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Diritto Amministrativo

1 Le fonti del diritto amministrativo


1.1 Le fonti del diritto in generale
Il diritto amministrativo è un ramo del diritto pubblico le cui norme regolano l’attività amministrativa
dello Stato in tutti i suoi aspetti, ovvero sia l’organizzazione della P.A., la sua attività di perseguimento
degli interessi pubblici, nonché i rapporti tra questa e i cittadini.
Secondo il quanto previsto dall’art. 1 delle Preleggi (o norme di attuazione al codice civile del 1942) sono
fonti del diritto:

1. le leggi;
2. i regolamenti ;
3. le norme corporative (abrogate);
4. gli usi.

L'elencazione delle fonti secondo l’art. 1 delle Preleggi ovviamente non è più esaustiva, ma conserva la
propria validità. L'elencazione dell’art. 1 ha valore meramente ricognitivo e va integrato con i dettami
costituzionali.

In generale, fonte del diritto è ogni fatto o atto idoneo a produrre diritto nell’ordinamento giuridico una
norma giuridica. Nell’ambito del diritto amministrativo le norme giuridiche prodotte disciplinano tutto ciò
che riguarda la pubblica amministrazione.

Una prima distinzione è tra:

 fonti di produzione (atti o fatti che innovano il diritto oggettivo);


 fonti sulla produzione (ossia atti che disciplinano i procedimenti formativi delle fonti di produzione).

Poi vi sono le fonti di cognizione, che non creano norme giuridiche ma sono atti che aiutano la conoscenza
delle norme create dalle fonti del diritto. Distinguiamo:

 Fonti di cognizione ufficiali come mezzi di conoscenza privilegiata, tra cui annoveriamo: Gazzetta
Ufficiale della Repubblica Italiana, bollettini ufficiali delle Regioni, Gazzetta ufficiale dell'Unione
europea (GUUE), Raccolta degli atti normativi, testi unici compilativi;
 Fonti di cognizione non ufficiali: mezzi di conoscenza (di fatto) promanati da pubbliche autorità.

Inoltre, si usa distinguere tra:

 fonti – fatto (fonti scritte e contengono manifestazioni di volontà provenienti da organi o enti
pubblici);
 fonti –atto (non scritte, sono comportamenti umani idonei a porre in essere diritto, come per es. la
consuetudine).

Altra distinzione è tra:

 fonti interne (norme giuridiche formate all’interno dello Stato Italiano);


 fonti esterne (norme giuridiche formate da organi esterni allo Stato Italiano ad es. norme
provenienti da organi dell’Unione Europea).

1.2 Classificazione delle fonti


La norma giuridica nell’ambito dell’unicum che è l’ordinamento giuridico, può assumere delle
conformazioni diverse l’una dall’altra, ma quello che più interessa è la collocazione che assume nella
scala gerarchica delle norme. Nessuna norma dell’ordinamento giuridico si può porre in violazione di
un principio sancito dalla Costituzione, perché altrimenti viene meno quella unità inscindibile
dell’ordinamento che deve essere armonico. Quando ciò non si verifica, cioè tutte le volte in cui una
norma di rango inferiore confligge con una norma di grado superiore, si crea una antinomia.

Per rendere più agevole la classifica delle norme giuridiche è utile avere in mente la seguente tabella
riassuntiva da immaginare a forma piramidale:

a) Costituzione e leggi costituzionali;


b) Fonti europee :
 trattati istitutivi;
 regolamenti;
 direttive;
 decisioni;
c) Fonti primarie:
 leggi, decreti legge e decreti legislativi;
 Statuti delle Regioni ordinarie;
 leggi Regionali e leggi provinciali di Trento e Bolzano;
d) Fonti secondarie:
 regolamenti (statali, comunali e provinciali);
 Statuti Enti Locali;
e) Fonti non scritte: consuetudine, usi e prassi.

1.3 Rapporti tra le fonti del diritto. Antinomie


Le antinomie normative sono i contrasti tra le norme.

A seconda del tipo di antinomia da risolvere si applicherà un criterio diverso:

Se il contrasto è tra norme:

 di pari grado gerarchico → si applica il criterio CRONOLOGICO;


 di diverso grado → si applica il criterio GERARCHICO;
 in rapporto di genere / specie → si applica il criterio di SPECIALITA’
 mentre il cd. criterio di competenza è un criterio atto a spiegare com’è attualmente organizzato il
sistema delle fonti, infatti prevede l’applicazione della fonte cui la Costituzione ha assegnato la
competenza per quella materia.

Riassumendo possiamo dire che i criteri più importanti per risolvere le antinomie normative sono:

 criterio gerarchico: lex superior derogat inferiori


 criterio cronologico: lex posterior derogat legi priori
 criterio di specialità: lex specialis derogat generali.

Effetti derivanti dall’applicazione dei criteri di risoluzione delle antinomie:

 Criterio cronologico = abrogazione espressa, tacita o implicita della norma più antica che opera solo
per il futuro, ex nunc (cessazione dell’efficacia);
 criterio gerarchico = annullamento dell’atto impugnato innanzi al giudice con efficacia retroattiva ex
tunc limitata;
 criterio di specialità = deroga alla norma a seconda della scelta dell’interprete, con effetto ex nunc,
che pur se non applicata al caso concreto rimane valida ed efficace.

In alcuni casi è però proprio il legislatore a decidere la prevalenza di una norma speciale.

Tali tecniche di risoluzione dei problemi (rectius antinomie) create dalle norme presenti nell’ordinamento
giuridico sono idonee ed efficaci solo nel rapporto tra fonti del diritto, ma non utili allorquando si tratta di
principi. Nell’applicazione dei principi al caso concreto certamente sarà più consono ricorrere al
bilanciamento degli interessi in gioco, secondo le esigenze di preminenza di tutela. Molto importante è il
rapporto tra fonte primaria e fonte secondaria. La fonte secondaria è strumentale, funzionale e servente
verso la fonte primaria.

1.4 La Costituzione
La Costituzione della Repubblica Italiana è la legge fondamentale dello Stato italiano ed è al vertice nella
gerarchia delle fonti di diritto. La Costituzione è la fonte principale del diritto, cioè quella dalla quale
gerarchicamente dipendono tutte le altre. La Costituzione italiana è una costituzione scritta, rigida (le
disposizioni aventi forza di legge in contrasto con la Costituzione vengono rimosse con un procedimento
innanzi alla Corte costituzionale) votata (perché adottata dall’assemblea costituente eletta dal popolo) e
democratica.

Approvata dall'Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947 e promulgata dal capo provvisorio dello Stato
Enrico De Nicola il 27 dicembre 1947, fu pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 298,
edizione straordinaria, del 27 dicembre 1947 ed entrò in vigore il 1º gennaio 1948. Prima della Carta
Costituzionale del 1 gennaio 1948 era operante lo Statuto Albertino (in vigore per 100 anni).

La Costituzione è composta da 139 articoli e relativi commi (5 articoli sono stati abrogati: 115; 124; 128;
129; 130), suddivisi in quattro sezioni:

 Principi fondamentali (articoli 1-12);


 Parte prima: "Diritti e Doveri dei cittadini" (articoli 13-54);
 Parte seconda: "Ordinamento della Repubblica" (articoli 55-139);
 Disposizioni transitorie e finali (disposizioni I-XVIII).

Per quanto riguarda i principi espressi nella costituzione direttamente o indirettamente rilevanti a livello
costituzionale, che direttamente interessano il diritto amministrativo possiamo così riassumerli:

 Principio di legalità: tale principio, non è richiamato dalla Costituzione in nessun articolo, ma si
rinviene nell’art 1 della L n. 241/90 ed esprime l’esigenza che l’attività dei pubblici poteri trovi il
proprio fondamento nella legge (legalità formale) e che l’agere della P.A. sia svolto in conformità
alla legge (legalità sostanziale).
 Principio di imparzialità: questo principio, unitamente al principio di buon andamento è previsto
dall’ art. 97 della Cost. Sono criteri guida dell’attività amministrativa della P.A. e da tale principio ne
deriva anche la non discriminazione dei soggetti al godimento dei servizi pubblici (art 3 della cost.).
L’imparzialità esprime l’equidistanza dai soggetti (pubblici o privati) con cui la P.A. entra in
rapporto.
 Principio di buon andamento: questo principio esprime l’esigenza che la P.A. agisca
efficientemente, efficacemente, rapidamente, creando minor danno ai destinatari. La differenza è
che un’impresa privata agisce con efficienza se raggiunge un certo profitto, mentre per la pubblica
amministrazione il profitto è rappresentato dall’utile sociale raggiunto attraverso il minor sacrificio
degli interessi dei singoli.
 Principio di autonomia e decentramento: questi due principi sono previsti dall’art.5.
 Principio di sussidiarietà, differenziazione, adeguatezza e leale collaborazione: il conferimento
delle funzioni amministrative secondo le rispettive competenze è regolato da questi principi. Il
principio di sussidiarietà verticale, prevede che le competenze vengano attribuite ai livelli di
governo più vicini ai cittadini, o, secondo il principio di sussidiarietà orizzontale alle formazione
sociali o agli individui.

1.5 Fonti primarie: legge, decreto-legge e decreto legislativo


Subordinate alla Costituzione ed alle fonti europee, vi sono le fonti primarie che nel nostro ordinamento
sono a numero chiuso fortemente tipizzate (legge, decreto legge e decreto legislativo). Oggi, in virtù della
potestà regolamentare affidata dalla legge alle Regioni (a seguito della modif. dell’art. 117 della Cost.), si
può affermare che anche la legge Regionale è una fonte primaria, anzi più correttamente è una legge sub-
primaria perché la Regione ha un teatro operativo limitato allo spazio territoriale di ogni singola Regione.
Infatti ove una regione legiferasse con la pretesa di dettare regole da attuarsi in un’altra regione , si avrebbe
un difetto di attribuzione di potestà legislativa

a) La legge: si distinguono leggi ordinarie del Parlamento che disciplinano materie riservate allo Stato
ex art. 117 della Cost., leggi Regionali e leggi delle Province di Trento e Bolzano;
b) decreto –legge: sono espressione del potere normativo del Governo, limitati nel tempo (60 giorni)
che se non convertiti in legge decadono del tutto;
c) decreti legislativi: espressione del potere legislativo del Governo emanati in base a leggi delega del
Parlamento.

1.6 Fonti secondarie: regolamenti, ordinanze e statuti degli Enti Pubblici


Come anticipato le fonti secondarie sono fonti serventi rispetto alle norme primarie.

La fonte secondaria più importante è il regolamento. La nostra Costituzione non prevede i regolamenti ma
presuppone (ai sensi dell’art.87 Comma V) che il Presidente della Repubblica abbia la potestà di emanarli.
Mentre nell’art. 1 delle Preleggi, nell’ambito delle fonti del diritto sono inseriti i regolamenti. In questo
sistema di legalità diffusa il regolamento ha un rilievo fondamentale e deve essere tipico , cioè previsto per
legge. I tre requisiti fondamentali per individuare un atto normativo sono l’astrattezza, la generalità e la
innovatività.

Il regolamento è una atto formalmente amministrativo (perché emanato da organi del potere esecutivo)
ma sostanzialmente normativo (astrattezza, generalità e innovatività).In generale, negli atti amministrativi a
contenuto generale, le generalità è ex antea, si rivolge ad una pluralità di destinatari aprioristicamente non
determinati (determinati a posteriori), mentre negli atti amministrativi a contenuto normativo ( i
regolamenti) la generalità è sia ex antea che ex postea, ovvero sia la indeterminatezza è perenne, coeva alla
norma che deve seguirla in tutta la sua esistenza. L’essere il regolamento fonte normativa secondaria
comporta, in primis, l’applicazione del principio iura novit curia et ignorantia legis non excusat. Il
regolamento deve essere conosciuto dal giudice (non vi è onere della parte produrre il testo del
regolamento in giudizio in sede di impugnazione diretta o indiretta).Inoltre, l’atto amministrativo può
essere oggetto di ricorso per Cassazione per violazione del regolamento alla legge, mentre ciò non è
possibile per gli atti amministrativi a contenuto generale. Un’altra diversità di regime che esiste tra le due
tipologie di atti amministrativi risiede nell’applicazione dei canoni ermeneutici. L’atto normativo richiede il
ricorso a canoni ermeneutici che sono dettati per le leggi (interpretazione estensiva, analogica, storica,
evolutiva), mentre, invece, gli atti amministrativi a contenuto generale saranno interpretati secondo le
norme di interpretazione dettate dal codice civile in materia di contratti. Nel corso dei decenni sono stati
individuati vari criteri distintivi, ognuno dei quali mostra dei limiti:

 teoria del fine politico, nel senso, che tutte le volte in cui nell’atto amministrativo si persegue il fine
politico, quell’atto sarebbe a contenuto normativo. Tuttavia il fine politico è un criterio di per sé
vacuo ed evanescente, perché non è sempre facile l’individuazione del fine politico;
 criterio formale, l’atto deve contenere la dizione “regolamento” e deve seguire la procedura
dettata dall’art. 17 della L. 400/1988. Ovvero, il regolamento, per essere tale, deve essere
approvato dall’autorità amministrativa (sia essa al livello del Consiglio Dei Ministri o
interministeriale o Ministeriale, previo parere obbligatorio del Consiglio di Stato, il quale deve
essere richiesto e formulato dal Consiglio di Stato entro un lasso di tempo che oggi è di 45 gg
(prima era di 90) seguito dal visto della Corte dei Conti. Questo regolamento deve infine essere
promulgato dal Capo dello Stato e pubblicato nella raccolta delle leggi (Gazzetta Ufficiale);
 criterio sostanziale, la natura dell’atto va accertata avendo riguardo, non solo all’iter
procedimentale, ma anche al suo contenuto (deve avere le tre connotazioni: generalità, astrattezza
e innovatività).

Il fondamento della potestà regolamentare si rinviene nella legge. La principale norma attributiva di tale
potere è l’art. 17 della fondamentale legge n. 400 del 1988 (legge craxiana) che recependo la dottrina
dell’epoca, non la definisce “potestà regolamentare” ma specifica che trattasi di “potestà normativa” del
governo.

Nessun regolamento può essere deliberato dal Governo senza una legge caso per caso di volta in volta. La
legge 400/1988 fornisce soltanto uno schema generale del regolamento, ma non è fonte sulla produzione,
altrimenti avrebbe potere normativo, che, secondo l'articolo 70 della Costituzione, è proprio del
Parlamento.

Il regolamento (ex art 17 della L. n. 400/1988):

 non può mai derogare o contrastare con la costituzione;


 non può inoltre dettare norme in contrasto con disposizioni di legge e non può disciplinare materie
coperte da riserva di legge;
 non può contrastare con fonti comunitarie;
 non può mai derogare al principio di irretroattività;
 non possono contenere sanzioni penali;
 deve essere rispettato il regolamento emanato da un autorità superiore rispetto a quello emanato
da un autorità inferiore.
Il potere regolamentare rappresenta il momento di cerniera tra potere legislativo e potere amministrativo,
ovvero sia potere legislativo (del Parlamento) che viene conferito alla pubblica amministrazione. Cioè la
possibilità, per la pubblica amministrazione chiamata a dare attuazione alla norma, di formulare, di dare
vita ad una legislazione di dettaglio a seconda delle modalità attuative.

