altra linea, di lunghezza uguale alla prima linea della prima scheda. Chiedeva a quel punto ai soggetti,
iniziando dai complici, quale fosse la linea corrispondente nelle due schede. Dopo un paio di ripetizioni
"normali", alla terza serie di domande i complici iniziavano a rispondere in maniera concorde e palesemente
errata.
Il vero soggetto sperimentale, che doveva rispondere per ultimo o penultimo, in un'ampia serie di casi
iniziava regolarmente a rispondere anche lui in maniera scorretta, conformandosi alla risposta sbagliata
data dalla maggioranza di persone che aveva risposto prima di lui.
In sintesi, pur sapendo soggettivamente quale fosse la "vera" risposta giusta, il soggetto sperimentale
decideva, consapevolmente e pur sulla base di un dato oggettivo, di assumere la posizione esplicitata dalla
maggioranza. Solo una piccola percentuale si sottrae alla pressione del gruppo, dichiarando ciò che vedeva
realmente e non ciò che sentiva di "dover" dire.

Il 37% dei soggetti sperimentanti venne influenzato dal gruppo, piega la propria percezione

Conformismo e autorità
E’ importante per noi perché non è stato chiesto ai soggetti di esprimere una valutazione su un tema
discutibile oppure opinabile, ma un giudizio percettivo immediato e triviale, semplice, di dare la
rappresentazione di uno stato di cose, un giudizio descrittivo banale basato su esperienza banale.

C’è un conformismo sociale per i giudizi di rappresentazione delle realtà triviali (una minoranza dei soggetti
in seguito ad un’intervista affermò di sostenere veramente che quella risposta fosse giusta, altri che magari
si erano lasciati sfuggire qualcosa dato che gli altri dicevano tutti x). Perdita di confidenza in sé stessi e
maggiore fiducia nei gruppi; mostra la sensibilità alle dinamiche di gruppo anche nella conoscenza fattuale
del mondo.

Ma l’esito descrittivo senza interviste è quello, se ci si domanda come appare il mondo, per quel 37% il
mondo appare così (così come esce da quel giudizio).
Bisogna entrare in una conversazione e discussione con i soggetti per capirne il motivo, altrimenti si ha un
esito descrittivo abnorme per un 37% di soggetti.

Bastava affiancare un partner per modificarne l’esito, l’effetto praticamente crollava. Esperimento ripetuto
molte volte, talvolta fallito (es. college inglese in cui non appare). Effetto collegabile alla struttura culturale
della società di riferimento, per esempio caratterizzate da spinta verso una valorizzazione della collettività
sul singolo (USA negli anni ‘50) o società collettivistiche, l’effetto di Asch sarebbe dovuto essere più
rilevante, proprio perché si è educati a prediligere la posizione del gruppo rispetto al singolo (e viceversa).

La costruzione della conoscenza del mondo sta nella socialità e di conseguenza il modo con cui si costruisce
quella socialità certamente influisce.
Sono state fatte le edizioni dell’effetto di Asch in particolare con riferimento alle forme contemporanee di
costruzione dei gruppi, che non includono più soltanto il gruppo in presenza (tutti lì nella stanza), ma oggi
questo fenomeno è studiato in riferimento alla costruzione dei gruppi in assenza (ad esempio connessi tra
di loro attraverso piattaforme social)

Nei social si hanno dinamiche di gruppo, strutturati, si notano dinamiche simili all’effetto Asch, in
particolare dello studio di quel particolare adempimento che molte strutture social richiedono per varie
ragioni, come la raccolta dati per la costruzione di profili, cioè feedback (like, condivisione etc..); sono
feedback che diamo, che raccolgono informazioni su di noi, che servono per estrarre conoscenza su di noi,
ma che fanno parte della dinamica di gruppo (somiglia all’effetto Asch)

Sono stati fatti esperimenti di Asch in relazione a dinamiche di costruzione della socialità che evolvono non
necessariamente rapporti tra umani, ma tra umani e artefatti (per esempio quando il gruppo non è
costituito da uomini, ma da robot, nel soft box). Anche in questo caso è stato visto emergere l’effetto di
Asch. Soprattutto se l’oggetto del giudizio è una cosa rispetto alla quale il soggetto sperimentante parte in
una posizione di fiducia rispetto all’artefatto, cioè se è un adempimento rispetto al quale so già che il
computer è migliore di me, il risultato di un gruppo di robot unanime lo porta a conformarsi.

Considerazioni
1. Complessità del nostro modo di rappresentare il mondo (attraverso le proposizioni che ci sembrano più
semplici, cioè descrittive, in realtà sono molto complesse)
2. Capacità di alterazione straordinaria dovuta a dinamiche di gruppo (ci stiamo abituando a fare gruppo
anche con gli artefatti).
3. Il nostro mondo di costruirci il mondo passa attraverso forme di immedesimazione empatica, anche con
ciò che non è umano, noi umanizziamo il mondo, lo vediamo in forma umana ed è per questo che
facciamo gruppo con l’artefatto.

DECISIONE

Questione della decisione, una delle maggiori utilità che si ascrivono al ciclo della datificazione.
Parlando di datificazione, in questo momento, possiamo fare due previsioni ragionevoli:
1. la datificazione come fenomeno non rallenterà
2. con l’aumento della datificazione aumenta l’automazione.
Le prime riflessioni sulla conseguenza sociale dell’automazione vengono dall’autore Norbert Wiener che un
protagonista dell’evoluzione della società dell’informazione.
Wiener è conosciuto sia in quanto matematico, che per la sua sensibilità in merito
all’argomento, che sviluppa in due opere: “Introduzione alla cibernetica, l’uso umano degli esseri umani” e
“God & Golem”- riflessioni dove si parla di tecnologia che “tocca” la religione,
dell’effetto della percezione dell’umanità per il fatto che aumenta l’automazione nella società
e, soprattutto, il tema della responsabilità dell’umano di fronte ad una società automatizzata.

Wiener è noto al pubblico per aver tentato questa impresa intellettuale che è andata sotto il nome di
cibernetica.
Cibernetica deriva da una parola greca che significa timoniere, e la ragione è perché nel momento in cui
scrive Wiener e riflette sul senso di questa impresa, è una delle realizzazioni tecnologiche fondamentali. Da
qui l’idea del timoniere e della parola greca “Kybernetes”. A Wiener era sembrata la parola migliore per
esprimere i sistemi di controllo automatizzato di un’organizzazione complessa basati in particolare sul
principio della retroazione o del feedback.

Un sistema di retroazione o feedback è un sistema che ha un comportamento modificatorio dell’ambiente


circostante che è in grado di modificare il proprio comportamento in ragione del riscontro degli effetti. Il
concetto di retroazione è uno dei fondamentali nell’ambito della cybernetica.

Un altro dei concetti fondamentali della cibernetica è il principio della comunicazione del controllo, la
cibernetica è la teoria della comunicazione e del controllo nell’animale e nella macchina.
Nel momento in cui Wiener concepisce, insieme ad altri, l’idea della necessità di costruire uno sfondo
teorico generale entro cui inquadrare questi concetti, dispositivi di controllo basati sulla retroazione che
non distinguono tra animali e macchine - e i primi tra questi sono i dispositivi di automazione del governo
delle navi, e chi governa le navi? Il timoniere. Da qui come chiamare la nuova teoria: cibernetica, la teoria
della comunicazione e del controllo nell’animale e nella macchina.

Immaginiamo di vedere cosa accade quando un soggetto intende fare un movimento semplice come
raggiungere la sua pipa, cosa fa? È davvero cosciente dell’attivazione di tutti i muscoli che servono per
raggiungere lo scopo? Non ne ha nemmeno idea, anzi svolge un movimento che fa praticamente senza
pensare a ciò che succede nel suo organismo. La cosa interessante è che si può rappresentare ciò che sta
accadendo senza necessariamente impegnarsi in discorso complicatissimo sulla coscienza/intenzione, ma si
può elaborare un punto di vista generale, coerente, sistematico con concetti tecnici senza impegnarmi fino
a quel livello. Per esempio, presentando il movimento del soggetto che va a prendere la pipa con un
dispositivo di comunicazione di controllo basato sulla retroazione; cioè in ogni momento io vedo se la mano
del soggetto sta efficacemente raggiungendo il fine, si può incontrare un ostacolo quindi lo aggiro, non
interviene la coscienza ma il movimento si perfeziona e ottiene comunque il suo fine.

Allora se elaborassimo un sistema generale di concetti, al di sopra dei fenomeni intenzionali soggettivi della
coscienza, disporremmo così di una sorta di “teoria generale” con cui mettere insieme quello che dice la
teoria della cibernetica, quello che accade nell’automa (nella macchina) e quello che accade nell’ animale
(incluso l’uomo), come sorta di “teoria generale” di sfondo rispetto a tutto una serie di discipline particolari
che poi collaborano per la realizzazione di progetti ingegneristici.
Ecco dove si sente l’eco della cibernetica: quando parliamo di “decisione” e soprattutto quando parliamo di
macchine che decidono che il passo successivo nel percorso della datificazione, aumento dell’automazione
significa aumento delle prese di posizione o delle determinazioni in funzioni della conoscenza acquisita, che
è elaborata da una regola di sviluppo, la determinazione conseguente possiamo chiamarla decisione, nel
senso che erano possibili più alternative e ne è stata scelta una.

Il tema della decisione automatizzata non è un tema nuovo:


1) il frame work di riferimento è ancora la cibernetica, questo ci riporta indietro almeno di 70 anni, ma
ovviamente un tema che non trapassa nel tema della società nei suoi più minuti componenti;
2) Nemmeno dal punto di vista giuridico perché le prime disposizioni normative (in materia di decisioni
automatizzate) risalgono agli anni 70 nell’ordinamento francese, che non ha avuto nessuna applicazione
giurisdizionale però si sono posti il problema. Una disposizione più recente, in atto normativo di rilevanza
generale sul tessuto giuridico europeo, è la direttiva del 1994, la prima regolamentazione generale in
materia di protezione dei dati personali [ma non ha nessuna applicazione giurisdizionale] (questa direttiva
ha determinato l’emanazione delle leggi nazionali in materia dei dati personali, in Italia prima nel 1996 poi
nel 2003).

GDPR
Il Regolamento generale sulla protezione dei dati è un regolamento europeo immediatamente efficace,
ovvero che se un giudice interno si trova di fronte una disposizione del regolamento europeo e una
disposizione interna dello Stato italiano che vi confligge, disapplicherà la norma italiana per applicare la
norma del regolamento europeo. L’articolo 11 della nostra costituzione, infatti, ammette che lo stato
riconosce limitazioni della propria sovranità per garantire ordinamenti che assicurino la pace e la sicurezza
tra le nazioni. Questo, nonostante ciò, vale per l’Unione Europea e non la CEDU che è un altro
ordinamento.

L’ordinamento CEDU rimonta alla convenzione europea per la salvaguardia del mondo. C’è una sua Corte di
riferimento che ha sede a Strasburgo, che non è la Corte di giustizia dell’UE che ha sede a Lussemburgo.
Noi siamo impegnati su entrambi i fronti; ma per esempio il giudice che si trovasse di fronte ad una
sentenza della CEDU, che va contro il diritto italiano, non avrebbe, almeno secondo la ricostruzione che fa
la corte costituzionale tutt’oggi, un potere di disapplicazione, poiché non s’invoca l’art.11 con riferimento
alla CEDU. L’ordinamento di Strasburgo viene dalle sentenze della corte di Strasburgo, più che non da atti
normativi veri. Comunque, l’importante è mantenere distinti i due ordinamenti, cosa che invece non
avviene spesso nei giornali, che spesso li confondono.

Il Regolamento Generale Sulla Protezione Dei Dati è molto importante, non solo per la sua capacità
normativa o per l’ordinamento da cui proviene, ma anche per il tema, ovvero la regolamentazione dei dati
personali.

La questione che più ci interessa è quello delle decisioni automatizzate, che viene toccato nel
Regolamento nella prima parte, che è la parte dedicata in particolare alle relazioni tra questi soggetti, il
cosiddetto titolare del trattamento dei dati, ovvero colui che opera il processo dei dati, il data subject

Nella prima parte sono citati i reciproci diritti e doveri. Poi ci sono altre parti del Regolamento, molto
complesse, dove si disciplinano le autorità e i poteri delle autorità garanti, e il rapporto tra le autorità
garanti e gli Stati, che il Regolamento europeo pretende di insistere sul tessuto giuridico europeo generale;
poi ci sono le sanzioni

La prima parte parla dei diritti (profilo sostanziale più importante); qui si parla di certi diritti che interessano
a noi, e del rapporto con il data controller.
Il testo ha una summa divisio ha cioè una sua divisione fondamentale: ha una prima parte in cui troviamo i
cosiddetti considerando, questa sequela di punti che vengono introdotti da questa espressione
“considerando quanto segue”; ciascuno di questi è immediatamente speculare rispetto a uno o più art. del
testo normativo che segue la sequela dei considerando.
Ciò che è diritto immediatamente applicabile, ciò che ha forza cogente, sono le disposizioni che partono da
p. 40 del testo (sono 112 pagine, le prime 40 sono “considerando”, mentre le altre sono testo normativo).
La parte cogente è quella che viene dopo, cogente significa “pienamente giuridica”, testi, disposizioni
normative dai quali traiamo norme di diritto, cioè la fonte del diritto.

I considerando sono una spiegazione del perché ci sono quelle specifiche disposizioni dopo, infatti le
“coppie speculari” sono facilmente riconoscibili, anzi, spesso il considerando è l’articolo stesso scritto però
in maniera più “distesa”; talvolta invece da delle informazioni considerando che cosa ha portato a quel
particolare modo di scrivere l’articolo, o quali considerazioni sono state diffuse dal legislatore, oppure ha
una funzione addirittura di suggerire interpretazione dell’articolo di riferimento (funzione questa
importantissima, l’interpretazione è tutto) perché avviene in una situazione comunicativa conflittuale
oppositiva (non si va davanti ad un giudice se si è d’accordo), e in questo caso il disaccordo è su come
leggere i testi.

L’articolo del 22 tratta le decisioni automatizzate, che si trova nella prima parte, cui corrisponde il
considerando n°71, il simmetrico dell’articolo. L’articolo 22, che è il “processo decisionale automatizzato
relativo alle persone fisiche, compresa la profilazione”. È un articolo che sta avendo molte discussioni, in
maniera piuttosto curiosa, il C71 sembrerebbe parlare di un articolo diverso, benché sia evidente che sia
riferito all’articolo 22 dato che il nucleo della regolazione viene ripreso.

Ciò ha la sua importanza per le ragioni dette in precedenza: pur non essendo cogente, il considerando ha la
sua importanza interpretativa. L’articolo 22, il nucleo regolativo del Regolamento europeo, riprende in
modo abbastanza lineare, con alcune modifiche, con alcune precisazioni, quello già esistente nella direttiva
del ’94, questo per dire che l’UE non ha cambiato idea nel frattempo per quanto riguarda la disciplina
generale delle decisioni automatizzate, è essenzialmente rimasta costante. Quest’idea ha un nucleo forte
nel fatto di essere costitutiva di un divieto di un principio, ovvero che tecnicamente il primo nucleo
regolativo dell’art.22, che è quello espresso dal primo comma, sarebbe questo: “l’interessato ha il diritto di
non essere sottoposto a una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato, compresa la
profilazione, che produca effetti giuridici che lo riguardano o che incida in modo analogo significativamente
sulla sua persona”.

Il principio generale è che le decisioni automatizzate sono proibite, quando sono in grado di avere effetti
giuridici o incidano in modo analogo significativamente sulla sua persona.
C’è bisogno che ci sia un cosiddetto “human in the loop”, cioè una persona fisica che intervenga in questo
processo che porta alla decisione. Vi sono molte discussioni, poiché molti dicono che dal ’94 in qua è
cambiato il mondo. Da tenere sempre presente, inoltre, è che questo Regolamento europeo
sostanzialmente viene approvato nel 2016, poi entra in vigore nel 2018, ci sono stati due anni di “buco”, e
ora è il 2020. In queste faccende, dal 2016 (quando è stato approvato) al 2020 è già cambiato qualcosa nel
mondo, nell’ultimo anno poi è cambiato ancora di più.

Articolo 22 GDPR

1. L'interessato ha il diritto di non essere sottoposto a una decisione basata unicamente sul trattamento
automatizzato, compresa la profilazione, che produca effetti giuridici che lo riguardano o che incida in
modo analogo significativamente sulla sua persona.
2. Il paragrafo 1 non si applica nel caso in cui la decisione:
a) sia necessaria per la conclusione o l'esecuzione di un contratto tra l'interessato e un titolare del
trattamento
b) sia autorizzata dal diritto dell'Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del
trattamento, che precisa altresì misure adeguate a tutela dei diritti, delle libertà e dei legittimi
interessi dell'interessato.
c) si basi sul consenso esplicito dell'interessato
3. Nei casi di cui al paragrafo 2, lettere a) e c), il titolare del trattamento attua misure appropriate per
tutelare i diritti, le libertà e i legittimi interessi dell'interessato, almeno il diritto di ottenere l'intervento
umano da parte del titolare del trattamento, di esprimere la propria opinione e di contestare la
decisione.

Nel punto 1, l’interpretazione più diffusa, con l’espressione “l’interessato ha il diritto di […]”, più che nel
senso di attribuire un diritto soggettivo all’interessato, viene letta come l’instaurazione di un divieto nei
confronti del data controller. Instaura una proibition, cioè un divieto nei confronti dell’altra persona. Un
altro non può mettere insieme un sistema che produca una decisione totalmente automatizzata, quando
questa decide sui miei interessi qualificati.

C’è chi interpreta l’articolo cercando di rafforzare il più possibile il principio, e quindi sottolinea l’elemento
del divieto, e chi invece sottolinea l’elemento del diritto soggettivo, proprio per evidenziare invece la
possibilità di trattare su questo punto; se si fosse voluto affermare in senso forte (il divieto) si poteva
formularlo diversamente, ma secondo un modo di legiferare abbastanza usuale, specialmente negli atti
dell’unione europea, che sembra rappresenti una presa di posizione perentoria verso la tutela nei
confronti dell’automazione, poi seguono delle situazioni di deroga. Da tenere presente: nel Regolamento
europeo questo compare molto di frequente (questa cosa è così, comma 2; quello detto nell’1 si deroga in
queste circostanze); è una struttura normativa che ricorre. Ovviamente de iure condendo, come dicono i
giuristi, possiamo dire: “È opportuno, non è opportuno, è bene, è male”, de iure condito, cioè di fronte al
testo normativo opposto, prendiamo atto che ha questa natura qui.

Leggendo il Regolamento europeo, specialmente se non si è giuristi, esso viene invocato come la
quintessenza della tutela, ma il Regolamento ha una sua complessità normativa, interviene in una
struttura sociale che già dal 2015/16 da quando è stato formato ad oggi è già molto diversa, secondo una
strategia di normazione che si comprende.

Bisogna però ora portare all’attenzione su un altro elemento preliminare che è molto importante; L’art.4
del Regolamento ha tutta una serie di definizioni che evidentemente sono il modo in cui si dovrebbe
cercare di comprendere certe espressioni quando compaiono nel Regolamento; una delle definizioni più
importanti per quanto è quella relativa al trattamento al dato personale (dato personale: definizione 1
art.4). L’altro è l’elemento del consenso, che ha una funzione enorme nel Regolamento e ha varie
applicazioni.

Queste cose sono attualissime, infatti c’è una proposta “sul tavolo”, che viene dal collega Crisanti che è di
fare come la Corea del Sud: spalancare l’accesso a tutti i dati relativi agli spostamenti di tutti noi per un
tracciamento aggressivo e radicale dello spostamento del virus, quindi una situazione di
scoperchiamento e di utilizzo di sistemi invasivi fino a questo punto. Leggendo questo, e leggendo l’art.22
che dice “il trattamento automatizzato, compresa la profilazione”. Si porta quest’affermazione di principio
come una bandiera; il trattamento automatizzato va bene me deve esserci sempre un apporto umano,
non può essere lasciato da solo, quindi ci riserviamo di valutare. Due cose ancora dobbiamo inserire in
questo panorama, ovvero la definizione di “consenso dell’interessato” (che nel testo è la n° 11 dell’art.4).
Perché “azione positiva inequivocabile”? Perché quando facciamo una flag, ovvero clicchiamo qualcosa,
non è che facciamo una dichiarazione, ma nel momento in cui è un’azione positiva inequivocabile,
diventa espressione del consenso, e quindi valido per tutti i fini per cui il consenso è valido per il
Regolamento, e sono enormi, il consenso è una sorta di gate Keeper, nel momento in cui tutto è tutela,
tutelante, il momento in cui arriva il consenso, si spalancano dei portoni e si può fare praticamente
qualsiasi cosa; per cui è un elemento cruciale nella protezione dei dati personali per il modo in cui è
impostato nel Regolamento europeo. Ovviamente il consenso deve essere libero, quindi non posso essere
forzato ad acconsentire sotto minaccia o sotto pressione di qualsiasi tipo, informato e specifico, il
consenso non deve essere generico.

Quando si prende l’altro articolo fondamentale del Regolamento, ovvero l’art. 6 “Liceità del trattamento”
scopriamo che il consenso è solo uno, possibile, non necessario elemento di validità del trattamento dei
dati personali. “Il trattamento è lecito solo se ricorre almeno una delle seguenti condizioni:
l’interessato ha espresso il consenso al trattamento dei propri dati personali per una o più specifiche
finalità …” (questo è solo un punto) … ci sono altre cinque ipotesi in cui può avvenire il trattamento dei
dati personali legittimamente, senza bisogno che ci sia il consenso, perché appunto è solo una delle
condizioni e l’art. ha bisogno che sia soddisfatta solo una.
Ciò significa che il procedimento di molta parte dei procedimenti di utilizzo del trattamento di dati
personali sono resi possibili, sono leciti, anche se non c’è consenso. Questo concetto è molto importante,
poiché solitamente si pensa che se non ho dato il consenso nessuno mi può toccare; bisogna però
ricordarsi il terzo comma dell’art. 1 (“la circolazione dei dati personali non può essere vietata né limitata
per ragioni attinenti alla tutela della persona”; i dati devono muoversi).

Per azione positiva non si intende nell’accezione di affermativo, negativo, ma si intende un’azione
evidenziabile, positiva come posta, un’azione messa in atto appositamente. Perché quell’espressione è
tenuta generica? perché nessuno sa in quali modi si può immaginare il consenso nell’utilizzo: magari lo
sbattere tre volte le palpebre davanti uno schermo, per esempio per soggetti affetti da disabilità; perché
non posso immaginare forme di consenso che prendano in considerazione il movimento oculare; se uno è
sensus sui, ovvero ha intatte le abilità cognitive, perché dovrebbe non esprimere il suo consenso solo
perché non si può muovere. Queste sono azioni positive, che possono valere in maniera inequivocabile,
specifiche e informate, possono valere come consenso. La definizione quindi si è tenuta “larga” proprio
per permettere tutte queste forme, purché siano informate, specifiche e inequivocabili.
Problemi
Ci siamo già resi avvertiti di alcune cose e in particolare di una importante, cioè che l'efficacia della
normativa europea è un po’ tutta da vedere. In un contesto in cui la rilevanza e l'estensione delle
decisioni automatizzate sarà sempre maggiore e che quella disciplina così come la stiamo iniziando a
vedere sia la più adeguata, è tutto da vedere. Non abbiamo uno storico rilevante da questo punto di vista.
Questo è molto importante perché il diritto si forma attraverso comunità complesse, attraverso
dinamiche molto complesse rispetto alle quali il momento fondamentale è il momento giurisdizionale,
cioè la famosa giurisprudenza. Neanche la dottrina si è occupata moltissimo della decisione automatizzata
finora. Questo offre un’immagine un po’ zoppa perché il diritto ha almeno quelle due grandi comunità in
dialogo tra loro, la dottrina e la giurisprudenza, e finché la giurisprudenza non comincia ad essere
significativamente impegnata da questo tema ci troviamo in una condizione parziale.

Il principio generale è un divieto di decisioni totalmente automatizzate. Totalmente automatizzate


significa che intervengano automatismi in un processo decisionale, è legittimo rispetto al regolamento e al
principio generale, quello che non ci sta, è che questo automatismo arrivi fino al punto della decisione
finale, ovvero che non ci sia appunto uno “Human in the loop”.
È importante, perché il regolamento non è contro il trattamento automatizzato dei dati, al contrario, lo
contempla e lo prevede, quello che non vuole è che questo trattamento determini una decisione
automatizzata senza nessuna intermediazione umana.

Intervento umano
Altro aspetto da tenere bene in considerazione riguarda la qualità dell’intervento umano. Che cosa
significa che deve esserci un intervento umano quando è il momento di aderire a una decisione, che abbia
una parte di gestione dei dati automatizzata? Di principio, il divieto non sarebbe aggirabile mettendo
qualcuno che sia semplicemente portavoce della volontà macchina. Significa che se l’organizzazione, nel
tentativo di aggirare il divieto mi mette lì uno solo con lo scopo di leggere ciò che scrive il computer,
quindi se l’umano che interviene non ha le caratteristiche di competenza e autorità, quella decisione sarà
ritenuta ancora totalmente automatizzata.

Fino a questo punto:


- prima questione: non sono proibiti i trattamenti automatizzati, sono proibite le decisioni automatizzate,
che seguono il trattamento automatizzato dei dati; 
- seconda questione: è trattamento automatizzato anche se interviene un umano che non ha autorità o
competenza; 
- terza questione da tenere molto bene in considerazione: non tutte le decisioni automatizzate sono
proibite, lo sono quelle che producono effetti giuridici.
Non si è contro il concetto di decisione automatizzata in sé, si è contro la decisione automatizzata che
abbia questa incidenza sulla vita delle persone, cioè quando incide effettivamente, o per effetti giuridici o
perché altamente significativa rispetto al destinatario. 

Gli esempi li leggiamo nel Considerando 71, che iniziamo a leggere:


“L'interessato dovrebbe avere il diritto di non essere sottoposto a una decisione, che possa includere
una misura, che valuti aspetti personali che lo riguardano, che sia basata unicamente su un
trattamento automatizzato e che produca effetti giuridici che lo riguardano o incida in modo analogo
significativamente sulla sua persona, quali il rifiuto automatico di una domanda di credito online o
pratiche di assunzione elettronica senza interventi umani” 
Esempio 1: negarmi il finanziamento, il mutuo, incide significativamente sulla mia persona, perché che io
abbia o meno quel mutuo, cambia tutto, posso comprarmi o meno la casa. Non posso obbligare la banca
a darmi il mutuo, perché è un contratto ed è nella libertà negoziale delle parti, non ha l’obbligo giuridico di
stipulare un contratto con me quindi non è che quella decisione automatizzata con cui mi venisse negato
un mutuo, ha effetti giuridici, non entrerebbe nella prima parte del divieto perché ancora non c’è un
rapporto che ci stringe.

Se si fosse fermato qua l'articolo, per esempio la negazione del finanziamento, non sarebbe stata coperta
dal divieto, perché non è tecnicamente una decisione per effetti giuridici, perché ancora siamo liberi,
siamo nella nostra libertà contrattuale, ecco che allora l'articolo estende il divieto di automazione anche
in quelle decisioni, come questa, che pur non essendo giuridicamente efficace, nel senso che non ha
effetti giuridici conseguenti a un rapporto già instaurato, tuttavia incide in modo significativo sulla mia
persona e dunque vieta l'automatismo anche in questo caso.

Esempio 2: L’altro caso è l’assunzione elettronica, cioè del personale, che tra l'altro sono estremamente
avanzate, tutti e due questi settori sono estremamente avanzati, è per questo che il regolamento li
contempla come esempi. Quel ciclo della datificazione, di cui abbiamo parlato, che si sta applicando già
con le norme estensione, sono proprio questi, l’ambito finanziario, in cui dentro c’è tutto, l’ambito
assicurativo, bancario e anche l’assunzione del personale, quindi si, le pratiche di assunzione sono
fortemente ispirate al ciclo della datificazione, per esempio in certe modernizzazioni che sono state fatte
che corrispondono all’interesse di chi ci da il lavoro, ragion per cui se ci tenete a farvi assumere state
molto ben attenti a quello che mettete sui vostri social network, perché si, si fanno profili su di voi
raccogliendo informazioni su di voi dalle tracce che avete sul web e questo può costarvi l’assunzione o no
in certi posti di lavoro, perché è uno dei settori più avanzato. Ma anche in quel caso possiamo fare un
discorso analogo, il datore di lavoro è obbligato ad assumermi? Non è obbligato ad assumermi, sente 200
persone ne assumerà 1 o 2, nessuno può chiedere conto per questo, eppure quella è una decisione che può
incidere fortemente sulla mia vita, se uno mi assume fa sicuramente la differenza.

Ecco perché il primo comma avrebbe inteso “includere”  in quella addizione così vaga “incide in modo
analogo significativamente sul destinatario” queste situazioni, quelle che non corrispondono a obblighi
giuridici strutturati, ma incidono appunto significativamente sulle persone, perché non ci vuole niente in
effetti ad automatizzare questi processi (costruzione dei profili, raccolta di dati, vedere se entra in un
profilo, si o no assunto, si o no ti do il credito) sono stupidaggini automatizzarle al giorno d’oggi, anzi sono
già sostanzialmente automatizzate, se non ci fosse un freno normativo, probabilmente sarebbero già
totalmente automatizzate. 

Esempio 2 (+specifico): Ad esempio la notizia, di due o tre anni fa, sull’algoritmo di Amazon che assumeva
soltanto uomini, perché era stato istruito sulla base dei dati di alcuni tipi di mansioni di cui Amazon aveva
bisogno, che per ragioni puramente fattuali, nel momento in cui i dati sono stati raccolti, erano occupati
da uomini e si è costruito un algoritmo che aveva quella modellizzazione, che poi applicava su larghissima
scala, e con un’ipotesi di algoritmo viziato che compie discriminazioni, in questo caso di genere, il  Dataset
con cui è stato allenato l’ha portato a creare una modellizzazione che ha incluso un pregiudizio di genere.
Questo è un tema molto studiato oggi, il pregiudizio che si incorpora nell’algoritmo e viene poi potenziato
dall’applicazione su larga scala. Se c’era un algoritmo che assumeva, vuole dire che quella era una
decisione sostanzialmente automatizzata, a meno che a un certo punto non ci fossero stati dei colloqui
però in quel caso mi ha selezionato una parte che è già viziata dal pregiudizio evidentemente non è lo
stesso. (Questi sono esempi che vengono riportati qua perché già nel 2015-16 questi erano due settori in
cui l’automazione della decisione era già cosa fatta sostanzialmente).

Ecco allora cosa vuole dire incidere in modo analogo significativamente sul destinatario, viene a coprire
quelle situazioni rispetto alle quali non c'è un rapporto giuridico strutturato e perfetto fin dall'inizio,
tuttavia sono giudicate aventi un’incidenza particolare sul destinatario. Il regolamento è contro
l’automazione nel processo dei dati? No. È contro che cosa? Che a un processo automatizzato segua una
decisione ugualmente automatizzata. È contro tutte le decisioni automatizzate? No. È contro quelle
decisioni automatizzate fino in fondo che producano effetti giuridici o che incidono in modo analogo
significativamente sul destinatario.

Prima leggiamo la disposizione normativa, cioè il diritto cogente, e poi ragioneremo anche sul suo
rapporto con la continuazione del considerando. In principio è abbastanza chiaro, e corrisponde a una
presa di posizione forte del diritto dell’Unione.

Articolo 22, comma secondo: 


Il paragrafo 1 non si applica nel caso in cui la decisione:
a) sia necessaria per la conclusione o l'esecuzione di un contratto tra l'interessato e un titolare del
trattamento;
b) sia autorizzata dal diritto dell'Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del
trattamento, che precisa altresì misure adeguate a tutela dei diritti, delle libertà e dei legittimi
interessi dell'interessato;
c) si basi sul consenso esplicito dell'interessato.

continuazione Considerando 71:

“Tale trattamento comprende la «profilazione», che consiste in una forma di trattamento automatizzato (definizione articolo
4 del regolamento) dei dati personali che valuta aspetti personali concernenti una persona fisica, in particolare al fine di
analizzare o prevedere aspetti riguardanti il rendimento professionale, la situazione economica, la salute, le preferenze o gli
interessi personali, l'affidabilità o il comportamento, l'ubicazione o gli spostamenti dell'interessato, ove ciò produca effetti
giuridici che la riguardano o incida in modo analogo significativamente sulla sua persona. Tuttavia, è opportuno che sia
consentito adottare decisioni automatizzate”

Cosa vuole dire nell’art.22 che il paragrafo 1 non si applica nel caso in cui? Vuole dire che quando ricorre
una di queste ipotesi, sono legittime decisioni totalmente automatizzate. Quando ricorre a una di
queste ipotesi, quello che abbiamo detto nel paragrafo 1 non vale più e dunque è possibile quello che
proibiva. 

Spesso il regolamento fa così, prendendo una tutela molto rigorosa, poi fa delle deroghe e in particolare
nel regolamento, il consenso ha questa caratteristica di spalancare le porte a tutto ciò che sembrava
proibito prima e la l’ipotesi c’è uno di quei casi. I primi due casi forse sono meno rilevanti, difficile
immaginare quando una decisione automatizzata sia necessaria per la conclusione di un contatto, molto
difficile immaginare che sia proprio necessaria. Qui c’è una discussione interpretativa piuttosto difficile.
C’è duplicità di interpretazione del necessario, necessario secondo il tipo giuridico e necessario secondo la
struttura economica della società. In questo momento non c’è una soluzione, anche perché questo non è
probabilmente l'ambito maggiore di applicazione di questo articolo. Forse già di più potrebbe essere
necessario per l’esecuzione di un contratto, questo per esempio ci introdurrà al tema degli Smart
Contract, cioè automatismi (oggi con il termine si intendono automatismi che stanno su una struttura
specifica che si chiamano Blockchain) che corrispondono all’adempimento di prestazioni contrattuali, per
la precisione questi sono Smart Legal Contracts.

Esempio: Se noi stabiliamo un contratto, per esempio un contratto di comodato di una cassetta in cui
tengo i miei effetti personali come accessorio quando vado al campeggio e stabiliamo che certe
prestazioni siano automatizzate, come la consegna e la riconsegna delle chiavi d’accesso, supponiamo che
siano elettroniche, e che sia automatizzato questo. Se l'abbiamo stipulato noi allora l’esecuzione
automatizzata è necessaria per il fatto che l’abbiamo stipulato noi. Questa seconda ipotesi della prima
eccezione della lettera a del paragrafo 2 potrebbe avere applicazione più diffusa che non la prima.  La
seconda eccezione è abbastanza auto esplicativa, se interviene una legge o dell’UE o dello stato (attenti a
questa precisazione) membro cui è soggetto il titolare del trattamento, il Data controller, non il soggetto
dei cui dati si tratta. Nei rapporti abbiamo detto, nell’immaginario del regolamento, ci sono questi due
soggetti principali, il soggetto di cui dati si tratta Data Subject (io che do i miei dati a “X”) e il titolare del
trattamento, o Data controller (prende i dati e li tratta).

Quale legge può autorizzare la deroga al principio del primo comma? Tutto questo è molto interessante,
ma probabilmente il caso più problematico è il caso del consenso dell’interessato. Perché è il caso più
significativo? Perché è evidente che è quello più facilmente realizzabile, perché un soggetto che utilizza o
che ha intenzione di utilizzare trattamenti automatizzati fino a decisioni rilevanti per i soggetti.
Si proporrà di accettare anche questa cosa, nel momento in cui accetti altre cose.

Questo consenso di cui si parla qua è il consenso a ricevere una decisione automatizzata, è un’altra cosa
rispetto al consenso che legittima il trattamento dei dati personali. Un Data Controller che volesse fare
tutti e due, quindi trattare automaticamente i dati e a divenire a decisioni automatizzate dovrebbe
chiedere due consensi, posto che i consensi devono essere specifici e ben determinati, perché un conto è
il trattamento dei dati automatizzato rispetto al quale ci sono gli organi informatici, una serie di diritti
nella prima parte, possiamo chiedere la rettifica, l'accesso, tante cose, una serie di tutele, ma finisce lì, un
conto è che al trattamento automatizzato segua anche una decisione nei miei confronti. Sono due
momenti, sono due cose distinte, potrei autorizzare la prima e non autorizzare la seconda... Quindi un
conto è il consenso come requisito di legittimità del trattamento dei dati, quello disciplinato dall’articolo 6
che abbiamo visto questa mattina, quell’uno di tante ipotesi che possono legittimare il trattamento dei
dati, un conto è quest’altro consenso al ricevere una decisione completamente automatizzata, sono due
cose logicamente distinte. 

Arriviamo a parlare di un’altra parte importante di questo articolo, così come nel caso A “necessario per la
conclusione o l’esecuzione di un contratto”, il caso C “il consenso dell’interessato”, “il titolare del
trattamento attua misure appropriate per tutelare i diritti, le libertà e i legittimi interessi dell’interessato”
(punto 3 dell’articolo 22). Notate che è la stessa dizione che c’è nel punto B, dove appunto dice “misure
adeguate a tutela dei diritti, delle libertà e dei legittimi interessi dell'interessato”. Quando è la legge a
stabilire l'autorizzazione alla decisione automatizzata, la legge stessa prevede misure adeguate, quando
questo viene fatto dal titolare del trattamento, caso A e C, il titolare del trattamento dovrà attuare le
misure appropriate per tutelare i diritti, le libertà e i legittimi interessi dell’interessato.

La legge europea vuole che ogni qualvolta ci sia la possibilità di una decisione automatizzata, essendo
qualcosa che deroga al principio generale, questa autorizzazione sia poi supportata da ulteriori misure a
garanzia di diritti e degli interessi del cittadino e dei destinatari.
Quando è una legge ad autorizzare questo, sarà la legge a dire quali sono, quando è il titolare del
trattamento a fare questo sarà lui a decidere.
Nel caso in cui il titolare del trattamento attua misure decisorie di automazione, dovrà prevedere misure
adeguate. In questo caso la legge prosegue stabilendo in cosa debbano consistere nel minimo queste
ulteriori misure, e dice che devono essere almeno questi tre ulteriori di diritti.
1. Il diritto ad ottenere l’intervento umano (la parte del titolare del trattamento),
2. di esprimere la propria opinione
3. di contestare la decisione

Il Considerando n. 71 dice

“Tuttavia, è opportuno che sia consentito adottare decisioni sulla base di tale trattamento, compresa
la profilazione, se ciò è espressamente previsto dal diritto dell’Unione o dagli Stati membri cui è
soggetto il titolare del trattamento, anche a fini di monitoraggio e prevenzione delle frodi e
dell’evasione fiscale secondo i regolamenti, le norme e le raccomandazioni delle istituzioni dell’Unione
o degli organismi nazionali di vigilanza e a garanzia della sicurezza e dell’affidabilità di un servizio
fornito dal titolare del trattamento o  se è necessario per la conclusione o l'esecuzione di un contratto
tra l'interessato e un titolare del trattamento, o se l'interessato ha espresso il proprio consenso
esplicito. In ogni caso, tale trattamento dovrebbe essere subordinato a garanzie adeguate, che
dovrebbero comprendere la specifica informazione all'interessato e il diritto di ottenere l'intervento
umano, di esprimere la propria opinione, di ottenere una spiegazione della decisione conseguita dopo
tale valutazione e di contestare la decisione. Tale misura non dovrebbe interessare un minore.”

Ci sono due cose da sottolineare nella parte evidenziata

1. nell’ art 2 mi dice che per autorizzare devo prevedere altre misure ma non mi dice quali o mi dice solo
quelle minime, nel 71 invece mi dice “in ogni caso” si deve preveder e un minimo. Nasce quindi un
problema interpretativo: se leggiamo solo il 22 le misure minime sono tali solo per il titolare del
trattamento e le sue controparti. Lo stato non è chiamato in causa. Con il 72 invece anche lo stato è
chiamato in causa perché si dice “ogni volta”, anche lo stato deve prevedere almeno la garanzia di quei
diritti.

2. qui prevede di più di diritti dell’art 22: dovrebbero comprendere la specifica informazione
all’interessato (questo non c’era), ottenere l’intervento umano (c’era), di esprimere una propria
opinione(c’era), di ottenere una spiegazione della decisione conseguita (non c’era), contestare la
decisione (c’era). Se noi leggiamo considerando 71. I diritti che devono essere garantiti nel minimo, sono
non più 3 ma almeno 5.

Abbiamo quindi un secondo problema interpretativo. Su queste 2 questioni quello che ha più mosso la
letteratura è “il diritto a ottenere la spiegazione della decisione “. Esiste o non esiste nel regolamento
europeo un diritto alla spiegazione? Il problema è: Se devo garantire una spiegazione, tanto più faccio
rifermento sistemi evoluti tanto meno sono in grado di dare una spiegazione della decisione (esempio
delle macchine che si guidano da sole), nessun data controller è in grado di dare una spiegazione passo
dei sistemi molto evoluti ...e questo limita allora la possibilità di sviluppare sistemi evoluti.

Risponde a questo in letteratura con un articolo Luciano Floridi: Tra gli argomenti che usa c’è quello
formalista: i considerando sono una parte non cogente della normativa, vale l’art.22 e il considerando 71
non è stato aggiornato. Da qui è seguita un ulteriore discussione in letteratura: non si è arrivati a una
conclusione.

Allora i problemi interpretativi sono due:

1. le misure stabilite nel minimo valgono solo nei casi a e c dell’art 22 o valgono sempre come sembra
dire il considerando 71? Anche qui sono possibili due interpretazioni diverse:
1. la prima più formalista che dice: il diritto di spiegazione non c’è perché se il legislatore nella
lettera b non ha scritto il minimo di misure allora intende dire che tende ad escluderle
(probabilmente questa prima interpretazione è la più giustiziabile, è un argomento abbastanza
forte di fronte a un giudice)
2. c’è anche chi dice che invece il diritto c’è e lo dice perché (questo è un argomento forte) sembra
essere precondizione per l’esercizio di altri diritti che invece sono esplicitamente previsti,
tipicamente il diritto di contestazione. Per esempio, esistono gli articoli che vi ho già accennato 13
e 14 del regolamento dove si disciplinano “informazioni da fornire qualora i dati personali siano
raccolti presso l’interessato”, il 14 è molto simile ma è per l’ipotesi in cui i dati non siano tenuti
presso l’interessato. Cioè quando il titolare del trattamento inizia il trattamento ha degli obblighi
informativi, cioè deve informare i soggetti sia che lo faccia sulla base del consenso sia che lo faccia
sulla base degli altri ha un serie di obblighi informativi tra cui: “ devo informarti dell’esistenza di
un processo decisionale automatizzato compresa la profilazione di cui all’art 22 paragrafi 1 e 4 e
almeno in tali casi, informazioni significative sulla logica utilizzata nonché l’importanza e le
conseguenze previste di tale trattamento per l’interessato” , cioè nel momento stesso in cui io
inizio il trattamento devo essere sicura che questo trattamento è legittimo, deve ricorrere almeno
uno dei requisiti dell’art. 6 (consenso oppure uno di tutti gli altri), poi devo anche darti un serie di
informative , le famose informative sulla privacy che citiamo sempre senza leggerle, dovrebbero
prevedere le cose che sono scritte qua; tra queste cose devo essere già informato che esiste un
processo decisionale automatizzato se c’è, compresa la profilazione , di quella al n 22, e almeno in
questi casi dovrei avere informazioni significative sulla logica utilizzata nonché sull‘importanza
delle conseguenze previste per il trattamento dell’interessato.

2. c’è chi dice il diritto di spiegazione dell’art 22 non è così importante perché il regolamento è pieno di
adempimenti a tutela del soggetto dei dati che gravano sul data controller, per esempio gli obblighi
informativi (e non sono gli unici) tra cui ci sta: la necessità di informarti sull’esistenza dei
procedimenti informatizzati, addirittura di darti informazioni significative sulla logica utilizzata, cioè
come funziona questa cosa, nonché dell’importanza delle conseguenze previste di tale trattamento
per l’interessato. Il problema di focalizzarsi se esiste o no questa figura giuridica non è così grave
purché siano rispettati tutti gli altri obblighi del regolamento in particolare quelli informativi.

Diritto a contestare la decisione


La verità è invece che ultimamente si sta concentrando l’attenzione su un diritto probabilmente più
decisivo del diritto di spiegazione, giuridicamente parlando, che è il diritto a contestare la decisione (che
va capito come indicato: “il titolare del trattamento deve attuare misure appropriate per tutelare i diritti
di libertà, tra questi almeno il diritto a contestare la decisione”. Attuare misure per consentirmi la
contestazione della decisione.

Oggi in letteratura si sta parlando a questo proposito del principio di contestability by design ... cosa vuol
dire “by design”? significa: “fin dal momento della progettazione del sistema del trattamento dei dati”, io
devo predisporre degli strumenti per garantire il diritto di contestare la decisione automatizzata, cioè il
sistema va progettato fin dall’inizio sapendo che devo includere strumenti specifici per consentire la
contestazione. Questo è un tema molto importante, anche perché progettare mezzi adeguati a consentire
la contestazione significa già garantire un assetto di rapporti tra le parti che include il rispetto del
principio del contraddittorio, include la possibilità di esprimere un punto di vista argomentato con cui si
contesta la decisione, include il bisogno di una presa in carico della contestazione e una sua decisione.
Il principio di contestability by design significa un impegno grosso di disegno di sistemi di misure
automatizzate, quello di prevedere degli strumenti interni di risoluzione delle controversie.

Riassunto
Il Regolamento Europeo per la Protezione dei Dati Personali sostituisce la direttiva del ‘95, che è stata la
prima normazione in Italia sul territorio europeo.
Direttiva = bisogno di leggi nazionali di recepimento, nel nostro caso la legge del ‘96 e poi il testo del 2003
con tutte le modifiche.
Il Regolamento europeo è una fonte che invece è immediatamente efficace all’interno dell’ordinamento
degli Stati membri, questo vuol dire che le sue norme sono norme vincolanti, ma anche che di fronte ad
un potenziale conflitto tra il Regolamento e il diritto interno, cioè una legge dello Stato italiano, la legge
dello Stato italiano cede, questo vuol dire che il giudice disapplica il diritto interno.

Il testo dell’ordinamento è suddiviso in due parti:


1. La prima parte raccoglie i cosiddetti considerando.
2. La seconda parte contiene i dispositivi e le norme specifiche e cogenti.

La differenza fondamentale tra le due parti è che la prima non è considerata diritto cogente, cioè non è
immediatamente vincolante, mentre invece lo è la parte dell’articolato che segue; si dice che l’efficacia
sta nell’articolato che segue, non ha efficacia recettiva invece la parte del considerando.
Ciò non di meno, i considerando sono estremamente importanti perché offrono strumenti interpretativi e
di fatto sono il luogo dal quale vengono attinte tutte le prime indicazioni orientative per l’interpretazione
del testo anche a livello istituzionale, nel senso che anche le autorità - in particolare le autorità garanti
degli Stati, che a questo punto hanno tutte il medesimo Regolamento di fronte, che è vincolante per tutti
- si orientano nell’interpretazione dell’articolato a partire intanto da quello che i considerando indicano,
sono le prime linee guide interpretative.
Naturalmente il fatto che non siano cogenti significa che noi li utilizziamo per capire intanto cosa vuol dire
questo Regolamento, ma se si dovesse andare davanti ad un giudice, questo non è affatto vincolato dai
considerando.
Se dovesse ritenere che la migliore interpretazione si allontani dalla spiegazione dei considerando,
applicherà quella che ritiene più razionale, nel momento in cui accade.

