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Istituzioni di Diritto pubblico Martines

Istituzioni di Diritto Pubblico (Università degli Studi di Messina)

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PARTE PRIMA
LINEAMENTI DI TEORIA GENERALE

Capitolo I
DIRITTO E ORDINAMENTO GIURIDICO

Concetto di ordinamento giuridico


L’ordinamento giuridico è l’insieme degli elementi normativi che regolano la vita di una
comunità all’interno di un sistema giuridico (ad esempio uno Stato). Gli ordinamenti giuridici si
caratterizzano per la loro complessità e la loro estensione: sono ordinamenti complessi perché
vengono ad essere costituiti da numerose fonti del diritto; sono estesi perché tendono a
disciplinare settori sempre più ampi della società.
L’ordinamento statale rappresenta il modello principe di tale tipo di organizzazione, la
maggiore fra tutte e l’unica portatrice di interessi generali. Le altre comunità presenti sul
territorio, infatti, perseguono obiettivi particolari, come ad esempio le associazioni sportive,
religiose, culturali etc. Lo Stato, pertanto, costituisce l’ambito in cui le diverse organizzazioni di
individui trovano sintesi e armonia, nel rispetto dell’interesse generale.

La norma giuridica
Per norma giuridica s’intende un insieme di regole che concorrono a disciplinare la vita
organizzata. Essa è finalizzata a regolare il comportamento dei singoli appartenenti al gruppo,
per assicurare la sua sopravvivenza e perseguire i fini che lo stesso ritiene preminenti.
Caratteri peculiari delle norma giuridiche sono:
- generalità: poiché si rivolgono alla generalità degli individui o a un gruppo più o meno
ampio di essi;
- astrattezza: in quanto prendono in considerazione dei casi astratti a cui dovranno poi
ricondursi tutti i casi concreti che presentino gli stessi caratteri contemplati a livello di
previsione teorica;
- novità: in quanto ogni norma viene emanata per regolare un comportamento che fino a
ieri si riteneva non dovesse essere regolato, oppure allo scopo di modificare un
regolamento di quel tale comportamento già esistente;
- esteriorità: poiché oggetto della disciplina normativa è l’azione che il soggetto
manifesta all’esterno, a nulla rilevando gli elementi interni, psichici o morali, che
spingono all’azione;
- coercibilità (o imperatività): in quanto la loro osservanza da parte dei destinatari è
assicurata dalla previsione di una sanzione che l’ordinamento associa all’ipotesi di
violazione;
- positività: perché create in un determinato momento e per un determinato gruppo
sociale, dagli organi e dai soggetti a ciò legittimati. La positività va intesa anche come
effettiva vigenza di una norma in un dato momento e contesto.
Dalla definizione della norma giuridica come regola di comportamento obbligatoria per tutti i
consociati se ne evincono i due elementi essenziali:
- il precetto, ovvero il comando con cui si impone un determinato comportamento, che
può essere positivo (es. paga il tuo debito) o negativo (es. non rubare);
- la sanzione, ovvero la reazione dell’ordinamento alla inottemperanza, all’inosservanza
del precetto da parte del destinatario.

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Le fonti del diritto


Con fonte del diritto s’intende ogni atto e ogni fatto a cui un ordinamento giuridico (a livello
statale, locale o federale) riconosce la capacità di produrre, modificare o estinguere delle norme
giuridiche. Le fonti del diritto si distinguono in:
- fonti di produzione e fonti sulla produzione: per “fonti di produzione” s’intendono gli
atti e i fatti idonei a produrre norme giuridiche; le “fonti sulla produzione” invece
definiscono i soggetti e i procedimenti necessari alla produzione delle norme.
- fonti-atti e fonti-fatti: le “fonti-atti” sono atti normativi posti in essere da organi o enti
nell’esercizio dei poteri ad essi attribuitigli; le “fonti-fatti” sono fonti non scritte
determinati da fatti sociali o naturali considerati idonei a produrre diritto. Sono “fonti-
fatti” anche atti di produzione giuridica esterni al nostro ordinamento e che vengono
assunti come fatti (ad es. i trattati nazionali resi esecutivi in Italia).
- fonti dirette e fonti indirette: si hanno le prime quando la fonte è prevista e regolata
nello stesso ordinamento; le secondo quando essa è disciplinata in un ordinamento
esterno a quello dello Stato e in questo caso è necessario che la norma prodotta sia
recepita e resa efficace nell’ordinamento in cui la si vuole applicare.
- fonti di cognizione: per “fonti di cognizione” s’intende l’insieme dei documenti che
fornisce la conoscibilità legale della norma e sono, quindi, i documenti che raccolgono i
testi delle norme giuridiche, come la Gazzetta Ufficiale.
- fonti legali e fonti extra-ordinem: accanto alle “fonti legali”, vale a dire a quelle fonti
che sono espressamente previste come tali dalle fonti sulla produzione, vanno menzionate
le fonti extra-ordinem, ovvero quelle fonti costituite da atti o fatti che, pur non essendo
abilitati dall’ordinamento a produrre diritto, tuttavia vengono osservati e fatti osservare
come se fossero delle fonti del diritto (colpo di Stato portato a termine, rivoluzione
vittoriosa, modificazioni tacite della Costituzione, desuetudine…). Tali atti o fatti
acquistano valore e natura normativa alla sola condizione che essi non provochino crisi
di rigetto e riescano ad inserirsi nell’ordinamento e a comporsi nel sistema delle fonti.

Gerarchia e sistema delle fonti


I rapporti tra le fonti, considerati in base alla loro posizione sistematica, possono essere suddivisi
in tre livelli:
- 1º livello: fonti costituzionali (costituzione, leggi costituzionali e di revisione
costituzionale, regolamenti comunitari, direttive comunitarie);
- 2º livello: fonti legislative, dette anche fonti primarie (leggi, decreti legge, decreti
legislativi, referendum abrogativo);
- 3º livello: fonti regolamentari, dette anche fonti secondarie (regolamenti del Governo,
degli Enti Locali, consuetudini e usi).

Fonti costituzionali
Al primo livello della gerarchia delle fonti, si pongono la Costituzione, le leggi
costituzionali e gli statuti regionali. La nostra Costituzione, entrata in vigore l’1 gennaio
1948, è composta da 139 articoli e 18 disposizioni transitore e finali: essa detta i principi
fondamentali dell’ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei
soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell’organizzazione della Repubblica (artt. 55-
139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida: “lunga” perché non si
limita “a disciplinare le regole generali dell’esercizio del potere pubblico e delle
produzioni delle leggi”, riguardando anche altre materie;“rigida” in quanto per
modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 Cost.).
Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale.
Fonti primarie

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Fonti primarie sono le leggi ordinarie, gli statuti regionali le leggi regionali e quelle delle
province autonome di Trento e Bolzano, i regolamenti parlamentari e gli atti aventi forza
di legge (decreti legge e decreti legislativi).
Ai sensi dell’art. 10 Cost., sono fonti primarie anche le norme derivanti da trattati
internazionali, cui seguono direttive e regolamenti comunitari. I trattati internazionali,
con speciale riferimento ai trattati antiterrorismo e al trattato del Nord Atlantico
(NATO) e le fonti del diritto dell’Unione europea dotati di efficacia vincolante, nella specie
di regolamenti o di direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere
attuate da ogni Paese facente parte dell’Unione europea in un determinato arco di tempo.
A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di giustizia europea (Corte cost.
sent. n. 170/1984).

Fonti secondarie
Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i
regolamenti ministeriali, amministrativi e prefettizi e di altri enti pubblici territoriali
(regionali, provinciali e comunali). Vi è poi la giurisprudenza, in particolare le sentenze di
giurisdizioni superiori.

Fonti terziarie
All’ultimo livello della scala gerarchica si pongono gli usi e le consuetudini. Questa è
prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta, sono
ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque
quelle contra legem.

Criteri di composizione delle fonti in sistema


La varietà e la pluralità delle fonti richiedono l’adozione di criteri per la loro composizione in
“sistema”, al fine di assicurare l’armonia e la razionalità dell’ordinamento giuridico. I criteri
comunemente adottati sono:
- gerarchico: la norma di grado superiore modifica o abroga quella di grado inferiore; la
norma di grado inferiore non può modificare o abrogare quella di grado superiore.
- cronologico: due norme di pari grado possono modificarsi in base al criterio
cronologico; la norma più recente modifica o abroga quella precedente di pari grado.

La delegificazione
La delegificazione consiste nel “decongestionare il Parlamento da attività superflue e comunque
non consone alle funzioni che esso dovrebbe svolgere in una moderna democrazia”, mediante il
ricorso ad una legge “tipica” avente per disposto il trasferimento di certe discipline dalla sede
legislativa a quella regolamentare.
Nella fattispecie, con la legge n. 400 del 28 agosto 1988 il Governo può adottare dei regolamenti
amministrativi per materie non coperte da riserva assoluta di legge, autorizzati da leggi stesse
nel caso in cui il Governo stesso voglia adottare il regolamento.

Le fonti esterne all’ordinamento statale


Il diritto internazionale e quello interno convivono su piani paralleli. Perciò, affinché le norme
internazionali entrino a far parte dell’ordinamento interno, si deve verificare ciò che si indica
con il termine di “adattamento”, che può essere automatico o speciale.
L’adattamento automatico o generale è previsto dall’art. 10 Cost., laddove dispone che
“l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente
riconosciute” (cioè le consuetudini internazionali).
L’adattamento speciale, invece, impiegato per il diritto internazionale pattizio, può consistere:

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- nel semplice “ordine di esecuzione”, che opera direttamente solo in relazione a trattati
contenenti norme self-executing;
- nell’adattamento speciale ordinario, ossia in atti normativi interni necessari per dare
esecuzione a norme internazionali che non siano self-executing.
In seguito all’adattamento le norme internazionali assumono, nell’ordinamento giuridico
interno, la stessa posizione gerarchica delle fonti che lo operano.
Una particolare posizione presenta, nel quadro del diritto internazionale, il diritto dell’Unione
europea, in quanto i trattati e le fonti che ne derivano godono di una particolare copertura
costituzionalein virtù della quale presentano una particolare forza attiva, paragonabile a quella
delle norme costituzionali. I regolamenti sono lo strumento normativo principale dell’azione
dell’Unione; essi sono obbligatori in tutti i loro elementi, hanno portata generale e sono
direttamente applicabili, cioè non necessitano di alcun provvedimento di recepimento da parte
di Stati membri. Le direttive vincolano gli Stati membri, che ne sono i destinatari, ad un risultato
da raggiungere, ferma restando la competenza degli organi nazionali per quanto riguarda le
modalità di attuazione. Le decisioni possono avere tanto portata individuale che portata
generale o indefinita, hanno carattere vincolante e possono avere come destinatari tanto gli
Stati membri quanto le imprese.
Per l’adattamento agli altri atti dell’Unione sono ora previsti due diversi strumenti annuali: la
legge europea e la legge di delegazione europea. Il Governo presenta ogni anno alle Camere due
disegni di legge: il disegno di legge di delegazione europea, che conferisce al Governo le deleghe
per il recepimento di direttive e per l’attuazione di altri obblighi europei; e il disegno di legge
europea, contenente norme di attuazione diretta di quegli obblighi.

L’interpretazione dei testi normativi


Le fonti del diritto (intese come “testi”, “disposizioni” o “formule normative”) devono essere
interpretate per trarre la norma giuridica in esse contenuta. È necessario, infatti, trarre dalla
fonte la norma, affinché essa possa essere applicata, mediante un’operazione intellettiva che vale
a cogliere la portata e il significato della norma stessa nel contesto dell’ordinamento giuridico al
fine di assicurarne l’armonia e la coerenza. L’interpretazione, dunque, non può mai essere
arbitraria, nel senso che non si può trarre dal testo una norma che non si coordina in sistema
con le altre. Si parla quindi di:
- Interpretazione letterale: l’interprete di un testo normativo deve tenere conto del
significato grammaticale delle parole, non isolatamente considerate bensì secondo la loro
connessione sintattica (interpretazione letterale), nonché dell’intenzione del legislatore
(mens o ratio legis).
- Interpretazione sistematica: l’interpretazione letterale e la ricerca della mens legis
vanno integrate con l’interpretazione sistematica. Non essendo, infatti, la norma isolata
ma inserita in un sistema unitario e concluso, essa va colta nelle sue connessioni con le
altre norme e, in particolare, deve armonizzarsi con i principi fondamentali che
assicurano l’intima coerenza dell’ordinamento complessivamente considerato.
- Interpretazione adeguatrice: un altro criterio interpretativo si ha quando sia possibile
trarre dallo stesso testo, in distinti periodi storici, norme in tutto o in parte diverse. Ciò
può avvenire perché, pur restando immutato il testo, sono mutati i principi fondamentali
che reggono l’ordinamento. In questa ipotesi, nell’applicare il criterio dell’interpretazione
sistematica, occorrerà adeguare il significato della norma ai nuovi e diversi principi.
- Interpretazione evolutiva: può accadere che il testo normativo, col passare del tempo,
venga interpretato e quindi applicato in diversa maniera, poiché proprio il trascorrere
del tempo può determinare un distacco fra il significato originario della norma e quello
che l’interprete può attribuire al momento in cui deve darle applicazione.

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- Interpretazione autentica: nel caso in cui un testo normativo, soprattutto quando è


ambiguo e mal formulato, riceve varie e talvolta contrastanti interpretazioni, il
legislatore può intervenire per chiarire e precisare con legge il suo significato, vincolando
in tal modo gli interpreti, non solo a non attribuirgliene uno diverso ma anche ad
applicarlo con il significato determinato.
- Interpretazione analogica: l’interpretazione analogica è un’interpretazione giuridica
che prende in considerazione le norme giuridiche che disciplinano casi simili o materie
analoghe. Pur trattandosi di fattispecie diverse il giudice può ricercare una
corrispondenza tra gli elementi sostanziali ed interpretare la volontà del legislatore. Si
ricorre all'interpretazione analogica quando la legge non si pronuncia espressamente
per regolare una controversia.

L’efficacia delle norme nel tempo e nello spazio


Di regola le norme giuridiche scritte hanno un’efficacia limitata nel tempo, nel senso che iniziano
a produrre i loro effetti da un certo momento e cessano di produrli in un altro momento. Una
volta entrata in vigore, una norma giuridica è obbligatoria per tutti i destinatari,
indipendentemente dal fatto che ne abbiano avuto conoscenza o meno: la mancata conoscenza o
ignoranza della sua esistenza infatti non costituisce una scusante della sua inosservanza.
La cessazione dell’efficacia di una norma giuridica si può verificare per:
- Abrogazione, che consiste nella cancellazione della norma giuridica, con efficacia non
retroattiva, per contrasto con un’altra norma successiva dello stesso grado o di grado
successivo;
- Annullamento, che consiste nella dichiarazione d’invalidità di una norma giuridica, con
efficacia retroattiva, per contrasto con un’altra norma di grado superiore;
- Sospensione, che è l’interruzione soltanto temporale dell’efficacia di una norma
giuridica;
- Deroga, che ricorre quando una norma speciale introduce un’eccezione o deroga a una
norma generale. Di regola una norma giuridica è irretroattiva ma in alcuni casi può
essere espressamente retroattiva e applicarsi a fatti anteriori alla sua entrata in vigore.

La pluralità degli ordinamenti giuridici


Le fonti del diritto non sono da ricondurre al solo Stato-soggetto cui è attribuita la funzione
normativa. Altri soggetti pubblici (Regioni, Province, Comuni) sono titolari della funzione
normativa. La nostra Costituzione attribuisce il potere di creare norme giuridiche, oltre che agli
enti territoriali, anche ad alcune formazioni sociali (confessioni religiose diverse da quella
cattolica, sindacati, università, partiti politici), così da garantire ad altri soggetti pubblici o
privati, di darsi autonomamente regole per disciplinare la loro organizzazione interna e i
rapporti fra gli associati. Si vengono a creare, così, dei microsistemi giuridici (o sottosistemi). La
molteplicità e la varietà degli ordinamenti giuridici dev’essere ricondotta all’armonia in modo
che sia assicurato un ordinato svolgimento della vita sociale. Si rende così necessario assegnare
ad uno di tali ordinamenti una posizione di preminenza sugli altri al fine di consentirgli di
regolare, secondo leggi da esso dettate, sia i rapporti interindividuali sia i rapporti con le
collettività minori comprese nel suo ambito. Questo ordinamento è quello dello Stato in quanto
tra le organizzazioni è quella originaria e la maggiore di tutte.
Rispetto all’ordinamento statale, gli altri ordinamenti possono essere: a) originari o derivati, a
seconda che trovino il titolo della loro validità in se stessi o nell’ordinamento statale; b) leciti o
illeciti, a seconda che siano riconosciuti dall’ordinamento statale o siano da questo considerati
come antigiuridici e quindi destinati ad essere soppressi.
Tutto ciò vale per quel che riguarda la posizione di preminenza dell’ordinamento statale rispetto
agli ordinamenti minori compresi nello Stato. Non è valida, invece, se si fa riferimento alla

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Comunità internazionale, che è comunità fra eguali, nella quale a ciascuno Stato vengono
riconosciute, in egual misura, situazioni giuridiche attive e passive.

Capitolo II
IL SOGGETTO DI DIRITTO E LE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE

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La soggettività giuridica; capacità giuridica e capacità di agire; persone fisiche e


persone giuridiche; i diritti senza soggetto.
La norma giuridica ha come oggetto un interesse umano, per cui si rivolge agli uomini che sono i
naturali destinatari. In altre parole, le norme giuridiche considerano ogni uomo un centro di
imputazioni di interessi, socialmente e giuridicamente rilevanti.
Le situazioni giuridiche soggettive possono essere distinte in attive e passive a seconda che
comportino un vantaggio o uno svantaggio per il loro titolare.
La capacità giuridica, invece, è l’idoneità del soggetto a essere titolare di diritti e obblighi. Essa
si acquista al momento della nascita. Questa si differenzia dalla capacità di agireche è
l’idoneità del soggetto a esercitare i diritti e ad assumere gli obblighi di cui è titolare. Pertanto,
ad esempio, un bambino potrà ricevere in donazione dal nonno un appartamento, divenendo così
titolare del diritto di proprietà, ma non potrà esercitare in concreto tale diritto dando ad
esempio in affitto il bene. La capacità di agire si acquista con il compimento del 18° anno di età
ma, a differenza della capacità giuridica, può subire delle limitazioni a partire dai seguenti
fattori: l’età (i minorenni), la salute mentale, la prodigalità (tendenza allo sperpero), abuso di
sostanze alcoliche e stupefacenti.
Oltre alle persone fisiche, l’ordinamento attribuisce la soggettività giuridica anche ad entità
composte da persone (associazioni o corporazioni) o a strutture organizzative idonee a
soddisfare gli interessi di determinate persone (fondazioni o istituzioni). Tali entità vengono
definite persone giuridiche, non perché anche per le persone fisiche non siano entità
giuridiche, bensì per sottolineare che tali persone non esistono nel mondo reale e sono soltanto
una creazione del diritto.

Gli enti pubblici


Tra le persone giuridiche particolare rilevanza assumono gli enti pubblici. Si tratta di enti
costituiti o riconosciuti da norme di legge, attraverso i quali la pubblica amministrazione svolge
la sua funzione amministrativa per il perseguimento di un interesse pubblico. La classificazione
degli enti pubblici può essere formulata tenendo conto della dimensione degli interessi dei quali
l’ente assume la cura e della natura dei fini perseguiti. Adottando questa regola, vengono per
primi in considerazione gli enti territoriali (Regioni, Provincie, Comuni e ora anche le Città
metropolitane), quegli enti, cioè, rispetto ai quali il territorio costituisce il centro di riferimento
degli interessi della collettività su di esso stanziata.
Tutti gli altri enti non hanno il territorio come centro di riferimento degli interessi e non
perseguono, per ciò solo, interessi generali. Essi vengono creati dagli enti territoriali nei
confronti dei quali si instaura un rapporto di dipendenza. Tali enti non territoriali possono
essere classificati in:
- enti pubblici economici, che svolgono un’attività diretta alla produzione di beni o di
servizi secondo criteri imprenditoriali;
- enti strumentali e di servizio, che erogano servizi pubblici essenziali;
- enti associativi, che si caratterizzano per avere alla loro base un’associazione con la
conseguente struttura organizzativa.

Le situazioni giuridiche soggettive attive: il potere; il diritto soggettivo; l’interesse


legittimo
Per situazione giuridica s’intende la posizione che un soggetto di diritto assume nell’ambito di un
rapporto giuridico. Le situazioni giuridiche soggettive possono essere distinte in attive e passive
a seconda che comportino un vantaggio o uno svantaggio per il loro titolare.
Le situazioni giuridiche attive possono ricondursi essenzialmente a tre:
- il potere giuridico: è una situazione giuridica astratta riconosciuta a tutti i soggetti o a
determinate categorie di soggetti in ordine al soddisfacimento di un interesse proprio o

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altrui, giuridicamente rilevante. Il potere è figura giuridica soggettiva che attiene sia al
campo del diritto privato sia a quello del diritto pubblico. Quanto al primo, si pensi alla
potestà dei genitori sui figli minori; quanto al secondo, al potere dei cittadini di eleggere i
loro rappresentanti politici e amministrativi o di agire in giudizio per la tutela dei propri
diritti soggettivi o interessi legittimi.
- il diritto soggettivo: è il potere di agire di un soggetto a tutela di un proprio interesse
riconosciuto dall’ordinamento giuridico, nonché la pretesa dello stesso - garantita e
disciplinata dal diritto oggettivo - nei confronti di altri soggetti o beni. Il diritto
soggettivo attribuisce al suo titolare una posizione di vantaggio che questi potrà far
valere nei confronti di tutti i soggetti, nel caso di diritto soggettivo assoluto (erga omnes),
oppure nei confronti di uno o più soggetti nell’ambito di un determinato rapporto
giuridico, nel caso di diritto soggettivo relativo (actio in personam).
Un esempio di diritto soggettivo assoluto è il diritto di proprietà che consente al suo
titolare di agire nei confronti di tutti i soggetti che ne turbino eventualmente il
godimento; un esempio di diritto soggettivo relativo invece è dato dalla posizione
giuridica e dai poteri dei soggetti che sono parte di un contratto. In virtù della loro
partecipazione possono esercitare vari poteri tra cui quello di agire in caso di mancato
adempimento nei confronti l'uno dell'altro.
- interesse legittimo: si ha quando l’interesse protetto in capo ad un soggetto è
inscindibilmente connesso alla tutela di un interesse altrui (normalmente un interesse
pubblico). L’ordinamento, in altre parole, tutela l’interesse del singolo non in via diretta
(in tal caso avremmo un diritto soggettivo) ma se questo si connette con altri interessi
ritenuti prevalenti (interessi pubblici).

Interessi diffusi e nuovi diritti


Gli “interessi diffusi” si caratterizzano per non avere un loro “centro di riferimento” e per essere
propri di una serie aperta e indeterminata di soggetti (ad esempio i consumatori, i senza tetto,
gl’indigenti, i malati) non collegati fra loro da alcun vincolo associativo. Il processo attualmente
in corso mira ad assicurare, almeno ad alcuni di loro, un riconoscimento legislativo, in modo da
consentire la loro tutela. Si parla, dunque, di “nuovi diritti”, fra i quali possono essere annoverati,
ad esempio, i “diritti” dei consumatori, i “diritti” dei malati, degli anziani, dei minori, dei giovani,
delle donne, il “diritto” alla qualità della vita, e così via.

Le situazioni giuridiche passive: il dovere e l’obbligo.


Le situazioni passive o di svantaggio possono ridursi a due: il dovere e l’obbligo. La differenza va
colta in ciò che il dovere è una situazione giuridica imputabile non a soggetti determinati, bensì
ad una generalità di soggetti; l’obbligo, invece, è una situazione soggettiva in forza della quale
un soggetto risulta tenuto ad osservare un determinato comportamento, attivo o passivo, nei
confronti di un altro soggetto cui l’ordinamento riconosce il diritto soggettivo di pretenderne
l’osservanza.

Capitolo III
LO STATO

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Lo Stato-istituzione
Lo Stato può essere definito come una comunità di individui (popolo), stanziata su un
territorio e organizzata secondo un ordinamento giuridico indipendente ed effettivo.
Lo Stato è un ordinamento giuridico originario, a fini generali e a base territoriale, dotato di un
apparato autoritario posto in posizione di supremazia. Lo Stato si distingue dagli altri
ordinamenti originari perché è un ordinamento a fini generali, mentre gli altri ordinamenti si
pongono il perseguimento di fini particolari. L’ordinamento giuridico statale si distingue dagli
altri ordinamenti su base territoriale in esso compresi perché questi ultimi non hanno il
carattere dell’originarietà, dal momento che dipendono, per la loro validità, dal primo.

Gli elementi costitutivi dello Stato.


Perché si abbia uno Stato sono necessari tre elementi:
- il territorio: un’area geografica ben definita su cui si esercita la sovranità. Il territorio
può essere assunto come elemento costitutivo, oltre che dello Stato, anche di altri enti
(Regione, Città metropolitana, Provincia, Comune) che vengono detti territoriali per
significare che il territorio rappresenta per essi una condizione essenziale per la loro
giuridica esistenza.
- il popolo: è costituito dalla comunità di tutti coloro ai quali l’ordinamento giuridico
statale assegna la qualità di cittadino. Dal popolo va distinta la popolazione dello Stato,
termine con il quale si indica l’insieme di tutti coloro (cittadini, stranieri, apolidi) che in
un dato momento risiedono stabilmente sul territorio dello Stato e sono sottoposti alle
sue leggi.
- la sovranità: in una prima accezione, la sovranità caratterizza l’ordinamento giuridico
dello Stato come originario e indipendente; in un secondo significato, la sovranità si
identifica con la supremazia dell’ordinamento statale rispetto agli altri ordinamento
minori. La sovranità dello Stato si concretizza fattivamente con atti mediante i quali lo
Stato esercita il comando e fa valere la supremazia: la legge, l’atto amministrativo, la
sentenza.

Stato istituzione; Stato-apparato; Stato-comunità


Il termine Stato può assumere, nel linguaggio giuridico, diversi significati:
- Stato-istituzione: un corpo sociale organizzato, con determinate caratteristiche e con
propri ed esclusivi elementi costitutivi che valgono ad individuare l’ordinamento
giuridico statale come comprensivo, oltre che di tutti i minori corpi sociali, anche di tutti
gli ordinamenti particolari e ad essi sovraordinato.
- Stato-apparato: ovvero quel potere centrale sovrano, stabile nel tempo e impersonale
(poiché esiste indipendentemente dalle singole persone che lo fanno funzionare),
organizzato in possibili differenti modi, che detiene il monopolio della forza e impone il
rispetto di determinate norme nell’ambito di un territorio ben definito (altra definizione:
indica l’insieme delle strutture politiche che esercitano i poteri sovrani).
- Stato-comunità: è formato dal popolo, stanziato su un territorio definito, che è
organizzato attorno a un potere centrale (altra definizione: indica il popolo localizzato in
un territorio e organizzato politicamente).

Capitolo IV
L’ORGANIZZAZIONE DELLO STATO

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10

Le funzioni dello Stato


Lo Stato-apparato è costituito dall’insieme dei governanti, i quali esercitano la loro autorità
mediante atti tipici. L’attività complessiva diretta alla produzione degli atti dell’autorità viene
definita funzione.
Se si fa riferimento alla produzione di norme giuridiche e di atti amministrativi, le relative
funzioni sono attribuite, nel nostro ordinamento, oltre che allo Stato, anche ad altri ordinamenti
e, in particolare, alle Regioni, alle Città metropolitane, alle Provincie e ai Comuni.
Tra le varie funzioni avremo:
- funzione legislativa: lo Stato pone le norme costitutive dell’ordinamento giuridico;
- funzione amministrativa: lo Stato svolge un’attività effettiva e concreta diretta al
soddisfacimento dei suoi fini immediati (i rapporti internazionali, la sicurezza pubblica,
l’amministrazione finanziaria, il benessere economico, l’elevamento culturale, la difesa
del territorio, etc…);
- funzione giurisdizionale: lo Stato accerta la volontà normativa da far valere in un caso
concreto.
Le funzioni legislativa e amministrativa vengono, in uno Stato regionale come il nostro, suddivise
la prima fra lo Stato e le Regioni mediante una ripartizione di competenze e la seconda fra i
Comuni, le Provincie, le Città metropolitane, le Regioni e lo Stato, secondo il principio di
sussidiarietà (principio regolatore secondo il quale, se un ente inferiore è capace di svolgere
bene un compito, l’ente superiore non deve intervenire, ma può eventualmente sostenerne
l’azione).

Il principio della separazione dei poteri e le interferenze funzionali


La separazione dei poteri è uno dei principi fondamentali dello Stato di diritto. Consiste
nell’individuazione di tre funzioni pubbliche nell’ambito della sovranità dello Stato –
legislazione, amministrazione e giurisdizione – e nell’attribuzione delle stesse a tre distinti
poteri dello Stato, intesi come organi o complessi di organi dello Stato indipendenti dagli altri
poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo e il potere giudiziario.
Per la teoria della separazione dei poteri, ogni funzione pubblica deve essere attribuita ad un
potere distinto (legislativo: elabora leggi; esecutivo: applica leggi; giudiziario: applica le leggi e
dirime le controversie), per evitare che concentrazione di attribuzioni possano spianare la
strada alla tirannia. Tuttavia i poteri devono potersi condizionare in modo da bilanciarsi
reciprocamente secondo uno schema di pesi e contrappesi: in Italia il Presidente della
Repubblica ha come compito principale quello di garantite gli equilibri fra i diversi poteri.
Negli Stati moderni, ed in particolare nelle democrazie:
- la funzione legislativa è attribuita al Parlamento, nonché eventualmente ai parlamenti
degli stati federati o agli analoghi organi di altri enti territoriali dotati di autonomia
legislativa, che costituiscono il potere legislativo;
- la funzione amministrativa è attribuita agli organi che compongono il Governo e, alle
dipendenze di questo, la pubblica amministrazione, i quali costituiscono il potere
esecutivo;
- la funzione giurisdizionale è attribuita ai giudici, che costituiscono il potere
giudiziario.
La rigorosa attuazione del principio di separazione imporrebbe che ciascun potere dello Stato
eserciti la funzione che gli è propria nella sua interezza e solo quella. In realtà in nessun
ordinamento il principio viene attuato in modo così rigoroso.
Le deviazioni più rilevanti si osservano nel caso della funzione normativa giacché i Parlamenti,
per loro natura, non sono molto adatti a emanare norme di dettaglio o in settori che richiedono
complesse valutazioni tecniche o, ancora, in tempi stretti per ragioni di urgenza. Per ovviare a
ciò tutti gli ordinamenti attribuiscono al potere esecutivo la possibilità di emanare norme con

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atti aventi forza inferiore a quella della legge o, in certi casi, con la stessa forza. Si aggiunga che
il Governo ha, in molti ordinamenti, la possibilità di proporre le leggi al Parlamento e, di fatto, la
gran parte delle leggi approvate è proprio d’iniziativa governativa. Una particolare funzione
normativa è, infine, quella esercitata dai giudici costituzionali e amministrativi negli
ordinamenti dove gli è attribuito il potere di annullare norme.
Anche la funzione amministrativa non è nella generalità degli ordinamenti attribuita
esclusivamente al potere esecutivo. Ovunque il Parlamento esercita funzioni che si possono
considerare materialmente amministrative: l’esempio più rilevante è l’approvazione del bilancio
dello Stato; può, inoltre, adottare le cosiddette leggi-provvedimento che, pur avendo la forma di
legge, hanno in realtà il contenuto di un provvedimento amministrativo. È considerata dalla
maggioranza della dottrina funzione materialmente amministrativa anche la cosiddetta
volontaria giurisdizione esercitata dai giudici. Un’altra ipotesi di funzioni amministrative
attribuite al potere giudiziario si ha in quegli ordinamenti nei quali, come in Italia e in Francia,
le funzioni di pubblico ministero sono svolte da magistrati anziché da funzionari del potere
esecutivo, come avviene nella maggioranza degli ordinamenti.
Più limitati sono i casi di funzioni giurisdizionali attribuiti a poteri diversi dal giudiziario
perché la terzietà dell’organo giudicante, che connota la giurisdizione, mal si concilia con organi
spiccatamente politici, e quindi di parte, come il Parlamento o il Governo. Ciononostante qualche
esempio non manca: si pensi alle funzioni giurisdizionali esercitate dal Parlamento quando
giudica sulla validità dell’elezione dei propri membri o sui reati commessi dal Capo dello Stato e
dai membri del Governo; oppure si pensi al potere di grazia, attribuito nella generalità degli
ordinamenti al Capo dello Stato.

Gli organi e la loro classificazione


Come le altre persone giuridiche anche lo Stato presenta la necessità di ricorrere a delle persone
fisiche per manifestare la volontà dello stesso. Esse prendono il nome di organi, mentre il
pubblico ufficio è l’insieme dei compiti e delle attribuzioni spettanti ai singoli organi e da
questi esercitati.
Una prima classificazione può essere fatta tra:
- Organi costituzionali. Gli organi costituzionali svolgono le più alte funzioni dello Stato e
si trovano in una posizione di indipendenza e di parità giuridica fra loro.Sono: il
Presidente della Repubblica, il Parlamento (Camera dei deputati e senatori), il Governo
(Presidente del Consiglio dei ministri, Consiglio dei ministri e singoli ministri), la
Magistratura e la Corte costituzionale. Accanto a questi organi troviamo gli organi
ausiliari di Parlamento e Governo, si tratta di organi quasi costituzionali: il Consiglio
nazionale dell’economia e lavoro, il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti. Questi organi
hanno particolari funzioni: i primi due sono organi consultivi, mentre la Corte dei Conti
svolge una funzione di controllo riguardo l’operato degli organi amministrativi.
- Organi non costituzionali. Tutti gli altri organi che nell’esercizio della loro funzione
risultano sempre subordinati ad un organo costituzionale (Prefetto, Provveditorato agli
studi, il Questore subordinato al Ministro degli interni).