La tipologia del regolamento è in funzione del messaggio normativo, la fonte secondaria è servente rispetto
alla norma primaria. Possiamo distinguere:

 Regolamenti esecutivi (di leggi, di decreti legislativi nonché di regolamenti comunitari), servono per
eseguire una legge senza lasciare spazi di manovra al potere esecutivo;
 Regolamenti attuativi ed integrativi (di leggi di decreti legislativi recanti norme di principio), in tal
caso il regolamento sarà molto più complesso , in quanto avrà spazio di manovra molto più ampio,
perché la norma primaria è a maglie larghe;
 Regolamenti indipendenti, dove la legge nulla fissa (in materie non disciplinate da leggi o da atti
aventi forza di legge);
 Regolamenti di organizzazione, concernenti il funzionamento della P.A.,
 Regolamenti di delegificazione, che sono dei regolamenti ove per volontà del potere legislativo sarà
il potere esecutivo a legiferare ove ritiene che in una determinata materia la legge non potrebbe
risolvere i problemi. I regolamenti vanno a sostituirsi, abrogandola, ad una legge. Il regolamento di
delegificazione trova la sua definizione nell’art. 17, co. 2, della legge n. 400/1988 che consente al
legislatore di autorizzare il Governo ad emanare regolamenti capaci di disciplinare una intera
materia, derogando, modificando o abrogando norme primarie, purché operino in materie non
coperte da riserva di legge assoluta e che l’abrogazione sia disposta dalla legge autorizzatrice, a
decorrere dal momento della entrata in vigore dei regolamenti.

Giudizio impugnatorio dei regolamenti:

 Innanzi al Giudice Ordinario : il sindacato di legittimità dei regolamenti avviene incidentalmente e il


G.O. nel decidere il caso concreto può non tenere conto del regolamento illegittimo (ex art 5 L.A.C.
ha il potere di disapplicare gli atti amministrativi);
 Innanzi al Giudice Am ministrativo , sono suscettibili di sindacato da parte del giudice
amministrativo secondo le regole del processo relativo agli atti amministrativi. Ciò implica il potere
demolitorio del giudice previa azione del soggetto interessato secondo i termini perentori di
decadenza. Ma è bene precisare che l’impugnativa del regolamento in maniera diretta, prima
ancora che venga emanato il provvedimento, è eccezionale e difficilmente individuabile a priori. Nel
caso di disposizioni direttamente lesive la dottrina (Garofoli- Ferrari – Caringella) distingue tra
volizioni – preliminari che regolamentano l’azione della P.A., quindi è necessario attendere
l’emanazione dell’atto e procedere alla doppia impugnazione (provvedimento e regolamento) e
volizioni - azioni, ossia quelle che si rivolgono direttamente ai privati e sono immediatamente
impugnabili senza attendere l’emanazione dell’atto.

Le ordinanze:

 sono fonti (secondarie) del diritto, quindi hanno carattere normativo;


 le ordinanze impongono ordini e possono anche creare obblighi o divieti;
 non sono definite dal legislatore, è un concetto ampio che varia anche dal punto di visto del
soggetto che le emana;
Si distinguono:

 le ordinanze di necessità ed urgenza, emanate da autorità amministrative in base ad una


specifica previsione normativa, vengono emanate in circostanze eccezionali, (di urgenza e
necessità) e sono provvedimenti di contenuto atipico. La loro efficacia è limitata nel tempo e
debbono essere adeguatamente motivate e pubblicizzate;
 le ordinanze per casi eccezionali di particolare gravità, come quelle per catastrofi nazionali,
calamità pubbliche, per la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico, ecc.

Gli statuti degli Enti Pubblici

Lo statuto di un ente locale tende a dare le linee fondamentali che l’Ente deve seguire nell’esercizio
dell’attività amministrativa e molto discussa è la loro qualificazione e collocazione nella gerarchia delle
fonti.

Varie sono le tesi sostenute dalla dottrina sulla natura degli statuti:

 Una prima tesi, desumeva la natura primaria della fonte secondaria sulla nuova formulazione
dell’art. 114 Cost., svincolata così da ogni logica gerarchica nei confronti delle fonti legislative e in
grado di trarre direttamente dalla carta costituzionale contenuti e disciplina procedimentale;
 Tesi delle cd regole legislative costitutive , tesi che riconosce la necessità di una legge statale che
disciplini i contenuti ed il procedimento di formazione dello statuto; la legge è chiamata ad istituire
un’area competenziale in capo ad un’altra fonte (quella statutaria), ma è tenuta in seguito al
rispetto di quest’ambito di competenza non potendo abrogare, sostituire o modificare i singoli atti
(ed i rispettivi contenuti normativi) che ne sono espressione;
 Tesi delle minicostituzioni, secondo tale tesi giurisprudenziale, basata sulle sentenze del 2004
(n.372, n. 378 e n. 379) che ha detto, ripetuto e ribadito che gli statuti regionali non sono carte
costituzionali, ma fonti a contenuto riservato e specializzato e che, per conseguenza, le eventuali
disposizioni statutarie programmatiche che si spingono al di là del contenuto statutario necessario
hanno una valenza politica o culturale ma non certo giuridica, si potrebbe pensare che la questione
sia ormai superata.

Nonostante le incertezze, la tesi prevalente sostiene, però, che gli statuti degli enti locali, si collocano tra le
fonti secondarie.

Fonti secondarie dubbie

Con certezza oggi si può affermare che regolamenti, ordinanze e statuti degli enti Pubblici sono fonti
secondarie. Esistono, tuttavia, alcuni atti normativi la cui collocazione tra le fonti secondarie è ancora oggi
discussa.

Sono fonti secondarie dubbie:

 i bandi militari, sono provvedimenti emanati dal Comandante Supremo delle Forze Armate o dai
Comandanti di grandi unità terrestri, navali o aeree, in caso di necessità (guerra o emergenza
nazionale);
 i provvedimenti prezzo e dei tariffari: con provvedimento la pubblica amministrazione determina
in modo unilaterale il prezzo o la tariffa di beni e servizi offerti.
 i piani regolatori generali, strumento di pianificazione territoriale, disciplinati dagli art. 7 e ss. dalla
L. urbanistica n. 1150/1942. Tale strumento ha un duplice contenuto in quanto contiene, norme di
zonizzazione (territorio diviso in zone omogenee) e norme di localizzazione (individuazione delle
aree da destinare ad opere pubbliche, previa espropriazione dei terreni). Le tesi sulla natura dei
PRG sono tre:
1) natura regolamentare, per tale funzione di programmazione – pianificazione del territorio
per le norme generali ed astratte;
2) atto amministrativo generale perché i destinatari sono individuabili a posteriori;
3) atti cd. misti , tesi accolta dalla dottrina maggioritaria in quanto basata sulla distinzione tra
normative e clausole con prescrizioni concrete;
 le Carte dei Servizi Pubblici, i gestori dei servizi pubblici al fine di tutelare gli utenti predispongono
una serie di prescrizioni nelle quali a livello contenutistico descrivono la qualità della prestazione
erogata agli utenti. Solo le Carte dei Servizi redatte da enti pubblici sono provvedimenti
amministrativi.

1.7 Consuetudini usi e prassi


La consuetudine è una fonte del diritto non scritta.

Secondo la dottrina tradizionale, essa consta di due elementi:

 materiale (l’usus o diuturnitas);


 soggettivo (l’opinio iuris ac necessitatis), ancorché oggettivamente verificabile.

Per usus si intende la reiterazione di un determinato comportamento da parte di una collettività. L’opinio
iuris ac necessitatis è, invece, la convinzione diffusa che quel comportamento sia non solo moralmente o
socialmente, ma giuridicamente obbligatorio.

Per quanto riguarda la collocazione attuale della consuetudine sul piano delle fonti del diritto, parte della
dottrina, basandosi sulla formulazione dell’art. 8 disp. prel. c.c. gli usi avrebbero efficacia solo in quanto
richiamate da leggi o regolamenti, quindi si ritiene che la consuetudine abbia una rilevanza limitata.

La consuetudine in tanto è validamente una fonte del diritto, in quanto richiamata da leggi scritte (c.d.
secundum legem) essendo vietate, invece, quelle che disciplinano materie non disciplinate da leggi scritte
(c.d. praeter legem) e, a maggior ragione, quelle che disciplinano alcune materie in difformità con le leggi
scritte (c.d. contra legem).

Dalla consuetudine vera e propria vanno distinti gli usi, ai quali si riferisce anche il cod. civ. (articoli 489,
580, 582, 1124, 1134, 1135, 1505, 1608, 1609, 1610, 1654, 1656).

Gli usi consistono in una cosciente e prolungata ripetizione di atti volontari ed hanno in comune con la
consuetudine solo l'elemento di fatto della costante e uniforme ripetizione di una serie di atti, ma se ne
distinguono, sia perché non occorre l'elemento della generalità, potendo l'uso restringersi alla pratica di
due persone, sia per l'elemento interno, il quale deve consistere non già nell'opinio necessitatis seu iuris,
ma solo la volontà di seguire un precedente.

La loro forza vincolativa si fonda sulla presunzione di volontà della quale possono far parte e si dicono,
perciò, usi interpretativi o, meno esattamente, usi di fatto, usi di affari, e hanno valore come mezzo di
interpretazione della volontà delle parti.
Prassi: Nell’ordinamento giuridico ci sono norme interne che disciplinano i comportamenti della pubblica
amministrazione da tenere rispetto ad una determinata materia o forniscono un interpretazione rispetto ad
una norma, come le circolari ministeriali e quelle dell’Agenzia delle Entrate, le raccomandazioni di organi
competenti, i pareri pro veritate ecc.).

Esse sono delle interpretazioni o dei punti di vista su aspetti dei testi legislativi che formano la dottrina e
contribuiscono a risolvere aspetti pratici, ma non hanno un carattere obbligatorio.

La Prassi Amministrativa: non è fonte del diritto, ma insieme di comportamenti tenuti nell’utilizzo
quotidiano dei comportamenti della PA. Non è un atto normativo ma può essere invocata per mancanza di
coerenza che si traduce in censura dell’attività amministrativa della PA. La violazione della coerenza può
essere sintomo di cattivo esercizio della funzione amministrativa.

1.8 Norme interne e circolari


Con il termine ”circolare” in passato si intendeva quel comando che un organo superiore impartiva a tutti
gli uffici ad esso sottoposti. Poiché l’organo superiore era quasi sempre un ministro (ma ancor prima
utilizzato nell’ambito militare), e gli uffici sottoposti erano numerosi, il comando tendeva ad assumere il
carattere di generalità e anche quello dell’astrattezza e quindi veniva ricondotta tra le fonti del diritto
secondarie.

Oggi è pacifico che le circolari non sono fonti del diritto, sono fonti delle c.d. “norme interne”, ossia di
quelle norme valevoli esclusivamente nell’ambito dell’ordinamento amministrativo e si alternano varie tesi:

a) tesi dell’autonomia dell’istituto : secondo tale impostazione le circolari sarebbero norme interne;
b) tesi contraria all’autonomia, secondo tale tesi le circolari sono semplici strumenti di comunicazione
e non vengono considerate una figura autonoma.La loro natura è di semplice strumento di
comunicazione per il quale la circolare, non è altro che una misura di conoscenza, dai contenuti più
vari, ma non un atto amministrativo, ne un atto normativo.

Maggiori problemi creano le circolari interpretative emanate dall’Agenzia delle Entrate le quali se
comportano un obbligo dell’ufficio accertatore di adeguarsi e conformarsi al loro dettato, ma ciò non può
altrettanto dirsi nei confronti dei contribuenti.

Le tipologie di circolari più importanti sono:

1) le Circolari interpretative: con le quali gli organi di vertice dell’amministrazione nell’uniforme


applicazione del diritto obiettivo, indicando agli uffici sottoposti quale sia, secondo loro,
l’interpretazione corretta delle norme in questione
2) Circolari normative: reca precetti da parte dell’organo sovraordinato. Deve trattarsi, ovviamente,
dell’esercizio di poteri discrezionali, perché se ci si trova di fronte ad attività vincolate, l’ufficio
sovraordinato non potrà emanare circolari interpretative.
3) Circolari informative: attraverso queste, l’organo emittente si limita a comunicare agli uffici fatti o
notizie che ritiene utili per l’espletamento dei compiti
4) Circolare intersoggettiva: particolarità di questa circolare è che non proviene dall’organo superiore,
ma da altra autorità sprovvista del predetto potere di supremazia;
5) Circolare regolamento: tale circolare non è idonea ad avere effetti esterni, non è fonte del diritto e
come tale è sprovvista del carattere vincolante.
Le circolari non hanno quindi carattere normativo, ma rappresentano lo strumento mediante il quale
l’Amministrazione fornisce indicazioni in via generale ed astratta in ordine alle modalità con cui dovranno
comportarsi in futuro i propri dipendenti ed i propri uffici. Rientrano dunque, a differenza dei regolamenti,
nel genus degli atti interni dell’Amministrazione e possono avere diverso contenuto, potendo dettare
disposizioni sull’organizzazione degli uffici, dare semplice notizia di determinazioni adottate da organi
superiori, notificare ordini interni o partecipazioni, diffide, ecc.” (T.a.r. Basilicata – Potenza, sentenza 28
marzo 2000, n. 197). La circolare non vincola l’amministrazione ricevente l’atto, ma nemmeno l’autorità
giurisdizionale.

La recente sentenza della V Sezione del Consiglio di Stato n. 7521 del 2010 ha ribadito un indirizzo già
consolidato in giurisprudenza, stabilendo che tali atti sono diretti agli organi ed uffici periferici, ovvero
sottordinati, e non hanno di per sé valore normativo o provvedimentale o, comunque, vincolante per i
soggetti estranei all'amministrazione, onde i soggetti destinatari degli atti applicativi di esse non hanno
alcun onere di impugnativa, ma possono limitarsi a contestarne la legittimità al solo scopo di sostenere che
gli atti applicativi sono illegittimi perché scaturiscono da una circolare illegittima che avrebbe, invece,
dovuto essere disapplicata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.5.2005, nr. 2768). Ne discende che una circolare
amministrativa contra legem può essere disapplicata anche d'ufficio dal giudice investito dell'impugnazione
dell'atto applicativo di essa (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 10.4.2003, n. 1894).e tale è sprovvista del carattere
vincolante.

1.9 Diritto amministrativo comunitario


Le fonti del diritto europeo, nella gerarchia delle fonti, sono norme sottoposte alla Costituzione.

Da molti decenni continua il processo di integrazione tra i due ordinamenti, quello italiano e quello
comunitario, oggi europeo, con prevalenza del diritto comunitario rispetto a quello nazionale, orientato
verso “un’amministrazione comune dell’ordinamento europeo” (CHITI), non come un sistema
amministrativo scomposto e disorganico ma caratterizzato da una cd. co-amministrazione.

Infatti, l’attuazione del diritto amministrativo europeo non avviene direttamente ma mediante l’apparato
nazionale e le diverse istituzioni da esso composto. Sul punto, sovviene la necessità, senza alcuna pretesa di
essere esaustiva sull’argomento, di citare il cd. principio di cedevolezza, che consente allo Stato, unico
responsabile nei confronti dell’Unione Europea, di tutelarsi da eventuali sentenze di condanna per
inadempienze dovute alle Regioni, intervenendo in anticipo con provvedimenti legislativi o atti regolamenti.

L’ordinamento giuridico europeo promuove lo sviluppo dell’Unione Europea e regola i rapporti tra questa e
gli stati membri attraverso i suoi organi, con regole ed istituti proprio del diritto comunitario.

Le norme del diritto comunitario disciplinano i rapporti innanzitutto fra Unione Europea e singolo Stato
membro e, in secondo luogo, fra cittadino e Stato membro, avendo le norme di diritto comunitario un
effetto diretto e anche una primazia rispetto alle norme di diritto interno.