Seguendo sempre il nostro schema del ciclo della datificazione, che ad un certo punto, dopo il problema
dell’estrazione della conoscenza, si muove verso il tema della decisione e dalla decisione all’azione.

Due sono state le previsioni sulle quali abbiamo impostato il nostro discorso:

1. La datificazione aumenterà sempre di più ed esponenzialmente (non è tanto una previsione, ma da


una constatazione a una previsione, sul mezzo termine)
2. All’aumentare della datificazione, aumenterà l’automazione, cioè l’applicazione di procedure di
decisione automatica sarà estesa ad ambiti dell’esperienza sempre maggiori (meno scontata)

Tema che normativamente non è nuovo, c’era già nella direttiva del ‘95, ed è addirittura ispirato a delle
normative francesi degli anni ‘70, quelle come quella della direttiva, rimaste sostanzialmente inapplicate,
anche se in realtà nel mondo giuridico il tema non è del tutto nuovo, o meglio, il tema dell’automatismo
nelle prestazioni contrattuali - in particolare ci interesserà con il tema degli smart contracts - non è affatto
nuovo perché noi facciamo un sacco di contratti automatizzati, già da molto prima che ci fosse internet
(ad
Esempio: quando siamo alla stazione e prendiamo il tè alle macchinette stiamo stipulando un contratto di
compravendita a tutti gli effetti, le cui prestazioni - una parte - sono state automatizzate dalla macchina
Il contratto di compravendita per quanto riguarda i beni mobili non ha requisiti di forma ad substantia,
particolari, cioè si può stipulare senza la forma scritta/senza forme solenni e quindi il fatto di mettere la
monetina e selezionare la bevanda corrisponde alla proposta contrattuale e all'accettazione ed
esecuzione delle prestazioni in forme che sono almeno parzialmente automatizzate.

Ecco perché la normativa del Regolamento europeo invece probabilmente sarà sempre più rilevante,
perché anche la dottrina sta cominciando a lavorarci parecchio, stanno uscendo un sacco di spunti, articoli
e lavori che ruotano attorno al tema delle decisioni automatizzate, cosa che non si era mai vista sotto
l’impero della precedente normativa.

Che poi questa normativa sia la migliore possibile è tutto da vedere, così come è da vedere se questa
normativa durerà nel tempo, infatti già da molte parti arriva l’idea che tutto questo Regolamento sia
impostato su dei principi obsoleti, a cominciare dall’impostazione dell’architettura di base; in fondo il
Regolamento ha in mente questo scenario:

io di fronte ad un soggetto, che ha una certa potenza tecnologica e ha un interesse o comunque


un’organizzazione per la quale deve trattare dei dati personali, e io in qualche modo gli consento (o non
mi oppongo al fatto che lui tratti i miei dati) di farlo, c’è questo rapporto 1:1 tra me e lui e semmai un
terzo soggetto che compare, che si chiama responsabile del trattamento, che fa sempre parte della
squadra della mia controparte, e io sono un po’ considerato il soggetto debole, perché ho una serie di
diritti che sono indicati nei primi articoli della primissima base del Regolamento fino all’art.23, dedicati a
ciò che io posso fare nei confronti di questa squadra, che in qualche modo ha un interesse contrapposto
al mio o per lo meno si manifesta più minacciosa perché ha in mano elementi sensibili che mi riguardano.
Ha cioè i miei dati personali che possono essere estremamente sensibili, tipo dati sensibili che riguardano
la salute, dati biometrici, opinioni filosofiche, religiose, politiche, tutti quegli elementi su cui si possono
innescare rapporti di forza e anche violazioni di diritti fondamentali della persona.

Per il momento c’è questo schema: io con il mio pacchetto di dati, te lo do e poi ti controllo con una serie
di posizioni giuridiche ed eventualmente se non ti comporti bene c’è l’autorità garante che ha tutta una
serie di poteri, si coordina con le altre dell’Unione Europea, in modo che tutto sia ordinato perché i dati
circolano ed eventualmente interviene con delle sanzioni che possono essere molto dure.

Il punto è che tutto questo scenario è oggi considerato ipersemplificato, intanto perché le cose più
minacciose per me non vengono normalmente dal pacchettino di dati che io ti consento di trattare, ma
semmai dall’uso che fai di questi dati insieme a miliardi di altri dati di cui ti servi per estrarre quella
conoscenza di cui dicevamo prima, e si è capito che da questo gioco di commissione di dati e di estrazione
della conoscenza di data mining, può venir fuori veramente qualsiasi cosa;

allora si comincia a pensare che tutta questa impalcatura non tiene conto di altre faccende, in particolare
della sempre crescente esponenziale differenza di potere tra questi soggetti; dunque puoi diventare più
potente, anche rispettando tutte le regole, perché quella massa di dati che tu utilizzi per creare le
modellizzazioni entro cui metti il mio pacchettino di dati per creare il mio profilo e vedere con che
probabilità “matcho” le previsioni che fai, ecco questa grandissima massa di dati può essere, e
normalmente è, anonimizzata.

Se sono dati anonimizzati, il Regolamento non si applica più, perché il dato personale si riferisce ad una
persona fisica identificata o identificabile; Ma da masse di dati anonimi, con quel poco che tu mi dai, tirar
fuori veramente tante cose, su di te.

Poi ci sono elementi specifici del Regolamento che sembrano essere in tensione con la spinta innovativa
che invece si vuole affermare nel panorama europeo e tra queste c’è anche la faccenda delle decisioni
automatizzate.

E proprio questo per il momento si tratta di vedere come dev’essere, ci sono due interessi evidentemente
connessi a questo studio:

1. Il primo è quello del data controller, il quale tanto più utilizza sistemi di automazione, tanto più ha
interesse evidentemente a fare le cose in regola (compliant), cioè a sapere che l’organizzazione che
mette in piedi è in linea con le previsioni del Regolamento; attenzione che il cosiddetto principio di
responsabilizzazione o di accountability richiede che il data controller faccia uno sforzo organizzativo
per garantire by design la tutela della protezione dei dati personali e che anche sia in grado di
dimostrare che ha fatto questo sforzo, gli si richiedono degli obblighi di adempimento che vanno
dalla progettazione, alla realizzazione, ad una serie di attività nel caso in cui le cose vadano storte (che
è molto oneroso), ma anche di essere nella posizione di poter dimostrare in qualsiasi momento che
ha fatto tutto quello che doveva fare.

2. L’altro interesse è invece potenzialmente in tensione e cioè quello dell’interessato, del soggetto di cui
dati di tratta, che ha interesse che le operazioni che vengono fatte non gli sfuggano di mano e possa
avere l’autodeterminazione nei confronti dell’utilizzo dei propri dati ed è una sorta di aspetto
proattivo ed espansivo della propria personalità e che evidentemente lo protegge. Dunque, far sì di
avere tutto sotto controllo e poter esercitare le posizioni giuridiche che il Regolamento consente,
quando ritenga che quelle gli possano soccorrere di fronte ad un potenziale danno/lesione.

I due interessi vengono vanificati entrambi nella misura in cui la normazione si mostra confusa, vaga o
troppo generica evidentemente, perché uno non sa mai se è in regola e l’altro non sa mai precisamente
cosa può fare o cosa non può fare per tutelarsi.

Questa situazione purtroppo è esattamente quella che si verifica con il riferimento delle decisioni
automatizzate, rispetto alle quali già di partenza non ci troviamo messi benissimo, perché innanzitutto
troviamo subito una discrepanza significativa tra i considerando (nella fattispecie del n.71) e l’articolato
dell’art.22, perché ci sono almeno due grandi differenze tra l’uno e l’altro.

Nel considerando 71 c’è una differenza per quanto riguarda il minimo delle misure di garanzia che devono
essere garantite per l’ipotesi in cui sia legittimo ricorrere alle decisioni automatizzate, laddove
nell’articolato si individua un minimo di garanzia con riferimento a due delle tre ipotesi e invece nel
considerando 71 sembra dirsi in ogni caso senza fare eccezioni rispetto alle tre ipotesi derogatorie dei
principi generali.
Già questa è una prima tensione che significa che io non so da questa articolazione delle due parti del
testo se anche nell’ipotesi che l’art. 22 esclude e precisamente quando l'automazione è autorizzata dato
legge dello Stato in cui il trattamento è libero oppure dal diritto dell’Unione Europea, se in queste ipotesi
che l’art.22 esclude da un minimo di misure di garanzia precisamente individuato, devo aspettarmi
dall’atto - sia dell’Unione Europea o che sia dello Stato membro - che preveda quel minimo lì, oppure no e
preveda delle altre cose (perché qualcosa deve pur prevedere, l’art. 22 afferma che comunque deve
prevedere delle garanzie idonee alla tutela dei diritti, ma non dice quali sono il minimo, mentre lo dice per
le altre due ipotesi).

Il dubbio è: quel minimo lì me lo deve garantire quella legge (supponiamo sia la legge dello Stato) o no?
Il considerando dice di sì, l’articolato lo esclude esplicitamente.

Codice Civile
Ora una regola interpretativa dei testi giuridici che si dichiarano il principio dell’interpretazione letterale,
è indicato nell’art.12 delle disposizioni preliminari al Codice Civile.

Infatti, il Codice Civile ha una parte preliminare che si chiamano disposizioni preliminari che tratta di alcuni
temi generali per esempio della legge in generale, dell’abrogazione e l’articolo dedicato
all’interpretazione inizia proprio dicendo che nell’interpretare la legge il giudice deve attribuire alle
parole il loro senso proprio, il senso fatto palese dalle parole e dalla connessione di esse, si usa dire che
individua come canone ermeneutico l’interpretazione letterale.

Questo significa che se noi prendiamo un’interpretazione letterale e vediamo che su tre ipotesi, su due
hai detto qualcosa e uno è clamorosamente escluso, dovrò interpretare nel senso che ha voluto escludere
proprio quell’ipotesi lì.
Allora se questa interpretazione prevale significa che l’atto dello Stato o dell’Unione Europea che
autorizzasse il titolare del trattamento a servirsi di strumenti automatizzati in deroga al principio generale
dell’art.22 e dovrebbe comunque prevedere delle misure di tutela, ma sarebbe libero di stabilire quelle
che vuole e non necessariamente del minimo quelle che sono indicate come minimo per le altre ipotesi.

Se invece prevale l’interpretazione un po’ meno letterale, ma l'interpretazione letterale cede molto
facilmente a interpretazioni che si chiamano sistematiche-ecologiche, cioè per dare senso complessivo a
qualcosa che quando appare e che va un po’ al di là della lettera immediata della legge; se il giudice
chiamato dovesse ritenere invece che l’interpretazione più razionale è quella che dice il considerando 71,
allora quelle legge che non lo fa, cozzerebbe con il Regolamento europeo, e di conseguenza sarebbe
disapplicata.

Risultato: per me che sono un data controller e che ho il problema di essere compliant, se mi fido della
legge dello Stato che non prevede questo punto e poi prevale l’interpretazione contraria, ovviamente mi
trovo ad essere dichiarato non compliant con i regolamenti ed è un problema.

Quindi il punto qual è?


Il punto è che non sono sciocchezze cambiare di interpretazione o dichiararne una piuttosto che un’altra,
perché il risultato finale è che ti ritrovi in causa con una posizione credendo di essere compliant e poi ti
scopri che non lo sei, e avrai le sanzioni.
Il senso del discorso è che quindi l’interpretazione è importante, perché a seconda dell’una e dell’altra
passi un guaio oppure no.
Questa è la prima sensibile differenza tra il considerando 71 e l’articolato 22, e non è banale.

Differenza significativa
L’altra differenza significativa - che ha fatto e sta facendo più discutere la letteratura scientifica, molto più
della prima ipotesi - è il fatto che il considerando debba prevedere tra quelle misure minime che devono
essere garantite per l’ipotesi in cui la decisione automatizzata sia possibile, e cioè in deroga al principio
generale, e secondo il considerando 71 in ogni caso e secondo l’articolato 22 soltanto in due delle tre
ipotesi, quelle figure minime sono un certo numero nel 71 e molte meno nell'art.22;

nell’art.22 sono ridotte a tre:


1. Diritto all’intervento umano
2. Diritto a esprimere la propria opinione
3. Diritto di contestare le decisioni

nel considerando 71 ce ne sono almeno altre due:


1. Diritto a ottenere informazioni specifiche
2. Diritto (discussissimo) della spiegazione, la spiegazione di come si è arrivati a quella decisione
particolare che mi ha riguardato

Attenzione che se esiste questo diritto ci sono due forme di informazioni che il data controller sarebbe
tenuto a darmi: un primo pacchetto di informazioni che mi deve dare nel momento in cui inizia il
trattamento dei dati - sia che abbia ricevuto i dati da me o che li abbia presi aliunde, cioè da qualche altra
parte - e sono gli art.13 e 14 (che abbiamo visto la scorsa volta).
Nel momento in cui inizia il trattamento mi deve dare delle informazioni e tra queste c’è proprio
l’indicazione dell’esistenza di un procedimento di decisione automatizzata ai sensi dell’art.22 e anche
della profilazione, insieme ad altre cose.

Tra le informazioni che mi devono essere date quando inizia il trattamento c’è questo:

(parte specifica dell’articolo 13, che è uguale all’art.14):

(f) l'esistenza di un processo decisionale automatizzato, compresa la profilazione di cui all'articolo 22,
paragrafi 1 e 4, e, almeno in tali casi, informazioni significative sulla logica utilizzata, nonché l'importanza
e le conseguenze previste di tale trattamento per l'interessato.

La domanda è se oltre a queste informazioni qui con il diritto di spiegazione sia richiesto al data controller
di darmi di più di conoscenza e precisamente non semplicemente delle informazioni (per quanto
significative) ex ante, cioè sul procedimento in sé in generale, a prescindere dalla decisione specifica, in
generale come funziona. Queste informazioni saranno uguali per tutti quelli che hanno a che fare con il
data controller ma non attengono specificatamente al perché si arriva ad una precisa decisione nei tuoi
confronti.

La domanda è se con il diritto di spiegazione previsto dal considerando 71 e non esplicitamente nell’art.
22 sia preteso qualcosa di più, cioè anche una specifica spiegazione ex post (dopo che la decisione è
arrivata), del perché, non solo come funziona in generale, ma perché a me è stato deciso così.

Sempre di più nella dottrina italiana sta prevalendo la tesi dell’esistenza del diritto di spiegazione;
addirittura, nell’articolo recentissimo di una rivista italiana di uno autore rinomato, considerabile punto di
riferimento, tutto l’articolo era scritto come se nell’articolo 22 il diritto di spiegazione fosse esplicito. Cioè
per lui tanto è ovvio che debba esserci neanche specificava nell’articolo che non era compreso in
quell’articolo.

C’è stata una diatriba su questo punto perché intendere il diritto di spiegazione in un senso
particolarmente analitico, è stato visto come una minaccia rispetto all’introduzione di certe forme di
innovazione tecnologica che, invece, si basano su sistemi che sono riconosciuti come opachi da questo
punto di vista.
La discussione dottrinale è partita proprio da questo allarme che è stato generato. Ci sono certe forme di
intelligenza artificiale, per esempio, quelle collegate alla forma di IIP (Infosys Information Platform) del
machine learning che sono opache, non saprei dire per quale motivo ogni tanto c’è un certo output
rispetto ad un altro, specialmente quando quel comportamento è aberrante in certe situazioni.

Ultimamente si dà sempre più importanza al diritto di contestazione, cioè di queste tre figure sta
emergendo come è importante il diritto di contestazione che è stata una figura importante durante la
discussione, quando tutti si ragionava sul diritto di spiegazione se ci stava oppure no lo si aveva dato per
ovvio; come si danno per ovvio le altre figure qui indicate: il diritto all’intervento umano, il diritto di
esprimere la propria opinione e contestare la decisione
Ora la ragione per cui non sono state prese troppo sul serio queste figure perché il diritto di spiegazione
era, come avete capito, urgente per i data controller, soprattutto quelli grossi, quelli che investono
sempre di più su intelligenze artificiali e iip. E si è dato un po’ per ovvio il resto
E ora che i giuristi ci stanno ragionando su esce questo fatto che non sia per niente ovvio. C’è un punto
rispetto al quale l’interpretazione giuridica dei testi si allontana un pochino rispetto all’interpretazione
che degli stessi testi possono dare i tecnici che realizzano i sistemi.
E il punto fondamentale in cui si allontanano di solito è perché vengono letti i testi alla luce di due punti di
vista diversi (il punto di vista che utilizziamo determina l’interpretazione)
Un conto è leggersi l’articolo 22 e porsi il problema dell’organizzazione dei mezzi; un conto è leggerlo e
porsi il problema della difesa dei diritti.

I due punti di vista non sono necessariamente coincidenti, per esempio perché il secondo non può
accettare interpretazioni del testo normativo che svuotino di efficacia precettiva il testo stesso, cioè il
giurista parte sempre dal presupposto che ciò che è scritto nel testo normativo, essendo il testo fonte del
diritto, ha una forza precettiva e idealmente ogni cosa che prevista nel testo deve manifestare questa
forza.
Non posso cioè interpretare il testo normativo in un modo tale che a un certo punto si svuoti di efficacia
una previsione esplicita del testo normativo stesso; se arrivo a offrire un’interpretazione di questo tipo
sarà sbagliata, o per lo meno il giurista la rifiuta come inaccettabile, se ce ne sono di alternative. Ovvero
tra due interpretazioni una che mi riduce il testo di fatto da essere inapplicabile o di nessuna utilità
rispetto alla tutela che dovrebbe prevedere e l’altra, magari lontana dalla prima, ma che invece dà al testo
pienezza di capacità precettiva e che quindi dà efficacia tutelare di tutte le prescrizioni il giurista sceglierà
questa perché fa parte esattamente del metodo di interpretazione giuridica

Il testo è la fonte del diritto, cioè contiene norme giuridiche. Io devo leggere il testo per cercare le norme,
non per cercare di svuotarle di significato. Non è un punto di vista praticabile di partenza quella che il
legislatore non segua il significato precettivo, tutelante. Quando accade questo qualcosa non sta
funzionando nell’interpretazione e probabilmente in sede di tutela istituzionale verrà rifiutata.

Diritto all’intervento umano


Questo che sembra un’ovvietà lo dice anche il considerando 71: dunque di principio il Regolamento
proibisce le decisioni automatizzate, poi prevede delle ipotesi di deroga; siccome queste sono ipotesi di
deroga sono eccezionali rispetto al principio generale e siccome sono eccezionali in qualche modo devo
tutelare di più quell’altro

Qual è la prima forma di tutela che mi viene in mente? Ripristinare lo “human in the loop”, cioè rimettere
quell’elemento che veniva considerato pericoloso dal Regolamento e che giustificava il Regolamento ad
una proibizione generale. Se il Regolamento prevede una proibizione generale per le decisioni
automatizzate vuol dire che le ritiene in qualche modo minacciose; la prima forma di tutela è eliminare
l’elemento di minacciosità, e quindi richiedere l’intervento umano.

Però questo ha due grossi problemi dal punto di vista della lettura giuridica del testo (cioè precettiva):
- non tutela niente, perché non dice nulla circa la funzione e il ruolo che l’umano deve coprire. Questo
può essere messo lì e semplicemente confermarti la decisione presa della macchina; hai rispettato
formalmente la richiesta dell’intervento umano, ma non è cambiato nulla per te o per il soggetto
interessato.
L’efficacia tutelante di questa previsione è facilmente aggirabile. Ma è servito a zero. Interpretata
così, perché non è previsto nessun follow up di questo intervento umano, non è previsto che lui si
prenda a carico in nessun modo della richiesta di intervento, potrebbe addirittura modificarla in
peggio, ma sarebbe comunque rispettato il diritto di intervento umano.
Quindi messa così non è tutelante

- l’articolo 22 prescrive il diritto di decisioni automatizzate, o meglio basato unicamente su trattamento


automatizzato? (perché abbiamo detto che non sono vietate tutte le automazioni, proibisce quelle
automazioni che finiscono in una decisione senza l’intervento umano che hanno certi effetti giuridici o
significativamente incide sulla mia persona. Il trattamento automatizzato dei dati va benissimo se
rispetta le altre regole) quando non interviene nessun umano qualificato.
Se siamo in ipotesi di deroga sarà possibile ma dovranno esserci delle garanzie (quelle scritte sotto).
Quando devono essere previste garanzie ulteriori in queste ipotesi? Quando e solo quando c’è una
decisione interamente automatizzata.

Io esercito il primo di questi diritti, il diritto all’intervento umano, oltre a non tutelarmi per niente in
quanto tale, a questo punto, una volta che l’umano è intervenuto, qualsiasi cosa faccia, la decisione
finale non è più totalmente automatizzata; siccome le garanzie che non ho utilizzato avevano come
condizione una decisione totalmente automatizzata, chiedendo l’intervento umano le ho perse.
Il diritto all’intervento umano è potenzialmente esaustivo delle altre figure di tutela

Ripetendo: struttura normativa dell’articolo 22 prevede che le decisioni automatizzate non devono
esserci; poi prevede delle deroghe, ovvero che ci sono delle ipotesi in cui è possibile quella cosa
proibita; dice inoltre che quando siamo in queste ipotesi di deroghe (dunque quando è legittima la
decisione interamente automatizzata) dovranno essere previste delle difese ulteriori.
Queste garanzie ulteriori: intervento umano, opinione, contestazione.
Posso esercitarli tutti? Apparentemente sì. Però se esercito il primo noto che oltre a non tutelarmi
per niente, perdo le altre garanzie, essendo ora fuori dall’ipotesi prevista.

Diritto ad esprimere la propria opinione


Allora al posto di utilizzare il diritto all’intervento umano posso utilizzare il diritto ad esprimere la
propria opinione. In che modo mi tutela? In nessun modo perché, anche in questo caso, non è previsto
nessun seguito all’opinione espressa, la mia opinione non è scritto che verrà accolta, o ascoltata.
Oltre tutto, essendo prevista come una figura distinta dall’intervento umano, non è neanche scritto
necessariamente che ho il diritto di esprimere la mia opinione a un umano, può anche essere fatto in un
format. Non mi tutela i diritti, le libertà e i legittimi interessi.
Allora dall’articolo 22 non abbiamo una tutela fino ad ora

Diritto di contestare la decisione


Diventa importante il terzo dei diritti, ovvero il diritto di contestare la decisione perché finché
rimaniamo sui primi due non abbiamo tutele. Il diritto di contestazione va inteso in un senso che sia
precettivo, in modo da garantire l’efficacia effettiva di quando previsto.
Contestare nel mondo giuridico è un atto che ha una grande importanza, è un concetto tecnico, non va
inteso come un diritto di lamentarsi.
Come criterio ermeneutico non è consentito interpretare delle articolazioni normative che il legislatore
indichi come distinte in modo tale che una collassi sopra l’altra, cioè far perdere senso
all’interpretazione, svuotare una certa clausola per attribuirgli un significato che la rende
effettivamente un doppione di qualcos’altro. Non è consentito perché diminuisce la portata precettiva
dell’atto normativo.
La contestazione, quindi, deve essere qualcosa di diverso e non riducibile alle altre figure che abbiamo
visto. Qualsiasi cosa voglia dire certamente non vorrà dire esprimere l’opinione o richiedere
l’intervento umano. Quindi specifico ma diverso.

La contestazione, a differenza di esprime una mia opinione, è un atto di difesa e di conseguenza è un


atto che richiede una giustificazione, cioè un’argomentazione. Esercitando la contestazione
correttamente esercito anche il diritto ad esprimere la mia opinione. La contestazione è una pretesa
argomentata e giustificata. Se esercito solamente la contestazione articolerò una difesa, una presa di
posizione argomentata e giustificata. Ma se esercito solo questo posso trovarmi di fronte a una
situazione paradossale e cioè potrebbe darsi che chi riceve la contestazione gestisca la contestazione in
maniera di nuovo totalmente automatizzata perché è un fatto che si stanno diffondendo anche forme
di gestione delle controversie automatizzate. Esistono sempre di più forme di risoluzione alternativa
alle controversie che sempre di più utilizzano strumenti di decisione automatizzata.

Tutela dei diritti


Immaginiamo un grande cerchio che rappresenta la tutela dei diritti e metà di questo cerchio è la tutela
giuridica giurisdizionale di questi diritti, quella che si fa davanti ai giudici secondo diritti codificati e
dentro delle strutture che si chiamano ordinamenti giudiziari. L'altra metà del cerchio sono le forme
alternative di risoluzione della controversia, cioè gestiamo la nostra lite senza andare di fronte a un
giudice.

È possibile da sempre ed esiste addirittura un contratto del codice civile che ha esattamente questa
funzione che si chiama contratto di transazione. È un contratto con cui le parti pongono fine a una lite
o ne prevengono una possibile tra loro facendosi reciproche concessioni. È una forma alternativa alla
giurisdizione usatissima nella prassi. Spesso si inizia una causa e poi la si chiude in transazione e si
abbandona la causa. Sono cose che corrispondono alla realtà quotidiana degli avvocati. Esistono
tipologie di risoluzione delle controversie di questo tipo cioè lasciate all’azione negoziale delle parti che
si gestiscono assistite da dei tecnici e dei difensori.

Esistono anche delle risoluzioni che prevedono un terzo che interviene ma non è un giudice
professionale (arbitrato).

ADR
Tra questo universo delle cosiddette ADR (alternative dispute resolution) ci sono sempre di più anche
delle forme di risoluzione basate su machine based, cioè che utilizzano strumenti informatici a vario
livello appunto. In alcuni casi sono delle piattaforme che consentono di mettere in contatto le parti
magari con un organismo certificato che gestisce la risoluzione delle controversie. In questo caso la
parte informatica è ridotta a creare un luogo in cui c'è uno scambio di comunicazione e una messa in
contatto tra le parti.
Forme più recenti ed evolute di ADR macchine based cercano di trovare il punto di equilibrio tra
possibili offerte e controfferte tra le parti raggiunto il quale la controversia viene chiusa. Si chiamano
forme di ODR (online dispute resolution) di seconda generazione e fanno parte delle ADR. Di prima
generazione sono quelle forme in cui lo strumento informatico aiuta a mettere in contatto le parti nella
gestione della causa. La seconda generazione sono quelle più spinte machine based in cui la soluzione
rientra in una sorta di modello di rilancio e fissazione automatica della soluzione tra le parti.

È impedito dalla disciplina l’utilizzo di questi strumenti? c'è il divieto generale di decisioni
automatizzate che varrebbe anche in questo caso perché quello che stiamo facendo è richiedere
un’ulteriore decisione. Se tu mi attivi un automatismo ricadi nella proibizione generale perché anche in
quel caso se prendo una decisione che è significativa per me e se tu lasci sola la macchina ricadi nel
divieto.

Contestazione significa allora un atto di difesa che deve essere informata ai principi della tutela
processuale che sono almeno tre:
o diritto al contraddittorio: il diritto cioè di avere qualcuno con puoi parlare, qualcuno che si
prenda carico e cura della posizione. E che a sua volta mi porti ragioni per quello che sta
accadendo
o diritto alla prova: diritto poter portare tutte le argomentazioni che servono la mia difesa e
quindi se devo sapere una cosa me lo dici.
o diritto a una decisione equidistante.

Science disruption

Serve per indicare un fenomeno secondo cui con l’aumento di un’innovazione vengono ad essere ritenute
obsolete e dunque meritevoli di essere abbandonati o trasformati radicalmente. Nel mondo giuridico per
esempio, quest’idea della disruption vi è quando si parla di determinate figure professionali (es: si
afferma che le tecnologie sono disrupte rispetto per esempio alla figura del notaio)

È stato abbastanza provocatorio utilizzare questa parola nei confronti invece della scienza. La cosa nasce
da un articolo del 2008 comparso sulla rivista “Wired” ad opera di Anderson, il quale ha fatto molto
discutere e in realtà recepisce alcune posizioni che sono state e sono presenti nelle epistemologie
contemporanee. Nell’articolo è accentuato l’aspetto provocatorio, fino a sostenere che il metodo
scientifico sarebbe diventato obsoleto con l’aumento della nuova scienza dei dati. Nel testo che ispira
quel capitolo a partire dalla provocazione di Anderson, si prende molto sul serio questo discorso, lo si
cerca di capire meglio e lo si ricollega ad un percorso: l’idea di Anderson non è poi così provocatoria come
può sembrare se una persona è a conoscenza di ciò che è stato il percorso sulla riflessione della scienza
moderna (dall’impresa galileiana fino ai giorni nostri). Questo percorso è molto importante perché ha
anche conseguenze su moltissimi settori, per esempio sul modo in cui gestiamo la costruzione della
società.

Stupisce vedere esperti che litigano, i quali sono portatori dello stesso sapere che dicono cose
contrastanti l’uno con l’altro, o addirittura opposte l’uno con l’altro, dalle quali si intuisce che dietro ci
sono delle convinzioni generali diverse, anche se professano la stessa disciplina. Molte di queste
discussioni e molte di queste immagini della scienza le capiamo solo se abbiamo presente questo
percorso e questa storia. Il ruolo di queste persone è estremamente incidente nelle società, perché
indubbiamente abbiamo una società che sempre più potentemente si riconosce e si costruisce attorno a
questa resa pubblica dell’idea scientifica, anche simbolicamente.

Un esempio: è diffuso nel nostro sentire comune un valore particolare a quella connotazione dell’idea di
scienza che è quella della ricerca di laboratorio, in cui se metti la giovane ricercatrice in un laboratorio con
il suo camice bianco a sua volta portatore di significati simbolici, ha più impatto nella società, la quale
riconosce lì la ricerca; mentre ad esempio l’anziano studioso nella biblioteca antica non è riconosciuto
come ricerca in questo contesto.
La società contemporanea si costruisce attorno a questa figura in maniera estremamente potente, anche
prima delle situazioni critiche come quella che stiamo vivendo oggi, la quale vedremo che effetti avrà su
questo sentire comune, perché la scienza non sempre sta dando una grande immagine di sé nel contesto
critico contemporaneo.

Normalmente riconosciamo il tipo di cosa che chiamiamo scienza come ciò che prosegue un’impresa che
quantomeno è cominciata nel Seicento con Galilei.
Da un lato noi stessi ci immaginiamo in questa continuità, stiamo facendo più o meno quella stessa cosa
che ha detto Galilei, anche se noi abbiamo mezzi che lui nemmeno conosceva. Lui però è già stato
portatore della tecnica: puntando il suo cannocchiale verso il cielo Galileo afferma di vedere delle cose,
ma le persone non gli credono. Il popolo non gli crede perché la prima volta che vede meglio un corpo
così lontano e dunque pensa che sia lo strumento a fargliela vedere, in quanto ad occhio nudo non si
vede. Dunque, bisogna prima dimostrare che lo strumento offre una credibilità con altre procedure e poi
può essere usato. C’è bisogno quindi di un piccolo passaggio: cominciare a credere allo strumento, a
credere in quello che lo strumento ci mostra.

Articolo Anderson
nel 2008 afferma: “Questo è il mondo nel quale enormi masse di dati e una matematica applicata
rimpiazzano qualsiasi altro strumento che potrebbe essere portato. Fuori da qualsiasi teoria del
comportamento umano, dalla linguistica alla sociologia; bisogna dimenticarsi di tassonomie, antologie, e
psicologia. La gente non si sa per quale motivo si comporti in un determinato modo e noi possiamo
seguire e misurare con una fedeltà mai vista prima; con sufficiente ammontare di dati, i numeri parlano
da sé stessi.
Il bersaglio grosso qui non è la pubblicità, ma è la scienza.
Il metodo scientifico è costruito attorno a ipotesi verificabili e questi modelli, per la più gran parte, sono
sistemi visualizzati nella mente degli scienziati. I modelli sono poi testati, gli esperimenti confermano o
falsificano i modelli teorici e come il mondo funziona. Questo è il modo in cui la scienza ha lavorato per
centinaia di anni.
Gli scienziati sono allenati a riconoscere che la correlazione non è la causalità, che non si possono trarre
conclusioni semplicemente sulla base della correlazione tra X e Y, in quanto potrebbe essere una
coincidenza. C’è invece il bisogno di comprendere i meccanismi che stanno al sotto e che connettono i
due fenomeni. Una volta avuto il modello, puoi connettere i dati con una certa sicurezza. Di fronte a
un’enorme quantità di dati, questo approccio alla scienza – ipotesi, modello, test – sta diventando
obsoleto.
I petabytes ci consentono di dire “la correlazione è abbastanza”. Possiamo smettere di guardare i modelli,
possiamo analizzare i dati senza alcun ipotesi circa a cosa può essere mostrato. Possiamo scagliare i
numeri nel più grande complesso che il mondo abbia mai visto e lasciare che gli algoritmi statistici
svolgano schemi dove la scienza non può.”

Abbiamo pensato che la faccenda dei dati fosse collegata a fenomeni sociali tra cui quello dell’influenza
sul comportamento (attraverso per esempio il marketing), ma il bersaglio grosso è la scienza. Tutti erano
abituati a pensare alla scienza come allo scienziato che ha delle idee su come funziona il mondo e poi
deve inventare degli elementi con cui avere la conferma empirica del suo modello. Quando lo fa allora
può dire che il mondo è come aveva ipotizzato che fosse, ma finché non lo fa sono solo congetture e non
può pretendere siano dette verità nel mondo scientifico. Questo modello è anche l’ordine delle cose, un
po' come quello che pensiamo quando Galilei dice che la scienza si fa con certe dimostrazioni
(costruzione teorica) e sensate esperienze (esperimenti che abbiano il senso di confermare e smentire
questo).
Il valore dietro a questo modello è la conoscenza del mondo, con il fine di crearsi un’immagine vera di
esso. L’esperimento serve per confermare se la mia immagine è vera oppure no, ossia c’è una gerarchia
tra il momento delle certe dimostrazioni e il momento delle sensate esperienze. La gerarchia sta dal
punto di vista della teoria (posizioni theory dominated = dominate dalla teoria), perché l’obiettivo finale è
costruire un’immagine vera del mondo.
Se guardiamo il modello vediamo che c’è una gerarchia tra i momenti. Il valore principale è la verità
intesa come rispecchiamento del mondo. L’esperimento è lo strumento, dunque è un mezzo e non un
fine.
Riecheggia una cosa antichissima, ossia il modo in cui il greco classico concepisce la verità: “la verità ti si
dà, ti si mostra” e conoscere la verità è guardare. La parola “teoria” deriva dalla parola che vuol dire
vedere = contemplare lo svelamento. La verità è dunque intesa come una dea che si mostra.
La veridicità sta intorno a un’immagine, un pensiero sul mondo che la modernità torce e stravolge, ma
rimane un eco almeno in questo: nella scienza moderna il valore è ancora quello nel momento in cui
Galileo si pone e Bacone dice chiaramente “la scienza ti porta alle cose stesse e la loro relazione”, cioè ti
dice la verità su com’è il mondo.
L’obbiettivo è quello di scoprire la verità sul mondo e l’esperimento è lo strumento, quindi la gerarchia è
costruire un’immagine vera del mondo, costruire la verità di svelarsi.

Medioevo
Il medioevo aveva conservato questo sistema, in quanto i santi monaci nei monasteri occidentali
facevano scienza di altissimo livello. Ad esempio, Bacone, era un monaco che faceva esperimenti empirici
in particolare di botanica, aveva già immaginato un mondo in cui viaggeremo tutti in una macchina
volante guidata da una sola persona. Egli l’ha immaginato perché, avendo grandissima competenza del
metodo empirico, ha capito che una volta concepito il problema dell’armonizzazione, il problema diventa
l’aspetto tecnico (non ci sono i mezzi). Per lui non è impensabile riuscire ad arrivare a qualcosa, in quanto
ha competenza della manipolazione del mondo attraverso l’esperimento come elemento tecnico.
Quindi il medioevo mantiene ancora salvo qualcosa di quella vecchia idea della verità di svelamento, in
quanto questi monaci sono degli sperimentatori molto sofisticati ma noi collochiamo la scienza moderna
dopo di loro, perché loro stanno dentro un’idea. La scienza medievale è l’idea che la realtà sia ordinata da
una volontà superiore e che il compito sia quello di riconoscere che ogni cosa è al suo posto.

Modernità
Nella modernità invece si separa, così come nel diritto. Per esempio, i medievali sono anche straordinari
giuristi, in quanto hanno salvato il diritto romano nel diritto canonico e lo hanno portato alla modernità (il
diritto romano era molto buono). Inoltre, è ancora dentro i nostri codici in buona parte ed è ancora nel
diritto canonico, ovvero è l’ordinamento giuridico più antico attualmente in vigore (l’ordinamento della
chiesa cattolica).
La modernità comincia a perdere quest’idea, però ci presenta l’impresa scientifica ancora con questa
implicita gerarchia: anche se si è secolarizzato non interessa più la salvezza dell’uomo, ma conoscere la
natura. Conoscere nel senso di rappresentare: l’esperimento diventa la chiave per confermarmi che
quello che conosco è vero o, se non lo è, per ipotizzare altre immagini e metterle alla prova
continuamente.
In questo contesto la causalità è la trama del mondo: i fenomeni si connettono per causa effetto perché
così è costituito il mondo, io li scopro e faccio l’immagine di questi attraverso l’attività scientifica. La
causalità è nelle cose: è perché il mondo è fatto così che i fenomeni si susseguono in un modo o nell’altro;
quello che io riscontro, essendo immagine del mondo validata dalla prova sperimentale, mi dice come
sono le cose del mondo, le loro relazioni e la loro casualità. In questo contesto correlazione e casualità
sono due cose diverse:
- la casualità significa come sono fatte le cose e, dunque, mi dà una relazione stabile e riproducibile;
- le correlazione è l’apparire di un certo fenomeno con compitatemene un altro fenomeno di cui, però,
non posso dire che ci sia una relazione causale sotto, ossia non posso dire che l’uno sia causa dell’altro
e viceversa, per cui potrebbe essere che sono lì per pure coincidenza e sarebbe un’immagine falsa del
mondo se scambiassi correlazione con causazione.

STAMPATO FINO A QUI


Tenere distinta causalità e correlazione è fondamentale, perché una mi dice come sono fatte le cose e
l’altra no (sono accadute delle cose, ma non necessariamente questo mi mostra una trama nascosta
nell’essere delle cose)

Trasformazione nel tempo


Un momento cruciale è nella trasformazione di quest’immagine della scienza e della sua pretesa
ontologica sul mondo, cioè pretesa di conoscere l’essere stesso nel mondo, la quale si ha nel 700 in
particolare (Davide Hume).

La causalità non è qualcosa che io posso dire davvero essere nella natura, perché in fondo sono io che la
dico a me stesso. Sono abituato a vedere i due fenomeni che compaiono insieme e con l’abitudine di
vederle sempre insieme che mi sono abituato a pensare che tra di essi ci sia una relazione più stabile che
chiamo causalità, ma in realtà io la causalità non la vedo con i sensi/con la conoscenza empirica.
Il primo fatto che cominciamo a mettere in questione è che la mia conoscenza della causalità sia riferita
alle cose in quanto tale. È perché c’è questa posizione che si radicalizza, che comincia a staccarmi dalla
natura in sé, ossia comincia a giudicare il discorso sulla cosa in sé come metafisico, in un senso
spregiativo, come qualcosa che è al di là della mia presa conoscitiva e sulla quale non ci posso mettere le
mani, per cui mi accontento di stare dentro alla mia presa conoscitiva.
E comincia lì a radicarsi questo pensiero, che ha una serie di vicende travagliate dentro al quale c’è
almeno un altro gigante del pensiero che è Immanuel Kant, una temperie di ri-irrigidimento dell’idea
metafisica con il positivismo ottocentesco, poi la grande riflessione di fine Ottocento e primi decenni del
Novecento, in cui invece si arriva a quello che diceva Bacone prima, ossia che com’è la cosa in sé è
metafisica e non è dipende da me. Per vedere la distanza tra il primo modello/la prima forma ossia quella
che pensa la scienza come portatrice di conoscenza in senso pieno, e il punto invece di arrivo, proviamo a
discutere altre citazioni.
Epistemologo degli anni ‘70, che si presenta e studia dopo la fase del grande epistemologo Carl Popper, a
cui si imputa l’idea che dice che scientifico sia ciò che si presenta in termini falsificabili. Nel ‘74 Lakatos
scrive: “Gli scienziati hanno la pelle grossa, non abbandonano una teoria semplicemente perché i fatti la
contraddicono, normalmente o inventano alcune ipotesi di salvataggio per spiegare ciò che a quel punto
possono chiamare una mera anomalia, e se non possono spiegare l’anomalia la ignorano, e dirigono la
loro attenzione su altri problemi”. La storia della scienza, certamente, è piena di racconti, di esperimenti
cruciali che avrebbero ucciso delle teorie, ma tali racconti sono spesso costruiti molto dopo che quella
teoria è stata abbandonata”.

Abbiamo un’immagine della storia della scienza come grandi convinzione, poi ad un certo punto un
experimentum crucis, che falsifica quella teoria, allora la buttiamo via e costruiamo una nuova teoria fatta
di queste grandi conquiste. Lakatos afferma che le cose sono molto più complicate, perché la storia di un
abbandono di una teoria non è una cosa che si fa in un momento tutta insieme e neanche avviene nella
pacificazione complessiva. Ci sono delle cose che non funzionano e facciamo in modo da rilegare dentro
l’idea della mera anomalia fin tanto che quella teoria che abbiamo ancora come riferimento ci sembra
ancora abbastanza fruttifera. Se non ho un’altra alternativa migliore o se ritengo questa ancora fruttifera,
lavoro perfezionarla e cerco che le cose tornino, per esempio aggiungendo delle ipotesi ad hoc. Se invece
sarà giudicata recessiva, come dirà Lakatos, che introdurrà una distinzione tra programmi di ricerca
progressivi e programmi di ricerca recessivi (non le chiama teorie). Se un programma di ricerca lo
considero progressivo lo tengo, in quanto non è che se un esperimento fallisce lo si abbandona. Quando
sarà considerato recessivo, evidentemente ad un certo punto non sarà più ritenuto tanto utile, allora
comincerà un percorso che porterà ad abbandonarlo (potrebbe essere ripescato in altri contesti).

Lakatos viene dopo Popper, dopo Kuhn. Sono entrambi viventi Popper e Kuhn quando Lakatos afferma
queste cose, ma la proposta concettuale viene dopo Popper e Kuhn, ossia dopo quella rivoluzione degli
anni ‘60 a cui abbiamo già accennato, in cui Kuhn ha detto che la storia della scienza non ha una crescita
lineare, progressiva (falsificare una teoria, proseguire, falsificarne un’altra, proseguire ecc.).

- Kuhn afferma che invece è fatta di controversie, di argomenti contrari, di costruzioni di grandi
paradigmi, che comportano anche la costruzione di una mentalità degli scienziati e poi a delle
anomalie.
- Lakatos, invece, rappresenta così l’immagine della scienza: programmi di ricerca, giudicati progressivi o
regressivi. Naturalmente diventa sfumato il discorso sul progressivo regressivo, ossia su chi stabilisce
quando sono progressivi o regressivi e in base a che criteri sono tutti interni all’impresa scientifica o
anche esterni ad essa. C’è qualcuno che decide quali sono progressivi e lo decide non sempre
necessariamente perché ama la conoscenza in quanto tale, semmai perché ha interessi sulla
costruzione della società (uno degli elementi scuri rispetto all’impresa scientifica). Lakatos comprende
la presenza di questa complessità sociale della scienza, la quale non c’è soltanto nel suo laboratorio.
Uno scienziato è in una società di riferimento, rispetto alla quale ha un ruolo, e viene anche scelto in
funzione del ruolo sociale.

La scienza è un elemento complesso al suo interno, ma anche al suo esterno, in cui entrano elementi
significativi che non sono tutti necessariamente interni al processo di conoscenza, ma sono anche relativi
al modo in cui quella si colloca all’interno di un contesto sociale.

Nell’83 Hawking scrive: “Siamo completamente convinti della realtà degli elettroni quando con regolarità
costruiamo nuovi tipi di dispositivi che usano proprietà causali ben comprese degli elettroni per
interferire con altre parti più ipotetiche della natura”. Il tema che comincia ad interferire è la
manipolabilità. Immaginiamo sempre teorie molto semplici quando ci immaginiamo la scienza e quindi
vediamo semplicemente ciò che la scienza dice che esiste quel fenomeno, ma la complessità attuale della
scienza, almeno nelle sue manifestazioni più significative, è fatta sempre meno di elementi che sono
immediatamente percettibili. Che le teorie debbano essere in qualche modo percepibili rientra nella sua
natura empirica (Galileo: certe dimostrazioni, sensate esperienze) in quanto avere esperienza di qualche
cosa per essere dentro l’impresa scientifica.

Gli elementi che la teoria afferma che esistono, ma che non si possono osservare direttamente sono
pochissimi perché sempre più abbiamo bisogno di un grande apparato di osservazioni. Quell’apparato di
osservazione è costruito secondo teorie, quindi secondo altre presupposizioni, senza le quali non arrivo a
certe piccolezze. Certe piccolezze però non sono neanche osservabili direttamente tramite questo
apparato, possono essere inferite, cioè si ha la conferma che ci sono perché si vedono gli effetti di esse,
cioè riscontro qualcosa che non ha nessun senso se non in quanto lo considero l’effetto di quell’entità,
che la teoria dice che ci deve essere e che se c’è ha proprio quell’effetto.

per esempio, l’elettrone: non vedo l’elettrone però vedo degli effetti che posso razionalmente ricondurre
ad esso, perché l’ho definito e rappresentato in un certo modo. Siccome quegli effetti nella mia teoria ci
sono se c’è l’elettrone, allora dico che esso c’è.

Gli sperimentalisti, invece, sono ancora più sicuri se li possono manipolare, secondo quanto la teoria
presuppone che si possa fare e se ci riescono vuol dire che la teoria dice il vero. Certi esperimenti di
grandissima complessità riferiti, per esempio, a microparticelle non sono fatti pensando di osservare
direttamente la microparticella, ma per vedere degli effetti che hanno se li interpreto come i portatori di
un’entità che la mia teoria dice che ha esattamente quegli effetti. È molto indiretto il discorso della
verifica empirica collegato alle grandissime complessità degli esperimenti di oggi; fino al punto, negli
sperimentalisti, da essere considerato quasi l’unica prova della “verità” della scienza il fatto che posso
fare delle operazioni, manipolare in qualche modo e se manipolo e ottengo gli effetti che la mia teoria
dice che avrei ottenuto, allora posso dire che anche tutte le entità che la mia teoria presuppone ci sono e
più o meno fanno le cose che mi aspetto. L’importanza fondamentale di tutto ciò è l’essere manipolabili.

Altra citazione importante è quella di Jessica Wright (sperimentalista) che si rifiuta di scrivere “verità” o
“falsità” nelle leggi della gravitazione universale, in quanto per lei non sono né vere né false. Secondo lei
si può usare la parola vero o falso solo quando si può avere manipolabilità diretta di qualcosa che ha
senso nella misura in cui ho una teoria di supporto, la quale afferma che certe cose sarebbero successe. Il
punto che si accentua sempre di più è la manipolabilità.