Una seconda classificazione può essere effettuata tra gli organi legislativi, amministrativi
e giuridici e la distinzione avviene in virtù delle diverse funzioni attribuite dallo Stato. Organo
amministrativo è il Governo, legislativo il Parlamento e giurisdizionale il Tribunale.
Altra classificazioneriguarda:
- Organi individuali (o monocratici) e collegiali. Il primo è composto da una sola
persona (per esempio il Presidente della Repubblica), gli altri sono composti da
un’insieme di persone fisiche che partecipano simultaneamente all’attività svolta (per
esempio il Parlamento).

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- Organi locali e centrali. Quelli locali esercitano la propria funzione entro determinati
limite del territorio nazionale (per esempio il Tribunale). Gli organi centrali sono quelli
che hanno la competenza su tutto il territorio nazionale (per esempio la Corte di
cassazione).
- Organi semplici e complessi. Gli organi semplici sono costituiti da un’unità indivisibile
(per esempio un organo monocratico come il Presidente della Repubblica). Gli organi
complessi sono costituiti da un insieme di organi che rimangono distinti in alcune
funzioni.Per esempio il Governo perché costituito da Presidente del Consiglio (di per sé un
organo), Consiglio dei ministri e l’insieme di questi organi costituisce il Governo.
In base all’attività svolta, si possono distinguere:
- Organi esterni che manifestano la volontà dello Stato di fronte ad altri soggetti per
mezzo dei quali lo Stato entra in rapporto giuridico (per esempio i ministri, il Prefetto, il
Provveditorato agli studi).
- Organi interni che esercitano le proprie funzioni all’interno nell’ambito
dell’organizzazione statale. Di solito essi preparano i lavori degli organi esterni per
esempio i vari Ministeri.
Si distinguono anche:
- Organi attivi: sono tutti organi cui è affidato il compito di emanare provvedimenti per il
conseguimento dei fini dello Stato (per esempio il ministro).
- Organi consultivi: si tratta di organi che vengono chiamati per emanare e dare dei
consigli o pareri sull’opportunità o legittimità di atti o provvedimenti che gli organi attivi
devono emettere (per esempio il Consiglio di Stato).
- Organi di controllo: sono organi che esercitano un controllo sia sulla legittimità sia
l’opportunità degli atti posti in essere dagli organi attivi (per esempio la Corte dei conti).
Vi sono poi:
- Gli organi onorari: quelli che esercitano la loro attività a scopo professionale, vale a dire
che non traggono dall’esercizio della loro attività vantaggi economici.
- Gli organi impiegatizi: si collocano in rapporto di prestazione d’opera continuativa e
retribuita (per esempio Prefetto e Questore).

Gli atti giuridici e la loro classificazione


Lo Stato e gli altri enti pubblici svolgono le loro funzioni prevalentemente mediante attività e
atti di diritto pubblico che, per quanto attiene in particolare agli atti dello Stato, assumono la
forma tipica di: legge, decreto e sentenza. Anche altri enti pubblici (le Regioni e le Province
autonome di Trento e Bolzano) possono emanare leggi (regionali e provinciali); mentre tutti gli
enti pubblici esercitano, di regola, le funzioni amministrative loro attribuite nella forma del
decreto (o dell’ordinanza). Oltre che in tali forme, l’attività dei pubblici poteri si svolge anche
mediante tutta una serie di atti che sono preparatori all’emanazione dell’atto definitivo (ad
esempio: un parere, una richiesta, una certificazione).
Gli atti giuridici si possono classificare in: atti semplici (individuali o collegiali), atti composti
(reiterati e complessi), atti collettivi.
Sono atti semplici quelli posti in essere da un solo soggetto o da un solo organo; gli atti composti
si distinguono in reiterati o complessi. Sono atti reiterati quelli per la cui formazione si richiede
più di una manifestazione di volontà da parte dello stesso organo (ad esempio la legge
costituzionale che, a norma dell’art. 138 Cost., deve avere una doppia deliberazione da parte di
ciascuna Camera); sono complessi quelli risultanti dalla fusione di più organi (ad esempio la
legge formale); anche negli atti collettivivi è un concorso di più volontà, solo che mentre nell’atto
complesso le volontà si fondono (con la conseguenza che il vizio di una di esse invalida l’intero
atto), nell’atto collettivo restano invece distinte.

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Capitolo V
FORME DI STATO E FORME DI GOVERNO

Nozione di forma di Stato; Stato feudale, assoluto, moderno, sociale

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Per “forma di Stato” s’intende il rapporto che intercorre fra governanti e governati. Tale
atteggiamento è profondamente condizionato dal contesto storico, da fattori economici,
culturali e politici, che incidono sulle strutture e sull’organizzazione dello Stato.
Tra le forme di stato si distinguono:
- Stato feudale. L’ordinamento a base feudale non può essere considerato una vera e
propria forma di Stato in quanto in esso il potere era disperso fra il monarca e il suo
apparato da una parte, i signori feudali, gli ordinamenti comunali, le corporazioni e le
comunità contadine, dall’altra.
- Stato assoluto. La prima forma di Stato moderno è lo Stato assoluto, inteso come regime
politico in cui il potere è esercitato dal sovrano senza restrizioni e limitazioni. Lo Stato
assoluto nasce dalla progressiva unificazione sotto un unico dominio di ampi territori in
cui erano stanziate comunità che, per interessi, valori e tradizioni comuni, si sentono e
vogliono costruire una Nazione unitaria: con lo Stato assoluto nasce anche lo Stato-
Nazione. Lo Stato assoluto si caratterizza per l’assenza di divisione dei poteri, tutti
riconducibili alla persona del sovrano. Non esiste ancora un sistema di tutela dei sudditi,
né si può parlare di diritti, ma solo di pretese spettanti a chi dispone di titoli di proprietà.
- Stato moderno o di diritto. L’affermarsi dello Stato di diritto coincide con la fine
dell’assolutismo e comporta l’affermazione della borghesia tra il XVIII e il XIX secolo, la
quale insieme al potere economico raggiunto rivendica anche quello politico e determina
una trasformazione radicale nell’assetto della società e nel concetto di Stato. Il concetto
dello Stato di diritto presuppone che l’agire dello Stato sia sempre vincolato e conforme
alle leggi vigenti: dunque lo Stato sottopone se stesso al rispetto delle norme di diritto, e
questo avviene tramite una Costituzione scritta. In esso compare la separazione dei
poteri, quello legislativo affidato al Parlamento, quello esecutivo affidato al Governo,
quello giudiziario affidato ai giudici, e cominciano a comparire alcuni diritti individuali
per i cittadini. L’evoluzione dello Stato moderno è caratterizzata, sul piano giuridico,
dalla progressiva estensione del suffragio (fino a giungere al suffragio universale) e dalla
conseguente Costituzione, accanto ai partiti politici di élites e dei partiti di massa.
- Stato sociale. Lo Stato sociale è quella forma di Stato che si è sviluppata
prevalentemente nelle democrazie occidentali a partire dal secondo dopoguerra, periodo
nel quale lo Stato comincia ad intervenire in ambito economico e sociale per limitare, o
possibilmente eliminare, quelle situazioni di discriminazione tra gli individui che
causerebbero gravi ingiustizie sociali, andando sempre più a consentire il rafforzamento
delle posizioni di privilegio a scapito di alcune categorie sociali svantaggiate. In
conseguenza di tali principi, lo Stato sociale interviene attivamente in economia per
garantire una esistenza libera, sicura e dignitosa a tutti i cittadini, la garanzia della
piena occupazione, forme di protezione sociale estese a tutti (scuola, sanità, giustizia) e
forme di “ammortizzatori sociali” quali borse di studio per i capaci e meritevoli, sussidi di
disoccupazione, assegni familiari, pensioni sociali.

Stati unitari e Stati composti


Uno Stato unitario è uno Stato governato come una singola entità, in cui il governo centrale è
supremo e assegna ad ogni suddivisione amministrativa soltanto alcuni poteri che possono
esercitare. La maggior parte degli Stati nel mondo possiede un sistema governativo di questo
tipo.
Si parla di Stato composto quando lo Stato nasce dall’unione durevole e organizzata di più
Stati: essi mantengono al loro interno la propria sovranità, ma sono membri di uno Stato più
ampio. Lo Stato federale è la forma tipica dello Stato composto. Esso è formato da vari Stati
ognuno dei quali è costituito da un proprio popolo, da un proprio territorio e che, entro certi
limiti, si governano da soli.

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Stati accentrati e Stati decentrati


Lo Stato unitario tende a trasformarsi da Stato rigidamente accentrato, in cui le tre funzioni
fondamentali sono esercitate da organi dello Stato-soggetto, in Stato decentrato, in cui non
solo vengono potenziate e garantite le preesistenti autonomie locali, ma si attua anche
un’ulteriore e più intensa forma di decentramento mediante la creazione di un ente, la Regione,
al quale vengono conferite la potestà di legiferare (entro limiti prestabiliti) in determinate
materie e la corrispondente potestà amministrativa.

Le organizzazioni internazionali; il processo di integrazione europea; l’Unione europea


Più Stati possono unirsi fra loro, pur conservando la loro sovranità, per dare vita ad
un’organizzazione internazionale dotata di una propria, autonoma, soggettività internazionale.
La più importante di tali organizzazioni è oggi l’ONU, i cui organi principali sono l’Assemblea
generale, il Consiglio di sicurezza, il Segretario generale, il Consiglio economico e sociale, e la
Corte internazionale di giustizia. L’ONU persegue i fini del mantenimento della pace e della
sicurezza internazionale, dello sviluppo delle relazioni amichevoli e della collaborazione fra gli
Stati.
Altre organizzazioni internazionali di rilievo sono il Consiglio d’Europa e l’Unione europea.Il
Trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1° novembre 1993, ha
sancito formalmente la nascita dell’Unione Europea, disciplinandola come sistema organizzato
dotato di regole e procedure ben definite. Segna il passaggio della costruzione europea a una
dimensione politica.

Nozione di forma di governo; le forme di governo dello Stato contemporaneo


La forma di governo è il modello organizzativo che uno Stato assume per esercitare il potere
sovrano. Più in generale può intendersi come la modalità con cui viene allocato il potere tra gli
organi portanti dello Stato: Parlamento, Governo e Capo di Stato; la forma di governo quindi
attiene ai rapporti che si vengono a instaurare fra di essi e alle modalità con cui vengono
ripartite e condivise le rispettive competenze.
- Forma di governo parlamentare: la forma di governo vigente nell’ordinamento
italiano è quella parlamentare. Essa si caratterizza per la presenza di due elementi: il
rapporto fiduciario tra il Governo e il Parlamento (fiducia parlamentare) e la possibilità
dello scioglimento anticipato di quest’ultimo organo. È proprio la presenza dello
scioglimento a distinguere la forma di governo parlamentare da quella assembleare (che
pure mantiene in comune con la prima il rapporto fiduciario tra Governo e Parlamento).
- Forma di governo presidenziale: la forma di governo presidenziale (e la sua variante
monarchica: monarchia costituzionale) si caratterizzano invece per una rigida
separazione tra l’esecutivo e il legislativo e per l’unificazione delle cariche di Capo dello
Stato e vertice del Governo in una stessa persona (il Re nella monarchia costituzionale e il
Presidente nella forma di governo presidenziale).
- Forma di governo direttoriale: una peculiare forma di governo è quella direttoriale, in
cui ugualmente vi è una rigida separazione tra il legislativo e l’esecutivo (il legislativo
elegge l’esecutivo, ma non può sfiduciarlo, così come l’esecutivo non può chiederne lo
scioglimento anticipato) e dove manca pure la figura del Capo dello Stato (che viene
esercitata a rotazione dai componenti dell’esecutivo collegiale).
- Forma di governo detta di Gabinetto (Gran Bretagna): rientra tra le forme di
governo parlamentare ed è così definita per la preminenza assegnata al Gabinetto
(costituito non da tutti i ministri, ma soltanto da quelli politicamente più qualificati) e, in
seno ad esso, al Primo Ministro, anche quale leader del partito che ha vinto le elezioni.

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- Forma di governo semipresidenziale (Francia): pur presentando elementi propri


della forma di governo parlamentare (il rapporto di fiducia fra Parlamento e Governo)
accentua ed esalta i poteri del Presidente della Repubblica.
- Forma di governo neoparlamentare (Israele): È caratterizzato dall’elezione diretta
del Primo ministro; il Capo dello Stato viene eletto dal Parlamentoche,se fa cadere un
Governo decade automaticamente anche lui, cosicché da assicurare al Governo una
durata pari alla legislatura.
- Forma di governo detta Cancellariato (Germania): la forma di governo tedesca
prevede l’elezione diretta del Cancelliere (primo ministro) da parte della Camera del
Bundestag su proposta del Presidente. Il Cancelliere poi propone la nomina dei ministri al
Presidente.Il Cancelliere, dunque, può contare su una maggioranza parlamentare e si
trova in posizione di preminenza rispetto ai ministri, stabilendo le linee politiche generali
e le rispettive competenze.

Capitolo VI
LA COSTITUZIONE

Concetto e “tipi” di Costituzione


La Costituzione è la legge fondamentale di un Paese, l’atto che delinea le sue caratteristiche
essenziali, descrive i valori e i principi che ne sono alla base, stabilisce l’organizzazione politica
su cui si regge.
La Costituzione può essere:

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- Scritta o non scritta: nel primo caso essa si presenta come un documento redatto in
forma solenne. Nel secondo caso non esiste un testo di riferimento, ma il funzionamento
delle istituzioni si fonda su una serie di consuetudini e su testi parziali che affrontano
soltanto aspetti particolari. Quasi tutti gli Stati contemporanei hanno una Costituzione
scritta; solo il Regno Unito ha una Costituzione non scritta, anche se esistono alcuni testi
di riferimento anche nell’ordinamento britannico.
- Concessa (ottriata) o votata: nel primo caso essa è concessa dal sovrano, come è
accaduto per la nostra previgente Costituzione, lo Statuto Albertino, e il suo contenuto
non è stabilito attraverso un confronto tra le varie parti politiche e sociali che formano lo
Stato, ma è deciso dal Re. Le moderne Costituzioni sono nella stragrande maggioranza
dei casi adottate da un organo democraticamente eletto (come accaduto per la nostra
Costituzione, elaborata dall’Assemblea Costituente) o approvate dal corpo elettorale
(attraverso un plebiscito come avvenne per la Costituzione della repubblica francese nel
1958).
- Flessibile o rigida: una Costituzione è detta flessibile quando può essere modificata
dagli ordinari strumenti legislativi, senza richiedere un procedimento particolare; è
definita rigida quando è modificabile solo attraverso un procedimento aggravato rispetto
a quello ordinario. Proprio per questo motivo le Costituzioni rigide assumono, nella
gerarchia delle fonti, un grado superiore rispetto a quello delle leggi ordinarie. Le
Costituzioni flessibili, invece, sono di pari grado delle leggi ordinarie.
- Corte e lunghe: nel primo caso contiene soltanto le norme sull’organizzazione
fondamentale dello Stato e alcuni diritti di libertà; nel secondo caso, invece, sono
riconosciuti e tutelati, accanto alle libertà civili, i diritti politici ed economici e sono
enunciati i valori e i principi cui deve ispirarsi l’azione dei poteri pubblici.

La Costituzione italiana e le sue origini


La Costituzione italiana entrata in vigore il 1° gennaio 1948 è composta da 139 articoli e 18
disposizioni transitorie e finali: essa detta i principi fondamentali dell’ordinamento (artt. 13-54),
individua i diritti e doveri fondamentali dei soggetti (artt. 55-139), detta la disciplina
dell’organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). Si tratta di una Costituzione scritta, rigida,
votata, convenzionale.
È scritta perché i valori fondamentali e i principi organizzativi sui quali di regge lo Stato italiani
sono consacrati in un documento e perché è espressamente prevista (art. 138 Cost.) la forma
scritta per le leggi che disciplinano la materia costituzionale.
È rigida perché alle norme in essa contenute è stata assegnata un’efficacia superiore a quella
delle leggi ordinarie, di modo che le leggi che modificano la Costituzione e le leggi in materia
costituzionale, devono essere adottate con procedura aggravata.
È votata perché è stata redatta e approvata dai rappresentanti del popolo eletti all’Assemblea
costituente.
È convenzionale perché le forze politiche che l’hanno redatta e approvata erano fra loro in
contrasto, per cui è stato necessario che esse procedessero a delle reciproche concessioni.

PARTE SECONDA
L’ORDINAMENTO DELLA REPUBBLICA

Capitolo I
IL PARLAMENTO

Il bicameralismo

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Il potere legislativo in Italia è attribuito al Parlamento che, a norma dell’art. 55 Cost., si


compone della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, ed è dunque un organo
complesso, perché formato da due organi (collegiali). La Costituzione ha, in tal modo, adottato il
sistema bicamerale (ha cioè previsto due Camere legislative).
Il bicameralismo è proprio degli Stati federali nei quali, accanto ad una Camera che rappresenta
l’intero popolo, è stata posta una seconda Camera che rappresenta i singoli Stati-membri. Alcuni
Stati europei adottano forme di bicameralismo imperfetto, ossia quando le due Camere non sono
in posizione di parità funzionale e, in particolare, quando la volontà legislativa di una delle due
prevale sul quella dell’altra.
Nel corso della XVII legislatura è stato approvato in prima deliberazione al Senato il disegno di
legge costituzionale che punterebbe all’introduzione del bicameralismo differenziato, in cui
Senato e Camera avrebbero composizioni e funzioni diverse. La Camera dei deputati rimarrebbe
l’unico ramo del Parlamento immediatamente rappresentativo del corpo elettorale e sarebbe
l’unica titolare del rapporto fiduciario col Governo, mentre il Senato diverrebbe un organo
elettivo di secondo grado, e sarebbe composto da 100 membri (dei quali 95 eletti con metodo
proporzionale dai Consigli regionali tra i propri componenti e tra i sindaci dei Comuni dei
rispettivi territori, e 5 nominati dal Capo dello Stato). La durata del mandato dei senatori elettivi
sarebbe connessa a quella dell’organo di provenienza. Le funzioni del nuovo Senato sarebbero
legate alla rappresentanza degli enti territoriali e al raccordo tra l’Unione europea, lo Stato e gli
altri enti costitutivi della Repubblica.

Il Parlamento in seduta comune


Le Camere svolgono di regola la propria attività separatamente e deliberano in seduta comune
soltanto nei seguenti casi, previsti tassativamente dalla Costituzione:
- Elezione del Presidente della Repubblica (art. 83);
- Giuramento del Presidente della Repubblica (art. 91);
- Messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica per alto tradimento o per
attentato alla Costituzione (art. 91);
- Elezione di un terzo dei giudici costituzionali (art. 135);
- Elezione di un terzo dei membri del Consiglio superiore della Magistratura (art. 104);
- Compilazione dell’elenco di cittadini che devono intervenire nei giudizi d’accusa contro il
Presidente della Repubblica, quali giudici aggregati della Corte costituzionale (art. 135).
Il Parlamento in seduta comune è presieduto dal Presidente della Camera (art. 63 co. 2 Cost.) ed
utilizza il regolamento e le strutture di questa. Il Parlamento in seduta comune in alcuni casi
potrebbe darsi un proprio autonomo regolamento.

Sezione I
LA FORMAZIONE DELLE CAMERE

La rappresentanza politica
Per rappresentanza politica s’intende normalmente la trasmissione formale del potere tra chi
detiene la sovranità (il popolo) e chi è legittimato da questi ad imprimere contenuto al comando
politico.

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Mentre nella rappresentanza diretta i negozi compiuti da un soggetto (rappresentante) nel


nome e nell’interesse di un altro (rappresentato) producono normalmente effetto diretto nella
sfera giuridica di quest’ultimo, nella rappresentanza politica gli eletti non rappresentano gli
elettori ma un’entità astratta (la nazione o l’intera collettività); non esiste alcun rapporto
giuridico fra “rappresentanti” e “rappresentati”; non esiste, di conseguenza, la possibilità degli
elettori di revocare gli eletti. Se ne deduce che la rappresentanza politica è vaga ed evanescente.
Affermare, quindi, che gli organi elettivi rappresentano la volontà popolare è una espressione
mistificante (il Presidente della Repubblica, ad esempio, rappresenta l’unità nazionale e non i
parlamentari che lo eleggono, i quali, a loro volta, non rappresentano il corpo elettorale che li
elegge, ma la nazione intera).

Elettorato attivo ed elettorato passivo


L’elettorato si divide in:
- Elettorato attivo: consiste nella capacità giuridica di votare. L’elettorato attivo è
disciplinato dall’art.48 Cost. per il quale sono elettori tutti i cittadini che hanno raggiunto
la maggiore età. Ma la capacità di votare necessita del possesso di due requisiti positivi:
la cittadinanza italiana e la maggiore età. Le circostanze che comportano l’esclusione del
soggetto dall’elettorato sono: incapacità civile, esistenza di cause di indegnità morale,
esistenza di sentenza penale irrevocabile.
- Elettorato passivo: consiste nella capacità di essere eletti. Di regola chiunque è elettore
è anche eleggibile, ma differenze si rinvengono in base all’età: per l’appartenenza alla
Camera dei deputati è richiesto il compimento del 25 anno di età (art.56 co. 3 Cost.), per il
Senato il compimento del 40° anno(art.58 co. 2 Cost.).
Da notare che se si perde l’elettorato attivo, viene meno quello passivo.

I sistemi elettorali
Il sistema elettorale è costituito dall’insieme delle regole che si adottano in una democrazia
rappresentativa per trasformare le preferenze o voti espressi dagli elettori durante le elezioni in
seggi da assegnare all’interno del Parlamento o più in generale di un’assemblea legislativa.
La distinzione fondamentale dei sistemi elettorali è basata sul carattere “maggioritario” o “non
maggioritario” che essi possono rappresentare.
I sistemi maggioritari limitano o impediscono la rappresentanza della minoranza. Con questo
sistema si assegnano ai candidati che abbiano ottenuto la maggioranza (relativa, assoluta o
qualificata) i seggi attribuiti al collegio. Nel 1993 il sistema maggioritario era stato introdotto
anche in Italia per l’assegnazione di 3/4 dei seggi della Camera dei deputati e del Senato; il
residuo quarto era assegnato col sistema proporzionale. Il sistema maggioritario presenta
innegabili vantaggi, esso, infatti, assicura il massimo collegamento fra elettori ed eletti, evita
l’eccessivo frazionamento dei partiti, facilità l’accesso al Parlamento di spiccate personalità,
impedisce gli eccessi della partitocrazia, favorendo il bipolarismo. Di contro può dar luogo ad
alcuni inconvenienti: esso, infatti, facilità la corruzione, fa perdere all’atto elettorale il suo
significato di scelta ideologica.
Con i sistemi proporzionali ci si propone, invece, di assicurare alle diverse parti politiche un
numero di seggi corrispondenti alla loro forza numerica, in modo che il Parlamento dovrebbe
rispecchiare la composizione politica del Paese. Ne consegue che, qualora il corpo elettorale sia
politicamente poco omogeneo, i sistemi proporzionali favoriscono il suo frazionamento fra
diversi partiti, per cui i risultati delle elezioni potrebbero rendere difficile la formazione di stabili
maggioranze di governo.
Non esiste un sistema elettorale che si possa considerare perfetto, ma entrambi i tipi possiedono i
propri vantaggi e i propri svantaggi. Per ovviare a tali inconvenienti, cercando di recuperare le

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caratteristiche positive di ciascun sistema ma limitando quelle negative, si sono col tempo andati
a elaborare sistemi corretti, o misti, dei due modelli originari.

Il procedimento elettorale e l’assegnazione dei seggi


Il procedimento elettorale si apre con il decreto del Presidente della Repubblica, su deliberazione
del Consiglio dei ministri, che indice le elezioni (art. 87 Cost.) delle nuove Camere, che a norma
dell’art. 61 Cost. devono aver luogo entro 70 giorni dalla fine delle precedenti.
La seconda fase del procedimento riguarda la designazione dei candidati e le presentazioni delle
candidature. Con la presentazione e la pubblicazione delle candidature si apre la campagna
elettorale che dura fino al giorno precedente la votazione e che è regolata dalla legge sulla par
condicio (legge 515 del 10 dicembre 1993), in modo che siano assicurate a tutti i candidati e a
tutti i partiti la parità di trattamento, la completezza e l’imparzialità dell’informazione.
In passato le elezioni si svolgevano in due giorni, a decorrere dal 2014 si svolgono in un solo
giorno.
La legge elettorale del 2005 (legge Calderoli) aveva introdotto, per entrambe le Camere, un
sistema elettorale proporzionale, con l’attribuzione di un premio di maggioranza per la
coalizione che avesse vinto le elezioni, allo scopo di garantire la formazione di una stabile
maggioranza di governo. Il premio di maggioranza veniva concesso dall’Ufficio elettorale
centrale alla coalizione, o alla lista, che avesse ottenuto il maggior numero di seggi con il metodo
proporzionale. Esso operava a base nazionale, per la Camera dei deputati, e a base regionale, per
il Senato. Essendo previsti due diversi sistemi di distribuzione dei seggi, era possibile che dalle
urne risultassero due diverse maggioranze parlamentari, alla Camera e al Senato.
Ai fini della ripartizione dei seggi, la legge prevedeva delle soglie di sbarramento: del 10% dei
voti validi per i partiti che avessero formato una coalizione, e al loro interno, del 2% per le liste
collegate. Per le liste non coalizzate era previsto uno sbarramento del 4%, anziché del 2%, come
invece stabilito per quelle facenti parte di una coalizione (cioè allo scopo di favorire la
costituzione di due coalizioni e dunque di salvaguardare il bipolarismo). Al Senato era previsto
uno sbarramento del 20%, su base regionale, per le coalizioni, del 3% per le liste coalizzate e
dell’8% per le liste non coalizzate.
In seguito alla pronuncia della Corte costituzionale del 2014, il Parlamento ha avviato l’esame di
un progetto di legge di riforma del sistema elettorale della Camera dei deputati. Nel gennaio
2015, il testo del progetto di legge elettorale (Italicum) ha ricevuto l’approvazione del Senato,
che ha apportato delle modifiche rispetto alla Camera. Allo stato degli atti, pertanto, il sistema
elettoraleprevede un meccanismo proporzionale con sbarramento al 3% ed eventuale premio di
maggioranza. La lista vincitrice ha infatti diritto ad almeno 340 deputati, pari al 54% degli
scranni della Camera, qualora abbia conseguito una percentuale non inferiore al 40% dei
consensi in ambito nazionale.

Il voto dei cittadini italiani residenti all’estero


I cittadini italiani residenti all’estero, iscritti nelle specifiche liste elettorali, votano per
corrispondenza. Con questo obiettivo è istituita una circoscrizione Estero, prevista dall’articolo
48 Cost., per l’elezione delle Camere. Il voto per corrispondenza degli italiani all’estero è previsto
anche per i referendum abrogativi e confermativi, disciplinati rispettivamente dagli artt. 75 e
138 Cost.. Nella circoscrizione Estero istituita per l’elezione delle Camere sono eletti diciotto
parlamentari, dodici deputati e sei senatori. Il voto può essere espresso o per corrispondenza
oppure in Italia.

I caratteri del voto


Secondo quanto stabilito dall’art. 48 comma II Cost., il voto è:

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- Personale: perché il diritto di voto dev’essere esercitato personalmente. Non è ammesso,


pertanto, il voto per procura.
- Eguale: il voto di un singolo è uguale ed ha lo stesso valore di quello degli altri. Non vi
sono quindi distinzioni.
- Libero: l’elettore esprime liberamente il suo voto senza essere costretto da parte di terzi.
- Segreto: il voto non dev’essere conosciuto da altri e la scelta fatta non dev’essere
condivisa. Al momento del voto l’elettore deve trovarsi da solo per poter votare nella
totale segretezza.

Differenziazioni fra le due Camere


Partendo dal presupposto che le due Camere del Parlamento hanno in comune il sistema di
bipolarismo perfetto, si rivelano tra i due rami del Parlamento delle differenzazioni.
Differenze di composizione:
- I deputati sono 630, mentre i senatori elettivi sono 315.
- Nel Senato è prevista la presenza di senatori a vita non eletti dal popolo ma dal
Presidente della Repubblica (anche gli ex Presidenti della Repubblica stessi sono
automaticamente eletti senatori a vita, a meno che rinuncino a tale carica).
Differenze nell’elettorato attivo e passivo delle due Camere:
- Per eleggere un deputato occorre aver compiuto 18 anni. Per essere candidato a deputato
occorrono 25 anni.
- Per eleggere un senatore occorre aver compiuto 25 anni. Per essere candidato a senatore
occorrono 40 anni.
- Anche i sistemi elettorali delle due camere sono diversi: i senatori vengono eletti su base
regionale.
Differenze di funzione:
Come già detto, vige il bicameralismo perfetto, per cui in ambito legislativo le funzioni sono
identiche, esistono però alcune differenze a carattere istituzionale:
- Il Presidente del Senato sostituisce il Presidente della Repubblica nel caso quest’ultimo
muoia, si dimetta, o sia impossibilitato a svolgere i suoi compiti. Il Presidente del Senato è
dunque la seconda carica istituzionale dello Stato.
- Il Presidente della Camera dei deputati è Presidente anche delle sedute a Camere
congiunte. Il Presidente della Camera è la terza carica dello Stato.

Ineleggibilità e incompatibilità parlamentari. Incandidabilità


Diverso è il fondamento giuridico che sta alla base dell’ineleggibilità e dell’incompatibilità.
L’ineleggibilità mira a garantire la parità di chance tra i candidati; invece, l’incompatibilità è
volta ad assicurare che l’esercizio delle funzioni elettive non sia minacciato da conflitti di
interessi.
- Ineleggibilità: è dovuta alla particolare carica del soggetto, che può porlo in una
posizione di vantaggio rispetto ad altri candidati(è il caso di dirigenti di imprese che
hanno rapporti con lo Stato). Se in presenza di una causa di ineleggibilità un soggetto sia
comunque eletto, la sua elezione viene dichiarata nulla dall’organo competente.Le cause
di ineleggibilità che sopraggiungono nel corso del mandato elettivo, prendono il nome di
ineleggibilità sopravvenute.
- Incompatibilità: impossibilità materiale di ricoprire contemporaneamente due cariche:
quindi si deve optare per l’una o per l’altra (giudice della Corte costituzionale e
deputato). In caso contrario è lo stesso ordinamento che lo fa decadere da una delle due
cariche. L’incompatibilità a differenza dell’ineleggibilità, non impedisce la regolare
elezione ad una carica, ma impone solo una scelta tra il nuovo ed il precedente ufficio
ricoperto.

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Vi è poi:
- L’incandidabilità: divieto per alcuni soggetti di presentare la propria candidatura (è il
caso di coloro che hanno riportato condanna definitiva per alcuni delitti particolarmente
gravi).

La verifica delle elezioni


Appena proclamato eletto, il parlamentare assume la qualità di deputato o senatore e il
rispettivo status. Per assicurare però il rispetto della Costituzione e delle norme di legge, la sua
elezione viene sottoposta ad un controllo sotto il profilo sia della presenza dei requisiti per la
valida assunzione dell’ufficio, sia sotto il profilo della regolarità delle operazioni elettorali. Tale
controllo è svolto da una commissione permanente costituita presso ciascuna Camera (Giunta
delle elezioni). Contro la validità di un’elezione possono, inoltre, essere presentati reclami o
proteste.

Sezione II
LO STATUS DI MEMBRO DEL PARLAMENTO

Irresponsabilità per le opinioni e i voti


L’insindacabilità parlamentare rientra tra le cosiddette immunità parlamentari e costituisce la
più importante tra le prerogative del parlamentare. In base ad essa, il parlamentare, anche se
cessato dalla carica, non può essere chiamato a rispondere giuridicamente dei voti dati e delle
opinioni espresse nell’esercizio delle sue funzioni. Tale norma esenta, dunque, i parlamentari da
ogni responsabilità, civile, penale e amministrativa (disciplinare) che potrebbe sorgere da

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un’opinione espressa o da un voto dato, al fine, appunto, di consentire loro la più ampia libertà di
valutazione e di decisione nell’esercizio del mandato. Sono, invece, escluse dalla qualificazione di
“opinioni espresse” gli insulti e qualsiasi collegamento con la lotta politica come strumento per
sostenere le proprie tesi.

