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Lezione I

NOZIONE DI FONTI DEL DIRITTO

Come sappiamo il diritto serve a regolare la società; ciò che lo produce sono le cosiddette fonti del diritto
ovvero gli atti o i fatti abilitanti dall’ordinamento a produrre norme giuridiche, come per esempio le regole
del costume, della religione, della morale, cioè tutte quelle regole che in un modo influenzano la nostra
vita. Per il giurista diviene fondamentale distinguere le norme giuridiche da quelle norme che, invece, non
possono essere definite tali. Nel tempo si è cercato di distinguere le norme giuridiche tramite
l’individuazione di una serie di caratteristiche della norma giuridica; si ritiene che la norma giuridica sia

-GENERALE= perché si rivolge a destinatari indeterminati e regola categorie di fatti o di comportamenti


senza fare riferimento a singole situazioni o soggetti determinanti;

-ASTRATTA= in quanto le sue previsioni sono suscettibili di indefinita ripetibilità ed applicabilità ai casi
concreti;

-INNOVATIVA= perché è idonea a modificare l’ordinamento giuridico preesistente ;

-CORCIBILE= in quanto può essere imposta con la forza legittima tramite l’applicazione di una sanzione
prevista in caso di trasgressione;

-AZIONABILE= perché la sua applicazione può essere chiesta in giudizio ;

-ETERONOMA= cioè posta in essere da soggetti diversi dai suoi destinatari, distinguendosi ad esempio dal
contratto che è una regola autonoma posta dagli stessi destinatari.

Inoltre, le norme giuridiche sono scritte cioè formulate in testi ufficiali, resi pubblici.
E’ pur vero che anche altri ordinamenti oltre a quello statale sono composti da norme con le caratteristiche
elencante, quindi come si fa a distinguere quindi quelle giuridiche? Con l’imputabilità = l’Individuazione di
chi è il soggetto che l’ha emanata.

Ad esempio se la regola è stata emanata da una federazione sportiva non può essere considerata regola
giuridica statale, se invece è stata emanata dal Parlamento allora possiamo considerarla una regola
giuridica statale.

Dunque la norma è giuridica se l’ordinamento che l’ha emanata è giuridico. Possiamo affermare che la
regola giudica è una regola organizzata che opera all’interno di un insieme di altre regole; sono regole
giuridiche tutte quelle regole che nascono all’interno di modelli organizzati in ordinamenti giuridici e
provengono dallo stato.

Si è in presenza di un ordinamento giuridico quando abbiamo tre elementi:

-LA PLURISOGGETTIVITA’ (più individui);


-LA NORMAZIONE (regole di comportamento);
-L’ORGANIZZAZIONE (regole di funzionamento dell’insieme del modello).

Nello Stato coesistono una serie di ordinamenti anch’essi giuridici, ma soltanto lo Stato pone regole
giuridiche statali. Esistono una serie di tipologie degli ordinamenti che affiancano lo Stato, come,
ordinamenti sub-statali e para-statali cioè che operano all’interno dello stato affiancandosi ad esso; si tratta
delle regioni, province, comuni… Poi abbiamo gli ordinamenti anti-statali ovvero quelli che cercano di
sovvertire lo Stato, come per esempio la mafia o la camorra.
La norma giuridica deve essere interpretata COME? facendo una prima distinzione tra la norma e la
disposizione contenuta in essa.

La norma è la disposizione interpretata, ovvero è il significato di una disposizione.


La disposizione è l’enunciato minimo che ha un senso compiuto, ecco perché in un'unica norma possiamo
avere più disposizioni (contenuti all’interno della norma)

Le disposizioni possono essere:

- univoche: quando hanno un solo significato normativo


- polisense: più significati normativi, questi possono essere compatibili oppure incompatibili.

Una norma può anche nascere dal combinato disposto di più disposizioni.

Nel diritto è anche molto importante l’interpretazione cioè l’attività mediante la quale possiamo
comprendere il significato della disposizione astratta inserita nella norma e applicarla al caso concreto.
L’interpretazione può essere:

- interpretazione letterale-> quando l’interprete tiene conto del solo significato grammaticale delle
parole secondo la loro connessione sintattica. Non va oltre ciò che vedo scritto
- l’intenzione del legislatore-> non come volontà del singolo (legislatore) ma come elemento
oggettivo: nel senso che il significato della norma è sempre correlato allo scopo, alla finalità, alla
funzione per cui quella norma è stata emanata.
- Ne esistono comunque altre anche dal punto di vista soggettivo (ovvero chi sta interpretando)
possiamo distinguere l’interpretazione giudiziale (fatta dai giudici) dottrinale (dai giuristi) ufficiale
(operata dall’amministrazione) autentica (fatta dallo stesso autore della norma)

Nei casi di interpretazione dubbie o difformi, invece, i giudici dovevano rivolgersi al legislatore mediante il
“Refere legislatif”, e questa impostazione avrà gran rigore nei regimi totalitari.

LE FONTI
Come già abbiamo detto le fonti sono gli atti o i fatti che producono norme giuridiche. Partendo dalla loro
definizione ricaviamo due elementi:

- L’eterogeneità: fatti (es. consuetudine) e atti normativi (es. leggi)

- la produzione: non tutti gli atti o le fonti sono fonti del diritto, ma solo quelli che producono norme
giuridiche, essendo identificati come idonei a produrre diritto.

Nell’enorme categorie dei fatti e degli atti esistono atti e fatti giuridicamente non rilevanti, un fatto
giuridicamente irrilevante è un accadimento naturale come per esempio il susseguirsi delle stagioni. In
alcuni casi però, anche gli atti o i fatti normalmente non rilevanti possono assumente un rilievo giuridico,
diventando così giuridicamente rilevanti, come per esempio un terremoto che causa danni e per ripianare
interviene lo stato.

Esistono poi atti giuridici normativi distinti da quelli non normativi. Quest’ultimi possono diventare
normativi solo se lo vuole lo stato: quando diventano normativi producono il diritto. Si ha dunque un atto
normativo quando l’ordinamento attribuisce l’idoneità normativa, intesa come la possibilità di produrre
norme. Un atto è normativo quando è caratterizzato da 3 elementi:

- Il soggetto competente
- Il procedimento tipico
- L’atto volontario scritto
Un esempio è la legge, atto volontario scritto, attribuito ad un soggetto competente (il parlamento),
secondo un procedimento tipico nelle se linee essenziali dagli art 71-74 cost.

Nell’ambito delle fonti noi abbiamo tre categorie:

Le fonti di produzione (perché producono diritto) e si distinguono in:

- Fonti-atto = che sono le manifestazioni di volontà espresse o dallo stato o da un altro organo
legittimato dalla costituzione e generalmente inserite in un testo normativo (fonti scritte)
- Fonti-fatto = che sono i comportamenti oggettivi (es: consuetudine) che producono norme
giuridiche e che sono fonti non scritte

Le fonti di cognizione: atti scritti formati da pubbliche autorità che hanno il fine di portare a conoscenza il
diritto (gazzetta ufficiale)

Le fonti sulla produzione: norme che disciplinano come deve essere prodotto il diritto

Ci sono due tipologie di criteri per individuare le fonti dell’ordinamento italiano: formali e sostanziali.
I criteri formali sono essenzialmente due = 1) l’esistenza di un elencazione delle fonti che però può essere
insufficiente perché non contiene nell’elenco stesso l’atto (es. art1 disp.di att. del cod. civ. che nell’elenco
delle fonti del diritto non contempla la costituzione come fonte) 2) norme di riconoscimento, norme che
danno il potere normativo ad ogni singola fonte che vengono considerate tali di volta in volta in base
all’interpretazione del giurista. Sono numerose le norme di riconoscimento all’interno della costituzione
queste hanno un valore primario, mentre quelle che si trovano nelle leggi o comunque in fonti secondarie e
queste norme hanno un valore ordinario.

Però come faccio a riconoscere che la consuetudine e l’uso sono una fonte? -> perché esistono delle norme
di riconoscimento ordinarie che me lo dicono es.Art8 del codice civile.

La norma che riconosce la costituzione come fonte primaria va individuata nella 15esima disposizione
transitoria e finale della costituzione: ”Con l’entrata in vigore della Costituzione si ha per convertito in legge
il decreto legislativo luogotenenziale del 25 giugno 1944 num151 sull’ordinamento provvisorio dello stato”.
In questo decreto è importante l’articolo 1 dove si legge “ dopo la liberazione del territorio nazionale le
forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano che al tal fine eleggerà , a suffragio universale diretto e
segreto , un assemblea costituente (parlamento) per deliberare la nuova Costituzione dello stato”.

Criterio sostanziale: lo utilizzo se quello formale non è sufficiente. Infatti se quell’atto ha le caratteristiche
dell’astrattezza, generalità e innovatività allora capisco che è una fonte (è un’analisi più dettagliata nel caso
quella formale non mi bastasse)

Le conseguenze dell’essere fonti di diritto giuridico sono:

1) Soltanto per violazione delle norme di diritto oggettivo è ammesso ricorso alla Cassazione (è un
organo giurisdizionale)
2) Le fonti del diritto sono esenti dall’onere della prova, in quanto le si presume conosciute dal giudice
3) Le fonti del diritto vengono interpretate secondo criteri propri (in maniera oggettiva)
4) Solo la violazione del diritto da luogo all’antigiuridicità; ad esempio il furto è antigiuridico perché il
diritto prevede che, qualora venga manifestato un comportamento che integri gli estremi del furto,
ne segua una determinata sanzione.
Lezione II

LA COSTITUZIONE E LE LEGGI COSTITUZIONALI

La Costituzione è la legge fondamentale dello stato, infatti rappresenta il patto sociale tra il popolo e le
istituzioni. La prima costituzione italiana è lo Statuto Albertino, concessa da Carlo Alberto nel marzo del
1848 per il regno di Sardegna, divenne poi costituzione del regno d’italia il 17 marzo 1861. La natura
flessibile della Costituzione gli consentì di restare formalmente in vita per quasi 100 anni, indifferente alle
profonde modificazioni di fatto della norma di Stato di governo (il regime fascista che metterà poi da parte
lo stesso statuto).

Alla caduta del regime e alla fine della guerra con il decreto legislativo luogotenenziale del 25 giugno (lo
abbiamo già citato in precedenza) si voterà il referendum istituzionale e si eleggerà l’assemblea
costituente. -> Vittoria della Repubblica sulla Monarchia (dal 25 giugno 1946 inizieranno i lavori per
approvare la nuova Costituzione)

Lo statuto Albertino però resta comunque utile per capire come si sia evoluto lo Stato italiano.

Caratteristiche dello statuto:

- era una carta breve (84 articoli)


- impostazione paternalistica =poneva una forma di monarchia costituzionale con al centro la figura
del re
- non parlava mai di cittadini, ma soltanto di sudditi (eguali davanti alla legge)
- sistema bicamerale anche se il re partecipava direttamente alla formazione delle leggi con il potere
di sanzione e nominava l’intero Senato, solo la camera dei deputati si votava tramite un suffragio
limitato però ai maschi aventi almeno 25 anni alfabetizzati ecc
- le cariche di deputato e senatore erano gratuite
- veniva imposta la religione di Stato e gli altri culti erano tollerati solo se erano conformi alle leggi
- il governo era nominato dal re
- la magistratura era qualificata come ordine ed era amministrata in nome del re

Possiamo avere diversi significati di Costituzione:


-La prima è quella di Costituzione in senso storico-istituzionale; tale nozione fa riferimento alla cosiddetta
lotta per la costituzione, sviluppatasi alla fine del ‘700 per ottenere un testo normativo scritto che limitasse
il potere del sovrano. La Costituzione è simbolo della liberazione dall’assolutismo perché ha rappresentato
l’atto che ha sottomesso anche lo Stato alla legge fondamentale, facendo in modo che la sovranità
appartenesse al diritto e non ad un uomo; ciò ha segnato il passaggio da Stato assoluto a Stato di diritto.
Con le Costituzioni nasce lo Stato moderno, fondato sul patto sociale fondamentale.
Gli elementi che devono essere presenti in una Costituzione sono: un elenco dei diritti dei cittadini e i
principi di organizzazione e divisione del potere. Un esempio l’art.16 della dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino del 1791 afferma che “ogni società nella quale la garanzia dei diritti non è
assicurata, nè la separazione dei poteri fissata, non ha una costituzione”.
-Da questo si evince il secondo significato di Costituzione ovvero la Costituzione sostanziale, che indica
l’essenza, la sostanza delle materie che devono essere contenute in una Costituzione; essa custodisce i
caratteri fondamentali di un ordinamento cioè i diritti e doveri dei cittadini e regole sull’organizzazione del
potere.
-Il terzo significato è più generale ed è quello di Costituzione in senso logico-giuridico. La Costituzione è la
base di un ordinamento, in quanto individua i caratteri fondamentali e rende “valido” tale ordinamento.
Una Costituzione può ritenersi valida quando viene emanata secondo procedure regolari e condivise e
rinviene la sua norma di riconoscimento in un atto che la legittima.
Ci sono poi due significati di Costituzione collegati al diritto positivo;
-il primo è quello di Costituzione come legge fondamentale dello Stato ossia quel documento, quell’atto in
cui sono sanciti determinati principi, questo è il significato formale della costituzione che si colloca in
posizione superiore su tutto l’ordinamento. Ma non sempre una costituzione formale vale (statuto
Albertino)
- costituzione in senso materiale

La scissione tra costituzione formale e costituzione materiale pone la questione di come eliminare la
distanza tra i due piani: o si modifica la costituzione formale per adeguarla a quella vivente (materiale) o si
riportano i comportamenti distorsivi della costruzione materiale al testo formale.

La Costituzione Italiana (1948) presente due caratteri fondamentali:

- Primarietà= fonte principale dell’ordinamento e tutte le altre fonti del diritto devono essere
conformi ad essa, pena l’invalidità (art134 costituzione. disciplina le competenze della corte
costituzionale e le assegna il giudizio)
- Rigidità= non può essere cambiata da una legge ordinaria, ma esige un procedimento di riforma
particolare (procedimento contenuto nell’art138*)

Dal punto di vista contenutistico si ritiene che la Costituzione italiana abbia 3 anime

-i partiti liberali (art41 secondo cui l’iniziativa economica privata è libera)

-l’area cattolica (art7 rapporti con Chiesa cattolica proclamata indipendente e sovrana)

- il gruppo comunista socialista (art1 la Rep. è fondata sul lavoro, art3 sull’eguaglianza sostanziale cioè
impegno Stato a rendere uguali i cittadini)

* Procedimento di revisione costituzionale: La costituzione italiana può essere modificata secondo il


procedimento previsto dall’articolo 138 della costituzione ed entro precisi limiti.