Bogen, 2002: “La gente una volta credeva nel metodo scientifico, che attraversa le prove empiriche
mediante osservazione e sperimento, elimina l’errore soggettivo, e porta oggettività e residui veridici dai
quali costruire il filo della conoscenza. Sfortunatamente questo dispositivo è letteralmente favoloso.”

Susan Hank, 2009: “Non esiste alcun algoritmico metodo scientifico, nessuna procedura formale o
formalizzabile disponibile a tutti gli scienziati e solo agli scienziati che fedelmente seguito garantisca
successo o anche progresso. Ma durante i secoli, gli scienziati hanno sviluppato un vasto assetto di
strumenti e tecniche.” Secondo Haack vi sono strumenti e tecniche, non metodo scientifico. Le comunità
sviluppano strumenti e tecniche, ciascuna le sue.

“I confini della enormemente complessa impresa chiamata dalla ampia parola scienza sono sfumati,
indeterminati e frequentemente contestati. Non ci sono regole che determinino quando una pretesa
scientifica sia sufficientemente garantita dall’evidenza per essere accettata o così malamente minata
dall’evidenza da essere respinta e nemmeno certamente gli scienziati raggiungono i loro verdetti votando.
Invece il consenso sorge come un effetto, un prodotto successivo, quando un numero abbastanza
rilevante di membri della comunità scientifica arrivano a vedere l’evidenza come abbastanza forte per
garantire la pretesa di quella teoria.”. I termini si fanno più sfumati; come si concentra sull’elemento
operativo, cioè tecniche e strumenti; come si accentua l’elemento soggettivo del consenso e della
discussione.

Quando un certo numero di scienziati ritiene che una certa cosa sia accettabile, ciò indica che c’è una
parte che invece non concorda, ma ad un certo punto il numero comincerà ad essere significativo per la
sua accettabilità. Cosa che non ci aspetteremo nell’immagine eroica della scienza, in quanto in noi
permane l’idea che uno scienziato dice quello che è valido per tutti; ma non può essere così dentro ad un
ambiente dialettico e che ha gradi di prova di evidenza e non la prova o l’evidenza. Gradi di prove ed
evidenze a cui inoltre si attribuiscono significati differenti, in quanto ci sono comunità diverse che si
servono di quelle o meno.

È molto istruttivo leggere la storia della scienza e in particolare quando venga rappresentata nei momenti
di discussione fitta, cioè quando non è che una posizione teorica che noi oggi consideriamo vera, ci porta
a pensare che quando qualcuno l’ha trovata, tutti hanno immediatamente concordato. La storia della
scienza è fatta di discussioni. Immaginatevi questa complessità e proiettatela sul problema della
costruzione sociale, ossia nel momento in cui noi (non scienziati) dobbiamo decidere, come sta
succedendo con la pandemia. Di fronte a situazioni del genere quell’altra parte della valenza della scienza,
come struttura di costruzione sociale, deve prendere una decisione che magari uno scienziato in quanto
tale non è affatto necessitato a prendere. Quando la scienza diventa questo, i confini diventano
indeterminati e sfocati, come dice Haack. Non è che necessariamente le persone che sono principali sono
in mala fede, semplicemente ciò che chiamiamo scienza ha questa complessità.

Differenza idea di scienza

la differenza c’è tra l’immagine della scienza che pensa di sé di conoscere la realtà delle cose (cioè di
proporre un’immagine del mondo vera) e invece un’idea di scienza che limita l’idea di scienza stessa al
rispetto di determinate procedure rigorizzata, cioè che differenza c’è o che conseguenze ci sono se ci
mettiamo dentro uno o l’altro dei seguenti luoghi comuni.

- primo luogo comune: la scienza vale in quanto mi dice com’è il mondo realmente e porta un’immagine
vera del mondo;
- secondo luogo comune: la scienza non afferma com’è il mondo realmente perché questo è un
programma metafisico. La scienza in tutte le cose che fa elabora sulle tecniques, cioè determinate
procedure e tecnicizzazioni teoriche/pratiche stando dentro le quali è possibile trarre certe conclusioni.

Tanto più quella scienza sarà rigorosa, idealmente come la scienza formale o come la geometria euclidea
facendo un esempio, tanto più stando dentro quelle presupposizioni sei portato a raggiungere delle
conclusioni che non puoi logicamente contrariare. Quindi il primo modello di scienza è la scienza intesa
come immagine vera del mondo; mentre il secondo è che la scienza non fa che costruire procedure
rigorizzata che ti portano a trarre determinate conclusioni.
Quando assistete a dibattiti immaginate quale dei due presupposti sta nella testa (il 99,9% delle volte
implicito) della persona che sta parlando in quel momento, perché questi due presupposi hanno
conseguenze molto diverse l’uno dall’altro.

1. Primo luogo comune: ho la convinzione che la scienza mi dica com’è realmente il mondo, sono
portato a caricare di significato le conclusioni e i contenuti rispetto al metodo. Il metodo è strumento
per arrivare ad un’immagine reale del mondo. Il metodo è proprio come nel Seicento: “la via per”, che
conduce dal soggetto all’oggetto e unisce il pensiero con il mondo oggettivo, ma il metodo, con
questo presupposto di scienza, è solo strumentale. Comunicherò alla fine solo il mio risultato, dunque
le persone dovranno fidarsi.
2. Secondo luogo comune: non so cosa mi dica la scienza del mondo, essa struttura procedure rigorose.
Se modifico le procedure e/o i presupposti, ottengo risultati diversi; cioè che quello che posso dire ha
valore solo nella misura in cui sto dentro ai quei presupposti e procedure, ciò che dico vale solo
dentro a quelle procedure. Sono scienziato pienamente solo finché sono in laboratorio, se esco fuori e
comincio a raccontare i miei esperimenti sto facendo altre cose perché sono fuori dal contesto (uso
parole diverse, mi rivolgo a persone diverse). Qui il metodo è tutto: non c’è nient’altro se non le
costrizioni che stanno dentro a presupposti, strumenti e teorie.

Conclusioni

Ci sono delle conseguenze a pensare la scienza in due modelli distinti. È vero che in un ambiente colto e
ad uso di discussioni filosofiche il primo è obsoleto, ma non è vero che in un ambiente non colto e non
specialistico non sia presente (infatti nei dibattiti dicono che la scienza rappresenta la verità del mondo).
Questo ha delle conseguenze, per esempio, il metodo alla fine è un po’ sottovalutato perché viene visto
solo come mezzo per la conclusione. Qui sta la pretesa di molta pseudo-scienza essendo quel tipo di
costruzioni di contenuti, che si dice essere vero del mondo, senza il rispetto dei rigorismi del metodo
scientifico (es: affermo che la natura è fatta così, ma non uso strumenti della scienza per farlo). C’è l’idea
che venga detta una cosa vera e venga rappresentata la verità sul mondo con l’effetto che si svaluta
l’importanza del metodo.

Dall’altra parte il metodo è tutto. Posso dire solo ciò che mi è consentito dall’apparato teorico che ho
adottato, perché qualsiasi cosa venga cambiata produce conseguenze differenti. Scienza è solo quello che
sta dentro le procedure. Di solito ci sono anche differenze antropologiche tra chi adotta l’uno o l’altro
luogo comune. Chi adotta il secondo è molto più riservato, molto più studioso da laboratorio non tanto
presente nella comunità, perché sa che quando è lì non sta più facendo il suo mestiere. Invece chi adotta
il primo, magari in riflesso, siccome ha un’abilità decide di svelarla.

tema della disruption. Quanto più accentuiamo l’elemento dell’operatività, manipolabilità in vista di certi
scopi, tanto più identifichiamo nell’idea della scienza l’idea della tecnica, cioè appunto l’uso di mezzi
efficaci per l’ottenimento di certi risultati.

tecnica: uso efficace di certi strumenti per l’ottenimento di certi risultati; cioè andiamo a fare
compenetrare la scienza dentro l’alveo dell’idea di tecnica. Ci sono molti filosofi che dicono che l’anima
della scienza è intimamente tecnica e il suo destino di rivolgersi in pura tecnologia era già scritto da
Galileo. Questo d’altro canto non era concepibile per un pensatore antico, pur avendo sviluppato grande
tecnologia. Gli antichi, nell’Ellenismo, erano avanti anche con la produzione tecnologica, solo che
semplicemente dentro quella mentalità questo della tecnologia era lo scopo ultimo di ciò che si chiama
sapere, questa era una possibilità dell’uomo. Quando facciamo arrivare tutto nell’operatività e dunque
percepiamo la scienza come pura tecnica, uso di strumenti per un certo risultato. Ecco il punto della
disruption della scienza cioè degli scienziati che rendono inutili se stessi: non è strano quello che dice
Anderson alla fine, se hai concepito la scienza come strumenti che producono effetti, allora non è
inconcepibile l’idea di uno strumento che faccia al posto tuo quella manipolazione che hai in mente di
fare.

Probabilmente succederà, non tanto che non avremo più scienziati, ma che la definizione di scienziato
cambierà e cambierà anche quello che sarà chiamato a fare. Sempre di più manipolazione di eventi e
non costruzione di immagine vera del mondo, perché ci siamo convinti che quell’impresa non è più
possibile. Per qualsiasi motivo per il quale ci siamo convinti, nel momento in cui diciamo che scienza
diventa manipolazione di fenomeni, o come diceva un altro pensatore fenomenotecnica (=costruzione
tecnica di fenomeni), se diventa ciò allora non è inconcepibile uno strumento che faccia questo per gli
uomini. Il frutto più elevato della conoscenza scientifica e dell’epopea dell’uomo moderno dichiara la non
necessarie età dell’uomo che l’ha creata. Questa sarebbe l’idea della science disruption. Non ci siamo
ancora arrivati nella realizzazione, ma c’è lo spirito del tempo che porta lì. c’è uno spirito del tempo che
traduce la parola scienza nella più limitata parola tecnica e, se è così, allora è possibile uno strumento che
sia più efficace dell’uomo per manipolare il mondo e dunque: science disruption, obsolescenza dello
scienziato.

CONTRATTI, BLOCKCHAIN E SMART CONTRACTS


Il secondo aspetto molto discusso dell’automazione è relativo alle relazioni tra i privati e, in particolare
alle relazioni giuridicamente qualificate, quello che va all’interno degli smart contracts.

Il contratto è una delle parti più importanti del diritto privato. Quando parlo di contratto, parlo in
generale di una fonte importantissima nella legislazione e nella cultura giuridica, cioè il Codice civile
(Regio Decreto 16 Marzo 1942, n. 262). È una strana fonte perché è un decreto del Re, emanato quindi in
un ordinamento giuridico diverso dall’attuale, il quale si muove invece attorno alla Costituzione. Spetta
alla nuova forma di Stato eliminare i principi incompatibili con l’attuale forma giuridica.
La Costituzione attuale è rigida, non è passibile di modifica da parte di una legge ordinaria. L’assetto
normativo dell’ordinamento precedente non decade anche se il regime è cambiato radicalmente, si tratta
solo di valutare la compatibilità della legge nel nuovo ordinamento. I primi movimenti sono stati quelli di
dichiarare incostituzionali la maggior parte delle leggi in contrasto con la Costituzione.

Il Codice civile è un atto normativo che ha un’importanza culturale molto più grande della media degli
interventi normativi perché è frutto dell’Età della Codificazione, un tempo in cui si è pensato di scrivere le
regole in un testo organico e sistematico che definisca la legge fondamentale. Quest’idea di tradurre il
diritto in un atto scritto si manifesta a inizio Ottocento con la promulgazione dei primi codici, periodo
connotato da un forte razionalismo, retaggio dello spirito illuministico, che vuole che le leggi siano
poche, certe e chiare. Il Codice civile regola i rapporti tra i privati (regole sostanziali), quello di procedura
civile regola le modalità di svolgimento dei processi civili (regole processuali). Dal Codice Civile vengono
estratti i principi generali del ragionamento giuridico anche quando si tratta di applicare altri atti
normativi che non appartengono al codice. Quando il giurista ha a che fare con altre leggi rilevanti, la
visione sistematica si basa sul Codice civile.

Normalmente il legislatore prima di fare una legge nuova, tenta di integrare il codice, aggiungendo parti a
leggi già presenti. Per questo compaiono le diciture bis, ter, quar consentendo di mantenere la
numerazione pur avendo aggiunto al codice.
Il contratto (titolo secondo; libro delle obbligazioni; primo articolo: le fonti delle obbligazioni sono i
contratti o i fatti illeciti; disciplina: il contratto, che cos’è nella sua disciplina generale). La parte sui
contratti è divisa in due parti: contratti in generale e singoli contratti, cioè singole figure di contratto
(compravendita, locazione, comodato, agenzia). Nel singolo contratto troveranno la loro applicazione le
regole generali insieme a quelle specifiche che disciplinano il tipo di contratto, ma è molto importante
l’Art.1322.

Art. 1322
Questo articolo ha un peso culturale, oltre che essere fondamentale nella vita giuridica quotidiana e
improntato in una certa visione dei traffici tra privati. “Le parti possono liberamente determinare il
contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge. Le parti possono anche concludere contratti che
non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare purché siano diretti a realizzare interessi
meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.” È il principio dell’autonomia contrattuale. Inoltre,
c’è la libertà dei privati di concludere contratti anche diversi da quelli che vengono citati e di inventare
tutti i contratti che si possono volere. Non è possibile inventarsi un contratto strano per fare qualcosa di
illecito. Molti contratti poi diventati nella prassi non sono nati da figure contrattuali tipiche, per esempio
contratti che hanno mantenuto termini stranieri, perché magari sono stati importati da esperienza
straniere

Questa disposizione è molto importante perché rispecchia l’idea della libertà dei privati che
l’ordinamento approva e incoraggia. Questo è molto importante e fa paio con un’altra norma che
riguarda la forma.
“il contratto è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto
giuridico patrimoniale”, ossia non necessariamente il contratto può avere due parti, può averne anche
molte di più. Patrimoniale significa suscettibile di valutazione economica, cioè che incide sulla loro
situazione economica. Giustamente la disposizione dell’autonomia contrattuale che abbiamo letto prima
viene dopo, essendo la definizione prima, ed è strettamente collegata all’articolo che individua gli
elementi essenziali del contratto, che sono fondamentali perché senza questi elementi il contratto è
invalido. Essi sono:

1. L’accordo delle parti: la definizione di contratto è l’accordo di due o più parti ecc. (fondamentale)
2. La causa: l’operazione socioeconomica che intendo realizzare (nel caso della compravendita è il
trapasso della proprietà del bene da un tizio ad un altro e il corrispettivo economico)
3. L’oggetto: genericamente intendiamo per oggetto le singole prestazioni che sono dovute dal
contratto (nel caso della compravendita banalmente la consegna del bene contro un prezzo)
4. La forma: serve quando risulta che è prescritta dalla legge sotto pena di nullità, cioè non sempre è
richiesta una forma specifica dei contratti, ma se è richiesta e non vi è il contratto è nullo. In
particolare, quella forma tipica con cui noi immaginiamo l’atto contrattuale (l’atto scritto) è un
elemento essenziale del contratto e la forma scritta solo quando risulta che è prescritto dalla legge
sotto pena di nullità, si dice sotto forma ab substantia. Se la legge chiede che un certo contratto
debba farsi sotto pena di nullità con una certa forma, allora quella forma è un elemento di validità
del contratto; ma se non è previsto per quel tipo di contratto questo requisito vige il principio della
libertà delle forme.
In effetti, nei siti dell’usato ci sono vendite di beni immobili per i quali l’ordinamento non chiede una
forma particolare, quindi se siete d’accordo vi scambiate dei soldi e il bene; è un contratto di
compravendita che è sottoposto alle regole del Codice essendo che per quel tipo di bene la forma di
vendita è libera per cui è stato sufficiente perfezionarlo con l’adempimento delle prestazioni per cui io ti
dò il bene e tu mi dai il prezzo. Se qualcosa non funziona possono essere invocate le norme che tutelano
queste situazioni. In linea generale un ambito di beni per il quale la legge richiede la forma scritta ab
substantia sono i beni immobili. La ragione è che l’ordinamento richiede che per la circolazione di beni
che sono di importante valore (es: casa) sia richiesta una garanzia in più e dunque vi è l’atto scritto che dà
validità. Inoltre, conviene sempre servirsi di ulteriori tutele, come la trascrizione dell’atto ai registri
immobiliari che danno prova di quel determinato atto.

Conclusione del contratto


Il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell’accettazione
dell’altra parte”, questo è il principio generale, cioè la politica di un contratto prevede due atti unilaterali:
la proposta e l’accettazione, ossia vi è una proposta, la quale può essere o accettata o rifiutata. Quando
proposta e accettazione si incontrano concludono il contratto.

Cosa succede quando mancano alcuni elementi del contratto


“la causa è illecita quando è contraria a norme imperative all’ordine pubblico o al buon costume” e
quando la causa è illecita il contratto è nullo. Un contratto illecito è per esempio un accordo che io faccio
con una prostituta: è un contratto contrario al buon costume e che quindi ha causa illecita.

L’oggetto: “l’oggetto del contratto deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile”, un
contratto con un oggetto non determinabile è un contratto nullo perché manca di oggetto, così come un
oggetto impossibile, essendo che una prestazione impossibile sarebbe un contratto nullo.

La forma del contratto, Art.1350: “Devono farsi per atto pubblico o per scrittura privata, sotto pena di
nullità: 1. i contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili…” (tutti contratti che in generale
riguardano i beni immobili). Come principio generale l’autonomia negoziale, la libertà delle forme e in
particolare in quell’ipotesi in cui la forma deve essere ab substantia, cioè pena di nullità e cioè i contratti
che hanno come oggetto beni immobili.
C’è una distinzione tra forma richiesta ab substantia e forma richiesta ad provationem. La legge richiede
talvolta una forma specifica per la validità dell’atto ed è questa ipotesi: se fai un contratto dove trasferisci
un bene immobile senza la forma scritta, quel contratto è nullo perché un caso che richiede la forma
scritta è ab substantia - che significa che essa stessa è richiesta per la validità dell’atto altrimenti sarà
nullo;
La forma richiesta ad provationem si ha invece in quelle ipotesi in cui la legge, il codice o altro stabilisca
che questo contratto debba essere provato per iscritto, in questo caso l’atto non stipulato per iscritto
sarebbe valido in teoria, ma ti trovi impossibilitato a dargli prova perché per la prova è richiesto l’atto
scritto.

Le parti possono anche stabilire loro una forma particolare che è l’ipotesi delle forme convenzionali, la
libertà delle parti; possiamo stabilire noi il contenuto e lo possiamo fare anche con la forma. Moltissimi
contratti, in cui non sarebbe richiesta la forma scritta ab substantia, nella prassi si fanno per iscritto
perché è una garanzia e spesso le parti stabiliscono che tutte le modifiche dell’atto devono essere fatte
per iscritto. Le parti stabiliscono dunque delle forme particolari loro per certe attività anche quando la
legge non le richiederebbe di per sé, questo fa parte della loro autonomia negoziale: “se le parti hanno
convenuto per iscritto di adottare una determinata forma per la futura conclusione di un contratto, si
presume che la forma sia stata voluta per la validità di questo”.

Oltre agli elementi essenziali del contratto che sono quelli che abbiamo visto, poi ci sono gli elementi
accessori del contratto, significa che possono benissimo non esserci (termine, condizione, modo).

L’interpretazione del contratto


anche il contratto è un testo scritto o che addirittura dobbiamo ricostruire nel caso in cui non abbia avuto
una misura scritta e magari dobbiamo andare in causa e capire che cosa è successo. Se le parti sono in
conflitto e dobbiamo ricostruire la volontà delle parti, è un problema dell’interpretazione.

Il Codice civile prevede delle regole per questo: “nell’interpretare un contratto si deve indagare quale sia
stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. Per determinare la
comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla
conclusione del contratto”.
È una disposizione molto importante perché dice almeno due cose fondamentali:

- la prima è che quella che chiamiamo “comune intenzione” o “volontà contrattuale” non corrisponde
alla interpretazione soggettiva delle parti: dal contratto dovrebbe emergere una sorta di volontà
oggettivata, quella che è ricostruibile sulla base di una serie di elementi, tra cui certamente il testo;

- la seconda cosa importante è che non bisogna limitarsi al senso letterale delle parole per capire che
cosa hanno voluto veramente fare insieme le parti. Bisogna guardare anche come si sono comportate
tra di loro e non rimanere vincolati all’interpretazione meramente letterale del testo. La ragione è
molto importante perché il Codice Civile ha in mente due cose quando parla di contratto: il contratto
come atto, cioè la cosa che andiamo a fare, il quale se è scritto si fa un documento; e soprattutto il
contratto come rapporto tra le parti. La verità è che con il contratto le parti disciplinano i loro interessi
reciproci, quindi il contratto in realtà è una somma della contrapposizione dei loro interessi, per questo
per capire che assetto di interessi è stato dato o voluto non dobbiamo né ovviamente limitarci a una
interpretazione puramente soggettiva di una delle parti, ma neanche limitarci semplicemente a quello
che è stato scritto; dunque dobbiamo vedere tutto il rapporto come si è sviluppato per capire che
assetto di interessi è stato determinato con la loro operazione e questa oggettivazione di questo
assetto di interessi è quella che chiamiamo la volontà contrattuale. Non necessariamente questa
coincide con quello che io credevo di aver capito (“io credevo che” non vale niente), quello che vale è la
comune intenzione che emerge da quello che abbiamo fatto, scritto e da come ci siamo comportati. Il
Codice Civile pensa al contratto come una cosa che non è puramente un elemento formalistico, ma è
un regolamento di interessi tra le parti, cioè una sostanza di regolazione economica e sociale di fatto.

“Le clausole del contratto si interpretano le une per mezzo delle altre attribuendo il senso che risulta dal
complesso dell’atto”; “Per quanto generali siano le espressioni usate nel contratto, questo non
comprende che gli oggetti sui quali le parti si sono proposte di contrattare.” […] “Il contratto deve essere
interpretato secondo buona fede” e “Nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi
nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno”,
questo è un principio generale dell’interpretazione degli atti giuridici, cioè tra due interpretazioni: una è
vuota di significato percettivo e una dà significato percettivo, la seconda corrisponde all’interpretazione
perché è illogico pensare che ci siano delle clausole prive di senso.

“Il contratto ha forza di legge tra le parti” tratto dall’Art. 1372 del Codice civile. Le disposizioni che
regolano i contratti in generale sono molte, sono molto lunghe, complesse e importanti. Ci sono tre
ipotesi patologiche, le prime due che riguardano l’atto e l’altra che riguarda il rapporto. Quelle che
riguardano l’atto sono le forme di invalidità dell’atto: qualcosa è stato fatto in maniera sbagliata nella
costituzione propria dell’assicurazione del tuo stato, ipotesi più evidente è la mancanza di alcuni elementi
essenziali che provoca la nullità - “il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative salvo che la
legge disponga diversamente.” Producono nullità del contratto: la mancanza di uno dei requisiti indicati
dell’articolo 1325, più altre cose come l’illiceità della causa, dei motivi di entrambe, la mancanza
dell’oggetto e dei requisiti che abbiamo visto quando l’oggetto è non determinabile o impossibile, ma la
cosa fondamentale è la mancanza dei requisiti essenziali.

La nullità è la forma più grave di invalidità di un atto, la nullità indica idealmente che un atto non
produca più alcun effetto, nessun effetto si ricollega ad un atto nullo, non solo “la nullità può essere fatta
valere da chiunque ne abbia interesse e può essere rilevata d’ufficio dal giudice”, è un vizio talmente
grave che non produce effetto, che può essere rilevata da chiunque ne abbia interesse, non
necessariamente l’altra parte che abbia stipulato il contratto e può essere rilevata d’ufficio dal giudice. In
causa ci sono alcune questioni che devono essere necessariamente sollevate dalle parti e se non lo fanno
il giudice non può intervenire per farle notare.
Altra ipotesi: può rilevarle il giudice, la nullità è talmente grave che anche se le parti non si sono accorte
che un contratto è nullo e hanno fatto l’intera causa (discutendo magari dell’adempimento, del mancato
adempimento, del danno ecc), il giudice che si accorge che quel contratto è nullo, lo dichiarerà tale alle
parti e dovrà essere rivisto in base alle conseguenze della nullità.
Altra norma importante in tema di nullità è che, siccome il vizio è così grave, “l’azione per far dichiarare la
nullità non è soggetta a prescrizione”. Ciò significa che quando sono di fronte ad un contratto nullo, non
sono mai sicuro, in quanto in qualsiasi momento chiunque abbia interesse o il giudice stesso possono
rilevare il giudizio di nullità.

Annullabilità
C’è un’altra forma di invalidità del contratto, meno grave da questo punto di vista che si chiama
annullabilità (domanda d’esame molto importante). L’annullabilità è una forma di invalidità dell’atto,
diversa dalla nullità in quanto è “meno grave” e ha regime giuridico diverso nel senso che, a differenza
del contratto nullo che non produce effetti perché è imprescrittibile, il contratto annullabile produce
effetti ma può essere impugnato e in quel caso verrà dichiarata l’annullabilità del contratto e gli effetti
cesseranno (ha una prescrizione). La grande differenza è che il contratto annullabile produce effetti fin
tanto che non viene impugnato, mentre il contratto nullo non produce mai effetti.
“Il contratto è annullabile se una della parti era legalmente incapace di contrattare” per esempio
tipicamente il minore (se mio figlio che ha 12 anni va dal notaio e vende la casa, quello è un contratto
annullabile). È annullabile anche il contratto per cui il consenso sia stato viziato da errore, violenza e
dolo. L’invalidità riguarda l’atto, riguarda qualcosa che manca nella formazione dell’atto perfetto: o
manca un requisito essenziale per cui è nullo, o manca un altro requisito come la capacità di agire del
soggetto perché legalmente incapace di stipulare.
Ad esempio: se ci sono un accordo, un oggetto e una forma prevista dalla legge, ma c’è un vizio all’inizio,
esso determina che quel contratto è invalido e può essere annullato. Se vi è un vizio al momento in cui
l’atto viene perfezionato in seguito possono nascere dei problemi nel rapporto, in questo caso non è più
una questione di invalidità, ma potrebbe essere il caso che il contratto debba venire meno ed esistono
delle ipotesi di risoluzione del contratto le quali sono tre:

1. inadempimento - Ipotesi in cui una delle due parti non adempie alle prestazioni che erano state
previste dal contratto; il contratto è fonte di obbligazioni e in questo caso ci sono dei soggetti
vincolati al vincolo obbligazionario e uno dei due manca della prestazione, ossia non esegue
esattamente la prestazione. “Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti
non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione
del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno”. In tal caso si possono fare due cose: o
la parte alla quale spettava per contratto un certo adempimento agisce per far adempiere l’altra;
oppure può chiedere la risoluzione del contratto per cui l’altra parte non adempirà più, ma verrà a
meno il vincolo salvo in ogni caso di risarcimento del danno, perché qualcosa è già accaduto
quando non hai adempiuto (il debitore che non adempie alla prestazione è tenuto a risarcire il
danno, spetterà alla parte scegliere se vorrà comunque la prestazione, oltre il risarcimento del
danno, o se vorrà chiudere quel tipo di rapporto lì).
“La risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere
l’adempimento, ma non può più chiedersi l’adempimento quando è stata domandata la
risoluzione”. Questa è la prima ipotesi di risoluzione di un contratto ed è quella che ci aspettiamo
più facilmente.

Ce ne sono altre, ma prima di vederle dobbiamo parlare di una cosa molto importante perché attenua le
conseguenze formalistiche di quella norma che abbiamo visto prima. Quando parlavamo del fatto che il
debitore è tenuto ad adempiere esattamente alla prestazione vi dicevo che, se interpretiamo questa cosa
in maniera cavillosa, è possibile questionare più volte, perché è sempre possibile dire che non era stata
eseguita in maniera corretta la prestazione. “Il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una
delle parti ha avuto scarsa importanza riguardo all’interesse dell’altra”: questa disposizione attenua, cioè
è possibile usarla a proprio favore per far valere l’inesattezza e chiedere il risarcimento del danno. La
risoluzione sarà impedita se quello che la parte (la quale usa tale disposizione a proprio favore) chiama
essere “inadempimento” è irrisorio o ha scarsa importanza per quanto riguarda l’interesse del diritto.
Questa norma può essere letta come una attenuazione nei confronti di una potenziale deriva normalistica
della regola generale sulle prestazioni.

2. Impossibilità sopravvenuta: l Covid ha generato una sequela di impossibilità di prestazioni: pensate


a tutte le attività che si fermano per intervento totalitario dei DPCM, non possono adempiere
perché sono impossibilitate. “Nei contratti con prestazioni corrispettive, la parte liberata per la
sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione e deve
restituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito”. Ciò
significa che quando si verifica l’impossibilità di una prestazione (impossibilità oggettiva) si è
liberati dalla propria prestazione perché ritenuta impossibile. In tal caso il Codice Civile afferma
che la persona è liberata dalla propria prestazione e lo è anche l’altra parte, in quanto sarebbe
ingiusto chiedere solo la prestazione dell’altro.

3. Eccessiva onerosità: altra disposizione che di questi tempi è diventata molto usata per
interrompere/risolvere azioni contrattuali ritenute eccessivamente onerose per la situazione
prevista. “Nei contratti a esecuzione continuata o periodica, ovvero a esecuzione differita, se la
prestazione delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti
straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del
contratto. La risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell’area
normale del contratto. La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di
modificare equamente le condizioni del contratto.”
Esempio: ho affittato dei locali ad un determinato prezzo, se succede un fatto straordinario (es:
pandemia) e la prestazione diventa eccessivamente onerosa posso chiedere la risoluzione. L’altra
parte potrebbe concederla, ma deve accettare di ridurre la sua pretesa, ad esempio mi riduce il
canone di locazione, o me lo sospende, o trova una cosa per ricondurre ad equità il rapporto tra le
prestazioni.

Riassunto
Ricordatevi lo schema: obbligazioni (notazione di obbligazioni è importante), fonti di obbligazioni sono
contratto o fatto illecito più altre ipotesi stabilite dalla legge (non da ricordare). Il fatto illecito avete visto
cos’è, immaginatevi un incidente stradale, di solito è un esempio.

Contratti fonti di obbligazioni, contratti che hanno requisiti essenziali che sono: accordo, causa, oggetto,
forma (quando è richiesta per la validità e in particolare ricordatevi la forma scritta per i contratti di
trasferimento della proprietà di beni immobili e requisiti accessori).
Il contratto può significare contratto come atto che, se trova dei vizi, produce delle invalidità. A seconda
della gravità del vizio possono esserci: o forme di nullità richiedibili da chiunque ne abbia interesse ed è
rilevabile d’ufficio dal giudice; o forme di annullabilità, la cui differenza sostanziale è che in questo ultimo
caso si producono gli effetti del contratto e che una volta impugnabile viene dichiarata l’annullabilità.

Il rapporto contrattuale che si è instaurato con l’atto valido stabilisce che è iniziato un rapporto tra le
parti. Se succedono delle cose/problemi per cui c’è il bisogno di una risoluzione del contratto vi sono tre
ipotesi tipiche:
l’inadempimento: una delle parti non adempie e quindi sarà commesso sempre il risarcimento del danno
per la regola generale sulle obbligazioni “il debitore deve adempiere esattamente alla prestazione,
altrimenti deve rispondere dei danni”;
l’impossibilità sopravvenuta, se una prestazione viene impossibile ovviamente non potrò richiedere
l’altra prestazione e il contratto potrà essere risolto;
l’eccessiva onerosità, che significa fatti straordinari e imprevedibili che rendono le tue prestazioni
largamente sbilanciate, eccessivamente onerose per ragioni prevedibili e straordinarie, in questo caso si
può chiedere risoluzione ma l’altra parte può offrire di ricondurre a equità il contratto.

Smart Contracts

La differenza tra contratto come atto e come rapporto


sono due punti di vista sulla vicenda contrattuale espressi da una stessa normativa, contratto come atto =
facciamo riferimento al momento genetico della vicenda del rapporto contrattuale che ha come momento
determinante la sua stipulazione, cioè la formazione dell'atto.

Nel diritto si distingue tra atti (portata di un'attività umana) e fatti.


La fase dell'atto: formazione della stipulazione che ha come fondamento l’incontro tra due volontà umane
Considerare il contratto sotto il profilo dell'atto significa considerarlo sotto forma della stipulazione, sulla
base di quella stipulazione si crea la parte della relazione regolata da quell'atto che è legge tra le parti.

Questa fase qui riguarda la vicenda del soggetti che hanno stipulato il contratto in quanto regolata dalle
norme di quel contratto stesso = fase rapporto contrattuale

Il concetto di validità è riferito al contratto come atto, alla stipulazione, se essa aveva i requisiti essenziali e
nessun altro vizio (valido o invalido); quando invece ci poniamo sotto il profilo di eventi che possono
incidere sulla relazione delle parti in quanto governata da quell'atto stiamo parlando del rapporto
(questione di adempimento e inadempimento, adempio a qualcosa in quando ho un'obbligazione)

(fonti dell'obbligazione: contratto, fatto illecito, altri casi previsti dalla legge.

Finché non è sorto il contratto come atto, non ho ancora prestazioni da tenere, non sono legato
dall'obbligazione contrattuale, quando il contratto è stato perfezionato e non ci sono profili di invalidità
radicale per cui debba essere nullo a quel punto è sorto il vincolo giuridico che riguarda quello che io devo
fare, cioè è nato il complesso delle obbligazioni che mi riguardano. Le vicende di quelle obbligazioni (che
adempio o no) non riguardano più se l'atto era perfetto o no, riguardano delle vicende che sono nate e
regolate da quell'atto, cioè il rapporto.

Un conto è impugnare un contratto perché invalido, nullo, faccio valere un vizio dell'atto, un conto è farlo
perché voglio la risoluzione del contratto di fronte ad un inadempimento (rapporto) , in questo caso
pretendo l'adempimento o chiedo la risoluzione, in ogni caso è salvo il del danno, se chiedo la risoluzione
chiedo qualcosa che fa cessare il rapporto contrattuale, non qualcosa che tocca la validità dell'atto (= se
l'atto era valido è nato il rapporto, il problema è che il rapporto non ha funzionato). Dunque, i discorsi
sulla risoluzione riguardano il rapporto e non fanno questione di invalidità (che è un'altra cosa, questa
riguarderà se c'è un vizio nella formazione dell'atto, che determinerà vari livelli di gravità a secondo se sia
su elementi essenziali o su altri elementi). Il risarcimento

(Tornando all'art 8-ter) Questione principale: disposizione scritta male per varie ragioni, non si possono
conoscere le conseguenza del fatto che sia scritta male, però non ci stupiremo se ci sarà del contenzioso
difficile da risolvere per il fatto che non abbiamo strumenti normativi adeguati. Essendo in un contesto di
innovazione tecnologica non abbiamo da poter contare su un grande bagaglio di conoscenze acquisite. Un
conto è un contenzioso su un contratto atipico (alle parti come effetto della riconosciuta autonomia
contrattuale le parti possono stipulare anche un contratto nuovo che non si è mai

visto, con il limite che con ciò disciplinino gli interessi meritevoli di tutela), un conto è un contenzioso su
queste cose nuove, prevediamo che ci potranno essere dei problemi ma non sappiamo bene quali.

Uno del fattori per cui questa disposizione è poco chiara, è il fatto che nella prima parte e nella seconda
parte dello stesso comma, sembra far riferimento e collocare il concetto di smart contract in due distinti
momenti dell'idea di contratto come atto e dell'idea di contratto come rapporto.
"(...] sulla base di effetti predefiniti sulle stesse"→ sembra far riferimento alla fase del rapporto
contrattuale, presuppone che ci sia già stata la stipulazione, che è lo scenario che oggi possiamo
immaginare standard (prima facciamo un contratto alla vecchia e poi quella parte delle prestazioni che è
automatizzabile, le automatizziamo e traduciamo in programma per elaboratore).

Però nell'immediata prosecuzione della disposizione tocca il tema della forma, ma la forma e qualcosa che
riguarda la stipulazione, tant'è che quando è richiesta la pena di nullità è un requisito essenziale del
contratto (ed è invalido se non ha la forma) tocca il contratto come atto, nonostante inizialmente riferisce
il concetto di smart contract alla relazione.

C'è un'ambiguità da parte delle dottrine di fondo in questo concetto di smart contract, se è vero che ora
si parla di stipulazione prima e poi automazione (e allora il discorso della forma scritta dello smart
contract è rilevante fino a un certo punto)
Es. contratto con forma scritta ad substantia (= a pena di nullità) supponiamo che lo stipuliamo senza
farlo scritto e l'unica cosa che abbiamo poi sarà il codice informatico, la domanda è se questo codice
informatico supplisce alla forma scritta ad substantia (è sufficiente per evitare la nullità)? Se sì, quell'atto
sarà valido, se dico di no, quindi serviva un atto scritto prima, quell'atto sarà nullo (es. acquisto casa, fuori,
pagamento indennità).
E allora tutta l'automazione che ho messo in piedi diventa nulla, ne va della validità dell'atto e
dell'automazione (la nullità è imprescrittibile e può essere fatta valere da parte di chiunque). Se abbiamo
messo su tante automazioni sulla base di un atto che credevamo sanato perché lo smart contract
dovrebbe risolvere il problema della forma, e poi non è vero, ci troviamo nella situazione di dover fare
una serie di restituzioni.
→ gravoso sulla grandissima scala, ad esempio automazione su contratti di assicurazione in quanto ci
rivolgiamo alle automazioni quando dobbiamo gestire scale importanti di prestazioni, migliaia di contratti,
tutti contratti nulli, difficile la restituzione.

Punto cruciale: noi ci rivolgiamo all'automazione quando dobbiamo gestire scale importanti di relazioni e
tutto diventa più complicato nel caso di dover ritornare Indietro,

**Discrasia tra l due momenti per cui gli smart contract riferiti prima al rapporto e poi all'atto, perché non
è stato definito un punto di vista dominante, perché è proprio il centro della discussione, ragionando nel
breve termine (facciamo l'atto prima e poi automatizziamo), ma anche in un superamento di tale
(immaginando la possibilità che l'unica cosa "scritta" sia il codice).

Non tanto nei contratti con forma libera (i quali hanno problemi non di validità, ma di prova importante,
se non c'è niente di scritto non possa far valere i miei diritti in giudizio, ma utili e veloci, libertà delle
forme più importante) tanto più nel contratti con forma ad substantia.

(Influenza del principio dell'onere della prova: chiunque intenda far valere un diritto in giudizio deve
provare i fatti che ne stanno a fondamento, se voglio qualcosa da te io devo provare che ho ragione)

Attribuisci valore di forma allo smart contract? Parametri tecnici legati all'autenticazione sono da
concordare (lo scritto deve essere imputabile ad un autore, uno scritto non sottoscritto non vale niente
giuridicamente, tipicamente questo avveniva con la firma espressione della volontà)
Il concetto di smart contract al momento si concatena con il concetto di blockchain, per lo meno
nell'interpretazione attuale della cosa. Szabo nel '94 parlava di smart contract: protocollo di transazione
computerizzato che esegue termini di un contratto, con l'obiettivo di soddisfare comuni condizioni
contrattuali minimizzando le possibilità di eccezioni, minimizzando il bisogno di un intermediario
affidato. Ulteriori finalità collegate sono l'abbassamento del pericolo di frode, l'abbassamento dei costi di
enforcement ed altri costi di transazione.

Tra 2008/09, con la nascita del Bitcoin, si inizia a parlare di blockchain, su cui queste criptovalute si
muovono
Le cose sono, quindi, coniugabili da punto di vista giuridico in quanto attribuiamo requisiti alle blockchain,
descritte molto bene nell'art. 8 ter (condivisione, trasparenza, accessibilità, non modificabilità e non
alterabilità)

Se disponessimo di una base di conoscenza condivisa con queste caratteristiche, con forte oggettivazione,
non alterabile e affidabile, le nostre relazioni si semplificherebbero.

(in riferimento al cc) Inadempimento delle obbligazioni: si ha quando il debitore non esegue esattamente
la prestazione è tenuto al risarcimento del danno.

la trasformazione tecnologica sta cambiando la semantica della parola esattamente, come una macchina
interpreta la parola è molto diverso da come invece è usata nelle relazioni umane (legata quindi agli usi),
ma il codice percepisce che la parola esattamente potrebbe prestarsi ad abusi, infatti prevede un'altra
disposizione in ambito di inadempimento e risoluzione "che non può essere chiesto quando
l'inadempimento ha scarsa Importanza"= interesse di non vedersi imputare una responsabilità che non ha
ragionevolmente.
Già questo nel mando analogico, in quello delle macchine, l'esattezza può essere intesa in un modo molto
più stringente.

Quindi l'inadempimento ha questa caratteristica: in ultima istanza, può dipendere, salvo da fattori
oggettivi (es. impossibilità sopravvenuta della prestazione, eccessiva onerosità per fatti Imprevedibili che
non dipendono né dal creditore che dal debitore) → la posso sempre non adempiere, nel mondo
analogico il contratto è una promessa diretta al futuro, che può essere violata.
Posso anche decidere di non adempiere solo per convenienza.
Mi conviene di più adempiere o affrontare le conseguenze che costano meno?
- Da un punto di vista formale, molto popolare nella teoria del diritto del '900, che programmaticamente
espelle dal giudizio giuridico ogni valutazione morale, la cosa non fa una piega

La norma giuridica è un giudizio ipotetico che lega delle condizioni di partenza e le conseguenze (se si
creano le condizioni di partenza si applicano le conseguenze). Secondo questa teoria la norma non ti
dice che moralmente devi fermarti al semaforo rosso, dice che se non lo fai, l'ordinamento come
meccanismo ti imputerà una sanzione, fuori da ogni giudizio morale.

(es. mi conviene parcheggiare in centro storico e rischiare una multa, però arrivare in tempo ad un accordo
che potrebbe fruttarmi molto a livello economico, oppure evitare la multa e arrivare in ritardo?)
Il diritto dice solo che se si crea una condizione si applicherà una convenienza, decidi tu la moralità di
questa scelta.
Allora per esempio sarebbe paradossalmente rispettoso del diritto anche l'atto che viola la norma, nella
misura in cui il diritto già prevede cosa c'è da fare dopo, il diritto nel suo complesso non e mai violato tutto
perché ha già previsto cosa succede dopo, e si applicherà la conseguenza.

L'inadempimento dell'obbligazione si pone dentro questo gioco di calcolo, conviene adempiere e non
adempiere?

L'adempimento delle prestazioni richiede la partecipazione della volontà: ciò implica che io faccia delle
valutazioni, ritengo che ricorrano le condizioni, verificarsi di condizioni, interpretazione delle condizioni; se
l'altro non contesta vuol dire che sto facendo bene.
Il contenzioso nasce proprio da questo: ritenere che le condizioni del contratto stessero in un modo e non
in un altro, tu no.
Se tutta questa parte fosse azzerata perché è stata univocamente determinata per poterla scrivere in un
registro che poi viene distribuito [DTL Distributed hardware, software and data) con tutte le garanzie come
non modificabilità, trasparenza... allora non posso più voler non adempiere, se quell'assetto di
precondizioni è stato oggettivato in quel modo ed è automatizzabile con l'idea dello smart contract le
prestazioni conseguenze, per esempio a determinate condizioni darsi una somma di denaro (con pagamenti
elettronici) → viene scavalcata la volontà del soggetto (di non adempiere) e del calcolo cinico, non posso
farlo anche se conveniente perché sfugge alla mia volontà.

Es. immaginari possibili di applicazione.


- Certificazione di diritti di proprietà o proprietà intellettuale (Svezia)
- Industria della salute, la certificazione, condivisione di dati medici, ottimizzazione della fornitura di
farmaci (già si fa in Estonia)
- Servizi della pubblica amministrazione (GB)
- Ottimizzazione della catena di fornitura (es. tracciatura qualità del prodotto che acquisti, realizzazione
dell'internet of things, nel momento stesso in cui ad es. il pesce viene pescato viene dotato di sistemi
automatici di misurazione di qualità e che queste informazioni siano immediatamente trascritte nella
catena; arrivi alla fine e sei sicuro di cosa è successo prima e riesci a programmare lo stocking, avere un
magazzino troppo o troppo poco fornito)

TRACEABILITY, PROVENANCE, AUTHENTICITY- Everledger


Offre possibilità di certificazione sulla base delle tecnologie in particolare blockchain in particolare nella
certezza nella circolazione del traffico, per esempio offre una serie di possibilità di certificazione e garanzia
basata sulla tecnologia che stiamo vedendo, per determinati beni sui quali è particolarmente importante
che ci sia garanzia, ma anche particolarmente difficile che ci sia (es. circolazione beni preziosi come
diamanti)
es. "By combining blockchain technology with IA and nanotechnology we create a digital twin of every
diamond, enabling traceability in a secure, unalterable and private platform - circolazione di beni preziosi
(es. diamanti) - gemello digitale di ogni diamante consentendo tracciabilità e autenticità con sicurezza,
→ GIA report secured by a blockchain technology

es. tracciatura dei vini tramite del cip associati alla bottiglia, dentro i quali si vedono tutte le caratteristiche
e valori; con temperature e analisi di possibili alterazioni lungo tutta la spedizione.
es. autenticazione quadro: esperti dell'arte, con analisi anche tecniche e sono autentiche e richiedono una
fede nell'esperto, con la blockchain questo può essere non più necessario, perché contenute un registro
non modificabile.

Dentro questa tecnologia sta non solo un discorso di accelerazione di relazioni perché certi passaggi
vengono inseriti nella rete e quindi veloci, ma diventano proposte di business completo che arricchiscono
la qualità del prodotto venduto, le caratteristiche sono verificabili, non ce limite.

BLOCKCHAIN IMMUTABILITY
Alla base dello schema vi sono le transazioni (non in senso giuridico), ma operazioni che vogliamo siano
trascritte nella catena; la loro traduzione attraverso il sistema della codifica in Hash va a costituire il primo
elemento del blocco della catena.
Con lo stesso sistema vediamo trascritto dentro il singolo blocco della catena, I‘intera storia della catena
fino a quel momento.
Il blocco precedente viene tradotto in nuovo con una funzione di Hash, trascritta come altro elemento della
catena, questo vale per tutti i blocchi ogni elemento di ogni blocco che trattiene l'elemento precedente sta
trattenendo l'intera storia.
Ecco perché al minimo variabile di ingresso c’è un'enorme variabile d'uscita del codice alfanumerico che si
produce.
Questo è importantissimo e determinante nel contesto del diritto; il traffico giuridico necessità di un grado
di certezza anche temporale, la certezza di una data è essenziale oltre ad avere conseguenze giuridiche (es
prescrizione: termine entro il quale può essere fatto valere un diritto, ha a che fare con il tempo).

Nonce: adempimento dell'algoritmo di consenso, cioè quella serie di procedure all'esito delle quali si può
dire che è validata la trascrizione delle operazioni che vogliamo riportare sul registro.

es. applicazione in materia di salute è interessante dal punto di vista giuridico, non solo per i vantaggi che
può portare, ma anche in termini medico-legali.
Fino a poco tempo fa, di fronte al sospetto di un avvenimento scorretto, l'elemento chiave per la gestione
era la cartella clinica.
Alla richiesta arrivava un fascicolo con lo storico, quanto meno di quella struttura sanitaria, dove i
documenti erano di difficile riconducibilità, firmati e non firmati … → se creato dalla macchina e
direttamente trascritto in una blockchain che lo fissa e mantiene nel tempo immodificabile, quale enorme
differenza questo farebbe.

