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PARTE PRIMA
LINEAMENTI DI TEORIA GENERALE
Capitolo I
DIRITTO E ORDINAMENTO GIURIDICO
La norma giuridica
Per norma giuridica s’intende un insieme di regole che concorrono a disciplinare la vita
organizzata. Essa è finalizzata a regolare il comportamento dei singoli appartenenti al gruppo,
per assicurare la sua sopravvivenza e perseguire i fini che lo stesso ritiene preminenti.
Caratteri peculiari delle norma giuridiche sono:
- generalità: poiché si rivolgono alla generalità degli individui o a un gruppo più o meno
ampio di essi;
- astrattezza: in quanto prendono in considerazione dei casi astratti a cui dovranno poi
ricondursi tutti i casi concreti che presentino gli stessi caratteri contemplati a livello di
previsione teorica;
- novità: in quanto ogni norma viene emanata per regolare un comportamento che fino a
ieri si riteneva non dovesse essere regolato, oppure allo scopo di modificare un
regolamento di quel tale comportamento già esistente;
- esteriorità: poiché oggetto della disciplina normativa è l’azione che il soggetto
manifesta all’esterno, a nulla rilevando gli elementi interni, psichici o morali, che
spingono all’azione;
- coercibilità (o imperatività): in quanto la loro osservanza da parte dei destinatari è
assicurata dalla previsione di una sanzione che l’ordinamento associa all’ipotesi di
violazione;
- positività: perché create in un determinato momento e per un determinato gruppo
sociale, dagli organi e dai soggetti a ciò legittimati. La positività va intesa anche come
effettiva vigenza di una norma in un dato momento e contesto.
Dalla definizione della norma giuridica come regola di comportamento obbligatoria per tutti i
consociati se ne evincono i due elementi essenziali:
- il precetto, ovvero il comando con cui si impone un determinato comportamento, che
può essere positivo (es. paga il tuo debito) o negativo (es. non rubare);
- la sanzione, ovvero la reazione dell’ordinamento alla inottemperanza, all’inosservanza
del precetto da parte del destinatario.
Fonti costituzionali
Al primo livello della gerarchia delle fonti, si pongono la Costituzione, le leggi
costituzionali e gli statuti regionali. La nostra Costituzione, entrata in vigore l’1 gennaio
1948, è composta da 139 articoli e 18 disposizioni transitore e finali: essa detta i principi
fondamentali dell’ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei
soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell’organizzazione della Repubblica (artt. 55-
139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida: “lunga” perché non si
limita “a disciplinare le regole generali dell’esercizio del potere pubblico e delle
produzioni delle leggi”, riguardando anche altre materie;“rigida” in quanto per
modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 Cost.).
Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale.
Fonti primarie
Fonti primarie sono le leggi ordinarie, gli statuti regionali le leggi regionali e quelle delle
province autonome di Trento e Bolzano, i regolamenti parlamentari e gli atti aventi forza
di legge (decreti legge e decreti legislativi).
Ai sensi dell’art. 10 Cost., sono fonti primarie anche le norme derivanti da trattati
internazionali, cui seguono direttive e regolamenti comunitari. I trattati internazionali,
con speciale riferimento ai trattati antiterrorismo e al trattato del Nord Atlantico
(NATO) e le fonti del diritto dell’Unione europea dotati di efficacia vincolante, nella specie
di regolamenti o di direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere
attuate da ogni Paese facente parte dell’Unione europea in un determinato arco di tempo.
A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di giustizia europea (Corte cost.
sent. n. 170/1984).
Fonti secondarie
Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i
regolamenti ministeriali, amministrativi e prefettizi e di altri enti pubblici territoriali
(regionali, provinciali e comunali). Vi è poi la giurisprudenza, in particolare le sentenze di
giurisdizioni superiori.
Fonti terziarie
All’ultimo livello della scala gerarchica si pongono gli usi e le consuetudini. Questa è
prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta, sono
ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque
quelle contra legem.
La delegificazione
La delegificazione consiste nel “decongestionare il Parlamento da attività superflue e comunque
non consone alle funzioni che esso dovrebbe svolgere in una moderna democrazia”, mediante il
ricorso ad una legge “tipica” avente per disposto il trasferimento di certe discipline dalla sede
legislativa a quella regolamentare.
Nella fattispecie, con la legge n. 400 del 28 agosto 1988 il Governo può adottare dei regolamenti
amministrativi per materie non coperte da riserva assoluta di legge, autorizzati da leggi stesse
nel caso in cui il Governo stesso voglia adottare il regolamento.
- nel semplice “ordine di esecuzione”, che opera direttamente solo in relazione a trattati
contenenti norme self-executing;
- nell’adattamento speciale ordinario, ossia in atti normativi interni necessari per dare
esecuzione a norme internazionali che non siano self-executing.
In seguito all’adattamento le norme internazionali assumono, nell’ordinamento giuridico
interno, la stessa posizione gerarchica delle fonti che lo operano.
Una particolare posizione presenta, nel quadro del diritto internazionale, il diritto dell’Unione
europea, in quanto i trattati e le fonti che ne derivano godono di una particolare copertura
costituzionalein virtù della quale presentano una particolare forza attiva, paragonabile a quella
delle norme costituzionali. I regolamenti sono lo strumento normativo principale dell’azione
dell’Unione; essi sono obbligatori in tutti i loro elementi, hanno portata generale e sono
direttamente applicabili, cioè non necessitano di alcun provvedimento di recepimento da parte
di Stati membri. Le direttive vincolano gli Stati membri, che ne sono i destinatari, ad un risultato
da raggiungere, ferma restando la competenza degli organi nazionali per quanto riguarda le
modalità di attuazione. Le decisioni possono avere tanto portata individuale che portata
generale o indefinita, hanno carattere vincolante e possono avere come destinatari tanto gli
Stati membri quanto le imprese.
Per l’adattamento agli altri atti dell’Unione sono ora previsti due diversi strumenti annuali: la
legge europea e la legge di delegazione europea. Il Governo presenta ogni anno alle Camere due
disegni di legge: il disegno di legge di delegazione europea, che conferisce al Governo le deleghe
per il recepimento di direttive e per l’attuazione di altri obblighi europei; e il disegno di legge
europea, contenente norme di attuazione diretta di quegli obblighi.
Comunità internazionale, che è comunità fra eguali, nella quale a ciascuno Stato vengono
riconosciute, in egual misura, situazioni giuridiche attive e passive.
Capitolo II
IL SOGGETTO DI DIRITTO E LE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE
altrui, giuridicamente rilevante. Il potere è figura giuridica soggettiva che attiene sia al
campo del diritto privato sia a quello del diritto pubblico. Quanto al primo, si pensi alla
potestà dei genitori sui figli minori; quanto al secondo, al potere dei cittadini di eleggere i
loro rappresentanti politici e amministrativi o di agire in giudizio per la tutela dei propri
diritti soggettivi o interessi legittimi.
- il diritto soggettivo: è il potere di agire di un soggetto a tutela di un proprio interesse
riconosciuto dall’ordinamento giuridico, nonché la pretesa dello stesso - garantita e
disciplinata dal diritto oggettivo - nei confronti di altri soggetti o beni. Il diritto
soggettivo attribuisce al suo titolare una posizione di vantaggio che questi potrà far
valere nei confronti di tutti i soggetti, nel caso di diritto soggettivo assoluto (erga omnes),
oppure nei confronti di uno o più soggetti nell’ambito di un determinato rapporto
giuridico, nel caso di diritto soggettivo relativo (actio in personam).
Un esempio di diritto soggettivo assoluto è il diritto di proprietà che consente al suo
titolare di agire nei confronti di tutti i soggetti che ne turbino eventualmente il
godimento; un esempio di diritto soggettivo relativo invece è dato dalla posizione
giuridica e dai poteri dei soggetti che sono parte di un contratto. In virtù della loro
partecipazione possono esercitare vari poteri tra cui quello di agire in caso di mancato
adempimento nei confronti l'uno dell'altro.
- interesse legittimo: si ha quando l’interesse protetto in capo ad un soggetto è
inscindibilmente connesso alla tutela di un interesse altrui (normalmente un interesse
pubblico). L’ordinamento, in altre parole, tutela l’interesse del singolo non in via diretta
(in tal caso avremmo un diritto soggettivo) ma se questo si connette con altri interessi
ritenuti prevalenti (interessi pubblici).
Capitolo III
LO STATO
Lo Stato-istituzione
Lo Stato può essere definito come una comunità di individui (popolo), stanziata su un
territorio e organizzata secondo un ordinamento giuridico indipendente ed effettivo.
Lo Stato è un ordinamento giuridico originario, a fini generali e a base territoriale, dotato di un
apparato autoritario posto in posizione di supremazia. Lo Stato si distingue dagli altri
ordinamenti originari perché è un ordinamento a fini generali, mentre gli altri ordinamenti si
pongono il perseguimento di fini particolari. L’ordinamento giuridico statale si distingue dagli
altri ordinamenti su base territoriale in esso compresi perché questi ultimi non hanno il
carattere dell’originarietà, dal momento che dipendono, per la loro validità, dal primo.
Capitolo IV
L’ORGANIZZAZIONE DELLO STATO
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atti aventi forza inferiore a quella della legge o, in certi casi, con la stessa forza. Si aggiunga che
il Governo ha, in molti ordinamenti, la possibilità di proporre le leggi al Parlamento e, di fatto, la
gran parte delle leggi approvate è proprio d’iniziativa governativa. Una particolare funzione
normativa è, infine, quella esercitata dai giudici costituzionali e amministrativi negli
ordinamenti dove gli è attribuito il potere di annullare norme.
Anche la funzione amministrativa non è nella generalità degli ordinamenti attribuita
esclusivamente al potere esecutivo. Ovunque il Parlamento esercita funzioni che si possono
considerare materialmente amministrative: l’esempio più rilevante è l’approvazione del bilancio
dello Stato; può, inoltre, adottare le cosiddette leggi-provvedimento che, pur avendo la forma di
legge, hanno in realtà il contenuto di un provvedimento amministrativo. È considerata dalla
maggioranza della dottrina funzione materialmente amministrativa anche la cosiddetta
volontaria giurisdizione esercitata dai giudici. Un’altra ipotesi di funzioni amministrative
attribuite al potere giudiziario si ha in quegli ordinamenti nei quali, come in Italia e in Francia,
le funzioni di pubblico ministero sono svolte da magistrati anziché da funzionari del potere
esecutivo, come avviene nella maggioranza degli ordinamenti.
Più limitati sono i casi di funzioni giurisdizionali attribuiti a poteri diversi dal giudiziario
perché la terzietà dell’organo giudicante, che connota la giurisdizione, mal si concilia con organi
spiccatamente politici, e quindi di parte, come il Parlamento o il Governo. Ciononostante qualche
esempio non manca: si pensi alle funzioni giurisdizionali esercitate dal Parlamento quando
giudica sulla validità dell’elezione dei propri membri o sui reati commessi dal Capo dello Stato e
dai membri del Governo; oppure si pensi al potere di grazia, attribuito nella generalità degli
ordinamenti al Capo dello Stato.
Una seconda classificazione può essere effettuata tra gli organi legislativi, amministrativi
e giuridici e la distinzione avviene in virtù delle diverse funzioni attribuite dallo Stato. Organo
amministrativo è il Governo, legislativo il Parlamento e giurisdizionale il Tribunale.
Altra classificazioneriguarda:
- Organi individuali (o monocratici) e collegiali. Il primo è composto da una sola
persona (per esempio il Presidente della Repubblica), gli altri sono composti da
un’insieme di persone fisiche che partecipano simultaneamente all’attività svolta (per
esempio il Parlamento).
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- Organi locali e centrali. Quelli locali esercitano la propria funzione entro determinati
limite del territorio nazionale (per esempio il Tribunale). Gli organi centrali sono quelli
che hanno la competenza su tutto il territorio nazionale (per esempio la Corte di
cassazione).
- Organi semplici e complessi. Gli organi semplici sono costituiti da un’unità indivisibile
(per esempio un organo monocratico come il Presidente della Repubblica). Gli organi
complessi sono costituiti da un insieme di organi che rimangono distinti in alcune
funzioni.Per esempio il Governo perché costituito da Presidente del Consiglio (di per sé un
organo), Consiglio dei ministri e l’insieme di questi organi costituisce il Governo.
In base all’attività svolta, si possono distinguere:
- Organi esterni che manifestano la volontà dello Stato di fronte ad altri soggetti per
mezzo dei quali lo Stato entra in rapporto giuridico (per esempio i ministri, il Prefetto, il
Provveditorato agli studi).
- Organi interni che esercitano le proprie funzioni all’interno nell’ambito
dell’organizzazione statale. Di solito essi preparano i lavori degli organi esterni per
esempio i vari Ministeri.
Si distinguono anche:
- Organi attivi: sono tutti organi cui è affidato il compito di emanare provvedimenti per il
conseguimento dei fini dello Stato (per esempio il ministro).
- Organi consultivi: si tratta di organi che vengono chiamati per emanare e dare dei
consigli o pareri sull’opportunità o legittimità di atti o provvedimenti che gli organi attivi
devono emettere (per esempio il Consiglio di Stato).
- Organi di controllo: sono organi che esercitano un controllo sia sulla legittimità sia
l’opportunità degli atti posti in essere dagli organi attivi (per esempio la Corte dei conti).
Vi sono poi:
- Gli organi onorari: quelli che esercitano la loro attività a scopo professionale, vale a dire
che non traggono dall’esercizio della loro attività vantaggi economici.
- Gli organi impiegatizi: si collocano in rapporto di prestazione d’opera continuativa e
retribuita (per esempio Prefetto e Questore).
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Capitolo V
FORME DI STATO E FORME DI GOVERNO
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Per “forma di Stato” s’intende il rapporto che intercorre fra governanti e governati. Tale
atteggiamento è profondamente condizionato dal contesto storico, da fattori economici,
culturali e politici, che incidono sulle strutture e sull’organizzazione dello Stato.
Tra le forme di stato si distinguono:
- Stato feudale. L’ordinamento a base feudale non può essere considerato una vera e
propria forma di Stato in quanto in esso il potere era disperso fra il monarca e il suo
apparato da una parte, i signori feudali, gli ordinamenti comunali, le corporazioni e le
comunità contadine, dall’altra.
- Stato assoluto. La prima forma di Stato moderno è lo Stato assoluto, inteso come regime
politico in cui il potere è esercitato dal sovrano senza restrizioni e limitazioni. Lo Stato
assoluto nasce dalla progressiva unificazione sotto un unico dominio di ampi territori in
cui erano stanziate comunità che, per interessi, valori e tradizioni comuni, si sentono e
vogliono costruire una Nazione unitaria: con lo Stato assoluto nasce anche lo Stato-
Nazione. Lo Stato assoluto si caratterizza per l’assenza di divisione dei poteri, tutti
riconducibili alla persona del sovrano. Non esiste ancora un sistema di tutela dei sudditi,
né si può parlare di diritti, ma solo di pretese spettanti a chi dispone di titoli di proprietà.