L’articolo 138 pone una differenza tra:

- leggi di revisione della costituzione= possono modificare la costituzione

- le ‘’altre’’ leggi costituzionali= possono solo integrare un articolo già esistente, stabilire delle
eccezioni alla costituzione o essere considerate come riserve di legge costituzionale . Per esempio
l’articolo 71 che attribuisce alle leggi costituzionali il potere di conferire agli organi l’iniziativa
legislativa (è un esempio di riserva di legge)

Il procedimento previsto dall’articolo 138 che ha unicamente oggetto l’approvazione delle leggi di
revisione della costituzione e le leggi costituzionali è un procedimento aggravato (la costituzione è rigida
quindi anche il procedimento per modificarla non è semplice). Tale procedimento prevede due
deliberazioni parlamentari e un referendum popolare.
Se es. vogliamo approvare una legge di revisione costituzionale, questa passera attraverso le due camere
ovvero Camera dei deputati e Senato.

Per approvare una legge costituzionale ci vogliono 2 deliberazioni.

1) Nella prima deliberazione la legge passa alla camera dei deputati, questa propone le sue modifiche
eventuali e se approva attraverso una maggioranza semplice quindi la metà più uno di quelli presenti
in aula, la legge passa al senato che dovrà svolgere lo stesso procedimento.

2) Dopo tre mesi dovrà esserci la seconda deliberazione e stavolta per approvare la legge non basterà
una maggioranza semplice ma anzi:
- o maggioranza assoluta (metà più uno dei componenti). Se dunque la votazione è approvata
secondo maggioranza assoluta risulta approvata e pubblicata ma non ancora applicabile, verrà
applicata solo se entro tre mesi non viene chiesto il referendum. Se non viene richiesta l’indizione
del referendum entro il termine dei tre mesi dalla pubblicazione, la legge costituzionale viene
promulgata dal presidente della repubblica ed entra in vigore decorso il termine di vacatio leggio.
Se invece il referendum viene richiesto (o da 500.000 elettori o un quinto dei membri di ciascuna
camera o cinque consiglieri regionali) l’approvazione della legge dipenderà dall’esito dello stesso,se
questo è positivo la legge verrà approvata altrimenti no.
- o quella qualificata (due terzi dei componenti) in questo caso non va chiesto il referendum la legge
viene subito approvata, pubblicata e applicata.

Si è sentita nel tempo l'esigenza di creare dei procedimenti di revisione costituzionale e dei procedimenti di
approvazione di leggi costituzionali che fossero più semplici rispetto a quello indicato nell'articolo 138. tale
possibilità è stata per la prima volta tentata nel 1982 con l’istituzione di commissioni cioè dei comitati
ristretti dei quali facevano parte i rappresentanti delle singole camere e che avevano come oggetto quello
di esaminare i vari articolo della costituzione da modificare dal 1982 ad oggi si sono susseguite si sono
formate molteplici commissioni tra cui ad esempio la commissione D’Alema, la commissione del 2005 del
secondo governo Berlusconi oppure ancora la commissione per le riforme costituzionali ma nessuna di
questa si rivelò rivoluzionaria per alleggerire o sostituire l’effettivo procedimento dell’articolo 138.

I limiti alla revisione costituzionale

L’attività di revisione costituzionale reca in sé dei limiti. L’unico limite testuale espresso della nostra
costituzione è quello sancito nell’articolo 139 secondo cui ‘’ la forma repubblicana non può essere oggetto
di revisione costituzionale’’. L’articolo non può essere modificato sia in senso testuale che in senso implicito
(tutto ciò che contrasta con la forma repubblicana non può essere modificato, quindi non si può attribuire
al presidente della Repubblica dei poteri che sono come quelli di un monarca). Dall’articolo 139 ricaviamo
dei limiti impliciti che sono 5:

- il presidente della Repubblica è elettivo e con mandato di durata temporanea (7 anni)


- la funzione legislativa in capo al parlamento
- la separazione dei poteri tra diversi organi dello Stato
- la elettività delle camere
- E le etichette formali

Altri limiti per l’attività di revisione costituzionale possono essere individuati negli articoli 2 e 13 della
costituzione che stabiliscono i cosiddetti diritti inviolabili della persona. Non ci può essere nessuna
legge che modifica tali principi
Infine altri limiti sono i cosiddetti limiti taciti, cioè i principi supremi ad esempio quello previsto dall’articolo
uno della costituzione che stabilisce il cosiddetto principio democratico. I limiti taciti sono quelli supremi
indipendentemente dal contenuto della costituzione. Rilevante per comprendere l’ammissibilità dei limiti
taciti al procedimento di revisione costituzionale è la pronuncia della corte costituzionale che con la
sentenza numero 1146 del 1988 ha stabilito che la nostra costituzione contiene alcuni principi supremi
che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione
costituzionale o da altre leggi costituzionali.

Lezione III

LA LEGGE

Il sistema delle fonti del diritto contenuto nella costituzione del 1948 è basato sulla centralità della legge.
La legge è l’unica fonte a competenza generale e viene posta a garanzia dei diritti e della libertà essa serve
ad approvare gli atti principali di governo e controlla l’esercizio della potestà normativa del governo. La
legge è tradizionalmente concepita come la fonte del diritto per antonomasia. Nell’800 erano livelli di fonti:
la legge e il regolamento, ovviamente la fonte principale era la legge e in subordine vi erano i regolamenti.
Con l’avvento però dei regimi totalitari bisogna aggiungere una terza fonte importante: costituzione che
garantisce il rispetto dei principi fondamentali.

Negli ultimi decenni c’è stato un divario più ampio tra costituzione formale e costituzione vivente per
questo motivo che si è assistito ad un decadimento del ruolo della legge:

->La prima ragione di questo fenomeno è dovuta alla difficoltà di approvare le leggi: il lungo e complesso
iter legislativo ha spesso comportato la necessità di giungere a compromessi politici sui testi delle leggi con
il risultato di una difficile comprensibilità del testo normativo.

-La legge ha perso di qualità


-testo poco accessibile
- sfiducia nei confronti della legge stessa tanto da giustificare’’ignorantia legis non excusat’’
l'ignoranza della legge può scusare quando i testi normativi sono poco chiari oppure sono oggetto
di interpretazioni discordanti. Ovviamente però non si giustifica un’ignoranza dovuta alla non
conoscenza del testo normativo.

-> La seconda causa della crisi della legge è la moltiplicazione della tipologia di leggi; la legge nasce come
atto generale ed astratto, idoneo a regolare la convivenza sociale dettando regole di comportamento valide
per tutti. Esistono poi:
-leggi atipiche e/o rinforzate, le quali presentano elementi aggiuntivi e caratteristici; tra esse ad esempio le
leggi che disciplinano i rapporti con lo stato delle confessioni religiose diverse dalla cattolica;
-leggi-provvedimento che si distinguono dalle classiche leggi norma, poiché provvedono per fattispecie
caratterizzate dalla concretezza della situazione e dalla determinatezza dei destinatari;
-le leggi di interpretazione autentica, ideate non a creare nuovo diritto, ma ad interpretare in maniera
vincolante delle disposizione già pre-esistenti.
-le leggi di “sanatoria” che mirano a conferire una definitiva stabilità a rapporti o situazioni giuridiche
precarie.

1) -> La terza ragione della perdita di centralità della legge nel nostro ordinamento è data dal fatto che
alcuni contenuti sono stati sottratti alla competenza della fonte legislativa;
- con l'avvento della costituzione è stata preclusa alle leggi ordinarie la disciplina costituzionale
- alla legge si sono affiancati il decreto legge e decreti legislativi che hanno cominciato a essere
utilizzati in maniera sempre più frequente nelle materie più importanti (quindi sono stati preferiti
alla legge) ne discende un impoverimento della legge ordinaria
Il sistema delle fonti resta impostato sulla centralità della legge, che viene usata come forma di garanzia
democratica, soprattutto mediante le riserve di legge, cioè quando le disposizioni costituzionali riservano
la disciplina di una materia alla legge. Si parla di riserva di legge formale quando la materia può essere
disciplinata soltanto dalla legge ordinaria adottata dal Parlamento. Negli altri casi , invece, si ammette che
la riserva di legge possa essere soddisfatta anche dagli atti con forza di legge (ad esempio il decreto
legislativo e decreto-legge). Si ritiene poi che la riserva di legge possa riferirsi anche alle leggi regionali.
Sono stati individuati tre tipi di riserve di legge:
-assoluta, richiede la disciplina legislativa integrale della materia, ammettendo l’intervento dei soli
regolamenti strettamente esecutivi.
-relativa, ammette, invece, che la legge disciplina i soli aspetti di principio di una data materia lasciando
ampi margini di intervento a fonti secondarie
-rinforzata, invece, si parla in tutti quei casi in cui la costituzione non si limita a riservare una certa materia
al legislatore, ma indica anche i fini della disciplina legislativa o i modi di intervento.
Esistono poi le riserve di legge costituzionale dove alcune materie sono affidate esclusivamente a leggi
costituzionali.

Relativamente alla forza di legge sono emerse due interpretazioni, una tradizionale più restrittiva e l’altra
estensiva.
1) la posizione più tradizionale intende la forza di legge in termini di fungibilità con la legge ordinaria:
gli atti che hanno forza di legge sono quelli che possono assolvere alle medesime funzioni della
legge e che possono abrogare leggi ordinarie precedenti. Il concetto di forza di legge in senso
tradizionale però sarebbe abbastanza limitato in quanto sono perfettamente scambiabili con la
legge soltanto il decreto legislativo e decreto-legge.
2) seconda tesi hanno forza di legge tutte quelle determinate fonti che si trovano in posizione
primaria nel senso che sono subordinati solo alla costituzione per esempio la legge regionale

Da ciò possiamo parlare di valore di legge c’è chi dice che il valore di legge sia un sinonimo di forza di legge,
secondo altri invece è una cosa ben distinta ed equivale al regime giuridico cui è sottoposto l’atto; ed il
concetto di valore di legge individua gli atti sottoposti al sindacato della corte costituzionale.
Il procedimento legislativo è costituito da una sequenza di atti volta alla formazione dell’atto finale “legge”.
Le fasi in cui si articola l’iter legislativo sono: la fase dell’iniziativa, la fase istruttoria, la fase deliberativa, la
fase integrativa dell’efficacia.

1) L’iniziativa legislativa consiste nel potere attribuito a determinati soggetti dalla costituzione o da
leggi costituzionali di presentare disegni, proposte alla camera; questo potere è attribuito:
 AL GOVERNO, questo è l’organo migliore in grado di valutare l’opportunità di intervenire nei vari
campi della vita nazionale, ed inoltre i progetti di legge di iniziativa governativa hanno maggiori
probabilità di essere approvati. Come funziona l’iniziativa governativa?

Il governo presenta il suo disegno di legge alle camere. Si sa che in fase finale la proposta di legge
passa al presidente della Repubblica egli:

- può rifiutarsi in modo definitivo di concedere l’autorizzazione


- oppure, ma si tratta di un’ipotesi eccezionale, se dubita della legittimità costituzionale del testo può
richiedere l’esame del governo

 A CIASCUN MEMBRO DELLE CAMERE: i membri delle camere quindi presentano una proposta di
legge alla camera alla quale appartengono (i membri delle camere dei deputati devono presentare
una proposta di legge alla camera dei deputati)
 CNEL (consiglio nazionale dell’economia e del lavoro), in questo caso si possono proporre disegni di
legge soltanto in campo economico-sociale
 L’INIZIATIVA POPOLARE: 50.000 elettori che possono proporre un progetto redatto in articoli.
 LE REGIONI: le regioni di regola hanno per oggetto materie che interessano la regione o i rapporti
con lo Stato.

Gli atti d’iniziativa governativa vengono denominati “disegni” di legge; gli atti d’iniziativa parlamentare
“proposte” di legge; gli atti d’iniziativa di altri soggetti o in generale tutti gli altri atti “progetti” di legge. Tutti
gli atti non definitivamente approvati decadono a fine legislatura.
Si può parlare di iniziativa riservata: Quando la proposta di legge potere può essere esercitata soltanto da
uno o più soggetti determinati;
E di l’iniziativa vincolata: quando per forza si deve presentare un disegno di legge.

Una proposta o un disegno di legge devono:


- essere atti scritti
- suddivisi in articoli
- accompagnati da una relazione scritta che ne illustra l’oggetto e le finalità
- accompagnati anche da una relazione tecnica

2.) Presentazione del progetto: il disegno di legge va presentato alle camere del parlamento e la sorte
del disegno può essere:
- positiva: se viene approvato da entrambe le camere
- negativa: se non è stato mai esaminato o non giunge all'approvazione finale tutti gli atti non
definitivamente approvati, decadono a fine legislatura.

Alla presentazione del progetto ad una delle camere consegue la sua assegnazione ad una o più
commissioni competenti. L'atto di assegnazione ha una duplice funzione:

- individuare la commissione competente per materia


- decidere in quale sede si discuterà il progetto

Il presidente della camera può poi decidere che debba essere acquisito un parere di altre commissioni
questo parere può essere obbligatorio o facoltativo.

L’approvazione del progetto di legge può avvenire attraverso tre distinti procedimenti:

-il procedimento legislativo ordinario: (descritto art 72) il disegno di legge viene esaminato e discusso dalla
commissione legislativa. Questa, in sede, esamina il singolo progetto, o più progetti con il medesimo
oggetto, allo scopo di preparare il lavoro che successivamente si svolgerà in assemblea (camera dei
deputati)

La commissione legislativa può anche proporre modifiche al testo originario inoltre discute il progetto nel
suo complesso lo approva articolo per articolo. Esaurita tale fase la commissione trasmette alla assemblea il
testo del disegno di legge accompagnato dalla relazione di maggioranza e da eventuali relazioni di
minoranza nonché dal testo dei pareri espressi da altre commissioni.
Si passa quindi alla votazione articolo per articolo e poi alla votazione finale la quale avviene a scrutinio
palese (vuol dire che non è segreto, quindi si sa chi ha votato cosa). Il testo risulta approvato se ha ottenuto
il voto favorevole della maggioranza richiesta per l'approvazione di quel disegno di legge.

Il progetto approvato viene trasmesso dal presidente all'altra camera(Senato)se la seconda camera lo
approva senza modificazioni il testo sarà trasmesso al presidente della Repubblica per la promulgazione. Se
invece la seconda camera introduce delle modifiche al progetto del testo dovrà essere ritrasmesso alla
prima camera e così fin quando entrambe le camere non abbiano approvato il medesimo testo

-il procedimento decentrato: la commissione non si limita ad esaminare e discutere il progetto bensì lo
approva. Si svolge, in tutte le sue fasi, all'interno della commissione con esclusione dell'intervento
dell'assemblea, tale possibilità è prevista direttamente dalla costituzione (tutto ciò accade solo per specifici
casi)

- l’assegnazione del progetto alla commissione in sede deliberante è proposta alla camera dei deputati dal
suo presidente e deve essere approvata dall’assemblea e lo stesso vale per il Senato. Tuttavia l’articolo 72
della costituzione prevede anche la richiesta di rimessioni in assemblea. Ovvero il progetto può essere
trasferito dalla procedura speciale a quella normale.