Non c'è casistica giurisprudenziale, quindi, manca un'importante comunità interpretativa, tra l'altro che
detiene il potere semiotico, certi interventi giurisprudenziali divengono principio di dottrina.
Sentenze-trattato: interventi giurisprudenziali di giurisdizioni superiori (es. Corte di Cassazione a sezioni
unite) che nel decidere un caso specifico colgono l’occasione per rifare da principio tutta la lettura
dell'istituto giuridico che è alla base di quella decisione.

In questa fase si ragiona sul rapporto tra teoria generale del contratto e lo smart contract, con le
caratteristiche che abbiamo visto, prendendo in esamina certi problemi, relativi sempre se in visione al
breve termine o il superamento di esso.
es. si pone il problema della traduzione fatta dal tecnico e il testo che hanno convenuto le parti, perché se
quella traduzione non corrisponde alla volontà contrattuale per quella traduzione manca la volontà, nulla,
quindi questo dal punto di vista giuridico rappresenta un problema non da poco.
Questo è un tema in cui si discute con riferimento al primo requisito essenziale del contratto (accordo,
oggetto, causa, forma -quando prescritta quella di nullità-), la stessa cosa si discute in riferimento agli altri
requisiti essenziali, sostanzialmente si prendono i singoli requisiti essenziali e si ragiona di come possono
declinarsi quando l'esperienza si tradurrà in termini automatizzati di questo tipo.

(quindi ad es di si chiede se il concetto con cui pensiamo la determinabilità dell'oggetto - che deve essere
possibile, lecito, determinato o determinabile e se non ha questi requisiti il contratto è nullo- ci si chiede se
questa cosa, l'oggetto del contratto e quindi in particolare le prestazioni che vengono stabilite, abbia
sempre questi requisiti o possiamo trovarci nella condizione in cui ma uno di questi requisiti e l ci si chiede
per esempio se l'idea di causa del contratto come la funzione socio economica che è ascritta a quella figura
contrattuale subisce delle trasformazioni per il fatto che essa venga automatizzata in qualche parte o se è
concepibile la causa illecita
> per esempio se si può fare uno smart contract che abbia una causa illecita di questo, si discute della
esportabilità delle riflessioni sul requisito essenziale del contratto a questa figura.
O ci si interroga su ogni elemento del contratto (obbligatorio o meno) e sulla trasportabilità su questo
nuovo panorama tecnologico quali smart contract e blockchain

La tutela importante è cosa succede quando il contratto automatizzato viene poi dichiarato invalido dal
giudice perché nella blockchain non si può tornare indietro, mentre la nullità comporta che nessun effetto
giuridico sia realizzato, dunque si dice l'efficacia della dichiarazione di nullità risale fino al momento in cui è
stato stipulato, perché di fatto non è stato stipulato niente; le blockchain invece sono un sistema up-and-
only (puoi solo scrivere, non cancellare), in questo caso puoi solo scrivere da adesso in poi cose diverse
nuove transazioni che corrispondono alla restituzione, ma valgono da adesso in poi e quindi sembra
avvicinare la nullità all'annullabilità

Annullabilità: produce effetti fino a quando non è dichiarata


Nullità: non produce mai effetti

Per cui la differenza tra queste due figure sembra avvicinarsi.

Risoluzione del contratto ha 3 ipotesi specifiche:


1. Inadempimento
2. Fattori Imprevedibili e straordinari che rendono la prestazione eccessivamente onerosa, come si fa a
prevedere la possibilità di questi fattori?
3. Impossibilità sopravvenuta della prestazione, dipende da cosa stato stipulato.

Non tutte quelle ipotesi che il diritto riconduce al rapporto contrattuale e che fanno riferimento a fattori
imprevedibili al momento della stipulazione sono i più problematici rispetto all'idea di trascrivere una volta
per tutte le condizioni e meccanizzare quello che viene dopo, il fattore imprevedibile infatti è importante
giuridicamente.
E’ rilevante per noi perché questo testo viene citato da Norbert Wiener, un famoso matematico. Wiener
però lo cita fino nel momento in cui arriva lo straniero a casa della famiglia e annuncia di recare con sé
un’indennità di 200£. Wiener parla del racconto in quel testo che si chiama Dio & Golem Spa., citato per
mostrare come il matematico avrebbe già intravisto una serie di problematiche sociali della tecnologia
addirittura sul piano morale e anche sul piano religioso. In effetti il sottotitolo dell’opera parla
dell’impatto della tecnologia sulla religione ma in realtà l’opera è molto più ampia.
Secondo voi perché un matematico impegnato come protagonista nella costruzione dell’innovazione
tecnologica che ha portato fino a noi e protagonista di quel percorso che avrebbe contribuito a
immaginare prima e realizzare poi macchine che imparano, che si riproducono? Perché cita la novella “la
zampa di scimmia”? Che cosa ci vede di analogo rispetto all’impresa che sta svolgendo egli stesso?

1° risposta
Diminuzione della necessità causale:
Violazione della causalità perché in effetti quello che accade, se è vero che l’amuleto ha questo potere vi
è la violazione delle leggi fisiche. È impensabile che invocando l’amuleto, dicendo che voglio ricevere
200£ accade in un modo in cui ti arrivano le 200£, se non in forza di un atto magico, che infatti si
presuppone sia stato impresso sull’amuleto. La magia dell’amuleto scavalca la causalità naturale ed è
efficace nel mondo. Ed è efficace però in un senso in cui non ci lascia dire per quale ragione è efficace,
perché tutto quello che sappiamo è cosa entra (input): il nostro desiderio di …, non sappiamo per quale
motivo accade quello che accade poi (magia), ma di fatto accade un’uscita esattamente quello che
abbiamo chiesto(output).

Risposte su zoom
 Riporre fede nell’efficacia in ciò che si utilizza, suscita credenza religiosa,
 Capacità della realizzazione dei desideri
 Capacità di concretizzare un pensiero
 Opacità di questo sistema

Wiener lo cita esattamente per fare un paragone tra l’automazione e la magia. In un certo senso
l’automazione è magia, nel senso che la tecnologia è magia perché è efficace nel mondo attraverso
procedimenti che sono tanto inesorabili quanto opachi perlomeno, nei giorni contemporanei, per una
larghissima parte di utenti che li usano.
Proviamo a vedere l’elemento morale della citazione della novella da parte di Wiener, perché la fa per
porre l’attenzione all’analogia tra automazione e magia, ma anche per dire qualcosa di più.
Che cosa ci inquieta della vicenda citata nella “zampa di scimmia”?
Conseguenze impreviste e indesiderate
Perché Wiener usa questa novella? Su che cosa ci vuol attirare l’attenzione?
Il tema dei fini: fini diretti e fini indiretti. O meglio tra finalità e conseguenze che non sono la stessa cosa.
Finalità si pensa qualcosa di intenzionale, es. volere 200£. La morte del figlio come mezzo per ottenere le
200£ non era una mia intenzione ma era una conseguenza.
Wiener ci porta a questo: la magia dell’automazione viene computato della sua inesorabilità. Ma
inesorabilità significa anche assoluta indifferenza al contesto non previsto da chi ha strutturato
l’automazione. Ed ecco un altro punto in cui il testo di Wiener è fondamentalmente attuale (1950):
” Tanto più allarghiamo lo spazio all’automazione e tanto più ci affidiamo senza al senso di responsabilità
all’automazione e a quello che costruiamo, tanto più dovremmo essere invece molto più attenti alle
finalità che perseguiamo e alle conseguenze. Perché l’inesorabilità, di ciò che accade richiede
un’attenzione particolare”.
Non è che inventando macchine potenti riduciamo i nostri problemi essenziali. I nostri problemi
essenziali diventano ancora più grandi, perché il nostro problema essenziale diventa la scienza dei fini e di
cosa siamo disposti a mettere in gioco per i fini, perché questa cosa la macchina da sola non la può fare.
Lei se è programmata per vincere, vincerà costi a quel che costi, la macchina sarà insensibile alle
conseguenza che questo determina nel contesto.
Le macchine ci possono aiutare ma ci chiedono in cambio qualcosa che forse non siamo pronti ad
immaginare, cioè una grave irresponsabilità e non una diminuzione di responsabilità.
Una parte della responsabilità ha come focus quanta parte della realtà vogliamo tradurre in un apparato
simbolico gestibile dalla macchina e quanto siamo disposti ad assicurare identità e anzi riduzionismo di
questo apparato simbolico rispetto alla realtà che consideriamo.
Oggi si parlava della blockchain e giustamente è tutto bello, gli smart contracts, si allarga la base di
meccanizzazione delle condizioni del contesto, questo è molto buono perché si può implementare
sempre più automatismi, questa base può raccogliere sostanzialmente qualsiasi cosa tu voglia
trascrivervi, che possa servire come precondizione per l’automatismo che vuoi scrivere. Certo, oggi
abbiamo parlato di contratti e smart contract in quanto smart legal contract, quando c’è un accordo tra le
parti. L’accordo è già qualcosa che presuppone che due parti tra di loro abbiano discusso e quindi ci sia
una visione più o meno delle conseguenze perlomeno condivise. Ma il modo in cui si parla di smart
contract non è sempre e solo ridotto all’idea di smart legal contract, cioè alla cui parola contract vuol dire
avere a che fare alla teoria del contratto secondo il diritto. Ma nel gergo si usa parlare di smart contracts
per qualsiasi software che gira su una blockchain. Allora molto spesso noi ai primi avvertimenti che
sentiamo stiamo attenti, perché non tutti quelli che parlano di smart contracts comprendono anche gli
smart legal contracts. Cioè nel mondo in cui uso la parola smart contract, dentro a questa sfera ci sono
tante persone che allude a qualsiasi automatismo su una blockchain, che non ha una qualificazione
giuridica in termini di contratto.
Usciamo dal concetto di smart legal contracts, ed entriamo all’idea dell’automatismo, cioè un
automatismo che si implementa su una fase come quella di una blockchain verso alla quale, oggi si sta
alzando il livello di fiducia, per quelle ragioni che abbiamo visto prima: trasparenza, resistenza alla
manomissione, alla capacità di girare ed essere efficace e funzionale anche laddove la base umana che vi
partecipa non condivide fiducia tra di loro in cui incrementa la fiducia verso l’automatismo e si riduce il
peso della fiducia verso la controparte umana. Idealmente l’aumento della datificazione e dunque il fatto
che sempre più settori dell’esperienza siano tradotti in quell’orizzonte simbolico che sono i dati (il dato è
la traduzione simbolica di una proprietà di un oggetto o di una esperienza) in modo che essa sia
manipolabile secondo certe regole o certi usi che si intende fare. Il dato è una trasposizione simbolica di
qualcosa, ciò che va nella piattaforma che offre fiducia e certezza è la trasposizione simbolica di qualcosa.
Quello che noi produciamo è quel livello di conoscenza basato sulla dimensione simbolica dell’esperienza.
C’è quel fenomeno di distacco della realtà “analogica” che poi genera quel problema: ogni volta che devo
tornare nella realtà devo fare i conti con questo stacco ciò che era simbolo di, ciò che era la
rappresentazione e ciò che era vero.
Ma in uno scenario/panorama in cui la datificazione aumenta ovunque sempre di più, e dunque arriva
trasposizioni simboliche di ogni momento dell’esperienza, è possibile immaginare all’aumento
dell’automazione in qualsiasi ambito dell’esperienza; aumenta quella parte in cui la fiducia viene posta
nell’automatismo. Specie quando si implementa su strutture come queste che di per sé, si prestano a
ricevere maggiore fiducia.
Quanto per noi vale la traduzione simbolica di qualcosa rispetto alla cosa stessa? Quando tutti i nostri dati
biometrici saranno caricabili su qualche blockchain da cui far seguire da qualche automatismo, quella sarà
la totalità della nostra persona o vedremo lì qualcosa che conserva uno stacco rispetto alla struttura
all’essere umano in quanto tale?

C’è un livello per cui noi traduciamo un dato in esperienza, quando avremo così tanti dati su così tanti
aspetti siamo tentati di pensare che la totalità di quella cosa sia replicata fedelmente in quell’insieme di
dati. E allora concentraci su quel pensare che quello sia tutto ciò che abbiamo di fronte tutto quello che
abbiamo a che fare. Cioè abbiamo un approccio riduzionistico. Noi siamo né più né meno che la nostra
rappresentazione datificata in questo caso.

Ricordando il messaggio di Anderson: “Noi siamo la nostra immagine datificata arricchita di tutte le
correlazioni che da essa si possono ricavare”.
Allora un punto importante rispetto a quello che ci dice Wiener, “attento le macchine ti possono aiutare e
anche molto ma tu hai un problema ancora di quello di costruire le macchine utili, quello di pensare alle
finalità per cui le usi e alle condizioni e alle conseguenze che il loro impiego porta su questo”. È quello di
immaginare il mondo come riducibile alla sua rappresentazione e dunque come al suo aspetto
manipolabile oppure che supera la sua rappresentazione e dunque rispetto alle capacità di manipolazione
manifesti resistenza in qualche modo, anche solo come limite negativo, oltre di qua non va.
Attenti però che esiste un approccio a queste faccende che possiamo chiamare

Approccio riduzionistico
(non solo in queste faccende in realtà, è una declinazione che spesso compare in quelle deformazioni
degli ambienti tecnologici e scientistici in più direzioni). Tu sei né più e niente meno che tutto ciò di te che
posso vedere attraverso certe rappresentazioni che io governo ovviamente, quindi vuol dire presupposti
teorici, strumenti di misurazione.

Riassunto
Riduzionismo, cioè l’atteggiamento secondo il quale l’essere umano si riduce a ciò che di esso è
rappresentabile secondo certi strumenti e secondo certe formazioni simboliche ad esempio i dati che
possono essere manipolati. Perché questo atteggiamento, oppure l’altro atteggiamento che non è
riduzionista immagina che non ci sia questa riduzione di sé, alla rappresentazione di sé con gli strumenti
di manipolazione che fa cambiare la prospettiva a quello che dice Wiener. Wiener nel testo è
decisamente un non riduzionista, quando immagina le macchine, se costruite e pensate
consapevolmente aiutano l’uomo ad uscire da un destino di formiche, come dice lui, cioè un destino di
adempimenti per tutta la vita ripetitivi e miserabili rispetto all’altezza della dignità dell’uomo (ha una
grande considerazione dell’uomo). Dice anzi che se noi pensiamo all’uomo come a una formica, quello
che noi otterremmo è un uomo neanche tanto bravo come una formica e ad un certo punto si lesiona la
sua dignità. Quindi non è affatto riduzionista, ed è per questo che immagina appunto l’idea del tema
della responsabilità, il tema della concentrazione sui fini e conseguenze delle azioni che noi leghiamo alla
macchina.
Tutto questo per rappresentarci l’idea del riduzionismo e non riduzionismo, perché è aperto, ci sono
settori e ambiti nei quali domina il non riduzionismo, quello giuridico attualmente è uno di questi, perché
diritto alla dignità dell’uomo e dei diritti fondamentali, adotta un punto di vista non riduzionistico; ma ci
sono altri settori che tendono ad avere un atteggiamento di tipo riduzionistico.
1902 ci sono due opere da prendere in considerazione. La prima è quella della zampa di scimmia per la
ragione che ce ne parla Norbert Wiener, che non è esattamente un autore secondario rispetto
all’evoluzione.
1902 esce un’altra novella, questa volta non tanto un classico della letteratura dell’orrore ma invece un
classico della letteratura di fantascienza anche se dentro questa novella degli elementi di inquietudine
piuttosto forti ci sono lo stesso: Time machine di Hebert George Wells autore di una novella più famosa:
La guerra dei mondi, su cui c’è stato un film abbastanza famoso qualche tempo fa.

Questa novella parla di uno scienziato che ha inventato una macchina del tempo, e usa questo strumento
per proiettarsi nel tempo ma in distanze temporali enormi (non si proietta da qui a 5/10/100 anni), quasi
a voler cercare di definire che cosa è sia stato del futuro dell’uomo che si dota di strumenti potenti. Il
1900 inglese viene da un clima generale di allontanamento dall’immagine positivistica 800centesca e di
allontanamento e di messa in sospensione con la visione ottimistica dell’illuminismo, per cui l’uomo è
destinato a magnifiche sorti progressive. Cominciavano a manifestarsi momenti anti-positivistici, sono un
po’ più dubbiosi, non tanto del progresso scientifico anzi questo è preso per scontato, vissuto come un
destino dell’uomo, questo tratto accomuna tutti gli autori che stiamo vedendo: Russell, Wells, Wiener più
potentemente, perché egli ha un’immagine mistica del destino dell’uomo verso la tecnologia. Dice che “ i
nostri padri hanno assaggiato l’albero della scienza e anche se per noi questo frutto risulta un po’ amaro
siamo destinati a correre sempre più avanti perché l’angelo con la spada fiammeggiante è dietro le nostre
spalle”. Immagina l’idea che se ci fermiamo con l’evoluzione la catastrofe sarebbe più immane di quanto
possiamo fare proseguendo con l’evoluzione scientifica, laddove però proseguire indistintamente, non
necessariamente produce automaticamente le magnifiche sorti progressive che si pensava
nell’illuminismo. Questo movimento che forse qualche volta avevo etichettato come l’ineluttabilità del
progresso infelice, accomuna questo clima culturale.

Trama
L’accomuna anche la novella di Wells perché quando questo scienziato sale sulla macchina del tempo, …
la novella è strutturata più o meno così: costui invita a casa sua una serie di amici intelletuali e scienziati ai
quali illustra la sua creazione, all’inizio lui si presenza in modo molto sicuro di sé perché fresco
dell’invenzione, allora si dilunga nella spiegazione della teorica e dei dettagli tecnici che stanno dietro la
costruzione anche nell’incredulità ma il livello è quello di una discussione dotta tra amici in una casa un
po’ aristocratica. Dopodichè il clima si fa più buio perché egli comincia a fare questi viaggi nel tempo, va e
torna e ogni volta che torna da questi viaggi nel tempo è ridotto sempre peggio perché vive delle
avventure difficili in questo futuro lontano nel quale si reca.
E cosa trova in questo futuro lontano? Trova la conquista dei pianeti, del raggiungimento della felicità, di
società senza conflitti, di pacificazione universale, di uomini che vivono in assoluto ozio quasi
paraganonabili a divinità olimpiche perché tutto il lavoro materiale e brutale è compiuto dalle macchine al
posto loro? No, è andato ancora più in là. Dopo che tutto questo che si è verificato, quasi ad immaginare
che non c’è una fine della storia, c’è qualcosa anche dopo quello che immaginiamo all’ultimo orizzonte
che possa essere la fine della storia. Nel bene o nel male che immaginiamo, tipo una catastrofe oppure il
raggiungimento di uno stato idilliaco. In effetti nel posto in cui va trova intanto le vestigia di una società
che ha raggiunto un livello straordinario di cultura e di tecnica ma sono le vestigia: gli edifici in rovina,
sono evidentemente degli edifici maestosi, che hanno rappresentato un culmine culturale e tecnologico,
ma ormai sono abbandonati e sono in rovina. E non c’è traccia in giro del permanere di questo
raggiungimento e quello che trova se sono umani o non umani, non è del tutto definito su questo punto la
novella, perché ci porta credere che gli umani saranno così in là nel tempo e hanno passato un tale
sviluppo delle proprie capacità e del loro assetto sociale che si sono evoluti essi stessi in una forma di vita
riconoscibilmente umana ma molto diversa sia fisicamente sia negli atteggiamenti da quelli che siamo
soliti immaginare come umani. Di fatto questa umanità non ha più la capacità di conservare e di
progredire quello sviluppo che ha raggiunto. Di più non ha neanche nessun interesse. Questa strana
umanità è fatta di esseri estremamente fragili ed estremamente socievoli, per nulla aggressivi, perlomeno
nei confronti dello scienziato. Non c’è nessuna tensione a quel livello di umanità ma non c’è nessun
interesse tra di loro. Lui fa amicizia con uno di questi esseri ed ad un certo punto scivola in un fiume e
tutti quelli che sono attorno a lui non ci pensano neanche di dargli una mano, lui non è capace di venir su
dal ciglio: tanto è incapace di ogni cosa. Vivono quasi in una specie di disincanto rispetto alla natura e alle
vestigia di quello che è stato la società che non si riconoscono neanche più e quindi non progrediscono. E
questo non è l’unica forma di vita che incontra il nostro scienziato in questo futuro così remoto. Sul piano
della superfice ci sono questi esseri pacifici, inconsci e del tutto incapaci quasi a provvedere a se stessi al
minimo rischio/incidente che possa succedere. Sotto terra vivono degli altri esseri, forse una biforcazione
dell’evoluzione umana, e questi esseri vivono nell’oscuro dell’entroterra chiamati MORLOCK, e sono una
potenza minacciosa rispetto agli esseri pacifici che sono in superfice, anzi si teme che si nutrino degli
esseri in superfice quando riescono a beccarli e si inoltrano un po’ troppo verso gli antri della terra che si
scoprono.
Allora cosa c’è in questa novella: l’idea che non c’è una fine della storia, che non c’è un giudizio finale nè
positivo e né negativo rispetto a quello che è il progredire delle strutture delle nostre capacità
tecnologiche, ma certo non è detto come in questo caso, che quello che ci aspetta di là delle realizzazioni
sia necessariamente quello che ci immaginiamo adesso come un valore o come un’acquisizione
meritevole di essere raggiunta. Perché tu puoi pensare di tornare di là e pensando di là forse quel fine
ultimo che ti eri posto perde tutto sommato quel valore che aveva quando ipotizzavi che la tua storia
sarebbe realizzata.

Tema dell’invasività delle tecnologie.


Tendenza verso all’attentato alla dimensione intima dell’uomo e della persona; il cui tentativo di superare
“l’ultimo miglio “cioè di spingere la tecnologia sempre più dentro al mondo analogico.
Per fare questo parliamo di una questione molto specifica, perché è una vicenda che ci mostra già il
manifestarsi di questa tendenza, cioè una situazione in cui nel tentativo di invocare la tecnologia per
risolvere un problema gravato dalla tecnologia assistiamo a questa dinamica di inizio di invasività verso la
dimensione più intima della persona.
E’ una vicenda in corso, nella realtà rispetto alla quale percepiamo delle evoluzioni e le percepiamo anche
già a livello di esperienza comune ma è una fase in transizione ed ha a che fare con il fenomeno che
chiamiamo “Hate speech”. Non è una faccenda chiusa ma estremamente attuale e che sta generando
una serie di adeguamenti, molti di questi avvengono all’insegna delle invocazione di più tecnologia nel
tentativo di contenere un fenomeno che si riconosce e aggravato dalla tecnologia (non è facilissimo da
descrivere in un’unica definizione).
Ci riferiamo a (speech) dei discorsi che sono ritenuti portatori di una particolare carica antisociale, fino al
limite di venire in qualche modo sanzionati. Allora esiste un differente atteggiamento molto significativo
tra l’atteggiamento statunitense e quello europeo. Perché le due tradizioni hanno un rapporto diverso
rispetto a quello che è il valore che l’intervento per reprimere questo fenomeno ha, dal punto di vista
sociale e dal punto di vista costituzionale.
Quando parliamo di discorsi che sono ritenuti portatori di una carica antisociale e sono da contenersi se
non da reprimere intuiamo qual è il valore fondamentale che rischia di andare in conflitto con questa
pratica e il valore fondamentale della manifestazione del pensiero. Più o meno tutte le costituzioni e le
carte dei diritti occidentali riconoscono come valore la manifestazione del pensiero.

Europa
Però mentre nel continente europeo tradizionalmente la libertà di manifestazione del pensiero incontra
dei limiti e dunque è più connaturata all’idea di intervenire quando la manifestazione del pensiero supera
dei limiti.

USA
Al di là dell’oceano la discussione è più calda, nel senso che c’è una linea tradizionale che sulla base del
primo emendamento della costituzione degli USA, invece si ritiene che tutto si possa fare sul fenomeno
tranne che attribuire al governo il potere di reprimere la libertà di espressione, perché si dice che una
volta aperta quella porta non si sa più dove si va a finire. Dunque, si ha una linea interpretativa che dice
che si c’è un problema ma di fronte a questo problema il rimedio non è la censura, ma l’impegnarsi in un
dibattito pubblico, l’aumento delle voci e l’impegnarsi del dibattito per cercare di contrastare nel
dibattito la negatività soprattutto quando è basata sui pregiudizi o su falsi o rappresentazioni errate di
fatti e conoscenze. Un impegno ad aumentare il discorso anziché reprimerlo con la censura;

qui c’è una forte diversificazione nella tradizione dei due ambiti culturali. Ci sono anche chi invoca degli
atti sanzionatori ma trova un’opposizione molto forte in questo spirito tradizionale che vede nella libertà
di pensiero un baluardo assoluto. Invece da noi siamo più tradizionalmente inclini ad accettare limitazioni.
C’è una distinzione da fare tra libertà d’opinione e libertà di manifestazione del pensiero.

- Opinione è libertà di farsi un’opinione, di avere un’opinione per sé, quindi farsi un pensiero proprio per
sé, garantita dal nostro ordinamento senza limitazioni.
- Il problema nasce con la manifestazione del pensiero perché in questa fase il mio pensiero diventa
pubblico, diventa, come dice l’autore Jeremy Waldron “parte della struttura permanente della società”.
Nel momento in cui la si proietta all’esterno incontra la possibilità di essere limitata.

I gradi di limitazione sono su più piani:


1) legislazioni interne
2) legislazioni sovranazionali (ordinamento dell’UE, convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo del 1950 e la sua relativa corte (CEDU)
Chi sottoscrive la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo accetta la giurisdizione
della corte di Strasburgo. La convenzione prevede la libertà di manifestazione del pensiero ma può essere
limitata per determinate ragioni. Di conseguenza quando uno Stato interviene sanzionando la
manifestazione del pensiero ed è in violazione della convenzione andrò alla corte di Strasburgo,
verificando che la sanzione che lo stato mi ha erogato costituisce di per sé una violazione della
convenzione. L’articolo di riferimento sarà il n°10.
Il tema del hate speech da un lato è attuale e dall’altro è un settore in cui sta emergendo. È attuale perché
si è proprio elevato grazie alla tecnologia sotto due profili:

1) aumenta le occasioni di hate speech, la diffusione di strumenti soprattutto social, cioè l’interazione
tra soggetti, sul piano pubblico, messo a disposizione della tecnologia determina che aumenta le
occasioni di manifestazioni di pensieri odiosi. Un conto è tra amici e un altro è via chat Facebook o
Instagram. Evidentemente quel “essere” parte della struttura permanente della società che diceva
Waldron, diventa più incidente nel secondo caso che nel primo, che quella cosa viene limitata con
un gruppo ristretto di amici, invece lì viene proiettato sull’orizzonte che supera questa dimensione .
2) essa, con la capacità di esposizione che offre ma anche soprattutto alla rapidità con cui il
messaggio si può diffondere mi da la difficoltà di rimuoverlo quando venga rimbalzato in numero
indefinito di punti nel web, viene da dubitarsi dell’efficacia della struttura tradizionale del sistema
di rimedio giuridico.
Come pensa il diritto normalmente la propria reazione di fronte ad un illecito? La regola costituita
dall’esperienza, il comportamento deviante, intervento sanzionatorio. Anche in queste situazioni si
può pensare agli interventi sanzionatori come l’oscuramento del sito, se si riesce ad individuare il
soggetto si va alla responsabilità civile, penale…. Ma il problema è che c’è una successione e per
metterla in atto quel messaggio ha fatto una quantità di danno incalcolabile, e spesso di fatto
diviene non più rimediabile, perché il danno che doveva fare l’ha fatto e anche grande. Dunque,
sarà molto difficile che strumenti che vengono messi in atto dopo tutto questo, risultino inefficaci
nei confronti di quello che è accaduto.

Così come la tecnologia ha aggravato la situazione così si invoca la tecnologia a porre rimedio. Se è
inefficace il tentativo di intervenire ex-post cioè dopo che il fatto è stato compiuto, qualcuno penserà di
intervenire ex-ante, cioè prima che sia commesso il fatto (emissione di un discorso).
Ma come si fa ad intervenire prima che si metta pubblicamente il discorso? Si silenzia, si censura e questa
è la dinamica che dovremmo vedere.
Il tema è molto difficile perché il mondo è spaccato a metà tra occidente europeo e stati uniti

La definizione subisce un’evoluzione che la rende ancora più complessa:


 introduzione alla parola odio che è difficile da connotare giuridicamente perché la parola evoca
sentimenti individuali e normalmente il diritto tenderebbe a non voler penetrare dentro l’animo
umano. La parola è sfuggente dal punto di vista della rappresentazione fenomenica perché evoca
un’introiezione nel soggetto e non una rappresentazione di qualcosa di esterno.
Nella dichiarazione dei diritti dell’uomo la parola odio non compare e invece
compare l’incitamento all’odio, che è qualcosa che può essere suscettibile di riscontro empirico,
cioè possiamo immaginare di trovare degli “indicatori” con cui misurare la capacità di un discorso
di incidere verso l’inclinazione verso un comportamento altrui (io ti spingo con il discorso ma
intendo che tu faccia qualcosa che non devi fare)

La dichiarazione del 1948 nel momento in cui proibisce l’incitamento alla discriminazione sta ancora sul
livello dell’istigazione, cioè la possibilità di incontrare una minaccia esterna che può muovere certi
comportamenti.; laddove non la riscontro vale il principio generale della libertà di espressione.
Negli USA la faccenda del hate speech ha avuto delle fasi perché anche lì ha avuto un precedente negli
anni ’30 in cui si cominciava a parlare della possibilità di misurare il discorso per la sua potenziale
capacità di minacciare l’ordine cioè, astraendo dalla sua effettiva capacità di muovere un
comportamento giudizioso ma questo non è passato. Si parlava di discorsi lesivi per la mera enunciazione
che è il concetto di hate speech.
Invece è emerso emergency test cioè sottoporre il discorso che abbiamo il dubbio che abbia capacità
lesiva, a un test empirico di idoneità a commettere [audio incomprensibile…] specifici. Mentalità di libertà
assoluta tranne per quanto riguarda l’Emergency test.
Divieto di abuso (interpretativo) del diritto: art 30 nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, non
è un atto cogente (dichiarazione non trattato). Clausola secondo cui nulla di questa dichiarazione può
essere interpretato nel senso di legittimare atti che in qualsiasi modo attentino ai diritti che sono tutelati
dalla convenzione. Divieto di interpretare la convenzione in modo tale da produrre una minaccia verso i
diritti che la dichiarazione intende tutelare.
es. come se io invocassi l’introduzione di un regime schiavistico perché si manifesta il proprio pensiero.
Non si può fare perché stai interpretando un diritto della convenzione violando gli stessi diritti stabiliti
nella dichiarazione = ABUSO DEL DIRITTO.
Nel patto internazionale sui diritti civili e politici (art. 20) e successivamente nella convenzione per
l’eliminazione di ogni discriminazione razziale(art.4) compare effettivamente la parola odio.

Art.20
“Divieto di propaganda bellica e. Any advocacy of national, racial or religious hatred that constitutes
incitement to discrimination, hostility or violence shall be prohibited by law.”

Art.4
“Gli Stati contraenti condannano ogni propaganda ed ogni organizzazione che s’ispiri a concetti ed a
teorie basate sulla superiorità di una razza o di un gruppo di individui di un certo colore o di una certa
origine etnica, o che pretendano di giustificare o di incoraggiare ogni forma di odio e di discriminazione
razziale, e si impegnano ad adottare immediatamente misure efficaci per eliminare ogni incitamento ad
una tale discriminazione od ogni atto discriminatorio, tenendo conto, a tale scopo, dei principi formulati
nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dei diritti chiaramente enunciati nell’articolo 5 della
presente Convenzione.

-interpretazione, si presume che io possa risalire da una certa espressione a ciò che ispira e a ciò su cui è
basata. Dall’odio all’incitamento che diventa minaccia esterna, a qualcosa che odio per se stesso.

-ma i mezzi da predisporre per la sanzione completa sono riferiti ancora all’incitamento, alla
discriminazione...

Convenzione per l’eliminazione di ogni discriminazione razziale (1969)


Art. 4 a) a dichiarare crimini punibili dalla legge, ogni diffusione di idee basate sulla superiorità o sull’odio
razziale, ogni incitamento alla discriminazione razziale, nonché ogni atto di violenza, od incitamento a tali
atti diretti contro ogni razza o gruppo di individui di colore diverso o di diversa origine etnica, come ogni
aiuto apportato ad attività razzistiche, compreso il loro finanziamento;
Le varie estensioni e/o modifiche Hate Speech
L. 654/1975 (ratifica ed esecuzione…)
L. 101/1989 (estensione all’intolleranza e pregiudizio religioso)
DL 122/1993 (Estensione a discriminazione per “motivi nazionali”)
L. 115/2016 (Estensione alle forme di “negazionismo”)
Ordinamenti possono avere alle spalle costruzioni diverse
Convenzione europea diritti dell’uomo (CEDU) del 1950 è una grande novità per gli ordinamenti.
1. Un giudice sovranazionale che si trova in una condizione diversa rispetto ad un giudice interno. Il suo
panorama applicativo si riferisce non solo a uno singolo stato ma ha una visione sovrastatale
2. Quando va a decidere un caso singolo si basa sulla propria giurisprudenza applicata precedentemente.
La corte è interprete unica e non ha sopra di sé una fitta rete di vincoli come un giudice interno.
Diversa dalla “cugina” Corte di giustizia dell’UE, anch’essa è interprete del diritto dell’UE ma si è
articolata da una giurisprudenza più profonda e fitta
Non si sentiva molto parlare della corte di Strasburgo perché c’era una diversa forma di accesso, dalla
fine degli anni 90 chiunque di noi più accedere alla corte. È diventata una corte di ultima istanza. In Italia
ci sono 3 gradi di giudizio, tribunale ordinario-appello-cassazione. Al termine dei gradi il provvedimento
passa in giudicato/sentenza diventa irrevocabile. La revisione del processo è limitata a casi molto
particolari. Con la possibilità di agire alla Corte di Strasburgo, una delle condizioni è aver terminato i gradi
di giudizio nel proprio paese, c’è bisogno di una decisione irrevocabile.

Cosa succede quando una sentenza riconosce che sia stato violato uno dei diritti?
Di fronte al diritto dell’UE il giudice interno deve disapplicare la norma interna. L’UE si evolve da unione
economia e introduce una particolare attenzione ai diritti fondamentali. Inizia così un dialogo tra le corti
(con il Trattato di Lisbona viene riconosciuta la Corte). Si diffonde l’idea che le due corti si siano fuse. Un
giudice interno che sappia come la CEDU agisce nei confronti di un determinato argomento (tramite le
precedenti sentenze) può disapplicare le norme interne.

- Giudice dell’UE si trova davanti atti normativi del paese interno e quelli dell’UE, deve scegliere quale
fonte del diritto governa il caso in questione.
- Giudice della CEDU ha di fronte un caso singolo. Deve prendere il caso e generalizzarlo per capire se va
in conflitto con la convenzione

Nel 2007 la Corte Costituzionale è intervenuta su questa faccenda con due sentenze (dette sentenze
gemelle). I due ordinamenti:
a. non si sono fusi (CEDU e UE)
b. dal momento che sono due esperienze sovranazionali non vale la limitazione per l’ordinamento CEDU
c. di conseguenza non si può disapplicare una norma interna
Viene riconosciuta tra le fonti del diritto anche la giurisprudenza della CEDU.

Cosa deve fare il giudice interno visto che la CEDU non ha il potere di disapplicare?
Per la Corte Costituzionale deve fare due cose in successione
1. deve interpretare il diritto interno in modo conforme al diritto di Strasburgo (CEDU). Interpretazione
non deve andare in conflitto con la corte. Viene chiesto di dare un nuovo significato al testo normativo.
Il numero di ricorsi alla Corte Costituzionale si è ridotto drasticamente, i giudici cercavano di dare una
nuova interpretazione
2. nel caso non riuscisse allora può andare alla Corte Costituzionale. Il problema di costituzionalità in
questo caso è il dubbio di legittimità dell’atto interno. Potenziale lesione dell’articolo 117 della
Costituzione. La Corte deve valutare che la CEDU non sia in contrasto con la Costituzione, se viene
trovato anche dalla Corte di Cassazione un contrasto allora prevarrà la legge interna. Per il momento
non è mai stato trovato un contrasto tra CEDU e Costituzione. Nel caso fosse trovato un contrasto, la
Corte di Cassazione potrebbe dichiarare l’incostituzionalità solo della parte che determina l’entrata di
un diritto incostituzionale.

Giudici

Questo tema ci ha permesso di vedere una dinamica particolare del diritto: quella dei giudici. I giudici
applicano o creano diritto? è una domanda che inizialmente sembra ovvia, ma a fronte di questo discorso
si possono aprire degli scenari complicati. Fino a 50 anni fa, era un tabù dire che i giudici creano diritto.
Alla fine degli anni Sessanta, la cosa ha iniziato a essere meno un tabù. Dagli anni Novanta, i meccanismi
si sono complicati al punto di non avere più senso dire che il giudice è la figura che unicamente applica il
diritto.

Problema creazione del diritto

Il punto forte e provocatorio della domanda è: come giustifichiamo il potere di darci le regole? Non è una
cosa normale il potere dell’uomo sull’uomo. Se guardiamo ciò che dice la dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo, cioè che gli umani nascono liberi ed eguali in dignità nei diritti, non è normale che un
altro mi dia delle regole. Siamo tutti cresciuti sentendo questo valore, ma se questo è vero, perché uno ha
il potere di darmi regole e io non ho lo stesso potere nei suoi confronti? Come si giustifica? Ragionando su
questo punto, si può riflettere molto, non dobbiamo dare per scontato che ci sia qualcuno sopra di me
che può darmi regole. Abbiamo evoluto i nostri sistemi.

In certe epoche storiche, si è creduto che qualcuno possa darmi le regole perché è meglio di me
(aristocratici), in altre epoche qualcuno può darmele perché quello ha ricevuto quel dono da entità
superiori (divinità). Quando emerge l’individualismo, quello può darmi regole perché gli ho dato io quel
diritto nella forma del contratto sociale.

Secondo Hobbes, diamo potere a pochi di creare regole perché, se rimaniamo allo stato di natura, ci
troviamo in condizione di tutti contro tutti e questo minaccia l’autoconservazione dell’uomo, quindi ci
uniamo tutti e tuteliamo la nostra esistenza.

Questo si evolve nella dimensione democratica contemporanea: siamo sempre noi a darci regole, la
sovranità appartiene al popolo. Attribuiamo il dovere di dare regole a un numero più ristretto di noi che
ci rappresenta (parlamentarismo). Chi dà le regole può farlo perché gli diamo noi stessi il potere di farlo.

Cosa succederebbe quindi se dovessimo ammettere che i giudici possono fare diritto? Non va bene,
perché i giudici non sono stati eletti, sono estranei alla logica elettorale. Questo contraddice l’idea
democratica del diritto di dare le regole. Chi fa le regole è eletto democraticamente, i giudici lo applicano
e basta quindi non serve eleggerli, non devono rappresentarci. Devono essere bravi sillogisti, fare
deduzioni fatte bene. Questo si chiama separazione dei poteri.

Il problema sta che se dovessi dire che in una qualche forma il giudice il diritto lo crea, quello che dice lui
si realizza immediatamente, ancora peggio. Vado in galera sulla regola che mi ha imposto il giudice che
non ho eletto per fare regole? Qui sta il veleno. La struttura giudica inizia a barcollare. Meglio pensare
che il giudice applica il diritto e basta.

Questo è uno degli argomenti che ha resuscitato l’idea di sostituire giudice con pc. È un’idea vecchia,
Cesare Beccaria aveva già quest’idea: il giudice non fa altro che un calcolo logico, quindi può farlo anche
una macchina. L’operazione del giudice, però poi si è detto, è troppo ricca di discrezionalità e quest’idea
è andata in desuetudine. C’è chi ha dedicato la vita a tentare di rendere molto logiche e tecniche le leggi,
ma non ci è riuscito.

Ma a una certa questo argomento è tornato di moda perché le macchine si sono evolute moltissimo e
soprattutto perché se il sistema eredita la separazione dei poteri illuminista, e non deve esserci
discrezionalità, il giudice deve agire come una macchina, solo applicarlo, questo spiega perché il giudice
non deve essere eletto.

Diventa un problema che uno studente che diventa giudice possa decidere delle vite degli altri. Se è
un’operazione tecnica, va anche bene; ma se non è solo un’applicazione? Questa è la bomba dietro la
domanda se il giudice può fare o solo applicare diritto.

Non comprendiamo benissimo il common law perché: la loro storia concepisce sé stessa in una continuità
di oltre mille anni, mentre la nostra è fatta di continue censure rinnegando il nostro passato, invece
l’inglese si riconosce nella corona come la sua identità della terra, la common law è la legge della terra. Il
loro precedente non è la stessa cosa del nostro precedente. È in gioco l’identità stessa del sistema, per
questo sono usciti dall’UE.

Noi abbiamo un’altra idea, quella della lex verticale medievale che abbiamo formato dopo la fine
dell’Impero Romano. Abbiamo una struttura verticistica, che dall’alto si comanda il basso. Mentre gli
inglesi sono più orizzontali, es. parlamento inglese che sono uno davanti all’altro, l’idea sociale del
dibattere uno di fronte all’altro è molto forte da loro.

Ma la teoria secondo cui i giudici creano diritto può essere agganciata al giusrealismo? Il giusrealismo
estremizza, svuota l’importanza della costruzione delle decisioni, enfatizza l’elemento di potere,
ritengono che il testo linguistico non fornisca vincoli alla capacità interpretativa: pertanto il giudice può
far dire al testo quello che vuole. Svalutano l’elemento delle ragioni e la credibilità della giurisprudenza
come dottrina. Il giudice fa quello che vuole e non c’è niente che lo vincoli. Quindi prende questa idea e
la estremizza.

Ci sono casi in cui è successo questo: es. caso in cui dalla sera alla mattina le sezioni unite hanno
cambiato l’interpretazione di una norma che aveva la stessa da 50 anni. D’ora in poi si fa così, sembra un
atto di normazione generale astratta. Ci si aspettava una rivolta dei giudici, ma non è successo niente e i
giudici si sono adattati. Da qui, si sembra quasi giustificare il giusrealismo che dice che da un momento
all’altro è vero che si può cambiare idea senza limiti.

I giudici sono tutti fermi sull’idea che la tecnologia è uno strumento di ausilio all’opera del giudice,
nessuno concepisce l’idea che può essere sostituito.

Es. in Estonia si sta sviluppando un giudice di pace automatizzato, anche se deve esserci la volontà delle
parti, quindi è qualcosa di molto discusso. A Firenze, progetto sulla valutazione automatizzata della
mediazione extragiudiziale della causa, un computer elabora se le parti potevano effettivamente
arrangiarsi tra di loro a risolvere il problema. L’avvocato stesso potrebbe sapere come la pensa il giudice.

Considerando un giudice computer, chi è che decide veramente? Decide il giudice computer, chi ha fatto
l’algoritmo, il giudice umano? Dovrebbe arrivare una riforma sostanziale del processo. Finora di queste
cose non se ne è ancora parlato. Ma si sono fatti esperimento, es. corte europea dei diritti dell’uomo, in
Inghilterra hanno un sistema che prevede le decisioni della Corte EDU, questo perché la corte si muove
secondo sempre gli stessi schemi e gli stessi diritti tanto da poter diventare prevedibile, tanto è che la
macchina aveva un’accuratezza del 70%. Si potrebbe anche applicare ai giudici normali, ma lì bisogna
capire come allenare la macchina, quali sono i training data. Nel 2005, negli USA si è tentata una cosa
così, tentando di prevedere le decisioni di uno dei giudici della corte suprema: hanno messo a confronto
l’algoritmo con un gruppo di esperti (prof e avvocati), questi avevano il compito di prevedere e potevano
mettere in atto qualsiasi metodologia (facevano appello alle loro conoscenze), la macchina faceva
riferimento ad aspetti sociologici (nessuno giuridico). La macchina vinceva comunque.

Se dico che la macchina non potrà mai decidere il caso drammatico, sbaglio, perché non è per quello che
voglio programmare la macchina, la collocazione della macchina è per quella grande fetta di processi
usuali e di routine. Svuoto il giudice della routine e gli lascio più tempo per occuparsi dei casi complessi. Il
dibattito ha tutte queste sfaccettature.

In questo momento i giudici interpretano l’intervento, da un lato vedono con favore l’arrivo di questi
strumenti perché immaginano che gli semplifichi molto il lavoro (o per lo meno il lavoro istruttorio), cioè
prepara già una bozza di riferimenti, una bozza di massime giurisprudenziali di concetti e impiegati

Se voi parlate con un giudice vi ripeterà questa cosa, “noi facciamo sempre le stesse cose”; la macchina
aiuta molto effettivamente ed è anche molto efficace. La macchina è pensata (e si sa che è efficace)
proprio per quella cosa che dice il giudice “noi facciamo sempre le stesse cose”: lì può aiutare moltissimo
effettivamente. Il caso eccezionale, il caso estemporaneo, il caso lacerante, il caso drammatico… è chiaro
che non è pensabile che sia gestibile da una macchina, ma non è neanche con riferimento a quello che è
possibile allenare la macchina. E allora, l’argomento a favore sarebbe quello di dire “svuotiamo i tribunali
di questa routine e lasciamo i giudici a pensare solo ai casi che effettivamente meritano”, e magari così lo
fanno anche meglio perché hanno più tempo per studiare, per riflettere, per discutere tra loro per la
vicenda, e quindi allora avremo delle sentenze migliori per questo.

L’altro aspetto è che le macchine possono limitare il progresso del diritto: la macchina usata per il
routinario impedisce che nel routinario si muova un orizzonte di idee che può portare all’innovazione. Il
diritto ha questa duplice componente: ha una componente di conservazione (certezza giuridica) e l’idea
dell’adeguamento allo sviluppo della società. Il rapporto tra questi due momenti è sempre problematico,
però diciamo che i giuristi tendono a dare importanza uguale a tutte e due: questa è una delle ragioni per
cui i giuristi tendono ad essere conservatori di prima istanza, perché sappiamo dove siamo - e c’è costata
tanta fatica.

Quindi i giuristi di solito si manifestano con delle posizioni conservatrici; però hanno qualche ragione
come la certezza: non viviamo bene in una società in cui le regole cambiano ad ogni istante. Gli Illuministi
ma anche Hobbes (quello “famoso” della guerra di tutti contro tutti) avevano detto che leggi dovevano
essere poche, chiare e scritte bene; non è efficiente un sistema in cui i poli normativi cambiano
continuamente e tu non sai da dove vengono le regole.
Il diritto non è una gara, anzi quando diventa una gara, diventa un problema perché i processi lenti di
costruzione della razionalità giuridica vengono in qualche modo alterati.

Quello che ottieni sono risultati estemporanei, che hanno come inesorabile sbocco centri di potere che
decidono per te senza ragione: questo è intollerabile per il diritto, la struttura etica del diritto è
immergersi contro ogni esercizio arbitrario del potere. Quando emergono centri di potere che agiscono
arbitrariamente, il diritto sta fallendo perché il diritto non è solo la regola precostituita; il diritto è la
regola e tutta la dinamica di contestazioni, di contraddittorio, di decisioni organizzate, di razionalità
condivisa.