Le guarentigie della libertà personale e domiciliare e della libertà di comunicazione e


corrispondenza
A norma dell’art. 68 commi II e III Cost., nessun membro del Parlamento può essere, senza
autorizzazione della Camera alla quale appartiene:
- sottoposto a perquisizione personale o domiciliare;
- arrestato o privato della libertà personale, salvo che in esecuzione di una sentenza
irrevocabile di condanna o se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è
previsto l’arresto obbligatorio in flagranza;
- sottoposto ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a
sequestro di corrispondenza.
Con la riforma del 1993 è stata abolita l’autorizzazione per sottoporre i parlamentari a processo
penale che, precedentemente, s’era prestata a notevoli abusi per la tendenza delle Camere a
sottrarre i loro membri (negando l’autorizzazione) al giudizio, anche nel caso di commissione di
reati che non avevano alcuna implicazione politica.
La Corte costituzionale, con una sentenza del 2001, risolvendo un conflitto di attribuzione, ha
introdotto il principio per il quale in un processo penale a carico di un parlamentare le cui
udienze si svolgano in concomitanza con gli impegni parlamentari, il calendario delle prime, in
via preventiva e d’accordo con le parti, deve adattarsi ai secondi. L’Autorità giudiziaria non può
entrare nel merito dei caratteri e dell’importanza degli impedimenti relativi ai lavori della
Camera cui il parlamentare appartiene.
La stessa Corte costituzionale, con sentenza del 2004, ha dichiarato costituzionalmente
illegittima la legge 140 del 20 giugno 2003 (lodo Schifani), che prevedeva la sospensione dei
processi penali anche in corso nei confronti del Presidente della Repubblica, Presidente del
Senato, Presidente della Camera dei deputati, Presidente del Consiglio dei ministri e Presidente
della Corte costituzionale, per qualsiasi reato anche riguardante fatti precedenti all’assunzione
della carica e della funzione e fino a cessazione delle stesse.I giudici costituzionali lo ritennero
infatti in contrasto con gli articoli 3 (principio di eguaglianza) e 24 (diritto di azione in giudizio
e di difesa) della Costituzione.
Nonostante la pronuncia della Corte costituzionale,con legge 124 del 23 luglio 2008, sono state
approvate le “Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte
cariche dello Stato”. Tale legge specifica che, salvi i casi previsti dagli articoli 90 e 96 della
Costituzione, i processi penali nei confronti del Presidente della Repubblica, Presidente del
Senato, Presidente della Camera dei deputati e Presidente del Consiglio dei ministri, sono sospesi
dalla data di assunzione e fino alla cessazione della carica. La sospensione si applica anche ai
processi penali per fatti antecedenti l’assunzione della carica (lodo Alfano).
Le norme suddette sono state oggetto della Corte costituzionale che, con sentenza del 2009, ne
ha dichiarato l’illegittimità costituzionale in relazione agli articoli 3 e 138 Cost., con la
motivazione che sia necessaria una legge costituzionale per introdurre le immunità previste dal
lodo Alfano. Essendo la legge composta da un solo articolo, l’intero provvedimento è stato così
dichiarato incostituzionale.
In seguito alla bocciatura del lodo Alfano e in attesa dell’introduzione, con legge costituzionale,
di una disciplina sulla sospensione dei processi penali per le alte cariche dello Stato, venne
approvata la legge 51 del 2010 che introdusse il cosiddetto legittimo impedimento a comparire
in udienza per il Presidente del Consiglio dei ministri e per i ministri. Tale legge avrebbe dovuto
avere una vigenza limitata di 18 mesi dalla sua entrata in vigore e la ratio era quella di

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consentire al Presidente del Consiglio e ai ministri il “sereno svolgimento delle funzioni attribuite
dalla Costituzione e dalla legge”.
La Corte costituzionale, con sentenza del 2011, dichiarò illegittima tale legge nella parte in cui
esso non prevedeva il potere del giudice di valutare in concreto l’impedimento addotto. Nel
complesso la Corte ha sottolineato il ruolo del giudice nel valutare se gli impegni allegati
costituiscano in concreto un impedimento a partecipare all’udienza.

Sanzioni disciplinari a carico dei parlamentari


Sono assunte dal Presidente dell’assemblea o, nei casi più gravi, dall’Ufficio di Presidenza (alla
Camera) o dal Consiglio di Presidenza (al Senato). Esse consistono:
- nel richiamo all’ordine qualora il parlamentare pronunci parole sconvenienti oppure
turbi con il suo contegno la libertà delle discussioni o l’ordine della seduta;
- nell’esclusione dall’aula per il resto della seduta dopo un secondo richiamo all’ordine o
nei casi più gravi (ingiuria ad uno o più colleghi o a un membro del Governo);
- nella censura con l’interdizione a partecipare ai lavori parlamentari per un determinato
periodo di tempo.

Divieto di mandato imperativo


L’art. 67 Cost. dispone che “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le
sue funzioni senza vincolo di mandato”. Ciò significa che il parlamentare, in quanto
rappresentante dell’intera Nazione e non solo degli elettori del suo collegio, non può ricevere da
questi indicazioni vincolanti circa il modo in cui deve svolgere il suo mandato; anche se, come è
comprensibile, egli sarà portato a rendersi interprete delle esigenze e dei bisogni del suo
elettorato.

L’indennità parlamentare
L’indennità parlamentare è prevista dall’art. 69 Cost. Oggi i deputati italiani percepiscono
un’indennità parlamentare riconosciuta per il ruolo svolto. Ricevono poi una diaria, per il
rimborso delle spese di soggiorno a Roma. A queste due voci se ne aggiungono altre, tra cui
quelle a titolo di rimborso viaggi, per l’esercizio del mandato, per il rimborso delle spese
telefoniche. È prevista una “sanzione”, ovvero una riduzione della diaria, in base alle assenze.

I parlamentari pubblici impiegati


I pubblici impiegati che vengono eletti deputati e senatori sono collocati in aspettativa per la
durata del loro mandato e non possono conseguire promozioni se non per anzianità. La legge
stabilisce, inoltre, fino alla cessazione dell’incarico o del mandato, specifici obblighi di pubblicità
delle proprie situazioni patrimoniali.

Le guarentigie delle Camere nel loro complesso


Le guarentigie di cui godono le Camere si riflettono, pur essendo dirette alla protezione
dell’intero corpo, sui singoli loro componenti. Innanzi tutto, speciali norme penali puniscono gli
attentati diretti ad impedire alle Camere l’esercizio delle loro funzioni. Accanto a questa
protezione penale, va ricordata l’immunità della sede, cioè il divieto fatto dalla forza pubblica di
entrare nelle sedi in cui le Camere svolgono i loro lavori. I regolamenti parlamentari dispongono,
inoltre, che i poteri necessari al mantenimento dell’ordine interno delle Camere spettano alle
Camere stesse e sono esercitati dal Presidente che, direttamente o dando disposizione ai questori,
si avvale della guardia di servizio. La forza pubblica non può, in ogni caso, entrare in aula se non
per ordine del Presidente.

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Sezione III
L’ORGANIZZAZIONE E IL FUNZIONAMENTO DELLE CAMERE

I regolamenti parlamentari
I regolamenti parlamentari, ai sensi degli artt. 64 e 72 Cost., sono gli atti che disciplinano
l’organizzazione e il funzionamento di ciascuna delle due Camere del Parlamento (Camera dei
deputati e Senato della Repubblica). Essi sono fonti del diritto che sfuggono, però, ad una
collocazione nella scala gerarchica delle fonti. Si tratta, infatti, si fonti separate, di una
competenza costituzionalmente riservata a ciascuna Camera.

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Il Presidente e l’Ufficio di presidenza


In base all’art. 63 Cost. “ciascuna Camera elegge fra i suoi componenti il Presidente e l’Ufficio di
Presidenza”, composto da 4 vicepresidenti, 8 segretari e 3 questori. Al Senato, l’Ufficio prende il
nome di Consiglio di Presidenza.
Il Presidente rappresenta la Camera ed è un organo super partes e a tale posizione di
imparzialità deve ispirare l’esercizio delle sue funzioni. Il suo ruolo principale è quello di
provvedere al corretto funzionamento della Camera, garantendo l’applicazione del regolamento
e provvedendo al buon andamento delle strutture amministrative della stessa. Il Presidente, poi,
dà la parola, dirige e modera la discussione, mantiene l’ordine, pone le questioni, stabilisce
l’ordine delle votazioni, chiarisce il significato del voto e ne annuncia il risultato.
I vicepresidenti fanno le veci del Presidente coadiuvandolo nello svolgimento dei suoi compiti;
I segretari svolgono attività di compilazione e lettura dei processi verbali delle adunanze,
accertano l’esistenza del numero legale, procedono agli appelli;
I questori sovraintendono al cerimoniale e ai servizi interni e svolgono attività di polizia.

I gruppi parlamentari; le commissioni permanenti; le giunte; le commissioni


d’inchiesta; le deputazioni
Il regolamento della Camera dispone che i deputati devono dichiarare (entro due giorni dalla
prima seduta) a quale gruppo appartengono; mentre per il Senato i senatori, entro tre giorni
dalla prima seduta, sono tenuti ad indicare il gruppo al quale intendono far parte.
In buona sostanza, i gruppi parlamentari, più di ogni altro organo, rappresentano i partiti
politici all’interno del Parlamento e vi trasferiscono i relativi orientamenti d’indirizzo politico.
Essi, cioè, costituiscono il raccordo tra ordinamento parlamentare e sistema partitico.
I gruppi possono essere costituiti anche da parlamentari non iscritti ad alcun partito ma uniti da
un comune impegno su determinati valori (ad esempio i “verdi”) o da parlamentari che
dichiarino di non volere appartenere ad alcun gruppo (gruppo misto).
Ogni gruppo parlamentare è composto da almeno 20 deputati e da almeno 10 senatori.
Le commissioni parlamentari sono organi collegiali del Parlamento, previste dall’art. 72 Cost.,
a cui vengono assegnati i disegni di legge prima che essi vengano discussi in sede
parlamentare.Le commissioni parlamentari rispecchiano, di regola, la proporzione dei vari
gruppi parlamentari. Ogni commissione, dunque, riproduce in piccolo la composizione politica
delle Camere. Le commissioni sono 14 per entrambe le Camere e si distinguono in ragione della
loro competenza per materia.
Le commissioni esaminano il progetto di legge in diverse sedi: referente (per l’esame delle
questioni sulle quali devono riferire all’assemblea), consultiva (per esprimere pareri), legislativa
(per l’esame e l’approvazione dei disegni di legge), redigente (per la formulazione degli articoli
di un progetto di legge).
Anche le giunte parlamentari sono composte in proporzione alle forze politiche presenti in
Parlamento. Ad esse competono funzioni consultive ed extralegislative. Sono attualmente
operanti le seguenti Giunte parlamentari:
Alla Camera: Giunta per il regolamento, Giunta per le elezioni, Giunta per le autorizzazioni a
procedere, Giunta per gli affari delle Comunità europee;
Al Senato: Giunta per il regolamento, Giunta per le elezioni e le immunità parlamentari, Giunta
per gli affari delle Comunità europee.
Le commissioni d’inchiesta possono essere monocamerali e bicamerali (fra queste ultime si
pensi alle commissioni d’inchiesta sul fenomeno della mafia). Una commissione d’inchiesta viene
istituita per mezzo di una legge dedicata (se bicamerale) o da semplice risoluzione della Camera
interessata (se monocamerale), solitamente in casi gravi per effettuare indagini da affiancare (e
non sostituire) a quelle della magistratura.

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Le commissioni bicamerali
Sono commissioni parlamentari previste dalla legge e composte da senatori e da deputati, nel
rispetto del principio di proporzionalità; se previsto dalla legge, vi deve essere assicurata anche
la rappresentanza di tutti i gruppi. Nella storia della Repubblica Italiana sono state anche
costituite commissioni parlamentari per le riforme costituzionali nel 1983, 1993 e 1997. Gli
organi bicamerali possono essere distinti in permanenti e temporanei.

La legislatura; la prorogatio; la convocazione; la decadenza dei progetti legge


Col termine legislatura si indica il periodo che va dalla prima riunione delle assemblee al giorno
del loro scioglimento normale (5 anni) o al giorno del loro scioglimento anticipato (ad opera del
Presidente della Repubblica).
Con la fine della legislatura decadono tutti i progetti di legge che non siano stati ancora
approvati da entrambi i rami del Parlamento, cosicché essi dovranno essere ripresentati alle
nuove Camere per potere essere presi nuovamente in esame. Unica eccezione al principio della
decadenza è quella che riguarda i progetti di legge d’iniziativa popolare, per il cui riesame non è
richiesta una nuova presentazione all’inizio della legislatura.
A norma dell’art. 61 Cost. “finché non siano riunite le nuove Camere sono prorogati i poteri delle
precedenti” (la cosiddetta prorogatio). In regime di prorogatio le Camere devono attenersi alla
normale amministrazione costituzionale o, più semplicemente, limitarsi a compiere soltanto gli
atti indifferibili e urgenti, quali, ad esempio, l’esame dei decreti-legge per la loro conversione in
legge, l’approvazione della legge di bilancio, la deliberazione dello stato di guerra, il riesame
delle leggi rinviate al Parlamento dal Presidente della Repubblica.
Le Camere sono convocate di diritto: a) non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni; b) il primo
giorno non festivo di febbraio o di ottobre; c) quando una delle Camere si riunisce in via
straordinaria, è convocata di diritto anche l’altra e ciò per permettere il contemporaneo
svolgimento dei lavori delle due assemblee.
Ciascuna Camera può essere convocata in via straordinaria per iniziativa del suo Presidente o
del Presidente della Repubblica o di un terzo dei suoi componenti e su mozione di
aggiornamento quando l’assemblea, sospendendo i lavori, indica la data della loro ripresa.

Il funzionamento; la pubblicità delle sedute; il numero legale; la determinazione della


maggioranza; i sistemi di votazione; l’ordine del giorno; la programmazione dei lavori
Le sedute delle Camere sono pubbliche ma ciascuna delle due Camere o il Parlamento in seduta
comune possono deliberare di riunirsi in seduta segreta.
La pubblicità delle sedute si attua sia ammettendo il pubblico ad assistere ai lavori, sia con la
pubblicità degli atti parlamentari e sia attraverso la trasmissione televisiva diretta, alla Camera
qualora venga disposta dal suo Presidente e al Senato quando, per la risposta ad interrogazioni,
interviene il Presidente del Consiglio o quando l’importanza degli argomenti lo richieda.
Perché le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento in seduta comune siano valide è
necessaria la presenza alla seduta della maggioranza dei loro componenti (numero legale). Le
deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento in seduta comune non sono valide se non
sono adottate a maggioranza dei presenti (maggioranza semplice), salvo che la Costituzione
prescriva una maggioranza speciale (maggioranza assoluta, cioè la metà più uno dei
componenti l’assemblea, o maggioranza qualificata, cioè una percentuale elevata dei
componenti l’assemblea).
Le votazioni delle Camere possono essere palesi o segrete. La votazione palese può avvenire per
alzata di mano (da parte di chi approva la proposta), per divisione (in due settori dell’aula dei
favorevoli e dei contrari alla proposta), con procedimento elettronico (con registrazione dei
nomi), per appello nominale (sì, no, mi astengo). Quest’ultima forma di votazione è sempre

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richiesta per accordare o revocare la fiducia al Governo e alla Camera per la votazione della
questione di fiducia.
Alla Camera il voto segreto è adottato per le votazioni riguardanti le persone o, quando ne venga
fatta richiesta, per quelle che incidono sui principi e sui diritti di libertà e sui diritti della persona
umana. Non è consentito lo scrutinio segreto nelle votazioni concernenti la legge finanziaria, le
leggi di bilancio, le leggi collegate e tutte le deliberazioni che abbiano comunque conseguenze
finanziarie. Le stesse esclusioni del voto segreto previste alla Camera valgono per il Senato.
Le Camere non possono discutere o deliberare su materie che non siano all’ordine del giorno
(reso noto almeno il giorno precedente la seduta); ciò in ossequio ad una regola democratica,
secondo la quale bisogna conoscere gli argomenti sui quali si è chiamati a deliberare.
Infine, le Camere organizzano i propri lavori secondo il metodo della programmazione, sulla
base delle priorità indicate dal Governo o dai gruppi parlamentari.

L’ostruzionismo
In Parlamento si chiama ostruzionismo l’azione messa in atto dai gruppi di minoranza per
ritardare o impedire l’approvazione di una legge. In altre parole si tratta di una procedura
parlamentare che rallenta l’andamento per la decisione e attuazione di leggi. Spesso
l’ostruzionismo è l’unica arma parlamentare in mano alle opposizioni e può essere sia tecnico o
legale sia violento. L’ostruzionismo è detto tecnico quando le minoranze fanno ricorso alle
norme regolamentari e agli usi parlamentari (propongono sospensive e pregiudiziali tendenti a
rinviare o a bloccare la discussione, iscrivono a parlare il numero più grande possibile di
oppositori per discorsi lunghissimi, presentano numerosissimi ordini del giorno ed emendamenti
ognuno dei quali va discusso e votato, richiedono frequentemente la verifica del numero legale
costringendo, così, anche la maggioranza ad essere presente in aula, pure durante le sedute
fiume).
L’ostruzionismo è detto violento quando si fa ricorso allo scontro fisico o all’interruzione e alle
intemperanze verbali con cui le opposizioni movimentano le sedute.

Capitolo II
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Gli artt. 83-91 Cost. disciplinano le modalità di elezione, il ruolo, i poteri e le funzioni del
Presidente della Repubblica. L’Assemblea costituente, pur avendo scelto la forma della
Repubblica parlamentare, in cui il Parlamento esercita un ruolo centrale, ritenne opportuno
porre al vertice dello Stato una prestigiosa figura istituzionale, in gradi di rappresentare l’unità
nazionale e di garantire il rispetto della Costituzione. Nell’attuale sistema il Capo dello Stato non
governa, ma riveste il delicato ruolo di organo imparziale e apolitico che esercita funzioni di
controllo sugli altri organi costituzionali, assicurando il corretto equilibrio politico e
istituzionale tra gli stessi.

L’elezione

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A norma dell’art. 83 Cost., il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta
comune integrato da tre delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale in modo che sia
assicurata la rappresentanza delle minoranze. La Valle d’Aosta ha un solo delegato.
L’elezione del Presidente della Repubblica ha luogo a scrutinio segreto e a maggioranza di due
terzi dell’assemblea. Solo quando al terzo scrutinio non sia raggiunta tale maggioranza, è
sufficiente per l’elezione la maggioranza assoluta.
Il Capo dello Stato non viene eletto direttamente dai cittadini così da evitare che lo stesso
Presidente della Repubblica possa intervenire nella direzione politica dello Stato, compito che
spetta al raccordo gruppi parlamentari-Governo. Col prescrivere per l’elezione del Presidente
una maggioranza qualificata (o anche assoluta dopo il terzo scrutinio) e l’intervento dei delegati
regionali, si è voluto allargare il più possibile la base elettorale in modo che il Capo dello Stato
non risulti elettoralmente collegato ad alcun partito. È stata inoltre prevista la segretezza del
voto per dar modo agli elettori di votare in piena libertà e secondo il loro intimo convincimento.
Per essere eletto Presidente della Repubblica è sufficiente essere cittadino italiano, aver
compiuto 50 anni e godere dei diritti civili e politici.

La durata in carica
Il Presidente della Repubblica dura in carica sette anni, che cominciano a decorrere dal giorno in
cui egli presta giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione italiana
dinnanzi al Parlamento in seduta comune.
La Costituzione non pone alcun divieto di rieleggibilità del Presidente della Repubblica. E difatti,
per la prima volta nella storia repubblicana, nel 1993 si è avuta la rielezione, per il secondo
mandato, del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (dimessosi 2 anni dopo).
La scelta di un termine così lungo per la permanenza in carica del Presidente della Repubblica (7
anni rispetto ai 5 anni del Governo) risponde alla necessità di rinforzare la posizione di
indipendenza del Presidente della Repubblica rispetto alle forze politiche che lo hanno eletto.

Le incompatibilità; la cessazione dall’ufficio; la supplenza


L’ufficio di Presidente della Repubblica è incompatibile con qualsiasi altra carica. La cessazione
dell’ufficio può avvenire, oltre che per la scadenza del settennio: a) per impedimento
permanente, nel caso in cui il Presidente sia impossibilitato ad esercitare le sue funzioni; b) per
morte o dimissioni; c) per decadenza dalla carica (in seguito, ad esempio, alla perdita dei diritti
civili e politici).
Qualora il Presidente sia permanentemente o temporaneamente impedito ad esercitare le sue
funzioni, queste vengono svolte, non esistendo nel nostro ordinamento l’istituto della vice-
presidenza, dal Presidente del Senato (supplente). I poteri del supplente sono quelli propri del
Capo dello Stato. Si ritiene, tuttavia, che egli debba, per correttezza costituzionale, ed a meno
che non ricorrano cause di assoluta necessità, astenersi dal compiere atti che incidano
sull’equilibrio dei rapporti fra gli organi costituzionali (come, ad esempio, lo scioglimento delle
Camere).

Irresponsabilità del Presidente della Repubblica e i suoi limiti; in particolare: la


conformità ministeriale
Bisogna distinguere fra responsabilità politica e responsabilitàgiuridica (civile e penale).
Il Presidente della Repubblica è politicamente irresponsabile in via istituzionale, giacché la
responsabilità politica degli atti presidenziali è assunta dai ministri proponenti che li
controfirmano. In tal modo i ministri assumono la responsabilità degli atti presidenziali innanzi
alle Camere, secondo una regola propria della forma di governo parlamentare. L’art. 89 Cost.
richiede la controfirma ministeriale di tutti gli atti presidenziali non soltanto come strumento

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idoneo a fare assumere la responsabilità di tali atti al ministro, ma anche come requisito di
validità degli stessi.
Diversamente si atteggia, invece, l’irresponsabilità giuridica del Presidente della Repubblica.
Mentre, infatti, il Presidente non è responsabile, sia civilmente che penalmente, per gli atti
compiuti nell’esercizio delle sue funzioni (tranne che per alto tradimento o per attentato alla
Costituzione), come privato cittadino egli è pienamente responsabile ma, in materia penale,
soltanto alla scadenza del mandato e sempre che non siano decorsi i termini di prescrizione. Per
quanto riguarda questa materia è bene ricordare i cosiddetti lodo Schifanie lodo Alfano che
avevano previsto la sospensione dei processi penali a carico delle più alte cariche dello Stato,
successivamente dichiarati costituzionalmente illegittimi dalla Corte costituzionale.
La stessa Corte costituzionale, con sentenza del 2013, è intervenuta in tema d’intercettazioni di
conversazioni del Presidente della Repubblica, stabilendone il divieto assoluto, riconoscendo
quindi a tale organo costituzionale la garanzia del più ampio diritto alla riservatezza.
Spetta al Parlamento in seduta comune mettere in stato di accusa, a maggioranza assoluta dei
suoi componenti, il Presidente della Repubblica, qualora ritenga che l’atto da lui compiuto
integri il reato di alto tradimento o di attentato alla Costituzione; in tal caso il Presidente della
Repubblica è sottoposto al giudizio della Corte costituzionale.

Le attribuzioni
Il Presidente della Repubblica è posto, nella nostra Costituzione, al di fuori dei tre poteri
fondamentali dello Stato (legislativo, esecutivo e giudiziario). Egli esercita le sue attribuzioni
come Capo dello Stato, per cui in dottrina si è identificato un autonomo potere presidenziale. Ciò
non implica mai una partecipazione diretta del Presidente alle attività d’indirizzo politico
(potere neutro).
Le attribuzioni presidenziali possono essere ordinate secondo il seguente schema, ricollegandole
a ciascuno dei tre poteri dello Stato:
In relazione alla rappresentanza esterna:
- accreditare e ricevere funzionari diplomatici (art. 87 Cost.);
- ratificare i trattati internazionali sulle materie dell’art. 80, previa autorizzazione delle
Camere (art. 87);
- dichiarare lo stato di guerra, deliberato dalle Camere (art. 87);
In relazione all’esercizio delle funzioni parlamentari:
- nominare fino a cinque senatori a vita (art. 59);
- inviare messaggi alle Camere (art. 87);
- convocarele Camere in via straordinaria (art. 62);
- scioglierele Camere (salvo che negli ultimi sei mesi di mandato). Lo scioglimento può
avvenire in ogni caso se il semestre bianco coincide in tutto o in parte con gli ultimi sei
mesi di legislatura (art. 88);
- indire le elezioni e fissare la prima riunione delle nuove Camere (art. 87);
In relazione alla funzione legislativa e normativa:
- autorizzare la presentazione in Parlamento dei disegni di legge governativi (art. 87);
- promulgare le leggi approvate in Parlamento entro un mese, salvo termine inferiore su
richiesta della maggioranza assoluta delle Camere (art. 73);
- rinviare alle Camere con messaggio motivato le leggi non promulgate e chiederne una
nuova deliberazione (potere non più esercitabile se le Camere approvano nuovamente)
(art. 74);
- emanare i decreti-legge, i decreti legislativi e i regolamenti adottati dal Governo (art.
87);
- indire i referendum (art. 87) e nei casi opportuni, al termine della votazione, dichiarare
l’abrogazione della legge a esso sottoposta;

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In relazione alla funzione esecutiva e di indirizzo politico:


- nominare il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri (art.
92). Secondo la prassi costituzionale, la nomina del Presidente del Consiglio avviene in
seguito ad opportune consultazioni con i Presidenti delle Camere, i capi dei gruppi
parlamentari, i presidenti emeriti della Repubblica e le delegazioni politiche;
- accogliere il giuramento del Governo e le eventuali dimissioni (art. 93);
- nominare alcuni funzionari statali di alto grado (art. 87);
- presiedere il Consiglio supremo di difesa e detenere il comando delle forze armate
italiane (art. 87);
- decretare lo scioglimento di Consigli regionali e la rimozione dei Presidenti di Regione
(art. 126);
- decretare lo scioglimento delle Camere o anche una sola di esse (art. 88);
In relazione all’esercizio della giurisdizione:
- presiedere il Consiglio superiore della magistratura (art. 104);
- nominare un terzo dei componenti della Corte costituzionale (art. 135);
- concedere la grazia e commutare le pene (art. 87).
Conferisce inoltre le onorificenze della Repubblica Italiana tramite decreto presidenziale (art.
87).

I messaggi e il potere di esternazione


Il potere di messaggio del Presidente della Repubblica è disciplinato dalla Costituzione agli artt.
74 e 87. A norma dell’art. 74 il Presidente della Repubblica, prima di promulgare una legge, può,
con messaggio motivato alle Camere, chiedere una nuova deliberazione. L’art. 87 si limita a
disporre che il Presidente della Repubblica può inviare messaggi alle Camere. La sua dizione
letterale, oltre che per ragioni di opportunità politica, data la posizione super partes del Capo
dello Stato, portano quindi ad escludere che il Presidente possa leggerli o pronunciarli
personalmente innanzi alle Camere. Mediante tale tipo di messaggi il Presidente può segnalare
agli organi legislativi gravi necessità comuni o l’esigenza di provvedere a determinate situazioni
senza, in ogni caso, prendere posizioni a favore dell’una o dell’altra parte politica. Ambedue i tipi
di messaggi devono essere controfirmati sia perché, con la controfirma, viene assunta dal
ministro o dal Presidente del Consiglio (e più in generale dal Governo) la responsabilità politica
dell’atto e sia perché possano essere validi.
Nella prassi si è affermato almeno un altro tipo di messaggio, quello che il Presidente neoeletto
pronuncia innanzi alle Camere in seduta comune subito dopo il giuramento. Questo messaggio si
distingue dai precedenti perché non è inviato e non è controfirmato. Come taleesso non dovrebbe
rientrare nel potere di messaggio del Presidente, bensì in un più generico “potere di
esternazione”.

Lo scioglimento delle Camere


Lo scioglimento delle Camere può essere determinato da una situazione di contrasto fra
Parlamento e Governo a seguito dell’approvazione di una mozione di sfiducia da parte delle
Camere; dalla constatazione che le Camere, per chiari e inequivocabili segni (ad esempio i
risultati delle elezioni amministrative tenutesi in gran parte del territorio nazionale), non
rispecchiano più la volontà del corpo elettorale, dall’incapacità delle Camere di esprimere una
maggioranza stabile (provocando così una serie di “crisi” dovute alla mancata concessione ai
Governi via via formatisi della fiducia iniziale); da una crisi di governo che la maggior parte dei
partiti politici ritiene di poter risolvere soltanto ricorrendo ad una nuova consultazione
elettorale.
Nel caso in cui il Governo venga battuto da un voto di sfiducia, il Presidente della Repubblica
può, valutate le circostanze che hanno determinato il voto e la situazione politica generale, fare

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leva sul suo potere di scioglimento e rimettere quindi la decisione del contrasto insorto tra
Parlamento e Governo alla volontà popolare, espressa attraverso il corpo elettorale o
procedendo alla nomina di un nuovo Governo, tentando in tal modo un’altra via che potrebbe
portare, qualora attorno a quest’ultimo si formasse una maggioranza omogenea,
all’eliminazione dei termini del contrasto senza ricorrere alla consultazione elettorale.
Il Presidente della Repubblica prima di sciogliere le Camere deve sentire il parere dei loro
Presidenti. Tale parere è obbligatorio ma non vincolante ed è diretto a fare acquisire al Capo
dello Stato le valutazioni politiche circa lo scioglimento dei Presidenti delle Camere che, per la
loro posizione, sono in grado di conoscere e di riferire obiettivamente quali siano le tendenze
manifestatesi al riguardo all’interno delle assemblee.
Inoltre egli non può sciogliere le Camere negli ultimi sei mesi del suo mandato, salvo che essi
coincidano con gli ultimi sei mesi della legislatura.

Classificazione degli atti presidenziali


Gli atti presidenziali possono essere classificati in tre grandi categorie:
- Atti formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi. Rientrano in tale categoria
quegli atti che, seppure assumono la forma del decreto del Presidente della Repubblica,
vengono predisposti dal Governo per quel che concerne il loro contenuto. Rispetto a tali
atti il Presidente della Repubblica esercita un mero controllo di legittimità. Esempio di
questi atti sono i decreti-legge, i decreti-legislativi, i regolamenti governativi.
- Atti formalmente e sostanzialmente presidenziali. Si tratta di quegli atti ritenuti
normalmente di prerogativa esclusiva del Presidente della Repubblica. Può essere
presente la controfirma di un membro del governo (generalmente il Presidente del
Consiglio dei ministri o il ministro proponente), ma ciò non incide sulla prerogativa
presidenziale dell’atto. Sono esempi di questo tipo di atti, la nomina di cinque senatori a
vita, la nomina di cinque giudici costituzionali, il rinvio al Parlamento di una legge, la
promulgazione delle leggi, i messaggi.
- Atti sostanzialmente complessi. Sono atti il cui contenuto è predisposto e voluto sia dal
Presidente della Repubblica sia dal Governo. Appartengono a questa categoria la nomina
del Presidente del Consiglio e lo scioglimento delle Camere, oltre che la concessione della
grazia che richiede l’accordo fra il Capo dello Stato e il ministro della giustizia.

La posizione giuridica
Il Presidente della Repubblica, in quantopotere neutro, organo cioè che non entra nel gioco
politico, è posto al di sopra delle parti e non svolge alcuna funzione attiva nella determinazione e
nell’attuazione dell’indirizzo politico. In tal senso il Presidente della Repubblica è il
rappresentante dell’unità nazionale e ne è il simbolo. Nella sua persona si assomma e si
armonizza, quindi, l’unità dello Stato.
Il Presidente della Repubblica vigila sul funzionamento del meccanismo costituzionale e
interviene nel momento in cui le regole che lo disciplinano non vengono osservate, al fine di
assicurare il rispetto, formale e sostanziale, della Costituzione e il mantenimento di un corretto
equilibrio fra gli organi cui spetta la direzione politica dello Stato.

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Capitolo III
IL GOVERNO

Il potere esecutivo: il Governo e gli organi dipendenti


A norma dell’art. 92 Cost. “il Governo della Repubblica è composto dal Presidente del Consiglio e
dai ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri”. Esso è composto, dunque, da più
organi individuali (Presidente del Consiglio e ministri) e da un organo collegiale (Consiglio dei
ministri).
Si può definire il Governo come quel complesso di organi cui è affidata la funzione d’individuare
e tradurre in concreti programmi d’azione l’indirizzo politico espresso dal corpo elettorale
(prima) e dal Parlamento (poi) e di curare l’attuazione di tali programmi.
I ministri sono invece organi costituzionali dello Stato posti a capo di determinati apparati
amministrativi (Ministeri o Dicasteri).
Può avvenire che del Governo entrino a far parte uno o più vicepresidenti del Consiglio e ministri
senza portafoglio, ai quali non è attribuita la cura di alcun apparato di settore organizzato in
Ministero. I primi, infatti, sono chiamati a supplire il Presidente del Consiglio in caso di sua

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assenza o impedimento temporaneo; i secondi svolgono le funzioni loro delegate dal Presidente
del Consiglio.
Un ministro o il Presidente del Consiglio possono assumere, in via provvisoria, l’interim di un
ministero rimasto senza titolare.