-il procedimento misto: si chiama così proprio perché da una parte viene affidata alla commissione la
redazione dei singoli articoli mentre dall’altra all’assemblea viene affidata l’approvazione del testo finale.

Se si violano i regolamenti la corte costituzionale non può farci nulla per tre ragioni:

1) la competenza della corte è limitata al controllo dell'osservanza delle norme costituzionali


2) le disposizioni regolamentari non sono di rango costituzionale
3) l’indipendenza delle camere si estende anche all’apprezzamento in ordine all’interpretazione di
una disposizione del proprio regolamento per cui l'osservanza di quest'ultimo è rimessa allo stesso
organo che lo ha adottato.

3) Promulgazione : La legge approvata da ambedue le camere viene trasmessa al presidente della


repubblica per la promulga; si ritiene che essa sia l’ultima fase del procedimento di formazione della
legge, anche nota come fase integrativa dell’efficacia. La promulgazione delle leggi deve avvenire
entro un mese dall'approvazione e consiste in un decreto del presidente della Repubblica.

Il presidente della Repubblica non è tenuto a promulgare le leggi infatti può rinviare la legge alle camere
con il rinvio della legge. A seguito del rinvio le camere sono assolutamente libere di accogliere o meno i
rilievi del presidente della Repubblica se dovessero riapprovare la legge e rinviarla di nuovo al presidente,
questo dovrà promulgarla assolutamente. E questo vale anche se le camere non approvano le modifiche
del presidente ovvero vogliono lasciare la legge come l’avevano fatta all’inizio.
Alla promulgazione segue la pubblicazione della legge sulla Gazzetta Ufficiale e la legge entra in vigore nel
15º giorno successivo a quello della pubblicazione.

La questione di fiducia (disciplinata nei regolamenti parlamentari solo nel 1971)


La lunghezza dei tempi di approvazione delle leggi è stata aggirata con la questione di fiducia il governo
impone al parlamento un suo testo facendo venir meno ogni dibattito o possibilità di modifica, in cambio il
governo impegna la propria permanenza in carica cioè la propria fiducia, nel caso in cui il parlamento non
approvi quel testo, cade il governo. Dunque il governo sfida il parlamento a valutare anche la sua
permanenza in carica come abbiamo già detto nessun governo almeno fino ad ora è mai caduto su una
questione di fiducia.
Lezione IV

LA DELEGAZIONE LEGISLATIVA

1. I riferimenti normativi della delegazione legislativa

Il Governo può emanare atti con forza di legge quando l’esercizio della funzione legislativa gli viene
espressamente delegato dalle Camere attraverso una legge chiamata legge delega (o di delegazione).
La delegazione legislativa viene specificamente disciplinata nell’art.76 Cost., che consente alle Camere di
trasferire al Governo l’esercizio della funzione legislativa, difatti è uno strumento mediante il quale le
Camere decidono, ad esempio per motivi di inadeguatezza tecnica o mancanza di tempo, di non disciplinare
una determinata materia non coperta da riserva di legge formale, questa verrà delegata al Governo, spetta
però alle Camere di stabilire i principi e i criteri direttivi, cioè la ‘cornice’ entro la quale il Governo dovrà
legiferare.

Sia l’art.77, sia l’art.76, sono formulati in negativo (‘non’):


‘’L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di
principi e criteri direttivi e soltanto per un tempo limitato e per oggetti definiti.’’

Una volta che il Governo è stato autorizzato dalla legge di delega può adottare, sempre nel rispetto dei
limiti previsti dalla stessa, un atto con forza di legge denominato decreto legislativo.
Pertanto, legge di delega e decreto legislativo sono due atti successivi e adottati da organi diversi (il
Parlamento per la legge di delega, il Governo per il decreto legislativo), ma tra loro collegati.

2. La legge di delega

La legge di delegazione è una legge che deve essere approvata tramite il procedimento ordinario, ossia da
ciascuna Camera in assemblea plenaria, in forza della riserva di assemblea prevista dall’art.72 Cost.
L’art. 76 Cost. stabilisce il contenuto minimo di tale legge, difatti, come detto nell’art., l’esercizio di
promulgazione della legge non può essere delegato, se non ad alcune condizioni. Difatti, il Parlamento cede
delle materie al Governo con la legge di delega, questa serve appunto per riordinarle, ma per conferire il
potere di esercitare la funzione legislativa al Governo, la legge stessa deve necessariamente indicare:
 i principi e i criteri direttivi;
 il tempo limitato;
 l’oggetto definito.
Tali limiti sono essenziali (il diritto è fatto di limiti) e sono imposti proprio in quanto la Costituzione
attribuisce in via esclusiva la funzione legislativa al Parlamento ed il fatto che il Governo eserciti la funzione
legislativa deve essere considerato semplicemente una deroga, autorizzata ma circoscritta entro i limiti di
tempo e per quanto riguarda l’oggetto. Il potere viene conferito al Governo solamente mediante quei limiti
che devono essere rispettati. Difatti, se la funzione legislativa fosse attribuita per oggetti ed un tempo
indeterminati, se dunque una legge delega non contenesse quei limiti minimi, sarebbe viziata, perché non
conforme a quello che la Costituzione prevede per il conferimento della delega: tra l’altro l’art.76
costituisce anche un limite per il legislatore nel momento in cui conferisce una delega.

Partendo dal primo degli elementi, la legge delega deve prevedere dei principi e criteri direttivi. ‘’Principi’’
e ‘’criteri’’ sono stati inizialmente considerati come due concetti distinti, solo successivamente si è
compreso che questi sono complementari.
-I principi indicano le finalità, gli scopi che il Parlamento vuole che il Governo persegua attraverso l’esercizio
della delega (ad esempio, rivedere il sistema pensionistico).
Di regola, le Camere ricorrono alla delega nei cadi in cui la materia da disciplinare sia molto complessa,
noiosa, richieda cognizioni tecniche o un lungo procedimento di formazione, per cui il Parlamento, avente
già di per sé un iter lento e debole, decide di affidare tale materia al Governo, che appare essere l’organo
più qualificato a disciplinarla e a predisporre i provvedimenti legislativi, ovviamente rispettando i limiti
imposti dal Parlamento. Questi sono emanati nella forma di decreti legislativi, testi normativi che per la loro
mole sarebbero difficilmente gestibili in sede parlamentare, come nel caso di:
o testi unici: atti con cui si riuniscono le varie leggi che disciplinano una materia;
o codici: raccolgono tutte le leggi in ambito civile.
-I criteri sono le modalità attraverso le quali il Governo deve adottare il decreto legislativo.

Passando al secondo elemento, il riferimento agli oggetti definiti risponde alla necessità che il Governo non
eserciti un potere libero, senza limitazione. Questa è una limitazione in quanto non si utilizza più il termine
ampio di ‘’materie’’, ma quello più ristretto di ‘’oggetti’’ definiti, proprio a voler indicare che il Governo è
autorizzato a disciplinare una materia soltanto in un ambito abbastanza ristretto.

Per quanto riguarda il terzo limite, l’indicazione di un tempo limitato fa sì che, prima della scadenza del
termine stabilito nella legge di delega, il Governo dovrà emanare il decreto legislativo.
Non è stabilito alcun limite temporale massimo, un’unica precisazione vi è nell’art.14 della legge n.400 del
1988, il quale si limita a prevedere che, ove il termine previsto per l’esercizio della delega ecceda i due anni
(delega ultrabiennale) il Governo è tenuto a richiedere il parere delle Camere sugli schemi di decreti
delegati; e una volta trascorso inutilmente questo tempo stabilito dal Parlamento, il Governo non può più
legiferare.

Dunque la cosiddetta legge delega (approvata dalle Camere così come tutte le altre leggi) disciplina
appunto l’AMBITO, le DIRETTIVE e i LIMITI a cui il Governo dovrà attenersi nel predisporre i decreti
legislativi.
In mancanza dei tre requisiti la legge di delegazione è affetta da invalidità, il decreto sarebbe nullo,
incostituzionale, e ciò è rilevabile dalla Corte Costituzionale.

Inoltre, nel testo dell’art. 76 sono implicitamente desumibili altri due limiti:
-la delega è soltanto al Governo;
-ad essere delegata non è la funzione legislativa, ma soltanto l’esercizio della funzione: ciò significa che il
Parlamento, anche dopo aver approvato una legge di delega resta sempre libero di disciplinare
autonomamente quegli oggetti, in quanto è comunque titolare della funzione legislativa.

Il Parlamento può porre al Governo ulteriori limiti. Ad esempio, può -secondo una prassi corrente- imporre
l’obbligo di sentire il parere di determinare commissioni parlamentari o organismi tecnici o di altri organi
sugli schemi di decreti legislativi predisposti dal Governo prima dell’approvazione finale.

3. Il decreto legislativo
In attuazione della legge di delega, il Governo adotta un atto denominato ‘’decreto legislativo’’, avente
forza di legge, deliberato dal Consiglio dei ministri ed emanato dal Presidente della Repubblica.
---> quando parliamo di ‘’forza di legge’’ parliamo della capacità, possibilità di una norma di essere
modificata/ di modificare un’altra di grado superiore; gli atti con forza di legge sono allo stesso livello delle
leggi.

La validità di tale atto è subordinata al rispetto dei limiti prefissati dalla legge di delegazione, oltre che al
rispetto di ogni altro limite derivante da norme costituzionali.
La legge delega è norma interposta tra la previsione costituzionale dell’art.76 e il singolo decreto legislativo
delegato, sicché la sua violazione determina l’incostituzionalità del decreto per violazione indiretta
dell’art.76 Cost.. Pertanto, un decreto legislativo che violi i limiti posti dalla legge di delega sarà dichiarato
illegittimo dalla Corte Costituzionale per c.d. vizio di eccesso di delega, ai sensi dell’art.76 Cost.
La disciplina del procedimento di formazione dei decreti legislativi è contenuta nell’art.14 della legge 400
del 1988: i decreti legislativi adottati dal Governo sono emanati dal Presidente della Repubblica con la
denominazione di ‘decreto legislativo’ e con l’indicazione della legge di delegazione, della deliberazione del
Consiglio dei ministri e degli altri adempimenti del procedimento prescritti dalla legge di delegazione.
L’art. 14 chiarisce la possibilità di un esercizio frazionato: nel caso in cui la delega si riferisca ad una
pluralità di oggetti distinti di separata disciplina, il Governo può esercitarla mediante più atti successivi per
uno o più degli oggetti predetti.
Altra questione si è posta in merito all’ obbligatorietà o meno della delega: ci si è chiesti, cioè, se il Governo
sia obbligato ad esercitare la delega tramite l’adozione del decreto legislativo, una volta che il Parlamento
abbia approvato la legge di delegazione. L’orientamento prevalente ritiene che il Governo sia libero di
esercitare o meno il potere delegato, potendo dunque anche decidere di non attenuare la delega. In tale
ipotesi potrà però porsi il problema di responsabilità politica del Governo nei confronti del Parlamento.
E’ sempre possibile poi che il Parlamento, dopo aver concesso la delega, la revochi e decida di legiferare lui
stesso la materia. La revoca della delega può avvenire sia in modo esplicito, sia implicito. Come già detto, il
Parlamento rimane comunque titolare della funzione legislativa, di cui soltanto il semplice esercizio è
delegato al Governo.
Recentemente, le deleghe prevedono ormai abitualmente sia il parere delle Commissioni parlamentari
sugli schemi di decreto legislativo, sia la ulteriore delega ad intervenire con decreti legislativi integrativi e
correttivi.
I pareri delle Commissioni parlamentari rappresentano per il Parlamento un modo per interloquire sulla
formazione del decreto legislativo.
La prassi del parere ha modificato anche la procedura di approvazione dei decreti legislativi che effettuano
un primo passaggio in Consiglio dei ministri per l’approvazione preliminare; poi vengono trasmessi al
Parlamento per il parere; e finalmente vengono approvati in via definitiva dal Consiglio dei Ministri.
Negli ultimi anni, addirittura, in alcune leggi di delega si è anche prevista la prassi del ‘’ doppio parere’’: così
il testo del decreto legislativo passa tre volte in Consiglio dei Ministri e due volte in Parlamento, in maniera
che le Commissioni parlamentari possano controllare se e quanto il Governo abbia tenuto conto del parere.
Affianco alla delega principale c’è anche la delega integrativa e correttiva. In questo modo, la delegazione
tende ad essere quasi permanente, nel senso che la materia resta delegata alla disciplina del Governo per
molti anni. Il frequente ricorso alla delegazione legislativa, accanto alle deleghe correttive e integrative, ha
contribuito a creare uno slittamento sempre più significativo della funzione legislativa dal Parlamento al
Governo ed un’alterazione di quello che era lo schema originario delle fonti così come disciplinato dalla
Costituzione.

Ad esempio, prendiamo il caso della privatizzazione del pubblico impiego, delegata al Governo dalla legge
23 ottobre 1992, n.421 (delega per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di
pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), il cui art.2 disponeva:
‘’1. Il Governo della Rep. è delegato a emanare entro 90 gg dalla data di entrata in vigore della presente
legge uno o più decreti legislativi; a tal fine è autorizzato a
5 Disposizioni correttive nel rispetto dei principi e criteri direttivi determinati dalla Costituzione’’.
La delega è stata attuata il 3 febbraio 1993. Nello stesso anno sono subito intervenuti 3 decreti legislativi di
correzione. Poi, la legge 15 marzo 1997 n.59 art.11 ha riaperto il potere integrativo e correttivo per cui
successive modificazioni potevano essere emanate fino al 31 ottobre 1998. Si è intrapresa così una seconda
serie di correzioni. E’ poi intervenuta la legge 24 novembre 2000 n.340 che ha delegato il Governo
all’emanazione di un testo unico per il riordinamento delle norme. E’ stato così emanato il D.Lgs. 30 marzo
2001 n.165 ‘’Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze della amministrazioni pubbliche’’.
Questo decreto legislativo a sua volta è stato modificato ripetutamente con ulteriori leggi, decreti legge e
decreti legislativi.
Va dunque evidenziato come per anni la disciplina del pubblico impiego sia stata delegata in maniera quasi
permanente al governo mediante una serie successiva di deleghe e di decreti correttivi e integrativi. In
questo senso viene alterato lo schema costituzionale, dato che sostanzialmente si delega al governo la
funzione legislativa e non solo il suo esercizio (come invece recita l’art.76 Cost.)

Lezione V
IL DECRETO-LEGGE
1. Le origini storiche dell’istituto

NOTA BENE: il decreto legislativo e decreto legge sono due strumenti diversi

- Nel decreto legislativo il parlamento attraverso la legge delega attribuisce al governo il compito di
emanare un decreto legislativo che è l'atto avente forza di legge
- con il decreto legge non ce la legge delega, è il governo che mette direttamente il decreto legge nei
casi di urgenza e necessità che però deve essere convertito tramutato in legge che sarà emanata
dal parlamento entro un determinato periodo di tempo trascorso questo tempo senza la
conversione in legge del decreto legge quest’ultimo decadde.