Hate speech

il punto dove c’eravamo lasciati era il percorso dell’Hate Speech, rispetto al quale oggi avevamo fatto un
percorso di conoscenza della Corte Europea di Strasburgo perché quest’ultima ha avuto una
giurisprudenza molto significativa nel tema. Per riprendere velocemente il discorso fatto fino a questo
punto, allora noi vediamo l’introduzione del riferimento all’odio, ad un certo punto nell’evoluzione
giuridica degli atti internazionali (in particolare negli atti del ‘66 e del ’69) le due convenzioni
fondamentali, che vengono recepite in Italia in un percorso lungo che agisce estendendo il riferimento e
le fattispecie incluse in questa etichetta fino a comprendere tutta una serie di fattispecie come
l’intolleranza al pregiudizio religioso, i motivi nazionali di negazionismo, per sfociare a quella che è
l’insieme delle fattispecie che oggi sta nell’art.604 bis (ci sarebbe anche il ter rilevante ma non importa)
del codice penale; cioè tutta quella sequela di leggi che hanno prima recepito la Convenzione per la lotta
contro la discriminazione, poi è stata modificata una serie di atti, alla fine il legislatore le ha prese nel
2018 e ha sbattuto l’esito di queste modifiche dentro il Codice penale.

A questo punto dentro il Codice penale trovate dentro un capitolo chiamato “ delitti contro l’uguaglianza”
- questa ipotesi criminale.

Art. 604 bis Codice Penale: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione fino a
un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o
sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi
razziali, etnici, nazionali o religiosi; e con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo,
istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici,
nazionali o religiosi. È vietata ogni organizzazione, associazione, movimento avente tra i propri scopi
l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Si applica
la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda, ovvero l'istigazione e l'incitamento, sono
commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione,
sulla minimizzazione in modo grave o sull'apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini
contro l'umanità e dei crimini di guerra, come definiti dallo statuto della Corte penale internazionale.”

Quando parliamo di “idee fondate su” è chiaro che chiediamo un’indagine interpretativa, diventa
problematico delimitare quanto andare indietro sulla ricerca del fondamento perché se dico “un’idea
fondata su” intendo che di quell’idea vado ad analizzare il proprio fondamento, cioè anche l’orizzonte
dell’implicito dietro a quell’idea.
Definizione complessiva di Hate Speech che mette dentro un po' tutti queste caratteristiche; perché ve la
cito? Perché è una di quelle che troverete probabilmente più citate in generale quando si parla di questo
fenomeno, e la si ricava dalla Raccomandazione del ’97 nella raccolta delle “Raccomandazioni e
Dichiarazioni del comitato dei ministri del Consiglio d’Europa”, perché è appunto nell’ambito di
quest’ultimo e nativa in una Raccomandazione del ’97.

“Hate Speech dev’essere compreso come ricoprente tutte le forme di espressione che diffondono,
incitano, promuovono o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo o altre forme di odio
basate sull’intolleranza che includono l’intolleranza espressa da nazionalismo aggressivo ed
etnocentrismo, discriminazione ed ostilità contro le minoranze, migranti e persone di origine immigrata.”

Questo è soft law, non è cogente, però vedete che rispetto a quella del Codice penale, questa è molto più
ampia come definizione: “diffondono, incitano, promuovono, giustificano”, occorre un atto
interpretativo per decidere se un certo discorso promuove, giustifica o incita. Non immaginate il caso
banale, ma immaginate, per esempi, una posizione politica che abbia determinate posizioni nei confronti
di politiche di sviluppo economico, che possa essere interpretata come giustificatrice di, non solo forme di
questo tipo di discriminazioni molto forti, ma anche aperte ad altre forme di odio basate su intolleranza.

Questa è una clausola aperta, chi decide quali sono, quanti sono? E chi decide cosa è intolleranza? è
soggetta ad un’interpretazione estremamente discrezionale

Un settore più regionale, il Consiglio d’Europa, che è la fetta europea che fa capo a questa organizzazione
sovranazionale piuttosto ampia perché copre anche la Russia; dentro questo stesso settore c’è la
giurisprudenza della Corte EDU. La Corte EDU ha avuto uno sviluppo in materia molto significativo:
sostanzialmente lei viene a ricomprendere come Hate Speech tutte quelle cose che abbiamo visto nella
definizione della “Raccomandazione del Consiglio d’Europa”.

Anche la Corte EDU è l’esito di una convenzione promossa nel seno del Consiglio d’Europa: quindi c’è
una certa continuità da questo. Però la particolarità è che la Corte EDU sul tema ha proceduto
strutturando una giurisprudenza piuttosto articolata su 2 punti molto forti, e tale giurisprudenza ha
cominciato a sviluppare a partire da queste sentenze che vedete qui indicate [slide 12, Hate Speech.pdf]
(che non mi interessa che vi ricordiate, se non una che vi segnalerò).

Prima di questa serie di sentenze, la Corte EDU aveva una posizione relativamente “liberale”, nel senso
che c’è una famosa sentenza che si chiama “Handyside” , nella quale la Corte diceva “attenzione, che la
libertà di espressione va tutelata”; certamente la Convenzione prevede dei limiti come abbiamo visto
perché la libertà di espressione può essere ristretta con legge dallo Stato singolo. Però deve essere
tollerata una ampia libertà di espressione, anche quando questa libertà di espressione si manifesti in
forme offensive perché la presenza di questo tipo di discorsi, anche provocatori/offensivi per qualcuno, è
una condizione necessaria per avere uno sviluppo autenticamente democratico delle società:

A partire dal ’79 invece, fa tutta una serie di sentenze in controtendenza. La più significativa: la sentenza
“Garaudy contro Francia”, dedicata al negazionismo. Ma la cosa interessante è che la Corte EDU adotta
una struttura di decisione basata su 2 pilastri: la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU)
prevede all’art.17 una clausola che era già presente nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del ’48,
quella che abbiamo nominato una volta come “divieto di abuso interpretativo del diritto”. La
Convenzione Europea del ’50, all’art.17, riporta pari pari la stessa clausola “divieto di abuso interpretativo
del diritto”.

Cosa vuol dire questa clausola? Sostanzialmente l’art.17 dice che nessuna delle disposizioni della
Convenzione può essere interpretata in modo tale da attentare ai diritti tutelati dalla Convenzione stessa:
cioè non puoi utilizzare le libertà che la Convenzione ti riconosce per tentare surrettiziamente di
abbattere la Convenzione stessa.

A partire dalla sentenza “Glimmerveen and Hagenbeek vs. the Netherlands”, la Corte comincia a
richiamarsi all’art.17 anche in materia di Hate Speech e struttura così, su due pilastri, la sua successiva
giurisprudenza, e cioè in questo senso: quando mi trovo di fronte a un’ipotesi di Hate Speech, allora che
tipo di caso avremo? Avremo questo caso: il soggetto che fa qualcosa dentro uno Stato nazionale ha una
manifestazione del pensiero che nello Stato nazionale viene repressa.

Cosa posso fare? Impugno, e se la sanzione viene confermata con una sentenza irrevocabile, se io ritengo
che è stata violata la mia libertà di espressione che è tutelata dalla Convenzione all’art.10, andrò alla
Corte di Strasburgo e dirò “guarda che io sono stato sanzionato dal mio Stato sulla base di queste norme,
secondo me quello che ho subito vìola il mio diritto alla libertà di espressione per come è tutelato
dall’art.10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo”: sarà questa la soluzione tipica, è lo schema
che abbiamo visto stamattina.

La Corte cosa farà? A partire dalla sentenza del ’79, fa 2 cose possibili:

la prima è che considera il fatto per il quale sono stato sanzionato (un’ipotesi di Hate Speech), e se l’Hate
Speech è di una particolare gravità invoca l’art.17 della Convenzione e chiude lì il caso. Invocare l’art.17
significa non entrare nella discussione del merito del caso, la Corte dirà “il fatto per il cui soggetto si
lamenta, in realtà costituisce un tentativo di abuso interpretativo del diritto: cioè mi sta invocando la
libertà di espressione per fare qualcosa che in realtà attenta allo spirito della Convenzione stessa, e io non
la deciderò, non la aiuterò, inammissibile la sua richiesta.

Cosa significa questo? Significa che quando fosse questo il caso, ovviamente le sanzioni che lo Stato mi ha
erogato restano tutte, non c’è più la tutela convenzionale di fronte a queste: quindi quando si è
nell’ipotesi che la Corte chiama “abuso del diritto”, e dunque lei rifiuta di dare tutela secondo la
Convenzione, di fatto lo Stato può fare di te quello che vuole, perlomeno non troverà la Corte di
Strasburgo a porgli un limite. Se invece ritiene che quell’episodio, che è stato sanzionato, fosse anche un
Hate Speech, ma non così grave da determinarsi con un abuso del diritto (un tentativo di invocare la
Convenzione, però stravolgendo nello spirito), allora prenderà non più l’art.17, ma l’art.10 della
Convenzione Europea (quello che abbiamo visto l’altra volta) che disciplina la libertà di espressione,
prenderà il diritto dello Stato in questione (e la vicenda che ha portato alla sanzione) e la valuterà in base
a tutti i parametri dell’art.10; cioè entra nel merito.

L’art.10 dice che la libertà di espressione viene con delle responsabilità: è tutelata, ma porta delle
responsabilità; di conseguenza può essere ristretta, ma deve essere ristretta soltanto con certi limiti e
criteri.

Art.10 Convenzione Europea dei diritti dell’uomo: “Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale
diritto include la libertà d’opinione, di ricevere e comunicare informazioni […]. L’esercizio di queste libertà,
poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o
sanzioni che siano però previste dalla legge, che costituiscano misure necessarie in una società
democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, a difesa
dell’ordine e alla prevenzione dei reati della salute e della morale […]”, una di queste cause. Se la Corte
EDU vi dice: “ti lamenti che sei stato sanzionato e la tua libertà d’espressione è stata coartata dal tuo
Stato… bene, se questo fatto che hai commesso di cui ti lamenti per me è un abuso del diritto, non venire
da me perché ti respingerò senza entrare nel merito (art.17). Se invece non è un’ipotesi così grave allora
non ci sarà più l’art.17, ma l’art.10, allora io comincio ad indagare e vado a vedere il tuo Stato se
effettivamente ti ha ristretto rispettando queste condizioni; e se non l’ha fatto, lo sanziono”. Cioè, in
quest’ipotesi entra nel merito, nell’altra ipotesi no, ferma tutto prima e ti nega ogni accesso alla tutela
convenzionale.

guardiamo l’art.17: “Nessuna disposizione della presente Convenzione può essere interpretata nel senso di
comportare il diritto di uno Stato, un gruppo o un individuo di esercitare un’attività o compiere un atto che
miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione o di imporre a tali
diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla stessa Convenzione”. Non posso interpretare la
Convenzione (neanche lo Stato può fare questo) in modo tale da attentare ai diritti e alle libertà o
restringere la loro applicazione.

Riassunto

se di fronte a un caso di Hate Speech, se diventa tale da configurare un abuso del diritto, la Corte non
entrerà neanche nel merito di quello che è successo: non avrai tutela sulla base della Convenzione
Europea dei Diritti dell’Uomo, e quindi lo Stato fa di te quello che vuole. Se invece ritiene che non sia
questo estremo, entrerà nel merito e valuterà quello che ha fatto lo Stato alla luce dell’art.10. Questo
approccio è stato inaugurato con questa sentenza che vedete qui [slide 12]: in tutte queste sentenze
progressivamente succede che la Corte, prima inaugura questo approccio, e poi lo estende a varie ipotesi
di Hate Speech. Per esempio, nel caso significativo “Garaudy vs France”, la Corte applicherà l’art.17
(quindi con l’effetto “ghigliottina”) a un’ipotesi di negazionismo.

Nell’ipotesi “Norwood vs UK” all’incitamento all’odio religioso. Queste sono tutte ipotesi in cui la Corte ha
applicato l’art.17, quindi cacciando via il ricorso senza entrare nel merito, rifiutando la tutela della
Convenzione alla parte che si lamentava. “Ivanov vs Russia” all’incitamento all’odio antisemita. “M’Bala
M’Bala vs France” al limite al diritto di satira (M’Bala M’Bala era un comico). “Belkacem vs Belgium”
all’incitamento all’odio, violenza e discriminazione contro i non-musulmani.

Queste sono tutte ipotesi in cui la Corte ha prima inaugurato questo approccio bipartito (art.17 o art.10 a
seconda della gravità), e poi l’ha progressivamente utilizzato: sono tutte ipotesi specifiche in cui la Corte
ha negato la tutela convenzionale a un ricorrente invocando l’art.17.

Siamo di fronte ad un abuso del diritto: tu cerchi di ricorrere a me per sovvertire lo spirito della
Convenzione ed io ti rifiuto la tutela.

Significativa è “Garaudy contro France”: ha fatto molto discutere questa perché il caso si riferiva a
un’ipotesi in cui questo tizio aveva scritto un libro nel quale negava fatti connessi con l’Olocausto. La
Corte alla fine ha invocato l’art.17, gli ha negato la tutela convenzionale sulla base dell’”effetto
ghigliottina” dell’abuso del diritto, sulla base però di questa argomentazione che ha fatto molto discutere.
“Non può esserci dubbio che negare la realtà di fatti storici chiaramente stabiliti, come fa nel suo libro.
Negare i crimini contro l’umanità è perciò una delle più serie forme di diffamazione razziale degli ebrei e
di incitamento all’odio verso di esse. La Corte considera che il contenuto principale e il tenore generale
del libro del ricorrente, e dunque il suo scopo, sia marcatamente revisionista e perciò vada contro i
fondamentali valori della Convenzione.” Il punto che ha fatto particolarmente discutere è: in questo caso
la Corte richiama l’art.17 e nega la tutela convenzionale.

Qual è il punto che ha fatto particolarmente discutere?

Intanto c’è una nozione molto dubbia che è “fatti storici chiaramente stabiliti”, perché la storia è un
ambito di ricerca evidentemente, e come tale, è aperta alla possibilità che i fatti per come li abbiamo
costruiti siano rivisti in funzione di nuove evidenze. È compito della storia quello di dare un senso delle
evidenze documentali, ma nell’ambito della consueta attività di ricerca che prevede anche che si possa
pensarla diversamente. Quindi questa prima posizione della Corte ha fatto molto discutere. Ma poi,
l’immediata equiparazione della negazione di un fatto storico stabilito come una forma di discorso di
odio: questo è l’altro aspetto, cioè l’automatismo di questo collegamento. Quindi se io domani scopro un
archivio segreto originale in cui ci fossero dei documenti che rimettono in questione questa, non so se
pubblicherei un libro producendo questo perché, stando qui alla Corte, rischia che lo Stato, che non
ammira molto quello che vado a fare, potrebbe invece sanzionarmi e lei non mi tutelerebbe. Queste sono
le due cose che hanno molto fatto discutere.

Se vedete, la posizione della Cassazione Penale su una cosa del genere è molto più equilibrata: “Una
condotta astrattamente diffamatoria può risultare discriminata dall’esercizio del diritto di critica storica a
condizione che la gente abbia fatto uso, nell’esprimersi, del cosiddetto ‘metodo scientifico’. Occorre che
vi sia stata una esaustiva ricerca del materiale utilizzabile, che il linguaggio sia corretto e privo di
polemiche personali e che le fonti di riferimento siano varie, individuabili con esattezza e verificabili”. In
sostanza, lo storico può fare il suo mestiere (secondo quello che dice la Corte di Cassazione) purché si
muova dentro le linee metodologiche riconosciute almeno dalla comunità degli storici. Invece la Corte
EDU è molto più drastica perché sembra dire: “certe cose non si devono mettere in discussione”.

Infatti, la dottrina chiama questo approccio della Corte EDU “approccio content based”, cioè un approccio
basato sui contenuti: ci sono dei contenuti che non possono essere espressi perché, laddove compressi e
quartati a livello statale, non troveranno tutela convenzionale.

Quindi quando la Corte dice che qualcosa attenta allo spirito della Convenzione, sta dicendo “questa cosa
attenta allo spirito della Convenzione secondo quello che io dico essere lo spirito della Convenzione”.

C’è questa situazione, e quando questo approccio si rivolge a dei contenuti specifici di pensiero, la cosa ha
fatto molto discutere.

C’è stato un caso ancora più problematico, in cui addirittura la Corte ha fatto la stessa cosa (cioè invocato
l’art.17, ha impedito la tutela convenzionale) di fronte a un caso scatenato da una lettera privata. Uno
storico va in televisione e dice che, sempre in tema di negazionismo, era (noto a tutti che il piano di
programma dello sterminio degli ebrei fosse stato voluto dalle gerarchie naziste. Un tizio scrive una
lettera privata a questo storico contestando questa affermazione dicendo “non esiste nessuna prova, né
non era nel programma del partito nazional-socialista e i gerarchi (persino sulla forca) hanno negato di
saperne qualcosa”. Questo professore va dalla polizia con questa lettera privata, però rinuncia a sporgere
denuncia. La cosa sembra finire lì, invece il poliziotto gira questa lettera a un esponente di un’associazione
delle vittime della Shoah e questo attiva un procedimento penale/sanzionatorio. Il tizio viene sanzionato,
ricorre alla Corte EDU adducendo l’argomento che era un contesto del tutto privato e la Corte fa la stessa
cosa: dichiara irrilevante il fatto che il contesto fosse privato o pubblico, invoca l’art.17 e gli lascia le
sanzioni.

L’Hate Speech è un elemento estremamente sensibile dal punto di vista sociale e culturale, ma anche dal
punto di vista giuridico perché si presta a declinazioni con connotati di discrezionalità.

Qual è la duplice ragione per cui l’innovazione tecnologica aggrava il problema dell’Hate Speech?

Primo: perché offre uno scenario di potenziamento (attraverso i canali di comunicazione, di social, di
diffusione) quindi fa più danno ed è più difficilmente rimovibile.

Secondo: perché rende fallibile la filiera della tutela giuridica perché, ora che facciamo tutta la filiera
(processo, sanzione ed eventuali risarcimenti o interventi), l’effetto lesivo si è diffuso/ingigantito in una
maniera che può essere anche estremamente grave e non recuperabile.

Si adottano sistemi tecnologici di censura preventiva, cioè dire “non possiamo aspettare che esca l’Hate
Speech perché è già troppo tardi, dobbiamo intervenire prima”. E come si fa ad intervenire prima?
attraverso una serie di strumenti che cercano di riconoscere quando una occorrenza può essere
considerata Hate Speech e quando no; e quando non la fa uscire e quando sì la blocca in partenza. Ora
molte piattaforme hanno già sistemi di questo tipo, però sono abbastanza elementari in molti casi: per
esempio in molti casi è sufficiente il cosiddetto “language misspelling”, cioè inverto le lettere, la scrivo in
un modo o meno riconoscibile e la passo liscia. Quindi si sviluppano sistemi più sofisticati, sistemi
appunto basati per esempio su “machine learning”.

Qual è il problema di tutti questi studi? Nessun problema, più si inventano modellizzazioni, e più questi
studi si fanno efficaci. Perché è così difficile e abbiamo bisogno di sistemi così avanzati di deep learning
per un’operazione di questo tipo? Perché riconoscere che cosa è Hate Speech e che cosa non è molto
delicato; prima di tutto, non necessariamente l’Hate Speech può essere espresso in un linguaggio
offensivo. Molto spesso il linguaggio offensivo non è Hate Speech e molto spesso il linguaggio non
offensivo è Hate Speech: il linguaggio discriminatorio può non essere volgare, può non essere
necessariamente offensivo. Secondo una stessa affermazione, può costituire Hate Speech in un certo
contesto discorsivo e non in un altro contesto discorsivo.

Un esempio, che è tratto da questi studi e parafrasato un pochino, è la frase “mettiti un bel rossetto e fai
vedere che donna sei”: presa così, fuori contesto, potrebbe non aver niente di problematico (poniamo
che sia un’amica che incita un’altra amica di fronte a un fatto doloroso della vita), magari è un po'
stereotipata, però può non essere considerato un Hate Speech.

Se invece la stessa frase viene usata in un blog di una squadra di calcio tra adolescenti, può diventare
un’ipotesi di bullismo e addirittura di omofobia.

Chi decide qual è il caso e quale no? c’è questa complicazione dovuta a fattori contestuali e dovuti alla
pragmatica del discorso, cioè le parole acquistano senso quando sono radicate in un contesto, ci servono
strumenti sofisticati di discernimento di tutti questi fattori. Dunque, ci servono delle tecnologie un
pochino più avanzate e non quella che riconosce la mera parolina e la censura per questo aspetto; ecco
dove arrivano i sistemi di intelligenza artificiale. Ma due sono le faccende legate a questo; la prima: questi
strumenti hanno bisogno di essere addestrati, hanno bisogno di avere dei set di addestramento.
Normalmente questo tipo di strumenti utilizza delle forme cosiddette “supervisionate” di addestramento:
cioè c’è qualcuno che raccoglie 200.000 tweet, li etichetta e addestra la macchina.

Chi fa questa etichettatura? Alcuni dei progetti che avete visto citati qua o utilizzano forme di Crowd
sourcing, cioè siccome i ricercatori che inventano gli algoritmi non hanno tempo e voglia di mettersi lì ad
etichettare le istanze, lo fanno fare a qualcun altro che non si sa chi è perché viene reclutato in forme di
crowd sourcing generale sparsi per l’internet; oppure utilizzano classificazioni già utilizzate da progetti
specifici (per esempio Hatebase.org) sulla base di questo viene addestrata la macchina. Questo è il primo
ordine di problemi: la macchina viene educata attraverso connotazioni che sono imposte o da non si sa
chi, o si sa chi.

Secondo ordine di problemi: ci si è accorti che questi strumenti, soprattutto quelli degli ultimi anni, sanno
essere anche molto efficaci, riescono a discernere molto bene, ma a condizione di essere addestrati a
riconoscere non soltanto elementi semiotici (cioè linguistici), ma arricchiti da elementi co-testuali e
contestuali. “Il lavoro futuro dovrà distinguere tra questi differenti usi e guardare più da vicino ai contesti
sociali e alle conversazioni nei quali l’Hate Speech appare. Dobbiamo altresì studiare più da vicino la gente
che usa l’Hate Speech, focalizzandoci sia sulle loro caratteristiche individuali e motivazioni, che sulle
strutture sociali che le incorporano”.

Conclusioni

Eravamo partiti da questa considerazione: l’idea che la tecnologia trovi un limite interno non è molto
plausibile, la tecnica è massimizzazione della potenza; quando vi poniamo un limite sarà sempre un limite
esterno che la condannerà (finché il limite tiene) a una condizione subottimale, cioè ad un certo punto
tenderà a liberarsi di quel limite. Dobbiamo conoscere più da vicino la gente che usa l’Hate Speech,
concentrandoci sia sulle caratteristiche individuali e le motivazioni, che sulle strutture sociali in cui sono
incorporate. Allora adesso avete visto un quadro interessante per le dinamiche contemporanee, un
fenomeno che diventa sempre più problematico, per cui i rimedi tradizionali sono limitatamente efficaci.
Dunque, invochiamo strumenti aggiornati di contrasto: questi strumenti sono tanto più efficienti quanto
più sono invasivi, che era il punto dove volevamo arrivare. Il diritto è vero che è inefficiente, perché deve
aspettare che una violazione ci sia, però ha una cosa dalla sua: in mezzo ha quella cosa che si chiama
processo, in cui io porto delle ragioni; tutta questa parte che può venire bypassata dagli strumenti che si
fanno così aggressivi.

ETICA

Affrontiamo il fenomeno dell’etica e ci porterà ad imparare qualcosa del tema (complesso) anche per
arrivare a vedere ed analizzare quello che è un pochino una figura emergente ma piuttosto importante
più presente nell’assetto economico-sociale americano statunitense ma negli ultimi anni si sta imponendo
molto anche da noi e cioè il problema dei codici etici che sono particolarmente significativi in particolare
in generale nell’ambito dello sviluppo e della strutturazione aziendale contemporanea ma hanno un
certo ruolo importante anche nell’ambito delle faccende collegate alle tecnologie e soprattutto ai
portali/ le piattaforme che ci fanno da filtro verso il mondo dell’infosfera.
La parola etica a proposito delle tecnologie è un termine usatissimo per indicare una sfera di problemi
relativi all’accettabilità morale di certe situazioni o alla configurazione di determinati effetti dell’uso delle
tecnologie nel contesto sociale contemporaneo. La parola etica in realtà è un macigno e non è una
faccenda che si può risolvere con una qualche definizione, occorrerebbe in realtà un percorso un po' nella
storia del pensiero perché anche se utilizziamo questa parola in un senso intuitivo e in qualche modo la
facciamo coincidere con l’idea della morale dunque dei valori collochiamo la faccenda dentro una sfera in
cui normalmente riconosciamo un certo posto nella nostra gerarchia esistenziale, in teoria i valori
dovrebbero raccogliere i riferimenti ultimi o fondamentali o principali per le decisioni che prendiamo.

Come tale l’etica è oggetto di vari approcci e il primo è il più carico dal punto di vista del pensiero è quello
che perseguono i così detti filosofi morali cioè c’è una dimensione dell’etica che coincide con la filosofia
morale.
Che cosa è la filosofia morale? È un settore della filosofia, è quella parte della riflessione filosofica che ha
per oggetto l’ambito della prassi umana, colta nella molteplicità delle sue espressioni da quella di
carattere personale a quelle più direttamente collegate all’esperienza giuridico-politica. Due nuclei
concettuali di questa definizione:

1. Idea della riflessione filosofica


2. Prassi, genericamente l’ambito del comportamento umano, l’ambito dei modi di comportarsi, il modo
in cui l’uomo si declina

Le parole che si richiamano su questi contesti sono 2, spesso utilizzate in maniera sinonimica/indifferente,
sono etica e morale. Queste parole sono molto diverse dal punto di vista semantico, sembrano non
condividere nulla, in effetti i loro riferimenti etimologici sono diversi.

Nella parola etica il riferimento etimologico è la parola greca ethos, nella parola morale il riferimento è la
parola latina mos moris da cui l’aggettivo moralis. In realtà sotto alcuni profili diciamo anche se diversi dal
punto di vista semico evidentemente radicate in due esperienze storiche non riducibili l’una all’altra, un
percorso della fondazione della cultura occidentale che incominciava allo sviluppo del pensiero greco
l’altra invece l’esperienza più romano-latina, due esperienze che hanno una forma di contatto anzi
differenti forme di contatto nella loro reciproca evoluzione ma non sono riducibili l’una all’altra, un conto
è l’una un conto è l’altra però il riferimento di questi 2 termini, riferimenti semantici sono spesso
accomunati perché in effetti tra i tanti significati della parola ethos sta anche il riferimento all’idea di una
consuetudine, abitudine, di un comportamento che si radica in un’idea di tradizioni, di valori. Molto simile
l’accezione/l’ambito semantico della parola mos latina anzi addirittura nella cultura latina l’espressione
mos maiorum e cioè il nucleo delle abitudini degli antichi, cioè in realtà quel nucleo di valori che l’uomo
romano ritrova/riceve nella sua educazione, ritrova riconosciuti nella collettività e riconosciuti in quella
forma tipica del valore nel senso pieno del termie cioè una forma di cui si perde la memoria della
fondazione, di quei valori che sono da sempre e per sempre nella comunità che si riconosce in quella
comunità anche e soprattutto in virtù della condivisione di quei valori e sono talmente forti e talmente
caratterizzanti e talmente specifici di quella cultura appunto che chi cresce in quella cultura li assorbe e li
riconosce una solidità e una fissità quasi eterna nel senso appunto che da sempre e per sempre si sono
ripetuti quei riferimenti sicché non c’è un’unica origine di essi, l’origine si perde nella fondazione stessa
della comunità che da quel momento in poi condivide e naturalmente su quei valori che poi per lo meno
le collettività sono salve insistono altri valori e se si va a costruire la complessità di quella comunità e
questi stessi valori spesso assumono dimensioni differenti per esempio anche dimensioni giuridiche
pensate anche al valore della fides per esempio che poi diventerà la fides come termine giuridico che
abbiamo ancora noi, la buona fede, in varie declinazioni del nostro diritto privato. Ecco da questo punto di
vista le due espressioni etica e morale hanno nel riferimento etimologico una parte semantica condivisa
perché qualcosa di analogo possiamo dire anche con riferimento all’idea di ethos cioè di nuovo
incorporare quella dimensione che viene a caratterizzare il modo proprio di essere in una comunità di
riferimento in un ambiente di riferimento che si struttura a sua volta in un aspetto di valori condivisi e
ricevuti fin dalla prima educazione.
Qual è la funzione di questi valori o più in generale che cosa connettiamo quando facciamo questione di
morale e di etica? Quando facciamo questione di morale e di etica abbiamo riferimento/diciamo prima la
prassi dell’uomo, il comportamento dell’uomo ma non comportamento visto nella sua materialità cioè
semplicemente la descrizione materiale fisica di ciò che si fa ma quel comportamento in quanto su di esso
sia possibile e in termini in cui sia possibile e in che forme ciò sia possibile è appunto oggetto della
riflessione morale in quanto sia possibile esprimere su di essi un giudizio. A questo proposito per cercare
di dare una connotazione piuttosto profonda a questo tema proviamo a leggere e scambiarci qualche
opinione su questo brano del 1949 di un giurista molto importante che si chiamava Salvatore Satta che è
stato un processualista, uno studioso del processo civile ma anche fallimentarista quindi uno studioso
delle procedure processuali del fallimento in particolare ma in più, un caso relativamente raro nella
cultura giuridica, è stato anche uno scrittore infatti ha scritto diverse opere e una in particolare che ha
avuto una certa diffusione tanto è che è stata anche ripubblicata da Adelfi non molti anni fa che si chiama
“Il giorno del giudizio”. Satta scrive appunto nel ’49, l’anno non è insignificante perché siamo all’indomani
non solo della fine della Seconda guerra mondiale ma anche dell’emanazione della Costituzione della
Repubblica. Scrive questo articolo il cui titolo è “Il mistero del processo” che è in realtà il testo di una
conferenza tenuta nell’università di Catania nel ’49 che viene pubblicata nella rivista di diritto processuale
del ’49. È un testo molto strano sotto certi profili. Non è certamente un testo esegetico del giurista che
commenta un certo testo normativo o è appena uscita la Costituzione e fa un discorso sull’importanza del
testo costituzionale. No, tocca una serie di questioni diverse da queste e un pochino singolari per la
letteratura giuridica. Leggiamo l’inizio di questo brano e dopo ci scambiamo due opinioni su questo.

Parliamo della domanda, se gli uni e gli altri sono degli assassini perché questo che potrebbero
impunemente uccidere con l’azione diretta, uccidono attraverso il processo? Perché potendo uccidere,
volendo uccidere e sapendo che sarebbero uccisi comunque, perché volere il processo? Che idea avete?
Studente1: penso per un’idea di giustizia personale, uccidere una persona non le rende giustizia nello
stesso modo che magari un tribunale
Studente2: per dare una motivazione

Vi faccio notare che l’episodio è un tribunale rivoluzionario cioè un tribunale che fa eccezione, un
tribunale che viene istituito in un momento di rivoluzione, la folla di tutte le rivoluzioni. Ha preso la
Rivoluzione francese come riferimento ma in realtà la folla di tutte le rivoluzioni cioè come dire che
questo archetipo, questo è un archetipo dell’uomo che ci hai una rottura dell’ordine in quel momento,
una rottura dell’ordinamento perché ci hai fatto rivoluzionare. Il fatto rivoluzionario di per sé
caratterizzato appunto dalla fattualità, dal fatto di affermarsi e di travolgere tutto quello che trova
nell’affermazione del proprio principio rivoluzionario; eppure, a un certo punto si istituisce un processo.
Nel prosegue dell’articolo la cosa si fa interessante perché poi salta a mostra come avere istituito un
processo che pure allora aveva l’identico fine dei rivoltosi ovvero quello di tagliare teste sostanzialmente
crea dei problemi perché il fatto di stabilire delle regole poi obbliga rispettarle allora fa vedere come
ripetutamente queste regole vengono cambiate perché quasi quasi rischiava che nel rispetto di queste
regole di queste procedure per quanto blande, per quanto ridotte al minimo quell’intento venisse quasi
vanificato rispetto alla furia cieca allora la domanda si fa ancora più radicale: perché fare tutto questo se
nel momento rivoluzionario puoi fare ciò che vuoi fare direttamente e immediatamente? Perché mettersi
dentro una struttura come quella processuale per quanto ridotta all’osso dei principi, per quanto possa
essere persino dubbio un processo nel senso del termine visto che è un processo che ha un fine già
determinato è dubbio che sia un processo evidentemente; eppure, nella storia ne abbiamo visti ancora di
processi il cui esito era già scritto diverse volte per la verità

Nel rispetto di queste regole, per quanto blande e per quanto ridotte al minimo, quell’intento quasi
venisse vanificato rispetto alla furia cieca, allora la domanda si fa ancora più radicale: perché fare tutto
questo se nel momento rivoluzionario puoi fare ciò che vuoi fare direttamente e immediatamente?
perché mettersi dentro una struttura come quella processuale per quanto ridotta all’osso dei principi, per
quanto possa essere perfino dubbio che sia un processo nel senso vero del termine, visto che è un
processo che ha un fine già determinato è dubbio che sia un processo, evidentemente.
Pure nella storia ne abbiamo visti ancora di processi il cui esito era già scritto, diverse volte.

Interventi degli studenti:


Non è la stessa cosa l’uccisione diretta e l’uccisione nel processo, se lo si vuole il processo evidentemente
non viene riconosciuto come la stessa cosa, se addirittura i rivoluzionari di fronte al giudice prendono e se
ne vanno e lasciano continuare il processo, evidentemente quella cosa per loro ha un valore.
Possiamo dire che il valore sta nel voler portare l’azione dalla sua brutalità al giudizio, cioè ad una
dimensione di riconoscimento del valore dell’azione, e dunque viene costituito un rito, viene costituita
una forma fatta di soggetti che discutono e soggetti che decidono perché si porti sul piano della relazione
simbolica, del discorso e del riconoscimento (quindi sul piano del giudizio dell’azione, ciò che la mera
materialità non poteva avere in quanto mera materialità).

L’idea del potere è riconducibile, l’idea general preventiva – perché gli altri vedano e non facciano- perché
non facciano o accettino quello che li viene fatto come un valore?
Perché li viene affermato come tale, portato sul piano del giudizio. Non basta uccidere, voglio uccidere
giustamente.
Il processo funge in quel momento dal luogo nel quale noi vogliamo portare la materialità del fatto
sull’orizzonte del riconoscimento quindi del giudizio di legittimità in qualche modo di giustizia.
Credo di essere nel giusto nel momento in cui agisco in quel modo ma voglio che sia riconosciuto come
tale, non voglio soltanto l’azione: l’azione di per sé è ambigua, gli uni e gli altri si distinguono soltanto per
la toga e il cappello, l’azione in quanto tale (se vediamo l’insieme dal punto di vista del risultato finale
nella sua materialità, le due cose non si distinguono), si distinguono nel fatto della struttura che porta al
riconoscimento, cioè del giudizio, cioè nell’affermazione del valore – dalla materialità dell’atto alla
rappresentazione della sua giustizia - cioè del suo incorporamento in un giudizio nel livello del discorso
dunque idealmente della possibilità del discorso razionale.
C’è questo nel problema morale che suscita la discussione: c’è il piano dei comportamenti, delle decisioni,
il piano delle azioni che è oggetto di discipline per esempio la rappresentazione del comportamento
sociale nella sua materialità o attraverso relazioni puramente esterne è oggetto per esempio degli studi
sociologici, ma non c’è soltanto questo, c’è l’atto della giustificazione, cioè del portare la materialità
dell’atto sul piano del giudizio, questo si chiama giudizio morale e mette in gioco (con tutte le discussioni
che ci possono star dietro) la ragione talvolta si parla di ragione pratica, cioè della ragione che ha a che
fare con il mondo della prassi, distinguendo dalla ragione teoretica (cioè la ragione che ha l’obiettivo la
contemplazione della verità).
Discorso etico
- Il primo livello si riferisce ai comportamenti, scelte, ragionamenti con cui noi quotidianamente
affrontiamo le faccende che ci toccano;
- Il secondo è lo studio delle giustificazioni e dei ragionamenti (ciascuno di noi nella vita quotidiana
prende delle decisioni e fa delle scelte, ognuno di noi attribuisce un valore o un disvalore a quelle
scelte)
- altro livello, chiamato etica di secondo livello, ovvero quando cominciamo a riflettere sulle forme con
cui diamo le giustificazioni e ragioniamo su ciò che abbiamo fatto, e anche sulla possibilità che ci siano
ragioni su ciò che abbiamo fatto (perché c’è anche la possibilità che crediamo di avere delle ragioni,
crediamo di costruire delle giustificazioni) ma non è detto che necessariamente queste cose che
costruiamo corrispondano effettivamente a giustificazioni razionali, tutto questo ambito (di secondo
livello) è quello della filosofia morale.

Perché la filosofia studia e si occupa di queste cose?


Il tema morale non è un tema che nasce con la filosofia, la filosofia ha una sua data di nascita
convenzionalmente collocata in quei pensatori che tra il VI e il V secolo hanno cominciato a riconoscersi
come tali, la tradizione ci riporta come primo filoso Talete di cui noi non abbiamo nulla di scritto,
abbiamo una tradizione che parla di lui e che ce lo riporta come primo filosofo. Sono pensatori questi che
la tradizione riconosce come coloro che avrebbero determinato una trasformazione nel modo stesso con
il quale l’uomo riporta la ragione, l’esistenza della totalità del cosmo e della sua stessa esperienza.
Nel momento in cui arrivano questi pensatori la ragione dell’uomo fa un salto in avanti, comincia a
strutturarsi secondo delle strutture di razionalità che riconosciamo come tali fino ad oggi e si distanzia dal
modo con cui prima l’uomo poneva anche gli stessi termini e problemi. Fino a quel momento l’uomo se li
pone dentro una chiave di lettura mitologica (l’epopea del mito). C’è il passaggio dal mito al logos.

Significato logos
Invocando questa parola logos, ritroviamo un sacco di parole nel dizionario, pensate alle scienze:
geologia, biologia, fisiologia, hanno come finale questa accezione che sta a richiamare quell’antica parola
logos.
Ha tanti significati tra questi c’è quello di discorso, ragione; quando conosciamo attraverso la ragione
mettiamo insieme, colleghiamo l’impressione sensibile con il discorso che lo dice sistematicamente
attribuiamo a questo la natura di costrutto razionale (ragione, ragionare, mettere insieme) parti di
discorso perché si mostrino come un tutto unitario e siano riconosciuti come tali dall’alto di fronte a me
riconosciamo questo, l’essere avvicinati dalla ragione.
I termini che stanno dietro a questa parola ricchissima (ragione, ragionare, mettere insieme, collegare)
sono termini con cui effettivamente rappresentiamo l’atto del conoscere e del costruire la struttura
razionale della conoscenza.

Mito
Da cosa nasce la filosofia, da cosa nasce la spinta del sapere razionale? Cosa c’è nel mito che non c’è nella
filosofia? Dov’è l’insufficienza del mito tale per cui l’uomo concepisce un salto, un nuovo modo di
riformulare i discorsi su ciò che ci sta intorno?
Anche il mito ci parla della totalità delle cose, ce ne parla in un modo articolato e figurativo, dà dei nomi a
delle potenze, l’uomo percepisce sé stesso in balia di potenze (pensate alla rabbia, al rimorso) l’uomo
avverte il rimorso come una potenza che lo lacera, che lo tortura, che lo perseguita, ci da un volto e un
nome, questo fa il mito.
Il volto e il nome sono le furie, le divinità della terra, le più arcaiche, le divinità preolimpiche (vengono
ancora prima degli dèi olimpici) ciascuno dei quali rappresenta delle facoltà definite.
Il rimorso è un male indefinito che ti persegue ovunque e dunque rappresentato con divinità che precede
la divinità olimpica e dea della terra, cioè da sempre presente, da che l’uomo al mondo avverte sé stesso
preda di questa potenza.
Il mito da dei nomi, dei volti, rappresenta l’agire delle potenze che l’uomo avverte su di sé, in forme
mostruose, bellissime, in conflitto tra loro; attraverso una struttura di narrazione analogica.
L’uomo costruisce il mito connettendo parti della sua esperienza.
Ogni divinità ha una struttura e forma, perché riconosciamo in quella delle declinazioni di quella stessa
potenza che l’uomo avverte e che si rappresenta così, è un modo con il quale l’uomo commisura il mondo
in cui sta a sé stesso collocandolo in una storia.
Questo è il mitos, c’è tanto logos nel mitos, c’è tanta realtà ragione perché è una forma con la quale
l’uomo avvicina a sé, comincia a rendermi commensurabile ciò che esperisce ma che finché non lo colloca
dentro delle forme non riesce a dominare e in qualche modo a contenere e trasferire nella conoscenza
che acquisisce con sé, agli altri attorno a sé.

I miti cosmogonici, (formazione della terra) ed in particolare i miti che sono all’origine della cultura greca,
ci narrano una storia che poi sarebbe stata tematizzata dai primi filosofi che sono i così detti fisiologi e
fisici (il loro tema è quello dell’indagine sulla natura, in greco fisis). Fisiologia e fisica deriva da fisis (la
natura), natura come continuo proliferare di forme.
La natura per il greco non è un meccanismo statico e immobile, è continua esplosione, proliferare di
forme, lo stesso ente in sé si mostra in molte forme (bambino, adulto, anziano).
I primi filosofi sono i fisici o i fisiologi perché discutono della natura e della totalità che è fisis. Ci narrano
una storia attraverso strutture che cercano di rigorizzare e tematizzare e non è differente dalla narrazione
mitica che arrivava fino a loro, la narrazione mitica ci mostra, attraverso nomi e dati e divinità
antichissime
Ad un certo punto i filosofi avranno tematizzato e avranno cominciato a rigorizzare ogni linguaggio e a
quel punto sarebbe stata la nascita della filosofia prima attraverso la forma della fisiologia del discorso
sulla natura tutto inteso come fisis e poi sarebbe arrivato anche il momento della discussione dell’uomo,
qui saremmo in una fase più avanzata del pensiero.
Il mito è il modo con il quale noi portiamo nel linguaggio ciò e dunque gli diamo connotazione, sono
forme allegoriche basate sull’analogia, sono forme che non si esauriscono in un unico significato ma in
una molteplicità di significati.
Immaginate, replicano nel racconto la continua esplosione delle forme della natura, che l’uomo avverte
sotto la forma di potenze che lo sovrastano, lo dominano, lo guidano o gli danno felicità, rabbia, gioia,
tensione, paura.
Allora la tal divinità incontra una cosa, litiga, oppure la divinità seduce l’umano, dà delle forme, dei
connotati che sono vicini a lui e con ciò sta razionalizzando il mondo che sta intorno a sé.

Una delle forme più antiche del divino che si confonde con lo stesso concetto della vitalità pur se
semplice è nell’origine e nella matrice della divinità che poi più tardi avremmo conosciuto con il termine
di Dioniso.
Le prime forme del dionisiaco risalgono addirittura all’età micenea.
In quella forma, Dioniso è l’espressione di quella che si chiama la zoè, cioè la vitalità pura e semplice.
Sono due termini per parlare della vita: bios (biologia) e zoè (zoologia)
La differenza però nell’accezione arcaica di questi termini è che bios è la vita in quanto si da una forma
determinata e come tale è proprio di quella forma, per esempio anche il suo venir meno.
- Bios contempla thanatos la morte
- Zoè invece è il principio del vivere, la vitalità senza alcuna determinazione prima di ogni
determinazione, e come tale non conosce la morte.

Una delle prime rappresentazioni per della zoè e del dionisiaco è il toro selvatico dotato di una potenza
devastante, colpito dalla potenza e dalla vitalità indomabile della bestia pur nella sua minacciosità zoè è
spaventoso anche perché la vitalità prorompente è qualcosa che può anche distruggere ciò che c’è
intorno.
In un contesto diverso la vitalità come perdita delle forme, dunque le brezza. Questo arriverà fino a tardi
nell’immaginario di Dioniso a Roma diventerà Bacco sempre rappresentato con il calice e l’uva.
Ma perché l’uva? L’uva è l’ebrezza e l’ebrezza è lo sciogliersi delle forme, le forme dei comportamenti, le
forme dei valori, in un’esplosione di vita.

Quando diamo questi simboli, questi volti, quando immaginiamo per esempio Zeus che assume la forma
del toro e seduce la mortale, quando rappresentiamo questo, cosa stiamo facendo?
Stiamo razionalizzando, portando al logos, nessuno credeva che Apollo andasse in giro a tirare le frecce o
a fare gli sgambetti alla gente. Vengono anche un po’ scherniti. Le forme mitiche dell’origine cultura greca
sopravvivono nella classicità proprio per il fatto che vengono sottoposti ad una critica razionale. stiamo
utilizzando questi riferimenti in funzione simbolica e in realtà gli stiamo utilizzando per sottoporci al vaglio
critico determinati problemi che connotano la costruzione della nostra collettività.

I mitologi sono anche filosofi, in realtà c’è molta ragione impiegata lì.
La tradizione ci da questa cesura, cioè appunto con Talete e Anassimandro, abbiamo un frammento che è
stato letto subito come un frammento giuridico, il frammento di Anassimandro dice: “la donde le cose
vengono ivi torneranno secondo necessità e si pagheranno l’un l’altro la colpa secondo l’ordine del
tempo”.
C’è la colpa, c’è il riscatto (che erano gli istituti giuridici), Anassimandro sta pensando la natura come un
ordine giuridico o viceversa, l’ordine giuridico come in piccolo l’ordine della natura.

Questi sono i primi filosofi Anassimene, Anassimandro, Talete la tradizione ci dice che qui inizia la
filosofia, prima c’era un uomo irrazionale che impaurito che di fronte al mondo inventa storie e forma così
la sua base etico-morale e la sua base di conoscenza.

Passaggio da mito a logos


Aristotele usa la parola Thauma, che noi traduciamo come rabbia. Thauma è terrore, si è meraviglia ma
angoscioso stupore proprio di chi avverte qualcosa che lo minaccia, e naturalmente avvertendolo come
un pericolo lo porta a sé, cerca di capirlo, immaginate il terrore di fronte a qualcosa che non conoscete e
che avvertite come minaccioso.
Un momento passato l’aspetto emotivo poi uno cerca di capire di cosa si tratta e a mano a mano che
capisce di cosa si tratta l’effetto spaventoso ed inquietante si riduce (inizia il processo razionale)
La filosofia nasce da questo, dalla meraviglia angosciosa che ha una dimensione di minaccia.
Ecco dov’è il passaggio vero di contenuto sostanziale tra mitos e logos.
Il mito può permettersi di essere contraddittorio, di non rispettare una linearità sistematica, come l’arte,
perché tu continuando a ragionare sull’arte e producendo discorsi magari anche non coerenti, può
comunque stimolarti il pensiero. Un’opera d’arte, quando è davvero tale, non esaurisce mai i suoi
significati, ma ti stimola continuamente a produrne di nuovi anche se sei costretto a rivedere quelli che
avevi visto prima. Il valore nell’arte non è nell’essere necessariamente sistematica. L’importante è la
generazione di continui significati. 