La formazione del Governo


Per formazione del Governo s’intende il procedimento di nomina del Presidente del Consiglio e
dei singoli ministri. La nostra Costituzione si limita a disporre (art. 92 comma II) che “il
Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di
questo, i ministri”.
Tale procedimento è suddiviso in tre fasi: consultazione, incarico e nomina; tuttavia il Governo
entra in carica dopo altre due fasi: giuramento e fiducia.
Consultazione: il Presidente della Repubblica consulta i segretari dei partiti, i Presidenti dei
gruppi parlamentari, gli ex Presidenti della Repubblica e i Presidenti delle Camere;
successivamente nomina un potenziale Presidente del Consiglio in grado di formare un governo
che possa ottenere la fiducia dalla maggioranza del Parlamento.
Incarico: il Presidente del Consiglio riceve l’incarico “con riserva” di formare il nuovo Governo e
concorda il programma e la lista dei ministri con i partiti politici della sua coalizione. L’incarico
è accettato “con riserva” (si riserva di verificare se riesce a formare una propria squadra di
Governo) e, fin quando il Presidente del Consiglio non accetta tale nomina, egli è definito
Presidente del Consiglio incaricato. Se non accetta, il Presidente del Consiglio deve rimettere il
mandato, rinunciando quindi all’incarico.
Nomina: il Presidente del Consiglio si reca dal Presidente della Repubblica per accettare la
nomina, sciogliendo la riserva; il Presidente della Repubblica procede quindi alla nomina del
Presidente del Consiglio e dei ministri.
Giuramento: prima di assumere le funzioni, il Presidente del Consiglio e i ministri devono
prestare giuramento secondo la formula rituale. Il giuramento rappresenta l’espressione del
dovere di fedeltà che incombe in modo particolare su tutti i cittadini ed, in modo particolare, su
coloro che svolgono funzioni pubbliche fondamentali (art. 54 Cost.).
Fiducia: entro 10 giorni dalla nomina, il Governo si reca in Parlamento per presentare il
programma e ottenere la fiducia dal Parlamento, poiché in Italia vi è il sistema di governo
parlamentare, secondo il quale il Governo è politicamente responsabile di fronte al Parlamento.
Solo dopo la fiducia, esso entra nella pienezza dei suoi poteri politici e inizia a operare per la
realizzazione del programma.Il Parlamento dà la fiducia tramite una mozione motivata
(mozione di fiducia), votata con scrutinio palese; se non si ottiene la maggioranza ordinaria
(maggioranza dei presenti), il Governo si deve non entra in carica.
In passato è avvenuto che, in condizioni particolarmente difficili (quando, cioè, i partiti non
riescono a raggiungere un accordo per la formazione della maggioranza), il Capo dello Stato
affidi ad una personalità (fino adesso il Presidente del Senato o della Camera) il cosiddetto
mandato esplorativo, vale a dire il compito di svolgere delle consultazioni, ristrette, in modo da
avere una visione più completa e aggiornata degli orientamenti delle forze politiche. Dal
mandato esplorativo si distingue il cosiddetto preincarico che si avrebbe quando il Presidente
della Repubblica affida alla personalità politica alla quale, con ogni probabilità, conferirà
l’incarico, il compito di svolgere ulteriori consultazioni onde assumere, in questa sua posizione
non ufficiale ma già di candidato in pectore all’ufficio di Presidente del Consiglio, elementi di
chiarificazione per la formazione del nuovo governo.

Il Presidente del Consiglio dei ministri


Il Presidente del Consiglio viene nominato dal Presidente della Repubblica. Si tratta spesso del
leader di uno dei partiti che sostengono il Governo, ma nulla vieta che la scelta cada su una

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personalità di spicco della vita del Paese, non appartenente a partiti politici. Il Presidente del
Consiglio è responsabile della politica generale del Governo: presiede, promuove e coordina
l’attività dei ministri, garantendone l’unità d’indirizzo. Convoca le riunioni del Consiglio dei
ministri, ne dirige i lavori, assicura l’attuazione delle deliberazioni, mantiene i rapporti con gli
altri organi dello Stato. La carica del Presidente del Consiglio è legata alle sorti del suo Governo
e dura fino a quando questo gode della fiducia del Parlamento. Inoltre, resta in carica anche nel
periodo che va dalla caduta del suo Governo alla formazione di quello successivo, perché il Paese
non sia mai privato della più importante istituzione politica dello Stato.
Per lungo tempo è mancata una disciplina legislativa sulla distribuzione delle competenze
all’interno del Governo. La legge n. 400/1988 ha disciplinato la materia, precisando le
competenze rispettive dell’organo monocratico e di quello collegiale.
Le competenze del Presidente del Consiglio possono essere distinte a seconda che
riguardino i rapporti con altri organi costituzionali (1), con il Consiglio dei ministri (2) e con i
singoli ministri (3):
1. Per quel che riguarda il primo aspetto, il Presidente del Consiglio esercita varie attribuzioni:
- espone le dichiarazioni programmatiche, pone la questione di fiducia (con l’assenso del
Consiglio) e presenta i disegni di legge di fronte alle Camere;
- sottopone al Presidente della Repubblica i disegni di legge nonché le leggi per la
promulgazione e i decreti aventi forza di legge e i regolamenti per emanazione;
- solleva, su deliberazione del Consiglio, di fronte alla Corte costituzionali le questioni di
legittimità costituzionale sulle leggi regionali e i conflitti di attribuzione con altri poteri
dello Stato e con le Regioni.
2. Circa i rapporti con il Consiglio dei Ministri, il Presidente presiede l’organo collegiale, lo
convoca, ne fissa l’ordine del giorno e ne dirige i lavori. Durante le riunioni spetta in particolare
al Presidente valutare l’opportunità di sottoporre le deliberazioni a votazione e fissarne le
modalità. Infine il Presidente provvede a garantire, tramite un apposito comunicato o mediante
un portavoce, l’informazione sulle deliberazioni adottate.
3. Nei suoi rapporti con i ministri il Presidente del Consiglio è titolare di poteri rilevanti.
- il potere di indirizzare ai ministri direttive volte ad attuare le deliberazioni consiliari e a
garantire la direzione della politica generale del Governo;
- il potere di sospendere l’adozione di atti da parte dei ministri competenti e di sottoporli al
Consiglio dei ministri;
- il potere di istituire appositi Comitati di ministri cui deferire l’esame di specifiche
questioni.
I ministri; i sottosegretari di Stato; i commissari straordinari del Governo
I ministri vengono nominati dal Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del
Consiglio. Agiscono all’interno del loro Ministero per mettere in pratica le decisioni del Consiglio
dei ministri e nello svolgimento della loro attività hanno responsabilità politica, civile e penale.
Per essere nominato ministro non occorre essere un parlamentare, ma è sufficiente essere in
possesso dei requisiti richiesti dalla legge per ricoprire una carica pubblica. Il numero dei
Ministeri è variabile, in quanto è il Presidente del Consiglio a decidere di quanti ministri abbia
bisogno. Accanto ai “ministri con dicastero”, cioè quelli che hanno una voce propria nel bilancio
dello Stato, il nostro ordinamento prevede anche i cosiddetti “ministri senza portafoglio” che si
occupano di settori particolari (rapporti con il Parlamento, politiche comunitarie...).
I ministri assumono una duplice veste: come membri dell’organo collegiale di Governo
contribuiscono alla determinazione dell’indirizzo politico; come titolari di un Ministero o
dipartimento, cioè dell’apparato burocratico incaricato della gestione di uno specifico ramo
dell’amministrazione statale, curano l’attuazione dell’indirizzo nell’ambito del settore di propria
competenza e ne assicurano la direzione.
Attualmente i Ministeri sono 13 e sono tutti disciplinati con atti legislativi.

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Essi sono i seguenti: Affari Esteri e cooperazione internazionale; Interno; Giustizia; Difesa;
Economia e Finanze; Sviluppo Economico; Politiche Agricole, Alimentari e Forestali; Ambiente,
Tutela del Territorio e del Mare; Infrastrutture e Trasporti; Lavoro e Politiche sociali; Istruzione,
Università e Ricerca; Beni e Attività Culturali; Salute.
Del Governo possono far parte anche ministri senza portafoglio e possono svolgere solo “le
funzioni loro delegate dal Presidente del Consiglio, sentito il Consiglio dei ministri” con
provvedimento pubblicato sulla Gazzetta ufficiale e i compiti eventualmente attribuiti loro da
singole leggi e si avvalgono delle strutture amministrative e degli uffici di diretta collaborazione
della Presidenza del Consiglio.
I sottosegretari di Stato. La complessità delle funzioni attribuite all’esecutivo e ai singoli
ministri ha dato vita alla figura dei sottosegretari, i quali, pur facendo parte della struttura del
Governo, non partecipano alle riunioni del Consiglio dei ministri (ad eccezione del
sottosegretario nominato Segretario del Consiglio) e svolgono funzioni di tipo ausiliario e
collaborativo nei confronti dei ministri e del Presidente del Consiglio. Il sottosegretario alla
Presidenza del Consiglio è nominato Segretario del Consiglio dei ministri: egli cura la
verbalizzazione e la conservazione del registro delle deliberazioni e sovrintende all'ufficio di
segreteria del Consiglio.
I commissari straordinari. L’art. 11 della legge n. 400/1988 ha previsto la possibilità del
ricorso a commissari straordinari del Governo, incaricati di realizzare specifici obiettivi relativi
agli indirizzi deliberati dal Parlamento o dal Consiglio dei ministri o garantire in via
temporanea il coordinamento operativo tra amministrazioni statali. Si tratta quindi di organi
non politici, ma di alta amministrazione.

Il Consiglio di Gabinetto; i Comitati di ministri; i Comitati interministeriali


A norma dell’art. 6 della legge 400 del 1988, il Presidente del Consiglio, nello svolgimento delle
sue funzioni, può essere coadiuvato da un comitato che prende il nome di Consiglio di
Gabinetto ed è composto da ministri da lui designati, sentito il Consiglio dei ministri.
Di fatto esso si è inizialmente configurato quale un sostituto dei “vertici” di partito, assumendo la
finalità di sottoporre questioni di particolare complessità o impreviste ai ministri più
rappresentativi dei partiti della maggioranza.
Vi sono settori della pubblica amministrazione che rientrano nelle competenze di più ministri. In
questi casi, per assicurare un sufficiente grado di coordinamento, possono essere istituiti dei
Comitati composti da tutti i ministri interessati. Si tratta, in ogni caso, di organi non necessari,
vale a dire non previsti dalla Costituzione, ma che svolgono una consistente mole di lavoro.
I Comitati possono distinguersi in:
- Comitati di ministri, istituiti con decreto dal Presidente del Consiglio, hanno compiti di
studio e di preparazione in vista delle deliberazioni del Consiglio dei ministri. Tali
Comitati, che hanno rilievo interno, sono organismi di lavoro spesso temporanei, svolgono
attività di carattere puramente istruttorio e non hanno alcuna competenza esterna. Le
loro deliberazioni e le loro responsabilità sono fatte proprie dal Consiglio dei ministri o
dai singoli ministri interessati.
- Comitati interministeriali, costituiti con legge dal Parlamento, cui sono attribuite
specifiche competenze d’indirizzo e di amministrazione. Sono costituiti da più ministri,
alcuni di essi, anche da funzionari ed esperiti. Il loro compito è quello di preparare e
coordinare l’attività del Consiglio dei ministri in relazione a determinati settori
dell’attività politico-amministrativa e della gestione economica dello Stato e degli enti
pubblici. Fra i comitati interministeriali di maggiore rilievo vi è il Comitato
interministeriale per la programmazione economica (CIPE) al quale spetta, fra l’altro, di
predisporre gli indirizzi della politica economica nazionale, di indicare le linee generali

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per l’elaborazione del programma economico nazionale nonché le direttive generali per
l’attuazione del programma stesso.

Il Segretariato generale della Presidenza del Consiglio


Gli uffici di diretta collaborazione con il Presidente del Consiglio dei ministri sono organizzati nel
Segretariato generale della Presidenza del Consiglio dei ministri. Fanno parte del Segretariato
l’ufficio centrale per il coordinamento dell’iniziativa legislativa e dell’attività normativa del
Governo, l’ufficio per il coordinamento amministrativo, nonché gli uffici del consigliere
diplomatico, del consigliere militare, del capo dell’ufficio stampa del Presidente del Consiglio dei
ministri e del cerimoniale. Al Segretariato è preposto un segretario generale, nominato con
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri.

Le cause di cessazione del Governo


Il Governo non è un organo a termine; esso continuerà a svolgere le proprie funzioni, fino a
quando le Camere non gli revochino la fiducia o decide di dimettersi.
Le più ricorrenti cause di cessazione del Governo sono:
- Voto di sfiducia delle Camere: è l’atto formale con cui il Parlamento revoca la fiducia
inizialmente concessa, e comporta per il Governo l’obbligo giuridico di dimettersi; non è
espressamente previsto dalla Costituzione, anche se l’art. 94 dice che il “Governo deve
avere la fiducia di entrambe le Camere”.
- Questione di fiducia: si ha nel caso in cui il Governo nel momento in cui presenta al
Parlamento un provvedimento di legge, di cui richiede l’approvazione, avverte che, se il
provvedimento non dovesse essere approvato, automaticamente riterrà venuta meno la
fiducia delle Camere, e quindi provvederà a presentare le sue dimissioni. Nella pratica
politica tale strumento viene usato dal Governo per compattare la maggioranza
parlamentare che lo sostiene o per evitare l’ostruzionismo dell’opposizione.
- Crisi extraparlamentare: si ha quando uno (o più partiti politici), ritira il proprio
appoggio alle maggioranze; conseguentemente il Governo non contando più su una
maggioranza parlamentare, dovrà necessariamente dimettersi.
- Nuove elezioni politiche: ogni qualvolta si procede a nuove elezioni politiche, qualsiasi
sia il suo esito, il Governo dovrà presentare le proprie dimissioni in attesa delle nuove
consultazioni del Capo dello Stato, che verificherà le nuove maggioranze che si sono
determinate in Parlamento.
Una diversa ragione di crisi si ha quando il Governo, presentandosi alle Camere dopo la sua
formazione, non ne ottenga la fiducia. In tal caso, infatti, si ha la mancata costituzione iniziale
della maggioranza e non, come nelle ipotesi precedenti, la rottura del rapporto fiduciario già
instauratosi fra il Governo e la maggioranza.
Il Governo può dimettersi anche per cause diverse da quelle che si ricollegano direttamente al
rapporto Parlamento-Governo, come per la morte del Presidente del Consiglio o per la
cessazione o la sospensione per motivi inerenti alla propria persona; per l’elezione di un nuovo
Presidente della Repubblica.
Dalla crisi di governo va distinto il rimpasto che si ha quando, fermo restando il rapporto
fiduciario fra Governo e Parlamento, il Presidente del Consiglio procede alla sostituzione di
qualcuno dei ministri al fine di poter continuare a mantenere l’unità d’indirizzo politico e
amministrativo del Governo stesso.

La responsabilità dei ministri


Secondo l’art. 95 Cost. “i ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei
ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri”; a norma, poi, dell’art. 89 “nessun atto del
Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne

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assumono la responsabilità. Gli atti che hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge
sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio”.
Particolare rilievo assume, al fine della configurazione della responsabilità ministeriale, l’istituto
della controfirma, ove si osservi che la maggior parte degli atti del Presidente della Repubblica
sono imputabili al Capo dello Stato solo formalmente mentre sostanzialmente sono posti in
essere dal Governo.
Per quanto riguarda la responsabilità giuridica dei ministri e del Presidente del Consiglio, questa
può essere distinta in civile, penale e amministrativa.
- La responsabilità penale. L’art. 96 Cost, dispone: “Il Presidente del Consiglio e i
ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio
delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato o della
Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale”.I ministri, a
differenza dei parlamentari, non beneficiano d’immunità dagli arresti e sono sottoposti
alla giustizia ordinaria. Pertanto, se commettano un reato nell’esercizio delle loro
funzioni, vengono giudicati dal Tribunale.Perché possaavvenire un processo è però
necessaria la preventiva autorizzazione da parte della Camera di appartenenza, se si
tratta di un parlamentare, oppure del Senato se il ministro non è membro del
Parlamento.L’autorizzazione parlamentare è preceduta da accertamenti condottida un
apposito collegio di magistrati, definito Tribunale dei ministri che, al termine delle
indagini, può disporre l’archiviazione del caso se non si riscontrano elementi di
consapevolezza, oppure può disporre la trasmissione degli atti al Presidente della
Camera competente. Questa potrà negare l’autorizzazione e procede qualora ritenga che
il ministrosotto accusa abbia operato per tutelare un interesse dello Stato o per
perseguire un interesse pubblico.
- La responsabilità civile. I ministri sono civilmente responsabili dei danni che
provocano a persone o cose in base all’art 2043 del Codice civile “qualunque fatto doloso
o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto
a risarcire il danno”.In pratica i ministri, come tutti i cittadini, rispondono delle
conseguenze di atti da loro commessi.
- La responsabilità amministrativa. È possibile che un ministro provochi un danno allo
Stato, ad esempio il reato di appropriazione di denaro pubblico.In tale ipotesi egli incorre
in responsabilità amministrativa, che lo obbliga a risarcire i danni allo Stato. L’organo
giudicante in materia di tale responsabilità è la Corte dei conti.
Capitolo IV
LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

La Pubblica amministrazione è il complesso degli uffici, del personale, dei mezzi e delle strutture
preposte a svolgere i compiti di amministrazione attiva, ossia a dare attuazione concreta ai
programmi e agli obiettivi del Governo. L’organizzazione e il funzionamento
dell’amministrazione statale sono attribuite dalla Costituzione al Parlamento, che le disciplina
con apposite leggi. Negli ultimi anni le Camere hanno previsto un modello di gestione
dell’amministrazione pubblica più attento all’efficienza, alla rapidità, all’economicità e
all’imparzialità, al fine di rendere l’amministrazione più vicina ai cittadini.

Significato della locuzione


Con la locuzione “Pubblica amministrazione” ci si riferisce al complesso di enti, e relativi organi e
uffici, che svolgono l’attività amministrativa. Gli uffici dell’amministrazione statale, a livello
centrale, possono essere distinti a seconda del settore in cui operano, settore che, nella maggior
parte dei casi, corrisponde ad un Ministero. Così, ad esempio, avremo che la pubblica
amministrazione, nel settore del Ministero dell’Interno, oltre al Ministero stesso e ai suoi

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dipartimenti, comprende una serie di uffici periferici quali le Prefetture, le Questure, gli Archivi
di Stato, i sindaci.
Oltre agli uffici, centrali e periferici dello Stato, entrano a far parte della pubblica
amministrazione anche gli uffici degli altri enti pubblici sia territoriali (Regioni, Città
metropolitane, Province, Comuni) sia non territoriali.
Più in generale, la locuzione “Pubblica amministrazione” sta ad indicare tutti quegli uffici
pubblici che svolgono funzioni sostanzialmente amministrative anche se non fanno parte
dell’amministrazione, diretta o indiretta, dello Stato.

I principi costituzionali sulla pubblica amministrazione


I principi a cui si deve conformare l’attività amministrativa, sono innanzitutto quelli stabiliti
dalla Costituzione italiana, e poi quelli stabiliti dalle leggi ordinarie dello Stato. La Costituzione
stabilisce diversi principi a cui l’attività amministrativa della pubblica amministrazione si deve
conformare, ma quelli che la dottrina ritiene come i più caratterizzanti sono i principi
costituzionali definiti dal secondo comma dell’art 97, che recita: “I pubblici uffici sono
organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e
l’imparzialità dell’amministrazione”.
Il comma fissa tre principi, che rappresentano la chiave di volta del sistema dei principi per
l’attività amministrativa pubblica, che sono:
Principio di legalità. L’attività della pubblica amministrazione si deve conformare ai dettati
della Costituzione e, per espressa previsione delle norme costituzionali, della legge. La pubblica
amministrazione gode di una situazione di privilegio in quanto preposta al soddisfacimento dei
bisogni pubblici che sono quelli e solo quelli stabiliti dal legislatore; quindi al di fuori dei casi
previsti dalla legge, l’attività della pubblica amministrazione non può godere di posizioni di
privilegio, di potere o di favore.
Principio d’imparzialità. Il principio d’imparzialità stabilisce che l’attività della pubblica
amministrazione, volta alla realizzazione dell’interesse pubblico, debba essere svolta con
imparzialità. L’imparzialità deve intendersi sia come divieto di qualsiasi forma di favoritismo nei
confronti di alcuni soggetti, sia come ugual diritto di tutti i cittadini ad accedere ai servizi
erogati dalla pubblica amministrazione.
Principio di buon andamento. Tale principio obbliga gli impiegati e i funzionari pubblici a
svolgere i loro compiti con diligenza e professionalità al fine di realizzare in modo efficiente gli
obiettivi che l’amministrazione si pone, ossia l’erogazione dei servizi ai cittadini. La buona
amministrazione è quella che soddisfa i seguenti criteri generali:
- È efficace, nel senso di svolgere la propria attività secondo le modalità più idonee e
opportune per garantire la realizzazione del pubblico interesse;
- È economica, vale a dire che utilizza al meglio i mezzi a disposizione senza sperperare
inutilmente il denaro pubblico;
- È efficiente, ossia realizza i propri obiettivi con il minor sacrificio possibile degli interessi
dei cittadini.

L’amministrazione centrale
L’Amministrazione centrale dello Stato è ordinata in Ministeri, ciascuno dei quali fa capo ad un
ministro, oltre che in uffici e dipartimenti, istituiti con decreto del Presidente del Consiglio.

L’amministrazione periferica
Le strutture centrali dell’amministrazione dello Stato hanno uffici dislocati sull’intero territorio
nazionale. Questo per poter assicurare al meglio la presenza di rappresentati del potere centrale
in periferia, al fine di consentire un più proficuo svolgimento dell’attività amministrativa, sia per
rispondere a quello che è il dettato dell’art. 5 Cost. secondo cui “la repubblica riconosce e

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promuove le autonomie locali” e “attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio
decentramento”.
L’Amministrazione periferica, dunque, è la dislocazione a livello locale degli Uffici
dell’Amministrazione centrale. Sono in prevalenza uffici di Ministeri e svolgono la loro attività a
livello regionale e provinciale.
I più importanti Uffici periferici a livello regionale sono:
- Uffici regionali scolastici
- Direzioni regionali dell’agenzia delle entrate
- Direzioniregionali dell’agenzia delle dogane
- Ispettorati regionali dei vigili del fuoco
I più importanti Uffici periferici decentrati in sede provinciale sono:
- Uffici territoriali del governo (ex Prefetture)
- Questure
- Direzioni compartimentali delle entrate
- Uffici unici delle entrate
- Uffici provinciali dell’agenzia del territorio
- Comandi provinciali dei vigili del fuoco
- Uffici provinciali della Motorizzazione civile
È da precisare che, con il trasferimento alla Regioni di parte delle funzioni amministrative
statali, oltre che dei relativi uffici e del personale, alcuni uffici periferici statali sono stati
sostituiti da omologhi uffici regionali.

L’Amministrazione locale
Un ente locale è un ente pubblico di governo o amministrazione locale la cui competenza è
limitata entro un determinato ambito territoriale.L’art. 114 Cost. stabilisce che “la Repubblica è
costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Di
conseguenza gli enti pubblici locali previsti dalla Costituzione sono quattro:
Comune;Provincia;Città metropolitana;Regione.
In via di prima approssimazione, possiamo affermare che il Comune è l’ente pubblico
rappresentativo e territoriale di base, l’ente più “vicino” ai cittadini, e il più numeroso, basti
pensare che in Italia i Comuni sono circa 8000. La Provincia (le Province italiane sono circa
100) è l’ente territoriale che al suo interno comprende più Comuni; la Città metropolitana è
l’ente territoriale che comprende più Comuni facenti parte di un’area metropolitana
predeterminata e che, rispetto a tali Comuni, si sostituisce alla Provincia. La Regione, infine, è
l’ente territoriale che comprende al suo interno più Province. Le Regioni sono 20, 15 a Statuto
ordinario e 5 a Statuto speciale. Si tenga presente che le Province autonome di Trento e Bolzano
godono di condizioni particolari di autonomia, tanto da poterle considerare sostanzialmente
parificate alle 5 Regioni a Statuto speciale.
Si possono individuare 7caratteri fondamentali degli enti locali e che accomunano i Comuni, le
Province, le Città metropolitane, le Regioni.
1) Sono enti, cioè persone giuridiche di diritto pubblico, e quindi soggetti di diritto distinti da
ogni altro, disciplinati da norme di diritto pubblico, con un proprio patrimonio, un proprio
bilancio e una propria responsabilità giuridica.
2) Sono enti autonomi, per cui godono di spazi di libertà rispetto agli altri enti, possono cioè si
possono autodeterminare rispetto alle questioni fondamentali che li riguardano. Quanta
autonomia, in concreto, spetti alla Regione e agli enti locali, è stabilito direttamente dalla
Costituzione con differenti gradualità. Per le Regioni, ad esempio, è la stessa Costituzione ad
elencare le materie che rientrano nella potestà legislativa regionale, mentre per la distribuzione
delle funzioni amministrative tra lo Stato, le Regioni e gli altri enti locali l’art. 118 Cost.

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individua solo dei principi guida che il legislatore deve seguire per effettuare in concreto tale
ripartizione.
3) Sono enti politici, godono cioè di autonomia politica. I loro organi, infatti, non sono obbligati
ad obbedire agli indirizzi politici dello Stato, ma possono darsi programmi politici propri diversi
da quelli dello Stato, pur nel rispetto, ovviamente, della Costituzione e delle leggi. Si pensi a
questo proposito alla possibilità che alcune Regioni siano governate dal centrosinistra, e che la
maggioranza che siede in Parlamento sia di centrodestra.
4) Sono enti rappresentativi, in quanto esprimono la volontà, i bisogni, i programmi, della
maggioranza della collettività di persone che organizzano e dirigono.
5) Sono enti elettivi, quale logica conseguenza del fatto che sono rappresentativi, cioè i massimi
organi dirigenti di ogni ente sono scelti, direttamente o indirettamente, dalla stessa collettività
che essi rappresentano.
6) Sono enti territoriali, enti cioè la cui esistenza è individuata dal loro territorio, quale
elemento necessario.
7) Sono enti necessari, in quanto tutti i cittadini appartengono necessariamente ad un Comune
(residenza anagrafica), ad una Provincia, ad una Regione.
Altri enti locali sono:
- le Comunità montane. Una comunità montana è un ente territoriale locale il cui scopo è
la promozione e la valorizzazione delle zone montane.
- le Aziende sanitarie locali. Assolvono, mediante un complesso di presidi (ospedalieri,
ambulatoriali, etc…) ai compiti del servizio sanitario nazionale. Si tratta di un ente
pubblico locale che s’interessa delle funzioni sanitarie. La determinazione dei loro ambiti
territoriali compete alle Regioni, sentiti i Comuni interessati, previo parere espresso dalla
Provincia. Tali aziende sono dotate di personalità giuridica pubblica e di autonomia
organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica.
- le Aziende di promozione turistica. Organismi tecnico-operativi e strumentali muniti
di autonomia amministrativa e di gestione. Svolgono l’attività di promozione e
propaganda delle risorse turistiche locali, d’informazione e accoglienza.
- le Camere di Commercio, industria, artigianato, e agricoltura. Istituite una ogni
Provincia, hanno funzioni di interesse generale per il sistema delle imprese e ne curano lo
sviluppo nell’ambito delle economie locali. Sono enti di diritto pubblico dotati di
autonomia funzionale e regolamentare.

Le Amministrazioni indipendenti
Si caratterizzano per un elevato grado di indipendenza nei riguardi del potere politico e
burocratico, cosicché sono in grado di esercitare le loro funzioni, dirette prevalentemente alla
tutela di interessi collettivi, senza condizionamenti di sorta e in regime di relativa autonomia.
Rientrano fra le Amministrazioni indipendenti:
- Il Difensore civico: a cui è attribuito il ruolo di garante dell’imparzialità e del buon
andamento della pubblica amministrazione.Le leggi regionali hanno attribuito al
Difensore civico il compito di vigilare (su istanza degli interessati) sul regolare
svolgimento delle pratiche presso gli uffici dell’amministrazione regionale e degli enti ed
aziende dipendenti dalla Regione. È nominato dal Consiglio regionale, al quale deve ogni
anno presentare una relazione sull’attività svolta.
- L’IVASS (Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni): è un ente pubblico che ha il
compito di vigilare affinché anche nel settore delle assicurazioni private non vengono a
crearsi posizioni dominanti.
- La Banca d’Italia che vigila sulle aziende di credito e che ha poteri normativi (volti a
disciplinare l’attività delle banche), amministrativi, ispettivi, sanzionatori.

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- La CONSOB (Commissione Nazionale per le Società e la Borsa): la sua attività è rivolta


alla tutela degli investitori, all’efficienza, alla trasparenza e allo sviluppo del mercato
mobiliare italiano.
- L’Autorità garante della concorrenza e del mercato: è un organo collegiale che vigila
sul rispetto, da parte delle imprese, delle regole della concorrenza. Essa può procederead
istruttoria per verificare l’esistenza di infrazioni al divieto di stipulare fra imprese intese
che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare, in maniera
consistente, il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale.
- La Commissione di garanzia: ha fra i suoi compiti quello di garantire l’equilibrio
dell’esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona
costituzionalmente tutelati.
- L’Autorità garante per la protezione dei dati personali: è un organo collegiale i cui
compiti sono notevolmente ampi in ordine al controllo del corretto trattamento dei dati
personali.
- L’Autorità garante per l’energia elettrica e il gas: ha il compito di garantire la
concorrenza e l’efficienza nel settore e di tutelare l’interessi degli utenti e dei
consumatori.
- L’Autorità garante per le garanzie nelle comunicazioni: ha il compito di vigilare e di
adottare i provvedimenti necessari per impedire la formazione di posizioni dominanti nel
settore delle comunicazioni, e di assicurare il pluralismo e la libera concorrenza.

Gli enti pubblici non territoriali


Sono enti che non hanno come elemento costitutivo il territorio.Vengono creati dagli enti
territoriali, nei confronti dei quali si instaura un rapporto di dipendenza; sono diretti a svolgere
attività amministrative o finalità non facilmente espletabili mediante le ordinarie strutture
dirette dello Stato.
Appartengono a questa categoria:
- Enti pubblici economici: l’organizzazione è diretta a produrre beni o servizi, cioè a
gestire un’impresa. Si parla anche di enti-impresa.
- Enti strumentali o di servizi: erogano servizi pubblici essenziali in luogo dello Stato
(INPS, Università, CNR, ISTAT).
- Enti associativi: si caratterizzano per avere alla loro base un’associazione con la
conseguente struttura organizzativa(CONI).

Capitolo V
GLI ORGANI AUSILIARI

Gli organi ausiliari; il Consiglio di Stato


Gli organi ausiliari sono organi le cui funzioni sono essenzialmente finalizzate a favorire un
miglior funzionamento dei poteri legislativi o di amministrazione attiva. Essi sono previsti dalla
Costituzione agli artt. 99 e 100.
Gli organi ausiliari sono tre:
- il Consiglio di Stato in sede consultiva
- il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro
- la Corte dei Conti.
Il Consiglio di Stato è un organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della
giustizia amministrativa. Le funzioni consultive si sostanziano fondamentalmente nella
redazione di pareri. Essi possono essere:

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- facoltativi, quando il Governo è libero di decidere se chiederli e in tal caso rimane


comunque libero di decidere in modo difforme rispetto a quanto consigliato nel parere
del Consiglio senza dover motivare la sua diversa determinazione;
- obbligatori, quando è la legge a prevedere l’obbligo per il Governo o altra pubblica
amministrazione di richiederli. In questo caso l’organo che richiede il parere potrà anche
decidere in maniera difforme rispetto al parere fornito dal Consiglio di Stato, ma dovrà
dimostrare di aver sentito comunque il parere del Consiglio di Stato e motivare la sua
diversa determinazione;
- vincolanti, quando è obbligatorio richiederli e seguirne le indicazioni nell’adozione di un
atto, senza alcuna possibilità di decisione difforme.

La Corte dei conti


La Corte dei Conti è un organo con una duplice competenza: esercita il controllo preventivo di
legittimità sugli atti del Governo e quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato e ha
giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e in altre previste dalla legge.
In particolare il controllo esercitato dalla Corte dei Conti assume natura preventiva
limitatamente al riscontro di legittimità di una serie di atti non aventi forza di legge (es.: decreti
che approvano contratti delle amministrazioni pubbliche per importi rilevanti; atti di
programmazione comportanti spese). Quest’attività di controllo preventivo viene effettuata a
mezzo del cosiddetto visto di legittimità.
Il controllo successivo viene esercitato sulla gestione del bilancio e del patrimonio di pubbliche
amministrazioni, riferendo annualmente al Parlamento e ai Consigli regionali.
La Corte dei Conti esercita inoltre funzioni consultive, quando esprime pareri obbligatori sulle
leggi che importino modifiche o integrazioni alle sue attribuzioni e sulle norme che modifichino
la legge di contabilità dello Stato.

Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro


Il CNEL è un organo ausiliario con competenze nei settori della politica economica e sociale. Il
Parlamento, il Governo e le Regioni possono rivolgersi ad esso per chiedere studi ed indagini. Al
CNEL spetta inoltre un autonomo potere d’iniziativa legislativa.

L’Avvocatura dello Stato


L’Avvocatura dello Stato è l’organo legale dello Stato al quale sono assegnati compiti di
consulenza giuridica e di difesa delle amministrazioni statali in tutti i giudizi civili, penali,
amministrativi, arbitrali, comunitari e internazionali.
L’Avvocatura dello Stato è organizzata sul territorio attraverso una struttura centrale,
l’Avvocatura generale, con sede a Roma, e venticinque articolazioni periferiche, le Avvocature
distrettuali, dislocate in tutti capoluoghi di Regione o comunque dove abbia sede la Corte
d’Appello.
L’Avvocatura assiste, consiglia e difende in via esclusiva e organica le amministrazioni statali,
inclusi gli organi costituzionali e le autorità amministrative indipendenti, e le Regioni a statuto
speciale; essa può inoltre assumere, a determinate condizioni, il patrocinio delle Regioni a
statuto ordinario, degli enti pubblici non statali, delle organizzazioni internazionali, degli Stati
esteri, nonché dei dipendenti chiamati in giudizio per fatti e cause di servizio.

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Capitolo VI
LA CORTE COSTITUZIONALE

La Corte costituzionale come organo di garanzia


Le Costituzioni rigide (come quella italiana) prevedono alcuni strumenti mediante i quali è
possibile controllare la legittimità costituzionale delle leggi, al fine di togliere ogni efficacia a
quelle che risultano essere in contrasto con una disposizione costituzionale. Le Costituzioni
flessibili, invece, possono essere modificate da una legge ordinaria.
Nel nostro ordinamento vi è un organo ad hoc, previsto dall’art. 134 della Cost., che è la Corte
costituzionale, alla quale è stato affidato, oltre che il giudizio sulle controversie relative alla
legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge, anche il giudizio sui
conflitti tra organi dello Stato, sui conflitti tra Stato e Regioni; il giudizio sulle accuse promosse
contro il Presidente della Repubblica e, infine, il giudizio sull’ammissibilità del referendum
abrogativo.