Ovviamente alcuni concetti ed istituti conosciuti nel nostro ordinamento non corrispondono agli stessi
istituti operanti nell’ambito dell’Unione Europea. Lo stesso concetto di pubblica Amministrazione è inteso
in senso lato, in quanto, non vi è in tale ordinamento una netta separazione dei poteri e dei compiti degli
organismi comunitari.

L’ordinamento comunitario è composto da una serie di autorità e istituzioni, tra cui Consiglio Europeo,
Commissione Europea, Parlamento Europeo, ma col passare del tempo abbiamo assistito ad una serie di
proliferazione di agenzie e comitati che pongono problemi di collocazione degli atti emanati, nel sistema
delle fonti europee.

Il problema rispetto alle fonti si ha perché le fonti del diritto comunitario sono atipiche e non gerarchizzate,
non rigidamente individuate, come invece accade nel nostro ordinamento interno.

Unico punto fermo è che la Commissione Europea è l'organismo preposto allo svolgimento di funzioni
amministrative o esecutive. Non è come il Consiglio Dei Ministri (interno), in quanto la Commissione
Europea non svolge solo funzioni esecutive ma anche funzioni normative.

Una importante distinzione è tra:

 Fonti di primo grado = Diritto comunitario originario, che comprende i trattati dell’unione (tutti,
anche quelli istitutivi della Comunità), che contengono diposizioni vincolanti per le istituzioni
comunitarie e che non possono essere oggetto di interventi giurisdizionali;
 Fonti di secondo grado = Diritto comunitario derivato, cioè tutte quelle norme giuridiche emanate
dalle istituzioni comunitarie. Si distinguono i cd atti tipici, che comprendono regolamenti, direttive,
decisioni, e pareri, nonché atti atipici, tra cui le richieste, pareri che sono atti interni delle istituzioni.
 Fonti complementari = diritto internazionale, principi e giurisprudenza della Corte di giustizia. Tali
fonti hanno permesso alla Corte di colmare i vuoti lasciati dal diritto primario o derivato. I principi
inerenti al diritto amministrativo più importanti del diritto europeo sono:
o Principio della certezza del diritto;
o Principio di proporzionalità dell'azione amministrativa;
o Principio dell'affidamento dei terzi in buona fede;
o Principio di sussidiarietà;
o Principio di leale cooperazione;
o Principio di legalità;
o Principio di non discriminazione
o Principio dell'effettività e non discriminatorietà della tutela giurisdizionale;
o Principio di solidarietà tra gli Stati membri;
o Principio della preferenza comunitaria;
o Principio del mutuo riconoscimento;
o Principio della diretta applicabilità del Diritto comunitario;

Fonti di primo grado sono i trattati e i vari Trattati susseguiti nel tempo sono: - 1957 Trattato di Roma -
1986 Atto Unico Europeo - 1992 Trattato di Maastricht -1997 Trattato di Amsterdam - 2000 Carta di Nizza -
2004 Costituzione Europea (fallimento per la bocciatura di Francia e Olanda) - 2007 Trattato di Lisbona.

Nel 2004 l'ambizione era quella di andare avanti rispetto alla trattatistica. Con la Costituzione Europea,
si voleva individuare un'unica Carta dei diritti per tutti gli Stati membri aderenti all'Unione Europea.
L'idea della Costituzione non ha funzionato e si è ripiegato sul Trattato di Lisbona entrato in vigore nel
2009, che per molti versi è più incisivo, perché ha recepito moltissimi principi che prima non erano
stati recepiti, ma è pur sempre un Trattato. Con il trattato di Lisbona la confusione tra Unione Europea
e Comunità Europea non esiste più.
Gli atti normativi che possono essere emanati dalle istituzioni europee si distinguono in atti vincolati e
sono regolamenti, direttive e decisioni, mentre gli atti non vincolanti sono i pareri e le
raccomandazioni.

I regolamenti sono atti a portata generale, obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente applicabili
(art 288 TFUE). Quindi caratteristiche proprie dei regolamenti comunitari sono:

 la portata generale, in quanto il regolamento non è indirizzato a destinatari specifici, ma è


destinato a produrre i propri effetti nei confronti di un numero indeterminato e
indeterminabile di destinatari;
 obbligatorio in tutti i suoi elementi, anche se molto spesso i regolamenti necessitano di atti
esecutivi;
 diretta applicabilità in ciascuno Stato membro, in generale tutti i regolamenti spiegano i loro
effetti immediatamente (a differenza delle direttive) in tutti i stati membri al pari delle leggi
nazionali ed entrano in vigore decori 20 gg dalla Pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale Europea.

La direttiva è un atto legislativo non direttamente applicabile, che vincola lo Stato o gli stati membri su
un obiettivo che devono realizzare, ma ciascun paese può però decidere come procedere in
riferimento alla forma o ai mezzi idonei a conseguirlo. Vi è quindi un obbligo di risultato. L’efficacia
delle direttive è un’efficacia mediata, perché creano diritti e obblighi per i singoli soltanto in seguito
all’adozione da parte degli stati singoli. La giurisprudenza riconosce anche un efficacia immediata delle
direttive nel caso in cui lo Stato membro non abbia provveduto a recepire la direttiva entro il termine
stabilito. Nel caso delle cd direttive self-executing, la direttiva impone obblighi precisi a carico dello
stato.

Un esempio tipico è avvenuto con la direttiva sull'orario di lavoro, che stabilisce che i lavoratori non
possono prestare un numero eccessivo di ore straordinarie. La direttiva prevede periodi di riposo
minimi e un numero massimo di ore di lavoro, ma spetta a ciascun paese adottare le leggi per dare
attuazione a questi principi.

Le decisioni hanno portata individuale e sono obbligatorie in tutti i loro elementi.

Infine ci sono le raccomandazioni (che sono esortazioni e moniti) e pareri (espressione di un opinione):
non sono vincolanti per i destinatari.
2 L’attività amministrativa
2.1 La discrezionalità
Con l’espressione attività amministrativa si intende fare riferimento al complesso di tutte le attività
(comportamenti ovvero atti) poste in essere da una pubblica amministrazione, nell’esercizio della propria
funzione, per la cura degli interessi pubblici ad essa affidati. L’attività amministrativa, come si evince da tale
definizione, è qualificata dal fatto di essere vincolata nel fine, nel senso che la pubblica amministrazione è
tenuta a perseguire quel determinato fine pubblico alla cui cura essa è preposta.

Da questa definizione si desume pure che l’attività amministrativa è caratterizzata da una discrezionalità più
limitata rispetto a quella che contrassegna la funzione politica, la quale incontra l’unico limite delle
previsioni costituzionali, infatti la funzione amministrativa deve essere svolta non solo nel rispetto dei
principi costituzionali, ma anche in armonia con la legge ordinaria e gli atti ad essa equiparati, e
nell’esercizio di tale funzione i soggetti pubblici emanano gli atti amministrativi.

La funzione politica, invece, viene realizzata attraverso atti politici o di governo, che, per loro natura, sono
gli atti di suprema direzione dello Stato, liberi nel fine e non assimilabili alla categoria degli atti
amministrativi.

L’attività amministrativa nel perseguire il suo fine istituzionale incontra limiti positivi e limiti negativi. I primi
sono diretti al mantenimento dell’attività stessa nell’ambito dei fini pubblici che l’amministrazione deve
perseguire. I secondi, invece sono quelli volti a conservare l’attività stessa nei limiti della liceità. I limiti,
inoltre, possono essere fissati in modo preciso e puntuale ovvero in maniera più elastica così da lasciare alla
pubblica amministrazione un certo ambito di valutazione. Nel primo caso l’attività dell’amministrazione si
dice vincolata, nella seconda, viceversa, discrezionale. Tale distinzione si coglie sul piano del diverso
rapporto che corre tra la legge e azione amministrativa. Dove infatti la norma attributiva del potere
disciplini in modo puntuale tutti gli aspetti operativi dell’azione amministrativa, l’attività è vincolata, in
quanto l’autorità competente deve adeguarsi integralmente al dettato della legge che identifica tutti gli
elementi del comportamento in cui si estrinseca il potere amministrativo, senza lasciare
all’amministrazione alcun margine di scelta. Tale evenienza ricorre quando la materia in cui sia chiamata ad
intervenire l’amministrazione sia coperta da riserva assoluta di legge. Viceversa quando è lasciato
all’amministrazione il compito di specificarne la portata e di integrarne le lacune a livello operativo,
conferendole un certo margine di apprezzamento e di scelta, l’attività dell’amministrazione è discrezionale,
Ciò si verifica, di regola, allorché il settore di interferenza amministrativa sia coperto da una riserva relativa
di legge.

La facoltà di scelta in cui si estrinseca la scelta discrezionale può concernere l’an ( se emanare o meno il
provvedimento), il quid (quale contenuto darvi) il quando (in quale momento adottare l’atto e il termine di
operatività da assegnargli) e il quomodo (con quale forma e procedimento e metterlo)

L’attività della pubblica amministrazione, pur essendo assolutamente discrezionale, si muove in confini ben
circoscritti dalla legge, per cui non può essere accostata ad un’attività completamente libera, La legge
prevede, infatti, due limiti sempre immanenti alla sua attività: il fine pubblico da perseguire e la causa
giustificativa del potere.
Qualora questi due limiti non siano previsti, neppure in via implicita dalla legge, l’attività non è
amministrativa, ma politica caratterizzata cioè dalla assoluta libertà dei fini pubblici da perseguire.

La dottrina tradizionale (Virga) definisce la discrezionalità come la facoltà di scelta fra più comportamenti
giuridicamente leciti per il soddisfacimento dell’interesse pubblico fissato dal legislatore e per il
perseguimento di un fine rispondente alla causa del potere esercitato. Un’altra dottrina autorevole
(Giannini) parla di ponderazione comparativa di più interessi secondari in ordine ad un interesse primario,
enucleando e distinguendo il momento del giudizio, che si concreta nell’individuazione e nell’analisi dei fatti
e degli interessi sulla base di una istruttoria per la decisione e il momento della volontà, che si caratterizza,
viceversa nella scelta degli interessi prioritari.

E’ importante sottolineare che la sussistenza dei limiti che caratterizza l’esercizio dell’attività amministrativa
discrezionale consente, altresì, di distinguere la discrezionalità amministrativa dall’autonomia negoziale.
Mentre quest’ultima è, infatti, libertà di auto regolamentazione dell’assetto di interessi, senza che
l’ordinamento dia rilevanza ai fini che i privati intendono perseguire, imponendo loro solo limiti esterni di
meritevolezza sociale e liceità, la discrezionalità amministrativa è esercizio di un potere che, in quanto
conferito per il perseguimento di uno specifico interesse predeterminato dal legislatore si caratterizza come
funzionale.

2.2 Rapporto tra discrezionalità e procedimento amministrativo


La discrezionalità per i suoi aspetti propriamente pubblicistici si pone in stretto rapporto con il principio di
procedimentalizzazione dell’attività amministrativa.

L’interesse pubblico affidato alla cura della pubblica amministrazione, in base alla norma attributiva del
potere, non esiste mai solitario, ma convive confliggendo o armonizzandosi con altri interessi pubblici o
privati.

In tale contesto l’ordinamento giuridico chiama l’amministrazione, con l’adozione dell’atto, a dettare la
regola del caso concreto, attraverso la scelta comparativa degli interessi.

Definito primario l’interesse pubblico da perseguire e secondari quelli pubblici e privati con esso
coesistenti, la discrezionalità amministrativa si risolve nella ponderazione comparativa di più interessi
secondari in ordine a un interesse primario.

D’altra parte, la stessa presenza di interessi secondari da tenere in debito conto nella scelta discrezionale fa
sì che la cd. massimizzazione dell’interesse primario, con totale sacrificio di quelli secondari, resta possibile
solo in presenza di eventi straordinari quali, ad esempio, quelli che, mettendo a repentaglio la pubblica
incolumità o, comunque, diritti fondamentali della persona esigono l’adozione di atti d’urgenza.

Di norma, invece, l’amministrazione dovrebbe tendere ad una scelta che miri piuttosto al
contemperamento dell’interesse primario con quelli secondari. In tal senso è la stessa giurisprudenza
quando afferma che il potere discrezionale va sempre esercitato in modo da ottenere la soddisfazione
dell’interesse pubblico con il minor sacrificio possibile di quello privato.

A garantire la correttezza della scelta comparativa è predisposto il meccanismo di procedimentalizzazione


dell’attività amministrativa, non solo con la previsione di puntuali prescrizione attinenti ai modi di acquisire
e ordinare gli interessi, ma anche di quegli strumenti volti ad assicurare la partecipare dei soggetti pubblici
e privati che ne siano portatori.
Secondo la dottrina tradizionale, la discrezionalità amministrativa, consta di due momenti fondamentali,
quello del giudizio e quello della volontà (o scelta). Il giudizio si concreta nell’individuazione e nell’analisi
dei fatti e degli interessi, primari e secondari, sulla base di un’istruttoria da condurre alla stregua dei
principi sanciti dalla legge 241 del 1990.

La scelta, invece, è il momento in cui l’amministrazione, alla luce delle risultanze del giudizio, mediante il
quale ha fissato una mappa degli interessi rilevanti adotta la soluzione che ritiene più opportuna e
conveniente per il miglior perseguimento del fine pubblico primario. Tale scelta deve essere effettuata
sempre nell’ottica del principio di legalità e nel rispetto dei principi di imparzialità e di ragionevolezza. Il
mancato rispetto di questi parametri oltre che la mancata considerazione degli interessi dei soggetti
coinvolti dall’azione amministrativa comporta l’illegittimità dell’atto sotto il profilo dell’eccesso di potere.

2.3 Discrezionalità tecnica


l’espressione discrezionalità tecnica si intende fare riferimento al tipo di valutazione che la pubblica
amministrazione compie quando, per procedere all’esame dei fatti o di situazioni rilevanti per l’azione
amministrativa, è necessario ricorrere a cognizioni tecniche e scientifiche di carattere specialistico.

Come è noto, la discrezionalità tecnica si distingue dalla discrezionalità amministrativa perché, mentre in
quest’ultima la raccolta e l’analisi dei fatti (c.d. giudizio) sono strumentali all’individuazione della scelta più
opportuna per l’interesse pubblico, all’esito della valutazione comparativa fra i vari interessi , la
discrezionalità tecnica, invece, si esaurisce nel momento del giudizio, caratterizzato da profili di tecnicità sul
tipo di malattia, sulla fatiscenza di un edificio ecc. ecc.

In altri termini, ciò che caratterizza tale discrezionalità rispetto a quella amministrativa è data dalla
presenza di una fase di giudizio alla quale tuttavia non si affianca il momento della volontà, ossia della
scelta della soluzione più opportuna attraverso una valutazione degli interessi prioritari, momento tipico,
viceversa, della discrezionalità amministrativa propriamente detta in quanto con un intervento operato in
sede preventiva dal legislatore. La scelta degli interessi prioritari in questo caso risulta già effettuata a
monte.

Infine, la discrezionalità tecnica va distinta anche dall’accertamento tecnico, nel quale vertendosi in tema di
scienze esatte, l’analisi del fatto non può che portare a un risultato obbligato. Pertanto, dove la pubblica
amministrazione si affidi a criteri attinti dalle c.d. scienze esatte, e tali dunque da comportarne una
utilizzazione per natura priva di qualsivoglia margine valutativo o di opinabilità, il provvedimento non potrà
più dirsi adottato sulla base dell’esercizio di discrezionalità tecnica, configurandosi piuttosto come mero
accertamento tecnico (a esempio: la qualificazione di un bene come bellezza paesaggistica)

La discrezionalità tecnica , come è noto, è stata al centro di un intenso dibattito sollecitato dall’esigenza di
limitare l’estensione del sindacato giurisdizionale.