- Stato moderno o di diritto. L’affermarsi dello Stato di diritto coincide con la fine
dell’assolutismo e comporta l’affermazione della borghesia tra il XVIII e il XIX secolo, la
quale insieme al potere economico raggiunto rivendica anche quello politico e determina
una trasformazione radicale nell’assetto della società e nel concetto di Stato. Il concetto
dello Stato di diritto presuppone che l’agire dello Stato sia sempre vincolato e conforme
alle leggi vigenti: dunque lo Stato sottopone se stesso al rispetto delle norme di diritto, e
questo avviene tramite una Costituzione scritta. In esso compare la separazione dei
poteri, quello legislativo affidato al Parlamento, quello esecutivo affidato al Governo,
quello giudiziario affidato ai giudici, e cominciano a comparire alcuni diritti individuali
per i cittadini. L’evoluzione dello Stato moderno è caratterizzata, sul piano giuridico,
dalla progressiva estensione del suffragio (fino a giungere al suffragio universale) e dalla
conseguente Costituzione, accanto ai partiti politici di élites e dei partiti di massa.
- Stato sociale. Lo Stato sociale è quella forma di Stato che si è sviluppata
prevalentemente nelle democrazie occidentali a partire dal secondo dopoguerra, periodo
nel quale lo Stato comincia ad intervenire in ambito economico e sociale per limitare, o
possibilmente eliminare, quelle situazioni di discriminazione tra gli individui che
causerebbero gravi ingiustizie sociali, andando sempre più a consentire il rafforzamento
delle posizioni di privilegio a scapito di alcune categorie sociali svantaggiate. In
conseguenza di tali principi, lo Stato sociale interviene attivamente in economia per
garantire una esistenza libera, sicura e dignitosa a tutti i cittadini, la garanzia della
piena occupazione, forme di protezione sociale estese a tutti (scuola, sanità, giustizia) e
forme di “ammortizzatori sociali” quali borse di studio per i capaci e meritevoli, sussidi di
disoccupazione, assegni familiari, pensioni sociali.
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Capitolo VI
LA COSTITUZIONE
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- Scritta o non scritta: nel primo caso essa si presenta come un documento redatto in
forma solenne. Nel secondo caso non esiste un testo di riferimento, ma il funzionamento
delle istituzioni si fonda su una serie di consuetudini e su testi parziali che affrontano
soltanto aspetti particolari. Quasi tutti gli Stati contemporanei hanno una Costituzione
scritta; solo il Regno Unito ha una Costituzione non scritta, anche se esistono alcuni testi
di riferimento anche nell’ordinamento britannico.
- Concessa (ottriata) o votata: nel primo caso essa è concessa dal sovrano, come è
accaduto per la nostra previgente Costituzione, lo Statuto Albertino, e il suo contenuto
non è stabilito attraverso un confronto tra le varie parti politiche e sociali che formano lo
Stato, ma è deciso dal Re. Le moderne Costituzioni sono nella stragrande maggioranza
dei casi adottate da un organo democraticamente eletto (come accaduto per la nostra
Costituzione, elaborata dall’Assemblea Costituente) o approvate dal corpo elettorale
(attraverso un plebiscito come avvenne per la Costituzione della repubblica francese nel
1958).
- Flessibile o rigida: una Costituzione è detta flessibile quando può essere modificata
dagli ordinari strumenti legislativi, senza richiedere un procedimento particolare; è
definita rigida quando è modificabile solo attraverso un procedimento aggravato rispetto
a quello ordinario. Proprio per questo motivo le Costituzioni rigide assumono, nella
gerarchia delle fonti, un grado superiore rispetto a quello delle leggi ordinarie. Le
Costituzioni flessibili, invece, sono di pari grado delle leggi ordinarie.
- Corte e lunghe: nel primo caso contiene soltanto le norme sull’organizzazione
fondamentale dello Stato e alcuni diritti di libertà; nel secondo caso, invece, sono
riconosciuti e tutelati, accanto alle libertà civili, i diritti politici ed economici e sono
enunciati i valori e i principi cui deve ispirarsi l’azione dei poteri pubblici.
PARTE SECONDA
L’ORDINAMENTO DELLA REPUBBLICA
Capitolo I
IL PARLAMENTO
Il bicameralismo
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Sezione I
LA FORMAZIONE DELLE CAMERE
La rappresentanza politica
Per rappresentanza politica s’intende normalmente la trasmissione formale del potere tra chi
detiene la sovranità (il popolo) e chi è legittimato da questi ad imprimere contenuto al comando
politico.
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I sistemi elettorali
Il sistema elettorale è costituito dall’insieme delle regole che si adottano in una democrazia
rappresentativa per trasformare le preferenze o voti espressi dagli elettori durante le elezioni in
seggi da assegnare all’interno del Parlamento o più in generale di un’assemblea legislativa.
La distinzione fondamentale dei sistemi elettorali è basata sul carattere “maggioritario” o “non
maggioritario” che essi possono rappresentare.
I sistemi maggioritari limitano o impediscono la rappresentanza della minoranza. Con questo
sistema si assegnano ai candidati che abbiano ottenuto la maggioranza (relativa, assoluta o
qualificata) i seggi attribuiti al collegio. Nel 1993 il sistema maggioritario era stato introdotto
anche in Italia per l’assegnazione di 3/4 dei seggi della Camera dei deputati e del Senato; il
residuo quarto era assegnato col sistema proporzionale. Il sistema maggioritario presenta
innegabili vantaggi, esso, infatti, assicura il massimo collegamento fra elettori ed eletti, evita
l’eccessivo frazionamento dei partiti, facilità l’accesso al Parlamento di spiccate personalità,
impedisce gli eccessi della partitocrazia, favorendo il bipolarismo. Di contro può dar luogo ad
alcuni inconvenienti: esso, infatti, facilità la corruzione, fa perdere all’atto elettorale il suo
significato di scelta ideologica.
Con i sistemi proporzionali ci si propone, invece, di assicurare alle diverse parti politiche un
numero di seggi corrispondenti alla loro forza numerica, in modo che il Parlamento dovrebbe
rispecchiare la composizione politica del Paese. Ne consegue che, qualora il corpo elettorale sia
politicamente poco omogeneo, i sistemi proporzionali favoriscono il suo frazionamento fra
diversi partiti, per cui i risultati delle elezioni potrebbero rendere difficile la formazione di stabili
maggioranze di governo.
Non esiste un sistema elettorale che si possa considerare perfetto, ma entrambi i tipi possiedono i
propri vantaggi e i propri svantaggi. Per ovviare a tali inconvenienti, cercando di recuperare le
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caratteristiche positive di ciascun sistema ma limitando quelle negative, si sono col tempo andati
a elaborare sistemi corretti, o misti, dei due modelli originari.
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Vi è poi:
- L’incandidabilità: divieto per alcuni soggetti di presentare la propria candidatura (è il
caso di coloro che hanno riportato condanna definitiva per alcuni delitti particolarmente
gravi).
Sezione II
LO STATUS DI MEMBRO DEL PARLAMENTO
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un’opinione espressa o da un voto dato, al fine, appunto, di consentire loro la più ampia libertà di
valutazione e di decisione nell’esercizio del mandato. Sono, invece, escluse dalla qualificazione di
“opinioni espresse” gli insulti e qualsiasi collegamento con la lotta politica come strumento per
sostenere le proprie tesi.
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consentire al Presidente del Consiglio e ai ministri il “sereno svolgimento delle funzioni attribuite
dalla Costituzione e dalla legge”.
La Corte costituzionale, con sentenza del 2011, dichiarò illegittima tale legge nella parte in cui
esso non prevedeva il potere del giudice di valutare in concreto l’impedimento addotto. Nel
complesso la Corte ha sottolineato il ruolo del giudice nel valutare se gli impegni allegati
costituiscano in concreto un impedimento a partecipare all’udienza.
L’indennità parlamentare
L’indennità parlamentare è prevista dall’art. 69 Cost. Oggi i deputati italiani percepiscono
un’indennità parlamentare riconosciuta per il ruolo svolto. Ricevono poi una diaria, per il
rimborso delle spese di soggiorno a Roma. A queste due voci se ne aggiungono altre, tra cui
quelle a titolo di rimborso viaggi, per l’esercizio del mandato, per il rimborso delle spese
telefoniche. È prevista una “sanzione”, ovvero una riduzione della diaria, in base alle assenze.
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Sezione III
L’ORGANIZZAZIONE E IL FUNZIONAMENTO DELLE CAMERE
I regolamenti parlamentari
I regolamenti parlamentari, ai sensi degli artt. 64 e 72 Cost., sono gli atti che disciplinano
l’organizzazione e il funzionamento di ciascuna delle due Camere del Parlamento (Camera dei
deputati e Senato della Repubblica). Essi sono fonti del diritto che sfuggono, però, ad una
collocazione nella scala gerarchica delle fonti. Si tratta, infatti, si fonti separate, di una
competenza costituzionalmente riservata a ciascuna Camera.
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Le commissioni bicamerali
Sono commissioni parlamentari previste dalla legge e composte da senatori e da deputati, nel
rispetto del principio di proporzionalità; se previsto dalla legge, vi deve essere assicurata anche
la rappresentanza di tutti i gruppi. Nella storia della Repubblica Italiana sono state anche
costituite commissioni parlamentari per le riforme costituzionali nel 1983, 1993 e 1997. Gli
organi bicamerali possono essere distinti in permanenti e temporanei.
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richiesta per accordare o revocare la fiducia al Governo e alla Camera per la votazione della
questione di fiducia.
Alla Camera il voto segreto è adottato per le votazioni riguardanti le persone o, quando ne venga
fatta richiesta, per quelle che incidono sui principi e sui diritti di libertà e sui diritti della persona
umana. Non è consentito lo scrutinio segreto nelle votazioni concernenti la legge finanziaria, le
leggi di bilancio, le leggi collegate e tutte le deliberazioni che abbiano comunque conseguenze
finanziarie. Le stesse esclusioni del voto segreto previste alla Camera valgono per il Senato.
Le Camere non possono discutere o deliberare su materie che non siano all’ordine del giorno
(reso noto almeno il giorno precedente la seduta); ciò in ossequio ad una regola democratica,
secondo la quale bisogna conoscere gli argomenti sui quali si è chiamati a deliberare.
Infine, le Camere organizzano i propri lavori secondo il metodo della programmazione, sulla
base delle priorità indicate dal Governo o dai gruppi parlamentari.
L’ostruzionismo
In Parlamento si chiama ostruzionismo l’azione messa in atto dai gruppi di minoranza per
ritardare o impedire l’approvazione di una legge. In altre parole si tratta di una procedura
parlamentare che rallenta l’andamento per la decisione e attuazione di leggi. Spesso
l’ostruzionismo è l’unica arma parlamentare in mano alle opposizioni e può essere sia tecnico o
legale sia violento. L’ostruzionismo è detto tecnico quando le minoranze fanno ricorso alle
norme regolamentari e agli usi parlamentari (propongono sospensive e pregiudiziali tendenti a
rinviare o a bloccare la discussione, iscrivono a parlare il numero più grande possibile di
oppositori per discorsi lunghissimi, presentano numerosissimi ordini del giorno ed emendamenti
ognuno dei quali va discusso e votato, richiedono frequentemente la verifica del numero legale
costringendo, così, anche la maggioranza ad essere presente in aula, pure durante le sedute
fiume).
L’ostruzionismo è detto violento quando si fa ricorso allo scontro fisico o all’interruzione e alle
intemperanze verbali con cui le opposizioni movimentano le sedute.
Capitolo II
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Gli artt. 83-91 Cost. disciplinano le modalità di elezione, il ruolo, i poteri e le funzioni del
Presidente della Repubblica. L’Assemblea costituente, pur avendo scelto la forma della
Repubblica parlamentare, in cui il Parlamento esercita un ruolo centrale, ritenne opportuno
porre al vertice dello Stato una prestigiosa figura istituzionale, in gradi di rappresentare l’unità
nazionale e di garantire il rispetto della Costituzione. Nell’attuale sistema il Capo dello Stato non
governa, ma riveste il delicato ruolo di organo imparziale e apolitico che esercita funzioni di
controllo sugli altri organi costituzionali, assicurando il corretto equilibrio politico e
istituzionale tra gli stessi.
L’elezione
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A norma dell’art. 83 Cost., il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta
comune integrato da tre delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale in modo che sia
assicurata la rappresentanza delle minoranze. La Valle d’Aosta ha un solo delegato.
L’elezione del Presidente della Repubblica ha luogo a scrutinio segreto e a maggioranza di due
terzi dell’assemblea. Solo quando al terzo scrutinio non sia raggiunta tale maggioranza, è
sufficiente per l’elezione la maggioranza assoluta.
Il Capo dello Stato non viene eletto direttamente dai cittadini così da evitare che lo stesso
Presidente della Repubblica possa intervenire nella direzione politica dello Stato, compito che
spetta al raccordo gruppi parlamentari-Governo. Col prescrivere per l’elezione del Presidente
una maggioranza qualificata (o anche assoluta dopo il terzo scrutinio) e l’intervento dei delegati
regionali, si è voluto allargare il più possibile la base elettorale in modo che il Capo dello Stato
non risulti elettoralmente collegato ad alcun partito. È stata inoltre prevista la segretezza del
voto per dar modo agli elettori di votare in piena libertà e secondo il loro intimo convincimento.
Per essere eletto Presidente della Repubblica è sufficiente essere cittadino italiano, aver
compiuto 50 anni e godere dei diritti civili e politici.
La durata in carica
Il Presidente della Repubblica dura in carica sette anni, che cominciano a decorrere dal giorno in
cui egli presta giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione italiana
dinnanzi al Parlamento in seduta comune.
La Costituzione non pone alcun divieto di rieleggibilità del Presidente della Repubblica. E difatti,
per la prima volta nella storia repubblicana, nel 1993 si è avuta la rielezione, per il secondo
mandato, del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (dimessosi 2 anni dopo).
La scelta di un termine così lungo per la permanenza in carica del Presidente della Repubblica (7
anni rispetto ai 5 anni del Governo) risponde alla necessità di rinforzare la posizione di
indipendenza del Presidente della Repubblica rispetto alle forze politiche che lo hanno eletto.
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idoneo a fare assumere la responsabilità di tali atti al ministro, ma anche come requisito di
validità degli stessi.
Diversamente si atteggia, invece, l’irresponsabilità giuridica del Presidente della Repubblica.
Mentre, infatti, il Presidente non è responsabile, sia civilmente che penalmente, per gli atti
compiuti nell’esercizio delle sue funzioni (tranne che per alto tradimento o per attentato alla
Costituzione), come privato cittadino egli è pienamente responsabile ma, in materia penale,
soltanto alla scadenza del mandato e sempre che non siano decorsi i termini di prescrizione. Per
quanto riguarda questa materia è bene ricordare i cosiddetti lodo Schifanie lodo Alfano che
avevano previsto la sospensione dei processi penali a carico delle più alte cariche dello Stato,
successivamente dichiarati costituzionalmente illegittimi dalla Corte costituzionale.
La stessa Corte costituzionale, con sentenza del 2013, è intervenuta in tema d’intercettazioni di
conversazioni del Presidente della Repubblica, stabilendone il divieto assoluto, riconoscendo
quindi a tale organo costituzionale la garanzia del più ampio diritto alla riservatezza.
Spetta al Parlamento in seduta comune mettere in stato di accusa, a maggioranza assoluta dei
suoi componenti, il Presidente della Repubblica, qualora ritenga che l’atto da lui compiuto
integri il reato di alto tradimento o di attentato alla Costituzione; in tal caso il Presidente della
Repubblica è sottoposto al giudizio della Corte costituzionale.
Le attribuzioni
Il Presidente della Repubblica è posto, nella nostra Costituzione, al di fuori dei tre poteri
fondamentali dello Stato (legislativo, esecutivo e giudiziario). Egli esercita le sue attribuzioni
come Capo dello Stato, per cui in dottrina si è identificato un autonomo potere presidenziale. Ciò
non implica mai una partecipazione diretta del Presidente alle attività d’indirizzo politico
(potere neutro).