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La composizione
Dato il suo ruolo di garanzia la Corte deve esprimere il massimo dell’imparzialità e della
competenza, per questo la Costituzione ha previsto che i suoi componenti venissero scelti da
diverse istituzioni con procedimenti complessi. Innanzitutto, per essere nominati, i membri della
Corte devono provenire o da supreme magistrature o essere professori ordinari di diritto, oppure
avvocati con almeno venti anni di esperienza.
Dei quindici membri che la compongono, un terzo viene eletto dalle supreme magistrature, un
terzo dal Parlamento in seduta comune e un terzo dal Capo dello Stato.
L’elezione di cinque giudici da parte delle supreme magistrature è a sua volta ripartita in modo
che tre giudici siano eletti dalla Corte di Cassazione, uno dal Consiglio di Stato e uno dalla Corte
dei conti. L’elezione avviene in ogni caso a maggioranza assoluta, con eventuale ballottaggio.
L’elezione da parte del Parlamento è quella più complessa. Infatti per evitare nomine di parte, è
richiesta una maggioranza dei due terzi dei componenti per i primi tre scrutini e di tre quinti in
quelli successivi.
Infine il Presidente della Repubblica nomina gli altri cinque membri, considerando le scelte del
Parlamento in funzione di riequilibrio.
I giudici sono eletti per nove anni. La necessità di mantenere il carattere d’indipendenza e
imparzialità della Corte non ha impedito di designare giudici costituzionali che, negli anni,
hanno avuto anche ruoli politici. Alcuni giudici costituzionali sono stati scelti tra ex
parlamentari, membri dell’assemblea costituente, ministri e addirittura Presidenti del consiglio,
come nel caso di Giuliano Amato.

Il Presidente
Il Presidente è considerato primus inter pares, dunque il suo voto vale come quello degli altri
giudici, eccetto in casi di parità. È eletto a maggioranza assoluta, con eventuale ballottaggio, per
tre anni. Il mandato sarebbe rinnovabile, tuttavia accade spesso che un Presidente non termini
neanche il primo mandato, visto che solitamente la scelta ricade tra uno dei membri più anziani.
Al Presidente spetta di definire il calendario dei lavori e assegnare a ciascun giudice il compito di
relatore per le cause.
Le funzioni del Presidente della Corte costituzionale, dunque, sono principalmente due:
- dirige i lavori della Corte Costituzionale;
- assume un ruolo primario perché, in caso di parità su alcune decisioni, il suo voto è
prevalente.

Il funzionamento
La Corte costituzionale è un organo collegiale e prende le sue decisioni collettivamente. Dunque
è importante che la Corte sia quanto più possibile al completo, per non rallentarne i lavori e
perché è necessaria la presenza di almeno undici giudici affinché possa deliberare. I giudici
dovrebbero essere 15, tuttavia spesso accade che siano meno a causa di ritardi, da parte del
Parlamento, nella sostituzione di un membro uscente. Nella seconda metà del 2015 si è arrivati
ad avere solo dodici giudici costituzionali, giusto uno in più rispetto al numero legale.
La Corte costituzionale agisce solo attraverso il ricorso da parte di un organo della Repubblica:
non può agire su propria iniziativa.

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Capitolo VIII
GLI ENTI TERRITORIALI

A) LE REGIONI

Sezione I
LA FORMAZIONE E LA NATURA GIURIDICA DELLE REGIONI

Il problema delle autonomie regionali


Le Regioni sono state istituite in Italia con la Costituzione repubblicana del 27 dicembre 1947, il
cui Titolo V disciplina le linee essenziali dell’ordinamento dei nuovi enti e attribuisce alla Sicilia,
alla Sardegna, al Tentino-Alto Adige e alla Valle d’Aosta, forme e condizioni particolari di
autonomia secondo statuti adottati con legge costituzionale.
Nonostante la previsione costituzionale fino al 1970 le regioni italiane non sono di fatto esistite
perché per lungo tempo non sono state adottate le leggi che permettevano alle regioni di
cominciare a funzionare, ovvero le leggi dell’elezione del Consiglio regionale. L’inerzia del
legislatore è dovuta principalmente per ragioni politiche, il governo prevalente formato dalla DC

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temeva la possibile vittoria di forza politiche di sinistra in alcune regioni italiane e le


conseguenti possibili frizioni con il governo centrale (le regioni del centro-nord erano
simpatizzanti al partito comunista). Nel 1968 sono state adottate le prime leggi per l’elezione
dei Consigli regionali, la gente è così andata a votare e le regioni hanno preso vita dal punto di
vista dei loro organi politici, nel 1970 sono state adottate le leggi che hanno attribuito alle
regioni competenze legislative e amministrative. Fatto ciò ha avuto inizio in Italia un processo di
decentramento cioè di attribuzione di competenze sempre maggiori alle regioni; il
decentramento è avvenuto attraverso 3 tappe che fanno riferimento ad un anno: 1972, 1977,
1997-99.
Di fatto fino al 1997 la maggior parte dei poteri rimaneva nelle mani dello Stato che adducendo
diverse motivazioni s’ingeriva spesso nelle competenze affidate alle Regioni. Nel 1997 vengono
adottate alcune leggi, note come Bassanini (la più importante, legge 59/1997), che ribaltano il
criterio di attribuzione delle funzioni amministrative assegnando alle Regioni e agli enti locali
tutte le funzioni amministrative relative agli interessi locali o comunque localizzabili nel
territorio degli enti territoriali. Le leggi Bassanini non modificano la Costituzione, infatti si dice
che abbiano introdotto il “federalismo amministrativo a Costituzione invariata”. Le leggi
Bassanini sono il riflesso di spinte venute dall’esterno dall’Unione Europea, poiché essa aveva
istituito un sistema di aiuto per le regioni chiamato “fondi strutturali”. Sulla scia impressa dalle
leggi Bassanini le regioni italiane conoscono 2 momenti di riforma che interessano la
Costituzione, nel 1999 e nel 2001 (Riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione). La
prima riforma del 1999 è intervenuta su 2 aspetti molto importanti:
- La fonte giuridica più importante dell’ordinamento regionale, cioè lo statuto regionale,
ha smesso di essere una legge dello Stato ed è diventato una legge regionale.
- La forma di governo della Regione (= rapporto tra gli organi di governo di un ente,
ovvero il Consiglio comunale, la Giunta regionale e il Presidente della Regione) non era
più decisa dallo Stato ma era rimessa alla libertà di scelta della Regione.
La riforma del 2001 si è articolata in 2 momenti:
- Si equiparano i poteri delle Regioni speciali a quelli delle ordinarie in materia di forme di
governo.
- Si è inciso notevolmente sulle competenze delle Regioni ordinarie aumentandone i poteri.
In particolare i punti fondamentali della riforma del 2001 sono stati:
- Ribaltamento del criterio di ripartizione delle competenze legislative.
- Aumento dei poteri amministrativi con la previsione in Costituzione delle novità
introdotte dalle leggi Bassanini.
- Riconoscimento di una maggiore autonomia finanziaria agli enti territoriali.
- Istituzione delle Città metropolitane.
- Previsione di “contrappesi” in mano allo Stato per fronteggiare l’aumento di competenze
degli enti.
- Equiparazione tra gli enti costitutivi della Repubblica, ovvero il vecchio art. 114 diceva:
“la Repubblica si riparte in Regioni, Provincie, Comuni” a partire dal 2001 l’art. 114 dice
“la Repubblica è costituita da Comuni, Provincie, Città metropolitane, Regioni e Stato”.
Questa modifica porta alle seguenti novità: lo Stato non è più sinonimo di Repubblica ma
è uno dei suoi elementi costitutivi; l’importanza degli enti territoriali come elementi
costitutivi e non più come semplici articolazioni; gli elementi sono elencati in modo che si
parte dall’ente più vicino al cittadino.
Dal 2001 ad oggi la riforma ha presentato nella pratica tutti i suoi aspetti di incompiutezza e la
necessità di venire ulteriormente specificata da leggi di attuazione che però per la maggior
parte non sono state adottate. Nel 2006 i cittadini sono stati chiamati a votare su un progetto di
modifica della Costituzione che avrebbe nuovamente inciso anche sull’autonomia delle regioni
ma il referendum ha avuto esito negativo e la Costituzione è rimasta invariata.

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I caratteri dell’autonomia regionale


Il concetto di autonomia comprende tre diverse accezioni:
- Autonomia normativa, intesa come “potestà attribuita in ordinamenti giuridici statali
ad enti diversi dallo Stato di emanare norme costitutive dello stesso ordinamento
giuridico statale”;
- Autonomia organizzatoria, che caratterizza la situazione giuridica d’indipendenza
propria di alcune figure soggettive rispetto ad altre figure soggettive omogenee, nel senso
che le prime godono di un regime giuridicamente diverso da quello cui sono assoggettate
le seconde.
- Autonomia politica, intesa come potere di alcuni enti di darsi un indirizzo politico
diverso da quello dello Stato.
Quanto all’autonomia finanziaria, essa non costituisce una figura a sé, ma sta ad indicare una
qualità dell’autonomia organizzatoria, vale a dire l’autosufficienza di alcuni soggetti per quanto
riguarda la provvista dei mezzi finanziari necessari allo svolgimento della loro attività. Così, ad
esempio, l’art. 119 Cost. stabilisce che “I Comuni, le Provincie, le Città metropolitane e le Regioni
hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa. I Comuni, le Provincie, le Città metropolitane
e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in
armonia con la Costituzione a secondo i princìpi di coordinamento della finanza pubblica e il
sistema tributario…”.
L’autonomia delle Regioni si specifica, nell’ordinamento italiano, come autonomia normativa e
organizzatoria. Essa si caratterizza anche come autonomia politica, vale a dire come potestà
delle Regioni di adottare un proprio indirizzo politico diverso da quello dello Stato.
Risulta evidente la differenza fra l’autonomia delle Regioni, quella dei preesistenti enti
territoriali, Province e Comuni, e quella del nuovo ente territoriale costituito dalla Città
metropolitana. Si rileva, infatti, una maggiore ampiezza della prima e una differenza di grado
dell’autonomia normativa (Province, Comuni e Città metropolitane, ad esempio, non hanno
potestà legislativa ma soltanto statutaria e regolamentare).
Questo implica, non tanto una subordinazione di Province, Comuni e Città metropolitane alla
Regione, bensì un collegamento o, meglio, un coordinamento fra l’autonomia regionale e quella
provinciale, comunale e delle Città metropolitane, da operare nel quadro più generale di un
riassetto delle funzioni e delle dimensioni territoriali degli enti locali.
L’autonomia regionale, dunque, è più completa e di grado superiore rispetto a quella provinciale,
comunale e delle Città metropolitane e più dettagliatamente e compiutamente garantita nelle
sue varie esplicazioni dalla Costituzione o dalle leggi costituzionali. All’ente Regione va dunque
assegnato un rilievo costituzionale maggiore, anche se tale posizione giuridica va pur sempre
commisurata al riaffermato principio dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica che ne
costituisce, per così dire, la linea di confine.

Gli elementi costitutivi della Regione: a) il territorio; b) la comunità regionale;


c)l’apparato autoritario
La Regione è:
- Il territorio: la Regione è un ente territoriale perché - al pari dello Stato, delle Province,
dei Comuni e delle Città metropolitane, anch’essi territoriali – il territorio ne costituisce
elemento essenziale in quanto centro di riferimento degli interessi comunitari che in esso
trovano la loro collocazione. Il legame tra territorio e interessi è molto stretto, ciò spiega
come sia possibile che su uno stesso territorio possano operare enti diversi, portatori di
interessi diversi. Per quanto riguarda la Regione, la dimensione territoriale coincide con
la sola terraferma, rimanendo esclusi il mare territoriale, il sottosuolo e lo spazio aereo
sovrastante.

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- La comunità regionale: stanziata sul territorio della Regione, è presa in considerazione


dall’ordinamento come destinataria sia di norme regionali sia di norme statali. Al pari
del territorio, essa esprime determinati interessi che richiedono la predisposizione di
quelli che sono stati definiti “servizi personali”. Esistono, poi, interessi di altra natura che
non danno luogo a “servizi personali” e che possiamo genericamente definire come
interessi a partecipare al governo della Regione. Spetta infatti ad una parte della
comunità regionale di eleggere il Consiglio regionale, di richiedere i referendum, di
presentare proposte di legge e di provvedimenti amministrativi al Consiglio regionale.
- L’apparato autoritario: la Regione è un soggetto di diritto e come tale dotato di propri
poteri e funzioni. Anche la Regione, quindi, possiede un proprio apparato autoritario, un
proprio “governo” e la relativa organizzazione. La Regione, tuttavia, non è un ente
“sovrano”, sia perché il suo ordinamento non è originario (dipendono la sua validità
dall’ordinamento Stato-istituzione), sia perché il suo apparato autoritario può ritenersi
ancora oggi subordinato a quello dello Stato-istituzione. In particolare, i “poteri propri”
delle Regioni sono quello legislativo e quello esecutivo ed organi di tali poteri sono il
Consiglio, il Presidente e la Giunta; le “funzioni proprie” delle Regioni sono le funzioni
legislative e regolamentari e le funzioni amministrative, non essendo previsti organi
giudiziari regionali e la connessa funzione giurisdizionale.

I due “tipi” di Regione


L’ordinamento costituzionale italiano prevede due tipi di Regione: a statuto ordinario e a statuto
speciale, a seconda del diverso grado di autonomia ad esse attribuito. La tutela delle minoranze
etnico-linguistiche, il contenimento delle istanze autonomistiche presenti in alcune Regioni e la
perifericità di alcune zone del Paese, hanno imposto un trattamento giuridico differenziato a 5
Regioni: Sicilia, Sardegna, Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta e Friuli-Venezia Giulia. Ne deriva
che non tutte le Regioni sono sottoposte allo stesso regime giuridico: le regioni di diritto comune,
infatti, trovano la loro disciplina uniforme nel Titolo V della Costituzione, mentre l’ordinamento
delle cinque Regioni alle quali sono state concesse forme e condizioni particolari di autonomia è
contenuto in statuti speciali adottati con legge costituzionale.
Bisogna notare, tuttavia, che le norme della Costituzione sono applicabili anche alle Regioni a
statuto speciale ogni qualvolta la materia regolata in queste norme non trovi una sua disciplina
giuridica nel loro statuto speciale.

Statuti e autonomia organizzatoria delle Regioni


Per statuto regionale si intende quel tipo di fonte del diritto che, in virtù del principio di
autonomia, disciplina l’organizzazione interna delle Regioni, indica i fini che l’ente intende
perseguire e detta le regole fondamentali a cui essa dovrà attenersi nell’esercizio della sua
attività. Tuttavia, poiché nell’ordinamento italiano le Regioni, a differenza dello Stato, sono
dotate di autonomia, ma non di sovranità – come rimarcato altresì dalla Corte costituzionale –
gli statuti regionali non possono essere assimilati a una costituzione regionale.
Conseguentemente, il “nuovo” art. 123 Cost. (come introdotto con la legge cost. n. 1/1999)
stabilisce che gli statuti delle Regioni ad autonomia ordinaria debbano porsi “in armonia con la
Costituzione”.
Un’importante innovazione in tema di statuti regionali si è avuta a seguito della legge cost. n.
1/1999 e della legge cost. n. 2/2001. Prima di esse, vi era una netta distinzione sul piano
procedurale tra gli statuti delle cosiddette Regioni a statuto speciale e quelli delle cosiddette
Regioni a statuto ordinario: in entrambi i casi la delibera statutaria del Consiglio regionale era
seguita da un intervento del Parlamento che doveva approvarla, ma, mentre gli statuti speciali
erano approvati con una legge costituzionale (revisione costituzionale), gli statuti ordinari
venivano approvati con una legge ordinaria. La legge cost. n. 1/1999 e la legge cost. 2/2001

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hanno profondamente innovato il procedimento di approvazione degli statuti ed hanno esteso


anche le loro materie di competenza: in particolare, il “nuovo” art. 123 Cost. rinvia, infatti, agli
statuti regionali la decisione in ordine alla “forma di governo” regionale, laddove prima della
legge cost. n. 1/1999 questa era disciplinata direttamente dalla Costituzione.
Attualmente, il procedimento di approvazione degli statuti delle Regioni ad autonomia ordinaria
non prevede più l’intervento del Parlamento in sede di approvazione e diversifica tale
deliberazione da quelle sulle altre leggi regionali, prevedendo che sia necessaria una doppia
deliberazione del Consiglio regionale a maggioranza assoluta con un intervallo non inferiore a
due mesi. La deliberazione statutaria viene pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione a
scopi meramente notiziali, al fine di fare decorrere i termini entro cui è possibile richiedere un
referendum confermativo con funzione oppositiva – non diversamente da quanto previsto all’art.
138 Cost. con riferimento al procedimento di revisione costituzionale – mentre il Governo, da
parte sua, può impugnare la deliberazione statutaria di fronte alla Corte costituzionale entro
trenta giorni dalla pubblicazione della deliberazione consiliare.
Per quanto riguarda il procedimento di approvazione degli statuti speciali, la legge cost. n.
2/2001 ha esteso i principi della legge cost. n. 1/1999 alle Regioni ad autonomia differenziata. È
previsto, infatti, che esse possano modificare il proprio statuto (che rimane approvato con legge
costituzionale, ex art. 116, co. 1, Cost.), per quanto riguarda la forma di governo e il sistema
elettorale, per mezzo delle cosiddette leggi statutarie.
La dottrina è divisa sul fatto se lo statuto regionale – che l’art. 123 co. 2 Cost. dice essere una
legge regionale – sia una fonte sovraordinata alle altre leggi regionali, ovvero se essa sia
solamente, come affermato dalla Corte costituzionale, una legge regionale “a competenza
riservata e specializzata”. Tuttavia, anche prima delle riforme del biennio 1999-2001 il rapporto
tra statuto e legge regionale era tale per cui la violazione del primo da parte della seconda
comportava l’illegittimità costituzionale di quest’ultima.
Per quanto riguarda, infine, il contenuto degli statuti regionali, la dottrina e la giurisprudenza
costituzionale distinguevano (e distinguono tuttora) tra i cosiddetti contenuti necessari e i
cosiddetti contenuti eventuali. Nell’ambito dei primi rientrano la disciplina della forma di
governo regionale, i principi fondamentali in tema di organizzazione e funzionamento delle
istituzioni regionali, l’esercizio del diritto d’iniziativa e del referendum su leggi e provvedimenti
amministrativi della Regione e la pubblicazione delle leggi e dei regolamenti regionali (art. 123
co. 1 Cost., come modificato con la l. cost. n. 1/1999). Per quanto riguarda i contenuti eventuali
degli statuti regionali, la giurisprudenza costituzionale, con qualche contrasto tra i
commentatori, ha ritenuto che eventuali enunciazioni di principio in essi presenti abbiano un
carattere meramente programmatico non siano dunque giuridicamente vincolanti, cosa che
rafforza la distinzione sistematica, oltre che teorica, tra lo statuto regionale e la Costituzione.

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Sezione II
L’ORGANIZZAZIONE DELLE REGIONI

Premesse
L’art. 121 Cost., anche a seguito dell’emanazione della legge cost. n. 1 del 1999, indica quali
organi direttivi della Regione: il Consiglio regionale, la Giunta e il suo Presidente. A tali organi
deve oggi aggiungersi, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, il Consiglio delle
autonomie locali.

Il corpo elettorale regionale


Al governo dell’ente Regione partecipa anche il corpo elettorale, vale a dire quella parte dei
cittadini iscritti nelle liste elettorali dei Comuni della Regione che, usando degli strumenti
previsti nella Costituzione e negli statuti, esercitano la loro sovranità. Il corpo elettorale prende
parte attiva al governo della Regione mediante l’esercizio del diritto di voto per l’elezione del
Presidente della Regione e per la formazione del Consiglio regionale, per la presentazione di
proposte di legge e di regolamento al Consiglio regionale; esso svolge anche un’altra funzione di
notevole rilievo mediante il referendum abrogativo di leggi e di provvedimenti amministrativi
della Regione. Oltre al referendum abrogativo, la Costituzione ha previsto altri tipi di
referendum su base regionale (fusione di Regioni, creazione di nuove Regioni…).

Il Consiglio regionale
Il Consiglio regionale (Assemblea regionale in Sicilia) è l’organo rappresentativo-deliberativo
della Regione (art. 121 co. 2 Cost.) ed è eletto dal corpo elettorale regionale. Esso, insieme al

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Presidente della Giunta regionale e alla Giunta regionale, costituisce uno dei tre organi
costituzionalmente necessari della Regione (art. 121 co. 1 Cost.).
Fino al 1999 il Consiglio regionale era dei tre organi quello più rilevante, in quanto esso più di
tutti esercitava l’indirizzo politico-amministrativo regionale: era, infatti, il Consiglio regionale
ad eleggere il Presidente della Giunta regionale e a rimuoverlo tramite una mozione di sfiducia,
così come era sempre il Consiglio regionale l’organo a cui spettava non solo la potestà
legislativa, ma anche quella regolamentare attribuita alle Regioni.
Le riforme costituzionali del triennio 1999-2001 (legge cost. n. 1/1999; legge cost. n. 2/2001;
legge cost. n. 3/2001) hanno notevolmente inciso sul ruolo complessivo e sulle singole funzioni di
tale organo all’interno delle Regioni ad autonomia ordinaria: esso, infatti, ha perduto molte
competenze a favore del Presidente della Giunta regionale (tendenzialmente eletto a suffragio
universale diretto) e della stessa Giunta regionale (tendenzialmente competente a deliberare sui
regolamenti regionali); può votare una mozione di sfiducia nei confronti del Presidente della
Giunta regionale (art. 126 co. 2 Cost.), ma, ove questi sia stato eletto a suffragio universale
diretto, al voto di tale mozione di sfiducia consegue di diritto il suo scioglimento. Per altro verso,
il Consiglio regionale gode ora, in esclusiva, della potestà statutaria (art. 123 Cost.) e ha visto un
considerevole ampliamento della potestà legislativa regionale (art. 117 co. 3 e 4 Cost.). Oltre a
tali funzioni, i Consigli regionali godono poi di ulteriori attribuzioni costituzionali: l’iniziativa
legislativa statale (artt. 71 e 121 co. 2 Cost.; Procedimento legislativo); la richiesta di
referendum abrogativo (art. 75 Cost.) e costituzionale (art. 138 Cost.; Revisione costituzionale);
l’elezione dei delegati regionali che partecipano alla elezione del Presidente della Repubblica
(art. 83 co. 2 Cost.).
Le scelte in ordine alla forma di governo regionale – in particolare, l’elezione del Presidente della
Giunta regionale a suffragio universale diretto o dal Consiglio regionale – e al numero dei
componenti del Consiglio regionale sono rimesse allo Statuto regionale, mentre le modalità di
elezione del Consiglio regionale (il sistema elettorale), così come la durata degli organi elettivi e
i casi di ineleggibilità e di incompatibilità dei consiglieri regionali, del Presidente e degli altri
membri della Giunta sono disciplinate da una legge regionale, nel rispetto dei principi
fondamentali stabiliti con legge statale (art. 122 co. 1 Cost.). La legge che ha dato attuazione a
questa disposizione costituzionale (legge n. 165/2004) ha previsto che, in caso di elezione
diretta del Presidente della Giunta regionale, le elezioni per il Consiglio regionale siano ad essa
contestuali, laddove, invece, in caso di elezione consiliare del Presidente della Giunta regionale,
l’elezione di quest’ultimo avvenga non oltre novanta giorni dall’elezione del Consiglio regionale.
In materia di sistema elettorale, la legge n. 165/2004 si limita solo a stabilire il principio che il
sistema elettorale prescelto debba agevolare la formazione di maggioranze stabili, assicurando,
nel contempo, la rappresentanza delle minoranze. Si riconosce, inoltre, a favore dei consiglieri
regionali – analogamente a quanto è già previsto per i parlamentari (Rappresentanza politica)
– il principio del divieto di mandato imperativo, allo scopo di tutelarne la libertà e
l’indipendenza nell’esercizio delle loro funzioni, garanzia peraltro rafforzata dalla previsione
costituzionale dell’insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro
funzioni (art. 122 co. 4 Cost.). La legge n. 165/2004 fissa, infine, in cinque anni la durata
massima del Consiglio regionale, salvo scioglimento anticipato.
Il Consiglio regionale può essere sciolto, con decreto motivato da parte del Presidente della
Repubblica, quando compia atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge o per
ragioni di sicurezza nazionale. Il decreto è adottato, sentito il parere di una commissione per le
questioni regionali, composta da deputati e da senatori (art. 126 co. 1 Cost.).
Come tutti i corpi collegiali con funzioni rappresentative-deliberative, il Consiglio regionale si
articola al proprio interno in gruppi consiliari, sulla cui base si costituiscono le diverse
Commissioni; esso adotta un proprio regolamento ai fini dell’organizzazione del proprio lavoro
ed elegge tra i propri membri – generalmente con una maggioranza qualificata, visto il ruolo di

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garanzia ricoperto – un Presidente e un Ufficio di Presidenza (art. 122 co. 3 Cost.), con compiti di
direzione imparziale del dibattito.

La Giunta regionale
La Giunta è l’organo esecutivo della Regione ed composta da un Presidente e da un numero di
assessori fisso o variabile. L’art. 122 Cost. ha attribuito al Presidente della Giunta il potere di
nomina e revoca dei componenti della Giunta, anche se contestualmente salvaguarda la facoltà
degli statuti di disporre diversamente (art. 122 co. 5 Cost.).
Non risulta invece alcunché che possa indurre con sicurezza ad affermare che il Presidente eletto
e la Giunta dello stesso nominata debbano godere della fiducia del Consiglio. La novella del 1999,
infatti, non stabilisce né esclude che il Presidente eletto, unitamente agli altri componenti della
Giunta, debba presentarsi davanti al Consiglio per ottenere la fiducia. Prima del 1999 l’esistenza
di un rapporto fiduciario tra Giunta e Consiglio era certa in quanto la Giunta veniva eletta da
parte del Consiglio.

Il Presidente della Giunta


La Costituzione attribuisce al Presidente della Giunta una posizione intermedia, configurandolo
come un organo cui fanno capo due cariche fondamentali, la presidenza della Regione e la
presidenza della Giunta.
Per quel che concerne l’elezione del Presidente della Giunta, l’art. 122 Cost., come modificato
dalla legge cost. 1/1999, prevede al comma 5, che venga eletto a suffragio universale e diretto,
salvo che lo statuto regionale disponga diversamente. Pertanto, fino all’entrata in vigore di tutti
i nuovi statuti regionali e delle nuove leggi elettorali, l’elezione del Presidente della Giunta
regionale è contestuale al rinnovo dei rispettivi Consigli regionali e si effettua con le modalità
previste dalle disposizioni di legge ordinaria vigenti in materia di elezione dei Consigli regionali.
Una volta eletto il Presidente nomina i componenti della Giunta, e può successivamente
revocarli.
Qualora il Consiglio regionale approvi a maggioranza assoluta una mozione motivata di sfiducia
nei confronti del Presidente della Giunta regionale, entro tre mesi si procede all’indizione di
nuove elezioni del Consiglio e del Presidente della Giunta. Si procede parimenti a nuove elezioni
del Consiglio e del Presidente della Giunta in caso di dimissioni volontarie, impedimento
permanente o morte del Presidente.
L’art. 126 Cost. prevede che con decreto motivato del Presidente della Repubblica, sentito il
parere obbligatorio della Commissione parlamentare bicamerale per le questioni regionali,
venga disposta la rimozione del Presidente della Giunta nei seguenti casi: a) compimento di atti
contrari alla Costituzione o di gravi violazioni di legge; b) presenza di ragioni di sicurezza
nazionale.
Alla rimozione del Presidente della Giunta conseguono le dimissioni della Giunta e lo
scioglimento del Consiglio.
Il Presidente della Giunta è Presidente della Regione e come tale ha la funzione di
rappresentanza dell’ente: rappresentanza che è giuridica e politica.
Rappresentanza giuridica. Si manifesta nei rapporti con i terzi, nella firma degli atti regionali,
nella stipulazione dei contratti, nella rappresentanza in giudizio della Regione, nell’esercizio dei
diritti patrimoniali ad essa spettanti, nella promozione delle questioni di legittimità
costituzionale (previa deliberazione dell’organo collegiale).
Rappresentanza politica. Comporta poteri di direzione, di coordinamento, di indizione dei
referendum, la promulgazione delle leggi regionali, l’emanazione dei regolamenti regionali, ed
altri poteri espressamente riconosciutigli.

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I Presidenti delle Regioni a statuto speciale partecipano, inoltre, per espressa disposizione degli
statuti stessi, alle sedute del Consiglio dei ministri, con voto consultivo, quando il Consiglio tratti
questioni che riguardano particolarmente la loro Regione.

La forma di governo regionale


Per forma di governo s’intende il rapporto fra gli organi di governo di un ente, in questo caso
della Regione. Gli organi di governo della Regione sono: Consiglio regionale, Giunta regionale,
Presidente della Giunta regionale o Presidente della Regione.
A livello regionale esistono due principali tipologie di forma di governo, una detta assembleare
che si caratterizza per l’elezione diretta del solo Consiglio regionale il quale elegge la Giunta e il
Presidente della Giunta; la seconda è detta presidenziale che si caratterizza per l’elezione diretta
sia del Consiglio regionale sia per il Presidente della Giunta il quale nomina i membri della
giunta.
Fino al 1999 la forma di governo delle Regioni ordinarie era determinata dalla Costituzione che
imponeva il modello assembleare. Dal 1999 la Costituzione rende libera ogni regione di
determinare la propria forma di governo nel proprio statuto; in attesa che le regioni adottino
una nuova forma di governo nello statuto, impone a tutte le regioni ordinarie la forma di
governo presidenziale.
Tutte le regioni italiane si sono uniformate alla scelta della Costituzione del 1999 e hanno quindi
previsto la forma di governo presidenziale, questo è avvenuto per 3 motivi:
- L’elezione diretta del Presidente della Regione ispirava più fiducia agli elettori.
- Essa sembrava garantire una maggiore stabilità di governo mentre l’altra forma si era
caratterizzata dall’ingovernabilità.
- La scelta tentata da alcune regioni di differenziazione non ha avuto fortuna; vi sono stati
2 tentativi: il Friuli Venezia Giulia ha provato a introdurre la forma di governo
assembleare ma gli elettori della regione l’hanno bocciata al referendum; alcune regioni
(tra cui la Calabria) invece tentarono di prevedere la forma di governo presidenziale
introducendo però dei piccoli correttivi, in particolare hanno previsto la figura di un vice
presidente della Regione che doveva subentrare al Presidente nel caso in cui questo fosse
venuto meno per cause personali. Questa ultima scelta di differenziazione è stata
bocciata dalla Corte costituzionale la quale ha posto dei limiti alla libertà di scelta delle
regioni nel caso in cui le regioni scelgano la forma presidenziale.
I limiti sono: tutti e tre gli organi regionali devono essere previsti (questo limite vale per
entrambe le forme di governo); il Presidente della Giunta deve avere un ruolo centrale
all'interno della stessa; tra il Presidente e il Consiglio deve esserci un rapporto di fiducia.

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Sezione III
I RACCORDI FRA LO STATO E LE REGIONI

Il regionalismo cooperativo
L’accresciuta importanza delle Regioni e l’estendersi delle competenze loro attribuite in seguito
alla riforma costituzionale del Titolo V, parte II, della Costituzione, avvenuta nel 2001,
comportano inevitabilmente l’esigenza di creare delle forme di collaborazione e di
coordinamento con altri enti con cui devono necessariamente “dialogare” per esercitare al
meglio le loro attribuzioni. La necessità di tale coordinamento nasce in primo luogo dalla
posizione stessa della Regione, ente che si colloca in una posizione intermedia tra gli altri enti
locali e lo Stato; è in primo luogo, quindi, con questo soggetto che devono essere istituite e
portate avanti forme di collaborazione e di coordinamento. La riforma costituzionale del 2001
ha, inoltre, da un lato, valorizzato il ruolo delle Regioni sulla scena internazionale, attribuendo
una significativa potestà estera; dall’altro lato, ha previsto una partecipazione attiva e incisiva
al processo di formazione e di recepimento della normativa dell’Unione europea.
Il primo soggetto con il quale le Regioni devono costantemente confrontarsi e coordinare la loro
a vità è indubbiamente lo Stato: quest’ultimo, infatti, condivide con gli enti regionali una potestà
legislativa concorrente in numerose materie, controlla ancora oggi gran parte delle fonti di
finanziamento delle Regioni, etc.
L’art. 118 co. 3 Cost. prevede esplicitamente forme di coordinamento fra lo Stato e le Regioni in
due settori particolari che sono di esclusiva competenza statale: l’immigrazione e l’ordine
pubblico e la sicurezza. Si tratta di materie che presentano problematiche differenziate da una
realtà territoriale all’altra e che, quindi, impongono interventi diversi da parte delle autorità
centrali.

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Le sedi in cui Stato e autonomie territoriali s’incontrano per definire linee politico-
amministrative e scelte comuni, contemperando interessi che possono essere contrastanti, sono
le Conferenze permanenti, cui deve aggiungersi la Commissione bicamerale per le
questioni regionali. Sono organismi che hanno il fondamentale compito di dare concreta
attuazione al nuovo asse della Repubblica delineato dalla riforma della legge Cost. 3/2001 e di
realizzare, nel rispetto del principio di leale collaborazione, un proficuo coordinamento tra i
diversi livelli di governo (cosiddetto regionalismo cooperativo).