Nei sistemi costituzionali contemporanei la funzione legislativa spetta al Parlamento, salvo casi eccezionali,
come nel caso del decreto-legge, considerato un atto straordinario con forza di legge, ossia un atto non
prevedibile, che succede improvvisamente e non si ripete.
Il presupposto essenziale per far sì che il Governo possa adottare un decreto-legge è la presenza di un caso
straordinario di necessità e di urgenza. In altri termini, il Governo può sostituirsi alle Camere ed approvare
al loro posto un atto avente forza di legge soltanto quando la straordinarietà del caso e la necessità ed
urgenza di provvedere impediscano alle Camere di intervenire tempestivamente attraverso il normale
procedimento di formazione della legge, che è di per sé molto lento. Si può pensare a situazioni quali:
calamità naturali come alluvione o terremoto, problemi di ordine pubblico, motivi di ordine economico…
Il decreto-legge ha una storia molto antica, addirittura risalente allo Statuto Albertino: qui non era
dimostrato che i decreti potessero essere delegati, ma erano sottoposti per prassi alla conversione
parlamentare. Lo Statuto Albertino fu una costituzioni data dagli stessi sovrani per dare voce al popolo; si
trattava di una costituzione flessibile e liberale forgiata in occasione della liberalità del sovrano che
concedeva la libertà ai soggetti borghesi che si stavano affermando e che rappresentavano il Popolo in
Parlamento.
Pochi anni dopo fu promulgata la legge n.100 del 1926, una delle leggi fascistissime, la quale consentiva al
Governo di emettere dei decreti convertibili in legge nel giro di due anni, esautorando di fatto il Parlamento
della sua funzione legislativa. Se i decreti non venivano convertiti in legge entro il termine stabilito (2 anni),
questi perdevano di efficacia.

Quale possiamo ritenere sia il primo decreto-legge dell’ordinamento italiano? Innanzitutto diamo per
scontato che l’ordinamento italiano risalga fino al Regno di Sardegna. Il nome decreto-legge è stato
utilizzato negli atti normativi sin dal 1915, per cui il ‘primato’ dovrebbe essere attribuito al Regio decreto-
legge 3 gennaio 1915 n.1; anche se già nell’anno 1912 si iniziava a parlare di ‘regi decreti da convertire in
legge’. Per essere precisi però, per poter ufficialmente parlare di decreti-legge bisogna risalire alla
formalizzazione legislativa della relativa potestà al Governo: legge 31 Gennaio 1926 n.100.
In epoca repubblicana si cerca poi di costituzionalizzare la potestà, cioè di definire in Costituzione la
possibilità di formulare in depositi i cosiddetti decreti-legge, e senza alcun dubbio il primo decreto legge
della Repubblica italiana è d.l. 6 ottobre 1948 n.1199.
Prima di quest’ultima però, già il r.d. n.1603 del 1853 veniva considerato il primo vero decreto-legge
emanato in Italia: è dunque chiaro che ci trovavamo in un periodo di grande confusione per quanto
riguarda i concetti e le formule nella produzione normativa.

2. La disciplina del decreto-legge


In ragione di tutti gli abusi storici e dalla confusione creatasi di cui abbiamo parlato prima, i Costituenti
guardarono con sfiducia al decreto-legge (tale diffidenza nei confronti dei d.l. e anche di altri istituti era
dovuta al trauma che l’Italia dovette subire in seguito al distruttivo periodo fascista) e cercarono di stabilire
in Costituzione dei limiti stringenti a cui il Governo e i decreti-legge devono sottomettersi: si parla dunque
di una costruzione sintattica in negativo, per sottolineare che l’attribuzione al Governo dell’esercizio
legislativo non può avvenire come modalità ordinaria, ma si tratta appunto di casi eccezionali.
Inizialmente i Costituenti preferirono vietare il decreto-legge, successivamente invece decisero di
ingabbiarlo in una sorta di ‘Camicia di Nesso’ (come disse Meuccio Ruini) di limiti e condizioni. E’ da
premettere però che al Governo spetta soltanto la funzione esecutiva e non quella legislativa, e soprattutto
che è necessario il controllo del Parlamento in sede di conversione.
A norma dell’art.77 Cost. il Governo, in casi straordinari di necessità e di urgenza, può adottare, sotto la sua
responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge; il provvedimento entra immediatamente in
vigore, ma deve essere presentato alle Camere il giorno stesso della sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale
per la conversione, e le Camere, anche se sciolte, devono essere appositamente convocate e riunirsi entro
5 giorni. Dunque il Governo presenterà alle Camere un disegno di legge di conversione in legge del decreto-
legge.
Tra i limiti a cui il decreto-legge deve sottostare abbiamo:
 casi straordinari di necessità e di urgenza: si può ricorrere al decreto-legge solo quando la
questione da affrontare sia urgente, e imprevedibile, cioè corrisponde a un caso straordinario;
 responsabilità: i decreti-legge sono sotto la responsabilità del Governo, ciò significa che se questo
ha agito oltre i limiti costituzionali, può essere chiamato in giudizio ed essere processato per abuso
di potere. Tuttavia ciò non si è mai verificato, per cui la responsabilità governativa è rimasta
‘mitica’;
 la scelta del termine provvedimenti: questo indica che le misure adottate dal Governo devono
essere puntuali e concrete ed avere una applicabilità molto circoscritta, limitata a fronteggiare
eventi specifici; dunque non si lascia alcuno spazio all’immaginazione, per cui secondo i Costituenti
il decreto-legge non dovrebbe disporre di norme generali ed astratte;
 la specificazione forza di legge viene ritenuta alla base del divieto per il decreto-legge di modificare
o derogare a norme di grado costituzionale;
 vincoli per la modalità di presentazione del decreto alle Camere per la conversione: il Governo
deve presentare il decreto il giorno stesso della sua pubblicazione in Gazzetta, e se le Camere sono
sciolte esse sono appositamente chiamate a riunirsi entro 5 giorni;
 provvisorietà del decreto-legge che ha un’efficacia limitata a 60 giorni dalla sua pubblicazione nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica. Come detto dall’art.77 comma 3, i decreti perdono efficacia sin
dall’inizio (ex tunc, retroattivamente, cioè dalla sua entrata in vigore) se non vengono convertiti in
legge entro quei giorni prestabiliti. Se invece le Camere lo approvano convertendolo in legge,
eventualmente apportandovi modifiche, il decreto-legge viene sostituito dalla legge.

La conversione in legge ha una duplice finalità:


- serve per stabilizzare gli effetti del decreto;
- serve per evidenziare il rapporto gerarchico tra Parlamento e Governo, che resta uguale: il
Parlamento deve controllare il Governo per confermare che quest’ultimo si sia legittimamente
auto-appropriato del potere legislativo.
Appare necessario soffermarsi sulla decadenza retroattiva del decreto non convertito, e proprio pensando
a ciò la Costituzione ha predisposto la legge di sanatoria. Questa è una legge apposita per provvedere a
degli effetti problematici e per riordinare/sanare eventuali effetti caduti o non prolungati dal decreto-legge
che dopo 60 gg. non si è convertito in legge. Si pensi all’ipotesi in cui il decreto-legge abbia aumentato il
prezzo della benzina da 90 cent. a 1 euro al litro. Tutti quelli che nei 60gg. di vigenza del decreto hanno
pagato di più dovranno essere rimborsati a causa della mancata conversione del decreto? In base al
disposto costituzionale, la risposta dovrebbe essere positiva, tuttavia ciò creerebbe dei problemi pratici, per
cui grazie alla legge di sanatoria le Camere possono regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei
decreti non convertiti. In altri termini, con legge del Parlamento (ossia una riserva di legge formale)
possono essere sanati i rapporti travolti dalla decadenza, stabilizzando gli effetti giuridici verificatisi.

L’art.15 della l.n. n.400/1988 sulla disciplina dell’attività del Governo e sull’ordinamento della Presidenza
del Consiglio, ha posto una serie di limitazioni all’adozione dei decreti-legge. In particolare, i decreti
devono indicare, nel preambolo, le circostanze straordinarie di necessità e di urgenza, ed inoltre il
contenuto del decreto deve essere omogeneo, specifico e corrispondente al titolo.
Il Governo non può, mediante decreto-legge:
a. conferire deleghe legislative;
b. provvedere nelle materie coperte dalla c.d. riserva di assemblea;
c. rinnovare disposizioni di decreti-legge dei quali sia stata negata la conversione in legge, dunque
non può riproporre le norme di un decreto-legge respinto già dal Parlamento;
d. regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti (art. 77 Cost.: soltanto una
legge del Parlamento può sanare gli effetti dei decreti non convertiti);
e. ripristinare l’efficacia di disposizioni dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale per vizi non
attinenti al procedimento.
Malgrado i dubbi e le suggestioni la legge n.400 del 1988 è una legge ordinaria, per cui la sua eventuale
violazione da parte di successivi atti con forza di legge non determina un vizio di invalidità, sanzionabile
sotto la forma della illegittimità costituzionale.

3. L’abuso del decreto-legge e la prassi della reiterazione


La prassi costituzionale ha fortemente sconvolto la natura del decreto-legge che da fonte eccezionale è
divenuta una sorta di disegno di legge rinforzato dall’immediata entrata in vigore.
A ‘capovolgere’ il decreto legge è stata l’interpretazione della straordinaria necessità di provvedere non in
senso giuridico, ma in senso politico: si rincorreva al decreto-legge non solo dinnanzi a casi straordinari di
necessità e urgenza, ma anche per regolare materie che dovrebbero essere affidate alla produzione
legislativa Parlamentare, ma che a causa della difficoltà di portare a termine il lungo iter di formazione delle
legge, il Governo ha preferito occuparsi di quelle materie e di emanare dei decreti-legge, piuttosto che
presentare disegni di legge che non hanno tempi certi, costringendo in tal modo il Parlamento a
pronunciarsi entro 60 giorni.
Dal 1948 il numero dei decreti è sempre incrementato ed è cresciuta la predominanza di tale fonte rispetto
alla legge ordinaria. Il decreto-legge era infatti diventato la fonte principale per affrontare e disciplinare
qualsiasi esigenza e non solo per affrontare le eccezionalità, come invece aveva pensato il Costituente. A tal
proposito, va ricordata la sentenza n. 220 del 2013 della Corte costituzionale, in cui la Corte, chiamata a
valutare il decreto-legge con cui il Governo Monti aveva riformato le province, ha sindacato il modo d’uso
del decreto-legge, ritenendone incostituzionale l’utilizzo per adottare norme stabili, di carattere
ordinamentale e non solo provvedimenti provvisori, come recita il testo dell’art.77 Cost. che ribadisce la
necessità dei presupposti di interventi specifici e puntuali, improcrastinabili a causa di casi straordinari di
necessità e di urgenza. In caso contrario, si considera il decreto-legge incompatibile con il dettato
costituzionale, poiché appunto si tratta di casi che non nascono dalla necessità e dall’urgenza.
Fenomeno particolare è la reiterazione dei decreti-legge. Dagli anni ’70 era diventata prassi frequente
quella di rinnovare le disposizioni di un decreto-legge non convertito riproducendole in un identico testo in
un nuovo decreto-legge. Accadeva quindi che, emanato un decreto-legge, ancor prima della scadenza dei
60 giorni necessari per la conversione, veniva emanato un identico decreto, che a sua volta veniva
riprodotto in un successivo, con lo scopo di prolungare per vari mesi, se non addirittura anni, la temporanea
vigenza delle norme del decreto, attraverso una ‘catena’ di provvedimenti identici nel contenuto. Al
termine della catena, l’ultimo decreto-legge veniva convertito con contestuale sanatoria degli effetti dei
precedenti decreti decaduti. E’ evidente che la prassi della reiterazione svuotava ancora una volta quanto
detto nell’art.77 Cost., aggirando la provvisorietà del decreto-legge.
Con il crescente ricorso alla reiterazione, con la sent. n.360 del 1996 la Corte costituzionale ha posto fine
alla prassi della reiterazione dei decreti-legge non convertiti, definendola illegittima in quanto toglie valore
al carattere ‘straordinario’ dei requisiti di necessità e urgenza.
Infine, questa prassi, se diffusa e prolungata, finisce per intaccare la certezza del diritto per l’impossibilità di
prevedere sia la durata nel tempo delle norme reiterate, che l’esito finale del processo di conversione.
La Corte ha indicato delle condizioni specifiche perché una reiterazione possa dirsi legittima:
a) in presenza di diversità sostanziale dei contenuti normativi;
b) in presenza di presupposti giustificativi nuovi di natura straordinaria.
Dopo di allora i casi di reiterazione sono risultati molto limitati.