Invero, secondo l’impostazione tradizionale, la discrezionalità tecnica costituisce, al pari della


discrezionalità amministrativa, un’area riservata alla pubblica amministrazione, un territorio al quale
rimane estraneo il sindacato del giudice amministrativo, in quanto le relative valutazioni afferiscono al
merito dell’azione amministrativa .

In particolare secondo tale impostazione, sia le valutazioni tecnico discrezionali, sia le valutazioni
conseguenti all’esercizio del potere discrezionale amministrativo sono di competenza esclusiva della
pubblica amministrazione, pertanto, solo questa può effettuare le relative ponderazioni, essendo,
viceversa, precluso al giudice amministrativo sostituirsi all’amministrazione, nell’uno quanto nell’altro caso,
in sede di verifica del corretto esercizio del potere.

Al pari della discrezionalità amministrativa, anche quella tecnica deve essere esercitata nel pieno rispetto
sia delle regole di legittimità, che delle regole che attengono al merito. Pertanto, come per la discrezionalità
amministrativa, anche l’esercizio della discrezionalità tecnica deve avvenire in ossequio alle regole che
attengono alla legittimità dell’azione amministrativa, sindacabile in sede giurisdizionale, e alle regole
squisitamente tecniche, riconducibili al merito e, quindi, sottratte al sindacato del giudice .

Dunque, dopo una travagliata evoluzione, dalle posizioni originarie, che negavano il sindacato del giudice
amministrativo sulla discrezionalità tecnica, si è pervenuti ad ammettere un sindacato estrinseco, vale a
dire un sindacato volto a valutare la irragionevolezza e l’erroneità della scelta compiuta
dall’amministrazione.

Nell’esercizio di tale sindacato estrinseco, il giudice non si sostituisce all’autorità amministrativa, ma si


limita a verificare dall’esterno la presenza di indizi che denotino un uso non corretto o non sufficientemente
esplicitato della discrezionalità .

Nel caso in cui manchino tali indici sintomatici estrinseci, la correttezza sostanziale della valutazione tecnica
afferente al merito amministrativo, invece, sfugge al sindacato giurisdizionale.

Successivamente, l’assimilazione della discrezionalità tecnica a quella amministrativa è stata sottoposta ad


una revisione critica da parte della dottrina la quale ha evidenziato che queste due forme di discrezionalità
sono diverse.

In particolare, secondo questa dottrina, con la discrezionalità tecnica, non viene compiuta una
comparazione tra interesse pubblico primario e interessi secondari, bensì viene realizzata una valutazione
di fatti, viene effettuato un giudizio sulla base di canoni scientifici e tecnici, che non implica il potere di
scegliere quale sia la soluzione più opportuna per l’interesse da perseguire, dal momento che questa è
stata già individuata a monte dal legislatore.

Questa impostazione dottrinale è stata, poi recepita da una innovativa giurisprudenza che ha ribadito la
diversità dei concetti di discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica. Il Consiglio di Stato , a tal
proposito, ha affermato che “la discrezionalità tecnica non sfugge aprioristicamente al sindacato del giudice
amministrativo, perché essa riguarda un concetto diverso dal merito amministrativo “identificandosi con “le
ipotesi in cui l’operato dell’amministrazione, in relazione a particolari materie, deve svolgersi secondo
criteri, regole e parametri tecnici o scientifici direttamente o indirettamente richiamati dalla norma
giuridica che disciplina il potere”.

Tuttavia, nonostante la ridefinizione del rapporto intercorrente tra discrezionalità amministrativa e


discrezionalità tecnica, non tutti i fautori di tale assimilazione hanno sostenuto la piena sindacabilità delle
scelte tecnico- discrezionali. In merito sono tre gli orientamenti che si contendono il campo.

Un primo orientamento ha escluso il sindacato intrinseco della discrezionalità tecnica, ovvero la possibilità
per il giudice di sostituirsi all’amministrazione . In altri termini, è possibile solo un sindacato estrinseco da
parte del giudice amministrativo limitato alla valutazione della legittimità dell’attività amministrativa.
Un secondo indirizzo ha sostenuto, invece, che al giudice è precluso il sindacato estrinseco sul giudizio
tecnico solo qualora dalla legge risulti che questo giudizio è riservato all’amministrazione. Allorché manchi
una tale previsione legislativa il giudice ben può ripetere la valutazione tecnica .

Un terzo orientamento, muovendo dalla considerazione che le due forme di discrezionalità sono distinte,
ha affermato che il sindacato sugli apprezzamenti tecnici non può che essere più stringente di quello
ammissibile sulla discrezionalità amministrativa. Si è affermato che il sindacato del giudice non può essere
estrinseco, ma intrinseco. Mentre prima il giudice poteva solo valutare “estrinsecamente” l’operato tecnico
della pubblica amministrazione, per verificare se ci fossero errori e anomalie talmente evidenti da non
ripetere le valutazioni tecniche con le cognizioni specialistiche utilizzate dalla pubblica amministrazione
(controllo estrinseco), ora il giudice, secondo la tesi in esame, al fine di verificare la correttezza dell’agire
amministrativo, può ripetere, con lo strumento della consulenza tecnica, le valutazioni e sottoporle ad
indagini utilizzando, appunto, cognizioni tecniche specialistiche.

All’interno di questo orientamento non vi è uniformità di vedute circa l’intensità del sindacato intrinseco
che il giudice può esercitare.

Secondo alcuni si tratterebbe di un controllo intrinseco forte, secondo altri, invece, verrebbe in rilievo un
controllo intrinseco debole. Il primo comporta la sostituzione della valutazione tecnica compiuta nel
processo a quella effettuata dall’amministrazione e si traduce in un potere sostitutivo completo che
consente al giudice di sovrapporre il proprio giudizio tecnico a quello dell’amministrazione . Secondo
questo ragionamento la sfera insindacabile della discrezionalità tecnica si riduce sensibilmente. Il secondo,
invece, porta a censurare solo le valutazioni tecniche che, attraverso un controllo di ragionevolezza della
determinazione amministrativa, sembrano inattendibili sul piano scientifico, ne deriva, pertanto, la
conclusione della non censurabilità della valutazione tecnica ove, anche attraverso la consulenza, si metta
in rilievo una diversità dell’opinione del giudice da quella della pubblica amministrazione, ma non
l’erroneità tecnica di quest’ultima opinione .

L’ammissibilità del sindacato intrinseco debole comporta che la sostituzione è possibile solo quando sia
individuabile un elemento che denoti un non corretto esercizio della discrezionalità tecnica. Se il giudice
considera sufficiente il predetto indizio, annulla la decisione amministrativa, altrimenti, se vi sono elementi
che lasciano margini di incertezza, potrà nominare un consulente tecnico, suo ausiliario, che si sostituisce
all’amministrazione nell’effettuare la valutazione tecnica .

Il riconoscimento di un sindacato intrinseco sulla discrezionalità tecnica viene criticato da una parte della
giurisprudenza secondo cui il sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica non può concretizzarsi
nella sostituzione dell’opinione del giudice a quella espressa dall’organo amministrativo. Il giudice, infatti,
può effettuare solo un controllo esterno di razionalità sulle scelte effettuate dall’amministrazione e non
anche un controllo intrinseco.

2.4 Discrezionalità mista


Con l’espressione discrezionalità mista si è soliti fare riferimento a quelle ipotesi in cui la pubblica
amministrazione dispone allo stesso tempo di discrezionalità tecnica e di discrezionalità amministrativa. In
tale caso, effettuata la verifica tecnica, già di per sé discrezionale (es: valutazione in termini di pericolosità
di una certa infezione, l’autorità procedente non è vincolata all’atto da adottare, ma ha il potere di scegliere
l’atto più idoneo alla cura dell’interesse pubblico (isolamento o abbattimento degli animali infetti).
La presenza di entrambi i profili ha indotto la dottrina a ritenere sussistente un tertium genus di
discrezionalità per così intermedio rispetto alle due più ricorrenti tipologie.

La dottrina contesta tuttavia tale ricostruzione osservando che l’improprietà dell’espressione deriva
dall’equivoco di considerare come afferenti ad un unico potere momenti di valutazione e scelta che,
viceversa, risultano far capo alla stessa amministrazione con riferimento ad uno stesso fatto solo in virtù di
una sua duplice investitura di una discrezionalità amministrativa e di una discrezionalità tecnica.

La dottrina tradizionale riconduce la discrezionalità mista, al pari di quella tecnica, nell’ambito del merito
amministrativo, con la conseguenza di affermarne la insindacabilità.

2.5 Il merito dell’azione amministrativa e rapporti con la discrezionalità


Tradizionalmente il concetto di merito amministrativo è stato collocato in contrapposizione a quello di
legittimità.

Secondo tale impostazione, il merito esprimerebbe la conformità della scelta discrezionale alle regole non
giuridiche di buona amministrazione, intese ad assicurare l’efficienza e l’economicità dell’azione della
pubblica amministrazione. Al contrario, la legittimità concerne la conformità della scelta al paradigma
normativo di riferimento. Non bisogna confondere il merito con la discrezionalità. Il merito, al pari della
legittimità, è un predicato della discrezionalità, in particolare è la parte di fattispecie del potere
discrezionale che rimane effettivamente libera, pur dopo l’osservanza di tutti i criteri e i principi che
vincolano la discrezionalità, il merito quindi, rappresenta la sfera libera dell’azione amministrativa
discrezionale, ossia l’ambito nel quale la stessa, rispettati i limiti interni alla discrezionalità, può svolgersi
senza essere soggetta ad un sindacato giurisdizionale. Infatti, la violazione delle regole di convenienza,
opportunità ed equità in cui si sostanzia il merito non è per legge sindacabile dal giudice amministrativo
(salvi i casi di giurisdizione di merito e ferma restando l’esperibilità del ricorso gerarchico, dove siano
rispettati i limiti di legittimità. Pertanto, nel caso in cui questi limiti non siano rispettati, l’atto discrezionale
sarà sindacabile in sede giurisdizionale, in quanto affetto dal vizio di eccesso di potere. Vizio che costituisce
l’unico ambito di controllo giurisdizionale sull’attività discrezionale.

Il merito, in definitiva, consiste nell’ambito di scelta riservato alla pubblica amministrazione; esso è
sottratto, ad eccezione di alcune ipotesi previste dalla legge, al sindacato del giudice amministrativo.
Tuttavia, ciò non significa che la pubblica amministrazione possa fare quello che vuole: essa quando compie
scelte di merito, deve rispettare le regole che segnano i parametri della sua azione, a cominciare da quelle
costituzionali; le scelte di merito, insomma, pur essendo riservate alla pubblica amministrazione non
possono comunque essere illegittime.
3 Situazioni giuridiche soggettive
3.1 Le situazioni giuridiche soggettive del diritto amministrativo: diritto
soggettivo e interesse legittimo
Per rapporto giuridico si intende ogni relazione fra due o più soggetti, regolata dal diritto. In un rapporto
giuridico, vi è un soggetto attivo titolare di una posizione di vantaggio che può essere un diritto soggettivo,
diritto potestativo o interesse legittimo, e un soggetto passivo titolare di una situazione soggettiva passiva
come ad esempio un obbligo, dovere, onere, soggezione.

Le posizioni che un soggetto assume all’interno di un rapporto giuridico sono le situazioni giuridiche
soggettive.

Le situazioni giuridiche soggettive possono essere:

 attive, quando viene attribuita una posizione favorevole al soggetto che ne è titolare, legittimando
la prevalenza del titolare nei confronti di quella di altri soggetti
 passive quando consistono in posizioni sfavorevoli per il titolare e prevedono la subordinazione del
proprio interesse rispetto a quello di altri soggetti.

Le posizioni soggettive attive sono: il diritto soggettivo, il diritto potestativo, il potere o la potestà,
l’interesse legittimo, l’interesse semplice.

Le posizioni soggettive passive sono: l’obbligo, il dovere, l’onere e la soggezione.

Il concetto di situazione giuridica soggettiva non va confuso con quello di status. La situazione giuridica
soggettiva riguarda specifici rapporti mentre lo status concerne una condizione da cui derivano un
complesso di situazioni giuridiche, attive e passive. Per status si intende la posizione di un soggetto rispetto
a un determinato gruppo (es. l’appartenenza ad una famiglia conferisce al soggetto uno status).

3.2 I poteri o le potestà delle pubbliche amministrazioni


Un’altra situazione giuridica soggettiva attiva è il diritto potestativo.

Il diritto potestativo è la situazione giuridica soggettiva che ha per contenuto il potere di un soggetto
produrre determinati effetti giuridici mediante una dichiarazione unilaterale di volontà, al quale
corrisponde una situazione di soggezione del destinatario tenuto a subire tali effetti nella propria sfera
giuridica.

Il potere di una pubblica amministrazione è quella particolare situazione giuridica soggettiva attiva che
si concreta in un'energia idonea a produrre delle modificazioni nella sfera giuridica altrui,
unilateralmente, con o senza l'assenso dei soggetti interessati.

Una delle definizioni più ricorrenti dei provvedimenti amministrativi è, infatti, che essi sono quegli atti
amministrativi, mediante i quali una pubblica amministrazione - in modo unilaterale, tipico e nominato
– dispone, statuisce, comanda su una situazione giuridica altrui, in maniera immediata e diretta, con
effetti o costitutivi o modificativi o estintivi.
Il potere è attribuito ad una pubblica amministrazione per realizzare un interesse pubblico e non
l’interesse egoistico o individuale della persona che è titolare del potere.

Il potere della pubblica amministrazione ha carattere strumentale, cioè costituisce il mezzo destinato
alla realizzazione di un fine pubblico, di un interesse pubblico, proprio per questa ragione il potere può
anche essere definito una potestà.

I poteri – proprio perché incidono unilateralmente e in maniera immediata e diretta sulle situazioni
giuridiche soggettive altrui – devono trovare fondamento nel principio di legalità.

3.3 La soggezione
La tipica situazione giuridica passiva corrispondente al potere della pubblica amministrazione è la
soggezione.

I soggetti privati subiscono gli effetti modificativi, estintivi, costitutivi dell’esercizio del potere (ad esempio,
l’espropriazione per pubblica utilità determina l’estinzione del diritto di proprietà del privato e questi è in
situazione di soggezione rispetto all’esercizio del potere espropriativo. Ugualmente, i poteri amministrativi
di confisca, sequestro, requisizione, comportano soggezioni dei privati).

Tuttavia, al potere della pubblica amministrazione può corrispondere non soltanto la situazione giuridica
soggettiva passiva della soggezione, ma anche una situazione giuridica soggettiva attiva e di vantaggio del
privato che può assumere o i caratteri del diritto soggettivo oppure i caratteri dell’interesse legittimo.

3.4 Diritto soggettivo


Tra queste situazioni giuridiche soggettive del diritto amministrativo, troviamo il diritto soggettivo,
posizione giuridica soggettiva di vantaggio che l’ordinamento attribuisce ad un soggetto, riconoscendogli
determinate utilità in ordine ad un bene, nonché la tutela degli interessi afferenti al bene stesso in modo
pieno ed immediato. La tutela del diritto soggettivo è affidata al giudice ordinario (art.24, Cost.) e solo in
alcune materie al giudice amministrativo, in base all’art.103 della Costituzione che prevede la cd.
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Il diritto soggettivo dunque è la pretesa direttamente prevista e tutelata dall’ordinamento , a che tutti i
soggetti si astengono da un determinato comportamento verso un dato bene (c.d. diritto assoluto) ovvero a
che un soggetto determinato tenga un dato comportamento positivo o negativo ( c.d. diritto relativo o di
credito).