Le attribuzioni presidenziali possono essere ordinate secondo il seguente schema, ricollegandole
a ciascuno dei tre poteri dello Stato:
In relazione alla rappresentanza esterna:
- accreditare e ricevere funzionari diplomatici (art. 87 Cost.);
- ratificare i trattati internazionali sulle materie dell’art. 80, previa autorizzazione delle
Camere (art. 87);
- dichiarare lo stato di guerra, deliberato dalle Camere (art. 87);
In relazione all’esercizio delle funzioni parlamentari:
- nominare fino a cinque senatori a vita (art. 59);
- inviare messaggi alle Camere (art. 87);
- convocarele Camere in via straordinaria (art. 62);
- scioglierele Camere (salvo che negli ultimi sei mesi di mandato). Lo scioglimento può
avvenire in ogni caso se il semestre bianco coincide in tutto o in parte con gli ultimi sei
mesi di legislatura (art. 88);
- indire le elezioni e fissare la prima riunione delle nuove Camere (art. 87);
In relazione alla funzione legislativa e normativa:
- autorizzare la presentazione in Parlamento dei disegni di legge governativi (art. 87);
- promulgare le leggi approvate in Parlamento entro un mese, salvo termine inferiore su
richiesta della maggioranza assoluta delle Camere (art. 73);
- rinviare alle Camere con messaggio motivato le leggi non promulgate e chiederne una
nuova deliberazione (potere non più esercitabile se le Camere approvano nuovamente)
(art. 74);
- emanare i decreti-legge, i decreti legislativi e i regolamenti adottati dal Governo (art.
87);
- indire i referendum (art. 87) e nei casi opportuni, al termine della votazione, dichiarare
l’abrogazione della legge a esso sottoposta;
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32
leva sul suo potere di scioglimento e rimettere quindi la decisione del contrasto insorto tra
Parlamento e Governo alla volontà popolare, espressa attraverso il corpo elettorale o
procedendo alla nomina di un nuovo Governo, tentando in tal modo un’altra via che potrebbe
portare, qualora attorno a quest’ultimo si formasse una maggioranza omogenea,
all’eliminazione dei termini del contrasto senza ricorrere alla consultazione elettorale.
Il Presidente della Repubblica prima di sciogliere le Camere deve sentire il parere dei loro
Presidenti. Tale parere è obbligatorio ma non vincolante ed è diretto a fare acquisire al Capo
dello Stato le valutazioni politiche circa lo scioglimento dei Presidenti delle Camere che, per la
loro posizione, sono in grado di conoscere e di riferire obiettivamente quali siano le tendenze
manifestatesi al riguardo all’interno delle assemblee.
Inoltre egli non può sciogliere le Camere negli ultimi sei mesi del suo mandato, salvo che essi
coincidano con gli ultimi sei mesi della legislatura.
La posizione giuridica
Il Presidente della Repubblica, in quantopotere neutro, organo cioè che non entra nel gioco
politico, è posto al di sopra delle parti e non svolge alcuna funzione attiva nella determinazione e
nell’attuazione dell’indirizzo politico. In tal senso il Presidente della Repubblica è il
rappresentante dell’unità nazionale e ne è il simbolo. Nella sua persona si assomma e si
armonizza, quindi, l’unità dello Stato.
Il Presidente della Repubblica vigila sul funzionamento del meccanismo costituzionale e
interviene nel momento in cui le regole che lo disciplinano non vengono osservate, al fine di
assicurare il rispetto, formale e sostanziale, della Costituzione e il mantenimento di un corretto
equilibrio fra gli organi cui spetta la direzione politica dello Stato.
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Capitolo III
IL GOVERNO
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assenza o impedimento temporaneo; i secondi svolgono le funzioni loro delegate dal Presidente
del Consiglio.
Un ministro o il Presidente del Consiglio possono assumere, in via provvisoria, l’interim di un
ministero rimasto senza titolare.
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personalità di spicco della vita del Paese, non appartenente a partiti politici. Il Presidente del
Consiglio è responsabile della politica generale del Governo: presiede, promuove e coordina
l’attività dei ministri, garantendone l’unità d’indirizzo. Convoca le riunioni del Consiglio dei
ministri, ne dirige i lavori, assicura l’attuazione delle deliberazioni, mantiene i rapporti con gli
altri organi dello Stato. La carica del Presidente del Consiglio è legata alle sorti del suo Governo
e dura fino a quando questo gode della fiducia del Parlamento. Inoltre, resta in carica anche nel
periodo che va dalla caduta del suo Governo alla formazione di quello successivo, perché il Paese
non sia mai privato della più importante istituzione politica dello Stato.
Per lungo tempo è mancata una disciplina legislativa sulla distribuzione delle competenze
all’interno del Governo. La legge n. 400/1988 ha disciplinato la materia, precisando le
competenze rispettive dell’organo monocratico e di quello collegiale.
Le competenze del Presidente del Consiglio possono essere distinte a seconda che
riguardino i rapporti con altri organi costituzionali (1), con il Consiglio dei ministri (2) e con i
singoli ministri (3):
1. Per quel che riguarda il primo aspetto, il Presidente del Consiglio esercita varie attribuzioni:
- espone le dichiarazioni programmatiche, pone la questione di fiducia (con l’assenso del
Consiglio) e presenta i disegni di legge di fronte alle Camere;
- sottopone al Presidente della Repubblica i disegni di legge nonché le leggi per la
promulgazione e i decreti aventi forza di legge e i regolamenti per emanazione;
- solleva, su deliberazione del Consiglio, di fronte alla Corte costituzionali le questioni di
legittimità costituzionale sulle leggi regionali e i conflitti di attribuzione con altri poteri
dello Stato e con le Regioni.
2. Circa i rapporti con il Consiglio dei Ministri, il Presidente presiede l’organo collegiale, lo
convoca, ne fissa l’ordine del giorno e ne dirige i lavori. Durante le riunioni spetta in particolare
al Presidente valutare l’opportunità di sottoporre le deliberazioni a votazione e fissarne le
modalità. Infine il Presidente provvede a garantire, tramite un apposito comunicato o mediante
un portavoce, l’informazione sulle deliberazioni adottate.
3. Nei suoi rapporti con i ministri il Presidente del Consiglio è titolare di poteri rilevanti.
- il potere di indirizzare ai ministri direttive volte ad attuare le deliberazioni consiliari e a
garantire la direzione della politica generale del Governo;
- il potere di sospendere l’adozione di atti da parte dei ministri competenti e di sottoporli al
Consiglio dei ministri;
- il potere di istituire appositi Comitati di ministri cui deferire l’esame di specifiche
questioni.
I ministri; i sottosegretari di Stato; i commissari straordinari del Governo
I ministri vengono nominati dal Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del
Consiglio. Agiscono all’interno del loro Ministero per mettere in pratica le decisioni del Consiglio
dei ministri e nello svolgimento della loro attività hanno responsabilità politica, civile e penale.
Per essere nominato ministro non occorre essere un parlamentare, ma è sufficiente essere in
possesso dei requisiti richiesti dalla legge per ricoprire una carica pubblica. Il numero dei
Ministeri è variabile, in quanto è il Presidente del Consiglio a decidere di quanti ministri abbia
bisogno. Accanto ai “ministri con dicastero”, cioè quelli che hanno una voce propria nel bilancio
dello Stato, il nostro ordinamento prevede anche i cosiddetti “ministri senza portafoglio” che si
occupano di settori particolari (rapporti con il Parlamento, politiche comunitarie...).
I ministri assumono una duplice veste: come membri dell’organo collegiale di Governo
contribuiscono alla determinazione dell’indirizzo politico; come titolari di un Ministero o
dipartimento, cioè dell’apparato burocratico incaricato della gestione di uno specifico ramo
dell’amministrazione statale, curano l’attuazione dell’indirizzo nell’ambito del settore di propria
competenza e ne assicurano la direzione.
Attualmente i Ministeri sono 13 e sono tutti disciplinati con atti legislativi.
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Essi sono i seguenti: Affari Esteri e cooperazione internazionale; Interno; Giustizia; Difesa;
Economia e Finanze; Sviluppo Economico; Politiche Agricole, Alimentari e Forestali; Ambiente,
Tutela del Territorio e del Mare; Infrastrutture e Trasporti; Lavoro e Politiche sociali; Istruzione,
Università e Ricerca; Beni e Attività Culturali; Salute.
Del Governo possono far parte anche ministri senza portafoglio e possono svolgere solo “le
funzioni loro delegate dal Presidente del Consiglio, sentito il Consiglio dei ministri” con
provvedimento pubblicato sulla Gazzetta ufficiale e i compiti eventualmente attribuiti loro da
singole leggi e si avvalgono delle strutture amministrative e degli uffici di diretta collaborazione
della Presidenza del Consiglio.
I sottosegretari di Stato. La complessità delle funzioni attribuite all’esecutivo e ai singoli
ministri ha dato vita alla figura dei sottosegretari, i quali, pur facendo parte della struttura del
Governo, non partecipano alle riunioni del Consiglio dei ministri (ad eccezione del
sottosegretario nominato Segretario del Consiglio) e svolgono funzioni di tipo ausiliario e
collaborativo nei confronti dei ministri e del Presidente del Consiglio. Il sottosegretario alla
Presidenza del Consiglio è nominato Segretario del Consiglio dei ministri: egli cura la
verbalizzazione e la conservazione del registro delle deliberazioni e sovrintende all'ufficio di
segreteria del Consiglio.
I commissari straordinari. L’art. 11 della legge n. 400/1988 ha previsto la possibilità del
ricorso a commissari straordinari del Governo, incaricati di realizzare specifici obiettivi relativi
agli indirizzi deliberati dal Parlamento o dal Consiglio dei ministri o garantire in via
temporanea il coordinamento operativo tra amministrazioni statali. Si tratta quindi di organi
non politici, ma di alta amministrazione.
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per l’elaborazione del programma economico nazionale nonché le direttive generali per
l’attuazione del programma stesso.
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assumono la responsabilità. Gli atti che hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge
sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio”.
Particolare rilievo assume, al fine della configurazione della responsabilità ministeriale, l’istituto
della controfirma, ove si osservi che la maggior parte degli atti del Presidente della Repubblica
sono imputabili al Capo dello Stato solo formalmente mentre sostanzialmente sono posti in
essere dal Governo.
Per quanto riguarda la responsabilità giuridica dei ministri e del Presidente del Consiglio, questa
può essere distinta in civile, penale e amministrativa.
- La responsabilità penale. L’art. 96 Cost, dispone: “Il Presidente del Consiglio e i
ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio
delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato o della
Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale”.I ministri, a
differenza dei parlamentari, non beneficiano d’immunità dagli arresti e sono sottoposti
alla giustizia ordinaria. Pertanto, se commettano un reato nell’esercizio delle loro
funzioni, vengono giudicati dal Tribunale.Perché possaavvenire un processo è però
necessaria la preventiva autorizzazione da parte della Camera di appartenenza, se si
tratta di un parlamentare, oppure del Senato se il ministro non è membro del
Parlamento.L’autorizzazione parlamentare è preceduta da accertamenti condottida un
apposito collegio di magistrati, definito Tribunale dei ministri che, al termine delle
indagini, può disporre l’archiviazione del caso se non si riscontrano elementi di
consapevolezza, oppure può disporre la trasmissione degli atti al Presidente della
Camera competente. Questa potrà negare l’autorizzazione e procede qualora ritenga che
il ministrosotto accusa abbia operato per tutelare un interesse dello Stato o per
perseguire un interesse pubblico.
- La responsabilità civile. I ministri sono civilmente responsabili dei danni che
provocano a persone o cose in base all’art 2043 del Codice civile “qualunque fatto doloso
o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto
a risarcire il danno”.In pratica i ministri, come tutti i cittadini, rispondono delle
conseguenze di atti da loro commessi.
- La responsabilità amministrativa. È possibile che un ministro provochi un danno allo
Stato, ad esempio il reato di appropriazione di denaro pubblico.In tale ipotesi egli incorre
in responsabilità amministrativa, che lo obbliga a risarcire i danni allo Stato. L’organo
giudicante in materia di tale responsabilità è la Corte dei conti.
Capitolo IV
LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
La Pubblica amministrazione è il complesso degli uffici, del personale, dei mezzi e delle strutture
preposte a svolgere i compiti di amministrazione attiva, ossia a dare attuazione concreta ai
programmi e agli obiettivi del Governo. L’organizzazione e il funzionamento
dell’amministrazione statale sono attribuite dalla Costituzione al Parlamento, che le disciplina
con apposite leggi. Negli ultimi anni le Camere hanno previsto un modello di gestione
dell’amministrazione pubblica più attento all’efficienza, alla rapidità, all’economicità e
all’imparzialità, al fine di rendere l’amministrazione più vicina ai cittadini.
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dipartimenti, comprende una serie di uffici periferici quali le Prefetture, le Questure, gli Archivi
di Stato, i sindaci.
Oltre agli uffici, centrali e periferici dello Stato, entrano a far parte della pubblica
amministrazione anche gli uffici degli altri enti pubblici sia territoriali (Regioni, Città
metropolitane, Province, Comuni) sia non territoriali.
Più in generale, la locuzione “Pubblica amministrazione” sta ad indicare tutti quegli uffici
pubblici che svolgono funzioni sostanzialmente amministrative anche se non fanno parte
dell’amministrazione, diretta o indiretta, dello Stato.
L’amministrazione centrale
L’Amministrazione centrale dello Stato è ordinata in Ministeri, ciascuno dei quali fa capo ad un
ministro, oltre che in uffici e dipartimenti, istituiti con decreto del Presidente del Consiglio.
L’amministrazione periferica
Le strutture centrali dell’amministrazione dello Stato hanno uffici dislocati sull’intero territorio
nazionale. Questo per poter assicurare al meglio la presenza di rappresentati del potere centrale
in periferia, al fine di consentire un più proficuo svolgimento dell’attività amministrativa, sia per
rispondere a quello che è il dettato dell’art. 5 Cost. secondo cui “la repubblica riconosce e
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promuove le autonomie locali” e “attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio
decentramento”.
L’Amministrazione periferica, dunque, è la dislocazione a livello locale degli Uffici
dell’Amministrazione centrale. Sono in prevalenza uffici di Ministeri e svolgono la loro attività a
livello regionale e provinciale.
I più importanti Uffici periferici a livello regionale sono:
- Uffici regionali scolastici
- Direzioni regionali dell’agenzia delle entrate
- Direzioniregionali dell’agenzia delle dogane
- Ispettorati regionali dei vigili del fuoco
I più importanti Uffici periferici decentrati in sede provinciale sono:
- Uffici territoriali del governo (ex Prefetture)
- Questure
- Direzioni compartimentali delle entrate
- Uffici unici delle entrate
- Uffici provinciali dell’agenzia del territorio
- Comandi provinciali dei vigili del fuoco
- Uffici provinciali della Motorizzazione civile
È da precisare che, con il trasferimento alla Regioni di parte delle funzioni amministrative
statali, oltre che dei relativi uffici e del personale, alcuni uffici periferici statali sono stati
sostituiti da omologhi uffici regionali.
L’Amministrazione locale
Un ente locale è un ente pubblico di governo o amministrazione locale la cui competenza è
limitata entro un determinato ambito territoriale.L’art. 114 Cost. stabilisce che “la Repubblica è
costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Di
conseguenza gli enti pubblici locali previsti dalla Costituzione sono quattro:
Comune;Provincia;Città metropolitana;Regione.