La partecipazione delle Regioni ad attività dello Stato


Le Regioni possono partecipare alle attività dello Stato sia singolarmente che in modo collettivo.
A norma dell’art. 121 Cost. i Consigli regionali possono presentare proposte di legge alle Camere
in materia di interesse regionale; la proposta può riguardare una legge ordinaria o anche una
legge costituzionale. I Consigli regionali sono, poi, chiamati ad esprimere il loro parere
(obbligatorio ma non vincolante) sulla fusione di Regioni già esistenti o la creazione di nuove
Regioni.
Le Regioni partecipano, inoltre, all’elezione del Presidente della Repubblica, ciascuna con tre
delegati (meno la Valle d’Aosta che ne ha uno). Un ulteriore forma di collaborazione fra Stato e
Regioni è data dalla procedura di emanazione di norme di attuazione degli statuti speciali che,
secondo quanto dispongono gli stessi, sono elaborate da una commissione paritetica Stato-
Regioni ed emanate con decreto del Presidente della Repubblica.
Quanto all’esercizio collettivo di funzioni di partecipazione ad atti dello Stato, bisogna riferirsi
alla richiesta di referendum abrogativo che può essere avanzata da 5 consiglieri regionali.

La Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le Regioni e le Provincie


autonome
La Conferenza permanente Stato-Regioni e Province autonome è un organo collegiale, istituito
dalla legge 400/1988 (art. 12), nel quale sono rappresentati lo Stato e le Regioni, sia a statuto
ordinario che a statuto speciale, nonché le Province autonome di Trento e di Bolzano, con
compiti di consultazione, informazione, raccordo e concertazione sulle materie e sulle attività
politico-amministrative regionali.
Secondo l’efficace definizione della Corte costituzionale, la Conferenza è la “sede privilegiata del
confronto e della negoziazione politica fra lo Stato e le Regioni (e le Province autonome) su
argomenti che investono in via generale la materia regionale”.
La Conferenza è presieduta dal Presidente del Consiglio ed è composta dai Presidenti delle
Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano, nonché dai ministri interessati agli
argomenti trattati nelle singole sedute, su designazione e invito del Presidente, il quale può
decidere di invitare anche rappresentanti di amministrazioni centrali dello Stato e di enti
pubblici (cd. composizione flessibile).
La Conferenza svolge le seguenti funzioni:
- consulenza su linee generali dell’attività normativa (sia del Governo che del Parlamento)
che interessa direttamente le Regioni, anche su obiettivi di programmazione economico-
finanziaria e di bilancio;
- consulenza su criteri generali relativi all’esercizio della funzione statale d’indirizzo e di
coordinamento fra Stato ed altri enti, su indirizzi generali circa l’elaborazione e
l’attuazione degli atti comunitari che riguardano le competenze regionali;
- - consulenza su altri argomenti per i quali il Presidente del Consiglio reputi opportuno il
parere della Conferenza;
- potere di nomina dei responsabili di enti e organi che svolgono attività o prestano servizi
strumentali all’esercizio delle funzioni concorrenti di Governo, Regioni e Province
autonome;

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- - potere di deliberare nell’ambito delle materie indicate dalla legge.

Sezione IV
L’AUTONOMIA FINANZIARIA

Considerazioni generali
L’art. 119 Cost. dispone che “i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno
autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci, e
concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti
dall’ordinamento dell’Unione europea”.
La novella costituzionale implica, pertanto, che Regioni ed enti locali si reggano con la finanza
propria, vale a dire finanziando le proprie spese di funzionamento, d’intervento e di
amministrazione, con i mezzi prelevati dalla propria collettività, salva naturalmente l’esigenza
di perequazione delle situazioni meno avvantaggiate.
Tale autonomia, sebbene formalmente riconosciuta a tutti gli enti territoriali in misura eguale,
di fatto, risulta, tuttavia, differenziata. Infatti, posto che l’art. 23 Cost. prevede che la potestà
impositiva possa essere esercitata solo in base alla legge, le Regioni (ex art.117 Cost.) sono gli
unici enti territoriali in condizione di imporre autonomamente dei tributi; mentre, la potestà
impositiva delle altre istituzioni territoriali, deve, necessariamente, operare, in via
regolamentare, all’interno di leggi regionali o statali (ad esempio l’Imposta comunale sugli
immobili istituita con legge statale).

L’ordinamento finanziario delle Regioni di diritto comune


Le linee generali della finanza regionale consistono:
a) nell’attribuzione alle Regioni del potere di determinare l’ammontare di alcune tasse e
imposte in misura percentuale rispetto a quella di analoghi tributi disciplinati da norme
dello Stato;

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b) nella partecipazione delle Regioni al gettito di alcune imposte erariali che affluisce in un
fondo comune ripartito fra le varie Regioni secondo criteri predeterminati che tendono a
favorire le Regioni economicamente più depresse;
c) nella creazione di un fondo per il finanziamento dei programmi regionali di sviluppo;
d) nella qualificazione dei contributi speciali come spese aventi carattere aggiuntivo
rispetto alle spese effettuate dallo Stato con carattere di generalità per tutto il proprio
territorio.
La legge 335 del 19 maggio 1976 ha poi disposto che tutte le somme assegnate, a qualsiasi titolo,
dallo Stato alla Regione confluiscano nel bilancio regionale senza vincolo di destinazione. Si
aggiunga, infine, che l’unica fonte significativa di finanziamenti delle Regioni a statuto ordinario
è costituita dai cosiddetti “trasferimenti vincolanti”, vale a dire quei trasferimenti (provenienti al
95% dal Governo centrale) che obbligano le Regioni ad utilizzare le somme ricevute in
determinati settori di intervento (prevalentemente nella sanità). Tali trasferimenti hanno
rappresentato circa il 92% delle entrare regionali, a fronte dell’8% circa delle cosiddette
“entrate libere”, vale a dire di quelle entrate che sono affluite nei bilanci delle Regioni senza un
vincolo specifico di destinazione. Con la riforma dell’art. 119 Cost. dovrebbe realizzarsi
l’inversione di tale logica, per cui la quota più ingente delle risorse destinate alle Regioni non
dovrebbe avere un vincolo di destinazione.

Sezione V
LO SCIOGLIMENTO DEL CONSIGLIO REGIONALE

Lo scioglimento del Consiglio regionale e la rimozione del Presidente della Giunta


La disciplina originaria dell’art. 126 Cost. attribuiva soltanto allo Stato il potere di determinare
lo scioglimento anticipato dei Consigli regionali. Il decreto presidenziale di scioglimento poteva
essere adottato nei casi di atti contrari alla Costituzione, gravi violazioni di legge o situazioni di
pericolo per la sicurezza nazionale. Il Consiglio regionale poteva, inoltre, essere colpito da simile
provvedimento anche nel caso in cui non avesse corrisposto all’invito del Governo di sostituzione
della Giunta “colpevole” di analoghe violazioni. In questi casi lo scioglimento presentava una
funzione repressiva o sanzionatoria.
Allo Stato era inoltre affidato il potere di scioglimento del Consiglio regionale nei casi in cui la
Regione non fosse in grado di funzionare, per dimissioni o impossibilità di formare una
maggioranza. In questo caso si parlava di scioglimento funzionale e non sanzionatorio,
disciplina che oggi è divenuta di competenza regionale.
Lo Stato non ha mai, finora, ritenuto di dover ricorrere allo scioglimento anticipato di alcun
Consiglio regionale. Nemmeno si è dovuti mai ricorrere allo scioglimento cosiddetto funzionale,
pur essendo stata sottolineata in dottrina la sussistenza di situazioni che avrebbero richiesto
l’esercizio di tale potere.
In considerazione di ciò, nel corso dei lavori della Commissione bicamerale del 1997 (cosiddetta
Commissione D’Alema), è stata considerata sia la possibilità di abrogare l’art. 126 Cost. e di
attribuire alla competenza statutaria regionale la regolamentazione di tutti i casi di
scioglimento del Consiglio regionale. Di certo, la decisione emersa in quel contesto era quella di
eliminare il potere di scioglimento sanzionatorio dello Stato.

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La scelta compiuta dal legislatore di revisione costituzionale del 1999 è stata meno drastica
della totale eliminazione del potere statale di dissoluzione degli organi di vertice della Regione.
Tendenzialmente è stato conservato il potere sanzionatorio di scioglimento del Consiglio
regionale “per mano” dello Stato, affiancandovi il potere di rimozione del Presidente della
Giunta. I presupposti che giustificano l’esercizio di tale potere statale di scioglimento del
Consiglio regionale e rimozione del Presidente della Giunta sono rimasti invariati (atti contrari
alla Costituzione, gravi violazioni di legge, ragioni di sicurezza nazionale).
Sono state, invece, eliminate dall’area di incidenza del potere statale, le ipotesi di mancato
funzionamento del Consiglio regionale, probabilmente ritenute corrispondenti ad interessi della
sola comunità regionale.
Le Regioni, infatti, nell’esercizio della propria potestà statutaria, scegliendo la forma di governo,
potranno prevedere ulteriori ipotesi di anticipata cessazione dalla carica degli organi direttivi,
come pure potranno farne venir meno lacune di quelle oggi previste. Nell’ipotesi in cui le Regioni
scelgano nei loro statuti di confermare l’elezione diretta del Presidente della Giunta, la
rimozione di tale figura determina altresì le dimissioni della Giunta e lo scioglimento del
Consiglio.
Il procedimento di scioglimento del Consiglio regionale consta di due fasi: una fase preparatoria
e una fase costitutiva.
Nella fase preparatoria rientra anzitutto il parere di una Commissione di deputati e senatori
costituita, per le questioni regionali, nei modi stabiliti con legge della Repubblica. In questa fase
preparatoria rientra anche la deliberazione del Consiglio dei ministri e la proposta avanzata in
questo senso al Capo dello Stato dal Presidente del Consiglio, come pure gli accertamenti diretti
a rilevare l’esistenza dei presupposti richiesti dalla Costituzione per poter procedere allo
scioglimento del Consiglio o alla rimozione del Presidente.
Nella fase costitutiva rientra oggi il solo decreto motivato del Presidente della Repubblica con il
quale viene disposto lo scioglimento del Consiglio o la rimozione del Presidente.
Per quanto riguarda le Regioni a statuto speciale, l’art. 8 dello statuto siciliano stabilisce per lo
scioglimento dell’Assemblea regionale un procedimento diverso che vede la decisione
sostanzialmente assunta dalle Camere.

Altri casi di cessazione degli organi direttivi della Regione


Lo stesso art. 126 Cost. disciplina la mozione di sfiducia del Consiglio nei confronti del Presidente
della Giunta. L’approvazione della mozione di sfiducia determina le dimissioni della Giunta e lo
scioglimento del Consiglio che quella mozione ha approvato.

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B) LE PROVINCIA; LE CITTÀ METROPOLITANE; I COMUNI

La Provincia e la Città metropolitana


La legge 56 del 7 aprile 2014 (legge Delrio) ha radicalmente mutuato l’assetto degli enti locali,
dettando disposizioni in materia di Città metropolitane, Provincie, Unioni e fusioni di Comuni, al
fine di adeguare il loro ordinamento ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.
Con la nuova legge vengono individuate 9 Città metropolitane: Torino, Milano, Venezia,
Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria, cui si aggiunge la Città metropolitana
di Roma capitale. Il territorio della Città metropolitana coincide con quello della Provincia
omonima. Gli organi della Città metropolitana sono il sindaco metropolitano, il Consiglio
metropolitano e la Conferenza metropolitana. Il sindaco metropolitano è il sindaco del Comune
capoluogo.
Alle Città metropolitane sono attribuite le funzioni fondamentali delle Province e altre funzioni
fondamentali proprie:
a) Piano strategico del territorio metropolitano
b) Pianificazione territoriale generale
c) Organizzazione dei servizi pubblici d’interesse generale di ambito metropolitano
d) Mobilità e viabilità
e) Promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale
f) Sistemi d’informatizzazione e di digitalizzazione in ambito metropolitano
Le Provincie sono enti territoriali di area vasta, la cui disciplina è stata dettata dalla stessa
legge Delrio in attesa della riforma del Titolo V, parte II, della Costituzione. Le Provincie, in base
alla nuova disciplina, vedono ridefiniti molti dei loro compiti e, soprattutto, cesseranno di essere
organi elettivi. A fare parte delle nuove Giunte provinciali e dei nuovi Consigli, saranno i sindaci,

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gli assessori o i consiglieri eletti dei Comuni che appartengono al territorio sotto cui la
giurisdizione della Provincia rimane. Sul fronte delle competenze, l’unica, vera funzione di peso
rimasta in capo alle Province sarà quella dell’edilizia scolastica, oltre ad altri servizi non certo
secondari, come quello sulle pari opportunità.
L’Unione di Comuni è un ente locale costituito da almeno due Comuni allo scopo di esercitare
determinate funzioni. L’Unione ha propria personalità giuridica, è dotata di autonomia
statutaria, regolamentare, organizzativa e finanziaria e di propri organi politici e gestionali.

Il Comune
Il Comune è l’ente territoriale di base, che la Costituzione (art. 114) pone come primo elemento a
fondamento della Repubblica. Il Comune è l’organo a più diretto contatto con la comunità locale,
di cui rappresenta gli interessi e promuove lo sviluppo, godendo dei diversi livelli di autonomia
stabiliti dalla Costituzione e dal TUEL. L’art. 3 TUEL gli attribuisce autonomia statutaria,
normativa, organizzativa e amministrativa nonché – nell’ambito dello statuto, del regolamento e
delle leggi di coordinamento della finanza pubblica – di autonomia impositiva e finanziaria.
Funzioni. Oltre che di funzioni proprie, il Comune è titolare delle funzioni che gli sono conferite
con legge statale o regionale. Competono al Comune tutte le funzioni amministrative che
riguardano popolazione e territorio comunale, in primo luogo nei settori organici dei servizi alla
persona e alla comunità, dell’assetto e utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico. Il
Comune svolge anche funzioni amministrative per servizi di competenza statale, quali, ad
esempio, i servizi elettorali o quelli di stato civile e anagrafe.
Organi del Comune. Sono: il Consiglio comunale, la Giunta comunale, il sindaco e il segretario
comunale. Il corpo elettorale elegge direttamente sia il sindaco che il Consiglio comunale. Il
sistema elettorale varia a seconda che il Comune abbia un numero di abitanti inferiore o
superiore alle 15000 unità. Il Consiglio comunale è un organo collegiale, con funzioni d’indirizzo
e di controllo politico amministrativo, composto da un numero minimo di 12 membri a un
massimo di 60 membri, a seconda dell’entità della popolazione comunale. Il Consiglio si rinnova
ogni 5 anni. Le funzioni esecutive sono svolte dalla Giunta comunale, composta dal sindaco che la
presiede, e dagli assessori, nominati dallo stesso sindaco. Il numero degli assessori è stabilito
dallo statuto, entro i limiti fissati dalla legge.
Il Consiglio comunale, come detto, è l’organo d’indirizzo e di controllo politico-amministrativo.
Spetta al Consiglio comunale, a norma dell’art. 42 TUEL (Testo Unico delle leggi
sull’ordinamento degli Enti Locali), deliberare:
a) lo statuto dell’ente e delle aziende speciali, i regolamenti, l’ordinamento degli uffici e dei
servizi;
b) i programmi e i bilanci annuali e pluriennali e relative variazioni, i conti consuntivi, le
relazioni previsionali e programmatiche, i piani territoriali e urbanistici e i relativi
programmi di attuazione, i pareri da rendere nelle suddette materie;
c) la disciplina dello stato giuridico e delle assunzioni del personale; le piante organiche e le
relative variazioni;
d) l’assunzione diretta dei pubblici servizi, la costituzione di istituzioni e di aziende speciali,
la concessione dei pubblici servizi;
e) l’istituzione e l’ordinamento dei tributi, la disciplina generale delle tariffe per la fruizione
dei beni e dei servizi;
La Giunta comunale compie, invece, tutti gli atti amministravi che non siano riservati dalla legge
al Consiglio e che non rientrino nelle competenze, previste dalle leggi e dallo statuto, del sindaco,
degli organi di decentramento, del segretario e dei funzionari dirigenti; riferisce annualmente al
Consiglio sulla propria attività, collabora con il sindaco nell’attuazione degli indirizzi generali e
svolge attività propositive e di impulso nei confronti dello stesso.

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Il sindaco e la Giunta cessano dall’ufficio in caso di approvazione di una mozione di sfiducia


(motivata e sottoscritta da almeno due quinti dei consiglieri assegnati), votata per appello
nominale dalla maggioranza assoluta dei componenti del Consiglio.
Il sindaco. Viene eletto dai cittadini a suffragio universale e diretto e dura in carica per un
periodo di 5 anni. È un organo individuale che riveste la duplice qualità di capo
dell’amministrazione comunale e di ufficiale del governo. Sono compiti del sindaco:
rappresentare l’ente; sovraintendere al funzionamento dei servizi e degli uffici comunali;
sovraintendere all’esecuzione degli atti. Ha inoltre competenza in materia di servizi alla persona
e alla comunità, di assetto e uso del territorio, e di sviluppo economico. Come ufficiale di governo,
e quindi organo dello Stato, il sindaco ha competenza per le seguenti materie: stato civile; igiene
pubblica; ordine pubblico; nei Comuni dove non esiste un ufficio di polizia, il sindaco è anche
autorità locale di pubblica sicurezza.

Organi della Provincia


In base alla legge Delrio, gli organi della Provincia sono: il Presidente della Provincia, il Consiglio
provinciale e l’Assemblea dei sindaci.
Il Presidente della Provincia ha la rappresentanza dell’ente, convoca e presiede il Consiglio
provinciale e l’Assemblea dei sindaci, sovrintende al funzionamento degli uffici. È eletto, in via
indiretta, dai sindaci e dai consiglieri dei Comuni della provincia e dura in carica 4 anni.
Il Consiglio provinciale è composto dal Presidente della Provincia e da un numero di
consiglieri variabile in base alla popolazione (da 10 a 16). Svolge funzioni d’indirizzo e controllo,
approva regolamenti, piani, programmi e approva o adotta ogni altro atto ad esso sottoposto
dal Presidente della Provincia; ha potere di proposta dello statuto e poteri decisori finali per
l’approvazione del bilancio.
L’Assemblea dei sindaci è composta dai sindaci dei Comuni della provincia. È competente per
l’adozione dello statuto e ha potere consultivo per l’approvazione dei bilanci; lo statuto può
attribuirle altri poteri propositivi, consultivi e di controllo.

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PARTE TERZA
LE ATTIVITÀ E LE FUNZONI
DEI PUBBLICI POTERI

Capitolo I
L’ATTIVITÀ DI INDIRIZZO POLITICO

L’indirizzo politico
In ogni comunità politica l’attività di governo deve svolgersi secondo un disegno coerente e
ordinato affinché possa raggiungere i risultati voluti. Tale regola vale tanto per lo Stato, che è
un ente politico a fini generali, quanto per le Regioni, le Provincie e i Comuni, chiamati anch’essi
a svolgere un’azione di governo. Quando, dunque, si parla d’indirizzo politico, ci s’intende riferire
generalmente alla fissazione di fini da conseguirsi tramite l’azione politica.
L’indirizzo politico prende corpo e si sostanzia, in primo luogo, nella determinazione dei fini
dell’azione statale; successivamente è necessario predisporre un apparato organizzativo e i
mezzi materiali necessari per tradurre in termini giuridici la volontà programmata; infine
occorrerà realizzare i risultati che l’azione di governo si è proposta di raggiungere.
Ne risulta, dunque, che l’indirizzo politico è la risultante di una complessa attività affidata, a
livello statale, prevalentemente al Parlamento e al Governo.
All’attività di indirizzo politico vanno ricondotte le mozioni di fiducia e sfiducia, le leggi e le
procedure di indirizzo politico, la deliberazione dello stato di guerra, oltre che le procedure di
controllo e di informazione con le quali le assemblee legislative mirano ad accertare che
l’indirizzo effettivamente svolto dal Governo sia conforme con quello enunciato al momento delle
dichiarazioni programmatiche e in base al quale esse hanno votato la fiducia.

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Componenti e vicende del rapporto di fiducia fra le Camere e il Governo: la mozione di


fiducia
A norma dell’art. 94 Cost. “entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle
Camere per ottenere la fiducia”.
La mozione di fiducia è l’atto con il quale ciascuna Camera approva il programma e la
composizione del futuro Governo. Questa è necessaria, perché impegna il Governo ad una
determinata politica, che viene illustrata alle Camere al momento della presentazione per
ottenere la fiducia. La mozione di fiducia deve essere votata per appello nominale, affinché con
la pubblicità del voto, il Paese possa conoscere l’orientamento dei suoi rappresentanti e ciascuno
dei parlamentari possa assumere di fronte ad esso le sue responsabilità.

Le procedure di indirizzo, di controllo e di informazione


Il rapporto fiduciario è, per sua stessa natura, dinamico, nel senso che il programma che ne sta
alla base, e sul quale il Governo ha ottenuto la fiducia, abbisogna, per la sua genericità, d’essere
di continuo specificato, integrato ed eventualmente modificato. Gli atti mediante i quali le
Camere esercitano la loro attività di direzione politica sono, in questo caso, la mozione e la
risoluzione.
La mozione (da non confondersi con la mozione di fiducia) è uno strumento d’indirizzo politico
attraverso il quale la Camera o il Senato danno un indirizzo al Governo sul comportamento da
tenere o le misure da prendere per affrontare una determinata questione. È un atto
politicamente rilevante, ma che non comporta vincoli giuridici per il Governo che può assumersi
la responsabilità politica di comportarsi diversamente dall’indirizzo indicato. La mozione può
essere presentata da un capogruppo o almeno da 10 deputati alla Camera, o da un almeno di 8
senatori al Senato.
La discussione in aula avviene in maniera simile a quella di una legge. Il testo della mozione
viene discusso, possono essere presentati e votati gli emendamenti al testo iniziale e poi si svolge
una votazione finale.
La risoluzione è uno degli atti con cui il Parlamento indirizza il Governo. Non ha valore formale
ma meramente procedurale, non incide giuridicamente sulla vita del Governo, infatti in caso di
voto contrario non è tenuto a dimettersi, a meno che non vi abbia posto la questione di fiducia,
ma ha valore politico.
Strettamente connesse alle attività di indirizzo politico sono poi, le procedure di controllo del
Governo e di informazione per quanto attiene lo svolgimento della sua attività politico-
amministrativa giacché le Camere, concedendogli la fiducia, lo impegnano ad attuare quel
determinato indirizzo politico. Gli strumenti posti a tal fine sono le interrogazioni, le
interpellanze, le inchieste, le indagini e le attività conoscitive svolte dalle commissioni.
L’interrogazione parlamentare è la domanda che uno o più parlamentari rivolgono al
Governo nel suo complesso o a un singolo ministro per essere informati sulla veridicità di un
fatto o di una notizia e sui provvedimenti che il Governo intende adottare o ha già adottato in
merito. La domanda viene formulata per iscritto e la risposta del ministro interpellato potrà
essere in forma scritta o orale secondo quanto richiesto dal parlamentare interrogante che
indica pure se intende ottenere risposta in Commissione o in aula.
L’interpellanza parlamentare è una domanda per iscritto che uno o più parlamentari
rivolgono al Governo per conoscere le ragioni o le intenzioni della politica governativa su
questioni rilevanti e di interesse generale. Attraverso l’interpellanza si mira a ottenere o
esplicitare la posizione del Governo su questioni determinate. Viene discussa in aula, con la
presenza di un rappresentante del Governo. Se la risposta del Governo non è soddisfacente
l’interpellante può presentare una mozione avente lo stesso oggetto e allo scopo di provocare
una discussione e un voto da parte dell’Assemblea, il cui significato politico starà poi al Governo
valutare.

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L’inchiesta parlamentare è l’indagine disposta, a norma dell’art. 82 Cost., da ciascuna Camera


al fine di acquisire elementi necessari di conoscenza in ordine ad una materia di pubblico
interesse. Le inchieste parlamentari sono condotte da Commissioni parlamentari formate
proporzionalmente ai gruppi parlamentari, che hanno nelle loro attività gli stessi poteri
dell’autorità giudiziaria. Le Camere possono anche deliberare congiuntamente, con una legge e
con un atto bicamerale non legislativo, di condurre un’inchiesta nei casi in cui la materia su cui
indagare sia complessa. In tal caso si viene a formare una commissione bicamerale.
Le indagini e le attività conoscitive sono svolte dalle commissioni parlamentari che hanno la
facoltà di chiedere ai rappresentanti del Governo informazioni o chiarimenti su questioni anche
politiche, in rapporto alle materie di loro competenza e di procurarsi direttamente dai ministri
competenti informazioni, notizie e documenti. Un particolare tipo di indagine conoscitiva è dato
dalle udienze legislative, vale a dire dalle indagini condotte in occasione dell’esame di un
progetto di legge da parte di una commissione parlamentare.

La mozione di sfiducia
È l’atto mediante il quale viene revocato il mandato conferito al Governo, costringendolo alle
dimissioni; tale mozione deve essere firmata da almeno un decimo dei componenti della Camera
per assicurare il voto di una sufficiente quantità di parlamentari e non può essere messa in
discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione, per evitare colpi di mano, cioè votazioni
a sorpresa, magari nell’assenza di molti parlamentari ignari della circostanza.
Anche la mozione di sfiducia deve essere motivata, nel senso che deve contenere l’indicazione
delle ragioni per cui non si ritiene più opportuno avallare l’orientamento politico del Governo in
carica. In seguito all’approvazione di tale mozione, da parte anche di una sola delle due Camere,
il Governo deve presentare le sue dimissioni al Presidente della Repubblica.
La possibilità di votare una mozione di sfiducia nei confronti di un singolo ministro senza
coinvolgere l’intero Governo non è esplicitamente prevista dalla Costituzione. Ciononostante la
mozione di sfiducia individuale è stata ammessa nel regolamento della Camera dei deputati, che
all’art. 115 prevede la stessa disciplina dettata per la mozione di sfiducia al Governo; al Senato,
invece, pur non essendo specificamente disciplinata, è stata ammessa nella prassi già a partire
dal 1984.
Da non confondere con le mozioni di fiducia e sfiducia la questione di fiducia. Mentre le prime
sono presentate dai parlamentari, la seconda è posta dallo stesso Governo. Il Governo pone la
questione di fiducia su una legge (o più comunemente su un emendamento ad una legge),
qualificando tale atto come fondamentale della propria azione politica e facendo dipendere
dalla sua approvazione la propria permanenza in carica. Nella pratica politica tale strumento
viene usato dal Governo per compattare la maggioranza parlamentare che lo sostiene o per
evitare l’ostruzionismo dell’opposizione.
Ponendo la fiducia sulla legge, tutti gli emendamenti decadono e la legge deve essere votata così
come è stata presentata. Nel caso in cui il Parlamento respinga la questione di fiducia posta dal
Governo, quest’ultimo è considerato privo della fiducia della Camera e del Senato e pertanto è
tenuto a rassegnare il mandato nelle mani del Capo dello Stato. Va inoltre ricordato che tale
istituto giuridico richiede modalità garantite (voto nominale dell’atto nella sua interezza ed
entro 24 ore), permette un’attività senza ostruzione, mira ad annullare i franchi tiratori che si
nascondono dietro il voto segreto e permette una veloce espletazione del processo di
legiferazione. Ci sono altri due casi in cui il Governo può sollecitare alla maggioranza
l’approvazione di una mozione di fiducia: successivamente al “rimpasto”, cioè una modifica nella
composizione del gabinetto, e successivamente alla modifica del programma di Governo.

Le leggi di indirizzo politico: la legge di bilancio e la legge finanziaria

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Le leggi di indirizzo politico sono quelle leggi mediante le quali il Parlamento, in via diretta e
immediata, partecipa alla direzione politica dello Stato. Leggi di indirizzo politico sono
generalmente considerate la legge finanziaria (oggi legge di stabilità), le leggi di approvazione
del bilancio preventivo e le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali. Assai
più controverso è l’inserimento tra tali atti della dichiarazione di guerra ex art. 78 Cost., dal
momento che non è pacifico che questa debba avvenire sempre con legge.
La legge di bilancio è una legge con la quale viene approvato il bilancio dello Stato. In
particolare, essa è lo strumento previsto dall’art. 81 Cost. attraverso il quale il Governo, con un
documento contabile di tipo preventivo, comunica al Parlamento le spese pubbliche e le entrate
previste per l’anno successivo in base alle leggi vigenti (a differenza del rendiconto consuntivo,
che è invece un documento contabile nel quale sono elencate le entrate e le spese che si sono
realizzate nell’anno finanziario a cui il bilancio si riferisce).Qualora le Camere non facciano in
tempo ad approvare il bilancio, esse approvano una legge per concedere al Governo l’esercizio
provvisorio del bilancio per la durata complessiva non superiore a 4 mesi.
In base all’art. 81, la legge di approvazione del bilancio non può, a differenza della legge di
stabilità (ex legge finanziaria), introdurre nuovi tributi e nuove spese. Ogni altra norma che
introduca nuove spese deve indicarne la rispettiva copertura finanziaria. In base a questo
articolo, il Presidente della Repubblica può rifiutare la firma di leggi prive di copertura
finanziaria.
La legge 243/2012 ha disposto che, a partire dal 2016, la legge di bilancio costituirà un unico
testo legislativo con la legge di stabilità. Il 28 luglio 2016 il Parlamento ha approvato in via
definitiva la legge che disciplina la nuova legge di bilancio.
La legge cost. 1 del 2012, recante l’introduzione del principio del pareggio di bilancio nella
Carta costituzionale, ha inciso notevolmente sulla disciplina contenuta nell’art. 81 Cost.,
introducendo, anche sulla base di precisi obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione
europea (Fiscal compact), il principio del “pareggio di bilancio”. L’Unione europea, attraverso il
Fiscal compact, ha ritenuto di fronteggiare il problema della crisi economica introducendo
regole rigide per perseguire il consolidamento fiscale.
Il pareggio di bilancio comporta che l’ammontare delle spese pubbliche sostenute dallo Stato e
dagli altri enti pubblici sia uguale alle entrate ovvero al gettito fiscale: lo Stato, in tal modo,
evita di ricorrere all’indebitamento, ossia al deficit di bilancio pubblico. L’ammontare
complessivo dei disavanzi pubblici accumulati ogni anno porta invece alla formazione del debito
pubblico.
La legge cost. 1 del 2012, modificando l’art. 97 Cost., ha introdotto anche nei confronti di tutte le
pubbliche amministrazioni l’obbligo di assicurare l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del
debito pubblico, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea.

Le leggi di approvazione dei programmi economici


Le leggi di approvazione dei programmi economici valgono a formare una serie di direttive per
lo sviluppo del Paese mediante la formulazione di previsioni tecniche e l’individuazione degli
obiettivi da raggiungere entro il periodo di tempo prefissato.

Le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali


I trattati internazionali costituiscono fonte del diritto internazionale e come atto esterno
all’ordinamento giuridico italiano, il trattato acquista efficacia nell’ambito interno in seguito ad
un apposito ordine di esecuzione, che viene normalmente adottato con un decreto presidenziale
oppure inserito nella legge di autorizzazione alla ratifica.
Come previsto in altre carte costituzionali, anche la Costituzione italiana ha stabilito che il
Parlamento, in rappresentanza del popolo, prendesse parte alla formazione dei trattati
internazionali. Sono stati così individuati cinque particolari categorie di trattati per i quali la

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ratifica del Presidente della Repubblica, prevista dall’art. 87 Cost., sia autorizzata dal
Parlamento al fine di consentire a quest’ultimo un controllo sulla politica estera esercitata dal
Governo.
In particolare, sono soggetti a tale autorizzazione, concessa solo con legge formale (e non con
decreto legge etc.), i trattati:
- di natura politica (di alleanza, di non aggressione, di garanzia, di protezione, di
neutralità etc.);
- di regolamento giudiziario: cioè relativi ai modi di risoluzione delle controversie
internazionali;
- che importano variazioni del territorio italiano;
- che importano oneri alle finanze;
- che implicano modificazioni di leggi.
Ciò spiega perché in più occasioni il Governo è ricorso ad accordi in forma semplificata, ossia
solo con la firma e senza ratifica del Capo dello Stato mediante sottoscrizione da parte dei
rappresentanti del Governo, in pratica un organo differente da quello previsto dalla Costituzione.
Per risolvere tale irregolarità, il Parlamento ha instaurato la prassi di emanare successivamente
una legge con cui si approvava un trattato, di fatto, già concluso.

Le leggi di concessione dell’amnistia e dell’indulto


Le leggi di concessione dell’amnistia e dell’indulto si possono far rientrare fra le azioni di
indirizzo politico in quanto espressione della discrezionalità del Parlamento, secondo l’art. 79
Cost., per cui l’amnistia e l’indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei 2/3 dei
componenti di ciascuna Camera, in ogni articolo e nella votazione finale.
E bene ricordare che:
- L’amnistia estingue il reato, e se vi è stata condanna, fa cessare l’esecuzione della
medesima e delle pene accessorie.
- L’indulto condona in tutto o in parte la pena (senza estinguere il reato) o lo commuta in
un’altra pena minore.
A norma dell’art. 79 Cost., l’amnistia e l’indulto non possono applicarsi ai reati commessi
successivamente alla presentazione del disegno di legge.
Da questi due provvedimenti bisogna distinguere la grazia che, se ha gli stessi effetti dell’indulto,
è tuttavia un provvedimento individuale concesso dal Presidente della Repubblica.