Si ha diritto soggettivo perfetto, ogni qualvolta, una norma di relazione (diretta a disciplinare
comportamenti intersoggettivi), attribuisca ad un soggetto un potere diretto ed immediato per la
realizzazione di un proprio interesse, a cui corrisponde un obbligo in capo a soggetti determinati o in capo a
tutta la collettività.

Si hanno diritti cd. condizionati quando l’esercizio di essi è sottoposto ad una condizione risolutiva o
sospensiva. Sono ipotesi in cui l’ordinamento acconsenta al sacrificio del diritto un soggetto per la
realizzazione di un vantaggio della collettività, come ad esempio nel caso di espropriazione per pubblica
utilità (D.P.R. 327/2001).

Si distinguono due figure di diritti condizionati:


a) Diritti sostanzialmente condizionati o diritti in attesa di espansione, il cui esercizio è inizialmente
limitato da un ostacolo giuridico, per la cui rimozione è necessario un provvedimento
amministrativo che consenta al diritto di espandersi ed acquistare la sua pienezza. Un esempio è il
diritto di costruire sul proprio fondo, per il cui esercizio occorre il rilascio del permesso di costruire.
b) Diritti risolutivamente condizionati (fenomeno dell’affievolimento dei diritti), che si hanno quando il
diritto, di fronte alla potestà riconosciuta alla p.a. di incidere su di esso affievolisce ad interesse
legittimo. Infatti la pubblica amministrazione nel perseguire i suoi fini, può essere ostacolata da
diritti di privati; in questi caso la legge può attribuirle il potere di sacrificare tali diritti individuali a
vantaggio dell’interesse collettivo, per cui i diritti stesso, davanti a tale potere, affievoliscono ad
interessi legittimi.

3.5 L’interesse legittimo


La situazione giuridica soggettiva per eccellenza del diritto amministrativo è l’interesse legittimo.

L’interesse legittimo è una situazione giuridica individuale che ha trovato riconoscimento nel nostro
ordinamento, con la legge n.5992/1889 istitutiva della IV sez. del Consiglio di Stato. Esso è previsto dalla
nostra Carta costituzionale che lo inserisce accanto ai diritti soggettivi nell’art.24 assicurandogli la massima
tutela davanti alla giustizia amministrativa. Il riferimento all’interesse legittimo viene previsto anche negli
artt. 113 in merito alla possibilità di impugnare gli atti della pubblica amministrazione dinanzi alla
giurisdizione ordinaria o amministrativa.

Infine, l’interesse legittimo viene menzionato nell’art. 103 quando la Costituzione afferma che gli organi
della giustizia amministrativa hanno giurisdizione "per la tutela degli interessi legittimi".

Anche se alcuni articoli della Costituzione citano l’interesse legittimo, nessuno di essi dà una definizione
espressa dell’interesse legittimo. La dottrina si è quindi preoccupata di trovare una definizione a questa
situazione soggettiva. Secondo il Casetta, l’interesse legittimo può configurarsi come quella "situazione
giuridica di vantaggio, costituita dalla protezione giuridica di interessi finali che si attua non direttamente e
autonomamente, ma attraverso la protezione indissolubile e intermediata di un altro interesse del
soggetto, meramente strumentale, alla legittimità dell’atto amministrativo e soltanto nei limiti della
realizzazione di tale interesse strumentale".

Mentre il diritto soggettivo è una posizione autonoma in quanto prevista compiutamente da una previsione
di legge, e non dipende da una pubblica amministrazione, l’interesse legittimo, invece, può essere espresso
in termini di posizione non autonomia. L’interesse legittimo è correlato all’esercizio del potere
amministrativo. L’utilità sperata cui tende l’interesse del privato dipende dall’intervento della pubblica
amministrazione.

Una delle caratteristiche dell’interesse legittimo è la differenziazione: il titolare di questa posizione giuridica
individuale è colui che nei confronti dell’esercizio del potere pubblico si trova in una situazione differenziata
rispetto ad altri soggetti. L’interesse legittimo può inoltre definirsi come una situazione qualificata in quanto
la norma che disciplina l’esercizio del potere pubblico prende in considerazione indirettamente l’interesse
legittimo individuale che coincide con quello pubblico. Si pensi all’esempio di un concorso pubblico: nel
caso in cui la P.A. violi le disposizioni che regolano l’esercizio del potere (norme di azione) attribuendo un
punteggio inferiore ad un concorrente che non verrà quindi inserito nella graduatoria, questo soggetto può
ricorrere al giudice amministrativo per avere l’annullamento dell’atto illegittimo.
Dall’eliminazione dell’atto illegittimo (interesse primario alla legalità dell’azione amministrativa), consegue
l’utilità che avrà il candidato una volta che, annullato l’atto illegittimo, verrà inserito nella graduatoria
(interesse secondario). Questo soggetto sarà il titolare di un interesse legittimo pretensivo, di una
situazione sostanziale individuale che si sostanzia in una pretesa del privato (nel caso di specie il soggetto
esercita la pretesa di essere ammesso in graduatoria a fronte dell’eliminazione dell’atto illegittimo).

L’interesse è, invece, oppositivo nel caso in cui il soggetto titolare si oppone all’adozione di determinati atti
pregiudizievoli per la propria sfera giuridica, come nel caso del soggetto espropriato che si oppone al
provvedimento di esproprio.

La dottrina ha elaborato vari criteri distinti gli tra interessi legittimi e diritti soggettivi. Un primo criterio,
elaborato dalla dottrina, si basa sulla natura delle norme che regolano l’azione amministrativa in due
categorie: la prima costituita dalle norme che tutelano l’interesse pubblico in via esclusiva (norme di
azione), la seconda relativa alla norme che disciplinano le situazioni e i rapporti giuridici tra pubblica
amministrazione e cittadini ( cd. norme di relazione)

Secondo questa tesi verrà a configurarsi la violazione di un diritto soggettivo nel caso in cui la P.A. violi una
norma di relazione. Le norme di azione invece regolano l’esercizio di un potere della P.A. (precedentemente
attribuito attraverso le norme di relazione). Si avrà violazione di un interesse legittimo nel caso in cui la P.A.
violi questo tipo di norme.

Il secondo criterio si fonda sulla natura vincolata o discrezionale dell’attività esercitata. Nei confronti di
un’attività vincolata, il privato vanterà un diritto soggettivo. Al contrario, nel caso di attività discrezionale il
cittadino può vantare solo un interesse legittimo.

L’ultimo criterio è basato sula distinzione tra carenza di potere o cattivo esercizio del potere: tutte le volte
in cui si lamenti un cattivo uso del potere, si farà valere un interesse legittimo. Mentre nel caso in cui si
voglia contestare l’esistenza stessa del potere in capo all’amministrazione, si farà valere un diritto
soggettivo.

In mancanza di una espressa definizione dell’interesse legittimo da parte del legislatore, la dottrina
definisce l’interesse legittimo come la situazione soggettiva di vantaggio, costituita dalla protezione
giuridica di interessi finali che si attua non direttamente ed autonomamente, ma attraverso la protezione
indissolubile di un altro interesse del soggetto, meramente strumentale alla legittimità dell’atto
amministrativo e soltanto nei limiti della realizzazione di tale interesse strumentale (Casetta).

I diritti soggettivi e gli interessi legittimi, pur avendo entrambi alla base un interesse materiale protetto
dall’ordinamento , vanno differenziati secondo:

il grado di protezione: il diritto soggettivo consta di poteri atti a soddisfare sempre e pienamente, con o
senza la mediazione di un’ altrui condotta, l’interesse materiale, mentre l’interesse legittimo è tutelato non
immediatamente e pienamente bensì in funzione della realizzazione dell’interesse pubblico generale
attraverso l’esercizio del potere pubblico

le forme di protezione: il titolare del diritto soggettivo legittima il privato ad ottenere, in sede
amministrativa o giurisdizionale, soltanto pronunce di natura reintegratoria o risarcitoria, mentre
l’interesse legittimo offre la possibilità di tutela più ampie e differenziate come ad esempio: a) il potere di
chiedere l’annullamento dell’atto amministrativo illegittima al g.a., b) il potere di provocare l’eliminazione
dell’atto attraverso il ricorso amministrativo; c) il potere di partecipare al procedimento amministrativo
anteriormente alla formazione dell’atto; d) il potere di dare inizio al procedimento amministrativo quando
ciò sia consentito.

In altri termini si tratta di situazioni soggettive che non possono essere comparate in quanto sono
disomogenee.

Una vera e propria rivoluzione è la previsione della tutela risarcitoria ex art. 2043 accordata al titolare
dell’interesse legittimo leso. Questo principio sancito dalla pronuncia della Cassazione SS. UU. , 22.07.1999
n. 500, è stato poi positivizzato dall’art. 7 della legge n. 205 del 2000, che ha previsto la giurisdizione del
giudice amministrativo in relazione a tutte le controversie risarcitorie nell’ambito della sua giurisdizione sia
esclusiva che di legittimità.

3.6 Classificazione degli interessi legittimi


Una distinzione classica degli interessi legittimi è tra:

 interessi occasionalmente protetti


 diritti affievoliti

I primi sino gli interessi materiali protetti esclusivamente in maniera indiretta, tramite la soddisfazione
dell’interesse collettivo, scopo immediato della norma di natura pubblica. I secondi, invece, si hanno
quando il diritto soggettivo si scontra con il potere autoritativo.

Gli interessi legittimi si distinguono, inoltre, in:

 interessi sostanziali
 interessi formali, detti anche strumentali o indiretti, nei quali rientrano i c.d. interessi
procedimentali.

Gli interessi sostanziali, a loro volta, in base al criterio del contenuto del potere attribuito al titolare nei
confronti di una potestà amministrativa si distinguono in:

a) interessi al procedimento (interessi partecipativi);


b) interessi all’annullamento di un provvedimento lesivo di un interesse materiale giuridicamente
protetto (o oppositivi);
c) c) interessi ad una attività amministrativa ( o pretensivi).

In particolare, è importante la distinzione tra interessi pretensivi e interessi oppositivi, Gli interessi
pretensivi sono quegli interessi cui corrisponde il dovere da parte della amministrazione di erogare una
prestazione patrimoniale, un pubblico servizio o un’attività, vengono, dunque, fatti valere dal soggetto che
vuole ottenere utilità dalla p.a e vuole accrescere la propria sfera giuridica con l’emanazione di un
provvedimento a suo favore.

Gli interessi oppositivi sono quegli interessi che il privato oppone all’esercizio di un potere che potrebbe
produrre una vicenda giuridica svantaggiosa ossia incidere negativamente nella propria sfera giuridica.

Con la decisione n.500/ 1999 delle Sezioni Unite è stata ammessa la risarcibilità del danno da lesione di
entrambe le tipologie di interesse, mentre in passato, con la tecnica dell’affievolimento, la risarcibilità era
ammessa solo per gli interessi oppositivi collegati a diritti soggettivi risolutivamente condizionati.
3.7 Gli interessi collettivi e diffusi
Un’altra importante distinzione è tra gli interessi collettivi e gli interessi diffusi.

Gli interessi legittimi ed i diritti soggettivi costituiscono posizioni soggettive astrattamente costruite ed
elaborate sul presupposto della titolarità individuale; a livello sociale e, per conseguenza, anche a livello
giuridico si sono progressivamente sviluppate situazioni giuridiche non riferibili a soggetti individuali ma a
gruppi di persone accomunate da un interesse ad un bene della vita condiviso; tali situazioni soggettive
sono gli interessi diffusi. Ove, poi, tali interessi riferibili ad una comunità di individui siano, altresì
caratterizzati, dal fatto che tale comunità si sia organizzata mediante la costituzione di un ente preposto alla
tutela dei medesimi, essi vengono definiti ed individuati come interessi collettivi.

Gli interessi collettivi sono, dunque, quegli interessi legittimi che fanno capo ad un ente esponenziale di un
gruppo non occasionale, mentre gli interessi diffusi fanno capo ad una formazione sociale non organizzata e
non individuabile autonomamente.

Con riferimento agli interessi collettivi, il problema di maggior rilievo ha investito l'individuazione dei
requisiti della legittimazione ad agire a tutela di tali interessi per gli enti esponenziali della collettività. Il
problema non sorge, al riguardo, per gli enti pubblici istituzionalmente preposti alla tutela degli interessi di
categoria (si pensi, ad esempio, agli ordini professionali) mentre un discorso più complesso concerne gli
enti autonomamente costituiti per la tutela di interessi diffusi.

La giurisprudenza ha, al riguardo, percorso un laborioso cammino i cui passaggi essenziali possono essere
così individuati.

In una prima fase, si è ritenuta l'essenzialità del possesso della personalità giuridica in capo all'ente
esponenziale; a fronte delle critiche rivolte a tale criterio selettivo, in relazione alla necessità di riconoscere
la legittimazione anche in capo agli enti dotati della sola soggettività giuridica, la giurisprudenza ha rivolto la
sua attenzione su altri indici qualificanti.

In primo luogo ha richiesto che statutariamente l'ente avesse, tra i suoi fini, la protezione dell'interesse
facente capo alla collettività organizzata.

In secondo luogo, la verifica ha riguardato l'idoneità dell'ente a perseguire la finalità statutaria in relazione
alla sua organizzazione; al riguardo particolare attenzione è stata rivolta al carattere di stabilità che deve
connotare l'attività dell'ente.

In terzo luogo, si è ritenuto rilevante il parametro dello stabile collegamento territoriale con l'area di
dislocazione dell'interesse facente capo alla collettività rappresentata.

Secondo una parte della dottrina, peraltro, con riferimento alla legittimazione a ricorrere in sede
giurisdizionale per la tutela di interessi collettivi, un'estensione generalizzata a tutti gli enti portatori di
interessi diffusi sarebbe stata determinata dall'art. 9 della L. n. 241 del 1990 che ne consente, in via
generalizzata, la legittimazione alla partecipazione ai procedimenti amministrativi che coinvolgano detti
interessi. Altra tesi respinge questo assunto ritenendo che la partecipazione procedimentale e la
legittimazione processuale siano posizioni ontologicamente distinte e che dalla ricorrenza dell'una non si
possa inferire la ricorrenza dell'altra. Tale dottrina distingue, peraltro, il caso in cui gli enti esponenziali
siano titolari di interessi alla partecipazione procedimentale di carattere difensivo (nel qual caso ammette la
possibilità del parallelismo) dal caso in cui siano titolari di interessi alla partecipazione procedimentale di
carattere collaborativo (nel qual caso il parallelismo sarebbe da escludere).
Con riferimento specifico agli interessi diffusi di natura ambientale, l'individuazione degli enti esponenziali
demandati alla loro tutela è rimessa all'art. 13 della L. n. 349 del 1986; tale norma è stata, peraltro, ritenuta
non preclusiva della legittimazione a ricorrere in capo ad enti dotati di requisiti di rappresentatività da
verificarsi di volta in volta.

L'ente esponenziale degli interessi collettivi può, dunque, essere della più varia natura ma deve
caratterizzarsi per un'organizzazione funzionalizzata alla protezione degli interessi di categoria.