4. I presupposti del decreto-legge e gli ‘argini’ nella giurisprudenza costituzionale


L’abuso del decreto-legge ha trovato terreno fertile nei numerosi dubbi riguardanti la esatta configurazione
dei presupposti del decreto-legge. Ci si interrogava ad esempio se la sussistenza di una caso di straordinaria
necessità e urgenza dovesse essere valutata in chiave giuridica o in chiave politica; o ancora se tale
valutazione riguardasse il Governo in fase di adozione e il Parlamento in fase di conversione, oppure se
potesse essere sindacata dal Presidente della Repubblica in sede di emanazione e della Corte costituzionale
in un successivo giudizio di legittimità costituzionale, ecc…
Tutti i dubbi e le questioni sono stati per anni dibattuti e possono essere ricostruiti ripercorrendo
l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale.
Tradizionalmente il giudice costituzionale è sempre risultato ‘timido’ nell’operare un controllo formale sui
decreti-legge, considerando anche la complessità della valutazione di ‘casi straordinari di necessità e
urgenza’ difficoltosi da scrutinare in sede di legittimità.
Del resto, il decreto-legge vive autonomamente nell’ordinamento al massimo per 60 giorni. Entro il termine
costituzionale per la conversione o perde efficacia sin dall’inizio, oppure sarà convertito in legge.
-Nel primo caso, il decreto decaduto ab origine/ ex tunc, cioè sin dall’inizio, retroattivamente, deve ritenersi
come ‘’mai esistito’ a livello delle fonti del diritto, per cui non può essere oggetto di un giudizio di
costituzionalità.
-Nel secondo caso, si ritiene che la legge di conversione rappresenti una vera e propria novazione della
fonte, per cui l’approvazione parlamentare assorbe quelli che possono essere i ‘vizi genetici’ del decreto.
La loro presenza rappresenta proprio uno dei problemi inerenti al controllo di costituzionalità del decreto.
Si può parlare di vizi genetici quando il decreto-legge nasce dai presupposti sbagliati e dunque non
rispondeva ai requisiti imposti dalla Costituzione di straordinarietà, necessità ed urgenza.
La Corte, dopo essersi rifiutata più volte a pronunciarsi sul problema dello scrutinio dei vizi formali,
dichiarando inammissibili le relative questioni, alla metà degli anni 80 ha emesso un punto alla situazione,
affermando che l’avvenuto conversione in legge del decreto fa ritenere superate le proposte censure, in
maniera da ritenere assorbito ogni vizio proprio del decreto nella efficacia novativa della legge di
conversione.
Questo orientamento è stato poi modificato a metà degli anni ’90.
Inizialmente con la sent. n.29 del 1995, quando la Corte ha ammesso la possibilità di scrutinare il vizio dei
presupposti del decreto-legge, nei casi di evidente mancanza dei presupposti di straordinaria necessità ed
urgenza.
Negli anni successivi ci sono state continue pronunce contraddittorie che hanno prima negato e poi
concesso la possibilità di controllo dei presupposti del decreto-legge dopo la conversione in legge.
In altri termini, una volta che il decreto-legge è stato convertito in legge, la Corte costituzionale può
considerarlo costituzionale o incostituzionale riferendosi proprio ai presupposti di necessità ed urgenza. Si
può fare un esempio facendo riferimento alla sent. n.171 del 2007, in cui viene dichiarata l’illegittimità
costituzionale di una ‘norma intrusa’ in un decreto, già convertito, per mancanza dei presupposti, in questo
caso si tratta di una disposizione tesa a sistemare un problema del sindaco di Messina in un decreto relativo
alla materia della finanza degli enti locali. Quindi, se vi sono dei vizi genetici, e dunque se il decreto-legge
non risponde a quei requisiti costituzionali, la Corte costituzionale può decidere di annullare il decreto, e ciò
può avvenire anche dopo che esso sia stato convertito in legge.
Ad ogni modo, sui pronunciamenti della Corte costituzionali riguardanti i decreti-legge, non c’è certezza e
chiarezza, poiché la Corte Costituzionale non si è mai pronunciata in maniera univoca: a volte si è riferita ai
presupposti originari costituzionali, altre volte no e ci possono essere anche casi in cui il decreto-legge non
possa essere annullato nonostante non vengano rispettati i soliti requisiti costituzionali.
Furono stabiliti dei test sintomatici, attraverso i quali verificare la sussistenza del vizio:
a) il preambolo del decreto-legge;
b) la relazione governativa di accompagnamento del disegno di legge di conversione;
c) il contesto normativo in cui va ad inserirsi.
Ma fino al 2007 non si era mai pensato che si sarebbe arrivato all’annullamento dei un decreto per
mancanza dei presupposti, motivo per cui la Corte non si era mai spinta ad un controllo estremo.
Data però la difficoltà nell’ ‘inquadrare’ la mancanza dei presupposti di straordinarietà, necessità ed
urgenza, la Corte decide poi di tornare alle tesi più tradizionali che vedevano la legge di conversione come
‘’condizionata’’ alla disciplina adottata dal governo rinforzando il collegamento funzionale tra i due atti. Ne
possiamo fare un esempio con la sent. n.22 del 2010, quando la Corte è stata chiamata a scrutinare l’art.2
del decreto-legge 29 dicembre 2010 n.225, l’attuale decreto ‘mille-proroghe’ di fine anno, aggiunto dalla
legge di conversione per regolare i rapporti finanziari tra Stato e Regioni. Qui era evidente l’assenza di
eterogeneità e l’assenza di un legame tra il decreto-legge ordinario e le disposizioni nella legge di
conversione, e dunque con i suoi presupposti, e tale assenza determina un vizio della legge di conversione.
E’ dunque necessaria l’attinenza alla materia o alla finalità del decreto-legge, altrimenti vi è appunto un
vizio di procedura.
Dunque la legge di conversione risulta avere una competenza funzionalizzata alla conversine e deve porsi in
termini di coerenza con il decreto-legge, per far ì che la legge di conversione torni alla sua natura di legge
meramente formale, che non tollera intrusioni.

Ad ogni modo, è possibile notare come il decreto-legge venga utilizzato sempre più frequentemente anche
se non per casi d’urgenza; tuttavia la Corte costituzionale deve saper rilevare quando questi scostamenti
dal dettato costituzionale (i presupposti) si siano fatti troppo ampi e rischiosi per la stessa forma di Stato.

5. I ‘ritardi’ nella presentazione alle Camere dei decreti-legge


Uno degli aspetti più evidenti di violazione del dettato costituzionale risiede nei ritardi con cui il Governo
presenta alle Camere i decreti per la conversione.
La Costituzione impone che il Governo quando adotta decreti-legge deve il giorno stesso presentarli per la
conversione alle Camere.
Invece si sta sempre di più consolidando la prassi per cui il Governo approva un decreto legge ‘ salvo
imprese’, nel senso che approva un decreto non completo, soltanto uno schema, una bozza, che poi rivede
e ridiscute dopo il Consiglio dei Ministri. Così si prolungano i tempi, infatti passano giorni o settimane prima
di vedere il decreto pubblicato in Gazzetta Ufficiale e presentato in Parlamento per la conversione. Ciò
accade a causa della difficoltà del Governo di ‘assemblare’ i testi normativi, in ragione di scelte spesso
frettolose e poco meditate.
Prendiamo due esempi: il decreto-legge sulla pubblica amministrazione 24 giugno 2014 n.90, e il decreto su
agricoltura ambiente e efficienza energetica n.91: entrambi approvati dal Consiglio dei Ministri il 13 giugno,
cioè 11 giorni prima e non il giorno stesso.
Il decreto salvo intese è molto frequente oggi.

Lezione VI
I REGOLAMENTI
1. Le fonti secondarie
Il livello secondario delle fonti è composto da molteplici tipologie di regolamenti adottati da
Amministrazioni pubbliche (Ministeri, Agenzie, Autorità indipendenti, Università, Scuole…), che
normalmente assumono il nome di ‘regolamento’ o di ‘decreto’ (va precisato che anche per le fonti
primarie è utilizzato il nome ‘regolamento’: regolamenti dell’UE, regolamenti parlamentari).
Le fonti secondarie sono fonti dotate di una forza attiva e passiva minore di quella della legge, qualificata
dal principio di legalità, ossia: necessità di una attribuzione legislativa di potere normativo e
‘subordinazione’ del regolamento alla legge che ne costituisce parametro di legittimità. Ciò significa che un
regolamento potrà immettere nuove norme nell’ordinamento, se queste norme non sono in contrasto con
quelle contenute in leggi o in atti aventi forza di legge. Questo principio è sancito dall’art.4 delle disposizioni
preliminari del codice civile (preleggi) ed aggiunge anche che i regolamenti non possono nemmeno dettare
norme contrarie a quelle dei regolamenti emanati dal Governo.
Gli atti secondari non sono sottoponibili al giudizio di legittimità costituzionale che può essere promosso
soltanto nei confronti degli atti aventi forza di legge, ma sono soggetti al giudizio di legittimità da parte degli
organi della giustizia amministrativo.

Differenza tra :

Legalità: il rispetto della legge

legittimità: quando la norma che io sto adottando è conforme al contenuto della legge

La tipologia delle fonti secondarie si presenta variegata e complessa: si è assistito ad una pluralizzazione
delle fonti secondarie che ormai comprendono le diverse tipologie di regolamenti del Governo, i
regolamenti ministeriali ed interministeriali, i regolamenti delle altre autorità, gli statuti comunali e
provinciali, i regolamenti locali.
Nella gerarchia delle fonti la collocazione di tali regolamenti è articolata:
-regolamenti governativi sono subordinati alla legge e agli atti aventi forza di legge;
-regolamenti statali non governativi possono essere emanati dai singoli ministri (regolamenti ministeriali),
da più ministri (regolamenti interministeriali), da organi centrali (comitati interministeriali) o locali: sono
subordinati alle fonti primarie e ai regolamenti governativi;
-Statuti di Province e Comuni devono essere emanati nell’ambito dei principi fissati dalla legge, ma anche
dalle leggi regionali;
-regolamenti degli enti locali sono tenuti al rispetto della legge e dello Statuto;
-regolamenti delle Autorità Amministrative Indipendenti (es: Banco d’Italia) meritano una analisi a parte, in
quanto si ritiene che costituiscono vere fonti para-primarie dei singoli ordinamenti di settore: es: i
regolamenti della Banca d’Italia sulla vigilanza creditizia sostituiscono la legge e svolgono quindi una
funzione sostanzialmente legislativa nella materia dell’ordinamento del credito, in cui non intervengono
leggi, ma solo regolamenti della Banca d’Italia.
Ad ogni modo, la tipologia principale di regolamento è quella del Governo.

2. I regolamenti governativi
La Costituzione non parla di regolamenti ma si limita a stabilire, nell’art.87, che il Capo dello Stato emana i
regolamenti governativi. Art.117, comma 3, riguarda il riparto di competenza tra Stato e Regioni.
La norma generale attributiva del potere regolamentare è l’art.17 della legge 23 agosto 1988 n.400, che ne
disciplina anche procedimento e tipologie.
I regolamenti del Governo sono adottati con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione
del Consiglio dei Ministri, sentito il parere del Consiglio di Stato, e sono sottoposti al visto ed alla
registrazione della Corte dei Conti e pubblicati nella Gazzetta Ufficiale. Inoltre, alcune leggi prevedono un
ulteriore fase del procedimento di adozione, ossia il parere parlamentare espresso dalla Commissione
competente (solo nei casi previsti dalla legge). Ancora, l’art.17 l.400/1988, attribuisce la potestà
regolamentare anche ai singoli organi del potere esecutivo, ossia ai singoli ministri. Tali regolamenti
ministeriali possono essere emanati esclusivamente se una legge di volta in volta lo autorizzi e solo nelle
materie di competenza del singolo ministro (avremo così il D.P.C.M) o di più ministri insieme nel caso dei
regolamenti interministeriali.
Tipologie di regolamenti:
a. Regolamenti esecutivi: adottati per l’esecuzione delle leggi e dei decreti legislativi, nonché dei
regolamenti comunitari. Specificano i contenuti e stabiliscono le modalità di attuazione della fonte
primaria, non innovando la materia, che è disciplinata dalla fonte primaria. Sono normative
specifiche del singolo Stato. Intervengono nelle materie coperte da riserva assoluta di legge;
b. Regolamenti attuativi ed integrativi: adottati per l’attuazione e l’integrazione delle leggi e dei
decreti legislativi recanti norme di principio, esclusi quelli relativi a materie riservate alla
competenza regionale. Indispensabili perché completano le norme della fonte primaria,
innovandone i contenuti nel rispetto dei principi da esse individuati (possono operare in materie
coperta da riserva di legge relativa, ma non assoluta);
c. Regolamenti indipendenti: sono adottati nei casi in cui manchi la disciplina da parte di leggi o atti
aventi forza di legge, sempre che non si tratti di materie riservate alla legge (né assoluta, né
relativa). Questi introducono norme in assenza di fonti primarie;
d. Regolamenti di organizzazione: adottati per l’organizzazione ed il funzionamento delle
amministrazioni pubbliche secondo le disposizioni dettate dalla legge. Materie coperte da riserva
relativa di legge;
e. Regolamenti di delegificazione: emanati per la disciplina delle materie non coperte da riserva
assoluta di legge, per le quali le leggi della Repubblica determinano le norme generali regolatrici
della materia e dispongono l’abrogazione delle norme vigenti, con entrata in vigore delle norme
regolamentari;
f. Regolamenti di organizzazione ministeriale: adottati in attuazione della delegificazione della
materia dell’organizzazione di tutti gli apparati ministeriali;
g. Regolamenti di riordino: si provvede al periodico riordino delle disposizioni regolamentari vigenti e
all’abrogazione di quelle che hanno esaurito la loro funzione o che sono obsolete.

3. I regolamenti di delegificazione
Questa tipologia di regolamenti (art.17 l.400/1988, comma 2) merita un approfondimento maggiore.
Come già detto, questi sono emanati per la disciplina delle materie non coperte da riserva assoluta di legge,
per le quali le leggi della Repubblica determinano le norme generali regolatrici della materia e dispongono
l’abrogazione delle norme vigenti, con entrata in vigore delle norme regolamentari. Questi sono stati
introdotti per cercare di restituire le materie meno importanti alla competenza delle fonti secondarie,
lasciando affidata alle fonti primarie soltanto la disciplina delle materie più significative. Dunque, il
meccanismo di delegificazione consente ai regolamenti di disciplinare materie che erano già state
disciplinate da leggi. Per far ciò è necessaria unna previa legge di delegificazione che autorizzi l’esercizio
della potestà regolamentare del Governo, detti i principi della materia e disponga l’abrogazione delle leggi
preesistenti. La legge di delegificazione contiene l’abilitazione ad un regolamento a modificare una legge
precedente. Solitamente infatti, il regolamento, in quanto atto secondario, non può di per sé né modificare
né abrogare la legge e può intervenire solo successivamente a disciplinare la materia, resa libera
dall’intervento della legge di delegificazione. Per evitare lacune di disciplina normativa, si è previsto poi che
l’effetto abrogativo dipenda non dalla legge di delegificazione, ma dal regolamento.

Come può un regolamento sostituire dal punto di vista formale una legge? Deve essere il Parlamento a
determinare la materia rispetto alla quale si può adottare un regolamento di delegazione.

Esistono tre condizioni per far sì che possano essere emanati i regolamenti di delegificazione:
1) la materia non deve essere coperta da riserva assoluta di legge;
2) la legge di delegificazione deve fissare le ‘norme generali regolatrici della materia’;
3) la stessa legge deve disporre l’abrogazione delle leggi preesistenti con effetto condizionato
all’entrata in vigore dei regolamenti (abrogazione condizionata o differita). Dunque appena il
regolamento viene adottato in quella materia, le norme approvate dalla legge non sono più in
vigore; il regolamento sostituisce la legge attraverso la legge di abrogazione.

Negli anni ’80 del 900 la delegificazione era vista come uno dei rimedi ideali alla crisi della legge, per ovviare
alla ‘sovrabbondanza’ di normazione primaria, essendosi negli anni legificate troppe materie di importanza
minore e per cercare di velocizzare l’attività parlamentare. Mediante la delegificazione si pensava quindi di
degradare le materie di importanza minore al livello regolamentare, mediante il meccanismo della
abrogazione delle leggi preesistenti e della nuova disciplina mediante regolamenti governativi.
Così cominciarono ad essere emanate numerose leggi di delegificazione e i relativi regolamenti in
delegificazione. Con i regolamenti di delegificazione si sperava di:
-rendere l’attività parlamentare più efficace e decongestionarla facendo sì che si potesse dedicare a un
minor numero di materie, ma a quelle più importanti;
-rendere normativa più omogenea e snella, più agile.
I risultati però sono stati diversi da quelli sperati, difatti attraverso la delegificazione si sono avute soltanto
delle ulteriori complicazioni, difatti l’attività parlamentare non ha determinato maggiore chiarezza nelle
materie, ma spesso si è arrivati alla modifica di normative in maniera rapida, determinando più confusione.
Tra l’altro, spesso alle delegificazioni in bianco, ossia quelle senza indicazione delle norme generali
regolatrici della materia e senza individuazione delle leggi da abrogare, si sono sovrapposte successive ri-
legificazioni, anche parziali.
In altre parole, si è assistito ad uno snaturamento del meccanismo previsto per decongestionare la
produzione normativa del Parlamento, per cui ad un tipo di abuso si risponde con un altro tipo di abuso. La
delegificazione è stata utilizzata male, complicando ancora di più il quadro del sistema delle fonti.
Così da almeno una 15ina d’anni, il ricorso alla delegificazione è divenuto sempre meno frequente, per
arrivare quasi a scomparire del tutto.