La razionalità filosofica si struttura a un certo punto come la razionalità lineare, cioè il principio di non
contraddizione che vuole che le cose siano connesse dentro a una struttura lineare. 
Contraddizione: non puoi dire e contraddire nello stesso tempo, sotto il medesimo riguardo, ma devi
connotare sotto delle strutture univoche. Il mito questo te lo consente molto limitatamente, non è la sua
funzione, però nel cuore della filosofia sta lo stupore angoscioso, Thauma. Nel diritto è facile stupirsi
minacciosamente del diritto perché rappresenta l’utilizzo della forza. 

Ma nella morale? C’è il comportamento dell’uomo, il manifestarsi potenzialmente terribile e angelico


dell’uomo, non solo nei suoi comportamenti, ma appunto nelle giustificazioni. In questo senso la filosofia
si occupa dei comportamenti e delle giustificazioni e del ragionamento giustificativo. Quando istruiamo
un processo dobbiamo giustificare i nostri comportamenti.
Cosa c’è da giustificare? La pretesa della giustificazione razionale ti porta dentro questo rischio, per
esempio del giudizio morale negativo che ha tanti nomi: 
 Ingiusto e il suo simmetrico positivo del giusto  
 bene e il suo simmetrico negativo male  
Le categorie fondamentali con cui noi discendiamo le giustificazioni dei comportamenti: è male o è bene,
è giusto o è ingiusto e queste sono per noi ragioni per agire o per non agire.

Relativismo tra i valori


Ciò che è giusto per lei magari non è giusto per me e allora che senso ha il processo? Il fatto che ci sia
questa spinta a trovare una giustificazione razionale ha un suo radicamento nell’animo umano, ci porta
forse a pensare che il relativismo, pur essendo una posizione sostenuta, non è sempre da tutti accettata
perché nel momento in cui voglio portare nel riconoscimento voglio che sia giusto per una collettività e
non solo per me, voglio che ci sia un valore condiviso che sia giusto per tutti.  
Per molti ha una struttura contraddittoria perché il relativismo fino in fondo dovrebbe annullare sé stesso
nel momento in cui si parla con gli altri si ammette la possibilità di comunicazione e dialogo con gli altri.

Perché se vuoi farlo  vuoi anche che sia giusto? Perché non ti accontenti? Perché non accetti nell’altro il
puro
comportamento, ma lo giudichi? Cosa c’è nel profondo dell’animo che vuole uscire sempre dalla
materialità e vuole arrivare sul piano dei discorsi? Questa è la ragione per cui la ragione si confonde
rispetto ad altre due esperienze: 
 Politica: ambito delle idee da cui descriviamo la polis, la città perché evidentemente il confine tra il
giudizio morale e l’oggettivizzazione del giudizio morale sconfina con il modo in cui noi vorremmo
che la società sia costituita evidentemente. Il confine tra l’esperienza morale e la politica è un
confine confuso e labile.  
 Giuridica: spesso soprattutto nel 900 noi pensiamo alla morale come struttura di direzione delle
condotte, cioè spesso quando diciamo che è giusto un certo comportamento, rappresentiamo
questo giudizio di giustizia come il radicarsi di una regola e dunque deve essere fatto questo. Se
parliamo di regole immediatamente cozziamo contro il fatto che esistono molti tipi di regole, tra cui
quelle giuridiche. Anche la regola giuridica è una regola e anche la morale può essere pensata come
insieme di regole. Allora il confine tra l’insieme di regole che chiamiamo morale e l’insieme di
regole che chiamiamo giuridico qual è?  

Distinzione insieme delle regole morali e giuridiche


D’altro canto, se l’etica è quella consuetudine, quel comportamento collettivo, un pochino si confonde
ancora di più con il diritto nel senso che in quanto rappresentante del comportamento collettivo
distinguere le regole che noi identifichiamo puramente nella sfera etica e invece altre che sono nella sfera
del giuridico, non è sempre facilissimo. Nel 900 il tema diviene cosa distingue l’insieme delle regole che
chiamiamo morale  da  quelle che chiamiamo giuridiche. La declinazione della morale come insieme di
regole non è necessariamente accettabile e accettata da tutti, non sempre l’uomo l’ha rappresentata così,
ma nel 900 è diventato molto frequente immaginare appunto la morale come un insieme normativo
esattamente come il diritto e allora ci si è chiesti come si distingue l’uno dall’altra in effetti noi spesso
invochiamo delle regole che hanno un valore morale di cui sappiamo che non ha alcuna dimensione
giuridica. (non uccidere: molti di noi penseranno che è una regola morale però è facilmente ritrovabile
nell’articolazione normativa nel codice penale “chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la
reclusione non inferiore ad anni 21”, ma il principio è lo stesso, il principio è non uccidere). Non uccidere
quindi è sia una regola morale che una regola giuridica.

Qual è la differenza allora tra le regole morali e le regole giuridiche? Nel 900 una posizione molto seguita
è stata quella di distinguere il tipo di “insieme normativo”, più che la singola regola. Cioè una regola
giuridica si distingue da una regola morale perché l’una e l’altra fanno parte di due insiemi normativi che
come insiemi sono distinguibili. Non sono necessariamente distinguibili in ragione del contenuto della
singola regola e infatti possiamo avere regole morali che sono anche giuridiche, ma le distinguiamo
perché la singola proposizione che costituisce rispettivamente la regola giuridica da quella morale, le
riconosciamo inserite in due ordinamenti diversi, cioè insieme di regole. È quindi dal punto di vista
ordinamentale che posso fare la distinzione tra l’insieme normativo morale e giuridico. 

Un giurista molto importante del 900 chiamato Hans Kelsen chiamava ordinamenti statici e ordinamenti


dinamici. La morale, per lui, rientrava nel modello degli ordinamenti statici, il diritto nel modello degli
ordinamenti dinamici.  

- L’ordinamento dinamico non è il contenuto delle regole, che può essere il più vario. Ciò che
caratterizza l’ordinamento dinamico è il fatto che le regole sono riconosciute come parte di
quell’ordinamento in ragione dei criteri di produzione, cioè di una qualità che si chiama validità
(qualità della proposizione che è stata posta rispettando le condizioni stabilite da una regola superiore)
Perché la sentenza del giudice è una regola giuridica valida? In ragione del fatto che è prodotta da
un potere che è legittimato a produrre norme da una regola superiore. Perché la regola superiore è
valida? Per il fatto che essa pure è stata posta da un potere che è stato legittimato a fare quella
regola da una regola ancora superiore.   
L’ordinamento è dinamico perché i suoi contenuti possono cambiare continuamente, tutto quello che
lo connota è questa struttura di produzione normativa che connota la validità. 
- Negli ordinamenti statici è il contenuto delle norme che caratterizza il loro stare insieme. Più
precisamente negli ordinamenti statici le regole sono deducibili in ragione del contenuto delle regole
più generali e in ultima istanza da una regola generalissima. Anche nell’ordinamento dinamico ci sarà
un’ultima regola evidentemente, ma la relazione tra la norma fondamentale e le regole
dell’ordinamento statico è di contenuto, mentre in quello dinamico è di legittimazione a produrre
determinate regole, non di contenuto.  

Quest’idea è stata molto influente nel periodo del 900 difatti molti giuristi ragionano in termini di validità in
maniera analoga. La rappresentazione delle fonti del diritto come una piramide gerarchica è ancora molto
presente nel pensiero giuridico e la gerarchia come principio di validità delle norme prodotte è un requisito
ancora molto presente del pensiero giuridico. L’idea di Kelsen è stata molto influente nel pensiero
giuridico fino ai giorni nostri. La caratteristica è che la morale e il diritto si distinguono per la struttura degli
ordinamenti di cui fanno parte.
L’idea della morale come insieme di norme, uscendo dal pensiero Kelseniano, è comunque rimasta molto
presente nel dibattito contemporaneo, anzi una parte del dibattito entro in quale c’è il dibattito sulle
tecnologie, sulla moralità, sull’eticità delle tecnologie, sta proprio l’idea che la morale sia ricostruibile in
termini di insieme di norme, laddove, per norme morali, intendiamo una sorta di standard condivisi in una
collettività. Spesso quando si parla di moralità di qualche applicazione o innovazione tecnologica si pensa
sempre a una carta di regole morali o di principi morali che questa innovazione dovrebbe rispettare,
rappresentiamo il problema in termini di ritrovare gli standard condivisi di principi morali da trascrivere in
un insieme normativo che poi chi sviluppa l’innovazione dovrà prodigarsi di rispettare.
Stiamo quindi anche in questo caso pensando alla morale come un insieme di regole, semmai come
un insieme di regole particolari che chiamiamo principi.  

Esiste una distinzione tra principi e regole:  

Principi: 
1. Più generali  
2. Non sono collegati a delle conseguenze in termini di necessità ma sono defettibili 
3. Non sono applicabili in un sillogismo deduttivo immediato, ma hanno bisogno di determinazioni
inferiori per poter essere applicati  
4. C’è da fare un enorme lavoro interpretativo  

Regole:
1. Meno vaghe 
2. Non sarebbero defettibili (quanto previsto nella fattispecie applicativa è sufficiente per l’applicazione
della conseguenza)
3. Sono strutturati idealmente in un ragionamento deduttivo “chiunque cagiona le morte di un uomo è
punito con reclusione non inferiore ad anni 21” 
4. Applicabili attraverso una struttura di bilanciamento, si bilanciano (il principio della tutela della
privacy si bilancia col diritto di cronaca). Bilanciare significa che non necessariamente in tutte le
circostanze vengono in gioco entrambi, a volte prevale uno e a volte prevale l’altro  

Idealmente si ha l’idea di un insieme normativo morale ha la struttura della carta di principi. C’è anche chi
contesta questa distinzione che ritiene che regole e principi si distinguano semplicemente in regole più
generali e regole meno generali, per cui la differenza di applicazione sta sul fatto che sono più generali i
principi rispetto alle regole  
 
Riassunto
filosofia morale si occupa dell’ambito della prassi umana, con tutte le sue espressioni, da quella
individuale a quella che connette il comportamento dell’uomo alla costruzione della socialità
istituzionalizzata e dunque alla politica e al diritto. Abbiamo dato due nozioni preliminari etimologiche
circa il concetto di etica e di morale, queste due parole per certi versi hanno un ambito semantico
sovrapponibile. Abbiamo introdotto l’idea del perché c’è una parte della filosofia che si occupa della
riflessione morale. La filosofia è quella forma di costruzione del sapere che ambisce alla rappresentazione
e costruzione della conoscenza e della razionalità senza veder precostituito il proprio oggetto, cioè a
differenza di altri saperi, la caratteristica dell’attività filosofica è che anche quando andiamo a discutere di
che cosa sia l’ambito d’indagine della filosofia, questa indagine è già attività filosofica. Di conseguenza
non incontra limiti di oggetto, né pre-costituzioni di metodo, se non le forme più generalissime della
razionalità umana (i principi logici fondamentali). Questo la distingue da ogni altro sapere particolaristico,
in particolare da quei particolari saperi tecnici che hanno particolari oggetti predeterminati e che
conducono le loro indagini all’interno di pre-costituzioni di senso rigide e molto forti che non sono
disposti a mettere in discussione senza con ciò vedersi stravolti in qualche altro sapere.
Non è così l’indagine filosofica, la differenza è, per riportare al modello greco dell’indagine filosofica, il
domandare. L’icona del filosofo è Socrate, il quale si muoveva per la città incontrando coloro che si
ritenevano sapienti e li interrogava sul fondamento del loro sapere, con ciò rivelando la forma più grave di
insipienza, come dice Socrate nella apologia (testo chiamato “Apologia di Socrate” che riporta la difesa di
Socrate al proprio processo, scritta da Platone): per il fatto di sapere alcune cose costoro credevano di
sapere tutto. È una forma di insipienza e irrazionalità cui spesso noi tutti ci abbandoniamo quando
dimentichiamo il senso di una ricerca costante della razionalità che sta in un mettere in discussione i
fondamenti del nostro presente sapere. Sapete che l’oracolo aveva detto che l’uomo più sapiente di
Atene era Socrate, il quale per primo si stupisce di questa cosa e si reca da coloro che sono sapienti per
dimostrare che l’oracolo sbaglia, perché sicuramente avrebbe trovato qualcuno più sapiente di lui. Alla
fine di questo peregrinaggio, il tutto si risolve in: costoro per il fatto di sapere alcune cose credevano di
sapere tutto e in ciò si mostravano profondamente insipienti, Socrate invece non sapendo nulla non
pretendeva di sapere, era conscio di non sapere, sapeva che l’ambito della razionalità umana si muove
dentro la costante ricerca e messa in discussione dei fondamenti delle nostre acquisizioni.
Questo è l’ambito del vero e della ricerca della verità, che costoro ignorano e perciò sono ignoranti, anche
se credono di sapere.

Fatta questa premessa sullo spirito originario della ricerca filosofica, la cui caratteristica fondamentale è il
tema della domanda, il filosofo infatti continua a domandare fino ad arrivare ad essere antipatico e
odioso per coloro che ritengono che invece ci sia qualcosa di più utile da fare che interrogarsi sui propri
fondamenti. Certamente, la filosofia in questo senso è un sapere inutile, nel senso che non serve ad uno
scopo determinato ma serve alla ricerca della verità in quanto tale. Chiaramente, colui che dispone di un
sapere tecnico ha un sapere definito utile. Tuttavia, ha un sapere finalizzato a degli scopi e ha un sapere
limitato da certi presupposti epistemologici e definitori.

L’idea di contenere la totalità in un sapere per l’uomo greco è una contraddizione assoluta perché la
totalità in quanto tale non è contenuta da nessuna parte, nemmeno nel nostro pensiero. È meraviglioso
nel senso proprio per cui nasce la filosofia, anche in un senso che inquieta. La materialità dell’azione
all’uomo non basta mai, cerca sempre l’apporto della costruzione simbolica e della giustificazione, anche
se l’azione è terribile. L’uomo compie tutte le azione giustificandole. Questa condizione per la quale si da
manifestazione dell’umano è talmente meravigliosa, nel senso proprio dell’origine della filosofia, che
appunto i filosofi si interrogano su questo.

Ieri abbiamo visto anche che spesso l’etica non segue una direzione filosofica della radicalità della
domanda che è perseguita dall’ambito della filosofia morale, ma talvolta si stacca nella costruzione di
assetti normativi. In quel caso non è più un’impresa filosofica o almeno lo è molto limitatamente, nel
momento in cui diventa normativa si declina in principi o norme: le classiche carte etiche o i classici
riferimenti etici che possiamo invocare per pensare di dare una dimensione morale a ciò che facciamo o
all’artefatto.

Etica delle tecnologie

Ieri abbiamo visto anche che spesso l’etica non segue una direzione filosofica della radicalità della
domanda che è perseguita dall’ambito della filosofia morale, ma talvolta si stacca nella costruzione di
assetti normativi. In quel caso non è più un’impresa filosofica o almeno lo è molto limitatamente, nel
momento in cui diventa normativa si declina in principi o norme: le classiche carte etiche o i classici
riferimenti etici che possiamo invocare per pensare di dare una dimensione morale a ciò che facciamo o
all’artefatto.
Quindi ci sono almeno due grandi dimensioni dell’etica:

1. L’etica filosofica o filosofia morale, quella più piena dal punto di vista razionale, cioè la declinazione
dell’attività filosofica sulla prassi dell’uomo. Come tale, non si declina in regole, se mai trova delle
regole e le mette in discussione come faceva Socrate. Così noi passiamo metà della nostra vita ad
interrogarci su cosa è giusto fare e l’altra metà a fare cose ingiuste, o comunque senza fondamento
razionale.

2. La costruzione delle carte. Il punto più importante in tutto questo è che spesso, quasi sempre,
soprattutto in certe aree culturali, quando si parla di etica delle tecnologie si pensa a costruzione di
carte, di regole, di principi. Meglio ancora se principi che possono essere declinati in istruzioni. Questa
è la seconda dimensione dell’etica.

Etica delle tecnologie


Regole e istruzioni per le macchine. Nei primi anni 2000 alcuni scienziati (j. Greene) hanno pubblicato
alcuni studi dedicati all’analisi scientifica dei dilemmi morali. Esperimenti di neuroscienze, si utilizza una
risonanza magnetica funzionale per vedere come il nostro cervello funzione quando siamo impegnati in
determinati comportamenti. La macchina analizza e il flusso di sangue nel cervello in situazione diverse. Il
tutto viene rappresentato con immagini che mostrano quali parti del cervello si “illuminano”. È un
sistema di indagine non invasivo e ci permette di conoscere bene come il nostro cervello funziona.

Dilemma morale: situazione nella quale un soggetto si trova in un conflitto con i valori morali di
riferimento. Entrambe le azioni sacrificano un valore morale. Per declinare il dilemma morale all’interno
di esperimenti (scelte metodologiche)
Due scenari nell’esperimento di Greene: soggetto sperimentato di fronte ad un’ipotetica situazione. Fai o
non fai questa cosa? E perché?

a. Dilemma del ponte: vedi un vagone fuori controllo che sta per investire 5 operai, l’unica cosa che puoi
fare è prendere l’uomo di fianco a te e lanciarlo per fermare il treno prima
b. Dilemma del vagone: vagone fuori controllo che sta per colpire 5 operai, hai di fronte a te una leva che
fa deviare il treno verso un solo operaio

La differenza tra i due scenari: nel primo caso è un atto giudicato immorale (dilemma personale), cioè
lanciare un uomo che in quel momento non è in pericolo, nel secondo caso tirare una leva non è un
problema morale (dilemma impersonale). Cosa succede nel cervello del soggetto?
Per il dilemma personale la maggior parte delle persone dicono di no fornendo come giustificazione
“perché non si fa”.
Per il dilemma impersonale la maggior parte risponde che tirerebbe la leva perché salverebbe più persone

Modelli di giustificazione della morale


a. Deontologico: giustifica la moralità dell’azione perché essa si richiama ad un dovere assoluto
b. Consequenzialista: giustifica l’azione perché ottengo delle conseguenze. Un esempio è l’utilitarismo:
faccio qualcosa perché avrò delle conseguenze utili, la moralità è strumento per qualcosa in futuro

Risultati esperimento
Nella risposta deontologica si illumina la parte emotiva
Nella risposta consequenziale si illumina la parte razionale
Perché ci sono questi due componenti? Perché ci siamo evoluti in questo modo, la componente emotiva è
rimasta perché è funzionale alla parte razionale.

Viene scoperto anche una delle prime manifestazione della moralità negli scritti (Iliade, dea Atena frena
l’ira di Achille dicendo che riceverà doni tre volte migliori) dovere morale + conseguenza futura positiva.
Un freno alla passione con la ragione e il calcolo. Archetipi morali che creano dei concetti come virtù,
bene, buono nascono da questi due aspetti (razionalità + emotività). Virtù: essere in modo perfetto ciò
che si è e ciò che si potrebbe essere. Con la parola buono ci riferiamo ad un ideale realizzato (buon
studente, buon politico). In questa visione i due aspetti non sono separati ma servono entrambi per
realizzare pienamente noi stessi.
Caratteristiche della perfezione morale: non si esauriscono nell’interiorità dell’uomo, l’essere in uno stato
pieno è visibile (si oggettiva), cioè una proiezione di te nel contesto in un cui ti trovi ti fa riconoscere
dall’esterno come virtuoso e rappresenta il tuo onore. Perdita dell’onore diventa qualcosa di gravissimo,
uno stato di imperfezione che è un tradimento di sé. L’onore vale più della vita in questo senso.

Ettore ha tre alternative: combattere con Achille, rientrare nelle mura, offrire un riscatto. L’atto con cui
egli ragione tra le alternative si chiama dialettica, deve risolvere tre situazioni in contraddizione tra loro.
Cosa deve fare? Ettore è il buon eroe (pienezza dell’ideale in cui si trova) e quindi decide di affrontare
Achille perché la vita vale meno della pienezza.
Esistono organizzazioni che riconoscono la vendetta, riconosce la lesione dell’onore (essere mostrati
imperfetti agli occhi della società). In molte culture la morte è l’atto estremo di riconciliazione con la
pienezza. Esempio: generale giapponese che si pugnala per riconciliarsi con lo stato di pienezza.

Segue l’idea che fare il bene porti del bene, mentre il male generi altro male. Fare il male è un atto di
ignoranza, se fai il male non ti accorgi di sbagliare. Essere pienamente se stessi è uno stato di equilibrio e
armonia tra le parti. La perdita dell’equilibrio rompe la pienezza. Lo stato d’armonia è l’effetto di una
capacità razionale dell’uomo. L’azione immorale si associa la brutto

Integrità
Felicità come compiutezza, equilibrio tra parti nella realizzazione di sé.
Per l’organizzazione mondiale della sanità: la saluta è uno stato di completa salute fisica, mentale e
sociale. Avere la salute coincide con la felicità? Cosa significa per un’organizzazione sovranazionale
ambire ad una situazione del genere?

INIZIO LEZIONE
L’altra volta abbiamo discusso della distinzione, abbiamo cominciato a vedere degli archetipi della
costruzione etica, abbiamo parlato del modo di formarsi dell’etica classica, che introduce una serie di
archetipi importanti con i quali ci possiamo ritrovare anche oggi. Molti di quegli archetipi, molti dei
problemi che stanno dietro la posizione di quelle categorie, sono problemi che l’umanità non ha ancora
risolto.
Essa, con quelle categorie, continua a pensare e ripensare, modificando la semantica dei termini
(ovviamente cambiando le culture e i linguaggi di riferimento, magari spostando il fuoco da una parte
piuttosto che un’altra, ma in realtà tantissimi di quegli elementi ritornano continuamente).
Oggi continuiamo in questa scia qua, anche se dal punto di vista idealmente storiografico, facciamo un
piccolo balzo.
Abbiamo semplificato molto ma abbiamo rappresentato qual è diciamo lo spirito greco, lo spirito della
classicità. Ovviamente dentro ci stanno un sacco di autori, un sacco di teorie, un sacco di filosofie, per cui
dobbiamo immaginare correttamente che entrando nello studio delle singole faccende, troveremmo
accenni diversi e problemi posti in maniere non coincidenti una con l’altra. Ma diciamo che se vogliamo
rappresentare sinteticamente lo spirito dell’eticità greca, ecco le cose che abbiamo detto l’altra volta, sono
adeguate.

Distinzione tra etiche oggettivistiche e etiche soggettivistiche


Abbiamo visto che l’etica classica poneva il tema del rapporto tra la virtù e la felicità. Fin dalla prima
testimonianza della letteratura omerica, questo tema si pone in questi termini: l’idea della felicità come
uno stato, un essere in uno stato di pienezza, in quel modo di essere per cui il greco usa la parola che
richiama l’entità divina, eudemonia “avere il buon demone”. Perché in realtà l’essere nella condizione di
felicità, in quanto compiuto, è la condizione che l’uomo può sperimentare più vicina al divino, perché il
divino ha questa connotazione (essere perfetto, non manchevole di nulla, pieno, non difettoso). Ecco perché
c‘è l’idea del demone, è un’entità divina in qualche modo (figli degli dèi secondo l’Apologia di Socrate)
Socrate si difende dall’essere accusato dell’aver introdotto nuovi dei, perché diceva di avere un demone che
lo frena dall’agire direttamente nella vita politica; è un demone che sottolinea che in lui manifesta l’istinto
morale primo, che si manifesta sempre come una forma di astensione,
Anche nella prima forma che troviamo nell’Iliade: Atena che frena la passione di Achille che vorrebbe
sguainare la spada e fare strage di Agamennone.
La prima manifestazione della forza morale è una forma di veto, di stop

Morte
Sul concetto di morte la filosofia e l’uomo riflettono da subito, per il greco deve pensare che la morte abbia
un elemento di irrazionalità, per il fatto che immediatamente essa si manifesta come un venir meno. L’ovvia
prima rappresentazione della morte è il venir meno della cosa che è viva e progressivamente dello sparire.
Il greco che ha un atteggiamento per il quale la totalità è il focus della sua attenzione, il tutto che si
riproduce in molte forme di cui l’uomo è una, insieme alle altre forme della natura. Il tutto non ha un fuori
di sé, non è concepibile il fuori dal tutto e non è concepito qualcosa che nel tutto entra; questa è una
contraddizione.

Per la prima filosofia, i presocratici, i fisiologi, il tema è proprio la totalità. Ho sempre in mente un principio
unificatore quando penso qualsiasi cosa. Il loro primo problema diventa: “questo tutto che mi si pone di
fronte non lo posso negare, perché lo ho sempre di fronte, ogni volta che cerco di pensare le cose.”
Già “le cose”, vuol dire raccogliere in un genere comune, quindi pensarle come un tutto. Nel tutto nulla
esce, nulla entra.

La morte non può essere pensata come un togliersi dal tutto, sarebbe una contraddizione. Non può che
rimanere nel tutto in qualche altra forma. Anche la nascita non può essere un entrare nel tutto
La mitologia ci rappresentano un aldilà, i greci conoscono l’Ade, dove le anime vagano. Prima ancora del
salto razionale dei primi filosofi c’era già l’idea di un elemento dell’umano che sopravvive alla morte in
un’altra forma. La morte non può essere un andare via; perché non ha senso dal punto di vista logico.

Uno dei concetti, è l’idea dell’eterno ritorno ma l’altro è l’immortalità dell’animo.


Il tuo morire è il darti in un’altra forma, ma rimani nel tutto, perché dice Parmenide: “è immortale, da esso
nulla esce nulla entra, non si accresce, non si diminuisce, simile a rotonda sfera, che è un’immagine di
perfezione assoluta, di immodificabilità”. In esso nulla nasce e nulla muore per questa ragione.

Esempio: Dibattito in televisione tra l’astrofisica atea Margerita Hack e un cardinale. Dal punto di vista greco
dicevano la stessa cosa. Perché il religioso parlava di immortalità dell’anima e la Hack rispondeva che
l’anima non esiste, lei integralista atea, “quando io muoio, mi dissolvo e divento molecole di idrogeno”

Da Parmenide in poi, il niente non è concepibile dalla ragione, è una contraddizione del pensiero (non puoi
pensare niente).

Socrate e la morte
Questo non significa che uno non vivesse la morte come qualcosa di tragico, ma i grandi filosofi prendono
una posizione un pò distaccata. Nell’ultima parte dell’Apologia di Socrate, quando Socrate è condannato e
sa che deve morire (per un processo ingiusto), dice “non vi preoccupate per la mia morte”.
Ma se mi preoccupassi per la mia morte vorrebbe dire che so che cos’è la morte ma non lo so; c’è chi dice
che ci si dissolve nel tutto, c’è chi dice che “incontrerai Omero e i grandi eroi che ci narrava. In entrambe i
casi, se è la prima soluzione non vedo di cosa preoccuparsi perché, come avrebbe detto Epicuro un po’ più
tardi, quando c’è la morte non ci sei tu e quando ci sei tu non c’è la morte, dunque perché dovrei
preoccupartene? Se invece è vero che dovessi incontrare Omero, Achille, Ettore e gli altri grandi eroi, allora
è la cosa più desiderabile al mondo e non vedo l’ora di andarci.

Non posso pretendere di sapere cos’è la morte, tradirei il senso della ricerca della verità, quella per cui so
di non sapere e so solo che devo cercare.
Differenza sostanziale nel rapporto tra virtù e felicità, che c’è per esempio in Aristotele.
Pensa che la virtù sia uno stato di perseguire in maniera eccellente ciò che ci caratterizza come uomini. Per
lui, in particolare, l’uomo si caratterizza per la ragione. “questo ti garantisce la felicità”? insomma, il buon
virtuoso se accompagnato da sfortune drammatiche nella sua vita, come fai a dire che sia felice nonostante
sia virtuoso? tra virtù e felicità vede un rapporto problematico.

Gli stoici invece criticheranno e sottolineeranno: “no, al virtuoso non serve nulla”. Le fortune sono del tutto
indifferenti, come le sfortune, al saggio stoico.
Stoicamente significa essere indifferenti alle sfortune e alle fortune, perché la virtù basta a sé stessa e
conduce ad una condizione di felicità. E dunque, il saggio stoico della morte non ha nessuna paura; anzi, la
persegue. Se essa si mostra come unica via necessaria essendo impossibilitato ad esercitare la virtù fino in
fondo; allora se non c’è altra via, c’è anche quella.
La morte dell’eroe sancisce in un momento la perfezione del suo essere perfettamente ciò che deve essere,
e permane nell’eterno. Raggiunto questo stato il ricordo dell’eroe glorioso si rinnova e si perpetua
continuamente. La gloria è la prova provata del raggiungimento della perfezione dell’eroe.

L’idea dell’eternità divina


Per il greco non dobbiamo immaginarcelo come le figurine degli dèi che sono lì sull’Olimpo, quelle sono
metafore, rappresentazioni. Quando sei felice sei più simile agli dèi, stai realizzando il tuo stato di pienezza,
rispetto al quale la morte può non fare differenza, anzi lo può confermare per sempre nel caso dell’eroe.
Gli dèi diventano simboli di tutto ciò che ha a che fare con quell’elemento che è eterno per l’uomo, che è il
continuo slancio per la ricerca della verità.

Socrate è accusato di corrompere la gioventù e introdurre nuove divinità, poi l’accusa diventa una, l’ateismo.
Lui smonta, contraddice, confuta la tesi dell’ateismo, in modo dialetticamente efficace. Egli dice “mi accusi
ora di ateismo quando nell’atto di accusa hai scritto che credo nei demoni, c’è una contraddizione interiore,
i demoni sono figli degli dèi, come fai a dire che credo nei demoni e non negli dèi; c’è qualcosa che non va,
tu hai voglia di scherzare”. Poche righe più sotto dice, “io non mi metterò a cercare di convincere,
persuadere i giudici, dicendo che sono un uomo anziano, che ho figli, perché se dicessi questo, dimostrerei
di non credere negli dèi e darei ragione ai miei accusatori”.
Nel processo è esercitata la ricerca dialettica della verità, se cerco di convincere con altri mezzi non
razionali, sto tradendo il senso di quell’impresa.

L’idea che io vada verso un moto che può condurmi verso la perfezione, posso fallire ovviamente, e il fatto
che possa fallire crea una distanza tra il mio essere come sono qui e ora e ciò che potrei e dovrei diventare.
Io, Claudio Sarra, sono in atto un uomo di una certa età, in potenza sono un anziano, ho la potenzialità di
diventarlo e lo diventerò. C’è una distinzione tra il mio essere di fatto e ciò che potrei o dovrei essere, vale
per tutti tranne che per Dio, che è atto puro, perfezione immobile che ha la capacità di muovere tutto.
Etica dello scopo: ogni etica che imposta il discorso morale attraverso il presupposto di fini specifici
dell’agire morale o dell’ente morale in sé, vuol dire che è un’etica costruita sullo scopo, sul fine. Si chiama
etica di tipo teleologico, la ragione di questa parola “teleologico” è telos, che in greco vuol dire appunto fine
o scopo; etiche dello scopo.

Per il greco classico il tutto non è fermo. Siamo un epifenomeno, una manifestazione (assieme a infinite
altre) del tutto. Paradossalmente traduciamo la parola physis con “natura” e, tradotta così, è
particolarmente felice perché natura è un verbo al futuro nella sua matrice latina e significa “le cose che
nasceranno” ed è piuttosto vicino al senso greco, cioè il proliferare di forme che si danno nel mondo. Per
quanto ne sappiamo non conosciamo se anche le altre forme sono in grado di porsi il problema.
Noi abbiamo la capacità di porci il problema, di interrogarci sul nostro essere nel tutto.

Il tutto precede il singolo, cioè logicamente prima vi è il tutto e dopo le cose che si danno nel tutto, tra cui
noi. Il punto di vista globale non è antropocentrico, ma è il contrario: il mondo e poi l’uomo. Il “poi” deve
essere inteso sempre nel senso del bisogno morale e razionale di stare in relazione con il tutto, perché
questo è il modo con cui physis si dà.

L’opposizione
è la prima forma con la quale si dà ogni forma nel tutto. Se non ci fosse distinzione non identificheremmo
nulla, senza i confini che stabiliamo non siamo in grado di identificare le varie cose.
Per avere un A e un B è necessario avere un confine tra le due cose: A e B si identificano nell’opposizione
attraverso l’identificazione di ciò che è propria dell’una e propria dell’altra. Se non ho questo confine non ho
più A e B, ho un indistinto.
Il loro essere nell’opposizione è anche ciò che li mette nella relazione perché nessuna cosa può pensarsi
lontana dal tutto. Ogni volta che l’uomo agisce lacerando, è una follia logica perché contraddice il concetto
di tutto.

1. è un errore logico
2. si traduce in un errore morale. Lo strappo produce male nel mondo non solo per me. C’è una
concezione cosmocentrica

L’agire male è un errore della ragione ed è un vizio morale e produce un male cosmico nel mondo

L’uomo moderno parte dall’idea che opporsi è sempre un male, discutere è segno che non si è giunti alla
verità (Cartesio e Bacone) e non comprende la fisiologicità ma anzi pensa che il conflitto sia una struttura
patologica. Per questo motivo inventa il diritto come forma esterna all’uomo che lo mette in ordine,
perché, non vi è un modo razionale per gestire il conflitto.
Nello stato di natura di Hobbes, gli uomini configgono per necessità perché lo stato di natura non ha regole
e diventa uno stato di guerra. L’unica soluzione a questo stato di guerra è che tutti gli uomini pongano giù le
armi e diano il potere a un uomo che li comandi e li metta in riga.

Locke, un altro giusnaturalista, lo stato di natura non è come quello di Hobbes, in Locke ci sono già delle
figure di diritti nello stato di natura come il diritto alla vita, alla libertà e al possesso dei beni (chiamate
proprietà). Finché ciascuno sta nei suoi diritti tutti sono felici, ad un certo punto qualcuno non sta più bene
nei suoi diritti e quindi bisogna fare il contratto sociale e lo stato civile.

Perché dovrei violare questa armonia prestabilita se è vero che c’è?


Il conflitto non è compreso nella modernità, non è la fisiologia delle cose. Ne deriva l’idea della lex
eteronoma = l’ordine esterno che ti mette in riga perché l’uomo da solo fa solo danni

Il greco è dell’idea originaria che l’opposizione è il modo di darsi delle cose del mondo naturale, nel senso
che è della physis = della natura. L’uomo ha anche questa caratteristica, ovvero di poter tradire il suo senso
di stare nel mondo e quando lo fa (per il greco) è perché innanzitutto non capisce come stanno le cose sul
serio e fallisce sul piano della ragione e come conseguenza anche sul piano morale.

Nel giro di tre secoli esplodono la filosofia, la scienza, la matematica, la medicina. Tutti quei saperi che
chiamiamo scientifici e che si sarebbero sviluppati ancora di più nei secoli successivi. Nascono anche il
concetto di ragione con Aristotele, la tragedia, la democrazia, la riflessione sulle forme di governo. Ancora li
studiamo perché non abbiamo ancora finito di capire quante cose hanno inventato.
Ancora oggi gli astrofisici si meravigliano quando leggono anticipazione sul modo di interpretare la
cosmogonia. Ci sono discorsi che si rincorrono in tutto il mondo e questo è un grande mistero dell’umanità,
il fatto che nel giro degli stessi secoli in culture così diverse tra loro si siano sviluppate una serie di
pensieri/idee così simili, che possono riscontrare analogie.

Il tracollo dell’Impero romano d’occidente


Il dato fondamentale e cruciale è il fatto che si afferma nella costruzione delle strutture culturali,
istituzionali, politiche la posizione cristiana (sia una religione che una filosofia, un modo di pensiero). Dal
tracollo dell’Impero romano il focolaio vivo della ricostruzione culturale è nei monasteri. Nel 380 d.C., circa
una novantina d’anni prima che l’Impero d’occidente crollasse, la religione cristiana diviene religione
ufficiale dello Stato con l’imperatore Teodosio. Questa mentalità sarà di fatto la colonna su cui verrà
ricostituito, dopo la devastazione della fine dell’Impero romano, l’occidente nella forma del nuovo impero.
Il momento cruciale è quando nel natele 800 quando Carlo Magno verrà incoronato imperatore del Sacro
Romano Impero, idea della continuità dell’impero, della romanità ma con la connotazione forte del
cristianesimo.

Il cristianesimo ha il suo culmine, nel giro di un millennio, con la scolastica e in particolare con l’autore
Tommaso D’Aquino.
La costruzione del pensiero cristiano viene molto prima e la nuova religione post Gesù ha bisogno di
confrontarsi e di difendersi rispetto alla cultura pagana, la quale è intrisa di grecità.
Ingaggiano delle costruzioni dottrinali, che hanno la funzione di difendere/mostrare la solidità della nuova
religione rispetto alle categorie e alle posizioni che erano il portato della tradizione greca. Questo permette
che molti concetti e categorie trapassino dall’una all’altra quasi a cercare un terreno comune per portare
aventi la discussione tra di loro. Ci sono segni evidentissimi, addirittura c’è una posizione che ritiene il
cristianesimo la prosecuzione/l’inveramento della filosofia greca.

La novità è l’idea di una rivelazione della verità.


La rivelazione della verità ha un doppio senso: rivelazione come disvelamento, quindi la verità che si mostra,
ma ri-velazione anche come senso di nuovo velamento, ri-velare, velare di nuovo.
Si introduce però questo tema, si manifesta la verità nel mondo. Anche questo non è un tema alieno al
greco, cioè l’idea della possibilità di una alleanza, di un rapporto personale segnato dalla nuova alleanza tra
l’uomo e Dio nel segno dell’amore reciproco. Amore che è reciproco, cioè Dio ama l’uomo. Anzi è principio
dell’uomo, lo crea per amore.

Il greco era arrivato con Aristotele a dire che l’uomo tende verso Dio come un oggetto d’amore, come il suo
fine più proprio, ma il Dio di Aristotele è impassibile perfezione, puro atto, pensiero di pensiero. Degli
uomini non gli importa niente

La grande novità è, invece, l’idea della costruzione della possibilità di una sorta di dialogo tra l’uomo e Dio e
in un rapporto di cura. Nel segno, questo si del suo compimento oltre la vita, della salvezza.
Il concetto di salvezza: è un compimento, uno stato di felicità, di beatitudine. Però è qualcosa che
ineluttabilmente si compie dopo la morte. Dopo la fine del mondo per opera di un giudizio.

Questi due concetti: l’idea di una alleanza con Dio nel segno dell’amore e destinata alla salvezza da un lato
e l’idea che ad un certo punto la verità ultima si mostra, genera tutta una congerie di problematiche e di
differenti interpretazioni con differenti declinazioni introducendo, così, quelle categorie che poi avrebbero
segnato la storia del pensiero medievale su questo punto.

Periodo medievale
è dal punto di vista della costruzione morale considerato un’etica oggettivistica perché il tutto, cioè la
volontà di Dio, anticipa e determina il singolo. L’idea del cosiddetto “homo faber ipsius fortunae” = l’uomo
la cui fortuna è tutta nelle sue mani, può pensarsi come se Dio non ci fosse, cioè nella sua più completa
autonomia. Modo di pensare il mondo a partire dall’individuo e non più il contrario, si chiama
rovesciamento dal teocentrismo medievale all’antropocentrismo moderno.

Questo sarà la modernità, anche se nel medioevo verranno messe tutte le premesse perché questo arrivi.
Nel medioevo siamo in una struttura di tipo oggettivistico, c’è prima il tutto, che è la creazione, governata da
una Lex. È volontà creatrice “Lex Eterna”, poi si offre all’intelligenza dell’uomo dandogli anche dei canoni di
comportamento che l’uomo con la ragione può conoscere.

in due forme:
1. la Lex Divina, cioè le scritture
2. la Lex Naturalis, parte che magari non è nelle scritture, ma l’uomo con la sua ragione può ritrovare

Sono tra loro una struttura ordinata e perfettamente coerente, non è possibile che siano in contraddizione
tra loro. La Lex Eterna non può essere contraddetta dalle altre leges, ma è inconoscibile nella sua
ampiezza, l’uomo non la può conoscere tutta. Però conosce la Lex Divina e la Lex Naturalis, che è la
partecipazione della creatura razionale alla Lex Eterna, cioè quella parte che l’uomo conosce con ragione.

Basta la ragione all’uomo per salvarsi? c’è bisogno altro, per esempio la volontà buona, il compiere
effettivamente cose buone? C’è bisogno che Dio ti salvi, anche se hai fatto tutto bene c’è comunque un
bisogno di un intervento divino, c’è bisogno della grazia. Ti salvi da te o ti salva Dio?
Potente tensione dentro al pensiero cristiano che sfocerà nello scisma protestante e nel quale l’uomo si
salva solo per grazia e le opere sono in mano sua, ma la salvezza è solo arbitrio di Dio.
La grande scissione: rapporto verso la salvezza, verso la felicità, in mano all’uomo totalmente, oppure in
qualche modo determinato da un gesto d’amore che venga da Dio.

La legge naturale e la legge divina sono nella possibilità di comprensione dell’uomo.


Ma può la ragione dell’uomo sindacare oltre la legge divina e la legge naturale? La ragione può spingersi
oltre e interrogarsi sulla ragione per cui c’è il precetto? Può la ragione dell’uomo indagare le ragione di Dio?
Ci sono due declinazioni che hanno molta importanza sullo sviluppo della storia.

1. Volontarismo: che ha il suo luogo di sviluppo nell’ordine francescano. Per il Volontarismo Francescano
la ragione dell’uomo è solo ed esclusivamente una ragione che notifica all’uomo il precetto delle
scritture e delle leggi naturali. Le ragioni di quel precetto sono completamente oscure all’uomo perché
ha come fondamento la volontà di Dio. La legge, sia essa eterna, divina o naturale, è voluntas, un atto di
volontà. C’è un protopositivismo, cioè l’idea che la legge è l’atto di volontà posta di un legislatore
legittimo.

2. Intellettualistico: ha come riferimento i domenicani, San Tommaso che scrive “Summa Thologiae”,
un’opera immensa in cui parla di tutto il possibile scibile perché è un intellettualista. Cioè lui ascrive alla
ragione una funzione essenziale, cioè ci sono delle ragioni che l’uomo può conoscere magari non
esaustivamente che stanno dietro al precetto. Il precetto ha una struttura razionale che tu puoi
comprendere, ha una razio. “ordo rationis”, un ordine della ragione. Non è voluntas, è un ordine della
ragione. Ordo nel senso che è un atto di posizione di ordine, ma anche una struttura ordinata. Ancora
oggi diciamo “quale è la ratio della legge”, cioè quale è la ragione della legge? Oltre al precetto che
vedo, quale è la ragione che giustifica il precetto.
Invocando la ratio posso capire l’estensione del precetto. Ratio legis presuppone l’idea che il precetto
manifesti una ragione che lo giustifica e che posso comprendere. Siamo dentro ancora ad una visione
oggettivistica.

Pensiero cristiano
Questo insieme di temi mette in gioco il concetto di ragione, l’idea di una rivelazione, e dentro questo
movimento di formulazione del pensiero si muove la costruzione del pensiero cristiano, si muove anche
attraverso strutture dialettiche, per esempio con la condanna delle eresie (interpretazioni, l’idea che l’uomo
si salvi per via delle sole opere). Ad un certo punto, viene condannata, però è un’interpretazione possibile
dentro questo concetti. Quindi dentro questo conflitto tra le possibili interpretazioni differenti si va
costruendo quella che è la tradizione di pensiero cristiana e che arriva a strutturarsi in un assetto
sistematico.

Tema fondamentale è quello dell’ordine, della realtà ordinaria. Un’interpretazione dell’idea dell’ordo in un
senso più materiale e più determinato, è innanzitutto una esigenza che si afferma proprio in concomitanza
con la costruzione dell’impero.
Nel momento in cui Carlo Magno ricostituisce l’impero e fonda il Sacro Romano Impero quello su cui
costruisce è sostanzialmente una macerie culturale, istituzionale, ed è per questo che si crea questo sforzo
immenso che mette insieme i due poteri, cioè potere spirituale e potere temporale. Poi avrebbe
determinato una ricostruzione del sapere estremamente difficoltosa.
Per esempio, si sarebbero persi moltissime delle conoscenze e dell’accesso alle fonti, per esempio alle fonti
greche, proprio in seguito all’impoverimento culturale e alla distruzione connessa alla fine dell’impero.
Tanto per fare un esempio, di certe opere di Aristotele non si saprà nulla se non fino al giro del millennio.
Per citarne una importante per i giuristi, la retorica di Aristotele addirittura non si sa se l’abbia letta
Tommaso D’Aquino come abbia scritto tutta la summa con tutta la logica che ci ha messo dentro senza la
retorica di Aristotele. Moltissime opere di Aristotele vennero riscoperte dopo l’anno Mille e alcune di
queste addirittura attraverso la tradizione araba.
Molte di queste vengono dalla tradizione araba attraverso la lettura degli ultimi filosofi greci, cosiddetti
neoplatonici, quindi è una distanza ancora più grande rispetto all’originale greco.
Insomma, in quest’opera di ricostituzione, dove un posto fondamentale ce l’ha Boezio, il quale aveva
appunto tradotto una parte delle opere di Aristotele che sarebbero diventate il canone logico per la
costruzione dell’Ottocento, l’esigenza fondamentale è quella di ricostituire l’impero, quindi di dare un
ordine alle devastazioni.

L’idea di ordine che va costituendosi nel Medioevo è prima di tutto un ordine delle cose in un senso molto
materiale. Deve andarsi a ricostituire le istituzioni, l’ordine, l’educazione dei giovani. L’idea di ordine
diventa più materiale che non nel modello greco.
Nel IX secolo viene introdotto in Occidente un concetto che avrebbe avuto un’importanza totale nella
costruzione, anche nella costruzione delle istituzioni politiche, ed è il concetto di gerarchia. Il termine
“gerarchia” entra nella cultura occidentale nel IX secolo d.C.
In quel momento l’impero è minacciato da tutti i fronti: a nord arrivano i normanni, a sud arrivano gli
ottomani, gli arabi, nel seno i tre discendenti spesso litigano finché devono arrivare addirittura a tratti di
pace per dividersi le rispettive competenze. Insomma, in mezzo a tutto questo casino, questo imperatore
decide che è il momento di tradurre delle opere dal greco.
Sembrava un’operazione del tutto insignificante, in realtà quei testi sono estremamente importanti tant’è
che sono oggetto di un dono dall’imperatore d’oriente all’imperatore d’Occidente.

Nel medioevo un testo ha a che fare col potere, con l’imperatore perché nessuno sa leggere, nessuno ha
libri, e nessuno testi, chi ha testi è di un livello socioculturale il più elevato possibile. Questi testi sono in
mano ad un imperatore e vanno all’altro imperatore. Questi testi sono la storia di un grande falso della
storia.
Vengono tradotti in due traduzioni nel giro di pochi anni, era difficile trovare qualcuno che conoscesse
bene il greco, la prima traduzione fatta da uno sconosciuto abate non aveva soddisfatto l’imperatore che la
fa rifare nel giro di poco tempo. E chiama il più grande filosofo del nono secolo, cioè Giovanni Scoto
Eriugena che è un frate irlandese che conosce il greco e ha anche un’inclinazione neoplatonica. Questi libri
sono il cosiddetto “Corpus Dionysianum”, cioè un insieme dei testi attribuiti a Dionigi l’Areopagita, il giudice
del tribunale di Atene, l’areopago, che secondo gli Atti degli Apostoli sarebbe stato convertito dalla
predicazione di San Paolo. Questi testi si presentano come gli scritti del giudice Dionigi l’Areopagita, giudice
areopago.
Sono importanti questi testi perché, se è vero, sono testi del I secolo, cioè di uno che ha sentito la
predicazione di San Paolo (addirittura in una delle lettere questo dice di aver assistito all’eclissi di sole il
giorno che Gesù fu crocifisso).