In via di prima approssimazione, possiamo affermare che il Comune è l’ente pubblico
rappresentativo e territoriale di base, l’ente più “vicino” ai cittadini, e il più numeroso, basti
pensare che in Italia i Comuni sono circa 8000. La Provincia (le Province italiane sono circa
100) è l’ente territoriale che al suo interno comprende più Comuni; la Città metropolitana è
l’ente territoriale che comprende più Comuni facenti parte di un’area metropolitana
predeterminata e che, rispetto a tali Comuni, si sostituisce alla Provincia. La Regione, infine, è
l’ente territoriale che comprende al suo interno più Province. Le Regioni sono 20, 15 a Statuto
ordinario e 5 a Statuto speciale. Si tenga presente che le Province autonome di Trento e Bolzano
godono di condizioni particolari di autonomia, tanto da poterle considerare sostanzialmente
parificate alle 5 Regioni a Statuto speciale.
Si possono individuare 7caratteri fondamentali degli enti locali e che accomunano i Comuni, le
Province, le Città metropolitane, le Regioni.
1) Sono enti, cioè persone giuridiche di diritto pubblico, e quindi soggetti di diritto distinti da
ogni altro, disciplinati da norme di diritto pubblico, con un proprio patrimonio, un proprio
bilancio e una propria responsabilità giuridica.
2) Sono enti autonomi, per cui godono di spazi di libertà rispetto agli altri enti, possono cioè si
possono autodeterminare rispetto alle questioni fondamentali che li riguardano. Quanta
autonomia, in concreto, spetti alla Regione e agli enti locali, è stabilito direttamente dalla
Costituzione con differenti gradualità. Per le Regioni, ad esempio, è la stessa Costituzione ad
elencare le materie che rientrano nella potestà legislativa regionale, mentre per la distribuzione
delle funzioni amministrative tra lo Stato, le Regioni e gli altri enti locali l’art. 118 Cost.
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individua solo dei principi guida che il legislatore deve seguire per effettuare in concreto tale
ripartizione.
3) Sono enti politici, godono cioè di autonomia politica. I loro organi, infatti, non sono obbligati
ad obbedire agli indirizzi politici dello Stato, ma possono darsi programmi politici propri diversi
da quelli dello Stato, pur nel rispetto, ovviamente, della Costituzione e delle leggi. Si pensi a
questo proposito alla possibilità che alcune Regioni siano governate dal centrosinistra, e che la
maggioranza che siede in Parlamento sia di centrodestra.
4) Sono enti rappresentativi, in quanto esprimono la volontà, i bisogni, i programmi, della
maggioranza della collettività di persone che organizzano e dirigono.
5) Sono enti elettivi, quale logica conseguenza del fatto che sono rappresentativi, cioè i massimi
organi dirigenti di ogni ente sono scelti, direttamente o indirettamente, dalla stessa collettività
che essi rappresentano.
6) Sono enti territoriali, enti cioè la cui esistenza è individuata dal loro territorio, quale
elemento necessario.
7) Sono enti necessari, in quanto tutti i cittadini appartengono necessariamente ad un Comune
(residenza anagrafica), ad una Provincia, ad una Regione.
Altri enti locali sono:
- le Comunità montane. Una comunità montana è un ente territoriale locale il cui scopo è
la promozione e la valorizzazione delle zone montane.
- le Aziende sanitarie locali. Assolvono, mediante un complesso di presidi (ospedalieri,
ambulatoriali, etc…) ai compiti del servizio sanitario nazionale. Si tratta di un ente
pubblico locale che s’interessa delle funzioni sanitarie. La determinazione dei loro ambiti
territoriali compete alle Regioni, sentiti i Comuni interessati, previo parere espresso dalla
Provincia. Tali aziende sono dotate di personalità giuridica pubblica e di autonomia
organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica.
- le Aziende di promozione turistica. Organismi tecnico-operativi e strumentali muniti
di autonomia amministrativa e di gestione. Svolgono l’attività di promozione e
propaganda delle risorse turistiche locali, d’informazione e accoglienza.
- le Camere di Commercio, industria, artigianato, e agricoltura. Istituite una ogni
Provincia, hanno funzioni di interesse generale per il sistema delle imprese e ne curano lo
sviluppo nell’ambito delle economie locali. Sono enti di diritto pubblico dotati di
autonomia funzionale e regolamentare.
Le Amministrazioni indipendenti
Si caratterizzano per un elevato grado di indipendenza nei riguardi del potere politico e
burocratico, cosicché sono in grado di esercitare le loro funzioni, dirette prevalentemente alla
tutela di interessi collettivi, senza condizionamenti di sorta e in regime di relativa autonomia.
Rientrano fra le Amministrazioni indipendenti:
- Il Difensore civico: a cui è attribuito il ruolo di garante dell’imparzialità e del buon
andamento della pubblica amministrazione.Le leggi regionali hanno attribuito al
Difensore civico il compito di vigilare (su istanza degli interessati) sul regolare
svolgimento delle pratiche presso gli uffici dell’amministrazione regionale e degli enti ed
aziende dipendenti dalla Regione. È nominato dal Consiglio regionale, al quale deve ogni
anno presentare una relazione sull’attività svolta.
- L’IVASS (Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni): è un ente pubblico che ha il
compito di vigilare affinché anche nel settore delle assicurazioni private non vengono a
crearsi posizioni dominanti.
- La Banca d’Italia che vigila sulle aziende di credito e che ha poteri normativi (volti a
disciplinare l’attività delle banche), amministrativi, ispettivi, sanzionatori.
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Capitolo V
GLI ORGANI AUSILIARI
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Capitolo VI
LA CORTE COSTITUZIONALE
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La composizione
Dato il suo ruolo di garanzia la Corte deve esprimere il massimo dell’imparzialità e della
competenza, per questo la Costituzione ha previsto che i suoi componenti venissero scelti da
diverse istituzioni con procedimenti complessi. Innanzitutto, per essere nominati, i membri della
Corte devono provenire o da supreme magistrature o essere professori ordinari di diritto, oppure
avvocati con almeno venti anni di esperienza.
Dei quindici membri che la compongono, un terzo viene eletto dalle supreme magistrature, un
terzo dal Parlamento in seduta comune e un terzo dal Capo dello Stato.
L’elezione di cinque giudici da parte delle supreme magistrature è a sua volta ripartita in modo
che tre giudici siano eletti dalla Corte di Cassazione, uno dal Consiglio di Stato e uno dalla Corte
dei conti. L’elezione avviene in ogni caso a maggioranza assoluta, con eventuale ballottaggio.
L’elezione da parte del Parlamento è quella più complessa. Infatti per evitare nomine di parte, è
richiesta una maggioranza dei due terzi dei componenti per i primi tre scrutini e di tre quinti in
quelli successivi.
Infine il Presidente della Repubblica nomina gli altri cinque membri, considerando le scelte del
Parlamento in funzione di riequilibrio.
I giudici sono eletti per nove anni. La necessità di mantenere il carattere d’indipendenza e
imparzialità della Corte non ha impedito di designare giudici costituzionali che, negli anni,
hanno avuto anche ruoli politici. Alcuni giudici costituzionali sono stati scelti tra ex
parlamentari, membri dell’assemblea costituente, ministri e addirittura Presidenti del consiglio,
come nel caso di Giuliano Amato.
Il Presidente
Il Presidente è considerato primus inter pares, dunque il suo voto vale come quello degli altri
giudici, eccetto in casi di parità. È eletto a maggioranza assoluta, con eventuale ballottaggio, per
tre anni. Il mandato sarebbe rinnovabile, tuttavia accade spesso che un Presidente non termini
neanche il primo mandato, visto che solitamente la scelta ricade tra uno dei membri più anziani.
Al Presidente spetta di definire il calendario dei lavori e assegnare a ciascun giudice il compito di
relatore per le cause.
Le funzioni del Presidente della Corte costituzionale, dunque, sono principalmente due:
- dirige i lavori della Corte Costituzionale;
- assume un ruolo primario perché, in caso di parità su alcune decisioni, il suo voto è
prevalente.
Il funzionamento
La Corte costituzionale è un organo collegiale e prende le sue decisioni collettivamente. Dunque
è importante che la Corte sia quanto più possibile al completo, per non rallentarne i lavori e
perché è necessaria la presenza di almeno undici giudici affinché possa deliberare. I giudici
dovrebbero essere 15, tuttavia spesso accade che siano meno a causa di ritardi, da parte del
Parlamento, nella sostituzione di un membro uscente. Nella seconda metà del 2015 si è arrivati
ad avere solo dodici giudici costituzionali, giusto uno in più rispetto al numero legale.
La Corte costituzionale agisce solo attraverso il ricorso da parte di un organo della Repubblica:
non può agire su propria iniziativa.
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Capitolo VIII
GLI ENTI TERRITORIALI
A) LE REGIONI
Sezione I
LA FORMAZIONE E LA NATURA GIURIDICA DELLE REGIONI
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Sezione II
L’ORGANIZZAZIONE DELLE REGIONI
Premesse
L’art. 121 Cost., anche a seguito dell’emanazione della legge cost. n. 1 del 1999, indica quali
organi direttivi della Regione: il Consiglio regionale, la Giunta e il suo Presidente. A tali organi
deve oggi aggiungersi, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, il Consiglio delle
autonomie locali.
Il Consiglio regionale
Il Consiglio regionale (Assemblea regionale in Sicilia) è l’organo rappresentativo-deliberativo
della Regione (art. 121 co. 2 Cost.) ed è eletto dal corpo elettorale regionale. Esso, insieme al
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Presidente della Giunta regionale e alla Giunta regionale, costituisce uno dei tre organi
costituzionalmente necessari della Regione (art. 121 co. 1 Cost.).
Fino al 1999 il Consiglio regionale era dei tre organi quello più rilevante, in quanto esso più di
tutti esercitava l’indirizzo politico-amministrativo regionale: era, infatti, il Consiglio regionale
ad eleggere il Presidente della Giunta regionale e a rimuoverlo tramite una mozione di sfiducia,
così come era sempre il Consiglio regionale l’organo a cui spettava non solo la potestà
legislativa, ma anche quella regolamentare attribuita alle Regioni.
Le riforme costituzionali del triennio 1999-2001 (legge cost. n. 1/1999; legge cost. n. 2/2001;
legge cost. n. 3/2001) hanno notevolmente inciso sul ruolo complessivo e sulle singole funzioni di
tale organo all’interno delle Regioni ad autonomia ordinaria: esso, infatti, ha perduto molte
competenze a favore del Presidente della Giunta regionale (tendenzialmente eletto a suffragio
universale diretto) e della stessa Giunta regionale (tendenzialmente competente a deliberare sui
regolamenti regionali); può votare una mozione di sfiducia nei confronti del Presidente della
Giunta regionale (art. 126 co. 2 Cost.), ma, ove questi sia stato eletto a suffragio universale
diretto, al voto di tale mozione di sfiducia consegue di diritto il suo scioglimento. Per altro verso,
il Consiglio regionale gode ora, in esclusiva, della potestà statutaria (art. 123 Cost.) e ha visto un
considerevole ampliamento della potestà legislativa regionale (art. 117 co. 3 e 4 Cost.). Oltre a
tali funzioni, i Consigli regionali godono poi di ulteriori attribuzioni costituzionali: l’iniziativa
legislativa statale (artt. 71 e 121 co. 2 Cost.; Procedimento legislativo); la richiesta di
referendum abrogativo (art. 75 Cost.) e costituzionale (art. 138 Cost.; Revisione costituzionale);
l’elezione dei delegati regionali che partecipano alla elezione del Presidente della Repubblica
(art. 83 co. 2 Cost.).
Le scelte in ordine alla forma di governo regionale – in particolare, l’elezione del Presidente della
Giunta regionale a suffragio universale diretto o dal Consiglio regionale – e al numero dei
componenti del Consiglio regionale sono rimesse allo Statuto regionale, mentre le modalità di
elezione del Consiglio regionale (il sistema elettorale), così come la durata degli organi elettivi e
i casi di ineleggibilità e di incompatibilità dei consiglieri regionali, del Presidente e degli altri
membri della Giunta sono disciplinate da una legge regionale, nel rispetto dei principi
fondamentali stabiliti con legge statale (art. 122 co. 1 Cost.). La legge che ha dato attuazione a
questa disposizione costituzionale (legge n. 165/2004) ha previsto che, in caso di elezione
diretta del Presidente della Giunta regionale, le elezioni per il Consiglio regionale siano ad essa
contestuali, laddove, invece, in caso di elezione consiliare del Presidente della Giunta regionale,
l’elezione di quest’ultimo avvenga non oltre novanta giorni dall’elezione del Consiglio regionale.
In materia di sistema elettorale, la legge n. 165/2004 si limita solo a stabilire il principio che il
sistema elettorale prescelto debba agevolare la formazione di maggioranze stabili, assicurando,
nel contempo, la rappresentanza delle minoranze. Si riconosce, inoltre, a favore dei consiglieri
regionali – analogamente a quanto è già previsto per i parlamentari (Rappresentanza politica)
– il principio del divieto di mandato imperativo, allo scopo di tutelarne la libertà e
l’indipendenza nell’esercizio delle loro funzioni, garanzia peraltro rafforzata dalla previsione
costituzionale dell’insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro
funzioni (art. 122 co. 4 Cost.). La legge n. 165/2004 fissa, infine, in cinque anni la durata
massima del Consiglio regionale, salvo scioglimento anticipato.
Il Consiglio regionale può essere sciolto, con decreto motivato da parte del Presidente della
Repubblica, quando compia atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge o per
ragioni di sicurezza nazionale. Il decreto è adottato, sentito il parere di una commissione per le
questioni regionali, composta da deputati e da senatori (art. 126 co. 1 Cost.).
Come tutti i corpi collegiali con funzioni rappresentative-deliberative, il Consiglio regionale si
articola al proprio interno in gruppi consiliari, sulla cui base si costituiscono le diverse
Commissioni; esso adotta un proprio regolamento ai fini dell’organizzazione del proprio lavoro
ed elegge tra i propri membri – generalmente con una maggioranza qualificata, visto il ruolo di
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garanzia ricoperto – un Presidente e un Ufficio di Presidenza (art. 122 co. 3 Cost.), con compiti di
direzione imparziale del dibattito.
La Giunta regionale
La Giunta è l’organo esecutivo della Regione ed composta da un Presidente e da un numero di
assessori fisso o variabile. L’art. 122 Cost. ha attribuito al Presidente della Giunta il potere di
nomina e revoca dei componenti della Giunta, anche se contestualmente salvaguarda la facoltà
degli statuti di disporre diversamente (art. 122 co. 5 Cost.).
Non risulta invece alcunché che possa indurre con sicurezza ad affermare che il Presidente eletto
e la Giunta dello stesso nominata debbano godere della fiducia del Consiglio. La novella del 1999,
infatti, non stabilisce né esclude che il Presidente eletto, unitamente agli altri componenti della
Giunta, debba presentarsi davanti al Consiglio per ottenere la fiducia. Prima del 1999 l’esistenza
di un rapporto fiduciario tra Giunta e Consiglio era certa in quanto la Giunta veniva eletta da
parte del Consiglio.