Accenno lezione VII


LE FONTI REGIONALI

Art. 117 importante per rapporto tra Stato e regioni.


-sono tante le competenze che restano allo stato,
-ci sono altre che rientrano nella legislazione concorrente.

Questo articolo stabilisce quelle che sono le materie di competenza esclusiva dello stato, e quelle che sono
materie di competenza regionale e statuali stabilite dal rapporto tra stato e regioni.

Lezione VIII
LE FONTI DELL’UNIONE EUROPEA

L’Italia appartiene all’unione europea con altri ventisei Paesi.


Il sistema delle Comunità europee nasce con il trattato istitutivo della comunità europea del carbone e
dell’acciaio(CECA), firmato a Parigi il 18 aprile del 1951. A questa comunità si sono affiancate la comunità
economica europea(CEE) e la comunità europea dell’energia atomica (Euratom), istituite entrambe con il
Trattato di Roma il 25 marzo 1957. Tutte queste comunità nascono come accordi prettamente economici.
Con il Trattato di Maastricht del 1992, proprio accanto a queste comunità è stata creata l’unione europea,
aprendo così una cooperazione ai settori della politica estera e della sicurezza comune e della cooperazione
di polizia e giudiziaria in maniera penale. Sempre con questo trattato è stata istituita la cittadinanza
europea. Infatti si è anche modificato il nome della CEE in CE, ovvero comunità europea, con la perdita
dell’aggettivo “economico”, e da qui si può intendere un chiaro passaggio da un modello fondato su un
accordo esclusivamente economico ad una cooperazione più ampia e generale tra gli stati membri. Si
giungerà poi una moneta unica, in circolazione dal 2002.
Nel dicembre del 2000 viene emanata a Nizza la carta dei diritti fondamentali dell’unione europea ( Carta di
Nizza), la quale sancisce la tutela dei diritti dell’uomo.

Il consiglio di Laeken del 2001 avviò un processo costituente europeo, per elaborare una costituzione
europea per avere un’unione anche sotto il punto di vista politico. Questo tentativo però fallì e non si
completò mai il procedimento di ratifica a causa dell’esito negativo dei referendum in Francia e nei paesi
Bassi.

Il 23 giugno 2016 in Gran Bretagna si tenne il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’unione
europea e il 51,9% dei votanti si dichiarò favorevole alla Brexit ( Britain exit).

La configurazione istituzionale dell’Unione corrisponde a quella dei sistemi statali, e le istituzioni


comunitarie sono: il parlamento, il consiglio, il consiglio europeo, la commissione, la corte di giustizia, la
corte dei conti e la Banca centrale Europea.
 IL PARLAMENTO EUROPEO, in cui i membri sono eletti a suffragio universale diretto in ciascuno
stato, per un mandato di 5 anni. Il parlamento esprime la volontà democratica dei cittadini e ne
rappresenta gli interessi.
 IL CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA è composto da un rappresentante per ogni stato membro. Il
consiglio non è un organo permanente, quindi i rappresentanti vengono assegnati a seconda del
tipo di riunione. La presidenza del consiglio viene assunta a turno per sei mesi, dagli stati membri.
(ha competenza legislativa)
 IL CONSIGLIO EUROPEO, da non confondere con quello precedente, nasce come un organo di
cooperazione politica dell’UE, privo di competenze legislative, con la funzione di dare all’UE impulsi
politici necessari per il suo sviluppo. Solamente con il trattato di Lisbona è stato riconosciuto come
una vera e propria istituzione. Esso è composto da capi di stato o di governo degli stati membri, dal
suo presidente e dal presidente della commissione. Si riunisce 2 volte a semestre. (non ha
competenza legislativa)
 LA COMMISSIONE è l’organo al centro del sistema amministrativo dell’unione europea. Essa è
composta dal collegio dei Commissari, con a capo il presidente , scelti tra persone che non sono
legate da un vincolo di rappresentanza ad uno stato membro e hanno una facoltà autonoma di
giudizio, e agiscono nell’interesse generale dell’UE.

La procedura di nomina si articola in 3 momenti:


-la nomina del presidente della commissione(da parte del parlamento europeo su proposta del consiglio),
-la formazione dell’elenco delle persone da proporre come membri della commissione
-il voto di approvazione del parlamento.

Da non confondere con gli organi europei è il Consiglio d’Europa e si colloca fuori dall’organizzazione
dell’UE. Questo fu istituito con il Trattato di Londra del 5 maggio 1949, fu la prima organizzazione
internazionale sorta in ambito europeo volta a salvaguardare i principi di democrazia e i diritti dell’uomo e
di favorire il progresso economico e sociale degli stati membri. L’accordo più importante elaborato in seno
al consiglio è la Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU),
firmata a Roma il 4 novembre 1950.

Il sistema normativo comunitario comprende diverse fonti, queste sono ordinate secondo un criterio
gerarchico; il diritto originario è una fonte di primo grado, mentre quello derivato è una fonte di secondo
grado.
 Fonti di diritto primario o originario, ovvero i trattati istitutivi delle comunità europee e anche la
carta dei diritti fondamentali. I Trattati in vigore sono: il “Trattato sull’UE”(TUE)  sono confluite le
disposizioni di natura costitutiva ed organizzativa e il “Trattato sul funzionamento
dell’UE”(TFUE) sono confluite sia disposizioni applicative del TUE sia disposizioni per le singole
politiche dell’UE;
 Fonti di diritto comunitario secondario o derivato, ovvero gli atti adottati dalle istituzioni
comunitarie.
Tra le fonti secondarie abbiamo:
 Il regolamento è il principale atto adottato dalle istituzioni comunitarie poiché è indirizzato a
tutti i soggetti giuridici comunitari ed è direttamente applicabile in ciascuno degli stati membri
poiché le disposizioni regolamentari sono complete in tutti i loro elementi senza che sia
necessaria un’attività integrativa del singolo stato.
 La direttiva vincola lo stato membro cui è rivolta per quanto riguarda l’obiettivo da raggiungere
e a differenza del regolamento ha come unici destinatari gli stati membri e non è direttamente
applicabile. Il processo normativo è articolato in due fasi: una prima ( a livello comunitario) che
vincola i soli stati al raggiungimento di un risultato e una seconda (a livello nazionale) che
consiste nel trasferimento degli obiettivi individuati dalle direttive nel diritto interno.
 La decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi e può essere generale, ovvero priva di
destinatari individuati, o può essere individuale, ovvero indirizzata a qualsiasi o a tutti gli stati
membri.
 Il parere è un atto non vincolante e rivolto da un istituzione a un soggetto che li richieda e ha la
funzione di far conoscere il punto di vista dell’organo emanante riguardante determinate
questioni, nonché “consigliare” un comportamento al destinatario.
 La raccomandazione è rivolta agli stati membri ed è un invito a tenere un preciso
comportamento senza nessun obbligo. Quindi anche questa, proprio come il parere, non è
vincolante.

 Una categoria di fonti eterogenea composta da norme di diritto internazionale generale, accordi
internazionali e principi generali dell’ordinamento comunitario.
Le norme del diritto internazionale generale e pattizio sono subordinate rispetto al diritto originario ma prevalenti rispetto al diritto
secondario. Mentre i principi generali vengono paragonati al diritto originario ma è preferibile posizionarlo sempre tra il diritto
primario e quello secondario.

Gli accordi internazionali si distinguono a seconda del soggetto che li attua. La comunità può concludere
accordi con stati terzi o con altre organizzazioni internazionali; ma anche gli stati membri possono
concludere questi accordi con stati terzi, purchè compatibili con gli obblighi comunitari assunti . Si tratta di
accordi vincolanti sia per le istituzioni comunitarie sia per gli stati membri.
Nelle materie di competenza concorrente, la Comunità e gli Stati membri possono concludere “accordi
misti”. Riguardo i principi generali del diritto comunitario, distinguiamo 3 categorie di principi:

1) I Principi originari del diritto comunitario: quelli connessi alla natura e alle finalità
dell’ordinamento comunitario (es. il principio di leale collaborazione).

2) Principi generali del diritto comuni agli ordinamenti degli Stati membri (es. principio di legalità).

3) I Principi sui generis: quelli relativi alla tutela dei diritti fondamentali.

I trattati istitutivi delle comunità sono accordi internazionali che l’Italia ha recepito con le ordinarie
procedure di autorizzazione. Il recepimento dei trattati comunitari con legge ordinaria di esecuzione
comporta che i trattati entrino a far parte del nostro ordinamento legislativo. La dottrina però ha messo in
evidenza l’inopportunità di aver dato esecuzione a tali accordi senza far ricorso ad una legge costituzionale.
A fonte a tale scelta del Parlamento, sorsero due possibilità: la prima implausibile, ovvero ritenere
incostituzionali le leggi di esecuzione dei trattati comunitari oppure cercare nella costituzione una legge che
consentisse di ammettere gli effetti dei trattati; quindi la dottrina e la giurisprudenza hanno ricercato una
norma costituzionale che desse un copertura alle leggi di esecuzione dei trattati. Alcuni hanno condotto
l’attenzione all’articolo 10 Cost, pacta severanda sunt, per cui tutti i trattati internazionali e comunitari
dovrebbero trovare attuazione nell’ordinamento interno indipendentemente dall’ordine di esecuzione; altri
hanno spostato l’attenzione sull’ art.11 Cost., il quale stabilisce che l’Italia in condizioni di parità con gli altri
stati, favorisce le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia. A quest’ultimo
articolo, a seguito della riforma del titolo V della costituzione, è stato aggiunto un ulteriore riferimento
normativo costituzionale che rafforza l’efficacia del diritto dell’UE nel nostro ordinamento, si tratta dell’
art.117 comma 1 che prevede come limite generale alla potestà legislativa dello Stato e delle Regioni «i
vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario».

E’ importante capire quanto le fonti europee incidono sull’ordinamento italiano, distinguiamo:

-Fonti europee direttamente applicabili: sono atti alla quale viene riconosciuta immediata e completa
prevalenza sulle norme interne confliggenti (eccetto quelle sui diritti umani). La capacità delle norme
europee di produrre effetti diretti all’interno dei singoli degli Stati membro è fondata sul principio del
primato in base al quale una norma europea prevale su quella interna incompatibile.

La prevalenza del diritto dell'Unione Europea comporta la disapplicazione delle norme nazionali ad opera di
ogni operatore del diritto e quindi non solo da parte dei Giudici, ma anche dai funzionari pubblici che si
trovano a doverle applicare. La disapplicazione della norma interna non implica l'invalidità, l'abrogazione o
l'invalidità della stessa bensì uno stato di quiescenza: la norma nazionale, pur valida e legittima, viene
messa in una sorta di limbo e non può essere applicata fino all’eventuale venir meno della norma
comunitaria che ostacola la sua applicazione.

Sono ammissibili «controlimiti»  Le norme comunitare ( dell’UE) non possono violare diritti
inalienabili della persona umana e i principi supremi di un ordinamento.
-Fonti europee non direttamente applicabili: esse pongono soltanto un obbligo di risultato per gli Stati
membri (l’obbligo è relativo al risultato non alla procedura o al meccanismo per arrivare a quel risultato), il
vincolo non riguarda i cittadini ma sono i singoli stati membri ad essere obbligati a recepirle entro un
termine fissato dall'atto stesso secondo le forme e mezzi ritenuti più idonei.

Nel corso degli anni è intervenuta la corte di giustizia della comunità che ha stabilito una serie di
orientamenti che hanno come fine ultimo quello di aumentare il grado di vincolatività degli atti non
immediatamente applicabili:

1) L'esigenza di astenersi dall' adottare disposizioni che possono gravemente compromettere la


realizzazione del risultato indicato dalla direttiva.

2) L'idoneità delle direttive a spiegare i propri effetti, nell’ipotesi in cui è scaduto il termine per il loro
recepimento, per le sole parti che sono concretamente applicabili. Ciò può avvenire solo nei
rapporti verticali( tra cittadini e stato) ma non nei rapporti orizzontali (cittadini-cittadini)

3) La responsabilità patrimoniale degli stati nei confronti dei singoli per i danni provocati dalla
mancata o cattiva attuazione, Ciò significa che è ormai riconosciuto il diritto del privato al risarcimento dei
danni per mancata attuazione della direttiva

Le fonti comunitarie non direttamente applicabili necessitano di un recepimento a livello nazionale, per
questo il legislatore italiano, cercando di superare la tradizionale lentezza attuativa, ha predisposto uno
strumento specifico: la «legge comunitaria» con essa si tende ad adeguare periodicamente l’ordinamento
nazionale all’ordinamento comunitario.

La disciplina introdotta prevedeva che, entro il 31 gennaio di ogni anno il Governo, dopo avere effettuato
una ricognizione della normativa comunitaria non auto- applicabile, presentava alle camere il disegno di
legge comunitaria. Successivamente il legislatore è intervenuto nuovamente in materia con la l.n.234 del
2012 con cui ha sdoppiato la legge comunitaria in 2 atti:

1) la legge di delegazione europea: da presentare alle camere entro il 28 febbraio, con questa legge si deve
assicurare l'adeguamento dell'ordinamento nazionale a quello dell'UE.

2) la legge europea: è l’insieme di disposizioni modificative o abrogative di norme interne oggetto di


procedure di infrazione o di sentenze della corte di giustizia.

Si presta attenzione anche alla fase ascendente del diritto europei, ovvero l’insufficiente partecipazione
italiana alla formazione delle norme dell’UE, questo ha portato spesso incompatibilità tra le norme interne
e quelle dell’Ue.