Hanno l’equivalente, dal punto di vista della costruzione culturale, dei testi sacri, per questo sono depositati
e protetti dall’imperatore d’oriente, perché sono l’equivalente della Bibbia o dei Vangeli. Questi testi non
sono di Dionigi l’Areopagita. Sono un grande falso. Si cominciò a dubitare di questa identità molto tardi
nell’Umanesimo, quindi nel momento in cui avviene l’operazione nessuno debutta che questi sono i testi del
giudice Dionigi l’Areopagita. Si scoprirà poi che non sono stati affatto costruiti nel I sec. d.C., ma in realtà
molto tardi intorno al V secolo e sono proprio espressione di una scuola filosofica che si chiama
neoplatonica. Però l’autore è stato talmente bravo che ha ingannato tutti.
Questi testi contengono il concetto di gerarchia, nella forma di gerarchia celeste e nella forma di gerarchia
ecclesiastica, cioè nel concetto di gerarchia. In quel momento la parola stessa non esisteva, né esisteva nel
greco classico.
È una parola che viene coniata nel greco tardo ed entra esattamente nel IX secolo in Occidente come
un’operazione politico culturale.
Nel momento in cui l’impero è minacciato da nord, da sud e c’è dubbio sulla legittimità del titolo imperiale,
qualcuno cerca di testi la struttura rivelata dell’ordine politico e introduce il concetto della gerarchia che
avrebbe connotato tutto il nostro sapere sostanzialmente fino ai giorni nostri. La traduzione che viene fatta
della parola gerarchia sarà “sacer principatus”, cioè principato, che ha una connotazione politica nel IX
secolo, cioè governo sacro, cioè la struttura dell’ordine del potere è vera in sé. È sacra in sè. Nel complesso
l’etica medievale si connota ancora come una struttura oggettivistica.

Con la modernità in cui cominceremo a parlare di etiche soggettivistiche che hanno come caratteristica il
fatto di rovesciare il punto di vista, cioè anziché essere il tutto prima dell’individuo, prima è determi nante
l’individuo, sarà l’individuo con le sue forze, in particolare con la ragione e poi con la sua abilità tecnica, ad
essere il principio della costruzione del tutto o della sua determinazione o rideterminazione.

Etica oggettivistica
La parola ci richiama all’oggettività, cioè qualcosa che si oppone alla soggettività. Questa distinzione
differenzia l’idea di pensare la morale a partire dalla massima oggettività possibile, cioè il tutto; invece,
quel tipo di morale che caratterizza più la fase matura della modernità è quella che va sotto il nome di
post-modernità dove la prospettiva è rovesciata. Infatti, si pensa che la struttura essenziale dell’agire
morale si radichi non a partire da qualcosa che precede il soggetto, ma nasce e si esaurisce nell’intimità
delle facoltà soggettive.
Questa distinzione è convenzionale e serve per avere delle impostazioni di base. Tuttavia, questa
distinzione vuole sottolineare quel tipo di approccio alla morale che caratterizza, l’epoca antica e l’epoca
medievale, dov’è presente quel modo di pensare all’uomo che è derivato e conseguente da un
ragionamento: un tutto, cioè tutto precede l’individuo. Anche questo è vero per quanto riguarda la
connotazione della vita morale.
Invece, l’etica soggettivistica vuole individuare quel tipo di approccio che è più tipico della tarda
modernità e post-modernità, dove l’approccio morale nasce e si esaurisce nell’intimo del soggetto.

Queste distinzioni mantengono una qualche utilità per la ragione che possiamo ritrovarle ancora nel
modo con cui impostiamo il discorso morale (atteggiamenti che oscillano dall’uno o dall’altra). Tutte le
distinzioni portate sono presenti nel dibattito.
La costruzione medievale oppone il volontarismo francescano all’intellettualismo domenicano, entrambi
con una forza di influenza molto forte in questa seconda parte del pensiero medievale che conduce verso
la modernità. Di fatto sono due anime che sono rimaste presenti ancora oggi.

Intellettualismo domenicano
Dal punto di vista della costruzione razionale, teorica e categoriale, l’intellettualismo domenicano, in
particolare nella forma di pensiero di Tommaso D’Acquino e poi di quella che si chiamerà Seconda
Scolastica, che è un fenomeno spagnolo molto importante nella rivoluzione del pensiero, tra l’altro
giuridico, quello domenicano ha avuto un’importanza che non si è esaurita. Ancora oggi c’è una buona
parte della filosofia cristiana che si radica nel tomismo, in alcuni casi un riferimento che si conserva, in
altri un riferimento da cui si parte per discutere e criticare. Ci sono studi tomistici con cui viene pensato il
fenomeno giuridico come tutt’altro che un fenomeno culturale finito del Medioevo. Questa è una tale
importanza che giustifica il fatto che ne parliamo.

Quello si connota per un atteggiamento razionalistico e intellettualistico, ovvero uno sforzo della ragione
di costruire un sistema del tutto e anche delle verità morali sulla convinzione che questo è possibile per
la ragione dell’uomo. La ragione dell’uomo è sostanzialmente analoga alla ragione di Dio e per cui l’uomo
è fiducioso che le verità che conosce con l’uso della sua ragione sono le verità che effettivamente Dio
voleva che lui conoscesse, avendogli dato la relativa facoltà questo si estende anche significativamente
alla fondazione della precettistica. In questo contesto oggettivistico non c’è una separazione tra la
normatività morale e la normatività giuridica,
le due si compenetrano, tipicamente nella categoria della lex naturalis. L’idea è quella della ragione che
ha la facoltà di riconoscere non solo il contenuto del precetto, ma anche la ragione per cui il precetto c’è.
Questo le consente di ragionare sui precetti in maniera sistematica e, per esempio, risolvere i casi della
vita controversi attraverso un uso elaborativo della ragione che non si limita semplicemente a notificare
un precetto e poi a richiedere una volta di piegarvisi quasi informalisticamente, non potendo indagare
nelle ragioni.

Volontarismo francescano
dal cui seno, in particolare nella figura di Guglielmo di Occam, nasce la figura del diritto soggettivo, che
diventeranno i diritti naturali e in seguito il diritto dell’uomo.
Il tema del volontarismo è una circoscrizione della capacità della ragione molto più forte rispetto
all’intellettualismo e un avanzamento del ruolo della volontà dell’uomo. La ragione serve solo per
comprendere il precetto in quanto tale, dopodiché devi agire con le opere e sperare che compiaccia a
Dio, la cui ragione è totalmente sconosciuta e la salvezza avverrà se deve avvenire esclusivamente per
virtù di un atto di grazia che liberamente, essendo una volontà onnipotente quella di Dio, verrà data
oppure no.

Autonomia dell’uomo
In entrambi gli atteggiamenti va accentuandosi una sorta di processo di autonomizzazione, cioè di una
progressiva resa autonoma delle facoltà dell’uomo rispetto alla gestione e alla conduzione della sua
esistenza e anche della sua vita morale.

Nel caso dell’intellettualismo è più evidente: di fatto l’uomo è rassicurato del fatto che le verità di ragione
che raggiunge sono senza dubbio vere nel senso più pieno del termine. Non è pensabile che Dio ti dia dei
comandi che sembrano avere un certo senso e poi cambia idea. Ciò non è pensabile perché se i comandi
sono razionali e stimolano la ragione, questa ragione in qualche modo vincola anche Dio. Dio è vincolato
a fare cose buone, giuste, sante e vere, dunque ciò che è di ragione vincola in qualche modo anche lui. Tu
non conoscerai tutto, però quello che conosci è senz’altro vero, allora con ciò sei legittimato a stare
dentro la struttura di ciò che ti è riconosciuto dalla tua pura ragione. Ecco che la ragione sta cominciando
ad essere tutto ciò che mi serve per agire nel mondo.

Con un accento diverso ciò accade anche nel volontarismo. Il volontarismo dice che la ragione di Dio è
inconoscibile, dunque anche il fatto che tu ti possa salvare o meno è del tutto inconoscibile e non è
prevedibile. Cosa devi fare? Devi conoscerti in questo minimo cerchio che la tua ragione può conoscere
che sono i precetti morali, senza tante domande perché tanto aldilà da quello non lo ottieni, e ti comporti
e ti muovi con la tua volontà dentro questi. Anche in questo caso è come se stesse dicendo che c’è
quell’altro mondo, ma infondo essendo inconoscibile te ne puoi anche non curare. Sta iniziando così a
strutturarsi una resa autonoma nell’abito delle facoltà puramente umane e soggettive, rispetto a una
visione complessiva della totalità che ammette anche un ambito che sarebbe trascendente. Il tema è
quello della trascendenza, cioè quello che sta oltre la sfera dell’uomo.
In entrambi i casi si sta ritagliando una sfera autonoma dell’umano, connotata dalla possibilità e dalla
doverosità. L’uomo inizia a circoscriversi dentro una sfera connotata dalle proprie facoltà naturali che, o
perché rassicurato che tanto è vero, o perché tanto non ci può fare niente con quell’aldilà, comincia a
rendersi autonomo.
Questo fenomeno della progressiva resa autonoma dell’ambito delle facoltà puramente umane, e in
conseguenza di ciò della perdita del legame necessario con quanto esula dalla ragione naturale nella
fondazione di idee, concetti, giustificazione dell’agire e costruzione sociale si chiama “Secolarizzazione”.

Secolarizzazione
è un termine che si usa per indicare quel processo culturale e macroscopico che caratterizza la
progressiva fine del Medioevo, e in particolare dello svolgimento della modernità caratterizzata dalla
perdita del legame necessario dell’ambito dell’umano con quanto esula dalla ragione naturale nella
fondazione di idee, concetti, giustificazione dell’agire e costruzione sociale.

Un’altra definizione: termine che nasce come concetto giuridico del diritto canonico ed è la procedura
che termina il provvedimento con il quale i beni ecclesiastici perdono la loro connotazione tipica di beni
dedicati al culto e vengono ridotti al secolo, cioè considerati come beni comuni (esempio: una chiesa che
viene sconsacrata). L’immagine dell’idea giuridica è un qualcosa che aveva una connotazione sacra e che
la perde. È da qui che viene il termine secolarizzazione, prendendo come metafora la riduzione al secolo.
Questo movimento inizia ad affermarsi e caratterizza la modernità. Si definisce quindi secolarizzazione la
perdita del legame necessario con il trascendente, proprio della ragione umana naturale e viene
impiegato nella fondazione di idee, concetti, giustificazione dell’agire e della costruzione sociale.

Proprio perché c’è questa resa naturale delle facoltà dell’uomo, egli comincia a trovare modi per fondare
le proprie idee sulla conoscenza e sul sistema delle sue conoscenze, la giustificazione del proprio agire e
la costruzione sociale in narrazioni e concetti più generali che stanno dentro l’ambito delle sue facoltà
naturali, progressivamente rinunciando a fondare queste stesse cose attraverso il rinvio a qualcosa che
trascende questo, quindi tipicamente Dio.
Rovesciamento della prospettiva: medioevo e modernità, cioè il passaggio da una visione teocentrica,
una visione che pone Dio come creatore di tutto al centro, a una struttura di tipo antropocentrica, cioè
qualcosa che pone l’uomo e le sue facoltà naturali progressivamente al centro della fondazione e
giustificazione di idee.

Esempio: il concetto di diritto naturale (lex naturalis). Questo aveva il suo posto precisamente dentro la
costruzione della piramide delle leges nella visione tomistica. Qui non si giustificava da sé, il diritto
naturale era la compartecipazione della creatura razionale alla lex eterna, cioè quella parte della lex
eterna comprensibile alla ragione dell’uomo, diversa dalla lex divina che è quella parte rivelata nelle
sacre scritture (qui c’è il riferimento testuale). Le lex naturalis sono verità di ragione e in quanto tali sono
perfettamente coerenti e sono parte della lex eterna. In questa costruzione gerarchica la lex naturalis non
ha una sua autonomia, è lì perché c’è la lex eterna.

Cosa accade con la secolarizzazione? Ritroviamo una serie di pensatori precedenti, ma in maniera più
paradigmatica un pensatore, teologo e giurista impegnato, nel momento in cui vanno rompendosi le
strutture imperiali e nascono gli stati nazionali, nella fondazione del diritto internazionale, cioè di un
diritto che sia comune alle genti, ma che abbia una struttura razionale., Ugo Grozzio dice che la lex
naturalis o diritto naturale, che prima stava perché c’era una struttura che terminava nella lex eterna,
sarebbe ugualmente valido, proprio perché il suo fondamento è razionale, anche se per assurda ipotesi
Dio non esistesse o non si curasse degli affari umani. La lex naturalis sarebbe valida ugualmente. Ecco
cos’è la secolarizzazione, in questo caso giuridica. La lex naturalis si stacca dalla piramide delle leges e
assume un’autonomia.

Che cosa connota questa autonomia? Il fatto di essere un ente di ragione con il quale ci posso arrivare. E
così, proprio in virtù di questa struttura razionale che è comune a tutti gli uomini ma che si autofonda, a
questo punto non ha più bisogno per essere valida di rinviare all’orizzonte trascendente.
Che vantaggio da questa cosa? In un momento in cui ci sono le grandi scoperte geografiche, si scopre
l’America e delle popolazioni che hanno modi di vivere infinitamente diversi dai nostri, tanto che
qualcuno dubitava fossero uomini, essendo così diversi da noi. Questo consente, per esempio a Francisco
Vittoria di usare l’argomento per difendere queste popolazioni in quanto hanno la ragione che fa
conoscere loro il diritto naturale. Ecco a cosa serve il diritto naturale: per creare una
struttura comune che non ha bisogno del riferimento al trascendente che comincia ad essere
problematico, un po’ perché iniziano a nascere guerre di religione che cominciano a insanguinare
l’Europa, è un po’ perché c’è il fenomeno di trovare persone che sono lontanissime da questo modo di
pensare la realtà e la vita. Dunque, come le includiamo dentro la comunità umana? Attraverso il
riferimento della caratteristica della ragione.

Il vantaggio è quello di incominciare a elaborare delle categorie che sono propriamente umane e possono
prescindere da differenziazioni che cominciano ad essere controverse come per esempio la diversità di
fede e religione.
Nessun teologo direbbe che la lex naturalis si sia creata in maniera autonoma in questo momento, però
direbbe che la sua validità non ha bisogno, come dice Grozzio, di rinviare ad altro perché è evidente per
pura ragione. La lex divina non serve nel trattare questo problema e sul rapporto con le scritture inizia a
presentarsi un altro problema: lo scisma protestante.

Un esempio: Martin Lutero comincia a sostenere, e con ciò fonda il suo scisma, dicendo che il rapporto
con la lex divina e le sacre scritture deve e può essere totalmente immediato con Dio stesso, senza la
necessità di mediazione interpretativa e ricostruttiva della Chiesa come istituzione.
In questo momento nessuno sta mettendo in dubbio che il mondo sia stato creato da Dio, che Dio esiste e
che tutto si rimandi a lui. Ma di fatto si stanno creando delle categorie autonome, si sta cioè
secolarizzando.
Significa che le radici di questo sviluppo sono precedenti, ma c’è un momento in cui lo spirito del tempo è
maturo perché si manifesti la secolarizzazione in tutti i suoi sensi.

Ragione
Fare del fondamento la ragione naturale significa attribuire la capacità di fondazione, giustificazione e
costruzione sociale a quella facoltà che è sempre più intesa come un calcolo.
Ragionare è sommare e sottrarre parti, dirà Hobbes, un’elaborazione simbolica delle percezioni, un
calcolo logico, cioè conoscenza che si trae dall’esperienza ed elaborazione delle percezioni e calcolo
logico, ovvero ragionare formalmente come se stessimo trattando con i numeri. La ragione diventa
sempre di più elaborazione simbolica.
L’uomo ha anche la conoscenza dell’empirico, cioè dell’esperienza ed è su questa che si fonda la
conoscenza della natura, cioè della scienza. Diventa perciò l’elaborazione razionale della percezione
attraverso strumenti tra cui il metodo scientifico. Infatti, nel XVII secolo nasce la scienza moderna.

Secondo Galileo, l’ambito della salvezza rinvia alla dimensione metafisica e trascendente, mentre
l’ambito della rappresentazione conoscitiva a quello reale. La Bibbia si occupa del primo, la scienza del
secondo.

Anche nel medioevo l’uomo aveva una scienza conoscitiva molto sofisticata, ma credeva che conoscendo
la natura, riconosceva la creazione di Dio. La sua opera si pensa dentro questo contesto e con la
secolarizzazione comincia a rendersi autonomo anche questo ambito conoscitivo.

Evoluzione diritto
Il diritto si secolarizza, si rende autonomo e si radica nelle facoltà antropologiche dell’uomo, ed ecco i
giusnaturalisti moderni, che dicono che il diritto viene dal fatto che noi uomini siamo fatti così allo stato
naturale, con la nostra volontà fondiamo lo stato civile e le regole del giusto e dell’ingiusto.
Il medievale non l’avrebbe mai detto questo, il potere sulla terra è dato da Dio, la tua è una parte della
storia della salvezza dell’uomo che mira alla beatitudine. L’ambito della fondazione istituzionale si radica
sempre di più nelle facoltà naturali dell’uomo. Ecco cosa vuol dire contratto sociale.
Inizia un movimento di fondazioni istituzionali, per esempio la nascita dello stato secondo la narrazione
del contratto sociale. Questa cosa arriva in questo contesto perché anche dalla fondazione della realtà
istituzionale si ritiene che si possa arrivare senza il riferimento necessario all’orizzonte della trascendenza,
cioè quell’ambito di autonomia che comincia a mostrarsi in tutti i settori dell’esperienza, nella
conoscenza della natura in quanto tale nasce la scienza moderna.

Il concetto di lex naturalis è appannaggio dell’uomo in quanto tale e, per estensione, è appannaggio
dell’individuo in quanto tale. Grozzio dirà, a proposito dell’evoluzione del concetto di diritto, “il diritto è
una qualità morale della persona competente a fare o ad avere qualcosa giustamente”. Qualifica il
concetto di ius come qualità morale della persona. Il diritto si sta richiudendo dentro il soggetto. Ius, per
il romano, è una struttura oggettiva; ora, per effetto della secolarizzazione, Grozio si accorge che la lex
naturalis è appannaggio della ragione e che il concetto di ius si richiude dentro l’individuo stesso, è una
qualità morale della persona. Questo è il modello dei diritti fondamentali soggettivi. In una mentalità
oggettivistica, non ha senso parlare di diritto soggettivo, cioè proprio della persona. I diritti naturali, o
diritti umani, è qualcosa che appartiene in ragione dell’uomo in quanto tale. La parola diritto comincia ad
avere una dimensione soggettivistica: qualitas moralis.
La definizione di Grozzio è molto ambigua e ai limiti della contraddizione: ius è qualità morale della
persona competente ad avere qualcosa iuste. Ius e Iuste hanno la stessa matrice che in italiano si perde
in diritto e giustamente. Grozzio sta facendo una definizione tautologica, la ragione è perché con Grozzio
il processo non si è compiuto, ma è un esemplificatore della secolarizzazione che si sta affermando
rimane qualcosa non spiegato.
Oscillazione tra prospettiva oggettivistica (iuste, giustamente, avverbio) e prospettiva soggettivistica (ius).
L’importante è accorgersi del movimento di secolarizzazione e il richiudersi nella struttura del soggetto.
Il diritto assume connotazione soggettivistica, di diritto soggettivo parliamo ancora adesso. Es. inglesi
hanno due termini: rights (diritti), law (totalità del sistema).

Riassunto
a. Mostrato in che senso abbiamo i segni di un principio di secolarizzazione
b. Definizione di secolarizzazione e spiegazione di essa
c. Esempi: concetto di lex naturalis
d. La secolarizzazione si dà nell’ambito della formazione istituzionale. Il contratto sociale è la narrazione
che sostituisce la narrazione che faceva riferimento a una delega di potere da parte di Dio.
e. Concetto di scienza, che non è più il riscontro della creazione di Dio, ma la vera conoscenza
fenomenologica.
f. Traduzione soggettivistica del diritto che diventa diritto soggettivo.

Mentalità oggettivistiche anche ai giorni nostri ce ne sono: marxismo, collettivismo filosofico. Tu hai tutto
ciò che il tutto ti riconosce. Hengels ha una mentalità oggettivistica: diritto è insieme di norme, non
esiste diritto soggettivo, ma solo il particolare meccanismo con cui viene avviata la produzione di una
norma particolare. Diventi un meccanismo della normo-dinamico, è un modo di dire quel meccanismo
della struttura oggettiva
Quando si annulla un individuo del tutto anche chiedendone il sacrificio non concependo che il singolo
abbia una sfera che non può riconoscersi come autonoma non si riesce a capire altro che la struttura
oggettivistica.

Anche la morale si laicizza, ma meglio usare secolarizzazione perché non evidenzia il distacco dal
religioso. La morale si secolarizza, non nel senso di un ateismo ma nel senso di cercare propria
fondazione sull’autonomia delle facoltà naturali e quindi percezioni e sentimenti.
La secolarizzazione è un passaggio che non si esaurisce con il passaggio dal medioevo alla modernità.

C’è ancora nella modernità una connotazione residua di oggettivismo molto forte ed è questo: quando si
parla di facoltà di uomo si sta parlando dell’uomo in senso universale. Si parla di individuo ed è più
corretto, cioè ciò che non può essere ulteriormente diviso. Riferirsi all’uomo come individuo significa
dargli una connotazione. Quando nella modernità si pensa a un’idea di individuo universalizzato: siamo
tutti individui uguali e dotati delle stesse facoltà. C’è residuo oggettivistico perché postula il fatto che
quando parlo dell’uomo sto parlando di tutti gli uomini: principio egualitaristico.
L’uguaglianza diventa una struttura essenziale, tutti ragioniamo allo stesso modo e non si può pensare a
differenza di soggetti. Questo problema si colloca nel 1900, momenti in cui si danno alcune evoluzioni del
pensiero, ad esempio con Freud e la scoperta dell’inconscio, cioè la distruzione dell’idea universale di
soggetto in cui non si concepiva il conflitto delle idee.

La secolarizzazione è un processo che accompagna lo sviluppo della cultura occidentale che viene
collocata al passaggio tra medioevo e modernità. Ci sono ragioni per pensare che non si ferma in quel
momento, ma prosegue perché a un certo la secolarizzazione non coinvolge più solo il tema religioso, ma
anche la metafisica (natura umana che non mette in dubbio che quando penso all’uomo come individuo
penso alla totalità degli uomini, l’individuo è identico agli altri, se non lo fa è un individuo che non
funziona bene). Questo è un residuo di oggettivismo.
Avremo il passaggio tra modernità e post-modernità. La cosa che deve restare in testa è che la
secolarizzazione non si esaurisce lì, ma prosegue perché c’è ancora dell’oggettivismo.

Nell’ambiente inglese empiristico, si sviluppano le teorie del senso morale. L’uomo ha un quinto senso,
che agisce analogamente al senso estetico (che ci fa apprezzare il bello). Il senso morale ci fa approvare e
ci dirige verso il buono che coincide con una sorta di bene pubblico.
Lord Shaftesbury, morale di tipo empiristico, radica la moralità dentro una facoltà antropologica.

In tutti questi tentativi, c’è un radicare le facoltà umane in dimensioni morali.

Cartesio
Da sottolineare il fatto di pensare un individuo ma universalizzato, questo è il fondamento dei principi
egualitaristici, ma è un postulato più che qualcosa che ha una sua fondazione.
Un autore che si è avvicinato molto a criticare questa egualitarizzazione ma non ci è arrivato è Cartesio. È
molto importante anche per l’etica. Studia che cos’è il vero e come si ottiene. È mosso da un moto di
ribellione nei confronti dell’idea delle finte verità, riconosce che moltissime delle verità si potrebbero
mettere in dubbio. È un dilemma, se qualcosa è vero, non può essere dubitabile.
Prima regola del metodo di Cartesio: non accetterò nulla come vero se non ciò che mi appare
chiaramente ed evidentemente come tale. Prendo tutto quello che credo di conoscere e se sono in grado
di dubitarne ragionevolmente (non significa risolvere il dubbio) semplicemente rifiuto quella posizione
come vera.
Estende il dubbio a tutto, perfino il fatto di essere qui in questo momento con questo lume a scrivere.
Posso ipotizzare uno scenario non contradditorio (non importa se vero o falso) in cui questo sia tutto
falso, potrei essere sotto l’effetto di un genio maligno che mi fa credere cose che in realtà sono tutte
false.
Di cosa non posso dubitare? Non posso dubitare del fatto che sto dubitando, perché se lo facessi starei
ancora dubitando, affermerei ciò che credo di negare.

Dubito ergo sum, dubito e quindi sono qualcosa.

Ho ottenuto una verità chiara e distinta: sono qualcosa che pensa. Sono contento perché ho trovato una
verità prima, il percorso si chiama confutatorio, si muove finché non trova qualcosa di stabile.

L’elemento interessante è che Cartesio non fa il salto, ma fa una generalizzazione: penso dunque sono è
una verità chiara e distinta, quindi tutto quello che mi appare chiaro e distinto è vero.
C’è un salto logico indebito. Lo fa perché a lui interessa fondare la verità delle conoscenze scientifiche. Il
suo obiettivo è mostrare che le conoscenze scientifiche sono senz’altro vere e indubitabili.

Sillogismo
Riesce a costruire il sillogismo: tutto ciò che è chiaro e distinto è senz’altro vero. Come si può giustificare la
premessa del sillogismo? C’è un dio buono che non mi ingannerebbe mai sulle cose che conoscerei con la
ragione. Cartesio chiama un garante esterno del sistema, cioè Dio. Chiama un procedimento antico,
classico, che gli consente di aggredire l’universalità del soggetto. Ci mostra un residuo di oggettivismo nella
modernità nel momento in cui cerca un riparo verso Dio.

Nella visione oggettivistica, il tutto precede l’individuo. Questo è un modo con cui possiamo definire l’idea
di oggettivismo. La visione teleologica non è necessariamente oggettivistica ma diciamo che nella classicità
lo è, cioè è l’una e l’altra cosa, è sia oggettivistica e sia teleologica. Teleologica semplicemente fa
riferimento all’idea di riconoscere una finalità. Quando parliamo di un’etica teleologica parliamo in
particolare del fatto che costituisce il nucleo essenziale dell’esperienza etica a quella di perseguire il proprio
fine. Un fine riconosciuto essenziale a questo scopo. Nella classicità, come sappiamo, c’è l’idea del
raggiungimento della perfezione di se e questo implica l’idea che ci sia un movimento verso la propria vera
realizzazione: il movimento verso qualcosa che costituisce lo scopo, implica una visione teleologica.

Cartesio
Cartesio l’abbiamo preso come un caso paradigmatico della situazione tipica della modernità, in particolare
del suo essere, del suo manifestarsi come un momento culturale di secolarizzazione rispetto al medioevo,
per le ragioni di prima e per qualcosa che conserva ancora forti elementi di una metafisica da un certo
punto di vista paragonabile al medioevo (residui di oggettivismo molto forte)
Nell’idea non discussa, perché considerata non dubitabile, dell’identità di natura umana, cioè del valore
universale delle riflessioni che si fanno a partire dal concetto di individuo. Nella modernità il riferimento
all’individuo, questo spostamento dal teocentrismo all’antropocentrico porta l’attenzione nella natura
umana, e si inizia a parlare dell’individuo. L’individuo è pensato appunto dentro un’universalità, cioè
l’identità di tutti gli uomini per natura, identità radicale. Per cui non metto in discussione che ciò che mi
appare vero. Cartesio è esemplare perché da un latinizza un movimento di riflessione e critica che riprende
un moto piuttosto antico di ragionamento, che è il così detto ragionamento “elenctico”, confutatorio o
anche dialettico, più generalmente si parla di dialettico. Questo ragionamento lo porta fino ad un punto in
cui potrebbe arrivare a mettere in discussione il senso universalistico della soggettività che conosce, cioè
quella visione universalistica dell’individuo. Ma non riesce a fare quest’ulteriore passo, anzi ritorna indietro
e questo mostra esattamente che siamo ancora in piena modernità, cioè quel moto di secolarizzazione ha
travolto alcune credenze/verità. Di fatto ha posto in essere gli elementi concettuali per travolgere, arriverà
il momento in cui verrà messo in discussione l’identità di tutti con tutti, l’identità radicale. Questo avrà
profonde ripercussioni nello sviluppo della storia.

Il percorso di Cartesio, possiamo dividerlo in 3 momenti o perlomeno quella parte della riflessione di
Cartesio che ci interessa a questo scopo , cioè mostrare la sua natura paradigmatica rispetto allo statuto
della modernità per il quale c’è una secolarizzazione, ma c’è ancora una visione razionalistica, cioè la
ragione è in grado di accedere a verità definitive, è costruzione sistematica di verità e dentro questa
costruzione sistematica sta anche il ragionamento sull’uomo e sulla conoscenza della sua natura.
1. La prima regola di metodo: “non accetterò niente come vero, se non ciò che mi appaia chiaramente e
distintamente come tale”. Il presupposto è che la verità se è tale, non può essere dubitabile. Il modo
con cui evidentemente appare come tale è la sua indubitabilità. L’innegabilità è lo statuto del vero, è un
tema antico perché anche il greco si sarebbe ritrovato in quest’idea, il segno della verità è la sua
innegabilità, il suo mostrarsi e mostrandosi si mostra come innegabile. Cartesio da questo punto di
vista, in effetti inizia un percorso che ha delle origini molto antiche e lo persegue fino ad un certo punto
correttamente. Comincia a sottoporre a dubbio tutto ciò che ascriveva conoscenza. Sottoporre a
dubbio non significa risolvere il dubbio, significa vedere se una certa teoria/conoscenza/credenza è
sensatamente dubitabile, significa che ci sono delle possibili alternative. Il fatto che sia possibile
sensatamente un’alternativa implica che quella non può essere una verità e dunque non la accetterà, la
rifiuterà. È un movimento distruttivo, non è tipico solo di Cartesio, Bacone farà qualcosa di analogo
nella cosiddetta teoria degli idola, cioè il primo moto con cui l’uomo va verso la costruzione del sapere
vero e della fondazione del metodo vero, è quello di distruggere i suoi “idola”, cioè gli idoli.
C’è questo movimento distruttivo, un azzeramento delle credenze per la fondazione del nuovo sapere
fondato sul metodo scientifico, che accomuna questi pensatori. Ci sono dei dubbi ragionevoli (per
Bacone la discussione, per Cartesio ci sono dei dubbi ragionevoli) è il segno che lì non si è nella verità.
Ovviamente è assolutamente discutibile, anzi il greco avrebbe ritenuto che si stesse cominciando a
“sragionare” dicendo queste cose, ma non siamo più nella classicità, siamo nel contesto della
modernità.

Cartesio procede nella distruzione sistematicamente e così come Bacone si trova nella condizione di
annichilire praticamente tutto quello che credevo di sapere. Il movimento distruttivo da questo punto
di vista è radicale, non risparmia praticamente nulla, nemmeno l’evidenza prima. L’evidenza prima
rappresentata dalle cose che posso avere immediatissima evidenza e percezione. Se posso dubitare
perfino di questo allora vuol dire che posso davvero dubitare di tutto. Il passo poteva essere davvero
radicale, e si farà questo passo, cioè per esempio dubitare dell’esistenza delle cosiddette “altre menti”,
cosa che si sarebbe detta nel 900. Queste sensazioni le ha molto nitide anche quando sta sognando o
ancora di più quando soffre di allucinazioni. Ma se fossimo la maggior parte di noi nelle allucinazioni e
lui no, che argomento avremmo per dire che siamo noi quelli dalla parte della vera verità e non lui?

Quando arrivo a dire “penso dunque sono”, la ragione per cui arrivo a dire questo, è perché mi accorgo
che c’è una fine in questo processo di dubbio, in questo dubbio continuo/metodico/sistematico, arrivo
fino ad un punto in cui esso si spezza. Vuol dire cha accade una cosa straordinaria, che i Greci
conoscevano, e cioè che il tentativo di dubitare di qualcosa fallisce per il fatto che riafferma ciò di cui
sta dubitando. Quando arrivo in questa situazione vuol dire che non posso più dubitare di questo. Nel
caso di Cartesio questa situazione viene quando metto in dubbio il mio dubitare, e tecnicamente lo
potrei fare perché alla fine non mi resta più niente. Che cosa ho di fronte? Nemmeno la mia evidenza
fisica e le mie percezioni immediate possono resistere al dubbio, mi resta soltanto la mia attività
pensante e dubitante ma metto in dubbia anche quella perché il dubbio metodico non si ferma.

Quando faccio questo accade qualcosa di strano: mente riuscivo a dubitare sensatamente di tutto il
resto, in questo caso non riesco a dubitare per il fatto che nel momento in cui ne dubito sto ancora
dubitando, cioè sto affermando esattamente quella cosa che vorrei mettere in dubbio, e cioè questo
significa che non riesco a negare. Questo punto fa si che il procedimento dialettico confutatorio sia
finito, vuol dir che ciò che voleva negare, resiste alla negazione, dunque è innegabile, cioè è vero.
Infatti, afferma: “Ho trovato una verità”, penso dunque sono. Però ho trovato solo questa, questo è il
punto fondamentale, mi è consentito dire solo questo: “penso dunque sono”, sono qualcosa che pensa,
neanche “qualcosa”, perché “qualcosa” implica danni, dovrei dire “sono un pensante”.

Esistenzialismo
Quando nel 900 si sarà superata la modernità e saremo nella post-modernità, una delle correnti più
caratteristiche in materia morale di questo superamento sarà l’Esistenzialismo. Un movimento di pensiero
filosofico che passa attraverso moltissime rappresentazioni generali: ci sono esistenzialisti cattolici,
marxisti, atei. Il tema comune è l’introiezione nella singolarità del soggetto, cioè la mia esperienza è
incommensurabile rispetto a chiunque altro. Il tentativo di dubitare del dubbio fallisce perché sta
riaffermando un dubbio. L’attività dubitante può dubitare di tutto tranne di sé stessa, e quando lo fa sta
ancora dubitando e quindi sta riaffermando sé stessa (riaffermando ciò che voleva dubitare). Quando io
nego.
Passaggio che porta alla verità
Giunti a questo punto, Cartesio avrebbe raggiunto un punto dirompente della modernità, ma è troppo
presto, è intriso della modernità che, in realtà, avendo un obbiettivo diverso cioè quello invece di rifondare
l’universalità delle conoscenze (conoscenze scientifiche), è costretto a trovare un’altra strategia per
rifondare. Il momento caratteristico è il passaggio dal momento in cui trova la verità, cioè sono qualcosa
che dubita e non potrei dire altro perché il mio processo mi ha portato qui e solo qui, quando dice: “mi
accorgo che penso dunque sono, mi appare come una verità chiara ed evidente”, allora posso dire che
tutto ciò che mi apparirà chiaro ed evidente sarà perciò vero. Qui c’è un salto logico, è un NON SEQUITUR
in logica, perché da quella singola verità, “penso dunque sono” , che è chiara ed evidente, non ha fatto
deriva in nessun modo. La generalizzazione, l’assolutizzazione, per cui tutto ciò che è chiaro ed evidente,
con ciò è anche vero, non arriva. E lui se ne accorge, ma perché fissa questa grande premessa (“tutto ciò
che è chiaro ed evidente è anche vero”)? Perché a questo punto potrà mettere come premessa migliore di
un sillogismo ogni singola conoscenza che ottiene chiaramente da l’applicazione di un metodo rigoroso, per
concludere che dunque questa è vera, in un senso universale e assoluto. Il sillogismo diventa questo
(premessa maggiore): “tutto ciò che è chiaro ed evidente perciò stesso è anche vero”.
L’esempio è che l’esito di un certo esperimento mi appare chiaro ed evidente, dunque questo è vero, e così
questa premessa è talmente universale che copre un pò tutto, qualsiasi cosa io posso decidere di aver
raggiunto chiaramente con un metodo affidabile.

Il problema è che non deriva da quanto detto prima, e lui se ne accorge dicendo il sillogismo mi funziona
sempre: tutto quello che voglio a questo punto dichiarare vero perché chiaro ed evidente, lo posso fare
perché ho una premessa che copre tutto. Introduce l’elemento fondamentale, ha creato un sistema di
validazione universale delle conoscenze, che si muovono secondo regole di chiarezza ed evidenza che
evidentemente sono ancora da scrivere, ma che saranno quelle del metodo scientifico. Questo sistema
manca di una garanzia, perché quella prima premessa generalissima non deriva da quello che ha fatto
prima.

Qui introduce l’elemento di garanzia. È un passo indietro, addirittura guarda un medioevo secolarizzato,
cioè invoca di nuovo l’idea di un Dio benevolo che non può ingannarmi. Se mi ha dotato della ragione per
riconoscere ciò che è chiaro ed evidente come vero, questo è senz’altro vero, non posso concepire che Dio
mi inganni. Quando sta facendo questo, ha ormai abbandonato tutto il percorso del dubbio metodico (ha
preso una sala, è salito e poi ha buttato via la scala, rimanendo appeso a qualcos’altro). Cartesio è un
esempio, un paradigma, della modernità che fa lo sforzo di staccarsi dal Medioevo e in riesce, visto che
secolarizza moltissimi concetti. Anche questo Dio che invoca Cartesio, ormai è secolarizzato, perché ha
un’unica funzione di garantire le conoscenze che poi mette dentro col suo metodo scientifico. Un pò
convalida tutto, lo chiama Dio ma in realtà è una struttura ormai profondamente secolarizzata, è un
postulato della ragione che mi garantisce tutto il sistema. Proseguendo sarà tolto e ne verranno messi altri:
postulato di continuità della natura (per salvare l’induzione).
Cartesio ci mostra: una modernità che si secolarizza ma non è ancora forte abbastanza da secolarizzare i
suoi stessi presupposti metafisici, che sono il concetto di natura umana e l’idea universale della conoscenza
razionale. La modernità è individualistica oltre che Antropocentrica, cioè l’attenzione è all’individuo prima
del tutto, ma razionalistica, cioè attribuisce alla ragiona le capacità di conoscenza ancora universale, che
non è vera, che poi verrà a sua volta secolarizzato.

Domanda: Cosa significa per Cartesio essere vero, se è vero ciò che è evidente e viceversa, allora sono fatti
equivalenti?
Risposta: a Cartesio interessa costruire, o meglio, offrire un sistema di garanzie e conoscenze universali
relativamente a conoscenze specifiche che sono in particolare le conoscenze scientifiche. È per questo che
fa quello che fa, ed è per questo che si serve del concetto di evidenza. La ragione per cui sente il bisogno di
farlo è evidentemente che qualcosa si era rotto rispetto le garanzie che venivano dalla modernità, ma
questo non lo sente solo lui: è il clima che è cambiato, che ricerca una fondazione delle cose perché quella
medievale non è più credibile in un mondo in cui si autonomizza la ragione. Quando dice “vero è ciò che è
evidente, e viceversa”, in realtà lui è come se definisse la verità universale laddove quello che gli interessa
sono delle verità particolari. Gli interessa che valgano per tutti, perché nella modernità non può che valere
per tutti e questo è il punto che continuo a sottolineare e vorrei che lo capiste bene: perché per tutti deve
essere vero, perché tutti dobbiamo pensare la stessa cosa se siamo tutti razionali. Questo ha tratto la
modernità.

Hume
è un filosofo che per molti versi ha contribuito a far prendere la piega che la cultura occidentale ha preso.
Da Kant si arriva all’idealismo, dall’idealismo si arriva al Marxismo, e dalla reazione all’idealismo si arriva
all’Esistenzialismo. Kant scrive quello che scrive perché dice lui:” sono stato svegliato dai sogni dogmatici
proprio dalla lettura di David Hume”. Ad un certo punto si è accorto che David Hume ha spezzato qualcosa.
A noi interessa solo l’aspetto relativo alla evoluzione del pensiero morale. Su questo di Hume si parla
ancora oggi, addirittura, si parla che a Hume sarebbe imputabile una legge: la cosiddetta “Legge di Hume”.

Hume scrive un trattato sulla natura umana


prima parte del passo.

“Consideriamo un’azione ritenuta viziosa: l’omicidio premeditato, per esempio. Esaminiamolo da tutti i
punti di vista e vediamo se possiamo trovarvi quel dato di fatto, o esistenza reale, che chiamiamo vizio. In
qualunque modo lo consideriate troverete soltanto certe passioni, motivi, volizioni e pensieri. In questo caso
non c'è alcun altro dato di fatto. Finché considerate l'oggetto, il vizio sfuggirà del tutto. E non potrete
ritrovarlo, finché non rivolgerete le vostre riflessioni nel vostro stesso cuore, dove scoprirete un sentimento
di disapprovazione sorto verso questa azione. Qui abbiamo un dato di fatto; che però è oggetto del
sentimento, e non della ragione. Alberga nel nostro io, non nell'oggetto. Così, quando dichiarate viziosi
un'azione o un carattere, non intendete altro se non che vuoi provato un senso o un sentimento di biasimo,
nel contemplare la costituzione della vostra natura. […]”
è importante perché colloca il luogo della moralità nel sentimento, e non nella ragione, non nelle cose e
non nelle azioni; non è una proprietà oggettiva delle azioni. In qualsiasi modo troverete soltanto passioni,
motivi, volizioni e pensieri. Non c’è alcun dato di fatto, niente di empirico, alla fine troverete un sentimento
di disapprovazione: chiami vizio qualcosa che disapprovi. Questo sentimento è un dato di fatto che è
oggetto dei sentimenti e non ella ragione. In questo senso c’è lo spostamento della valutazione morale che
non è più riducibile ad asserzioni su fatti empirici, la morale è qualcosa che è più sentita che giudicata,
diventa una questione di sentimento. Quando scrive (1700), cominciamo ad andare verso la crisi della
Modernità, potremmo trarre molte conseguenze dal fatto di collocare la morale al di fuori della sfera della
ragione per collocarla dentro il sentimento. Il passo successivo sarebbe quello della soggettivizzazione fino
in fondo del giudizio morale, perché oltre che basata non più nella ragione, e assumiamo che la ragione sia
universalizzabile, gli togliamo evidentemente l’universalizzabilità, e la collochiamo in qualcosa che può
essere intesa in un senso che può essere fortemente singolare e personale. Esempio di un moto che sta
andando verso la rottura del residuo oggettivistico della Modernità. Hume fa ancora di più e, poche righe
dopo, lancia una bomba ancora più potente nei confronti della morale fino a quel momento. Fino a quel
momento la morale, nella modernità, è sistematica ed espressione del razionalismo. La morale vuole
essere completa, vuole essere precettiva e arriva Hume in questa forma qui:

“In ogni sistema morale che ho finora incontrato, ho sempre trovato che l'autore procede per un po' nel
consueto modo di ragionare, e afferma l'esistenza di Dio o di esprimere riguardo alle questioni umane; e poi
improvvisamente trovo una certa sorpresa che, invece dell'abituali copule è e non è incontro soltanto
proposizioni connesse con un deve, o non deve. Questo cambiamento è impercettibile, ma è comunque
molto importante. Infatti, dato che questo deve, o non deve, esprimere una certa nuova relazione o
affermazione, È necessario che siano osservati e spiegati; e allo stesso tempo è necessario spiegare ciò che
sembra del tutto inconcepibile, ossia che questa nuova relazione possa costruire una deduzione da altre
relazioni completamente diverse. Ma siccome gli autori di solito non usano questa precauzione, mi
permetto di raccomandarlo elettori; E sono persuaso che questa piccola attenzione stravolgerà tutti i
comuni sistemi morali, e scopriremo che la distinzione di vizi e virtù non si fonda sulla semplice relazione tra
oggetti, e non viene percepita dalla ragione.” (D. Hume, Trattato sulla natura umana, Bompiani, pp. 927-
929)

Inizialmente sembra prendere molto alla leggera quello che fa, e poi mostra le conseguenze serie. Io, ogni
volta che leggo un sistema morale, (come dicevamo, la morale nei suoi tempi è fatta di sistemi per le
ragioni che dicevamo prima), ho sempre trovato che l’autore procede un po’ nel consueto modo di
ragionare: afferma l’esistenza di Dio, si esprime riguardo le questioni umane. Afferma l’esistenza di Dio,
dice che la natura umana è così, la natura umana è colà, l’uomo per natura è fatto così, l’uomo per natura è
fatto colà. Improvvisamente trovo una certa sorpresa, che invece delle abituali copule è e non è, incontro
soltanto delle preposizioni connesse con un deve o non deve.

Inizialmente questi trattati cominciano a dire “questa cosa è così, questa cosa è colà, l'uomo è fatto così,
l’uomo è fatto colà, la società è fatta così, la società è fatta colà...” quindi c’è una continua ripetizione di “è,
è, è”, affermazioni sul piano dell’essere. Poi a un certo punto, improvvisamente non dicono più questa
cosa e iniziano a dire “dunque si deve fare questo, si deve fare quello”.

Questo cambiamento è impercettibile, ma è molto importante. Infatti, dato che questo “deve o non deve”
esprime una nuova relazione, è necessario che questa sia osservata e spiegata. “Deve essere o non deve
essere”, “devi fare o non devi fare”, rispetto a “essere o non devi essere”, sembrano esprimere relazioni
diverse: un conto è il piano dell’essere, un conto è il piano del dover essere, il piano del dover essere è
diverso dal piano dell’essere. Questo passaggio dovrebbe essere osservato e spiegato

Nei trattati morali ci sono delle parti che utilizzano delle relazioni fondamentali di tipo diverso tra loro, una
prima parte che utilizza delle relazioni sul piano dell’essere, e poi un cambiamento impercettibile delle
relazioni sul piano del dover essere (parte precettistica). Dice “queste due relazioni sono diverse, e
andrebbero spiegate e com'è che dall’uno si passa all’altro. Gli autori di solito non usano questa
precauzione e non spiegano come c’è questo cambio di relazione. “mi permetto di raccomandarla ai lettori,
e sono persuaso che questa piccola attenzione stravolgerà tutti i comuni sistemi morali”, sta dicendo: se
prendete tutti i nostri trattati di morale e vi chiedete “ma com’è possibile, che cos’è che rende la
precettistica derivata con cogenza logica, da tutta la prima parte in cui si rappresenta com’è il mondo e
com’è l’uomo”, se ti fai questa domanda ti accorgerai che stravolgerà tutti i comuni sistemi morali, cioè
sostanzialmente li mostrerà come infondati, in cui tutta la parte precettistica in realtà si trova senza
fondamento, “e scopriremo che la distinzione di vizio e virtù non si fonda sulla semplice relazione tra
oggetti (cioè il piano dell’essere), e non viene percepita dalla ragione”.

Legge di Hume
La legge di Hume affermerebbe che non è possibile derivare il dover essere dall’essere e, viceversa,
l’essere dal dover essere; cioè che esiste una grande divisione tra essere e dover essere, non colmabile con
mezzi logici. “Cioè che sembra del tutto inconcepibile, cioè che questa nuova relazione possa costituire una
deduzione da altre relazioni completamente diverse”, qui afferma la grande divisione tra il mondo
dell’essere e il mondo del dover essere, e l’inderivabilitá tra l’uno e l’altro e viceversa.
Significa che tutti i trattati di morale si possono buttare via perché anche se fosse vero che la natura umana
è fatta non potrebbe derivarsi l’altra parte di questa trattatistica, che trascrive tutta una serie di minuti
doveri che chiama doveri morali.