Sotto il profilo delle forme di tutela degli interessi collettivi, oltre alla possibilità, per gli enti esponenziali, di
ricorrere giudizialmente per la loro tutela dinanzi al GA, deve, in particolare, sottolinearsi la, già accennata,
possibilità di partecipare ai procedimenti amministrativi che riguardano detti interessi collettivi. Numerose
sono le fonti normative che sanciscono tale legittimazione procedimentale. Al riguardo l'art. 9 della L. n.
241/1990 chiaramente dispone la legittimazione in favore dei portatori di interessi pubblici o privati ed in
favore dei portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni, di partecipare ai procedimenti
amministrativi relativi a tali interessi e dai quali possa nascere un pregiudizio.

La legittimazione alla partecipazione in favore dei portatori di interessi collettivi è, anche, prevista dal Testo
Unico sugli enti locali (D.Lgs. n. 267 del 2000) che stabilisce come negli Statuti delle Province e dei Comuni
debbano essere previste procedure per la presentazione di istanze da parte di cittadini singoli e associati
per la migliore tutela degli interessi collettivi.

Deve, poi, citarsi anche l'art. 4 del D.P.R. n. 184 del 2006 che estende le modalità per l'accesso ai documenti
amministrativi anche ai portatori di interessi collettivi e diffusi.

3.8 Interessi amministrativamente protetti ( o semplici)


Mentre l’interesse legittimo è la pretesa a che la pubblica amministrazione eserciti in conformità della legge
i suoi poteri discrezionali o vincolati, l’interesse semplice, è invece la pretesa a che la pubblica
amministrazione nell’esercizio del suo potere discrezionale, si attenga a quei criteri di opportunità e di
convenienza che afferiscono al c.d. merito amministrativo, e che sono tutelati dalle norme non giuridiche di
azione ( c.d. norme di buona amministrazione).

Tali interessi a differenza di quelli legittimi non ricevono tutela se non a livello amministrativo; essi, infatti,
possono essere fatti valere solo con i ricorsi gerarchici; proprio per questo sono definiti anche interessi
amministrativamente protetti.

3.9 Gli interessi di fatto e le aspettative di diritto


Gli interessi di fatto e le aspettative di diritto sono quegli interessi, non qualificati né differenziati, a che la
p.a. osservi i doveri giuridici posti a suo carico ed a vantaggio della collettività non soggettivizzata. I predetti
interessi sprovvisti di tutela, sarebbero da ricomprendere nel più ampio genus degli interessi semplici.

Da ricomprendere nell’ambito degli interessi semplici è la cd. chance e cioè la possibilità di conseguire un
risultato favorevole, ovvero l’interesse a mantenere una posizione di vantaggio che si è venuta a creare per
effetto di una situazione di fatto e non in base ad una norma di legge, si pensi all’interessi a che le strade
siamo ben mantenute, ben illuminate.

L’unica garanzia riconosciuta a tutela di tali interessi sta nell’obbligo di buona amministrazione che grava
sulla p.a.
I privati pertanto possono, con reclami, far rilevare queste mancanze alla pubblica amministrazione. In
questo caso siamo in presenza di mere denunce, di cui la pubblica amministrazione può non tener conto.
Solo in casi eccezionali (e segnatamente nelle ipotesi tassative in cui l’ordinamento accorda azioni popolari)
i cittadini, uti singuli, possono esperire azioni a tutela di interessi di fatto.

3.10 Le azioni popolari


Le azioni popolari si distinguono in:

1) azioni suppletive
2) azioni correttive.

Le prime, riconducibili nel fenomeno della sostituzione processuale, possono essere proposte dal cittadino
per supplire all’inerzia della pubblica amministrazione agendo a tutela di interessi non tutelati dalla stessa.
Un esempio di azione popolare è previsto dall’art. 9 del d.lgs. n. 267 del 2000, secondo cui “Ciascun elettore
può far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al Comune e alla Provincia”.

Le azioni correttive, a differenza delle azioni popolari non sono riconducibili al fenomeno della sostituzione
processuale, son considerate forme di democrazia diretta rivolte nei confronti della stessa amministrazione
al fine di far valere una situazione di illegittimità provocate dalla stessa.

L’aspettativa di diritto è una situazione soggettiva attiva, strumentale rispetto alle altre, che ha una sua
rilevanza giuridica per l’ordinamento. Per aspettativa di intende la situazione soggettiva attiva di chi è sul
punto di acquisire un diritto, ma attualmente non lo ha ancora acquisito a tutti gli effetti.

3.11 La Class Action


La legge n. 244/2007 (legge finanziaria 2008), attraverso l’inserimento dell’art. 140 bis nel d.lgs 206 del
2005, recante il Codice del consumo ha introdotto nel nostro ordinamento l’azione di classe.

L’azione di classe è un’azione collettiva condotta da uno o più soggetti che richiedono il risarcimento del
danno non solo a loro nome, ma per tuta la classe, ossia per tutti coloro che hanno subito il medesimo
illecito.

Il d.l. n. 1/2012, come modificato dalla l. n. 27 del 2012 precisa che l’azione di classe ha per oggetto
l’accertamento della responsabilità e la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni in favore
degli utenti consumatori.

Attraverso l’azione di classe (o class action) sono tutelabili:

a) i diritti contrattuali di una pluralità di consumatori e utenti che versano nei confronti di una stessa
impresa in situazione del tutto omogenea, inclusi i diritti relativi a contratti stipulati ai sensi degli
articoli 1341 e 1342 del codice civile;
b) i diritti del tutto omogenei spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto o servizio nei
confronti del relativo produttore, anche a prescindere da un diretto rapporto contrattuale;
c) i diritti del tutto omogenei al ristoro del pregiudizio derivante agli stessi consumatori e utenti da
pratiche commerciali scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali.

Nelle ipotesi sopra indicate ciascun componente della classe, anche mediante associazioni cui dà mandato
o comitati cui partecipa, può agire per l’accertamento della responsabilità e per la condanna al risarcimento
del danno e alle restituzioni.
Il d.lgs n. 198 del 2009 disciplina invece la class action contro la pubblica amministrazione . In particolare
tale azione è esperibile davanti al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva, sia da singoli
cittadini che da associazioni, in caso di lesione di interessi giuridicamente rilevanti per una pluralità di
utenti, derivanti da inefficienze del servizio pubblico, come ad esempio il mancato rispetto dei tempi
previsti o degli standard di qualità.

Scopo dell’azione è quello di garantire il corretto svolgimento della funzione amministrativa o la corretta
erogazione dei servizi, non avendo alcuna funzione risarcitoria, a differenza della class action civilistica.

3.12 Il risarcimento dell'interesse legittimo dopo la sentenza n. 500 delle SS.UU.


Il risarcimento dei danni derivanti dalla lesione di un interesse legittimo previsto dall'art. 7 della legge n.
205 del 2000 che ha stabilito che il G.A., nell'ambito della sua giurisdizione generale di legittimità ha
competenza anche per i conseguenti profili risarcitori, ha trovato definitivo ingresso nell'ordinamento
giuridico a seguito della sentenza n. 500 del 1999 delle SS.UU. della Suprema Corte di Cassazione.

In precedenza il risarcimento del danno per la violazione di un interesse legittimo era escluso dalla
giurisprudenza per motivi di ordine processuale in quanto il G.A., competente a giudicare in materia di
interessi legittimi, poteva solo annullare l'atto lesivo ma non disporre il risarcimento del danno.

Il giudice ordinario invece pur avendo il potere di disporre la condanna al risarcimento del danno, non
aveva, però, competenza a giudicare in ordine all'interesse legittimo.

Ma il risarcimento del danno derivante da lesione di interesse legittimo era, ancor prima, escluso per
ragioni di carattere sostanziale in quanto, nel modello della tutela aquiliana di cui all'art. 2043 cc, il danno
ingiusto veniva fatto coincidere con la lesione di un diritto soggettivo o, in ogni caso, di una situazione
giuridica protetta direttamente da una norma giuridica preesistente, con la conseguente esclusione,
dall'ambito della sua tutela, della lesione di diverse posizioni giuridiche come, per l'appunto, quella
costituita dagli interessi legittimi la cui lesione consegue ad una violazione di una norma sul corretto agire
dell'amministrazione e non già di una norma posta a presidio diretto degli interessi legittimi.

La giurisprudenza ha, poi, mitigato la propria posizione contraria al risarcimento del danno da lesione di
interesse legittimo elaborando la figura del diritto affievolito che si ha quando il diritto, di fronte alla
potestà riconosciuta alla p.a. di incidere su di esso affievolisce ad interesse legittimo. In questo modo venne
riconosciuta la possibilità di risarcire il danno ai sensi dell’art. 2043 cc. allorquando un provvedimento
ablatorio fosse annullato con effetto ex tunc e la posizione soggettiva affievolità riprendesse l'originaria
consistenza di diritto soggettivo,

Con la predetta tesi del diritto affievolito, trovavano dunque tutela gli interessi legittimi di carattere
oppositivo mentre rimanevano privi di qualsivoglia tutela giuridica di carattere risarcitorio gli interessi di
natura pretensiva.

Con l'art. 13 della L. n. 142 del 1992, un primo fondamentale passo verso la risarcibilità degli interessi
legittimi pretensivi è stato effettuato, in ottemperanza alle indicazioni del Legislatore comunitario,
sancendo la risarcibilità degli interessi legittimi pretensivi derivanti dalla violazione di normativa
comunitaria in materia di appalti di servizi e forniture, previo annullamento del provvedimento illegittimo.
La domanda doveva essere promossa dinanzi al GO.

Tale disposizione è, successivamente, implicitamente confluita nell'alveo degli artt. 33 e 34 del D.Lgs. n. 80
del 1998 che, nel devolvere alla giurisdizione esclusiva del GA le materie dell'urbanistica e dei servizi
pubblici affidava alla cognizione del GA anche le questioni risarcitorie conseguenti tra le quali rientravano
anche quelle di cui all'art. 13 della L. n. 142 del 1992 abrogato. Si era, peraltro, opinato che, attraverso la
concentrazione della tutela risarcitoria nelle mani del giudice amministrativo nelle materie di giurisdizione
esclusiva, si era inteso generalizzare, nell'ambito di tali materie, la risarcibilità dell'interesse legittimo
precedentemente riconosciuta solo in via d'eccezione.

Sempre sulla via del risarcimento dell'interesse legittimo, deve, poi, segnalarsi quanto previsto dall'art. 17
della L. n. 59 del 1997 che delegava il Governo a prevedere forme di indennizzo da ritardo nella conclusione
del procedimento amministrativo.

Entro tale cornice normativa e di giurisprudenza, le Sezioni Unite della Suprema Corte, con la sentenza n.
500 del 1999, nel ripercorrere l'evoluzione normativa e giurisprudenziale relativa alla questione del
risarcimento del danno conseguente ad illecito aquiliano, hanno osservato come il danno ingiusto di cui
all'art. 2043 cc non possa essere confinato all'interno della lesione di un diritto soggettivo ma debba
individuarsi nella lesione di un qualsivoglia interesse giuridico meritevole di tutela ad un bene della vita,
con la sola esclusione degli interessi di fatto.

Così ricostruita la fattispecie della responsabilità aquiliana, la Suprema Corte ha interpretato la situazione
giuridica di interesse legittimo come aspirazione ad un bene sostanziale della vita (prendendo le distanze,
così, da tutte le teorie amministrativistiche che avevano ricostruito l'interesse legittimo come situazione
giuridica occasionalmente protetta ovvero come interesse alla legittimità dell'azione amministrativa ovvero
come posizione giuridica legittimante al ricorso giudiziale o giustiziale); è chiaro, peraltro, che il confine tra
il risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo e quello derivante da lesione di un diritto
soggettivo diventa, in tal modo, sfumato.

La lesione di un interesse legittimo, al pari di quella di diritto soggettivo o di altro interesse (escluso
l’interesse di mero fatto) giuridicamente rilevante, rientra nella fattispecie della responsabilità di cui all’art.
2043 del c.c. ai fini della qualificazione del danno come ingiusto. Ciò, tuttavia non equivale ad affermare la
indiscriminata risarcibilità degli interessi legittimi come categoria generale. Si potrà avere il risarcimento
solo se l’attività illegittima della pubblica amministrazione abbia determinato la lesione di un interesse
legittimo che risulti meritevole di protezione alla stregua dell’ordinamento giuridico.

Nella linea tracciata dalle Sezioni Unite, dunque, l'interesse legittimo è preordinato a garantire che
l'eventuale sacrificio dell'interesse ad un bene della vita del privato sia giustificato dal fatto che ad esso si
contrappone un interesse pubblico prevalente ed esso risulta prevalente soltanto allorchè siano rispettati i
criteri della legittimità sostanziale dell'azione amministrativa

In definitiva il risarcimento del danno acquista, per via di tale ricostruzione interpretativa, autonomia
rispetto alla situazione giuridica sostanziale incisa e perciò protetta. Ne consegue il superamento dei dubbi
di carattere processuale sulla possibilità di riconoscere il risarcimento del danno da lesione di interesse
legittimo in quanto, a prescindere dalla situazione giuridica concretamente incisa, quello al risarcimento del
danno è un autonomo diritto.

Nella sentenza n. 500 del 1999 viene data anche una interessante definizione dell’interesse legittimo:
l’interesse legittimo non rileva come situazione meramente processuale, quale mero titolo di legittimazione
per la proposizione del ricorso al giudice amministrativo, ma ha anche natura sostanziale. L’interesse
legittimo, quindi va inteso come la posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene
della vita oggetto di un provvedimento amministrativo e consistente nell’attribuzione a tale soggetto di
poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione
dell’interesse al bene.

In tale ottica l’interesse legittimo si distingue dal diritto soggettivo solo per il modo e la misura di tutela.

In altri termini, l’interesse legittimo emerge nel momento in cui l’interesse del privato ad ottenere o a
conservare un bene della vita viene a confronto con il potere amministrativo e cioè con il potere della
pubblica amministrazione di soddisfare l’interesse cd. pretensivo, vale a dire con provvedimento ampliativi
della sfera giuridica dell’istante o di sacrificarlo ad esempio con provvedimenti ablatori (c.d. interessi
oppositivi).

In tale prospettiva, la distinzione tra interesse legittimo pretensivo ed interesse oppositivo rileva non più
come criterio per affermare o negare la tutela giurisdizionale dell'interesse legittimo ma come criterio per
stabilire, in punto di merito, se la domanda risarcitoria sia fondata o meno in quanto l'ingiustizia del danno,
secondo la Suprema Corte, sussiste sempre in caso di interessi oppositivi mentre va verificata, di volta in
volta con giudizio prognostico sulla spettanza del bene, in caso di interessi pretensivi.

Con riferimento alla colpa, poi, la Suprema Corte ha negato che la stessa possa essere considerata in re ipsa
per l'illegittimità dell'agere occorrendo verificare se l'apparato amministrativo abbia complessivamente
violato le regole di correttezza, imparzialità e buona amministrazione ( parte della dottrina ha, al riguardo,
osservato, in senso critico, come il vizio di illegittimità si concreti proprio nella violazione di tali regole)

Con riferimento alla questione della giurisdizione in materia di risarcimento del danno da lesione di
interesse legittimo, le SS.UU. avevano chiarito come sussistesse la giurisdizione del G.O. salvi i casi di
giurisdizione esclusiva del G.A. La tesi della Cassazione sul punto della ripartizione risulta superata.

Il legislatore con la previsione di cui all’art. 7 della L. n. 205 del 2000, riscrivendo il terzo comma della L. n.
1034 del 1971 stabilisce che il G.A, nell'ambito della sua giurisdizione generale di legittimità, ha anche
competenza sulle questioni risarcitorie.