La deliberazione dello stato di guerra


L’art. 78 Cost. dispone che le Camere deliberino lo stato di guerra e conferiscano al Governo i
poteri necessari; spetta poi al Presidente della Repubblica dichiarare lo stato di guerra
deliberato dalle Camere (art. 89 Cost.).

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Capitolo II
LA FUNZIONE DI PREDISPOSIZIONE NORMATIVA

Sezione I
LE LEGGI COSTITUZIONALI

Il procedimento di formazione
Dal carattere rigido della nostra Costituzione discende che le leggi approvate dalle Camere con
uno dei procedimenti previsti dall’art. 72 Cost. (leggi ordinarie) non possono modificare la
Costituzione, essendo necessaria una legge approvata con una procedura aggravata (art. 138
Cost.) che assume il nome di “legge costituzionale”.
Le leggi costituzionali sono leggi di pari rango rispetto alla Costituzione e servono per
modificarla (leggi di revisione costituzionale) o per integrarla (leggi costituzionali).
Indipendentemente dal loro obiettivo le leggi costituzionali sono approvate dal Parlamento con
il cosiddetto procedimento aggravato, un sistema di votazione che richiede maggioranze più
ampie di quelle necessarie per l’approvazione delle leggi ordinarie e una doppia approvazione
da parte di ciascuna delle due Camere che deve avvenire con un intervallo di tempo tra una
votazione e l’altra non inferiore a tre mesi.
Le leggi di revisione costituzionale e quelle costituzionali vengono sottoposte a referendum
(detto sospensivo-consultivo) qualora nella seconda votazione non venga raggiunta la
maggioranza dei 2/3 in una delle due Camere e se entro tre mesi dalla pubblicazione sulla
Gazzetta Ufficiale ne facciano richiesta 1/5 dei membri di una Camera, 500.000 elettori o 5
Consigli regionali. Sarà l’elettorato e quindi il popolo sovrano a decidere se praticare quella
revisione della Costituzione, esprimendo la propria volontà in sede di referendum.

I limiti alla revisione costituzionale


Alcune disposizioni previste nella Costituzione non possono essere modificate neanche con una
legge costituzionale, in quanto contenenti principi supremi dell’ordinamento (principio di
democrazia, principio dei diritti fondamentali, etc.).

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Per quanto riguarda i limiti alla revisione costituzionale, la dottrina distingue tra quelli
cosiddetti espliciti e quelli cosiddetti impliciti. Limite esplicito è l’art. 139 Cost., che dichiara
esplicitamente sottratta alla revisione costituzionale la forma repubblicana dello Stato
(Repubblica). Questo limite non è altro che la positivizzazione nel testo costituzionale del
risultato del referendum-plebiscito del 1946, che ha sottratto la scelta a favore della Repubblica
alla stessa Assemblea costituente. Oltre a tale limite, vi sono poi, secondo la dottrina
maggioritaria, ulteriori limiti impliciti. In primo luogo, collegando l’art. 139 Cost. con l’art. 1
Cost., è stata ritenuta sottratta alla revisione costituzionale non solo la forma repubblicana, ma
anche quella democratica dello Stato (Forme di Stato e forme di governo). Oltre a ciò, la
giurisprudenza costituzionale ha ritenuto che siano insuscettibili di revisione costituzionale i
principi supremi dell’ordinamento, cioè tutti quei principi che “appartengono all’essenza dei
valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”, tra i quali vanno annoverati il
principio di sovranità popolare (art. 1 Cost.), quello di unità della giurisdizione costituzionale,
quello di unità e indivisibilità della Repubblica, quello di laicità dello Stato, etc..

SEZIONE II
LE LEGGI ORDINARIE E GLI ATTI VANETI FORZA DI LEGGE

Le leggi ordinarie dello Stato: il procedimento di formazione


Le leggi ordinarie dello Stato sono fonti primarie del diritto e sono poste in essere dalle due
Camere mediante un apposito procedimento di formazione.
La Costituzione stabilisce che la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due
Camere (art. 70 Cost.). Ciò significa che per divenire legge un progetto deve essere approvato
nell’identico testo da Camera e Senato.
L’iter legislativo si compone di tre fasi:
- Fase dell’iniziativa;
- Fase costitutiva;
- Fase integrativa.

Fase dell’iniziativa. Secondo l’art. 70 Cost. l’unico titolare del potere legislativo è il Parlamento.
Il Parlamento non è però l’unico titolare del potere di iniziativa di legge. Questo infatti è in capo
a diversi soggetti tutti stabiliti dall’art. 71 Cost.:
- Governo (In questo caso si parla di Disegno di legge - Ddl).
- Parlamento (In questo caso si parla di Proposta di legge - Pdl).
- Regioni.
- CNEL (Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro).
- Popolo (50.000 elettori).
Per prevedere altri soggetti con potere d’iniziativa si deve procedere con una legge
costituzionale che integri l’art. 71 Cost..

Fase costitutiva. L’art. 72 Cost. disciplina l’esame e l’approvazione della legge. Il Disegno di
legge o la Proposta di legge deve essere presentata in una delle due Camere. Il Presidente della
stesa la assegna ad una Commissione. Ci sono tre modalità di sedute per la commissione:
- In sede referente: la Commissione si limita solo ad una attività istruttoria.

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- In sede deliberante: in cui la proposta è votata direttamente in Commissione a meno che


una minoranza (1/10 dell’Assemblea e 1/5 della Commissione) o il Governo non richieda
il passaggio in Assemblea;
- In sede redigente: si presenta come una sintesi delle due sedi precedenti. In questa sede
infatti si votano i soli emendamenti mentre il testo nella forma finale è votato in
Assemblea.
Nella sua attività istruttoria, la Commissione può stabilire di trattare insieme due o più progetti
(che sono detti abbinati) per presentare un’unica relazione e un solo testo all’Assemblea. A tal
fine può scegliere uno dei progetti come testo base della discussione o può procedere -
eventualmente incaricando un Comitato ristretto - alla stesura di un testo unificato dei diversi
progetti. Durante l’esame, la Commissione acquisisce i pareri di altre Commissioni che si
riuniscono in sede consultiva per formulare osservazioni e avanzare suggerimenti sulle parti del
progetto di loro competenza.
Terminato il lavoro di Commissione, il testo viene calendarizzato e inviato alla Camera dove è
votato prima per singoli articoli (eventualmente anche gli emendamenti) poi per voto finale cioè
sull’intero testo. Il testo così approvato passa al Senato dove c’è il medesimo procedimento. Se al
termine della seconda approvazione non ci sono modifiche si passa alla fase integrativa. Se
invece il testo è stato modificato ritorna alla Camera dove si riprende il procedimento, questa
volta solo sulle parti modificate, e così via in un sistema a navetta tra le due Camere fino a
quando non si arriva ad un medesimo testo approvato da entrambe le Camere.

Fase integrativa. La Fase integrativa è la fase in cui la legge assume il suo vigore. La legge è
promulgata secondo l’art. 73 Cost. dal Presidente della Repubblica. Prima di promulgarla il
Presidente procede ad un primo vaglio di costituzionalità. Nel caso ravvisi un dubbio di non
conformità alla Costituzione, secondo l’art. 74 Cost., può rinviarla alle Camere ma qualora le
Camere la riapprovino senza modifiche al secondo vaglio il Presidente non potrà porre il suo
veto. La legge, dopo la promulgazione, è pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Solitamente dal
momento della pubblicazione a quella dell’effettiva entrata in vigore c’è un periodo di vacatio
legis di 15 giorni ma il Parlamento può prevedere, scrivendolo appositamente nella legge, che
essa abbia vigore prima dei 15 giorni oppure dopo.

Gli atti avente forza di legge


Si definiscono atti aventi forza di legge quegli atti che, pur non essendo posti in essere dalle
Camere, hanno la stessa forza ed efficacia delle leggi ordinarie, sono, cioè, fonti di primo grado.
Rientrano in tale categoria i decreti-legge e i decreti legislativi, ambedue deliberati dal Governo
ed emanati con decreto del Presidente della Repubblica.
I decreti-legge. A norma dell’art. 77 Cost., il Governo, in casi straordinari di necessità e di
urgenza (si pensi ad una calamità naturale), può adottare, sotto la sua responsabilità,
provvedimenti provvisori con forza di legge. Il Governo il giorno stesso deve presentarli alle
Camera per la conversione (mediante un apposito disegno di legge). Le Camere, anche se sciolte,
sono appositamente convocante e si riuniscono entro cinque giorni. Entro 60 giorni il decreto
legge deve essere convertito in legge dal Parlamento, che è l’unico organo che ha potestà
legislativa (si parla di “legge di conversione”). Se ciò non avviene, il decreto legge decade con
effetto retroattivo. In pratica, è come se non fosse mai esistito.
I decreti legislativi. Anche il decreto legislativo ha lo stesso valore della legge ordinaria. Esso è
emanato sempre dal Governo, ma su delega del Parlamento (che è l’unico ad avere potestà
legislativa). Ma perché si fa uso del decreto legislativo? Perché il Parlamento non emana
direttamente una legge? La motivazione è la seguente: lo strumento del decreto legislativo viene
utilizzato quando le materie da disciplinare sono molto tecniche e il Parlamento non ha le
competenze necessarie per trattarle. Queste competenze si ritrovano invece nel Governo, che è

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un organo amministrativo. Di conseguenza, il Parlamento emette una legge delega diretta al


Governo: in questo provvedimento vengono stabiliti i criteri, i limiti (anche temporali) e l’oggetto
del decreto legislativo da emanare. Il Governo poi approva il decreto legislativo seguendo le
disposizioni della legge delega. In questo modo viene salvaguardata la separazione dei poteri: è
il Parlamento a dettare tutti i criteri per l’emanazione del decreto, con il Governo che agisce
nell’ambito della delega specifica.
Si tratta praticamente di un percorso inverso rispetto a quanto visto per il decreto legge (in cui
agisce prima il Governo e, successivamente, il Parlamento approva). In ogni caso, anche se si
tratta di atti governativi, è sempre il Parlamento che deve confermarli (decreti legge) o che
detta i presupposti per la loro emanazione (decreti legislativi).

Il referendum abrogativo
Fra le fonti di diritto aventi efficacia pari a quella della legge ordinaria va ricompreso anche il
referendum abrogativo di leggi o aventi valore di legge. Se è vero che mediante il referendum
non si crea, direttamente e in via immediata, diritto, è altrettanto vero che l’abrogazione di una
o più norme non può essere considerata un fenomeno a sé stante, poiché provoca
nell’ordinamento una serie di reazioni a catena. Primo e più importante di tali effetti è dato dal
fatto che una determinata materia o parte di una materia, cessano di esserlo in seguito
all’abrogazione della norma che le regola. Questo effetto è di per sé idoneo, se non a produrre
una nuova norma, in ogni caso a modificare l’ordinamento giuridico preesistente. In secondo
luogo, l’ordinamento potrà essere chiamato a provvedere, mediante idonei interventi legislativi o
una serie di adattamenti interpretativi, a colmare il vuoto normativo provocato dall’esito
positivo della consultazione popolare.
Il referendum abrogativo è previsto dall’art. 75 Cost. che riserva l’iniziativa referendaria ai
cittadini (500.000 elettori) o alle Regioni (5 Consigli regionali). Questi possono proporre
all’elettorato “l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge”,
dove per legge si deve intendere una legge in senso formale, approvata dal Parlamento secondo
il procedimento ordinario, e per “atto avente valore di legge” un decreto legge o un decreto
legislativo. Il quorum indica il numero minimo di elettori che devono partecipare alla votazione
perché il referendum sia valido e perciò idoneo ad abrogare la disposizione oggetto del quesito:
esso è fissato nella maggioranza degli aventi diritto al voto. L’art. 75 Cost. stabilisce inoltre che
deve essere raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi.
Non tutte le leggi possono essere oggetto di abrogazione tramite referendum: alcune materie
sono sottratte dal secondo comma dello stesso art. 75 Cost. dall’azione dell’istituto. Non è
ammesso il referendum su leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione a
ratificare trattati internazionali. In più non è possibile abrogare mediante referendum
disposizioni costituzionali, gerarchicamente sovraordinate alla legge ordinaria e quindi
abrogabili solo mediante il procedimento aggravato previsto dall’art. 138 Cost.

Gli statuti delle Regioni di diritto comune (rinvio)


Come già detto, gli statuti delle Regioni sono fonti del diritto. Lo statuto (a norma dell’art. 123
Cost.) è deliberato dal Consiglio regionale a maggioranza assoluta dei suoi componenti, con due
deliberazioni successive adottate ad intervallo non minore di due mesi. La stessa procedura è
prevista per ogni modifica. Lo statuto è sottoposto a referendum popolare se 1/50 degli elettori
o 1/5 dei componenti il Consiglio regionale ne fanno richiesta entro tre mesi dalla sua
pubblicazione. Il Governo può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla
Corte costituzionale entro trenta giorni dalla pubblicazione dello Statuto.

Le leggi regionali ordinarie: il procedimento di formazione; il limiti

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Il procedimento di formazione delle leggi regionali si suddivide, al pari del procedimento di


formazione delle leggi statali, in tre fasi: iniziativa, istruttoria e deliberativa.
A differenza della legge statale (che è un atto complesso), la legge regionale è un atto semplice,
essendo espressione della volontà di un singolo organo legislativo.
L’iniziativa spetta alla Giunta, ai singoli consiglieri regionali e agli elettori della Regione. Gli
statuti ordinari la attribuiscono anche ai Consigli comunali e provinciali.
Fase istruttoria. L’esame e l’approvazione del progetto di legge si svolge secondo lo schema del
procedimento legislativo ordinario, previsto per la legge statale, nel senso che il progetto è
dapprima affidato alla Commissione consiliare competente in sede referente e poi discusso e
votato dal Consiglio, articolo per articolo con votazione finale. Si esclude la possibilità del ricorso
alla Commissione in sede deliberante (come accade per le leggi ordinarie) perché il numero dei
componenti le Commissioni consiliari in sede regionale è talmente ridotto che, qualora si
demandasse loro l’approvazione delle leggi, il principio della democraticità dell’attività
regionale verrebbe ad essere seriamente compromesso.
Fase deliberativa. La legge è approvata dal Consiglio regionale e successivamente promulgata
dal Presidente della Regione, che non ha però il potere di rinvio della legge come il Capo dello
Stato, così che la promulgazione si presenta come un atto dovuto. La legge è pubblicata sul
Bollettino Ufficiale della Regione e riprodotta (a puro fine di conoscenza) nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica.

I limiti alla potestà legislativa regionale; la tipologia e le materie


In seguito alla riforma costituzionale del 2001, la potestà legislativa generale in Italia
appartiene allo Stato e alle Regioni, posti sullo stesso piano; la competenza è attribuita per
materie.
La competenza a legiferare può essere:
- esclusiva dello Stato;
- concorrente
- residuale (esclusiva) delle Regioni;
L’art. 117 Cost., infatti, definisce nel suo secondo comma le materie per le quali lo Stato ha
competenza esclusiva, nel terzo le materie per le quali la competenza tra Stato e Regioni è di tipo
concorrente, mentre il quarto comma stabilisce la competenza residuale delle Regioni su tutte le
altre materie.
Prima di questa legge di riforma costituzionale (legge cost. n. 3/2001) le Regioni a Statuto
ordinario (quelle speciali già avevano poteri esclusivi) potevano esercitare il potere legislativo
solo nelle materie tassativamente indicate nell’art. 117 Cost. e soltanto nei limiti di una legge-
cornice statale ovvero dei principi fondamentali della materia (cosiddetta competenza
concorrente).
Da ultimo la legge 131 del 2003, la cosiddetta legge La Loggia, precisa che rimangono in vigore
le leggi dello Stato nelle materie in cui la competenza è passata alle Regioni, fino a che le stesse
non legifereranno sull'argomento; lo stesso vale per le materie su cui la competenza è passata
dalle Regioni allo Stato, per cui rimarranno in vigore le leggi regionali fino a diversa statuizione
dello Stato.

Le leggi provinciali
La legge provinciale costituisce una particolarità nel sistema normativo italiano. Infatti soltanto
due province, Trento e Bolzano, hanno potestà legislativa nelle materie indicate nello Statuto del
Trentino-Alto Adige e nei limiti dei principi della legge dello Stato.

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La legge provinciale ha efficacia nel territorio della Provincia, è equiparabile alla legge
ordinaria ed è sottoponibile al giudizio della Corte costituzionale.
Dopo essere stata approvata, essa è pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione autonoma
ed entra in vigore il trentesimo giorno dopo la pubblicazione.

La posizione della legge regionale nel sistema delle fonti


La legge regionale è una legge in senso tecnico, cioè un atto avente l’efficacia e il valore della
legge ordinaria. Come tale la legge regionale è subordinata alla Costituzione. Si discute, invece,
se la legge regionale sia subordinata o pariordinata nei confronti della legge dello Stato. Poiché
le due fonti sono separate, nel senso che il loro ambito di competenza è tenuto distinto dalle
norme costituzionali, sembra che fra loro non possa esserci rapporto di pari ordinazione o di
subordinazione per la mancanza del presupposto necessario, vale a dire l’inserimento della fonte
nel sistema gerarchico. Ciò è ancora più evidente quando si tratta di leggi statali o regionali
adottate in virtù della competenza esclusiva.

Sezione III
LE FONTI REGOLAMENTARI

I regolamenti governativi
I regolamenti governativi, nell’ordinamento giuridico italiano, costituiscono fonti normative
secondarie e si collocano al di sotto delle fonti costituzionali e delle fonti primarie (leggi
ordinarie, atti aventi forza di legge, trattati internazionali e direttive e regolamenti dell’Unione
europea). Secondo la dottrina sono atti formalmente amministrativi e sostanzialmente
normativi. Il loro collocamento al di sotto delle fonti primarie è giustificato dal processo
richiesto per la loro approvazione, dal quale il Parlamento è completamente escluso: i
regolamenti governativi sono infatti proposti ed accettati interamente all’interno dell’esecutivo.
I regolamenti disciplinano materie non regolamentate da leggi, o si limitano ad eseguirne le
disposizioni.
La legge 400 del 1988 all’art 17 co. 1 e 4 definisce il procedimento di adozione. Il Consiglio dei
ministri delibera l’adozione del regolamento, acquisendo preventivamente il parere del Consiglio
di Stato. Il parere, acquisito entro 45 giorni, è obbligatorio e non vincolante, perché il Governo
può perfettamente discostarsene. Una volta deliberato il regolamento in Consiglio dei Ministri,
questo viene emanato per decreto del Presidente della Repubblica. A questo punto il
regolamento è un atto amministrativo considerato perfetto, ma non efficace. Perché l’atto
acquisisca efficacia deve passare sotto il controllo di legittimità esercitato dalla Corte dei conti,
la quale appone il visto e provvede alla registrazione. Solo alla fine di questo procedimento il
regolamento viene pubblicato in Gazzetta Ufficiale.
I regolamenti governativi si distinguono in:
- regolamenti di esecuzione delle leggi, dei decreti legislativi nonché dei regolamenti
comunitari, emanati per rendere più esplicito il contenuto di una legge o di un decreto
legislativo o di un regolamento comunitario, tutte le volte che questi, per il loro carattere
di generalità e astrattezza o per la loro particolare formulazione tecnica, necessitano,
per la loro migliore applicazione ai casi concreti, norme di dettaglio, integrative ed

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esplicative, senza però apportare aggiunte alla legge. Una legge in attesa di regolamento
di esecuzione può e deve essere ugualmente applicata nelle parti in cui ciò è possibile;
- regolamenti di attuazione e integrazione della legge e dei decreti legislativi recanti
norme di principio. Attuano e integrano le norme di principio contenute nelle leggi e nei
decreti legislativi. I regolamenti in oggetto si distinguono dai precedenti perché non si
limitano a portare ad esecuzione la norma di legge, ma contribuiscono ad integrarla
dettando la normativa di dettaglio. Tali regolamenti non sono ammissibili nelle materie
coperte da riserva assoluta di legge, mentre sono leciti nei casi di riserva di legge
relativa;
- regolamenti autonomi o indipendenti, che vengono emanati in materie ancora non
disciplinate da legge o atti aventi forza di legge, sempre che non si tratti di materie
comunque riservate alla legge, nel presupposto che, laddove la Costituzione non richiede
espressamente l’intervento del legislatore, la materia può essere disciplinata anche
mediante regolamento;
- regolamenti di organizzazione, che disciplinano l’organizzazione interna dei pubblici
uffici, e prima del 1948 godevano di un ampio raggio d’azione. Dall’entrata in vigore
della Costituzione, essendo la materia coperta da riserva di legge relativa, essi non si
distinguono più nella sostanza dai regolamenti di esecuzione o di attuazione e
integrazione. Tuttavia, nel 1997 la materia è stata oggetto di delegificazione, per cui ad
essi si sono sostituiti i regolamenti delegati;
- regolamenti autorizzati o delegati sono previsti al fine di dare corso ad un processo di
delegificazione (ossia dell’attribuzione al Governo del compito di regolamentare certe
materie). Tale processo è garantito da una legge avente contenuto autorizzatorio del
Parlamento che permette di disciplinare con regolamento un oggetto già regolato da
legge, anche su una materia coperta da riserva di legge (purché non assoluta). La legge
di autorizzazione dispone l’abrogazione della normativa vigente con effetto però
dall’entrata in vigore del regolamento (abrogazione differita);
- regolamenti di attuazione delle direttive comunitarie necessari a recepire
nell’ordinamento italiano le direttive dell’Unione europea;
- regolamenti di riordino e di ricognizione delle disposizioni regolamentari vigenti che
servono a provvedere al periodico riordino delle disposizioni regolamentari vigenti, alla
ricognizione di quelle che sono state oggetto di abrogazione implicita e all’espressa
abrogazione di quelle che hanno esaurito la loro funzione o sono prive di effettivo
contenuto normativo o sono comunque obsolete.

I limiti alla potestà regolamentare; la riserva di legge


La riserva di legge, inserita nella Costituzione, prevede che la disciplina di una determinata
materia sia regolata soltanto dalla legge primaria e non da fonti di tipo secondario. La riserva di
legge ha una funzione di garanzia in quanto vuole assicurare che in materie particolarmente
delicate, come nel caso dei diritti fondamentali del cittadino, le decisioni vengano prese
dall’organo più rappresentativo del potere sovrano ovvero dal Parlamento come previsto
dall’art. 70 Cost..
La riserva di legge può essere:
- assoluta, se viene imposto al Parlamento (o al Governo nel caso di decreto legge e
decreto legislativo) di regolare integralmente la materia con legge o atto avente forza di
legge, senza lasciare alcuno spazio all’intervento di fonti regolamentari o secondarie;
- relativa, se viene richiesto al legislatore di dettare con legge o atto avente forza di legge
solo i criteri generali che disciplinano una determinata materia, mentre l’attuazione della
stessa può avvenire con regolamenti autorizzati o fonti secondarie, all'interno, tuttavia,
dei principi e dei criteri individuati con legge.

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Sia la riserva di legge assoluta sia quella relativa possono poi essere rafforzate, quando la
Costituzione non si limita a rinviare puramente e semplicemente alla legge (in quel caso si parla
di riserva di legge semplice), ma disciplina essa stessa parte della materia ponendo, in tal modo,
altrettanti limiti alla discrezionalità del legislatore (es.: art. 16 a norma del quale la legge può
stabilire limitazioni alla libertà di circolazione e soggiorno soltanto in via generale e per motivi
di sanità o di sicurezza).
Infine si ha riserva di legge costituzionale quando la Costituzione espressamente dispone che
determinate materie debbano essere regolate con legge costituzionale (es.: art. 132 per la
fusione di Regioni esistenti o la creazione di nuove Regioni).

I regolamenti ministeriali e interministeriali; i regolamenti di “altre autorità”


Sempre a norma dell’art. 17 della legge 400 del 1988, i ministri, quando la legge espressamente
conferisca loro tale potere, possono adottare regolamenti nelle materie di loro competenza o di
competenza di autorità loro subordinate. Tali decreti, per materie di competenza di più ministri,
possono essere adottati con decreti interministeriali, ferma restando la necessità di apposita
autorizzazione da parte della legge. I regolamenti ministeriali e interministeriali non possono
dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti deliberati dal Governo (essi sono, dunque, fonti
di terzo grado) e devono essere comunicati al Presidente del Consiglio prima della loro
emanazione.

I regolamenti degli organi costituzionali e a rilevanza costituzionale


Gli organi costituzionali e a rilevanza costituzionale possono darsi, in virtù della posizione che
assumono nell’ordinamento, propri regolamenti diretti a disciplinare la loro organizzazione
interna, lo stato giuridico ed economico del personale e, in alcuni casi, il modo di esercizio dello
loro funzioni.

I regolamenti regionali
La potestà regolamentare delle Regioni è oggi prevista nel nuovo art. 117 Cost., il quale opera
una ripartizione tra potestà regolamentare dello Stato, nelle materie di legislazione esclusiva, e
potestà regolamentare delle Regioni in ogni altra materia. Tuttavia lo stesso articolo fa salva la
possibilità che lo Stato deleghi alle Regioni la potestà regolamentare nelle materie di sua
competenza. Esistono pertanto due tipi di potestà regolamentare regionale: l’una propria, l’altra
delegata.
Per quel che riguarda il procedimento di formazione dei regolamenti, si deve ritenere che la
modifica dell’art. 121 Cost., operata dalla legge cost. 1 del 1999, abbia abrogato la riserva
esclusiva di competenza del Consiglio regionale. Ne consegue che ciascuna Regione potrà, nello
statuto, assegnare la potestà regolamentare al Consiglio o conferirla alla Giunta.
I regolamenti regionali sono pubblicati sul Bollettino Ufficiale della Regione ed entrano in vigore
non prima del quindicesimo giorno successivo alla loro pubblicazione.

Gli statuti e i regolamenti delle Province e dei Comuni


Il nuovo art. 114 Cost. attribuisce ai Comuni, alle Province e alle Città metropolitane la potestà
statutaria secondo i principi fissati dalla Costituzione. Sempre a norma del T.U. delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali, il Comune e la Provincia, nel rispetto dei principi fissati dalla
legge e dallo statuto, adottano regolamenti nelle materie di propria competenza e in particolare
per l’organizzazione e il funzionamento delle istituzioni e degli organismi di partecipazione, per
il funzionamento degli organi e degli uffici e per l’esercizio delle funzioni. Si tratta di una potestà
normativa di terzo grado, subordinata, cioè, sia alla legge sia allo statuto. Fra i regolamenti
comunali possono ricordarsi i regolamenti di polizia urbana, i regolamenti edilizi, i regolamenti
delle aziende municipali, i regolamenti per la circolazione all’interno dell’abitato.

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Sezione IV
LE FONTI SINDACALI

I contratti collettivi di lavoro


Tra le fonti extra ordinem rientra il contratto collettivo di lavoro. Qualora sia stipulato da
sindacati registrati acquista, a norma dell’art. 39 co. 4 Cost., efficacia obbligatoria per tutti gli
appartenenti alla categoria alla quale si riferisce. Esso è, dunque, una fonte normativa non
statale, la cui formazione è riservata dalla Costituzione alla determinazione autonoma delle
associazioni contrapposte dei lavoratori e dei datori di lavoro.
I contratti di lavoro individuali stipulati dai datori di lavoro e dai lavoratori non iscritti ad un
sindacato riproducono clausole dei contratti collettivi dirette ad assicurare ai lavoratori minimi
inderogabili di trattamento economico e normativo.
Nel campo specifico del pubblico impiego, l’efficacia generale del contratto collettivo è
indirettamente assicurata mediante l’obbligo legale che grava sulle pubbliche amministrazioni
di assicurare ai dipendenti – iscritti o non iscritti alle associazioni sindacali di categoria –
trattamenti non inferiori a quelli previsti dalla contrattazione collettiva.

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Capitolo III
LA FUNZIONE AMMINISTRATIVA

Natura e oggetto
Con la locuzione “funzione amministrativa” si intende indicare “l’insieme delle attività svolte
dall’insieme degli apparati amministrativi dello Stato e degli altri enti o comunque delle altre
figure soggettive del settore pubblico”.
Non tutte le attività svolte dagli apparati amministrativi, però, hanno natura amministrativa (si
pensi, ad esempio, all’attività normativa). La definizione, pertanto, non esaurisce il campo, dato
che gli apparati amministrativi svolgono anche funzioni non amministrative. Quindi,
nell’impossibilità di definire in modo netto la natura della funzione amministrativa, bisogna
allora limitarsi ad affermare che essa ha per oggetto la cura concreta di interessi pubblici,
affidata ad autorità dell’apparato amministrativo, mediante un procedimento che mette capo ad
un atto tipico, dotato di una particolare efficacia.

Sezione I
DALLA FUNZIONE AL PROVVEDIMENTO

Amministrazione attiva, consultiva e di controllo; amministrazione tecnica;


amministrazione contenziosa
L’attività amministrativa è quell’attività mediante la quale i soggetti della pubblica
amministrazione provvedono alla cura dell’interesse pubblico, interessi loro affidati dopo che la
funzione politica sceglie i fini da perseguire.
Possiamo avere atti di amministrazione attiva, attraverso cui una pubblica amministrazione
agisce in modo tale da realizzare concretamente le finalità pubbliche.
L’attività dell’amministrazione può inoltre estrinsecarsi con atti di amministrazione
consultiva e cioè con pareri, consigli da destinare alle autorità che concretamente agiscono. I
pareri si distinguono in facoltativi, quando sono richiesti su iniziativa dell’organo attivo;
obbligatori, quando l’organo attivo è tenuto per legge a richiederli; vincolanti, quando l’organo
attivo non solo ha l’obbligo di richiederli ma, se vuole emanare l’atto, deve anche uniformarsi al
parere.

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Infine abbiamo atti di controllo con cui si va a sindacare l’operato della pubblica
amministrazione, sia in ambito giuridico (controllo di legittimità) che di buona amministrazione
(controllo di merito).
A tali forme mediante le quali si svolge l’attività amministrativa, occorre affiancare sia l’ attività
tecnica, posta in essere da appartenenti alla pubblica amministrazione qualificati per il
possesso di particolari cognizioni nel campo della tecnica, che l’attività contenziosa, con la
quale la pubblica amministrazione, avvalendosi di un procedimento che ha alcuni elementi in
comune con quello giurisdizionale, mira a risolvere conflitti di interessi fra i privati o fra essa e i
privati (si pensi ai ricorsi amministrativi).

L’attività di indirizzo e coordinamento e l’alta amministrazione


Accanto alle attività sopra menzionate, vi è l’attività di indirizzo e coordinamento. Tale attività è
attribuita dall’art. 95 Cost. al Presidente del Consiglio nei confronti dei ministri, la cui attività
egli è appunto chiamato a promuovere e coordinare in ordine agli atti che riguardano la politica
del Governo.
L’attività di indirizzo e coordinamento può farsi rientrare nella cosiddetta “alta
amministrazione”, una speciale categoria di atti amministrativi che svolgono un’attività di
raccordo fra funzione di governo (Stato-comunità) e funzione amministrativa (Stato-soggetto).
Si collocano in una posizione intermedia tra gli atti politici e i provvedimenti amministrativi,
rappresentando il primo grado di attuazione dell’indirizzo politico nel campo amministrativo.
Esempi di atti di “alta amministrazione” possono essere: le deliberazioni di nomina e revoca dei
più alti funzionari dello Stato; la nomina dei dirigenti di livello verticistico; le decisioni con cui il
Consiglio dei ministri risolve i conflitti di competenza.
Anche a livello degli enti territoriali è possibile qualificare alcuni atti dei loro organi di governo
come atti di “alta amministrazione”, quali espressione del loro potere di indirizzo politico-
amministrativo.

La ripartizione fra lo Stato e gli altri enti pubblici della funzione amministrativa
La titolarità e l’esercizio della funzione amministrativa sono suddivisi fra l’apparato
amministrativo dello Stato-soggetto e, a livello decentrato, gli organi delle Regioni, delle
Province, dei Comuni, degli enti locali o operanti in sede locale.
In uno Stato amministrativo decentrato, la funzione amministrativa si svolge a tre livelli: statale,
regionale e sub-regionale. Esiste inoltre un quarto livello, quello comunitario, che si esprime
nelle direttive e nei regolamenti comunitari.

Le funzioni amministrative regionali


A norma dell’art. 118 comma I Cost., “le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo
che per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e
Stato, sulla base di principi di sussidiarietà, differenzazione e adeguatezza”.
Tali funzioni si aggiungono a quelle proprie di cui i su menzionati enti infraregionali sono
titolari, oltre che a quelle ad essi conferite con legge statale e regionale secondo le rispettive
competenze. A norma dell’art. 117 Cost., spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento
ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.