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I Presidenti delle Regioni a statuto speciale partecipano, inoltre, per espressa disposizione degli
statuti stessi, alle sedute del Consiglio dei ministri, con voto consultivo, quando il Consiglio tratti
questioni che riguardano particolarmente la loro Regione.
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Sezione III
I RACCORDI FRA LO STATO E LE REGIONI
Il regionalismo cooperativo
L’accresciuta importanza delle Regioni e l’estendersi delle competenze loro attribuite in seguito
alla riforma costituzionale del Titolo V, parte II, della Costituzione, avvenuta nel 2001,
comportano inevitabilmente l’esigenza di creare delle forme di collaborazione e di
coordinamento con altri enti con cui devono necessariamente “dialogare” per esercitare al
meglio le loro attribuzioni. La necessità di tale coordinamento nasce in primo luogo dalla
posizione stessa della Regione, ente che si colloca in una posizione intermedia tra gli altri enti
locali e lo Stato; è in primo luogo, quindi, con questo soggetto che devono essere istituite e
portate avanti forme di collaborazione e di coordinamento. La riforma costituzionale del 2001
ha, inoltre, da un lato, valorizzato il ruolo delle Regioni sulla scena internazionale, attribuendo
una significativa potestà estera; dall’altro lato, ha previsto una partecipazione attiva e incisiva
al processo di formazione e di recepimento della normativa dell’Unione europea.
Il primo soggetto con il quale le Regioni devono costantemente confrontarsi e coordinare la loro
a vità è indubbiamente lo Stato: quest’ultimo, infatti, condivide con gli enti regionali una potestà
legislativa concorrente in numerose materie, controlla ancora oggi gran parte delle fonti di
finanziamento delle Regioni, etc.
L’art. 118 co. 3 Cost. prevede esplicitamente forme di coordinamento fra lo Stato e le Regioni in
due settori particolari che sono di esclusiva competenza statale: l’immigrazione e l’ordine
pubblico e la sicurezza. Si tratta di materie che presentano problematiche differenziate da una
realtà territoriale all’altra e che, quindi, impongono interventi diversi da parte delle autorità
centrali.
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Le sedi in cui Stato e autonomie territoriali s’incontrano per definire linee politico-
amministrative e scelte comuni, contemperando interessi che possono essere contrastanti, sono
le Conferenze permanenti, cui deve aggiungersi la Commissione bicamerale per le
questioni regionali. Sono organismi che hanno il fondamentale compito di dare concreta
attuazione al nuovo asse della Repubblica delineato dalla riforma della legge Cost. 3/2001 e di
realizzare, nel rispetto del principio di leale collaborazione, un proficuo coordinamento tra i
diversi livelli di governo (cosiddetto regionalismo cooperativo).
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Sezione IV
L’AUTONOMIA FINANZIARIA
Considerazioni generali
L’art. 119 Cost. dispone che “i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno
autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci, e
concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti
dall’ordinamento dell’Unione europea”.
La novella costituzionale implica, pertanto, che Regioni ed enti locali si reggano con la finanza
propria, vale a dire finanziando le proprie spese di funzionamento, d’intervento e di
amministrazione, con i mezzi prelevati dalla propria collettività, salva naturalmente l’esigenza
di perequazione delle situazioni meno avvantaggiate.
Tale autonomia, sebbene formalmente riconosciuta a tutti gli enti territoriali in misura eguale,
di fatto, risulta, tuttavia, differenziata. Infatti, posto che l’art. 23 Cost. prevede che la potestà
impositiva possa essere esercitata solo in base alla legge, le Regioni (ex art.117 Cost.) sono gli
unici enti territoriali in condizione di imporre autonomamente dei tributi; mentre, la potestà
impositiva delle altre istituzioni territoriali, deve, necessariamente, operare, in via
regolamentare, all’interno di leggi regionali o statali (ad esempio l’Imposta comunale sugli
immobili istituita con legge statale).
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b) nella partecipazione delle Regioni al gettito di alcune imposte erariali che affluisce in un
fondo comune ripartito fra le varie Regioni secondo criteri predeterminati che tendono a
favorire le Regioni economicamente più depresse;
c) nella creazione di un fondo per il finanziamento dei programmi regionali di sviluppo;
d) nella qualificazione dei contributi speciali come spese aventi carattere aggiuntivo
rispetto alle spese effettuate dallo Stato con carattere di generalità per tutto il proprio
territorio.
La legge 335 del 19 maggio 1976 ha poi disposto che tutte le somme assegnate, a qualsiasi titolo,
dallo Stato alla Regione confluiscano nel bilancio regionale senza vincolo di destinazione. Si
aggiunga, infine, che l’unica fonte significativa di finanziamenti delle Regioni a statuto ordinario
è costituita dai cosiddetti “trasferimenti vincolanti”, vale a dire quei trasferimenti (provenienti al
95% dal Governo centrale) che obbligano le Regioni ad utilizzare le somme ricevute in
determinati settori di intervento (prevalentemente nella sanità). Tali trasferimenti hanno
rappresentato circa il 92% delle entrare regionali, a fronte dell’8% circa delle cosiddette
“entrate libere”, vale a dire di quelle entrate che sono affluite nei bilanci delle Regioni senza un
vincolo specifico di destinazione. Con la riforma dell’art. 119 Cost. dovrebbe realizzarsi
l’inversione di tale logica, per cui la quota più ingente delle risorse destinate alle Regioni non
dovrebbe avere un vincolo di destinazione.
Sezione V
LO SCIOGLIMENTO DEL CONSIGLIO REGIONALE
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La scelta compiuta dal legislatore di revisione costituzionale del 1999 è stata meno drastica
della totale eliminazione del potere statale di dissoluzione degli organi di vertice della Regione.
Tendenzialmente è stato conservato il potere sanzionatorio di scioglimento del Consiglio
regionale “per mano” dello Stato, affiancandovi il potere di rimozione del Presidente della
Giunta. I presupposti che giustificano l’esercizio di tale potere statale di scioglimento del
Consiglio regionale e rimozione del Presidente della Giunta sono rimasti invariati (atti contrari
alla Costituzione, gravi violazioni di legge, ragioni di sicurezza nazionale).
Sono state, invece, eliminate dall’area di incidenza del potere statale, le ipotesi di mancato
funzionamento del Consiglio regionale, probabilmente ritenute corrispondenti ad interessi della
sola comunità regionale.
Le Regioni, infatti, nell’esercizio della propria potestà statutaria, scegliendo la forma di governo,
potranno prevedere ulteriori ipotesi di anticipata cessazione dalla carica degli organi direttivi,
come pure potranno farne venir meno lacune di quelle oggi previste. Nell’ipotesi in cui le Regioni
scelgano nei loro statuti di confermare l’elezione diretta del Presidente della Giunta, la
rimozione di tale figura determina altresì le dimissioni della Giunta e lo scioglimento del
Consiglio.
Il procedimento di scioglimento del Consiglio regionale consta di due fasi: una fase preparatoria
e una fase costitutiva.
Nella fase preparatoria rientra anzitutto il parere di una Commissione di deputati e senatori
costituita, per le questioni regionali, nei modi stabiliti con legge della Repubblica. In questa fase
preparatoria rientra anche la deliberazione del Consiglio dei ministri e la proposta avanzata in
questo senso al Capo dello Stato dal Presidente del Consiglio, come pure gli accertamenti diretti
a rilevare l’esistenza dei presupposti richiesti dalla Costituzione per poter procedere allo
scioglimento del Consiglio o alla rimozione del Presidente.
Nella fase costitutiva rientra oggi il solo decreto motivato del Presidente della Repubblica con il
quale viene disposto lo scioglimento del Consiglio o la rimozione del Presidente.
Per quanto riguarda le Regioni a statuto speciale, l’art. 8 dello statuto siciliano stabilisce per lo
scioglimento dell’Assemblea regionale un procedimento diverso che vede la decisione
sostanzialmente assunta dalle Camere.
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61
gli assessori o i consiglieri eletti dei Comuni che appartengono al territorio sotto cui la
giurisdizione della Provincia rimane. Sul fronte delle competenze, l’unica, vera funzione di peso
rimasta in capo alle Province sarà quella dell’edilizia scolastica, oltre ad altri servizi non certo
secondari, come quello sulle pari opportunità.
L’Unione di Comuni è un ente locale costituito da almeno due Comuni allo scopo di esercitare
determinate funzioni. L’Unione ha propria personalità giuridica, è dotata di autonomia
statutaria, regolamentare, organizzativa e finanziaria e di propri organi politici e gestionali.
Il Comune
Il Comune è l’ente territoriale di base, che la Costituzione (art. 114) pone come primo elemento a
fondamento della Repubblica. Il Comune è l’organo a più diretto contatto con la comunità locale,
di cui rappresenta gli interessi e promuove lo sviluppo, godendo dei diversi livelli di autonomia
stabiliti dalla Costituzione e dal TUEL. L’art. 3 TUEL gli attribuisce autonomia statutaria,
normativa, organizzativa e amministrativa nonché – nell’ambito dello statuto, del regolamento e
delle leggi di coordinamento della finanza pubblica – di autonomia impositiva e finanziaria.
Funzioni. Oltre che di funzioni proprie, il Comune è titolare delle funzioni che gli sono conferite
con legge statale o regionale. Competono al Comune tutte le funzioni amministrative che
riguardano popolazione e territorio comunale, in primo luogo nei settori organici dei servizi alla
persona e alla comunità, dell’assetto e utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico. Il
Comune svolge anche funzioni amministrative per servizi di competenza statale, quali, ad
esempio, i servizi elettorali o quelli di stato civile e anagrafe.
Organi del Comune. Sono: il Consiglio comunale, la Giunta comunale, il sindaco e il segretario
comunale. Il corpo elettorale elegge direttamente sia il sindaco che il Consiglio comunale. Il
sistema elettorale varia a seconda che il Comune abbia un numero di abitanti inferiore o
superiore alle 15000 unità. Il Consiglio comunale è un organo collegiale, con funzioni d’indirizzo
e di controllo politico amministrativo, composto da un numero minimo di 12 membri a un
massimo di 60 membri, a seconda dell’entità della popolazione comunale. Il Consiglio si rinnova
ogni 5 anni. Le funzioni esecutive sono svolte dalla Giunta comunale, composta dal sindaco che la
presiede, e dagli assessori, nominati dallo stesso sindaco. Il numero degli assessori è stabilito
dallo statuto, entro i limiti fissati dalla legge.
Il Consiglio comunale, come detto, è l’organo d’indirizzo e di controllo politico-amministrativo.
Spetta al Consiglio comunale, a norma dell’art. 42 TUEL (Testo Unico delle leggi
sull’ordinamento degli Enti Locali), deliberare:
a) lo statuto dell’ente e delle aziende speciali, i regolamenti, l’ordinamento degli uffici e dei
servizi;
b) i programmi e i bilanci annuali e pluriennali e relative variazioni, i conti consuntivi, le
relazioni previsionali e programmatiche, i piani territoriali e urbanistici e i relativi
programmi di attuazione, i pareri da rendere nelle suddette materie;
c) la disciplina dello stato giuridico e delle assunzioni del personale; le piante organiche e le
relative variazioni;
d) l’assunzione diretta dei pubblici servizi, la costituzione di istituzioni e di aziende speciali,
la concessione dei pubblici servizi;
e) l’istituzione e l’ordinamento dei tributi, la disciplina generale delle tariffe per la fruizione
dei beni e dei servizi;
La Giunta comunale compie, invece, tutti gli atti amministravi che non siano riservati dalla legge
al Consiglio e che non rientrino nelle competenze, previste dalle leggi e dallo statuto, del sindaco,
degli organi di decentramento, del segretario e dei funzionari dirigenti; riferisce annualmente al
Consiglio sulla propria attività, collabora con il sindaco nell’attuazione degli indirizzi generali e
svolge attività propositive e di impulso nei confronti dello stesso.
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63
PARTE TERZA
LE ATTIVITÀ E LE FUNZONI
DEI PUBBLICI POTERI
Capitolo I
L’ATTIVITÀ DI INDIRIZZO POLITICO
L’indirizzo politico
In ogni comunità politica l’attività di governo deve svolgersi secondo un disegno coerente e
ordinato affinché possa raggiungere i risultati voluti. Tale regola vale tanto per lo Stato, che è
un ente politico a fini generali, quanto per le Regioni, le Provincie e i Comuni, chiamati anch’essi
a svolgere un’azione di governo. Quando, dunque, si parla d’indirizzo politico, ci s’intende riferire
generalmente alla fissazione di fini da conseguirsi tramite l’azione politica.
L’indirizzo politico prende corpo e si sostanzia, in primo luogo, nella determinazione dei fini
dell’azione statale; successivamente è necessario predisporre un apparato organizzativo e i
mezzi materiali necessari per tradurre in termini giuridici la volontà programmata; infine
occorrerà realizzare i risultati che l’azione di governo si è proposta di raggiungere.
Ne risulta, dunque, che l’indirizzo politico è la risultante di una complessa attività affidata, a
livello statale, prevalentemente al Parlamento e al Governo.
All’attività di indirizzo politico vanno ricondotte le mozioni di fiducia e sfiducia, le leggi e le
procedure di indirizzo politico, la deliberazione dello stato di guerra, oltre che le procedure di
controllo e di informazione con le quali le assemblee legislative mirano ad accertare che
l’indirizzo effettivamente svolto dal Governo sia conforme con quello enunciato al momento delle
dichiarazioni programmatiche e in base al quale esse hanno votato la fiducia.
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65
La mozione di sfiducia
È l’atto mediante il quale viene revocato il mandato conferito al Governo, costringendolo alle
dimissioni; tale mozione deve essere firmata da almeno un decimo dei componenti della Camera
per assicurare il voto di una sufficiente quantità di parlamentari e non può essere messa in
discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione, per evitare colpi di mano, cioè votazioni
a sorpresa, magari nell’assenza di molti parlamentari ignari della circostanza.
Anche la mozione di sfiducia deve essere motivata, nel senso che deve contenere l’indicazione
delle ragioni per cui non si ritiene più opportuno avallare l’orientamento politico del Governo in
carica. In seguito all’approvazione di tale mozione, da parte anche di una sola delle due Camere,
il Governo deve presentare le sue dimissioni al Presidente della Repubblica.
La possibilità di votare una mozione di sfiducia nei confronti di un singolo ministro senza
coinvolgere l’intero Governo non è esplicitamente prevista dalla Costituzione. Ciononostante la
mozione di sfiducia individuale è stata ammessa nel regolamento della Camera dei deputati, che
all’art. 115 prevede la stessa disciplina dettata per la mozione di sfiducia al Governo; al Senato,
invece, pur non essendo specificamente disciplinata, è stata ammessa nella prassi già a partire
dal 1984.
Da non confondere con le mozioni di fiducia e sfiducia la questione di fiducia. Mentre le prime
sono presentate dai parlamentari, la seconda è posta dallo stesso Governo. Il Governo pone la
questione di fiducia su una legge (o più comunemente su un emendamento ad una legge),
qualificando tale atto come fondamentale della propria azione politica e facendo dipendere
dalla sua approvazione la propria permanenza in carica. Nella pratica politica tale strumento
viene usato dal Governo per compattare la maggioranza parlamentare che lo sostiene o per
evitare l’ostruzionismo dell’opposizione.