Lezione IX
IL SISTEMA DELLE FONTI

Tradizionalmente le fonti di una sola tipologia sono ordinate con un criterio cronologico, con l’articolazione
del pluralismo normativo, però, si è dovuto cercare nuovi criteri di ordinazione, si passa così al criterio
gerarchico, che ordina le fonti a seconda della loro forza, ossia dell’efficacia che è propria di ciascun tipo di
fonte, ponendole su piani differenti, superiori e inferiori. Ci sono due tipi di forze: attiva e passiva. Quella
attiva consiste nella capacità innovativa della fonte, mentre quella passiva incarna la resistenza al
sopravvento di fonti successive.
Da tale ordine gerarchico ne deriva una figura piramidale, al cui vertice è posta la norma fondamentale che
costituisce il principio costitutivo di ogni ordinamento giuridico.
Applicando il criterio gerarchico, le fonti del diritto italiano andrebbero ordinate almeno in tre grandi livelli:
a) Il livello costituzionale: questo comprende la Costituzione e le leggi costituzionali. Per semplificare è
possibile affermare che i rapporti tra queste fonti si risolvono nel senso che la Costituzione, fatta eccezione
per il nucleo immodificabile, può essere modificata con leggi di revisione. Le leggi di revisione e le altre leggi
costituzionali sono accumunate da una medesima forma e forza (attiva, come capacità di modificare la
costituzione, passiva come resistenza da parte di leggi ordinarie). Ad essere precisi il livello costituzionale
andrebbe diviso in 3 sottolivelli e cioè:
 I principi supremi e i diritti inviolabili, che non possono essere rivisti e quindi rappresentano limiti
alla revisione costituzionale
 fonti europee, fonti concordatarie, statuti regionali speciali, consuetudini internazionali,
rinvengono una particolare copertura costituzionale e sono ritenute idonee a resistere a revisioni
costituzionali.
 Altre norme della costituzione e delle leggi costituzionali che non esprimono un principio supremo
e sono quindi rivedibili da leggi di revisione.
b) Il livello ordinario : appare ancora più complesso in quanto composto da una serie di fonti, diverse per
forza e ambiti di competenza. Ed infatti, accanto alla legge formale del Parlamento, abbiamo Leggi
ordinarie innanzitutto ,ma anche una gran serie eterogenea di fonti  tra queste le uniche davvero fungibili
con la legge ordinaria sono il decreto legislativo delegato e il decreto legge. Occorre considerare importanti
anche le leggi atipiche o rinforzate subordinate sempre alla costituzione anche se non possono essere del
tutto parificate alle leggi ordinarie: esempio le leggi che disciplinano i rapporti con lo Stato delle confessioni
religiose diverse dalla cattolica; le leggi di ratifica dei trattati internazionali, le quali assumono una forza
superiore alle altre leggi ordinarie.
Poi ancora:
- il referendum abrogativo – Si noti che il referendum abrogativo si configura come fonte del diritto,però il
suo scopo non è quello di produrre nuove norme, bensì quello di far venire meno quelle già esistenti.
- i regolamenti parlamentari e i regolamenti degli altri organi costituzionali (ad es. quelli della Corte
costituzionale, della Presidenza della Repubblica, ecc.)
-gli Statuti e le leggi regionali, si tratta di fonti con forza primaria ma non fungibili con la legge, in quanto
operano in campi di competenza diversi.

c) Il livello secondario: comprende:


-le diverse tipologie di regolamenti del Governo;
- i regolamenti ministeriali ed interministeriali;
- i regolamenti delle altre autorità (ad es. delle università, delle autorità amministrative indipendenti, ecc.);
--gli statuti comunali e provinciali;
-i regolamenti locali (regionali, provinciali e comunali), questi sono subordinati al rispetto della legge e dello
Statuto.

In fondo alla piramide collocheremo, poi, gli usi e le consuetudini (diverse da quelle costituzionali), che si
applicano per le materie non regolate dalle fonti scritte o, negli altri casi, solo se richiamati da queste
ultime. Sembrano essere ammesse, infatti, nel nostro ordinamento le consuetudini
-secundum legem (che integrano e specificano il dettato legislativo)
-praeter legem (che disciplinano materie non regolate da una legge o da un regolamento)
-contra legem (contrarie a leggi e regolamenti).

Ad oggi il criterio più adatto per ordinare le fonti è quello della competenza, secondo il quale occorre
individuare in primo luogo l’ente o l’organo che emana le norme, successivamente dopo aver individuato a
chi è affidata la competenza, all’interno di quell’ambito varrà la gerarchia.
Lezione X

LA CORTE COSTITUZIONALE

1. La Corte costituzionale in Italia

La Corte costituzionale è uno strumento di garanzia della Costituzione che serve ad assicurare il rispetto di
questa da parte di ogni potere dello Stato. Per garantire la primarietà della Costituzione, occorre un organo
imparziale e indipendente che ne assicuri il rispetto, controllando

In Europa l’idea di affidare il sindacato di costituzionalità ad un apposito Tribunale si forma per 2 motivi:

- Offrire una garanzia obiettiva della Costituzione

- Assicurare al legislatore il privilegio di non essere controllato da qualsiasi giudice ma solo da una Corte
speciale.

STORIA

Dopo la prima guerra mondiale, si sviluppò un dibattito su chi dovesse essere il “custode” della
Costituzione: da un lato Carl Schmitt auspicava un controllo di tipo politico individuando nel Presidente del
Reich l’organo di garanzia dell’ordinamento c dall’altro Kelsen auspicava invece un controllo giurisdizionale
capace di assicurare quotidianamente la prevalenza della Costituzione sugli atti legislativi, affidato ad
“tribunale costituzionale’’. Il modello kelseniano ha trovato grande fortuna negli Stati europei del II°
dopoguerra.

In Italia, la creazione della Corte Costituzionale fu una novità. Già da tempo gli studiosi avvertivano
l’esigenza di forme di controllo sulle leggi, tuttavia lo Statuto Albertino non contemplava un controllo di
costituzionalità, figuriamoci un Tribunale costituzionale. Nel sistema dello Statuto Albertino un problema di
costituzionalità si sarebbe potuto formare solo rispetto alla regolarità del procedimento di formazione delle
leggi: Si trattava di una costituzione flessibile, dunque, poteva essere modificata con legge ordinaria, ma le
leggi ordinarie dovevano rispettare le regole di formazione. Tale competenza era attribuita ai giudici
comuni che, prima di risolvere le controversie, dovevano verificare che gli atti da applicare fossero stati
formati in maniera valida. In sede Costituente l’idea di una Corte costituzionale fu osteggiata da alcuni
componenti che facevano leva sulla valorizzazione della sovranità popolare e del primato della politica e
della supremazia parlamentare. Alla fine furono approvate le competenze e la composizione della Corte nel
1947, senza specificare le modalità di nomina né le modalità di accesso al giudizio costituzionale. L’unico
modo di uscirne fu quello di rinviare tutto ad una legge successiva che ritardò di ben 8 anni (dal 1948 al
1956)

Dall’entrata in vigore della Costituzione, trascorsero 8 anni prima che la Corte cost. entrasse in funzione

2. La composizione della Corte

La corte costituzionale ha una speciale composizione.


Composta da 15 giudici nominati:
- per un terzo dal parlamento
- per un terzo dal presidente della Repubblica
- per un terzo dalle supreme magistrature.

I requisiti per essere nominati (sta tutto scritto nell’articolo 135)


molti dei giudici sono scelti tra:
- magistrati
- professori ordinari di università
- avvocati dopo vent'anni di esercizio

La composizione della corte in un solo caso può essere modificata quando ci sono delle accuse contro il
presidente della Repubblica(un terzo dei giudici della corte viene nominato da lui) In tal caso ai 15 giudici
ordinari si aggiungono altri 16 giudici aggregati, estratti a sorte da un elenco di cittadini che hanno requisiti
per l’eleggibilità a senatore.
I giudici costituzionali durano circa nove anni e dalla costituzione sono disposti il divieto di rinnovo del
mandato ovvero che dopo il termine dei nove anni i giudici non possono più continuare a svolgere i loro
compiti istituzionali fino alla concreta sostituzione.
La corte poi elegge tra i suoi componenti il presidente (la votazione avviene a scrutinio segreto ed è
prevista la maggioranza assoluta dei componenti) con una carica di 3 anni che può anche essere rinnovata
ed egli che si occupa di organizzare e dirigere i lavoratori. Tuttavia se non si raggiunge tale maggioranza
nelle prime due votazioni si procede al ballottaggio tra i due candidati che hanno ottenuto più voti
eleggendo, in caso di parità, il più anziano di carica ed, in mancanza, il più anziano d’età. Dopo la votazione
le schede vengono distrutte.

3. Le competenze della Corte

La Corte costituzionale italiana svolge 4 funzioni, tre sono individuate dall’art.134, una quarta è stata
aggiunta dall’art. 2 l. cost. n. 1 del 1953:
- ha il compito di giudicare la legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello
Stato e delle Regioni
- dirimere eventuali conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, tra i poteri e delle Regioni e tra le
Regioni stesse
- esprimersi su eventuali atti di accusa promossi contro il Presidente della Repubblica
- verificare l’ammissibilità dei referendum abrogativi

Il controllo di costituzionalità serve per verificare la conformità di leggi e atti con forza di legge, dello Stato
e delle regioni, rispetto ad una norma costituzionale, sia per i vizi del procedimento (vizi formali) sia per i
vizi di contenuto (vizi sostanziali).
Il controllo opera su atti già in vigore e può essere attivato:
- in via incidentale: la questione di legittimità costituzionale nasce nel corso di un processo concreto
davanti a un giudice (detto giudice a quo). Se, nel corso di questo processo, si dubita della legittimità
costituzionale di una disposizione o di una norma, il giudice sospende il processo e trasmette la questione
alla Corte.
-in via principale: è attivabile solo: dalle Regioni, rispetto alle leggi statali o di altre Regioni ritenute lesive
delle proprie competenze; e dallo Stato rispetto a leggi regionali ritenute eccessive.

La Corte costituzionale esamina la questione con un’eventuale udienza pubblica e la decide con ordinanza
quindi c’è un’analisi più superficiale o con sentenza ovvero un’analisi approfondita.
Nel primo caso, la norma sarà dichiara incostituzionale, cioè annullata con effetti generali; nel secondo, la
norma non acquisirà nessun particolare “salvacondotto”, potendosi ancora in futuro dubitare della sua
costituzionalità.

4. Ruolo e funzione della Corte costituzionale


Dall’inizio degli anni 50 alla fine degli anni 70, la corte è stata chiamata a svolgere il compito di promuovere
e applicare la Costituzione. Il difficile consisteva nel compito di autolegittimazione nel sistema, infatti la
corte aveva bisogno di essere accettata e apprezzata dagli altri organi dello stato.

Dopo 15 anni la costituzione ha assunto un ruolo di mediazione nei conflitti sociali e politici, in quanto il
giudice costituzionale è stato chiamato sempre più frequentemente a giudicare su leggi emanate dal
Parlamento repubblicano e quindi, ha dovuto porsi come contrappeso delle scelte politiche.
Fine anni 80 inizio 90, la corte è tornata ad essere interlocutore delle esigenze della costituzionalità.
Arriviamo poi ai giorni nostri dove la Corte è entrata in maniera sempre più significativa nella forma di
governo , pronunciandosi su questioni non solo sociali ma anche istituzionali.

Lezione XI

IL GIUDIZIO DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE

1. I vizi della legge

Il controllo di costituzionalità è un giudizio di legittimità, nel senso che si tratta di verificare se una legge
(“oggetto” del giudizio) è conforme alla Costituzione (“parametro” del giudizio).
Genericamente una legge è incostituzionale quando contrasta con la Costituzione, ma occorrono alcune
precisazioni.
Esistono tre diversi tipi di vizi di costituzionalità che possono affliggere le leggi:
1) vizio formale, che riguarda il procedimento di formazione della legge, nel senso che non si rispettano le
norme costituzionali sull’iter legis.
2) vizio materiale o sostanziale, relativo al contenuto dell’atto, alla sostanza della disciplina.
3) vizio di incompetenza, quando non viene rispettata la distribuzione delle competenze legislative fra i
diversi organi costituzionali.

La conseguenza di tutti e tre vizi è la stessa: l'illegittimità costituzionale della legge. Risulta però utile
distinguere tra:

1) Incostituzionalità originaria: si ha quando il vizio della legge deriva da una causa già esistente al
momento della sua entrata in vigore, per cui l'atto è illegittimo fin dalla sua immissione
nell'ordinamento.

2. 2)Incostituzionalità sopravvenuta: si ha quando l'atto nasce legittimo ma diventa illegittimo in


un momento successivo. Risulta inoltre utile distinguere tra incostituzionalità originaria e
incostituzionalità sopravvenuta.

2. Il parametro del controllo


Il parametro comprende tutte quelle norme di rango formalmente costituzionale e la costituzione, queste
vengono prese come punto di riferimento per analizzare se una legge o un atto con forza di legge è
conforme alla costituzione.
Il parametro di costituzionalità si configura, a prima vista come una nazione fissa e immutabile, nel senso
che per essere legittime tutte le leggi dovrebbero essere conformi all’intera Costituzione e a null’altro. A
ben vedere, tuttavia, non è cosi, in quanto – di fatto – il parametro è una nazione elastica e mutevole,
rispetto ai singoli atti da controllare.
La corte osserva che la violazione di una norma costituzionale può avvenire non solo in modo diretto, ma
anche in modo indiretto. La categoria della violazione indiretta è stata ulteriormente elaborata negli anni.
Oggi si parla di norme interposte, ovvero una norma che si interpone tra una di rango costituzionale ed una
di rango ordinario che dà attuazione alla stessa norma interposta.
Per es la legge-delega è norma interposta tra l’art 76 cost ed il decreto legislativo.
Possono esistere anche atti che la corte controlla non rispetto all'intera costituzione ma solo rispetto a
parte di essa. Infatti si parla di parametro limitato e ristretto per esempio le leggi di revisione
costituzionale possono modificare la costituzione, ma tuttavia devono rispettare il procedimento fissando
alcuni articoli della costituzione (quindi non devono rispettare tutta la costituzione seguono soltanto alcune
disposizioni all’interno di articoli della costituzione)Dunque questo parametro non può essere inteso come
nozione fissa immutabile perché è un concetto variabile che cambia rispetto all’atto in questione. Dunque
ogni atto sindacabile ha il suo parametro.

3. L’oggetto del giudizio

La Corte costituzionale giudica sulle controversie relative alla legittimità costituzionale “delle leggi e degli
atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni”.
Non esiste un elenco di quali sono gli atti sindacabili dalla Corte, ma solo dei criteri da utilizzare per
individuarli:
-da un lato, due categorie: la legge (le leggi ordinarie, sia statali sia regionali) e gli atti aventi forza di legge;
-dall’altro, un duplice criterio di imputabilità: la riferibilità allo Stato o alle Regioni.
Non è ammesso che la Corte possa sindacare le fonti comunitarie, in quanto atti appartenenti
all’ordinamento dell’Unione europea. Solo atti riferiti all’ordinamento italiano.
Il controllo della Corte verte sulle norme, ma va ad incidere anche sulle disposizioni, essendo queste i
“mattoni” che compongono la struttura dell’ordinamento giuridico positivo.