Tale previsione di concentrare in capo al g.a. le controversie inerenti al risarcimento del danno nell’ambito
della giurisdizione generale di legittimità ha resistito al vaglio di legittimità costituzionale della Consulta che,
con la sentenza n. 204 del 2004, ha chiarito come il risarcimento del danno non costituisca un'autonoma
materia devoluta alla competenza esclusiva del G.A. ma un ulteriore strumento di tutela dell'interesse
legittimo a disposizione del Giudice amministrativo.

In altri termini, secondo la Corte, il risarcimento non costituisce una autonoma materia devoluta a tale
forma di cognizione giurisdizionale, bensì una ulteriore forma di protezione del privato, complementare
rispetto alla tutela impugnatoria volta alla caducazione dell’atto.

La Corte costituzionale afferma la compatibilità tra il potere risarcitorio del G.A. e le norme costituzionali di
cui agli artt. 3, 111, commi 7 e 8, e 24, comma 1.

3.13 Pregiudiziale amministrativa


Con riferimento alla risarcibilità degli interessi legittimi, una questione che vede, tutt'ora, contrapposte la
giurisprudenza amministrativa e quella della Suprema Corte, riguarda l'accessibilità della tutela risarcitoria
in caso d'omessa impugnativa del provvedimento lesivo (problema noto sotto il nome di pregiudizialità
amministrativa).
Secondo la prevalente giurisprudenza amministrativa non è possibile chiedere il risarcimento del danno
senza la previa impugnazione del provvedimento lesivo dell’interesse legittimo in quanto significherebbe,
per il privato, eludere l'onere d'impugnativa nel termine di decadenza e, in chiave sostanziale, in quanto
sarebbe irragionevole riconoscere un danno ingiusto prodotto da un provvedimento esistente e
inoppugnabile.

Per la Suprema Corte, invece, la pregiudiziale amministrativa sarebbe da escludere sicché il privato
potrebbe domandare il risarcimento del danno determinato da provvedimento illegittimo non
tempestivamente impugnato nel termine di prescrizione ordinario; peraltro, secondo un'attenta versione di
tale impostazione, il risarcimento del danno andrebbe limitato, ai sensi dell'art. 1227, 2° comma a quei
danni che non sarebbero stati eliminati dalla tempestiva impugnativa.

Sgomberato risulta, invece, il campo dal dubbio, affacciatosi nella giurisprudenza di legittimità, che la
giurisdizione sarebbe stata del GO ove il risarcimento del danno non fosse stato chiesto unitamente
all'annullamento del provvedimento lesivo.

Cenni sulle novità in tema di risarcimento per lesione di interesse legittimo nel codice del processo
amministrativo

Il codice del processo amministrativo, vale a dire il d.lgs. n. 104 del 2010, in parte ha cercato di fare
chiarezza sulla questione della pregiudiziale amministrativa stabilendo che il preventivo esperimento o no
della domanda di annullamento non produce una questione di ammissibilità dell’azione risarcitoria, in
quanto il risarcimento del danno si può anche chiedere senza aver esperito o esperire un’azione di
annullamento.

Con l’art. 30 del d.lgs n. 104 del 2010 viene dunque superata la questione della pregiudiziale amministrativa
prevedendo la possibilità che l’azione di condanna e, quindi, di risarcimento, possa essere esercitata anche
autonomamente ( nei casi di giurisdizione esclusiva e nelle ipotesi disciplinate dallo stesso art. 30).

La possibilità di un’azione risarcitoria autonoma è tuttavia svuotata dall’ampia discrezionalità riconosciuta


al g.a. in ordine alla determinazione del risarcimento

Alla luce del codice del processo amministrativo il ricorrente, oggi, nella fase della determinazione del
danno, non ha più diritto ad alcun risarcimento se non dimostra di aver fatto tutto quello che si può
chiedere ad un soggetto di ordinaria diligenza per evitare l’insorgere stesso del danno e/o il suo
aggravamento.

Un’altra previsione che sicuramente pregiudica l’esercizio dell’azione autonoma di risarcimento è


sicuramente quella relativa al breve termine di decadenza alla quale è subordinata. L’azione è proponibile
entro il termine di 120 giorni decorrenti dal giorno in cui il fatto si è verificato, ovvero dalla conoscenza del
provvedimento, se il danno deriva direttamente da questo.

Tale termine può essere posticipato solo nel caso in cui sia proposta proritariamente la sola azione di
annullamento: in tale caso l’art. 30 , comma 5, del Codice, prevede che la domanda risarcitoria può essere
formulata nel corso del giudizio o, comunque, sino a centro venti giorni dal passaggio in giudicato della
relativa sentenza.
Inoltre, l’art. 30, del codice, prevede anche la possibilità di chiedete il risarcimento del danno in forma
specifica, qualora ricorrano i presupposti di cui all’art. 2058 c.c. ossia quando tale forma di reintegrazione
risulti in tutto o in parte possibile e non sia eccessivamente onerosa per il debitore.
4 Il procedimento amministrativo
Il procedimento amministrativo consiste nel complesso di atti che nonostante la loro autonomia
(producono effetti propri e talora sono anche impugnabili ex se) e la loro eterogeneità (gli atti che lo
compongono infatti hanno una diversa natura giuridica , diversa funzione e sono posti in essere da
differenti organi della pubblica amministrazione) sono coordinati sequenzialmente tra di loro, e finalizzati
alla emanazione di un provvedimento amministrativo, atto unilaterale autoritativo ed esecutorio, con il
quale Pubblica Amministrazione determina effetti giuridici favorevoli o sfavorevoli nella sfera giuridica
altrui.

La creazione da parte della dottrina e della giurisprudenza della figura del procedimento amministrativo ha
cercato di rispondere all’esigenza di assicurare la democraticità e la controllabilità dell'esplicazione del
potere amministrativo, nonché la comparazione tra tutti gli interessi coinvolti, sia pubblici che privati.

Fino all’entrata in vigore della legge n. 241 del 1990, recante norme in materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi, nel nostro ordinamento giuridico
mancava una disciplina generale del procedimento amministrativo. L’assenza di una regolamentazione
generale del procedimento amministrativo comportava un’ampia discrezionalità della Pubblica
Amministrazione in sede di gestione del procedimento e il non riconoscimento del diritto degli interessati a
partecipare attivamente ai procedimenti che portavano all’emanazione di provvedimenti variamente
incidenti nelle loro sfere giuridiche.

Una soluzione definitiva al problema dell’assenza di una normativa generale sul procedimento è stata
conseguita solo grazie alla l. n. 241/1990. La legge 7 agosto 1990, n. 241, novellata dalla l. n. 15/2005 e
dalla l.n. 80/2005, nonché di recente dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, contiene una disciplina generale ed
esaustiva del procedimento amministrativo e sancisce regole generali valide per tutti i procedimenti
amministrativi che si svolgono nell’ambito delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali

L’art. 29, della l. n. 241/1990, che definisce espressamente l’ambito di applicazione della suddetta legge,
dispone che anche le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, regolano le materie
disciplinate dalla presente legge nel rispetto del sistema costituzionale e delle garanzie del cittadino nei
riguardi dell’azione amministrativa, così come definite dai principi stabiliti dalla presente legge.

Tale normativa (l. n.241/1990) nel mettere a fuoco i principali istituti della fase istruttoria, ha stabilito una
serie di punti fermi. Il dovere delle pubbliche amministrazioni di dare comunicazione dell’inizio del
procedimento agli interessati. Il dovere di dare agli stessi la possibilità di partecipare con proprie
osservazioni e notazioni allegando propri documenti. Il dovere e l’obbligo di concludere il procedimento
con un provvedimento espresso e motivato, sia nel caso in cui lo stesso consegua ad una istanza del privato
che nelle ipotesi in cui debba essere iniziato d’ufficio.

4.1 La nuova tempistica per la conclusione del procedimento


L’art. 7 della l. n. 69 del 2009 ha completamente riformulato l’art. 2 della l. n.241 del 1990 dettando una
nuova disciplina per quanto concerne i termini per la conclusione del procedimento.

Il legislatore ha reintrodotto il termine generale di 30 giorni per la conclusione del procedimento. In


particolare, la normativa prevede un termine generale di 30 giorni che può essere portato a 90 giorni per le
amministrazioni statali e gli enti pubblici nazionali e, sempre in relazione a tali soggetti, in determinati casi,
può arrivare ad un massimo di 180 giorni, previa adozione di un regolamento ad hoc.

Con la circolare del 4 luglio 2010 - Attuazione dell’articolo 7 della legge 18 giugno 2009, n. 69. (10A11680) il
Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione e il Ministro per la semplificazione normativa
hanno chiarito che la legge disciplina compiutamente le conseguenze della mancata adozione dei predetti
provvedimenti nei termini di conclusione del procedimento.

Inoltre, secondo tale circolare, dal combinato disposto dell'art. 2, comma 2, della legge n. 241 del 1990 e
dell’art. 7, comma 1, lettera b), n. 4, della legge n. 69 del 2009 si evince che, in assenza di diversa disciplina
regolamentare, tutti i termini superiori a novanta giorni cessino di avere efficacia e, per i procedimenti
interessati, si applichi il termine ordinario di trenta giorni. Tale disposizione e la connessa riduzione dei
termini procedimentali riguarda soltanto i procedimenti amministrativi avviati successivamente alla
scadenza del 4 luglio 2010. Per i procedimenti amministrativi già in corso a tale data, il termine di
conclusione rimane quello originariamente previsto. Per i procedimenti che prevedono, invece, termini non
superiori a novanta giorni, continueranno ad applicarsi, in assenza di diversa disciplina regolamentare, le
disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore della legge n. 69 del 2009, come previsto dall'art. 7, comma
3, terzo periodo della stessa legge (…).

Nell’attuale disciplina viene stabilito, dunque, che, salvo diverso termine, stabilito per legge o con diverso
provvedimento, il termine generale per la conclusione del procedimento è di 30 giorni.

Per le amministrazioni statali, possono essere individuati termini non superiori a 90 giorni per la
conclusione dei relativi procedimenti, mediante decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottati ai
sensi dell’articolo 17, comma 3, della l. n. 400/1988, su proposta dei Ministri competenti e di concerto con
il Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione e, il Ministro per la semplificazione normativa.

In presenza di particolari presupposti e della particolare complessità del procedimento, il termine di 90


giorni può essere ampliato, fino ad un massimo di 180 giorni, mediante i Decreti del Presidente del
Consiglio dei Ministri, per la conclusione dei procedimenti di competenza delle amministrazioni statali e
degli enti pubblici nazionali. Questa previsione non si applica ai procedimenti di acquisto di acquisto della
cittadinanza italiana e a quelli riguardanti l’immigrazione.

Inoltre, la disciplina dei tempi del procedimento, non si applica ai procedimenti di verifica o autorizzativi
concernenti i beni storici, architettonici, culturali, archeologici, artistici e paesaggistici, per i quali trovano
applicazione le disposizioni di legge e di regolamento vigenti in materia ambientale.

Secondo il nuovo disposto normativo, i termini potranno essere sospesi una sola volta e per un periodo non
superiore a 30 giorni quando sia necessario acquisire informazioni o certificazioni relative a fatti, stati,
qualità non attestati in documenti già in possesso dell’amministrazione stessa o non direttamente
acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni.

In ipotesi di mancato rispetto del termine, indipendentemente dal fatto che l’atto sia stato emanato
successivamente alla scadenza, che sia positivo o negativo, che sia stato o meno attivato il giudizio ex art.
31 del d.lgs. n. 104/2010 e senza che sia necessario svolgere la diffida all’amministrazione ed attenere il
decorso del termine dilatorio di 90 giorni prima dell’introduzione del giudizio, sarà possibile agire contro la
pubblica amministrazione al fine di ottenere il risarcimento del danno. Inoltre, la mancata emanazione del
provvedimento nei termini costituisce elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale.
La novella prevede, infatti, un’azione risarcitoria (esperibile innanzi al giudice amministrativo nel termine di
cinque anni) per il ristoro del “danno ingiusto” (in primis, ma non esclusivamente, secondo il paradigma del
c.d. “danno da ritardo”, elaborato dalla giurisprudenza) addebitabile ai pubblici funzionari che, con dolo o
colpa (grave), non hanno rispettato i termini di conclusione del procedimento.

Incomberà ovviamente sull’attore la (non facile) prova dell’ingiustizia del danno e dell’addebito per dolo o
colpa grave in capo al funzionario.

Il legislatore, inoltre, ha espressamente previsto l’obbligo per le Regioni e gli Enti locali di adeguarsi ,
modificando i propri regolamenti alla tempistica stabilita per le amministrazioni statali e gli enti pubblici
nazionali entro il temine di un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge (art.7, comma
3,l,n.69/2009).

4.2 La nuova azione di risarcimento danni per il ritardo del procedimento


amministrativo
L’art. 2 bis della l. n. 241/1990, introdotto dall’art. 7, lett. c) della l. n. 69/2009, prevede l’obbligo di
risarcimento a carico della pubblica amministrazione e dei soggetti privati preposti all’esercizio di attività
amministrative, del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa dei termini
di conclusione del procedimento amministrativo.

In altri termini, in caso di mancato rispetto del termine di 30 giorni, il cittadino può agire per ottenere il
risarcimento dei danni.

Il legislatore ha configurato l’azione di risarcimento danni in oggetto come illecito aquilano derivante,
quindi da responsabilità aquiliana e come tale sottoposta alla disciplina dell’art. 2043 c.c..

Ne deriva che i presupposti per il configurarsi di tale azione sono i seguenti: a) elemento soggettivo: dolo o
colpa, b) elemento oggettivo: ritardo, c)sussistenza di un danno derivante dal mancato rispetto del termine
di conclusione del procedimento.

Tale azione risarcitoria, ai sensi dell’art. 30 del c.p.a. (codice del processo amministrativo) è sottoposta al
termine decadenziale di 120 giorni che non inizia a decorrere fino a quando perdura l’inadempimento.

4.3 La mancata conclusione del procedimento nei termini: la responsabilità


dirigenziale e la tutela del cittadino
Il legislatore, con la l. n. 69 del 2009, ha introdotto all’art. 2 della l. n. 241/1990, una specifica disposizione
destinata a incidere sull’efficienza della pubblica amministrazione. Infatti, il nuovo comma 9 della l. n.
241/1990 prevede che “la mancata conclusione del procedimento nei termini costituisce elemento di
valutazione della responsabilità dirigenziale”.

Questa norma letta in stretto rapporto con la previsione di cui al comma 1, dell’art. 2 della l. n. 241/1990
sembra sancire un vero e proprio diritto alla conclusione del procedimento.

Il rispetto dei tempi stabiliti per l’adozione del provvedimento finale assurge ad elemento di valutazione dei
dirigenti sia in senso premiale, in un’ottica meritocratica, che in senso sanzionatorio, ai fini della
corresponsione della retribuzione di risultato.

Per quanto concerne la tutela del cittadino danneggiato dall’inerzia della pubblica amministrazione, la
disciplina contenuta nell’art. 2, comma 8, della l. n. 241/1990, che prevedeva il ricorso giurisdizionale
contro il silenzio dell’amministrazione inadempiente, oggi è confluita nell’art. 31 del d.lgs n.104/2010,
recante il Codice del Processo Amministrativo, che prevede che, decorsi i termini per la conclusione del
procedimento che vi ha interesse può chiedere l’accertamento dell’obbligo della Pubblica Amministrazione
di provvedere. L’azione può essere proposta “fintanto che perdura l’inadempimento e comunque non oltre
un anno dalla scadenza dei termini di conclusione del procedimento”.