Ponendo la fiducia sulla legge, tutti gli emendamenti decadono e la legge deve essere votata così
come è stata presentata. Nel caso in cui il Parlamento respinga la questione di fiducia posta dal
Governo, quest’ultimo è considerato privo della fiducia della Camera e del Senato e pertanto è
tenuto a rassegnare il mandato nelle mani del Capo dello Stato. Va inoltre ricordato che tale
istituto giuridico richiede modalità garantite (voto nominale dell’atto nella sua interezza ed
entro 24 ore), permette un’attività senza ostruzione, mira ad annullare i franchi tiratori che si
nascondono dietro il voto segreto e permette una veloce espletazione del processo di
legiferazione. Ci sono altri due casi in cui il Governo può sollecitare alla maggioranza
l’approvazione di una mozione di fiducia: successivamente al “rimpasto”, cioè una modifica nella
composizione del gabinetto, e successivamente alla modifica del programma di Governo.
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Le leggi di indirizzo politico sono quelle leggi mediante le quali il Parlamento, in via diretta e
immediata, partecipa alla direzione politica dello Stato. Leggi di indirizzo politico sono
generalmente considerate la legge finanziaria (oggi legge di stabilità), le leggi di approvazione
del bilancio preventivo e le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali. Assai
più controverso è l’inserimento tra tali atti della dichiarazione di guerra ex art. 78 Cost., dal
momento che non è pacifico che questa debba avvenire sempre con legge.
La legge di bilancio è una legge con la quale viene approvato il bilancio dello Stato. In
particolare, essa è lo strumento previsto dall’art. 81 Cost. attraverso il quale il Governo, con un
documento contabile di tipo preventivo, comunica al Parlamento le spese pubbliche e le entrate
previste per l’anno successivo in base alle leggi vigenti (a differenza del rendiconto consuntivo,
che è invece un documento contabile nel quale sono elencate le entrate e le spese che si sono
realizzate nell’anno finanziario a cui il bilancio si riferisce).Qualora le Camere non facciano in
tempo ad approvare il bilancio, esse approvano una legge per concedere al Governo l’esercizio
provvisorio del bilancio per la durata complessiva non superiore a 4 mesi.
In base all’art. 81, la legge di approvazione del bilancio non può, a differenza della legge di
stabilità (ex legge finanziaria), introdurre nuovi tributi e nuove spese. Ogni altra norma che
introduca nuove spese deve indicarne la rispettiva copertura finanziaria. In base a questo
articolo, il Presidente della Repubblica può rifiutare la firma di leggi prive di copertura
finanziaria.
La legge 243/2012 ha disposto che, a partire dal 2016, la legge di bilancio costituirà un unico
testo legislativo con la legge di stabilità. Il 28 luglio 2016 il Parlamento ha approvato in via
definitiva la legge che disciplina la nuova legge di bilancio.
La legge cost. 1 del 2012, recante l’introduzione del principio del pareggio di bilancio nella
Carta costituzionale, ha inciso notevolmente sulla disciplina contenuta nell’art. 81 Cost.,
introducendo, anche sulla base di precisi obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione
europea (Fiscal compact), il principio del “pareggio di bilancio”. L’Unione europea, attraverso il
Fiscal compact, ha ritenuto di fronteggiare il problema della crisi economica introducendo
regole rigide per perseguire il consolidamento fiscale.
Il pareggio di bilancio comporta che l’ammontare delle spese pubbliche sostenute dallo Stato e
dagli altri enti pubblici sia uguale alle entrate ovvero al gettito fiscale: lo Stato, in tal modo,
evita di ricorrere all’indebitamento, ossia al deficit di bilancio pubblico. L’ammontare
complessivo dei disavanzi pubblici accumulati ogni anno porta invece alla formazione del debito
pubblico.
La legge cost. 1 del 2012, modificando l’art. 97 Cost., ha introdotto anche nei confronti di tutte le
pubbliche amministrazioni l’obbligo di assicurare l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del
debito pubblico, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea.
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ratifica del Presidente della Repubblica, prevista dall’art. 87 Cost., sia autorizzata dal
Parlamento al fine di consentire a quest’ultimo un controllo sulla politica estera esercitata dal
Governo.
In particolare, sono soggetti a tale autorizzazione, concessa solo con legge formale (e non con
decreto legge etc.), i trattati:
- di natura politica (di alleanza, di non aggressione, di garanzia, di protezione, di
neutralità etc.);
- di regolamento giudiziario: cioè relativi ai modi di risoluzione delle controversie
internazionali;
- che importano variazioni del territorio italiano;
- che importano oneri alle finanze;
- che implicano modificazioni di leggi.
Ciò spiega perché in più occasioni il Governo è ricorso ad accordi in forma semplificata, ossia
solo con la firma e senza ratifica del Capo dello Stato mediante sottoscrizione da parte dei
rappresentanti del Governo, in pratica un organo differente da quello previsto dalla Costituzione.
Per risolvere tale irregolarità, il Parlamento ha instaurato la prassi di emanare successivamente
una legge con cui si approvava un trattato, di fatto, già concluso.
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Capitolo II
LA FUNZIONE DI PREDISPOSIZIONE NORMATIVA
Sezione I
LE LEGGI COSTITUZIONALI
Il procedimento di formazione
Dal carattere rigido della nostra Costituzione discende che le leggi approvate dalle Camere con
uno dei procedimenti previsti dall’art. 72 Cost. (leggi ordinarie) non possono modificare la
Costituzione, essendo necessaria una legge approvata con una procedura aggravata (art. 138
Cost.) che assume il nome di “legge costituzionale”.
Le leggi costituzionali sono leggi di pari rango rispetto alla Costituzione e servono per
modificarla (leggi di revisione costituzionale) o per integrarla (leggi costituzionali).
Indipendentemente dal loro obiettivo le leggi costituzionali sono approvate dal Parlamento con
il cosiddetto procedimento aggravato, un sistema di votazione che richiede maggioranze più
ampie di quelle necessarie per l’approvazione delle leggi ordinarie e una doppia approvazione
da parte di ciascuna delle due Camere che deve avvenire con un intervallo di tempo tra una
votazione e l’altra non inferiore a tre mesi.
Le leggi di revisione costituzionale e quelle costituzionali vengono sottoposte a referendum
(detto sospensivo-consultivo) qualora nella seconda votazione non venga raggiunta la
maggioranza dei 2/3 in una delle due Camere e se entro tre mesi dalla pubblicazione sulla
Gazzetta Ufficiale ne facciano richiesta 1/5 dei membri di una Camera, 500.000 elettori o 5
Consigli regionali. Sarà l’elettorato e quindi il popolo sovrano a decidere se praticare quella
revisione della Costituzione, esprimendo la propria volontà in sede di referendum.
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Per quanto riguarda i limiti alla revisione costituzionale, la dottrina distingue tra quelli
cosiddetti espliciti e quelli cosiddetti impliciti. Limite esplicito è l’art. 139 Cost., che dichiara
esplicitamente sottratta alla revisione costituzionale la forma repubblicana dello Stato
(Repubblica). Questo limite non è altro che la positivizzazione nel testo costituzionale del
risultato del referendum-plebiscito del 1946, che ha sottratto la scelta a favore della Repubblica
alla stessa Assemblea costituente. Oltre a tale limite, vi sono poi, secondo la dottrina
maggioritaria, ulteriori limiti impliciti. In primo luogo, collegando l’art. 139 Cost. con l’art. 1
Cost., è stata ritenuta sottratta alla revisione costituzionale non solo la forma repubblicana, ma
anche quella democratica dello Stato (Forme di Stato e forme di governo). Oltre a ciò, la
giurisprudenza costituzionale ha ritenuto che siano insuscettibili di revisione costituzionale i
principi supremi dell’ordinamento, cioè tutti quei principi che “appartengono all’essenza dei
valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”, tra i quali vanno annoverati il
principio di sovranità popolare (art. 1 Cost.), quello di unità della giurisdizione costituzionale,
quello di unità e indivisibilità della Repubblica, quello di laicità dello Stato, etc..
SEZIONE II
LE LEGGI ORDINARIE E GLI ATTI VANETI FORZA DI LEGGE
Fase dell’iniziativa. Secondo l’art. 70 Cost. l’unico titolare del potere legislativo è il Parlamento.
Il Parlamento non è però l’unico titolare del potere di iniziativa di legge. Questo infatti è in capo
a diversi soggetti tutti stabiliti dall’art. 71 Cost.:
- Governo (In questo caso si parla di Disegno di legge - Ddl).
- Parlamento (In questo caso si parla di Proposta di legge - Pdl).
- Regioni.
- CNEL (Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro).
- Popolo (50.000 elettori).
Per prevedere altri soggetti con potere d’iniziativa si deve procedere con una legge
costituzionale che integri l’art. 71 Cost..
Fase costitutiva. L’art. 72 Cost. disciplina l’esame e l’approvazione della legge. Il Disegno di
legge o la Proposta di legge deve essere presentata in una delle due Camere. Il Presidente della
stesa la assegna ad una Commissione. Ci sono tre modalità di sedute per la commissione:
- In sede referente: la Commissione si limita solo ad una attività istruttoria.
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Fase integrativa. La Fase integrativa è la fase in cui la legge assume il suo vigore. La legge è
promulgata secondo l’art. 73 Cost. dal Presidente della Repubblica. Prima di promulgarla il
Presidente procede ad un primo vaglio di costituzionalità. Nel caso ravvisi un dubbio di non
conformità alla Costituzione, secondo l’art. 74 Cost., può rinviarla alle Camere ma qualora le
Camere la riapprovino senza modifiche al secondo vaglio il Presidente non potrà porre il suo
veto. La legge, dopo la promulgazione, è pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Solitamente dal
momento della pubblicazione a quella dell’effettiva entrata in vigore c’è un periodo di vacatio
legis di 15 giorni ma il Parlamento può prevedere, scrivendolo appositamente nella legge, che
essa abbia vigore prima dei 15 giorni oppure dopo.
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Il referendum abrogativo
Fra le fonti di diritto aventi efficacia pari a quella della legge ordinaria va ricompreso anche il
referendum abrogativo di leggi o aventi valore di legge. Se è vero che mediante il referendum
non si crea, direttamente e in via immediata, diritto, è altrettanto vero che l’abrogazione di una
o più norme non può essere considerata un fenomeno a sé stante, poiché provoca
nell’ordinamento una serie di reazioni a catena. Primo e più importante di tali effetti è dato dal
fatto che una determinata materia o parte di una materia, cessano di esserlo in seguito
all’abrogazione della norma che le regola. Questo effetto è di per sé idoneo, se non a produrre
una nuova norma, in ogni caso a modificare l’ordinamento giuridico preesistente. In secondo
luogo, l’ordinamento potrà essere chiamato a provvedere, mediante idonei interventi legislativi o
una serie di adattamenti interpretativi, a colmare il vuoto normativo provocato dall’esito
positivo della consultazione popolare.
Il referendum abrogativo è previsto dall’art. 75 Cost. che riserva l’iniziativa referendaria ai
cittadini (500.000 elettori) o alle Regioni (5 Consigli regionali). Questi possono proporre
all’elettorato “l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge”,
dove per legge si deve intendere una legge in senso formale, approvata dal Parlamento secondo
il procedimento ordinario, e per “atto avente valore di legge” un decreto legge o un decreto
legislativo. Il quorum indica il numero minimo di elettori che devono partecipare alla votazione
perché il referendum sia valido e perciò idoneo ad abrogare la disposizione oggetto del quesito:
esso è fissato nella maggioranza degli aventi diritto al voto. L’art. 75 Cost. stabilisce inoltre che
deve essere raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi.
Non tutte le leggi possono essere oggetto di abrogazione tramite referendum: alcune materie
sono sottratte dal secondo comma dello stesso art. 75 Cost. dall’azione dell’istituto. Non è
ammesso il referendum su leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione a
ratificare trattati internazionali. In più non è possibile abrogare mediante referendum
disposizioni costituzionali, gerarchicamente sovraordinate alla legge ordinaria e quindi
abrogabili solo mediante il procedimento aggravato previsto dall’art. 138 Cost.
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Le leggi provinciali
La legge provinciale costituisce una particolarità nel sistema normativo italiano. Infatti soltanto
due province, Trento e Bolzano, hanno potestà legislativa nelle materie indicate nello Statuto del
Trentino-Alto Adige e nei limiti dei principi della legge dello Stato.
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La legge provinciale ha efficacia nel territorio della Provincia, è equiparabile alla legge
ordinaria ed è sottoponibile al giudizio della Corte costituzionale.
Dopo essere stata approvata, essa è pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione autonoma
ed entra in vigore il trentesimo giorno dopo la pubblicazione.
Sezione III
LE FONTI REGOLAMENTARI
I regolamenti governativi
I regolamenti governativi, nell’ordinamento giuridico italiano, costituiscono fonti normative
secondarie e si collocano al di sotto delle fonti costituzionali e delle fonti primarie (leggi
ordinarie, atti aventi forza di legge, trattati internazionali e direttive e regolamenti dell’Unione
europea). Secondo la dottrina sono atti formalmente amministrativi e sostanzialmente
normativi. Il loro collocamento al di sotto delle fonti primarie è giustificato dal processo
richiesto per la loro approvazione, dal quale il Parlamento è completamente escluso: i
regolamenti governativi sono infatti proposti ed accettati interamente all’interno dell’esecutivo.
I regolamenti disciplinano materie non regolamentate da leggi, o si limitano ad eseguirne le
disposizioni.
La legge 400 del 1988 all’art 17 co. 1 e 4 definisce il procedimento di adozione. Il Consiglio dei
ministri delibera l’adozione del regolamento, acquisendo preventivamente il parere del Consiglio
di Stato. Il parere, acquisito entro 45 giorni, è obbligatorio e non vincolante, perché il Governo
può perfettamente discostarsene. Una volta deliberato il regolamento in Consiglio dei Ministri,
questo viene emanato per decreto del Presidente della Repubblica. A questo punto il
regolamento è un atto amministrativo considerato perfetto, ma non efficace. Perché l’atto
acquisisca efficacia deve passare sotto il controllo di legittimità esercitato dalla Corte dei conti,
la quale appone il visto e provvede alla registrazione. Solo alla fine di questo procedimento il
regolamento viene pubblicato in Gazzetta Ufficiale.