4. Il giudizio in via incidentale

In Italia il controllo di costituzionalità è di tipo successivo e concreto, nel senso che interviene su leggi e atti
legislativi già in vigore, che già producono i loro effetti. La legge incostituzionale si presume valida e
applicabile fino a quando non venga dichiarata illegittima dalla corte.
Un cittadino che dubiti della costituzionalità di una legge non può impugnarla direttamente: la via generale
di accesso al processo costituzionale è, infatti, quella incidentale o in via d’eccezione, che consiste in una
questione sollevata da una delle parti o rilevata d’ufficio dal giudice nel corso di un giudizio dinnanzi ad una
autorità giurisdizionale.
Il giudice in questione è detto giudice a quo, è cioè il giudice dal quale la questione sorge.
Prima di investire la Corte della questione di legittimità costituzionale, il giudice a quo deve compiere tre
importanti verifiche :
-Controllo di rilevanza: è un controllo di tipo concreto, per evitare che l’impugnativa incidentale diventi una
sorta di ricorso. Il giudizio non può essere attuato senza la soluzione della questione di costituzionalità in
atto.
-Controllo di non manifesta infondatezza: non si deve esprimere sulla fondatezza, dato che questo spetta
alla Corta, ma si deve limitare ad una valutazione sommaria della questione per rilevare che esista almeno
un dubbio plausibile di costituzionalità.
-Interpretazione adeguata : deve accertarsi di aver effettuato tutti i possibili tentativi per trovare una
interpretazione conforme alla costituzione.

Effettuati i controlli appena elencati, il giudice a quo sospende il processo (fino a quando non sia definito
l’”incidente” di costituzionalità) e rimette la questione alla Corte con una ordinanza (detta ordinanza di
remissione), che deve indicare oggetto, parametro del giudizio e motivazione.
Notificherà l’ordinanza alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei ministri (o al Presidente della
regione interessata) e la comunicherà ai presidenti delle Camere (o del Consiglio regionale interessato).
5. Il giudizio in via principale

L’ unica forma di accesso diretto al giudizio di costituzionalità, spetta allo stato per impugnare le leggi
regionali e alle regioni per impugnare le leggi statali. Entrambi possono impugnare le leggi solo in via
successiva, entro 60 giorni dalla loro entrata in vigore.
Una disparità tra Stato e Regioni permane solo relativamente ai motivi di ricorso. Infatti, la Corte
costituzionale ha precisato che, mentre lo Stato può impugnare una legge regionale per qualsiasi vizio, le
Regioni possono impugnare le leggi statali solo qualora siano lesive di una loro competenza.
Il giudizio in via principale si caratterizza – a differenza del giudizio in via incidentale, in cui le parti sono solo
eventuali – per essere un processo di parti, per cui il giudizio può anche estinguersi per rinuncia del
ricorrente, accettata dalla controparte.

6. Le decisioni della Corte

La Corte costituzionale, dopo l’udienza pubblica o la camera di consiglio di trattazione della causa, decide
con ordinanza o con sentenza (le decisioni di incostituzionalità sono sempre adottate con sentenza, quelle
di rigetto invece assumono entrambe le forme).
Dal punto di vista della struttura le decisioni sono composte da tre parti:
1) una intestazione, che richiama gli elementi del giudizio;
2) una motivazione, che spiega le regioni del caso, i n fatto e in diritto, più succintamente nelle ordinanze;
3) un dispositivo, la parte conclusiva, che contiene la decisione vera e propria.

Normalmente tutte le decisioni giudiziarie sono impugnabili (discutibili) tuttavia l'ultimo comma dell'art.
137 ha disposto la «non impugnabilità» delle decisioni costituzionali.

Esaminando le ordinanze (motivate in maniera meno approfondita delle sentenze) possono essere:
- Interlocutorie: occorre acquisire dati o informazioni sull’applicazione delle norme impugnate o sulle
eventuali conseguenze della dichiarazione di illegittimità costituzionale.
----Dialogiche nel caso in cui si avverte la necessità da parte della corte di interloquire con soggetti diversi
dal giudice a quo, prima di decidere nel merito le questioni di legittimità costituzionale.
- Definitive: concludono il giudizio, sia pure con un esame solo sommario. Ciò accade quando la Corte
dichiara inammissibile la questione oppure manifesta infondatezza.
- Di correzione: serve ad eliminare da precedenti decisioni sviste o imprecisioni, come ad esempio un
errore materiale nell’indicazione di un articolo di una legge.

Le sentenze invece possono essere:


-Di merito che avviene nel momento in cui la corte passa a valutare la questione, decide il dubbio di
costituzionalità.
- Di rigetto: se la norma sarà ritenuta conforme, si avrà una sentenza di rigetto. Questa non rende la
norma intoccabile in futuro, ma è riferita solo al caso specifico, non accerta la costituzionalità della norma
impugnata, non le appone quindi un sigillo di legittimità che la rende intoccabile in futuro.
- Di accoglimento: Se la norma sarà ritenuta difforme rispetto alla costituzione, si avrà una sentenza di
accoglimento della questione illegittima la norma ; investe direttamente la norma e non la singola
questione. La sentenza annulla la norma illegittima con effetto retroattivo e con efficacia erga omnes:
elimina una volta per tutte la norma incostituzionale dall’ordinamento, nel futuro e nel passato. Quindi la
norma viene abrogata. Inoltre la retroattività rimuove gli effetti materiali verificati con la legge ritenuta
incostituzionale.

7. Nuove forme di decisioni


Nel tempo la corte costituzionale ha sviluppato delle nuove forme di decisione, più flessibili nei casi in cui il
vizio riguardi solo una parte della norma:

- A) Sentenze interpretative: nascono con le questioni relative a disposizioni polisense, cioè relative a
disposizioni recanti contemporaneamente norme costituzionali e norme incostituzionali.
La Corte, fin dall’inizio della sua attività, ha sempre affermato il proprio potere di interpretare liberamente
le disposizioni di legge a cui si riferisce la questione di costituzionalità, senza essere vincolata
dall’interpretazione data dal giudice a quo (nei giudizi in via incidentale) o dal ricorrente (nei giudizi in via
principale).
Vi sono diverse forme di sentenze interpretative:
-Di rigetto: la corte costituzionale dichiara la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale e
la rigetta affermando che il giudice a quo deve ritornare a reinterpretare la disposizione ritenuta infondata.
-Di accoglimento: La corte costituzionale accerta la fondatezza della questione e dichiara la illegittimità
costituzionale della legge nel solo significato difforme alla costituzione.

Di accoglimento e di rigetto sono due facce della stessa medaglia, la corte può scegliere il tipo di decisione a
seconda della forza con cui vuole proteggere la propria interpretazione. Non sono rari i casi in cui la corte
utilizza in serie i due tipi di decisione, ricorrendo prima ad una sentenza interpretativa di rigetto, a fronte di
uno scarso recepimento dell’indirizzo interpretativo, e poi ad una interpretativa di accoglimento, non
appena ha occasione di pronunciarsi nuovamente su quella disposizione.

- B) Sentenze manipolative: La Corte non interviene più solo negativamente, per escludere testi
(sentenze di accoglimento) o significati incostituzionali (sentenze interpretative).
La Corte ha scelto di operare anche positivamente, intervenendo solo su parti della disposizione in
questione oppure aggiungendo norme non testualmente previste o ancora, sostituendo un frammento di
norma nella disposizione. La prima di queste operazioni manipolative ricorre con le sentenze dette:
-Di accoglimento parziale: che eliminano dal testo normativo solo una frase o una congiunzione.
-Additive: con le quali viene dichiarata l’illegittimità costituzionale con l’omessa previsione di qualcosa che
avrebbe dovuto essere previsto dalla legge. Infatti in questo caso si ricorre alla formula “è incostituzionale
nella parte in cui non dice…” ------------
Sostitutive: in cui si dichiara l’illegittimità costituzionale di un frammento della disposizione, nella parte in
cui si dice qualcosa anziché qualcos’altro. All’eliminazione della parte di disposizione si accompagna
l’aggiunta di un nuovo frammento normativo, indispensabile per rendere la disposizione immediatamente
applicabile.
Le sentenze additive e sostitutive hanno provocato vivaci polemiche soprattutto in sede politica, si è visto
che tali interventi creano nuove norme con il rischio di invadere la competenza del parlamento.

C) Sentenze additive di principio: sono quelle che aggiungono non una regola compiuta
immediatamente applicabile ma soltanto un principio generalissimo e lasciando al legislatore il potere di
individuare il meccanismo più adatto per l’applicazione di tale principio.
Permette, inoltre, alla Corte di giudicare successivamente se il Parlamento ha correttamente attuato il
principio necessario.

LEZIONE XII

LE ALTRE COMPETENZE DELLA CORTE COSTITUZIONALE

1. Natura e tipologia di conflitti


La seconda competenza della corte costituzionale, assegnata dall’art.134, riguarda i conflitti costituzionali
(controversie per rivendicare le competenze costituzionali) che comprendono:
-I conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato (detti anche conflitti interorganici)
-e quelli tra lo Stato e le Regioni (i conflitti intersoggettivi o tra enti) .
Si tratta di controversie sulla distribuzione costituzionale delle competenze, che danno vita ad un
vero e proprio giudizio di parti, questo parte da un ricorso proposto dal soggetto che ritiene
lesa(danneggiata) l’attribuzione assegnatagli da norme costituzionali, a causa di un
comportamento invasivo o lesivo proveniente, rispettivamente, da un altro potere dello Stato,
dalle Regioni o dallo Stato.

2. I conflitti tra Stato e Regioni (intersoggettivi)

Presentano analogie con il ricorso in via principale in quanto viene attivato da parte dello Stato, regioni o
province.
L’unica differenza è l’oggetto: nel giudizio di costituzionalità in via principale troviamo solo gli atti legislativi
mentre qui qualsiasi tipo di atto.
Essi insorgono quando un ente ritiene che l’altro abbia invaso con un suo atto la sfera di competenza
assegnatagli dalla Costituzione.
Questo tipo di conflitto deve presentare i caratteri dell’attualità e della concretezza (il conflitto non può
essere meramente virtuale) e, trattandosi di giudizi costituzionali, il parametro dev’essere rappresentato da
disposizioni della Costituzione o di leggi costituzionali. La decisione in merito al conflitto può risolversi o in
un’ordinanza (di inammissibilità o di manifesta non spettanza) o in una sentenza (che decide a chi spetta
quella competenza).

3. I conflitti tra i poteri dello Stato (interorganici)

Il problema centrale di questo tipo di controversie è quello di determinare i soggetti legittimati al ricordo,
nel senso che: inizialmente per “poteri dello Stato” si intendevano potere legislativo, esecutivo e
giudiziario.
Successivamente si è ritenuto giusto allargare questa veduta definendo con “poteri dello Stato” tutti i
soggetti ai quali sia riconosciuta una quota costituzionale di attribuzioni.
Cosa può essere oggetto del conflitto?: ogni tipo di atto o di fatto, anche una mera omissione.
Qual è il parametro di giudizio?: norme costituzionali sul riparto delle attribuzioni o qualsiasi legge
ordinaria che riguardi sempre l’attribuzione delle competenze.
Come funziona il procedimento?: Il procedimento del conflitto si caratterizza per il basso grado di
formalismo.
Il procedimento del conflitto si divide in due fasi.
Una volta depositato il ricorso in cancelleria, la Corte delibera in Camera di Consiglio, con ordinanza, la sua
ammissibilità. Se ritiene che sia valida la materia del conflitto e che sia di sua competenza, dispone le
notifiche agli interessati.

5. Il giudizio penale sul Capo di Stato

Questo giudizio trova la sua origine storica nella tradizione anglosassone.


Lo Statuto Albertino affidava il giudizio sui reati ministeriali al Senato, il re ne era escluso dato che la sua
persona era “sacra e inviolabile” (art. 4 dello Statuto).
Con la Costituzione, essendo divenuto il Senato un organo politico, questo compito poteva essere affidato
solo ad un organo: la Corte Costituzionale.
Inizialmente la Corte Costituzionale si occupava anche dei reati ministeriali, cioè del Presidente del
Consiglio e dei singoli ministri.
Alla fine degli anni ‘70 si è svolto l’unico giudizio penale contro due ministri per reato di corruzione
(accusati di aver ricevuto delle tangenti per l’acquisto di aerei militari).
E’ stato un processo lungo e farraginoso che ha paralizzato per anni i lavori della Corte.
Oggi i reati commessi dal Presidente del Consiglio e dal Presente di Ministri sono giudicati dal giudice
ordinario, con prima l’autorizzazione del Parlamento e dopo un’analisi compiuta dal collegio speciale di
magistrati.
Resta, invece, di competenza della Corte Costituzionale il giudizio contro il Presidente della Repubblica:
questa resta l’unica modalità per rimuovere dalla carica il capo di stato.
Il Presidente della Repubblica, ai sensi dell’art.75, non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle
sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione.
Il procedimento: svolge l’indagine un Comitato parlamentare composto da membri delle Giunte (autorizzati
dalle Camere); il Comitato può o archiviare il caso o presentare una reazione al Parlamento.
A questo punto il Parlamento, in seduta comune con Camera e Senato, vota a scrutinio segreto e si formula
l’accusa formale.
A quel punto si avvia il procedimento davanti alla Corte che si svolge come un processo penale ordinario
(quindi con una fase istruttoria e una dibattimentale).
La decisione, prima della quale il presidente può essere già sospeso, può variare dalla massima pena,
l’ergastolo, alla rimozione della carica e tutte le sanzioni accessorie necessarie (confisca dei beni ecc..). La
decisione non è impugnabile e può essere sottoposta a revisione davanti alla stessa corte.

6. Il giudizio di ammissibilità del referendum 

La Corte ha il compito di valutare l’ammissibilità (già ritenuto regolare dall’Ufficio centrale presso la Corte
di cassazione) delle richieste di referendum abrogativo, che devono essere conformi all’art 75.
Successivamente la corta ha ampliato i limiti all’ammissibilità del referendum:

a) Non è ammesso il referendum abrogativo per le “leggi tributarie e di bilancio”( com’è già stato scritto
nell’articolo 75 della costituzione) e ciò è stato esteso anche alla legge finanziaria e alle leggi collegate con
la manovra di bilancio( non è scritto perché è un interpretazione estensiva); parallelamente, è successo per
le “leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali” a queste sono state estese le leggi di
esecuzione dei trattati e l’intero diritto comunitario, facendo leva sull’esigenza di adempiere agli obblighi
internazionali e comunitari.

b) esclusione dei referendum relativi a leggi di rilevanza costituzionale. Si è ritenuto di dover escludere
dalle consultazioni referendarie anche la Costituzione e le leggi approvate con il procedimento dell’art. 138
Cost. gli atti legislativi dello Stato dotati di una forza passiva peculiare e le disposizioni legislative ordinarie
ma costituzionalmente obbligatorie e vincolate.

c) esistenza di limiti alla struttura dei quesiti referendari. I cittadini devono votare o per il “si” o per il “no”,
rispetto ad interrogatori chiari e precisi, e questa è una limitazione.

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