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Sezione II
IL PROCESSO

Il processo penale
La giurisdizione penale è diretta ad accertare le responsabilità penali e applicare le relative
sanzioni. A differenza del processo civile l’azione penale è obbligatoria ed esercitata dallo Stato
per mezzo del Pubblico ministero (Pm).
Chi ha subito il comportamento criminoso o i suoi familiari (in caso di morte) può costituirsi
parte civile, chiedendo il risarcimento dei danni morali, materiali o della salute. Il processo
penale ha inizio, comunque, anche senza denuncia da parte dei testimoni o delle persone
danneggiate. Una parziale eccezione a questo principio è rappresentata dai reati perseguibili
solo su querela.
Sono parti nel processo penale:
- ilPubblico ministero
- l’imputato
Il Pm è il magistrato titolare della pubblica accusa ed è organizzato in uffici istituiti presso i
Tribunali ordinari, i Tribunali per i minorenni, le Corti d'Appello e le Corti di Cassazione.
L’imputato non è considerato colpevole sino alla sentenza definitiva (art. 27 Cost.) e, quindi, non
può essere sottoposto a restrizione della libertà personale sino a quando la sentenza non è
passata in giudicato. Fino a tale momento le misure cautelari possono essere disposte solo per i
delitti più gravi ed esclusivamente in caso di pericolo di fuga, d'inquinamento delle prove o che
l'imputato possa commettere gravi delitti. L’imputato, entro dieci giorni dall’ordinanza che
dispone la misura coercitiva, può proporre richiesta di riesame. Al pari del processo civile, il
giudice è terzo, cioè imparziale, indipendente da accusa e difesa.
I reati si distinguono in:
- Delitti (ergastolo, reclusione o multa)
- Contravvenzioni (arresto o ammenda)
Organi del processo penale sono:
- Giudice di Pace
- Tribunale
- Tribunale dei minori

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- Corte di Assise
- Corte d’Assise d’Appello
- Corte di Cassazione
- Giudice per le indagini preliminari (Gip)
- Giudice per l’udienza preliminare (Gup)
- Magistratura di Sorveglianza
Qui di seguito le fasi del processo penale:
Indagini preliminari (o istruttoria), due gli organi impegnati: il Pm, che svolge l’attività
investigativa. In questa fase la persona coinvolta può restare all’oscuro di tutto ed è previsto che
egli sia messo al corrente delle indagini con un avviso di garanzia solo se occorre compiere atti
ai quali il difensore ha il diritto di assistere (interrogatori, perquisizioni...); il Gip (Giudice delle
indagini preliminari) che svolge funzioni di controllo sulla legittimità dell’attività condotto dal
Pm e sulla correttezza relativa all’azione penale. Le indagini preliminari possono durare sei
mesi, con possibilità di proroga da parte del Gip su richiesta del Pm. Al termine delle indagini, il
Pm può:
- presentare richiesta di archiviazione al Gip, se ritiene l’accusa infondata
- esercitare l’azione penale, con la richiesta di rinvio a giudizio, formulando i capi di
imputazione nei confronti dell’indagato che diviene così l'imputato. In questo secondo
caso si passa all’udienza preliminare.
Udienza preliminare, nella quale il Gup (giudice per l’udienza preliminare) ascolta le parti
(Pm e imputato) e sulla base delle prove raccolte decreta:
- il rinvio a giudizio, cioè il passaggio all’udienza vera e propria
- emette la sentenza di non procedere, se non accoglie la richiesta del Pm.
Il dibattimento, è la fase più importante e decisiva del processo ed è affidata ad un giudice
diverso dal Gup. In questa fase si presentano le prove ed avviene l’interrogazione dei testimoni.
Al termine del contraddittorio le parti (imputato, attraverso il difensore, e Pm) formulano le loro
richieste. Quindi, il giudice si ritira in Camera di Consiglio ed emette una sentenza.
Vi sono poi dei procedimenti alternativi:
Il giudizio abbreviato, che è richiesto dall’imputato con il consenso del Pm, quando le prove
acquisite nel corso delle indagini sono sufficienti per concludere la causa; con esso si evita il
dibattimento, la decisione viene presa nell'udienza preliminare ed è prevista in caso di
condanna, la riduzione di un terzo della pena.
Il patteggiamento, si ha quando l’imputato si dichiara colpevole e si accorda con il pm,
ottenendo in cambio uno sconto della pena.
Il giudizio direttissimo, avviene quando l’imputato è colto in flagranza o abbia confessato. Si
saltano così le indagini preliminari e dell’udienza preliminare e si procede con il dibattimento.
Il giudizio immediato, quando è evidente la colpevolezza e anche in questo caso si salta
l’udienza preliminare.
Il procedimento per decreto, è la massima semplificazione e si applica solo per i reati punibili
con pena pecuniaria. Il giudice, senza alcun contraddittorio, emana un decreto di condanna. Se il
condannato si oppone, si instaura un normale processo.

Il processo amministrativo
Il processo amministrativo si svolge innanzi ai Tribunali amministrativi regionali e, in grado di
appello, innanzi al Consiglio di Stato. Esso ha per oggetto la tutela di un interesse legittimo che si
presume leso da un atto o da un comportamento della pubblica amministrazione e mira a
ottenere l’annullamento dell’atto.
Parti nel giudizio dinnanzi al Tar sono il ricorrente, vale a dire il soggetto (privato o pubblico)
che lamenta la lesione di un suo interesse legittimo, e il resistente, vale a dire l’amministrazione
che ha emanato l’atto.

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Il Tribunale amministrativo regionale ha sede nel capoluogo di ogni Regione. Il Tribunale del
Lazio è competente nel caso che un atto dell’amministrazione dispieghi i suoi effetti nel
territorio di più Regioni o sull’intero territorio nazionale.
Le azioni esperibili dinnanzi al giudice amministrativo sono:
- l’azione di annullamento del provvedimento illegittimo poiché viziato da violazione di
legge, eccesso di potere o incompetenza;
- l’azione di condanna al risarcimento del danno, che può essere proposta
contestualmente a quella dell’annullamento o in via autonoma;
- l’azione avverso il silenzio dell’amministrazione;
- l’azione di accertamento della nullità.
L’atto introduttivo del giudizio ha la forma del ricorso e deve avere un preciso contenuto; deve
essere proposto, in via ordinaria e a pena decadenza, entro 60 giorni da quello in cui
l’interessato ha ricevuto la notifica o la comunicazione o ne abbia avuta la piena conoscenza;
deve essere notificato all’amministrazione che ha emanato l’atto e ad almeno uno dei
controinteressati ai quali l’atto si riferisce direttamente. Si assicura così il contraddittorio,
mentre il vero e proprio rapporto processuale si instaura con il deposito del ricorso nella
segreteria del Tar. Entro 60 giorni dal perfezionamento della notificazione, le parti intimate
possono costituirsi, presentare memorie, fare istanze, indicare i mezzi di prova di cui intendono
avvalersi e produrre documenti.
La presentazione di un ricordo al Tar non sospende l’efficacia del provvedimento impugnato che,
pertanto, continua a dispiegare i suoi effetti. Durante lo svolgimento del processo, dunque, è
possibile chiedere la sospensione degli effetti del provvedimento impugnato.
Celebrata l’udienza il Tar decide. Ove ritenga irricevibile, inammissibile o improcedibile il
ricorso, lo dichiara con sentenza che si definisce senza rito. Se riconosce che il ricorso non sia
fondato lo rigetta con sentenza. Qualora il Tar accolga il ricorso, nei limiti della domanda,
annulla in tutto o in parte il provvedimento impugnato; oppure ordina all’amministrazione,
rimasta inerte, di provvedere entro un termine. Si pronuncia in relazione alle condanne di
natura risarcitoria; mentre, nei casi di giurisdizione di merito, adotta un nuovo atto, ovvero
modifica o riforma quello impugnato.
Contro le sentenze del Tar è ammesso il ricorso al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale;
contro le pronunce del Consiglio di Stato è ammesso il ricorso in Cassazione per i soli motivi
inerenti la giurisdizione.

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Sezione III
LA GIURISDIZIONE COSTITUZIONALE

Natura e oggetto
A norma dell’art. 134 Cost., la Corte costituzionale giudica:
a) sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi
forza di legge, dello Stato e delle Regioni;
b) sui conflitti di attribuzione fra i poteri dello Stato e su quelli fra lo Stato e le Regioni e fra
le Regioni;
c) sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica, a norma della Costituzione.
A tali attribuzioni va aggiunta quella relativa ai giudizi sull’ammissibilità del referendum
abrogativo.

A) I giudizi sulla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge.

I vizi di legittimità costituzionale delle leggi.


Si distinguono in vizi formali e vizi materiali.
Si ha vizio formale quando la legge è approvata dal Parlamento violando una delle norme sul
procedimento di formazione delle leggi contenute nella Costituzione o secondo un procedimento
diverso da quello prescritto. Qualora, ad esempio, una camera approvasse una proposta di legge
senza che questa sia stata preventivamente sottoposta all’esame della commissione legislativa
competente per materia o votasse una legge senza che questa sia stata approvata articolo per
articolo, la legge sarebbe formalmente viziata.
Si ha il vizio materiale quando la norma contenuta in una legge ordinaria o in un atto ad essa
equiparato è in contrasto con una norma costituzionale o con un principio costituzionale, ovvero
quando l’organo che ha emanato la legge non era competente secondo la ripartizione delle
competenze legislative effettuate dalla Costituzione. Come esempio del primo tipo di vizio
materiale si può ipotizzare il caso di una legge che, in violazione dell’art. 3, discrimini i cittadini
in ragione del sesso, della razza, della lingua, della religione, delle opinioni politiche o delle
condizioni personali e sociali; si ha il secondo tipo di vizio materiale (o per incompetenza)
quando una legge dello Stato invade la sfera di competenza riservata dalla Costituzione o dagli
statuti regionali alle Regioni o quando la legge di una regione disciplina una materia non
rientrante fra quelle sulle quali essa può legiferare, ovvero ancora quando una legge regionale
invade la sfera di competenza comunque riservata allo Stato o di un’altra Regione.

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Dubbi, invece, sussistono sulla possibilità di configurare il vizio di eccesso di potere legislativo.
Tuttavia, pur mantenendo fermo il principio che dal sindacato di legittimità costituzionale esula
ogni possibilità di controllo sulle scelte politiche, la Corte ha individuato alcuni criteri che
valgono come indici dell’eccesso di potere legislativo. Tali criteri sono: a) quello della assoluta
illogicità, incoerenza o arbitrarietà della legge o della palese contraddittorietà rispetto ai
presupposti; b) quello della irragionevolezza delle statuizioni legislative rispetto alla
realizzazione concreta del fine; c) quello della incongruità fra mezzi e fini che la legge intende
conseguire.
Concludendo, si può affermare che i vizi formali attengono all’atto e, più precisamente, al
procedimento con il quale l’atto è stato posto in essere; i vizi materiali, invece, o al contenuto
dell’atto o al soggetto che ha emanato l’atto legislativo al di fuori della sfera di competenza ad
esso riservata dalla Costituzione o, ancora, all’esercizio del potere legislativo per un fine diverso
da quello assegnatogli dalla Costituzione o in modo non conducente al conseguimento del fine o,
ancora, non rispondente al criterio della ragionevolezza (ed avremo allora l’eccesso di potere).
Anche le leggi costituzioni possono essere sottoposte al controllo della Corte sia sotto il profilo
della illegittimità formale (quando, cioè, non sia stato osservato il procedimento di formazione
previsto nell’art. 138 Cost.) sia sotto il profilo dell’illegittimità materiale, se si ammette
l’esistenza di alcuni limiti al potere di revisione costituzionale.
Ai sensi dell’art. 123 Cost., il Governo può, altresì, promuovere in via principale (o diretta) la
questione di legittimità costituzionale sugli Statuti regionali ordinari dinanzi alla Corte
costituzionale entro trenta giorni dalla loro pubblicazione, ove questi non siano in “armonia”
con la Costituzione. Si tratta dell’unico caso contemplato dalla Carte in cui il giudizio avviene in
via preventiva, ossia prima che l’atto impugnato abbia completato il suo iter..

Gli atti soggetti al sindacato di legittimità costituzionale


Gli atti soggetti a sindacato di costituzionalità possono essere i seguenti:
a) le leggi ordinarie dello Stato e delle Regioni, alle quali occorre aggiungere le leggi delle
Province di Trento e Bolzano;
b) le leggi costituzionali, sicuramente sotto il profilo dell’illegittimità formale ma anche
sotto quello dell’illegittimità materiale;
c) gli atti aventi forza di legge dello Stato, vale a dire i decreti-legge e le leggi delegate.
Dubbi possono sorgere sull’impugnabilità di un decreto-legge, giacché nel breve periodo
della sua vigenza come tale (al massimo 60 giorni, alla scadenza dei quali il decreto legge
o viene convertito in legge o perde efficacia) appare problematico che possa instaurarsi
ed esaurirsi il giudizio innanzi alla Corte (infatti la Corte è stata finora chiamata
pochissime volte a giudicare un decreto-legge).

Il procedimento in via incidentale: a) la proposizione della questione; b) i poteri del


giudice; c) il giudizio innanzi alla Corte costituzionale
Il giudizio più comune di cui si occupa la Corte costituzionale è quello in via incidentale, cioè
quello che nasce da un diverso processo. La procedura è regolata dall’art. 137 Cost., dalla legge
costituzionale n. 1 del 1948 e dalla legge n. 87 del 1953.
Nel corso di un giudizio dinanzi ad un’autorità giurisdizionale una delle parti, il pubblico
ministero o lo stesso giudice d’ufficio, possono sollevare questioni di legittimità costituzionale
mediante apposita istanza, indicando: a) le disposizioni della legge o dell’atto avente forza di
legge dello Stato o di una Regione, viziate da illegittimità costituzionale; b) le disposizioni della
Costituzione o delle leggi costituzionali, che si assumono violate.
Il giudice (definito giudice de quo), se ritiene che la questione di costituzionalità non sia
manifestatamente infondata e rilevante per il giudizio, emette ordinanza con la quale, riferiti i
termini e i motivi dell’istanza con cui fu sollevata la questione, dispone l’immediata trasmissione

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degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso. L’ordinanza del giudice è
trasmessa alla Corte costituzionale, notificata alle parti se non ne è stata data lettura in
dibattimento, notificata al Presidente del Consiglio o al Presidente della Giunta regionale a
seconda che sia in questione una legge o un atto avente forza di legge dello Stato o di una
Regione, comunicata dal cancelliere anche ai Presidenti delle due Camere del Parlamento o al
Presidente del Consiglio regionale interessato.
Dopo questa prima faseil giudizio viene incardinato innanzi alla Corte costituzionale. Ricevuta
l’ordinanza il Presidente della Corte costituzionale ne dispone la pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale e, quando occorra, nel Bollettino ufficiale delle Regioni interessate.
Entro 20 giorni dalla notifica dell’ordinanza emessa dal giudice a quo, le parti possono
esaminare gli atti depositati nella Cancelleria e presentare le loro deduzioni. Trascorsi i 20
giorni, il Presidente della Corte nomina un giudice per l’istruzione e la relazione e convoca entro
i successivi 20 giorni la Corte per discutere. Vi sarà poi l’udienza e l’istruzione della causa, e
infine seguirà la decisione della Corte.

Il giudizio in via di azione (o principale)


Si possono avere due ipotesi:
1) Il Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione,
può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte
costituzionale entro 60 giorni dalla sua pubblicazione. In tal caso è necessaria la
deliberazione del Consiglio dei ministri, cui segue l’iniziativa del Presidente del Consiglio.
Il procedimento s’instaura con ricorso.
2) La Regione, quando ritenga che una legge o un atto avente valore di legge dello Stato o di
un’altra Regione leda la sua sfera di competenza, può promuovere la questione di
legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale entro 60 giorni dalla
pubblicazione della legge o dell’atto avente valore di legge. In tal caso è necessaria una
deliberazione della Giunta regionale, l’iniziativa spetta al Presidente della Giunta
regionale. Il procedimento s’instaura con ricorso.
La giurisprudenza della Corte costituzionale e la dottrina hanno riconosciuto che lo Stato, a
differenza della Regione, possa ricorrere avverso le leggi regionali che ritenga
costituzionalmente illegittime non solo perché emanate in violazione delle disposizioni che
delimitano la sfera di competenza legislativa delle Regioni, ma anche perché in contrasto con
qualunque altra disposizione costituzionale. Le Regioni, al contrario, possono impugnare una
legge statale, o un atto avente forza di legge, solo nel caso di contrasto con le disposizioni
costituzionali che delimitano la sfera di competenza legislativa, direttamente o indirettamente.
Questa diversità di trattamento è stata giustificata per la considerazione che l’ordinamento
(originario) dello Stato e quello (derivato) della Regione non stanno sullo stesso livello e che, se
lo Stato potesse ricorrere avverso le leggi regionali soltanto per il vizio di incompetenza,
entrerebbero in vigore leggi regionali costituzionalmente illegittime, difficilmente impugnabili
in via incidentale innanzi alla Corte.

Le decisioni della Corte costituzionale; i tipi di sentenza


La Corte costituzionale giudica in via definitiva con sentenza. Tutti gli altri provvedimenti di sua
competenza sono adottati con ordinanza.
Vediamo, dunque,come la Corte può decidere in merito alla questione di costituzionalità delle
leggi e con quali provvedimenti.
1) Ordinanza: la Corte ritiene inammissibile la questione, senza quindi entrare nel merito,
per mancanza dei requisiti soggettivi per poter proporre la questione (ad es. non è stata
sollevata da un giudice) o oggettivi, oppure per mancanza dei requisiti soggettivi (es.
questione manifestamente infondata, irrilevante per il giudizio in corso), o in relazione a

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questioni procedurali, oppure, ancora, quando la questione aveva natura politica e quindi
riservata al potere discrezionale del Parlamento, in questi casi la Corte non entra nel
merito della questione.
2) Sentenza: la Corte, superato il vaglio delle questioni procedurali soggettive e oggettive
entra nel merito e decide il giudizio.
Analizziamo, ora, quali possono essere le sentenze della Corte costituzionale.
a) Accoglimento: la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale della disposizione di legge
impugnata; in tal caso la stessa Corte dichiara, nei limiti dell’impugnazione, quali sono le
disposizioni legislative illegittime. Essa dichiara altresì, quali sono le altre disposizioni
legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata.
b) Rigetto: la Corte dichiara non fondata la questione di incostituzionalità.
Oltre queste sentenze, la Corte ha, con il tempo, dato vita a nuovi tipi di sentenze, non
espressamente previste dal legislatore:
c) Interpretative di rigetto: la Corte non accoglie l’istanza perché ritiene che
l’interpretazione della disposizione prospettata dal giudice a quo sia erronea in quanto
quest’ultimo o non l’ha interpretata correttamente, facendo quindi sorgere una regola
normativa erronea, oppure non ha interpretato la disposizione in maniera conforme alla
Costituzione, come avrebbe invece dovuto fare. La sentenza della Corte ha valore solo per
le parti in giudizio, ma costituisce un importante riferimento interpretativo per tutti gli
operatori del diritto.
d) Interpretativa di accoglimento: la Corte in questo caso riconosce che il giudice a quo
abbia correttamente interpretato la disposizione, e che questa disposizione, così
interpretata, è incostituzionale, ma per salvare questa disposizione legislativa vieta che
possa essere interpretata nel modo prospettato dal giudice a quo, mentre consente che
possa essere mantenute le altre interpretazioni delle disposizione di legge impugnata.
Oltre le sentenze interpretative, la giurisprudenza della Corte ne ha prodotto altri e diversi tipi, e
cioè le sentenze manipolative, quando, in pratica, la Corte interviene sul testo legislativo
manipolandolo in modo da renderlo conforme alla Costituzione, in tal caso abbiamo le sentenze:
e) Accoglimento parziale: La Corte dichiara illegittima la disposizione, ma solo in certe
parti della stessa, che vengono in pratica eliminate dal testo, lasciando in vita le altre
parti.
f) Additive: la Corte in pratica aggiunge frasi o parole ad una disposizione di legge per
renderla conforme alla Costituzione.
g) Sostitutive: la Corte in pratica sostituisce frasi o parole della disposizione illegittima con
altre frasi o parole in modo da rendere la disposizione conforme alla Costituzione.
Abbiamo poi, ancora:
h) Sentenze monito: la Corte rigetta la questione, ma invita il legislatore a rivedere la
materia in maniera conforme alla Costituzione, in tal caso il monito può giungere fino
alla decisione della Corte di ritenere solo legittima provvisoriamente la disposizione in
modo da spingere il Parlamento a rivedere al più presto la materia ritenuta comunque
incostituzionale.
i) Sentenze di accoglimento additive di principio: la Corte accoglie la questione di
costituzionalità, ma invita il legislatore ad adottare le disposizioni legislative necessarie
per fare in modo che la sentenza possa pienamente operare.

I conflitti di attribuzione
Possono essere di due tipi:
1) Conflitto di attribuzioni tra i poteri dello Stato, tra poteri, quindi appartenenti allo stesso
soggetto;
2) Conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni o tra Regioni.

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In questi casi, dunque, non è in discussione una legge dello Stato o della Regione, ma si adisce la
Corte costituzionale per delimitare la sfera di attribuzioni dei poteri dello Stato o delle Regioni.

Conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato. Secondo l’art. 37 della legge87 del 1953: “Il
conflitto tra poteri dello Stato è risoluto dalla Corte costituzionale se insorge tra organi
competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono e per la
delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali”.
In relazione ai soggetti dell’azione, il riportato art. 87 stabilisce che sono legittimati gli “organi
competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono”.
Di conseguenza bisognerà verificare due condizioni:
1) quali siano i poteri dello Stato;
2) quali siano gli organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui
appartengono.
In merito al primo punto sono poteri dello Stato:
1. il potere legislativo;
2. il potere esecutivo;
3. il potere giurisdizionale;
Ed ancora, oltre i tre poteri tradizionali
4. Presidente della Repubblica;
5. Corte Costituzionale.
6. Cnel
In relazione agli organi legittimati nel giudizio relativo al conflitto di attribuzioni si osserva che
poiché sono coinvolti soggetti che partecipano all’attività decisionale a vario titolo, non è forse
possibile individuare a priori un elenco, tanto che è stata avanzata l’ipotesi che il concetto di
potere dello Stato è molto vicino a quello di attribuzione, nel senso che sono da considerare
“poteri dello Stato” tutti coloro cui sia affidata un’attribuzione direttamente o indirettamente
riconducibile alla Costituzione, come ad es. i promotori del referendum abrogativo.
Nei casi più comuni abbiamo questa situazione:
1. Il potere legislativo---> Senato e/o Camera dei deputati, anche attraverso deliberazioni
prese in commissione.
2. il potere esecutivo--->Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dei ministri, i
singoli ministri (in quanto al vertice del Ministero), il ministro della giustizia in relazione
alle questioni relative alla giustizia.
3. il potere giurisdizionale---> si tratta di un potere senza una netta struttura gerarchica,
per cuirisulta difficile verificare quale sia l’organo che esprima la volontà del potere in
via definiva; di conseguenza anche un singolo giudice potrà essere legittimato a
partecipare al conflitto.
4. Presidente della Repubblica---> lo stesso Presidente
5. Corte Costituzionale---> la stessa Corte
6. Cnel---> lo stesso Cnel
Nel caso in cui il conflitto sia tra organi appartenerti allo stesso potere (ad es. tra due ministri)
la risoluzione del conflitto dovrà trovarsi all’interno dello stesso potere (conflitto di
competenza), ma comunque bisognerà guardare al caso concreto, cioè verificare se il conflitto
interno sia comunque riconducibile a un conflitto di attribuzioni riconducibili alla Costituzione o
a leggi costituzionali (ad es. il Presidente del Consiglio revoca un ministro) o meno (ad es. il
Ministro degli interni contesta al Ministro della giustizia la competenza ad occuparsi dell’ordine
pubblico).
Oggetto del conflitto. Abbiamo due casi fondamentali:
1. Un organo rivendica un potere che è stato usurpato da altro organo (c.d.
rivendicazione del potere usurpato);

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2. Un organo usa un potere che gli è legittimamente riconosciuto, ma lo usa in modo tale
da impedire o menomare l’uso di un altro potere spettante a diverso (cattivo uso del
potere, ad es. il Presidente della Repubblica immotivatamente non promulga una legge
approvata dal Parlamento).
Il conflitto può essere determinato da un atto ma anche da un fatto come anche un'omissione,
come nell’esempio riportato la mancata promulgazione da parte del Presidente della
Repubblica.
L’interesse ad agire nasce dalla (lamentata) lesione concreta del potere, mentre non vi sarebbe
tale interesse se lo stesso ricorrente si rivolgesse alla Corte costituzionale paventando la
possibilità del conflitto.
Il giudizio si articola in due fasi:
1. fase preliminare sull’ammissibilità del ricorso--->La Corte decide con ordinanza in camera di
consiglio sulla ammissibilità del ricorso dove si verificano i presupposti necessari all’azione,
materia del conflitto e legittimazione dei ricorrenti.
2. giudizio di merito---> si svolge tra i soggetti individuati nell’ordinanza che ammette il ricorso
(se la Corte ritiene che esiste la materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua
competenza dichiara ammissibile il ricorso e ne dispone la notifica agli organi interessati).

Il conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni e tra Regioni


La materia è disciplinata dall’art. 39 della legge87 del 1953, secondo cui: “Se la Regione invade
con un suo atto la sfera di competenza assegnata dalla Costituzione allo Stato ovvero ad un’altra
Regione, lo Stato o la Regione rispettivamente interessata possono proporre ricorso alla Corte
costituzionale per il regolamento di competenza. Del pari può produrre ricorso la Regione la cui
sfera di competenza costituzionale sia invasa da un atto dello Stato”.
Come si vede non si tratta di conflitti tra organi, ma tra enti diversi, tanto che si parla di conflitti
intersoggettivi, in contrapposizione ai precedenti dove si parla di conflitti interorganici.
Il conflitto ha ad oggetto un qualsiasi atto dello Stato o della Regione, ma non gli atti legislativi
dove vi è la previsione dell'art. 127 Cost..
Legittimati possono essere solo lo Stato o le Regioni, quindi, a differenza del caso precedente, si
tratta di un giudizio a parti predeterminate.
L’oggetto del conflitto può riguardare l’usurpazione del potere o il cattivo uso dello stesso, come
nel caso di conflitto tra i poteri dello Stato.
Il termine per produrre ricorso è di 60 gg. a decorrere dalla notificazione o pubblicazione ovvero
dall'avvenuta conoscenza dell’atto impugnato.Il ricorso deve essere proposto per lo Stato dal
Presidente del Consiglio dei ministri o da un Ministro da lui delegato e per la Regione dal
Presidente della Giunta regionale in seguito a deliberazione della Giunta stessa.
Il ricorso per regolamento di competenza deve indicare come sorge il conflitto di attribuzione e
specificare l’atto dal quale sarebbe stata invasa la sfera di competenza, nonché le disposizioni
della Costituzione e delle leggi costituzionali che si ritengono violate, e l'esecuzione degli atti che
hanno dato luogo al conflitto di attribuzione fra Stato e Regione ovvero fra Regioni può essere in
pendenza del giudizio, sospesa per gravi ragioni, con ordinanza motivata, dalla Corte.

Il giudizio sull’ammissibilità della richiesta del referendum abrogativo

Il procedimento
Si tratta di un procedimento non contenzioso, nel quale, cioè, non esistono parti. La sentenza che
dichiara l’inammissibilità della richiesta del referendum ha efficacia limitata al caso deciso;
pertanto, qualora fosse successivamente richiesto un referendum abrogativo della medesima
legge, la Corte dovrà nuovamente pronunciarsi.

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Il giudizio sulle accuse

Il procedimento
Nei giudizi di accusa (alto tradimento o attentato alla Costituzione) contro il Presidente della
Repubblica intervengono, oltre i giudici ordinari della Corte, sedici membri tratti a sorte da un
elenco di cittadini aventi i requisiti per l’eleggibilità a senatore, che il Parlamento in seduta
comune compila ogni nove anni mediante elezione con le stesse modalità per l’elezione dei
giudici ordinari. Il Collegio giudicante deve, in ogni caso, essere costituito da almeno 21 giudici,
dei quali i giudici aggregati devono essere in maggioranza. Il Presidente della Corte
costituzionale provvede, direttamente o delegando giudici della Corte, al compimento di
indagine necessari, ivi compreso l’interrogatorio dell’imputato, nonché alla relazione.
Nelle votazioni per la deliberazione della sentenza, il Presidente della Corte raccoglie i voti e in
caso di parità di voti prevale l’opinione più favorevole all’accusato. Nel pronunciare sentenza di
condanna, la Corte determina le sanzioni penali nei limiti del massimo di pena previsto dalle
leggi vigenti al momento del fatto, nonché le sanzioni costituzionali, amministrative e civili
adeguate al fatto.

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PARTE QUARTA
LE LIBERTA’ E LE AUTONOMIE

Capitolo I
LE LIBERTA’

Sezione I
IL PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA

L’eguaglianza formale
L’art. 3 Cost., stabilendo al primo comma che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono
uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni
politiche e di condizioni personali e sociali”, pone il principio della uguaglianza giuridica dei
cittadini (uguaglianza formale) intesa come regola fondamentale dello Stato di diritto.
Il secondo comma, assegnando allo Stato il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale che di fatto limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, sancisce, invece,
l’aspirazione all’uguaglianza di fatto (o uguaglianza sostanziale).
Il principio di eguaglianza formale ha trovato riconoscimento per la prima volta nelle
Costituzioni ottocentesche, nelle quali era inteso nel senso di eguale soggezione di tutti dinnanzi
al diritto, senza distinzioni legate al titolo, al grado o all’appartenenza ad una determinata
classe sociale o alla posizione di autorità rivestita.
Il riconoscimento della pari dignità sociale comporta che tutti i “poteri” e le “autorità”, come la
pubblica amministrazione o il potere giudiziario, sono egualmente soggetti al diritto e alla legge.
Si pensi all’art. 101 Cost. che impone la soggezione dei giudici alla legge e all’art. 97 Cost. che
prescrive l’imparzialità dell’amministrazione, obbligando i pubblici funzionari al rispetto delle
leggi.
Le Costituzioni moderne hanno ampliato il significato del principio e, in primis, l’art. 3, comma 1
della Costituzione italiana, individua alcuni criteri che non possono formare oggetto di
discriminazione, in quanto riguardano aspetti strettamente connessi all’identità dell’individuo: il
sesso, la razza, la lingua, la religione, le opinioni politiche, le condizioni personali e sociali.
La Costituzione detta, però, norme che prevedono una disciplina differenziata a tutela di alcune
specifiche categorie di individui: si pensi all’art. 6 Cost. che impone di tutelare le minoranze
linguistiche e all’art. 8 Cost. che consente alle confessioni acattoliche di regolare i loro rapporti
con lo Stato sulla base di intese differenziate. In questi casi le peculiarità che caratterizzano tali
categorie di soggetti richiedono un’adeguata disciplina protettiva, al fine di impedire che,
attraverso un livellamento generalizzato di ogni situazione, si finisca per penalizzare proprio i
soggetti più deboli e svantaggiati.
Pertanto, al fine di scongiurare arbitrii da parte del legislatore, il divieto di discriminazioni deve
essere interpretato in una duplice accezione:
a) le leggi, pur se riferite ad un gruppo determinato, non devono avere carattere personale o
singolare, a meno che non esistano giustificate ragioni (si pensi al fenomeno delle leggi
ad personam);
b) il principio d’eguaglianza non vieta in assoluto discipline differenziate, ma solo
discriminazioni irrazionali o irragionevoli, fondate su una delle categorie indicate
dall’art. 3 Cost.

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Il principio di ragionevolezza è un corollario del principio di uguaglianza, elaborato dalla Corte


costituzionale sulla scia di quanto stabilito dalla giurisprudenza anglosassone.
Il principio della “ragionevolezza” esige che le disposizioni normative contenute in atti aventi
valore di legge siano adeguate o congruenti rispetto al fine perseguito dal legislatore: così è da
considerarsi ragionevole una legge a favore della maternità in quanto, anche se crea un
privilegio a favore della donna, lo fa unicamente in relazione alla tutela del ruolo naturale di
madre che solo la donna può assumere.
Si ha, invece, violazione della “ragionevolezza” solo quando un trattamento discriminatorio sia
in contraddizione con il pubblico interesse perseguito.
Il principio in esame costituisce dunque “un limite al potere discrezionale del legislatore” e ne
impedisce un esercizio arbitrario.
La verifica della “ragionevolezza” di una legge, comporta l’indagine sui suoi presupposti di fatto,
la valutazione della congruenza tra mezzi e fini, l’accertamento degli stessi fini. Nel caso si
accerti l’irragionevolezza di una legge, essa potrà essere abrogata, per illegittimità
costituzionale, dalla Corte costituzionale.
Possono insorgere violazioni del principio di ragionevolezza non solo quando viene prevista una
disciplina ingiustificatamente discriminatoria, ma anche quando situazioni diverse vengono
ingiustificatamente parificate davanti alla legge.

L’eguaglianza sostanziale
Il principio di uguaglianza formale costituisce una novità del costituzionalismo e impone al
legislatore un programma politico e giuridico di trasformazione sociale e di garanzia del
mantenimento delle condizioni dello sviluppo delle singole persone.
Tale principio resterebbe una mera enunciazione teorica se l’art. 3 Cost. non prevedesse il
concreto impegno politico, economico e sociale dello Stato finalizzato se non a livellare i salari,
ma almeno a ridurre le distanze reddituali tra gli individui per realizzare le effettive condizioni
di uguaglianza.
Dal momento che non è sufficiente annullare le disparità giuridiche senza poter rimuovere gli
ostacoli di ordine economico-sociale che oltre che di diritto anche di fatto impediscono
l’inserimento e la partecipazione di tutti alla vita del Paese, la nostra Costituzione affida alla
Repubblica il compito di intervenire per rimuovere siffatti ostacoli, affinché tutti godano di pari
opportunità accedere indistintamente a determinate utilità sociali, quali l’istruzione (art. 34), la
salute (art. 32), il lavoro (art. 38).
Ciò significa che il legislatore è tenuto a ricorrere ad azioni positive (affermative actions) per
impedire che la lingua, il sesso, la religione etc., diventino causa di una discriminazione di fatto
compensando situazioni di svantaggio che se perdurano annullano in radice i principi dello Stato
sociale.

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