I regolamenti governativi si distinguono in:
- regolamenti di esecuzione delle leggi, dei decreti legislativi nonché dei regolamenti
comunitari, emanati per rendere più esplicito il contenuto di una legge o di un decreto
legislativo o di un regolamento comunitario, tutte le volte che questi, per il loro carattere
di generalità e astrattezza o per la loro particolare formulazione tecnica, necessitano,
per la loro migliore applicazione ai casi concreti, norme di dettaglio, integrative ed
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esplicative, senza però apportare aggiunte alla legge. Una legge in attesa di regolamento
di esecuzione può e deve essere ugualmente applicata nelle parti in cui ciò è possibile;
- regolamenti di attuazione e integrazione della legge e dei decreti legislativi recanti
norme di principio. Attuano e integrano le norme di principio contenute nelle leggi e nei
decreti legislativi. I regolamenti in oggetto si distinguono dai precedenti perché non si
limitano a portare ad esecuzione la norma di legge, ma contribuiscono ad integrarla
dettando la normativa di dettaglio. Tali regolamenti non sono ammissibili nelle materie
coperte da riserva assoluta di legge, mentre sono leciti nei casi di riserva di legge
relativa;
- regolamenti autonomi o indipendenti, che vengono emanati in materie ancora non
disciplinate da legge o atti aventi forza di legge, sempre che non si tratti di materie
comunque riservate alla legge, nel presupposto che, laddove la Costituzione non richiede
espressamente l’intervento del legislatore, la materia può essere disciplinata anche
mediante regolamento;
- regolamenti di organizzazione, che disciplinano l’organizzazione interna dei pubblici
uffici, e prima del 1948 godevano di un ampio raggio d’azione. Dall’entrata in vigore
della Costituzione, essendo la materia coperta da riserva di legge relativa, essi non si
distinguono più nella sostanza dai regolamenti di esecuzione o di attuazione e
integrazione. Tuttavia, nel 1997 la materia è stata oggetto di delegificazione, per cui ad
essi si sono sostituiti i regolamenti delegati;
- regolamenti autorizzati o delegati sono previsti al fine di dare corso ad un processo di
delegificazione (ossia dell’attribuzione al Governo del compito di regolamentare certe
materie). Tale processo è garantito da una legge avente contenuto autorizzatorio del
Parlamento che permette di disciplinare con regolamento un oggetto già regolato da
legge, anche su una materia coperta da riserva di legge (purché non assoluta). La legge
di autorizzazione dispone l’abrogazione della normativa vigente con effetto però
dall’entrata in vigore del regolamento (abrogazione differita);
- regolamenti di attuazione delle direttive comunitarie necessari a recepire
nell’ordinamento italiano le direttive dell’Unione europea;
- regolamenti di riordino e di ricognizione delle disposizioni regolamentari vigenti che
servono a provvedere al periodico riordino delle disposizioni regolamentari vigenti, alla
ricognizione di quelle che sono state oggetto di abrogazione implicita e all’espressa
abrogazione di quelle che hanno esaurito la loro funzione o sono prive di effettivo
contenuto normativo o sono comunque obsolete.
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Sia la riserva di legge assoluta sia quella relativa possono poi essere rafforzate, quando la
Costituzione non si limita a rinviare puramente e semplicemente alla legge (in quel caso si parla
di riserva di legge semplice), ma disciplina essa stessa parte della materia ponendo, in tal modo,
altrettanti limiti alla discrezionalità del legislatore (es.: art. 16 a norma del quale la legge può
stabilire limitazioni alla libertà di circolazione e soggiorno soltanto in via generale e per motivi
di sanità o di sicurezza).
Infine si ha riserva di legge costituzionale quando la Costituzione espressamente dispone che
determinate materie debbano essere regolate con legge costituzionale (es.: art. 132 per la
fusione di Regioni esistenti o la creazione di nuove Regioni).
I regolamenti regionali
La potestà regolamentare delle Regioni è oggi prevista nel nuovo art. 117 Cost., il quale opera
una ripartizione tra potestà regolamentare dello Stato, nelle materie di legislazione esclusiva, e
potestà regolamentare delle Regioni in ogni altra materia. Tuttavia lo stesso articolo fa salva la
possibilità che lo Stato deleghi alle Regioni la potestà regolamentare nelle materie di sua
competenza. Esistono pertanto due tipi di potestà regolamentare regionale: l’una propria, l’altra
delegata.
Per quel che riguarda il procedimento di formazione dei regolamenti, si deve ritenere che la
modifica dell’art. 121 Cost., operata dalla legge cost. 1 del 1999, abbia abrogato la riserva
esclusiva di competenza del Consiglio regionale. Ne consegue che ciascuna Regione potrà, nello
statuto, assegnare la potestà regolamentare al Consiglio o conferirla alla Giunta.
I regolamenti regionali sono pubblicati sul Bollettino Ufficiale della Regione ed entrano in vigore
non prima del quindicesimo giorno successivo alla loro pubblicazione.
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Sezione IV
LE FONTI SINDACALI
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Capitolo III
LA FUNZIONE AMMINISTRATIVA
Natura e oggetto
Con la locuzione “funzione amministrativa” si intende indicare “l’insieme delle attività svolte
dall’insieme degli apparati amministrativi dello Stato e degli altri enti o comunque delle altre
figure soggettive del settore pubblico”.
Non tutte le attività svolte dagli apparati amministrativi, però, hanno natura amministrativa (si
pensi, ad esempio, all’attività normativa). La definizione, pertanto, non esaurisce il campo, dato
che gli apparati amministrativi svolgono anche funzioni non amministrative. Quindi,
nell’impossibilità di definire in modo netto la natura della funzione amministrativa, bisogna
allora limitarsi ad affermare che essa ha per oggetto la cura concreta di interessi pubblici,
affidata ad autorità dell’apparato amministrativo, mediante un procedimento che mette capo ad
un atto tipico, dotato di una particolare efficacia.
Sezione I
DALLA FUNZIONE AL PROVVEDIMENTO
78
Infine abbiamo atti di controllo con cui si va a sindacare l’operato della pubblica
amministrazione, sia in ambito giuridico (controllo di legittimità) che di buona amministrazione
(controllo di merito).
A tali forme mediante le quali si svolge l’attività amministrativa, occorre affiancare sia l’ attività
tecnica, posta in essere da appartenenti alla pubblica amministrazione qualificati per il
possesso di particolari cognizioni nel campo della tecnica, che l’attività contenziosa, con la
quale la pubblica amministrazione, avvalendosi di un procedimento che ha alcuni elementi in
comune con quello giurisdizionale, mira a risolvere conflitti di interessi fra i privati o fra essa e i
privati (si pensi ai ricorsi amministrativi).
La ripartizione fra lo Stato e gli altri enti pubblici della funzione amministrativa
La titolarità e l’esercizio della funzione amministrativa sono suddivisi fra l’apparato
amministrativo dello Stato-soggetto e, a livello decentrato, gli organi delle Regioni, delle
Province, dei Comuni, degli enti locali o operanti in sede locale.
In uno Stato amministrativo decentrato, la funzione amministrativa si svolge a tre livelli: statale,
regionale e sub-regionale. Esiste inoltre un quarto livello, quello comunitario, che si esprime
nelle direttive e nei regolamenti comunitari.
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Sezione II
IL PROCESSO
Il processo penale
La giurisdizione penale è diretta ad accertare le responsabilità penali e applicare le relative
sanzioni. A differenza del processo civile l’azione penale è obbligatoria ed esercitata dallo Stato
per mezzo del Pubblico ministero (Pm).
Chi ha subito il comportamento criminoso o i suoi familiari (in caso di morte) può costituirsi
parte civile, chiedendo il risarcimento dei danni morali, materiali o della salute. Il processo
penale ha inizio, comunque, anche senza denuncia da parte dei testimoni o delle persone
danneggiate. Una parziale eccezione a questo principio è rappresentata dai reati perseguibili
solo su querela.
Sono parti nel processo penale:
- ilPubblico ministero
- l’imputato
Il Pm è il magistrato titolare della pubblica accusa ed è organizzato in uffici istituiti presso i
Tribunali ordinari, i Tribunali per i minorenni, le Corti d'Appello e le Corti di Cassazione.
L’imputato non è considerato colpevole sino alla sentenza definitiva (art. 27 Cost.) e, quindi, non
può essere sottoposto a restrizione della libertà personale sino a quando la sentenza non è
passata in giudicato. Fino a tale momento le misure cautelari possono essere disposte solo per i
delitti più gravi ed esclusivamente in caso di pericolo di fuga, d'inquinamento delle prove o che
l'imputato possa commettere gravi delitti. L’imputato, entro dieci giorni dall’ordinanza che
dispone la misura coercitiva, può proporre richiesta di riesame. Al pari del processo civile, il
giudice è terzo, cioè imparziale, indipendente da accusa e difesa.
I reati si distinguono in:
- Delitti (ergastolo, reclusione o multa)
- Contravvenzioni (arresto o ammenda)
Organi del processo penale sono:
- Giudice di Pace
- Tribunale
- Tribunale dei minori
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- Corte di Assise
- Corte d’Assise d’Appello
- Corte di Cassazione
- Giudice per le indagini preliminari (Gip)
- Giudice per l’udienza preliminare (Gup)
- Magistratura di Sorveglianza
Qui di seguito le fasi del processo penale:
Indagini preliminari (o istruttoria), due gli organi impegnati: il Pm, che svolge l’attività
investigativa. In questa fase la persona coinvolta può restare all’oscuro di tutto ed è previsto che
egli sia messo al corrente delle indagini con un avviso di garanzia solo se occorre compiere atti
ai quali il difensore ha il diritto di assistere (interrogatori, perquisizioni...); il Gip (Giudice delle
indagini preliminari) che svolge funzioni di controllo sulla legittimità dell’attività condotto dal
Pm e sulla correttezza relativa all’azione penale. Le indagini preliminari possono durare sei
mesi, con possibilità di proroga da parte del Gip su richiesta del Pm. Al termine delle indagini, il
Pm può:
- presentare richiesta di archiviazione al Gip, se ritiene l’accusa infondata
- esercitare l’azione penale, con la richiesta di rinvio a giudizio, formulando i capi di
imputazione nei confronti dell’indagato che diviene così l'imputato. In questo secondo
caso si passa all’udienza preliminare.
Udienza preliminare, nella quale il Gup (giudice per l’udienza preliminare) ascolta le parti
(Pm e imputato) e sulla base delle prove raccolte decreta:
- il rinvio a giudizio, cioè il passaggio all’udienza vera e propria
- emette la sentenza di non procedere, se non accoglie la richiesta del Pm.
Il dibattimento, è la fase più importante e decisiva del processo ed è affidata ad un giudice
diverso dal Gup. In questa fase si presentano le prove ed avviene l’interrogazione dei testimoni.
Al termine del contraddittorio le parti (imputato, attraverso il difensore, e Pm) formulano le loro
richieste. Quindi, il giudice si ritira in Camera di Consiglio ed emette una sentenza.
Vi sono poi dei procedimenti alternativi:
Il giudizio abbreviato, che è richiesto dall’imputato con il consenso del Pm, quando le prove
acquisite nel corso delle indagini sono sufficienti per concludere la causa; con esso si evita il
dibattimento, la decisione viene presa nell'udienza preliminare ed è prevista in caso di
condanna, la riduzione di un terzo della pena.
Il patteggiamento, si ha quando l’imputato si dichiara colpevole e si accorda con il pm,
ottenendo in cambio uno sconto della pena.
Il giudizio direttissimo, avviene quando l’imputato è colto in flagranza o abbia confessato. Si
saltano così le indagini preliminari e dell’udienza preliminare e si procede con il dibattimento.
Il giudizio immediato, quando è evidente la colpevolezza e anche in questo caso si salta
l’udienza preliminare.
Il procedimento per decreto, è la massima semplificazione e si applica solo per i reati punibili
con pena pecuniaria. Il giudice, senza alcun contraddittorio, emana un decreto di condanna. Se il
condannato si oppone, si instaura un normale processo.
Il processo amministrativo
Il processo amministrativo si svolge innanzi ai Tribunali amministrativi regionali e, in grado di
appello, innanzi al Consiglio di Stato. Esso ha per oggetto la tutela di un interesse legittimo che si
presume leso da un atto o da un comportamento della pubblica amministrazione e mira a
ottenere l’annullamento dell’atto.
Parti nel giudizio dinnanzi al Tar sono il ricorrente, vale a dire il soggetto (privato o pubblico)
che lamenta la lesione di un suo interesse legittimo, e il resistente, vale a dire l’amministrazione
che ha emanato l’atto.
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Il Tribunale amministrativo regionale ha sede nel capoluogo di ogni Regione. Il Tribunale del
Lazio è competente nel caso che un atto dell’amministrazione dispieghi i suoi effetti nel
territorio di più Regioni o sull’intero territorio nazionale.
Le azioni esperibili dinnanzi al giudice amministrativo sono:
- l’azione di annullamento del provvedimento illegittimo poiché viziato da violazione di
legge, eccesso di potere o incompetenza;
- l’azione di condanna al risarcimento del danno, che può essere proposta
contestualmente a quella dell’annullamento o in via autonoma;
- l’azione avverso il silenzio dell’amministrazione;
- l’azione di accertamento della nullità.
L’atto introduttivo del giudizio ha la forma del ricorso e deve avere un preciso contenuto; deve
essere proposto, in via ordinaria e a pena decadenza, entro 60 giorni da quello in cui
l’interessato ha ricevuto la notifica o la comunicazione o ne abbia avuta la piena conoscenza;
deve essere notificato all’amministrazione che ha emanato l’atto e ad almeno uno dei
controinteressati ai quali l’atto si riferisce direttamente. Si assicura così il contraddittorio,
mentre il vero e proprio rapporto processuale si instaura con il deposito del ricorso nella
segreteria del Tar. Entro 60 giorni dal perfezionamento della notificazione, le parti intimate
possono costituirsi, presentare memorie, fare istanze, indicare i mezzi di prova di cui intendono
avvalersi e produrre documenti.
La presentazione di un ricordo al Tar non sospende l’efficacia del provvedimento impugnato che,
pertanto, continua a dispiegare i suoi effetti. Durante lo svolgimento del processo, dunque, è
possibile chiedere la sospensione degli effetti del provvedimento impugnato.
Celebrata l’udienza il Tar decide. Ove ritenga irricevibile, inammissibile o improcedibile il
ricorso, lo dichiara con sentenza che si definisce senza rito. Se riconosce che il ricorso non sia
fondato lo rigetta con sentenza. Qualora il Tar accolga il ricorso, nei limiti della domanda,
annulla in tutto o in parte il provvedimento impugnato; oppure ordina all’amministrazione,
rimasta inerte, di provvedere entro un termine. Si pronuncia in relazione alle condanne di
natura risarcitoria; mentre, nei casi di giurisdizione di merito, adotta un nuovo atto, ovvero
modifica o riforma quello impugnato.
Contro le sentenze del Tar è ammesso il ricorso al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale;
contro le pronunce del Consiglio di Stato è ammesso il ricorso in Cassazione per i soli motivi
inerenti la giurisdizione.
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Sezione III
LA GIURISDIZIONE COSTITUZIONALE
Natura e oggetto
A norma dell’art. 134 Cost., la Corte costituzionale giudica:
a) sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi
forza di legge, dello Stato e delle Regioni;
b) sui conflitti di attribuzione fra i poteri dello Stato e su quelli fra lo Stato e le Regioni e fra
le Regioni;
c) sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica, a norma della Costituzione.
A tali attribuzioni va aggiunta quella relativa ai giudizi sull’ammissibilità del referendum
abrogativo.
A) I giudizi sulla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge.
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Dubbi, invece, sussistono sulla possibilità di configurare il vizio di eccesso di potere legislativo.
Tuttavia, pur mantenendo fermo il principio che dal sindacato di legittimità costituzionale esula
ogni possibilità di controllo sulle scelte politiche, la Corte ha individuato alcuni criteri che
valgono come indici dell’eccesso di potere legislativo. Tali criteri sono: a) quello della assoluta
illogicità, incoerenza o arbitrarietà della legge o della palese contraddittorietà rispetto ai
presupposti; b) quello della irragionevolezza delle statuizioni legislative rispetto alla
realizzazione concreta del fine; c) quello della incongruità fra mezzi e fini che la legge intende
conseguire.
Concludendo, si può affermare che i vizi formali attengono all’atto e, più precisamente, al
procedimento con il quale l’atto è stato posto in essere; i vizi materiali, invece, o al contenuto
dell’atto o al soggetto che ha emanato l’atto legislativo al di fuori della sfera di competenza ad
esso riservata dalla Costituzione o, ancora, all’esercizio del potere legislativo per un fine diverso
da quello assegnatogli dalla Costituzione o in modo non conducente al conseguimento del fine o,
ancora, non rispondente al criterio della ragionevolezza (ed avremo allora l’eccesso di potere).