In realtà ce n’è un più ampio uso della legge di Hume sul piano logico. La versione linguistica dice che non è
possibile derivare proposizioni di tipo prescrittivo da proposizioni o insiemi dì proposizioni di tipo
totalmente descrittivo, cioè da un insieme di proposizioni descrittive, non è possibile derivare prescrizioni e
viceversa.

La legge è un argomento ancora oggi utilizzato nella diatriba tra giuspositivisti e giusnaturalisti:

- Giusnaturalisti: hanno una tesi sul diritto, cioè la tesi secondo il quale il diritto ha una componente
essenziale, non preferibile e non alterabile di diritto naturale, su cui si insiste poi il diritto cosiddetto
positivo o il diritto posto da un legislatore, con l’assunzione che questo secondo deve rispettare sempre
il primo e non può violarlo. Il diritto naturale ha una componente di tipo prescrittivo, ma per il
giusnaturalista essenziale, cioè derivata dalla natura dell’uomo.

- Giuspositivismo: difende invece come unica definizione del diritto, posto da un’autorità legittima, non
attribuisce natura giuridica al diritto naturale, accusando il giusnaturalismo di violare la legge di Hume,
cioè fosse anche possibile descrivere la natura umana, cioè fare quello che si dice qua, “esprimere
riguardo le questioni umane”, ammesso che sia possibile fare questa cosa, normalmente il
giuspositivista non crede che sia possibile una descrizione per essenza della natura umana perché non
crede che ci sia qualcosa come un’essenza della natura umana, ma anche se fosse possibile, non
sarebbe legittimo inferire delle prescrizioni da questa cosa qua. Ammesso che fosse possibile una
descrizione oggettiva dei valori morali, non sarebbe possibile derivare alcuna prescrizione specifica, lo
impedirebbe la legge di Hume.

Questa legge ha avuto un’importanza enorme non solo nella morale ma anche nel diritto, perlomeno tutte
quelle volte in cui la morale e il diritto in qualche modo vengono portati a confronto e si discute di come sia
possibile e in che termini dare una connotazione morale al diritto.

Kant insegna una critica della ragion pure, scrive la critica della ragion pratica, la prima è dedicata al
conoscere, la seconda all’azione. Il moto intellettuale di Kant viene fatto partire proprio da una presa sul
serio della capacità dirompente di Hume. Kant aveva capito perfettamente che con questo passo di fatto la
modernità stava per essere superata un’altra volta, perlomeno superata dal punto di vista della ragion
pratica, cioè della riflessione sulla prassi, dell’agire morale non tanto ancora dal punto di vista della
conoscenza razionale, perché la critica che muove Hume va più verso la sfera morale che non la
conoscibilità, la fiducia sulla capacità conoscitiva della ragione permane anche il trattato darà una bella
scossa.

L’Universalità dei principi dell’agire morale, per Kant sarà semplicemente data da una postulazione,
dovremo postulare, la ragione morale esiste e va come suo riferimento dei grandi postulati di cui non è
possibile offrire conoscenza.
Questo ci porta a un superamento della modernità e cioè verso la soggettivizzazione della morale.
L’elemento caratteristico della fine della modernità sarà la rottura degli universalismi, anche la fede nella
capacità della ragione di conoscere verità assolute e universali, che ovviamente aggraverà la situazione del
soggetto, il quale si troverà a un certo punto di fronte a una condizione di rottura della fiducia nelle sue
capacità di costruire verità universali dal punto di vista conoscitivo e verità universali dal punto di vista
morale e questo determinerà il superamento della modernità.

Riassunto
Collocare la morale fuori dall’ambito della ragione e metterla dentro l’ambito del sentimento, costituisce un
passo decisivo verso l’idea di fare della morale qualcosa che ha fondamento solo nell’intimità del singolo
soggetto (soggettivizzazione della morale), e dunque il passaggio dall’etica oggettivistica all’etica
soggettivistica, cioè che trova il suo fondamento nelle caratteristiche/decisioni/sentimenti del singolo
soggetto. Hume quindi diventa fondamentale perché compie questo passo, cioè con la legge di Hume toglie
la razionalità nella fondazione dei giudizi morali e la colloca nel sentimento.
Il tema della legge di Hume è ancora pesante però dicevo oggi si è meno trascinati rispetto a un tempo, un
tempo bastava dire a taluno che violava la legge di Hume. La violazione della legge di Hume, viene
chiamato, più in passato che oggi, “fallacia naturalistica”. Essa sarebbe l’errore consistente nel fatto di
violare la grande divisione, cioè far derivare l’essere dal dover essere e viceversa. Si dice che il
giuspositivista accusa il giusnaturalista di fallacia naturalistica, cioè di violare la legge di Hume.

Nella legge di Hume ci sono varie declinazioni:

1. Istanza minima della legge di Hume, è accolta universalmente, per altro è un’ovvietà che risale fino al
pensiero greco. L’istanza minima sarebbe quella di non inferire immediatamente dalla mera
rappresentazione di un fatto bruto il suo valore morale, cioè il fatto che accada qualcosa di per sé non
dice ancora nulla del suo valore morale. Il fatto ad esempio che ci sia una convinzione diffusa ancora
non dice niente sul valore morale di quella convinzione. Questa è sottoposta cioè a criteri e strutture
argomentativo differenti. In questa forma, che chiamiamo forma minima della legge di Hume, essa è
accolta universalmente: dal mero fatto di qualcosa non si inferisce immediatamente il valore morale di
qualche cosa.

Ovviamente questo può avere tante applicazioni per esempio l’idea, il mero potere di fatto di fare
qualcosa, non significa necessariamente che si debba fare quella cosa. Potremo anche attualizzare in
molti discorsi sulla tecnologia, perché spesso sembra che ci sia una sorta di fallacia naturalistica, il
mero poter fare qualcosa sembra essere vissuto oggi come una sorta di prescrizione a dover perseguire
quella cosa. Riprendere la cautela di Hume è dire “insomma teniamo indistinti e perlomeno chiediamo
giustificazioni ulteriori, chiediamo perché se possiamo fare certe cose qualcuno vive questo come
anche il fatto che si debbano fare.

anche per molti filosofici analitici che normalmente si ispirano alla legge di Hume, la consuetudine
come fonte del diritto è totalmente svalutata, la mera ripetizione di un fatto, non implica in nessun
modo la sua doverosità, infatti la consuetudine è una fonte che questo tipo di dottrina svaluta
completamente. O c’è una norma che attribuisce agli usi o alla consuetudine un valore giuridico oppure
semplicemente dovrebbe essere. Ci sono molte perplessità sul modo in cui noi rappresentiamo il
concetto tradizionale di consuetudine, di solito come caratterizzata da due elementi cioè la
“gioturnitas”, cioè la ripetizione di un comportamento e l’”opinio iuris at necesitatem”, cioè la
convinzione di stare adempiendo di fatto a un dovere giuridico o necessario.

Questa rappresentazione è strana perché la mera ripetizione non costituisce di per sé ragione per dire
dunque che è doveroso e se la ragione è l’opinio iuris o c’è una norma che rende quel comportamento
doveroso (quindi non è più una opinio iuris ma una qualificazione giuridica) ma se non c’è vuol dire che
l’opinio è sbagliata, è un errore. Quindi la consuetudine è qualcosa che cadrebbe sotto la falce della
legge di Hume, il fatto che tutti ripetano un comportamento non dice niente sul suo valore, e allora o
presupponiamo una proposizione prescrittiva, ma se inseriamo implicitamente una premessa
normativa, per esempio che tutto ciò che la gente ripete nella convinzione che sia giuridico, deve
diventare regola per tutti, se supponiamo questa premessa prescrittiva implicita, allora possiamo
tranne la doverosità ma in realtà appunto dobbiamo presupporre questa premessa implicita, ma non
stiamo violando la legge di Hume perché abbiamo introdotto una premessa prescrittiva all’interno di
un sistema che non è soltanto descrittivo. Normalmente i filosofi analitici svalutano la consuetudine in
sé come fonte del diritto.

2. Istanza massimalista della legge di Hume proibisce ogni possibilità di un discorso sul dover essere con
riferimento alla costruzione della fattualità dei fatti e oggi è perlopiù abbandonata, cioè si ritiene che in
realtà non possa essere fatto un discorso sulla doverosità, non doverosità, a partire da certi stati di
cose, ma questo chiede degli oneri di giustificazione, non sia cioè un limite alle capacità della ragione,
non è come diceva Hume impossibile a concepirsi, dipende da tante cose, ad esempio dal modo con cui
concepiamo il fatto in se.

Esempio: passaggio da un manuale recente di filosofia del diritto


“È verissimo che dalla proposizione ‘A va a casa’ non si può dedurre, senza ricorrere a una premessa
normativa, che A deve andare a casa; l’esempio però è rilevante solo se si accetta di ragionare in una
prospettiva caratterizzata da un radicale riduzionismo. ‘A va a casa’ infatti, è una proposizione che
descrive un frammento di esperienza, è un flash surreale, che del reale mi fa capire ben poco, che dal
quale effettivamente non posso dedurre alcunché di normativo, ma proprio per questo non si può dire
che sia davvero descrittiva di un fatto la proposizione ‘A va a casa’, per esserlo essa dovrebbe dirci
qualcosa di non frammentario ma di inquadrato cioè nell’insieme dei fatti che compongono il reale, dal
frammento dovremmo pur poter ricostruire almeno in parte l’intero che lo comprende. Se per esempio
per A intendiamo lo scolaro A e diamo alla sua azione di andare una dimensione cronologica, ad
esempio ‘A va a casa quando è finita la scuola’ comincia a profilarsi come plausibile la proposizione ‘A
deve andare a casa quando è finita la scuola’, le successive integrazioni di esperienza, non normative
ma fattuali, possono cioè aiutarci a dare senso a un evento che altrimenti, visto in una dimensione
assolutamente frammentaria, apparirebbe del tutto incapace di fondare un dovere.
L’autore Francesco D’Agostino sta dicendo: quando noi rappresentiamo la realtà, la descriviamo in
realtà spesso la connotiamo oltre che rappresentarla, cioè per noi la realtà sì offre già, specialmente se
utilizziamo un linguaggio ordinario, sostanzialmente in una commistione di descrizione e prescrizione.
Si potrebbe essere anche un po’ più radicali; per esempio lui dice diamo una connotazione di chi è A,
cioè continuiamo a descrivere il fatto in modo che sia più comprensibile e scopriamo che se per
esempio A ha una certa natura, cioè è un certo tipo di soggetto, potrebbe essere plausibile la
derivazione di una qualche doverosità. Ma potremmo addirittura vedere direttamente un discorso sui
significati dei termini cioè andare a casa, quando noi diciamo “vado a casa”, spesso sto già
implicitamente affermando qualcosa, spesso uso questa espressione senza altri chiarimenti e sto
intendendo casa mia e allora una serie di doverosità possono diventare legittime dentro semplicemente
questo modo di esprimersi.
Se vado a casa di qualcun altro normalmente specifico, dico “sto andando a casa di”, se dico soltanto
“sto andando a casa” il nostro uso linguistico, che poi connota i significati che utilizziamo, rende
comprensibile/significante/riconoscibile questa mia espressione, nel senso che vado a casa mia, e già
questo è sufficiente per innescare come plausibili, certamente non necessari, ma neanche illogici.

Questa era l’istanza massimalista, l’idea dell’illogicità assoluta di mescolare discorsi normativi e
prescrittivi; i confini del fatto, ciò che è fatto, non sono stabiliti a priori, ma sono del modo in cui noi lo
rappresentiamo evidentemente, dove inizia e dove finisce un fatto.

Il fatto dipende da che confini poniamo noi nel momento in cui lo rappresentiamo. Nel rappresentarlo
lo stiamo effettivamente oggettivando alla conoscenza, lo stiamo descrivendo, ma tanto più lo
rendiamo comprensibile, tanto più questo si riempirà di connessioni plausibili con un aspetto di
doverosità.

Esempio: un’affermazione che spesso ha suscitato discussioni in letteratura giuridica è questa: “tizio è
un guerriero dunque tizio deve essere coraggioso”, l’istanza massimalista della legge di Hume dice
“questo discorso non si può fare” perché dà un’informazione sull’essere non puoi derivare
un’informazione sul dover essere. Qualcuno potrebbe obbiettare, ma è nell’essenza del guerriero
quella di essere coraggioso, nel senso che non possono immaginare un guerriere vile, cioè che fugga di
fronte a una battaglia, posso immaginarmelo ma a quel punto toglierei la caratterizzazione da
guerriero, cioè quando arriva ad essere questo non è più un guerriero, è fuori da ciò che lo condotta
come guerriero. Finché sta dentro al suo essere guerriero devo ammettere che abbia una certa
caratteristica essenziale. Nel momento in cui dico che deve avere quella caratterizza essenziale, non
sto che ripetendo la definizione in quel caso di guerriero, cioè se nego quella doverosità, non riconosco
più il guerriero evidentemente, avrò qualcos’altro, avrò un ex guerriero, avrò uno che fu un guerriero
perché se uno non trattiene quella caratteristica essenziale, allora molto spesso la doverosità è nel
modo stesso in cui noi definiamo qualcosa, ne ritagliamo i confini in modo tale che fuori dai confini
quella cosa la perdiamo. Dire di un guerriero che non deve essere per definizione coraggioso,
ovviamente mi rende confuso, non sono più in grado di capire cosa voglia dire essere un guerriero.
Allora dire “tizio è un guerriero” non è più una violazione della legge di Hume evidentemente, è
qualcosa che tocca la definizione, la caratteristica essenziale.

D’Agostino
parla di caratteristiche essenziali e usa un argomento: “quando diciamo ‘un guerriero deve essere
valoroso’, ciò non significa che noi o qualsiasi altro desideri o voglia ordini o richieda che un guerriero sia
valoroso, si potrebbe piuttosto pensare che in generale e cioè, in rapporto ad ogni guerriero, un desiderio o
una richiesta di questo genere sia giustificata ma anche una simile interpretazione non è del tutto esatta,
dal momento che non è affatto necessario far intervenire qui l’apprezzamento di un desiderio o di una
richiesta. ‘Un guerriero deve essere valoroso’ piuttosto, significa soltanto che un guerriero valoroso è un
buon guerriero, proprio perché questo giudizio di valore è valido, ha ragione chiunque richieda a un
guerriero di essere valoroso per lo stesso motivo, è cosa lodevole e degna che egli lo sia.” Questo
argomento ricorda l’etica greca. Nel momento in cui facciamo questioni di essenze, cioè di qualcosa che è
tale solo quando è pienamente qualcosa, usiamo un modo di argomentare che mette insieme l’essere e il
dover essere in maniera non necessariamente irragionevole. Fa ritornare in mente l’etica greca, che era
teleologica e in effetti il professore D’Agostino ha una visione della natura di tipo teleologico, ripresa da
Tommaso, che a sua volta la riprende leggendo Aristotele.

Esempio: qualcuno potrebbe dire “la tizia è madre di Caio, tizia deve accudire Caio”, qualcuno potrebbe
dire “no” dal fatto che se è madre non deriva il dovere di accudire Caio, qualcun altro potrebbe dire
“dipende come definisci madre”, se definisci madre come semplicemente colei che fisicamente genera, la
cosa finisce la; ma se definisci madre invece in un senso che non è meramente biologico, allora potresti
anche concepire l’idea di una doverosità connessa al fatto semplice di essere madre. La questione è
appunto come rappresentiamo l’essere proprio di quella caratteristica lì, di quel soggetto (guerriero,
madre...), perché molto spesso in questa rappresentazione implichiamo anche una potenzialità di
doverosità, così io mi aspetto dal buon studente che studi e se dico “lo studente deve studiare”, non sto
dicendo altro che come deve essere un buon studente. Tutto questo per dire che Hume ha generato un
enorme impatto nello sviluppo del pensiero morale, questo impatto è anche il “la” che viene dato a un
ulteriore movimento di secolarizzazione. Hume agirà così anche sul tema della conoscenza, ma a noi
interessa l’aspetto morale. Prima o poi questa idea di soggetto universale della modernità si spezzerà e
Hume è quello che da un calcio significativo, comincia a crepare nella solidità di questa cultura, prima o poi
la morale diventerà fortemente soggettivistica, relativo al singolo individuo, alla sua situazione specifica e
così la fondazione della morale diventerà questione di scelte individuali. Qui abbiamo un’eccezione di etica
e di morale del tutto introspettiva e soggettiva. In questo contesto la legge di Hume è stata estremamente
importante perché l’idea di negare la derivazione del dover essere dalla conoscenza di qualcosa ha
accentuato questo elemento, ovvero quello di richiudere la morale dentro le scelte individuali. Un modo
con cui oggi si riesce da questo è facendo leva sulla condivisione delle strutture comunicative, dentro le
quali stanno appunto la condivisione di rappresentazioni della realtà in un modo che, non esclude, ma
implica invece la legittimità di strutture di dovere.

La legge di Hume
non è esattamente come noi immaginiamo una legge fisica o scientifica, sta scritta in quel passo che
abbiamo letto, da lì gli interpreti hanno tratto un principio generale che ha avuto una temperie in cui è
stato estremamente sopravvalutato, realizzandosi l’istanza massimalista della legge di Hume. Ciò significa
che non solo che l’ambito dell’essere e del dovere essere, inteso anche in un senso minimale, cioè che
sono due funzioni del linguaggio e della comunicazione distinte. Questo in senso banale, talmente tanto
che, a ciò che si riduce l’istanza minima della legge di Hume, quando si prescrive si intende fare certe cose
primariamente e quando si descrive se ne intende fare altre. Dalla rappresentazione dell’esistenza di
qualcosa non si può immediatamente attribuirvi un valore.
L’istanza minima ci ricorda questa banalità che però è importante, perché significa che se voglio arrivare
alla conclusione che un’esistenza ha valore devo riempire il gap con delle argomentazioni. Ammette
questa possibilità, cioè ammette che io possa costruire dei discorsi in cui, opportunamente strutturando
un’argomentazione, posso anche arrivare a questa conclusione. Devo fare un lavoro concettuale e
argomentativo per collegare i due.

Vi erano situazioni che Hume denunciava nel passo (“quando leggo i manuali di morale del mio tempo mi
accorgo che questi moralisti che scrivono hanno stile: prima scrivono questa cosa è così, la natura umana
è così… poi senza ulteriori giustificazioni cambiano registro e cominciano a dare la precettistica: si deve
fare questo, quello… ma come si ricava ciò?”). Sosteneva che molta di quella precettistica non valesse
niente, perché non fondata sulla parte che è strutturata dai giudizi d’esistenza. L’istanza minima
riconosce questo punto: quando tu vuoi darmi un dover essere, che sia quello che sia, non puoi
semplicemente giustappormi un giudizio d’esistenza come sufficiente giustificazione.

Esempio: Si dà un’infezione diffusa chiamata Corona Virus, allora il giorno di Natale non puoi uscire dal
tuo comune. Questa è una fallacia naturalistica, c’è un grande punto di domanda tra la prima asserzione e
la seconda. C’è qualcosa che non funziona in questo collegamento. Il primo è un giudizio d’esistenza,
descrittivo. La seconda ha bisogno di essere giustificata, non è sufficiente l’invocazione del mero primo
giudizio d’esistenza per ritenerla fondata. Non si argomenta in questo modo, si discute sulle ragioni, se
sono sensate, se corrispondono a certi valori condivisi... per esempio un giudizio d’uguaglianza, una critica
molto diffusa è che se vivi a Roma il divieto vale “meno”, se vivi in un comune più piccolo, la tua libertà di
movimento è molto diversa. Si solleva un problema di eguaglianza, la compatibilità rispetto ad un valore
che assumiamo condiviso. Facendo così sto costruendo un’argomentazione.

Il fatto che ci sia quel salto logico implica, secondo l’istanza minima della legge di Hume, che quel salto sia
colmabile. Infatti, oggi si ammette la possibilità di argomentare che quella doverosità è o non è
giustificata, ma ovviamente bisognerà fornire ragioni. Il nostro discorso non potrà essere limitato a quelle
due proposizioni ma dovrà strutturarsi in un argomento complesso. Non sono obbligato ad accettare
l’argomentazione, però se non lo accetto dovrò fornire altre differenti ragioni.

I due livelli importanti da capire sono:


- La fallacia naturalistica
- La struttura di giustificazione

Quel gap tra essere e dover essere non va inteso in senso assoluto, cioè come assoluta illogicità (ed ecco
l’istanza massimalista) di ogni discorso per cui dal punto di vista razionale quelle due affermazioni non si
incontreranno mai, non c’è possibilità di discussione razionale nell’ambito del dover essere. Oggi invece si
è in grado di costruire argomenti razionali, aperti alla condivisione. È un impegno argomentativo,
mantenere una struttura serrata di argomentazione non è facilissimo perché ci sono tanti possibili
problemi collegati e perché chi parla con me potrebbe aprire altri fronti di discussione. L’argomentazione
comporta l’impegno di energie razionali e di presupposti per esempio morali. L’argomentazione
potrebbe prendere un’altra piega a seconda del contesto discorsivo.

Giuspositivisti
Chi si oppone al giusnaturalismo con la legge di Hume sono i giuspositivisti. Non in quanto teorici del
diritto che asseriscono essere diritto solo il diritto positivo (cioè l’abolizione particolare di un’autorità
legittima), ma perché spesso il giuspositivista arriva a questa posizione sul diritto partendo da una
posizione etica più generale che adotta la legge di Hume e che si chiama cognitivismo etico. Il
giuspositivista raggiunge le teorie giuridiche perché sul piano morale adotta una versione della grande
divisione. Per lui una cosa sono i giudizi di fatto che hanno una struttura cognitiva, un’altra i giudizi
prescrittivi e per quelli, in ultima istanza c’è un atto di decisione umana. I miei valori, quelli che poi io
declino nelle doverosità con cui guido il mio comportamento, alla fine in ultima istanza hanno una
decisione individuale su cosa è bene per me e questo non può mai essere esportato fuori di me agli altri.
Siccome tutti noi abbiamo posizioni diverse o possiamo averle, e non sono risolvibili in ultima istanza
razionalisticamente perché non sono giudizi di fatto, il diritto deve essere limitato a quelle che sono
oggettivamente per tutti posizioni poste da un terzo riconosciuto come un’autorità legittima. È meglio
l’arbitrio di uno che di tutti. Non possiamo essere lasciati ciascuno a muoverci secondo le nostre proprie
doverosità finali perché finiremo nella guerra di tutti contro tutti, come Hobbes diceva. Il giuspositivista
allora usa la legge di Hume per attaccare il giusnaturalista perché commette la fallacia naturalistica
perché ritiene di trarre dalla rappresentazione della natura delle doverosità. C'è il positivista più radicale
che dirà commetti fallacia naturalistica perché derivi direttamente da una descrizione della natura, per
esempio, la natura umana delle doverosità.

Esempio: La madre deve accudire il figlio secondo natura, perché è nella natura dell’essere umano, quindi
doversi prendere cura dei figli. Il giuspositivista direbbe no, è viziata da fallacia naturalistica, dal fatto di
essere madre non deriva necessariamente quella doverosità. Se la fai derivare devi giustificare e se non
hai una giustificazione è perché implicitamente hai inserito una normativa che mi stai nascondendo Cioè
“tutte le madri hanno il dovere di prendersi in cura qualcuno”, potrei rifiutarla. Siccome il giusnaturalista
sostiene che esiste un nucleo di norme giuridiche che sono giuridiche anche se non riconosciute dal
legislatore. Il giuspositivista accusa Il giusnaturalismo di star effettuando fallacia naturalistica, usa la
legge di Hume contro il giusnaturalista dicendo “dal tuo concetto di natura trai delle norme giuridiche” e
questo viola la legge di Hume.

Ed ecco perché il giuspositivista non può essere giusnaturalista: perché per lui dalla descrizione della
rappresentazione di una natura quale che sia non deriva immediatamente la doverosità di qualcosa.
Queste questioni hanno molti temi come, ad esempio, l'obiezione di coscienza.
Il giusnaturalista dirà che dalla dignità dell'uomo derivano certe doverosità per cui il legislatore che
tentasse di violarle ti legittima ad opporti perché è diritto naturale. Oggi direbbe, è giusto che se ripugna
la tua coscienza tu ti opponga. È giusto in un senso giuridico, non in senso morale, quando gli attribuisce
un senso giuridico anche se non sta scritto dal legislatore sta muovendo un argomento giusnaturalista.
Allora il giuspositivismo dirà no non è giusto in senso giuridico sarà giusto in senso morale. Di fondo c'è
questo avvalorare la legge di Hume. Il giusnaturalista ovviamente ha una concezione meno incidente del
giuspositivista perché è vero che per lui la natura è normativa. Ma un po' per le etiche oggettivistiche
antiche la natura è normativa, infatti, il concetto di Lex naturalis è tipicamente medievale.
Ettore deve essere coraggioso, non se può, se vuole. Deve perché è nella sua natura, che non si realizza in
nell’attualità ma lo proietta verso un destino e è regola per lui, dunque normativo.
Ecco perché Ettore può dire non mi importa che il diritto mi consenta di riscattare questo omicidio, per lui
questo discorso è contraddittorio perché ha in mente una doverosità che impone quello di perseguire la
propria natura.

Esempio: i giapponesi hanno un senso di onore molto forte e in certe parti dell'Oriente addirittura
rivolgersi verso un giudice è un disonore. Per loro andare in causa è un disonore perché ci sono delle
doverosità più importanti che non la bega burocratica davanti agli organi istituzionali.

A fondo di ogni posizione c'è un’immagine della natura diversa.


Il giuspositivista ha un’immagine della natura come statica, un insieme di meccanismi di fronte ai suoi
occhi che non hanno nessun finalismo di per sé.
Per il giusnaturalista la natura è finalistica. Hanno come riferimento il pensiero medievale. Vedono una
continuità su questo punto per il fatto che il pensiero medievale tomistico si ispira ai testi che di Aristotele
si recuperavano e si studiavano e riprende l'aristotelismo (trova molti di questi concetti). C'è una parte
che è una matrice addirittura religiosa. Esiste un giusnaturalismo cattolico/cristiano in cui questo si
connota anche nelle categorie della teologia cattolica.

Un tempo accusare qualcuno di fallacia naturalistica automaticamente lo squalificava dal discorso, oggi si
ammette la possibilità dell’argomentazione razionale. E dunque l'indagine sui i presupposti. Queste cose
hanno a che fare con le descrizioni e prescrizioni. Quando abbiamo dato quei riferimenti già ci
collocavano alla fine di questa storia e quindi dicevo attenti che ogni prescrizione presuppone
un'immagine del mondo come sensata e ogni descrizione presuppone una serie di prescrizioni. In un certo
modo per poter vedere il mondo in quel modo lì. E queste cose non sono scontate, il fatto che nella
comunicazione ordinaria i soggetti che appartengono alla stessa cultura hanno più o meno la stessa
educazione, questi fenomeni immediati e sostanzialmente non troppo problematici ci fanno dimenticare
quanto in realtà sia un atto complesso quello della descrizione. È sufficiente una cultura diversa e già ci
sono un sacco di problemi perché necessità della traduzione linguistica ricarica ciascuno di significati che
non hai detto che siano condivisi.

Esempio: le categorie con cui guardiamo al mondo, gli eschimesi hanno un sacco di parole per dire la neve
perché la vedono in ogni forma possibile. Noi ne abbiamo uno e allora se dobbiamo parlare tra noi e loro,
la descrizione si carica di connotazione che noi perdiamo nella traduzione. Si tratta di vedere fino a che
punto realizziamo la comunicazione con i mezzi che abbiamo. Inoltre, molti dei nostri termini descrittivi
sono carichi dal punto di vista valoriale, sono già pregiudicati moralmente. Su questo i giornali sono
maestri quando ti riportano un fatto già con delle connotazioni di valore: “l'investitore si è schiantato a
grande velocità sul pedone”, lo schiantarsi sta già caricando di una connotazione negativa l’argomento. È
una descrizione ma non è neutrale e si innestano giochi psicologici.
L'atto comunicativo è complesso, l'ambiguità dell'informazione quando sta tra informazione e
propaganda sfrutta moltissimo questa cosa. Ora i giornali rappresentano con le connotazioni già
immischiate cariche di valore, quindi è una continua fallacia della legge di Hume.

Si può collegare un futuro in cui la giustizia è gestita dagli algoritmi?


Si si può collegare ma in un senso problematico, intanto questo incide della narrazione che stiamo
facendo dell'innovazione tecnologica e questo è il punto importante della parte del Corso: quello di
veicolare l'idea che il discorso morale non è mai isolato a sé stesso rispetto ad una visione nel mondo.
Qual è la fairness dell’algoritmo? a quale visione del mondo rimandi? L’etica è la parte importante. Se voi
sentite parlare di queste cose, rarissimamente troverete un approfondimento che va fino in fondo, al
senso dei valori che vanno indicati perché sono valori, perché sono valori morali di un altro tipo e quale
idea di uomo e di vita felice esiste? Ce l'ha in testa quello che dice, ma non te lo dice perché pensa tu
l'abbia in testa come la sua. Questa fa dell'ethics un'etica non in senso filosofico ma un'etica in senso della
posizione. Magari tra 15 anni rideremo sulle questioni dell'etica degli algoritmi che facciamo oggi su cui
facciamo convegni a tutto spiano perché ci accorgeremo che nella storia del pensiero, questa hype su
questi discorsi scalfisce a malapena la problematicità del problema.
Incide moltissimo intanto nella narrazione, poi incide in un secondo momento: nella costruzione delle
carte etiche come, ad esempio, la carta etica sull'intelligenza artificiale.

Se hai un approccio oggettivistico all’etica per cui l'etica è qualcosa che si vede oggettivamente nel mondo
e che in qualche modo mi determina verso esso, allora trascrivo queste doverosità nel mondo, però
potrebbe esserci un problema di fallacia naturalistica, ad esempio, perché se tu hai una visione
soggettivistica dell'etica, allora l’idea stessa della carta etica è una boiata, chiami etica una raccolta di
standard e ci mettiamo d'accordo su degli standard condivisi. chiamiamo etica e non diritto perché se
entrasse in un atto normativo sarebbe diritto, però non vuole avere unificato normativa quindi chiamiamo
etica di tipo normativo, però è una convenzione su standard.
È importante perché incrocia una nostra inclinazione culturale che è quella della prescrittività generale,
noi affrontiamo i problemi sempre scrivendo regole generali. Quando abbiamo un problema a livello
normativo scriviamo una carta che vuole essere su un livello normativo più alto, quando abbiamo
problemi su quel livello normativo la scriviamo sul livello normativo più alto. Più andiamo su di livelli
normativi più dobbiamo generalizzare, e la ragione per cui generalizziamo è che più generalizziamo più
possiamo andare d'accordo. Ovviamente più svuotiamo di contenuti, e noi, per una nostra inclinazione
culturale, reagiamo così problemi. Prima c'era la legge e non c'era la Costituzione rigida, poi la legge ha
iniziato a creare problemi (totalitarismo), allora cosa abbiamo fatto, abbiamo introdotto un livello
normativo superiore: le Costituzioni rigide. Questa ha creato altri problemi in questo livello e quindi
abbiamo creato i principi supremi dell’ordinamento. Poi abbiamo pensato che questo nazionalismo possa
essere un problema, quindi abbiamo inventato le carte internazionali dei diritti. Noi proiettiamo sempre
più su ma sempre con l'idea di fare una legislazione generale. Quest’idea viene dal Medioevo: la lex
eterna: è ancora quella secolarizzata.
Noi ragioniamo ancora così, abbiamo cambiato i riferimenti ultimi ma ragioniamo ancora così.
È la stessa cosa facciamo dal punto di vista etico: scriviamo carte. Vorrei che cominciasse a sospettare che
scrivere una carta etica per un'applicazione particolare non è un problema morale, è un problema
tecnico.
Ti do il framework entro cui tu agisci realizzando: ti do lo standard ritenuto accettabile per qualche
ragione, perché lo recepisce qualche istituzione E così tu hai il framework dove sei più tranquillo ad
applicare. ma questa non è né etica né morale. Usa la parola etica per esprimere quella parte della
tecnica che usa uno standard generale per potersi muovere più liberamente.

differenza tra giusnaturalismo come l’abbiamo visto quando affrontavamo le definizioni di diritto e il
giuspositivismo secondo cui il diritto è solo quello positivo creato dal legislatore?
La differenza sostanziale è che il giusrealismo colloca la determinazione del diritto nel punto in cui la
decisione modifica la realtà cioè nella giurisprudenza, non tanto nella produzione di testi normativi. La
ragione è che la produzione di un testo normativo non modifica effettivamente la realtà ma invece è
laddove si riscontra empiricamente che una decisione modifica una parte della realtà e questa è la
decisione giudiziale. Poi condividono molte cose, entrambi sono contro i giusrealisti

Riassunto Cartesio
Si è mostrato un esempio di un punto critico della modernità che però non si sviluppa fino alla critica
comprensiva. e come l’abbiamo visto? Attraverso il suo movimento dialettico nella prima parte che
arriverà su “penso dunque sono” e sul fatto che non trae le conseguenze possibili da questo e invece
cambia il senso del discorso fino a creare un problema logico nella sua preposizione cercando invece di
ricollocare la ragione dentro un’idea sistematica comprensiva e di validazione della conoscenza scientifica
che era il vero motivo per cui si muoveva. E questo ci mostra un Cartesio che è collocato totalmente nella
modernità anche se la prima parte del suo discorso avrebbe portato forse a vedere gli aspetti critici di
questa parte di universale ragione degli aspetti critici del mondo. Cartesio si pone una questione di verità;
che cosa è vero? Vero deve essere qualcosa che non ammette opposizioni e dubbi; se posso dubitare di
qualcosa, per il fatto che posso formulare un dubbio sensato, vuol dire che quella cosa non è certa e
quindi non può essere vera. “Non accetterò nulla per vero se non ciò che mi appare chiaramente e
distintamente come tale” (prima regola). Mi è sufficiente poter sollevare un dubbio ragionevole; non mi
interessa risolvere il dubbio, se una cosa è dubitabile per questo motivo non può essere vera, perché il
vero è chiaro ed evidente, cioè indubitabile.
Ora prendo tutto ciò che credo di conoscere, che fa quindi parte del mio sapere e verifico se conosco
qualcosa di vero, perché il mio obbiettivo è di trovare una prima verità. Facendo così mi accorgo però che
in realtà tutto quello che conosco crolla perché non è in grado di soddisfare quel criterio di verità che mi
sono dato, perché posso formulare dubbi ragionevoli di tutto: delle mie conoscenze empiriche, per fino
del mio essere qui in questo momento che sto parlando con voi; in effetti potrei immaginare uno scenario
non contraddittorio in cui tutto questo non è vero. Potrei avere delle allucinazioni o semplicemente
sognare e credere che quello che vedo sia reale. Posso quindi immaginare degli scenari idonei a mettere
in dubbio perfino la verità di queste che sembrano evidenze prime. Questo tanto basta per farmele
rifiutare come verità.
L’unica ragione che abbiamo per credere alle cose che sappiamo è che qualcun altro ci ha detto che sono
vere. Tutto questo risulta essere un elemento distruttivo per le conoscenze, però non è infinito; c’è un
punto nel quale sbatte contro qualcosa, cioè questo dubbio ad un certo punto si spezza, c’è qualcosa
rispetto al quale il dubbio non si formula perché il tentativo di formularlo riafferma la stessa attività del
dubitare, che si mostra quindi non dubitabile. Puoi dubitare del contenuto di ciò che stai pensando, ma
non dell’attività del pensare dubitando, perché se dubiti del dubitare stai ancora dubitando e quindi stai
riaffermando ciò che vorresti negare. Il meccanismo per il quale tu arrivi ad affermare ciò che vorresti
negare, porta al fatto che non puoi negare quel pensiero, perché il tentativo di negarlo si spezza. Per
negarlo sono costretto a riammetterlo; quando arrivo a questo punto vuol dire che non posso più negare
sensatamente. Ho quindi ottenuto una prima verità perché ho raggiunto qualcosa di indubitabile, però
questa prima verità mi dice solo una cosa, ovvero che tu pensi e dubiti. Cartesio disse “Sono una cosa che
pensa”, più che altro dovrebbe dire sono un pensante e non una cosa; penso quindi sono. Questa è una
certezza ed una prima verità, che però non mi permette di validare tutte le conoscenze scientifiche, bensì
rimangono condannate nella non verità. Con questa sua teoria Cartesio ha messo una generale premessa,
con cui poi può giustificare tutte le singole conoscenze che attraverso metodi opportuni gli sembrano
chiare ed evidenti. Questa grande premessa gli serve per parare le conseguenze distruttive di quello che
aveva fatto prima, che a questo punto viene completamente messo da parte e verrà ripreso anni dopo.
Perfino Cartesio alla fine si tira indietro perché vive nella modernità e lui stesso è intriso di quel clima
culturale.
“Ognuno sta solo sul cuor della terra
Trafitto da un raggio di sole
Ed è subito sera”

È la rappresentazione in poesia del clima culturale che si innesca quando si spezzano quelle certezze
nell’oggettività e nell’università, che sono rassicuranti, perché se io mi appoggio a credenze universali,
queste mi rassicurano. Se so, che dopo la morte ho un certo destino, la morte mi fa meno paura, se so che
le mie conoscenze sono quelle vere per tutti, so che posso organizzare la mia vita in un modo che non
troverà grossi ostacoli negli altri. Se so che le morali sono universali, so che ciò che è giusto per me, è
giusto anche per te, quindi di fronte al male ho delle categorie in cui metterlo per contenerlo. Tutto ciò mi
rassicura perché mi dice che non sono io malvagio, perché so che cosa è vero e giusto.

E se invece tutto questo non fosse, tu che garanzia hai di essere buono? Il clima che si instaura è
esistenzialistico, dove il tuo destino non è stato scritto prima e ti ritrovi quindi in una condizione in cui
non c’è più uno stato di necessità che ti obbliga a certi comportamenti, ad un destino, ma sei in uno stato
di possibilità; sta a te disegnare il tuo progetto dentro il quale si gioca la possibilità della vita autentica:
sei tu progetto di te stesso e puoi fallire. Accettare questa condizione di possibilità, significa accettare la
tua specifica situazione e la possibilità di essere in un’esistenza autentica.
Tutto questo genera una struttura di morale totalmente soggettivistica, il ripiegarsi totalmente su di sé.
La fine delle grandi narrazioni, la rottura dell’oggettività universale in tutti i campi (conoscenza, morale
fede), la perdita del riferimento all’idea di necessità e l’introduzione del tema della possibilità.

In questo periodo ci sono tre figure di riferimento: Marx, Nietzsche e Freud con le cui opere si vanno a
sgretolare ciascuno dei punti caratteristici della narrazione della modernità;

Freud
intacca l’idea della soggettività universale (la parte della coscienza che credi che governi te stesso, non è
nient’altro che un increspatura superficiale, rispetto ad una struttura molto più importante della tua
determinazione e molto più profonda di cui non sei coscienza).

Marx
dirà che le oggettività che ci circondano, tra cui il diritto e la morale, non sono che l’effetto superficiale di
forze che in realtà le determinano e che sono nate dal conflitto sociale; si strutturano in quel modo
perché sono l’espressione di una lotta di classe in cui una classe domina sull’altra e rafforza sé stessa,
dandosi quelle strutture che spaccia per oggettive (nasconde la violenza dello scontro sociale). Pensa che
il diritto sia transitorio; esiste perché conserva strutture di potere, ma dopo la rivoluzione, con l’avvento
della società senza classi, il diritto si estingue.

Nietzsche
criticherà quella parte della cultura del suo tempo molto simile alla nostra, in cui affianco alla fiducia nel
progresso indefinito delle realizzazioni tecnico-scientifiche, si sviluppa un diffuso senso morale di
umanitarismo diffuso. Critica tutto questo nella sua opera “Umano troppo umano”, mostrando come in
realtà sotto questa immagine di valori umanitaristi stanno in realtà valori fortemente egoistici. Invece in
“Verità e menzogna in senso extra morale” critica l’idea della conoscenza scientifica come qualcosa di
sempre falso perché sempre riferito a standardizzazioni, concettualizzazioni, usi linguistici che si
consolidano perché si esprimono sul dominio dei simboli (danno a me uno strumento per parlare di una
cosa). Poiché la scienza ha la capacità di staccarsi dalla realtà attraverso strutture simboliche, che non
sono mai la verità della cosa, ma che potrebbero essere altrimenti, ma che si consolidano attraverso
forme di relazione convenzionale che impongono alcuni usi a scapito degli altri, in realtà sono sempre
forme metaforiche con cui parliamo del mondo.

Con tre percorsi diversi si rompe l’oggettività della morale, l’idea di un soggetto identico per tutti, le
strutture sociali e la garanzia della conoscenza universale. La fiducia nel progresso dell’uomo finirà con la
Prima Guerra Mondiale (fine della modernità che porta al Post moderno).

Fiducia nella scienza finisce con le due guerre mondiali (bomba atomica). L’uomo che esce da queste
esperienze è profondamente distrutto dal punto di vista economico-sociale ma anche morale. La fiducia
nel progresso si è mostrata nel suo volto peggiore. La bomba atomica si è rivelata abominevole a livello
sociale. Dalla caduta del muro qualcosa è cambiato soprattutto nella mentalità europea. Il Novecento
post-bellico è caratterizzano dal vivere nel mezzo tra le due potenze nucleari USA e URSS.

Freud, fondatore della psicoanalisi, proclamò la crisi dell’uomo comune. Marx e i marxisti (considerati
traditori) creano un pensiero nuovo.

Prima sensazione di un applicazione della tecnica nella quotidianità si manifesta in maniere negativa,
come la bomba atomica. Si è percepito che potesse avere effetti universali, trasformare la quotidianità.
L’uomo si sente in una condizione d’abbandono e precarietà. L’uomo non si sente più perfetto e lo si nota
anche dalla letteratura.
Il progresso ci rimanda ad un’idea di migliore, quello che fai oggi sarà utile in futuro. È un’idea di
rassicurazione per l’uomo.

La bomba atomica ha dei significati importanti:


- Dubbio nella scienza e progresso
- Nuovo assetto geopolitico
- Perdita dell’umanità
- Limiti dell’uomo
- Egoismo e violenza
- Ambiguità della verità delle istituzioni

L’immagine dell’uomo sta nelle sue produzioni. Infrastrutture cambiano (“alveari”), socialità e
quotidianità vengono rivoluzionate. L’uomo ha la capacità di umanizzare, proietta l’immagine di sé nelle
cose

Approccio oggettivistico all’etica sotto una forma con delle novità, ancora presenti nel discorso odierno.

Matrix: ammette che esiste una verità oggettiva che tuttavia è fuori dal mondo, l’uomo però non è capace
di “uscire”, non può uscire la coscienza e non esiste un morpfeus che mi tira fuori. Questa realtà sarà
fittizia ma non ho modo di verificarlo perché non ho modo di uscire dalla mia coscienza. Ciò che mi si
mostra in modo oggettivo in questa narrazione non sarà oggettivo in senso assoluto ma a me appare così
e non ho modo di verificarlo al di fuori. È vero per noi, non in maniera assoluta.

Distinzione etica soggettivistica e antropocentrica


Sono due concetti che hanno scopi e funzioni diverse. Classificazione che si usano per le teorie
- Soggettivistica: si oppone all’etica oggettivistica (un tutto che mi precede)
- Antropocentrica: si oppone alle etichette non antropocentriche. Al suo centro c’è l’agire dell’uomo o
che realizza sé stesso (virtù classiche) o che realizza la salvezza (pensiero medioevale). Il focus è l’uomo
in quanto specie, è protagonista centrale dell’esperienza etica.

Alcuni approcci ritengono che l’etica non debba essere orientata sull’uomo, ma dovrebbero essere
orientate su colui che subisce. Quindi non più necessariamente l’uomo come protagonista. Il riferimento
culturale significativo è ambientalismo. Una struttura etica innovativa perché suggerisce di cambiare il
punto di vista, orientato verso la vittima/paziente (colui che subisce le conseguenze di un’azione di un
agente).
Bentham in un libro 1823, cambierà il punto di vista, la domanda non è più se possono ragionare o parlare
ma se possono soffrire. Già un principio non antropocentrico. Punto di riferimento quando si parla diritti
degli animali. Rights non è più un fondamento che spetta solo alla specie umana, ma a tutte le specie
capaci di soffrire. Gli animali dovrebbero avere dei propri diritti. Oggi le leggi contro la violenza sugli
animali non deriva dalla violazione di loro diritti, ma in funzione di cosa rappresentano gli animali per gli
uomini. Gli animalisti più convinti ritengono che gli animali debbano avere diritti, comunque inferiori agli
uomini, ma in relazione al fatto che possano soffrire anche loro

Due correnti d’ambientalismo sviluppate soprattutto negli anni ’70:

- Ecologia superficiale: lotta contro l’inquinamento, spreco delle risorse con una funzione
antropocentrica. Il fine è creare meno danni all’uomo e più vantaggi.

- Ecologia profonda: ha delle pretese più radicali (autore di riferimento: Naess). Introduce il tema
dell’egualitarismo biosferico, l’uomo non è un nodo privilegiato della struttura vivente e è come tutti
gli altri nodi, non è più importante degli altri. Si introduce una pensiero non antropocentrico. Rottura
della visione antropocentrica, cioè soggetto agente in senso morale (umano o non) che a seconda delle
possibilità si faccia carico delle conseguenze che le sue azioni producono.
Diversità: tratto della biosfera
Simbiosi: vivere insieme, cioè l’idea che l’essere in questa rete si caratterizzi da collegamenti paritari
È un etica oggettivistica non antropocentrica, un tutto che precede i singoli nodi

L’etica ottocentesca è oggettivistica e antropocentrica, atteggiamenti di dominio sulla natura, non ci si


pone il problema della simbiosi e del dolore

Etica dell’informazione: Floridi ha sviluppato il concetto con un certo dettaglio, parla di ambientalismo
digitale e quindi ha una visione non antropocentrica. L’etica umana subisce l’evoluzione tecnologica. Le
ICT stanno creando un nuovo ambiente dove le future generazione vivranno. Condivideremo lo spazio
anche con agenti artificiali in una totalità che non potrà più essere chiamata biosfera, ci serve una
connotazione più ampia (un concetto più elementare della vita è l’informazione).
Infosfera: include anche elementi che non sono viventi (agenti artificiali), biosfera + artefatti + inforg
(tutto ciò che è pensabile).

Etica di ambientalismo digitale: sta sviluppando le teorie dell’etiche ambientaliste.

Informazione: assume molti significati, esiste una teoria formale dell’informazione. Floridi intende
qualsiasi cosa si possa descrivere e comunicare, un contenuto di significato con il quale veicolo le
informazioni che comunico. Nel campo filosofico l’informazione è l’essere.

A questo punto si potrebbe parlare di diritti soggettivi delle macchine. Idea di diritti post-umani, cioè
l’umano non è l’unico elemento che ha diritti. Come base comune del concetto l’informazione.
Potrebbero esserci artefatti addirittura in grado di difendersi e tutelarsi (antivirus, autovelox)

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