Anche le leggi costituzioni possono essere sottoposte al controllo della Corte sia sotto il profilo
della illegittimità formale (quando, cioè, non sia stato osservato il procedimento di formazione
previsto nell’art. 138 Cost.) sia sotto il profilo dell’illegittimità materiale, se si ammette
l’esistenza di alcuni limiti al potere di revisione costituzionale.
Ai sensi dell’art. 123 Cost., il Governo può, altresì, promuovere in via principale (o diretta) la
questione di legittimità costituzionale sugli Statuti regionali ordinari dinanzi alla Corte
costituzionale entro trenta giorni dalla loro pubblicazione, ove questi non siano in “armonia”
con la Costituzione. Si tratta dell’unico caso contemplato dalla Carte in cui il giudizio avviene in
via preventiva, ossia prima che l’atto impugnato abbia completato il suo iter..
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degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso. L’ordinanza del giudice è
trasmessa alla Corte costituzionale, notificata alle parti se non ne è stata data lettura in
dibattimento, notificata al Presidente del Consiglio o al Presidente della Giunta regionale a
seconda che sia in questione una legge o un atto avente forza di legge dello Stato o di una
Regione, comunicata dal cancelliere anche ai Presidenti delle due Camere del Parlamento o al
Presidente del Consiglio regionale interessato.
Dopo questa prima faseil giudizio viene incardinato innanzi alla Corte costituzionale. Ricevuta
l’ordinanza il Presidente della Corte costituzionale ne dispone la pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale e, quando occorra, nel Bollettino ufficiale delle Regioni interessate.
Entro 20 giorni dalla notifica dell’ordinanza emessa dal giudice a quo, le parti possono
esaminare gli atti depositati nella Cancelleria e presentare le loro deduzioni. Trascorsi i 20
giorni, il Presidente della Corte nomina un giudice per l’istruzione e la relazione e convoca entro
i successivi 20 giorni la Corte per discutere. Vi sarà poi l’udienza e l’istruzione della causa, e
infine seguirà la decisione della Corte.
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questioni procedurali, oppure, ancora, quando la questione aveva natura politica e quindi
riservata al potere discrezionale del Parlamento, in questi casi la Corte non entra nel
merito della questione.
2) Sentenza: la Corte, superato il vaglio delle questioni procedurali soggettive e oggettive
entra nel merito e decide il giudizio.
Analizziamo, ora, quali possono essere le sentenze della Corte costituzionale.
a) Accoglimento: la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale della disposizione di legge
impugnata; in tal caso la stessa Corte dichiara, nei limiti dell’impugnazione, quali sono le
disposizioni legislative illegittime. Essa dichiara altresì, quali sono le altre disposizioni
legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata.
b) Rigetto: la Corte dichiara non fondata la questione di incostituzionalità.
Oltre queste sentenze, la Corte ha, con il tempo, dato vita a nuovi tipi di sentenze, non
espressamente previste dal legislatore:
c) Interpretative di rigetto: la Corte non accoglie l’istanza perché ritiene che
l’interpretazione della disposizione prospettata dal giudice a quo sia erronea in quanto
quest’ultimo o non l’ha interpretata correttamente, facendo quindi sorgere una regola
normativa erronea, oppure non ha interpretato la disposizione in maniera conforme alla
Costituzione, come avrebbe invece dovuto fare. La sentenza della Corte ha valore solo per
le parti in giudizio, ma costituisce un importante riferimento interpretativo per tutti gli
operatori del diritto.
d) Interpretativa di accoglimento: la Corte in questo caso riconosce che il giudice a quo
abbia correttamente interpretato la disposizione, e che questa disposizione, così
interpretata, è incostituzionale, ma per salvare questa disposizione legislativa vieta che
possa essere interpretata nel modo prospettato dal giudice a quo, mentre consente che
possa essere mantenute le altre interpretazioni delle disposizione di legge impugnata.
Oltre le sentenze interpretative, la giurisprudenza della Corte ne ha prodotto altri e diversi tipi, e
cioè le sentenze manipolative, quando, in pratica, la Corte interviene sul testo legislativo
manipolandolo in modo da renderlo conforme alla Costituzione, in tal caso abbiamo le sentenze:
e) Accoglimento parziale: La Corte dichiara illegittima la disposizione, ma solo in certe
parti della stessa, che vengono in pratica eliminate dal testo, lasciando in vita le altre
parti.
f) Additive: la Corte in pratica aggiunge frasi o parole ad una disposizione di legge per
renderla conforme alla Costituzione.
g) Sostitutive: la Corte in pratica sostituisce frasi o parole della disposizione illegittima con
altre frasi o parole in modo da rendere la disposizione conforme alla Costituzione.
Abbiamo poi, ancora:
h) Sentenze monito: la Corte rigetta la questione, ma invita il legislatore a rivedere la
materia in maniera conforme alla Costituzione, in tal caso il monito può giungere fino
alla decisione della Corte di ritenere solo legittima provvisoriamente la disposizione in
modo da spingere il Parlamento a rivedere al più presto la materia ritenuta comunque
incostituzionale.
i) Sentenze di accoglimento additive di principio: la Corte accoglie la questione di
costituzionalità, ma invita il legislatore ad adottare le disposizioni legislative necessarie
per fare in modo che la sentenza possa pienamente operare.
I conflitti di attribuzione
Possono essere di due tipi:
1) Conflitto di attribuzioni tra i poteri dello Stato, tra poteri, quindi appartenenti allo stesso
soggetto;
2) Conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni o tra Regioni.
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In questi casi, dunque, non è in discussione una legge dello Stato o della Regione, ma si adisce la
Corte costituzionale per delimitare la sfera di attribuzioni dei poteri dello Stato o delle Regioni.
Conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato. Secondo l’art. 37 della legge87 del 1953: “Il
conflitto tra poteri dello Stato è risoluto dalla Corte costituzionale se insorge tra organi
competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono e per la
delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali”.
In relazione ai soggetti dell’azione, il riportato art. 87 stabilisce che sono legittimati gli “organi
competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono”.
Di conseguenza bisognerà verificare due condizioni:
1) quali siano i poteri dello Stato;
2) quali siano gli organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui
appartengono.
In merito al primo punto sono poteri dello Stato:
1. il potere legislativo;
2. il potere esecutivo;
3. il potere giurisdizionale;
Ed ancora, oltre i tre poteri tradizionali
4. Presidente della Repubblica;
5. Corte Costituzionale.
6. Cnel
In relazione agli organi legittimati nel giudizio relativo al conflitto di attribuzioni si osserva che
poiché sono coinvolti soggetti che partecipano all’attività decisionale a vario titolo, non è forse
possibile individuare a priori un elenco, tanto che è stata avanzata l’ipotesi che il concetto di
potere dello Stato è molto vicino a quello di attribuzione, nel senso che sono da considerare
“poteri dello Stato” tutti coloro cui sia affidata un’attribuzione direttamente o indirettamente
riconducibile alla Costituzione, come ad es. i promotori del referendum abrogativo.
Nei casi più comuni abbiamo questa situazione:
1. Il potere legislativo---> Senato e/o Camera dei deputati, anche attraverso deliberazioni
prese in commissione.
2. il potere esecutivo--->Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dei ministri, i
singoli ministri (in quanto al vertice del Ministero), il ministro della giustizia in relazione
alle questioni relative alla giustizia.
3. il potere giurisdizionale---> si tratta di un potere senza una netta struttura gerarchica,
per cuirisulta difficile verificare quale sia l’organo che esprima la volontà del potere in
via definiva; di conseguenza anche un singolo giudice potrà essere legittimato a
partecipare al conflitto.
4. Presidente della Repubblica---> lo stesso Presidente
5. Corte Costituzionale---> la stessa Corte
6. Cnel---> lo stesso Cnel
Nel caso in cui il conflitto sia tra organi appartenerti allo stesso potere (ad es. tra due ministri)
la risoluzione del conflitto dovrà trovarsi all’interno dello stesso potere (conflitto di
competenza), ma comunque bisognerà guardare al caso concreto, cioè verificare se il conflitto
interno sia comunque riconducibile a un conflitto di attribuzioni riconducibili alla Costituzione o
a leggi costituzionali (ad es. il Presidente del Consiglio revoca un ministro) o meno (ad es. il
Ministro degli interni contesta al Ministro della giustizia la competenza ad occuparsi dell’ordine
pubblico).
Oggetto del conflitto. Abbiamo due casi fondamentali:
1. Un organo rivendica un potere che è stato usurpato da altro organo (c.d.
rivendicazione del potere usurpato);
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2. Un organo usa un potere che gli è legittimamente riconosciuto, ma lo usa in modo tale
da impedire o menomare l’uso di un altro potere spettante a diverso (cattivo uso del
potere, ad es. il Presidente della Repubblica immotivatamente non promulga una legge
approvata dal Parlamento).
Il conflitto può essere determinato da un atto ma anche da un fatto come anche un'omissione,
come nell’esempio riportato la mancata promulgazione da parte del Presidente della
Repubblica.
L’interesse ad agire nasce dalla (lamentata) lesione concreta del potere, mentre non vi sarebbe
tale interesse se lo stesso ricorrente si rivolgesse alla Corte costituzionale paventando la
possibilità del conflitto.
Il giudizio si articola in due fasi:
1. fase preliminare sull’ammissibilità del ricorso--->La Corte decide con ordinanza in camera di
consiglio sulla ammissibilità del ricorso dove si verificano i presupposti necessari all’azione,
materia del conflitto e legittimazione dei ricorrenti.
2. giudizio di merito---> si svolge tra i soggetti individuati nell’ordinanza che ammette il ricorso
(se la Corte ritiene che esiste la materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua
competenza dichiara ammissibile il ricorso e ne dispone la notifica agli organi interessati).
Il procedimento
Si tratta di un procedimento non contenzioso, nel quale, cioè, non esistono parti. La sentenza che
dichiara l’inammissibilità della richiesta del referendum ha efficacia limitata al caso deciso;
pertanto, qualora fosse successivamente richiesto un referendum abrogativo della medesima
legge, la Corte dovrà nuovamente pronunciarsi.
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Il procedimento
Nei giudizi di accusa (alto tradimento o attentato alla Costituzione) contro il Presidente della
Repubblica intervengono, oltre i giudici ordinari della Corte, sedici membri tratti a sorte da un
elenco di cittadini aventi i requisiti per l’eleggibilità a senatore, che il Parlamento in seduta
comune compila ogni nove anni mediante elezione con le stesse modalità per l’elezione dei
giudici ordinari. Il Collegio giudicante deve, in ogni caso, essere costituito da almeno 21 giudici,
dei quali i giudici aggregati devono essere in maggioranza. Il Presidente della Corte
costituzionale provvede, direttamente o delegando giudici della Corte, al compimento di
indagine necessari, ivi compreso l’interrogatorio dell’imputato, nonché alla relazione.
Nelle votazioni per la deliberazione della sentenza, il Presidente della Corte raccoglie i voti e in
caso di parità di voti prevale l’opinione più favorevole all’accusato. Nel pronunciare sentenza di
condanna, la Corte determina le sanzioni penali nei limiti del massimo di pena previsto dalle
leggi vigenti al momento del fatto, nonché le sanzioni costituzionali, amministrative e civili
adeguate al fatto.
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PARTE QUARTA
LE LIBERTA’ E LE AUTONOMIE
Capitolo I
LE LIBERTA’
Sezione I
IL PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA
L’eguaglianza formale
L’art. 3 Cost., stabilendo al primo comma che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono
uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni
politiche e di condizioni personali e sociali”, pone il principio della uguaglianza giuridica dei
cittadini (uguaglianza formale) intesa come regola fondamentale dello Stato di diritto.
Il secondo comma, assegnando allo Stato il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale che di fatto limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, sancisce, invece,
l’aspirazione all’uguaglianza di fatto (o uguaglianza sostanziale).
Il principio di eguaglianza formale ha trovato riconoscimento per la prima volta nelle
Costituzioni ottocentesche, nelle quali era inteso nel senso di eguale soggezione di tutti dinnanzi
al diritto, senza distinzioni legate al titolo, al grado o all’appartenenza ad una determinata
classe sociale o alla posizione di autorità rivestita.
Il riconoscimento della pari dignità sociale comporta che tutti i “poteri” e le “autorità”, come la
pubblica amministrazione o il potere giudiziario, sono egualmente soggetti al diritto e alla legge.
Si pensi all’art. 101 Cost. che impone la soggezione dei giudici alla legge e all’art. 97 Cost. che
prescrive l’imparzialità dell’amministrazione, obbligando i pubblici funzionari al rispetto delle
leggi.
Le Costituzioni moderne hanno ampliato il significato del principio e, in primis, l’art. 3, comma 1
della Costituzione italiana, individua alcuni criteri che non possono formare oggetto di
discriminazione, in quanto riguardano aspetti strettamente connessi all’identità dell’individuo: il
sesso, la razza, la lingua, la religione, le opinioni politiche, le condizioni personali e sociali.
La Costituzione detta, però, norme che prevedono una disciplina differenziata a tutela di alcune
specifiche categorie di individui: si pensi all’art. 6 Cost. che impone di tutelare le minoranze
linguistiche e all’art. 8 Cost. che consente alle confessioni acattoliche di regolare i loro rapporti
con lo Stato sulla base di intese differenziate. In questi casi le peculiarità che caratterizzano tali
categorie di soggetti richiedono un’adeguata disciplina protettiva, al fine di impedire che,
attraverso un livellamento generalizzato di ogni situazione, si finisca per penalizzare proprio i
soggetti più deboli e svantaggiati.
Pertanto, al fine di scongiurare arbitrii da parte del legislatore, il divieto di discriminazioni deve
essere interpretato in una duplice accezione:
a) le leggi, pur se riferite ad un gruppo determinato, non devono avere carattere personale o
singolare, a meno che non esistano giustificate ragioni (si pensi al fenomeno delle leggi
ad personam);
b) il principio d’eguaglianza non vieta in assoluto discipline differenziate, ma solo
discriminazioni irrazionali o irragionevoli, fondate su una delle categorie indicate
dall’art. 3 Cost.
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L’eguaglianza sostanziale
Il principio di uguaglianza formale costituisce una novità del costituzionalismo e impone al
legislatore un programma politico e giuridico di trasformazione sociale e di garanzia del
mantenimento delle condizioni dello sviluppo delle singole persone.
Tale principio resterebbe una mera enunciazione teorica se l’art. 3 Cost. non prevedesse il
concreto impegno politico, economico e sociale dello Stato finalizzato se non a livellare i salari,
ma almeno a ridurre le distanze reddituali tra gli individui per realizzare le effettive condizioni
di uguaglianza.
Dal momento che non è sufficiente annullare le disparità giuridiche senza poter rimuovere gli
ostacoli di ordine economico-sociale che oltre che di diritto anche di fatto impediscono
l’inserimento e la partecipazione di tutti alla vita del Paese, la nostra Costituzione affida alla
Repubblica il compito di intervenire per rimuovere siffatti ostacoli, affinché tutti godano di pari
opportunità accedere indistintamente a determinate utilità sociali, quali l’istruzione (art. 34), la
salute (art. 32), il lavoro (art. 38).
Ciò significa che il legislatore è tenuto a ricorrere ad azioni positive (affermative actions) per
impedire che la lingua, il sesso, la religione etc., diventino causa di una discriminazione di fatto
compensando situazioni di svantaggio che se perdurano annullano in radice i principi dello Stato
sociale.
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