4.4 Le fasi del procedimento amministrativo


Tradizionalmente si schematizzano quattro fasi del procedimento amministrativo: la fase dell’iniziativa
(quella con la quale la pubblica amministrazione intraprende il procedimento), la fase dell'istruttoria (quella
con la quale il responsabile del procedimento analizza la situazione concreta alla quale si rivolge il
provvedimento da emanare, ponendo in essere tutti gli atti che si rendono necessari), la fase decisoria
(quella con la quale viene assunta la determinazione relativa al provvedimento da assumere), e la fase
integrativa dell’efficacia (si tratta di una fase eventuale che comprende una serie di atti che si rendono
necessari per assicurare l’efficacia del provvedimento amministrativo).

a) La fase di iniziativa:

La fase di iniziativa è la fase diretta ad accertare i presupposti dell’atto da emanare. Al riguardo si possono
avere procedimenti ad iniziativa privata, vale a dire procedimenti che vengono instaurati con un atto
propulsivo dell’interessato (istanze, denunce, ricorsi, ecc) oppure di ufficio, cioè ad impulso della stessa
amministrazione competente per l’emissione del provvedimento centrale o conclusivo.

Una volta aperta tale fase, la l n. 241 del 1990 ha previsto tre obblighi che fanno capo alla pubblica
amministrazione procedente: la previsione di un termine di conclusione dell’iter procedimentali, la
individuazione del responsabile del procedimento e la comunicazione dell’avvio del procedimento agli
interessati.

b) la fase istruttoria

La fase istruttoria è la fase nella quale sia acquisiscono e si valutano i singoli dati rilevanti ai fini
dell’emanazione dell’atto. Questa fase, che si caratterizza per un’attiva partecipazione dei privati (principio
del giusto procedimento), tende all’acquisizione dei fatti e degli interessi e di fatti ed interessi. In questa
fase riveste notevole importanza l’istituto della conferenza di servizi di tipo istruttorio.

c) la fase decisoria.

La fase decisoria è la fase del procedimento in cui si determina il contenuto dell’atto da adottare e si
provvede alla formazione ed alla emanazione dello stesso.

Quando la pubblica amministrazione deve emanare un atto discrezionale, provvede ad effettuare la


comparazione tra gli interessi acquisiti e coinvolti nell’azione amministrativa.

Mentre in presenza di un atto vincolato, essa dovrà limitarsi a verificare unicamente la sussistenza dei
presupposti per l’adozione dei provvedimenti.

In questa fase, riveste importanza la conferenza di servizi decisoria che dà luogo a veri e propri accordi sul
contenuto del provvedimento

Al termine della fase costitutiva, l’atto è perfetto ma non è ancora efficace.


d) la fase integrativa dell’efficacia.

La fase integrativa dell’efficacia è un momento solo eventuale che ricorre nelle sole ipotesi in cui sia la
stessa legge a non ritenere sufficiente la perfezione dell’atto, richiedendo il compimento di atti istruttori e
successivi atti od operazioni.

La ragione di tale previsione risiede nella necessità di valutare la legittimità o la congruità del
provvedimento adottato, che può richiedere di essere portato a conoscenza dei destinatari per poter
esplicare appieno i propri effetti giuridici

Rientrano in questa fase, tra gli altri: la comunicazione o pubblicazione, in varie forme, dell’atto, quando
questo è recettizio, ossia quando la sua efficacia è condizionata alla conoscenza da parte del destinatario; i
controlli preventivi nel corso dei quali un organo diverso da quello attivo (detto organo di controllo) verifica
la conformità dell'atto all'ordinamento (controllo di legittimità) o la sua opportunità (controllo di merito);
l’esito positivo di tale verifica è condizione necessaria affinché l'atto possa divenire efficace.

4.5 I principi fondamentali sanciti dalla legge n. 241 del 1990


La legge n. 241/1990, in armonia con la Costituzione, disciplina il procedimento amministrativo dettando
regole generale ispirate al principio del giusto procedimento, che garantendo il diritto di partecipazione
degli interessati, consacra la dialettica tra interessi pubblici e privati tendendo alla composizione dei
rapporti concreti, il principio di trasparenza che prevede il carattere obbligatorio della motivazione del
provvedimento amministrativo e l’obbligo di identificare preventivamente l’ufficio e il dipendente
responsabile del procedimento e il diritto dei cittadini interessati di accedere ai documenti amministrativi.

Il principio di semplificazione che introduce alcuni istituti diretti snellire e rendere più celere l’azione
amministrativa (silenzio assenso, conferenze di servizi, ecc.).

4.6 I nuovi principi introdotti dalla legge n. 15 del 2005


Il legislatore con la legge n. 15 del 2005 integra i principi generali dell’azione amministrativa con il principio
di leale cooperazione istituzionale utilizzato nei rapporti fra i diversi soggetti pubblici (art. 22, comma 5
della l. n.241 del 1990) al di là dei rapporti fra i diversi livelli governativi come previsto a seguito della
riforma ex lege cost. 3/2001. Viene, inoltre sancito il principio generale secondo il quale le amministrazioni
pubbliche, salvo che la legge non disponga diversamente, agiscono secondo il diritto privato, e quindi,
anche servendosi di moduli negoziali per la realizzazione dei propri compiti istituzionali, cioè per la cura
completa degli interessi pubblici a queste affidati dalla legge.

Il nuovo art. 21 sexies della l. n.241 del 1990 prevede che il recesso unilaterale dai contratti da parte della
pubblica amministrazione sia ammesso nei soli casi previsti dalla legge o dal contratto.

La disposizione è volta ad estendere all’attività negoziale dell’amministrazione il principio di stabilità degli


obblighi contrattuali per salvaguardare l’affidamento dei terzi che stipulano contratti con la pubblica
amministrazione e assicurare in tale modo, l’affidabilità del contraente pubblico.

Infine, viene previsto il principio dell’informatizzazione dell’attività amministrativa laddove si dispone il


dovere delle pubbliche amministrazioni di incentivare l’uso della telematica sia nei rapporti interni, tra le
diverse amministrazioni sia tra queste e privati.

Il legislatore con la legge n. 15 del 2005 introduce nella disciplina del procedimento anche principi di
derivazione comunitaria.
Fra questi principi rileva il principio di certezza del diritto, diretto a garantire la prevedibilità delle situazioni
e dei rapporti giuridici rientranti nella sfera del diritto europeo, il principio di legittimo affidamento, volto
alla protezione di situazioni consolidate a seguito di provvedimenti emanati e illegittimamente revocati che
hanno ingenerato un ragionevole affidamento nei destinatari. Il principio di proporzionalità che implica che
la pubblica amministrazione debba adottare la soluzione idonea ed adeguata comportante il minor
sacrificio possibile per gli interessi compresenti, il principio del giusto procedimento, vale a dire il diritto ad
essere ascoltati nel corso del procedimento amministrativo, ed infine, il principio di buona amministrazione
che impone di garantire la tempestività dell’azione amministrativa e, nella connessa accezione di
imparzialità, di evitare in casi analoghi trattamenti difformi senza adeguata motivazione o di rispettare
criteri di massima fissati in precedenza.

4.7 La partecipazione al procedimento


Tra gli obiettivi perseguiti dalla legge 7 agosto 1990 n. 241 sul procedimento amministrativo, un ruolo di
primo piano rivestiva – e a maggior ragione riveste tuttora dopo che la novella n. 15 del 2005 lo ha
espressamente codificato – l’attuazione del principio di trasparenza, inteso nella duplice accezione di
rendere conoscibile all’esterno l’iter seguito dalla P.A. al fine dell’adozione del provvedimento, ma anche
come espressione della volontà di rendere permeabile il processo decisionale pubblico al contributo e alle
istanze, e più in generale, alle sollecitazioni e all’apporto collaborativo, dei privati. Ciò, all’evidente e
benefico effetto di pervenire ad un’amministrazione il più possibile concordata, e dunque condivisa, e di
ridurre il contenzioso sul provvedimento. In quest’ottica, la legge 241 disciplina al Capo III (artt. 7-13) la c.d.
partecipazione al procedimento, prevedendo una serie di istituti diretti a dare effettiva attuazione a tale
metodo d’azione.

Si tratta:

a) della comunicazione di avvio del procedimento (artt. 7 e 8);

b) dei diritti di intervento e di partecipazione (artt.9 e 10);

c) della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza (art. 10bis);

d) degli accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento (art. 11);

e) della predeterminazione dei criteri per l’attuazione dei vantaggi economici.

4.8 Comunicazione di avvio del procedimento


La comunicazione di avvio del procedimento trova la propria fonte nell’art. 7, il quale prescrive che
l’amministrazione deve, di norma, comunicare l’avvio del procedimento ai soggetti nei confronti dei quali il
provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti; a quelli che per legge debbono intervenirvi; ed
infine ai soggetti a carico dei quali il provvedimento può produrre effetti pregiudizievoli.

La comunicazione è scritta e di norma personale, anche se, quando per il numero dei destinatari tale tipo di
comunicazione non sia possibile o risulti particolarmente gravosa, l’amministrazione può avvalersi delle
forme di pubblicità idonee di volta in volta da essa stessa stabilite.

Tuttavia, nell’ottica di una sempre più accentuata tendenza alla informatizzazione e speditezza dell’attività
amministrativa si ritiene che la comunicazione de qua possa essere inviata anche attraverso procedure
informatizzate.
Nella comunicazione debbono essere indicati tutti quegli elementi necessari all’esercizio dei diritti di
partecipazione e all’applicazione degli istituti di tutela, ossia, ai sensi dell’art. 8: a) l’amministrazione
competente; b) l’oggetto del procedimento promosso; c) l’ufficio e la persona responsabile del
procedimento; c-bis) la data entro la quale deve concludersi il procedimento; c-bis) i rimedi esperibili in
caso di inerzia dell’amministrazione; c-ter) nei procedimenti ad iniziativa di parte, la data di presentazione
della relativa istanza; ed infine d) l’ufficio in cui si può prendere visione degli atti.

Va evidenziato in particolare come, lo scopo di tale previsione normativa è quella di porre il privato nella
condizione di poter effettivamente controllare l’esplicazione del potere amministrativo nei termini di legge,
ed in caso di riscontro negativo al fine di dotarlo di uno strumento idoneo a sollecitare la definizione del
procedimento. La giurisprudenza sul punto ha affermato che la ratio dell’istituto consiste nel “consentire
alla parte interessata di partecipare al procedimento amministrativo fin dal momento del suo concreto
avvio, o quantomeno, di inserirsi in una fase che non sia avanzata o, peggio, conclusiva, altrimenti
risultando del tutto eluse le finalità partecipative e di trasparenza dell’azione amministrativa4”.

Fermo restando tale premessa, gli articoli 7 e 8 cercano tuttavia di mediare tra le esigenze di partecipazione
e di trasparenza, che inducono a conferire carattere tendenzialmente generale alla comunicazione in
commento, e quelle, parimenti espresse dalla disciplina sul procedimento, ma che rispetto all’obbligo in
esame si presentano come antitetiche, di economia e celerità procedimentale. Esito di tale bilanciamento è
la previsione secondo la quale la P.A. può legittimamente pretermettere l’adempimento in oggetto
allorquando il medesimo risulti eccessivamente gravoso o dispendioso, o comunque incompatibile con
particolari esigenze di celerità sussistenti nella specifica circostanza5.

Alla stregua della ponderazione di tali contrapposte esigenze la comunicazione di avvio del procedimento
non integra dunque sempre un presupposto di legittimità del provvedimento finale, potendo in particolare
essere omessa in relazione all’esercizio di poteri d’urgenza, e nei confronti dei soggetti diversi dai diretti
destinatari ai quali il provvedimento stesso possa arrecare pregiudizio, quando costoro non siano
“individuati o facilmente individuabili”.

Peraltro, come chiarito dal secondo comma dell’art. 21octies, “Non è annullabile il provvedimento adottato
in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata
comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto
del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”6. Al di là delle
ipotesi già esaminate, dopo la novella del 2005 l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento
non è, dunque, ex lege, causa di illegittimità del provvedimento, anche in una serie ulteriore di casi, in linea
di massima riconducibili al principio di “raggiungimento del risultato”, come in relazione ad attività
interamente vincolata dell’amministrazione; o nei casi in cui sia stato in qualsiasi altro modo realizzato lo
scopo della partecipazione; o ancora quando l’interessato abbia avuto per altra via sicura conoscenza
dell’apertura del procedimento (ad esempio, per averlo attivato con la propria istanza, o perché
conseguente ad altro procedimento di sua conoscenza) . Tale esito, che come quello fondato sulla lettera
degli articoli 7 e 8 potrebbe apparire criticabile per l’ulteriore attenuazione dell’ambito applicativo
dell’obbligo di comunicazione considerato, codifica in verità principi, come quello della prova della
resistenza, conservazione degli atti, strumentalità delle forme e raggiungimento dello scopo7 – già
diffusamente applicati in giurisprudenza- i quali presentano come elemento comune la tendenza ad
applicare le norme sul procedimento “…non in modo acritico o formalistico, ma alla luce dei criteri generali
che governano l’azione amministrativa”. Detto altrimenti, essa appare proprio ragionevole ed equilibrata
espressione di quei canoni di ragionevolezza, logicità, adeguatezza, e soprattutto di proporzionalità, che
inducono ad escludere l’applicazione degli istituti di partecipazione allorché i medesimi appesantiscono
inutilmente l’iter procedimentale. Previsione, da leggere in stretta connessione con l’art. 8, comma 4, per il
quale “L’omissione di taluna delle comunicazioni prescritte può esser fatta valere solo dal soggetto nel cui
interesse la comunicazione è prevista.”

Da ultimo, nonostante non siano espressamente menzionati, si deve ritenere che alcuni procedimenti siano
per loro natura sottratti all’adempimento in oggetto, risultandone in caso contrario del tutto frustrati i
relativi obiettivi. Così, per esempio, può supporsi in ordine ai procedimenti “segreti”, ossia aventi ad
oggetto la “segregazione” di atti o documenti perché coperti dal segreto di Stato (ex l.801/1977). O ancora
rispetto ai procedimenti “riservati”, il cui risultato pratico verrebbe senz’altro vanificato dalla
comunicazione agli interessati, e dalla susseguente partecipazione al procedimento.

Pur mancando una univocità di orientamenti sul punto m una parte della più recente giurisprudenza
amministrativa8, ammette la necessità della comunicazione de qua anche nei confronti del procedimenti
preordinati all’emanazione di atti vincolati (come ad esempio in materia edilizia ed urbanistica), atteso che
comunque si tratta di provvedimenti destinati ad incidere sfavorevolmente sulla situazione soggettiva del
privato il cui intervento può essere proficuo per l’attività istruttoria posta in essere dalla pubblica
amministrazione.

La mancanza della comunicazione di avvio del procedimento, laddove non ricorra una delle ipotesi un cui
non è previsto tale obbligo, provoca, l’illegittimità del provvedimento finale per vizio di violazione di legge,
la relativa illegittimità può essere fatta valere solo dal soggetto nel cui interesse la comunicazione è prevista
(invalidità relativa) e non da chiunque ne abbia interesse. Tuttavia tale regola non ha carattere assoluto. A
tal proposito è necessario rapportare la normativa sulla comunicazione di avvio all’art. 21 octies della legge
n. 241 del 1990, che, al comma 2, prevede discipline parzialmente diverse per il caso della violazione di
norme procedimentali e per la ipotesi della omissione della comunicazione.

Infatti, la norma dopo aver stabilito al primo comma che è annullabile il provvedimento amministrativo
adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza, dispone che “ Non è
annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti
qualora, per la natura vincolata del provvedimento sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque
annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in
giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato. In altri termini, non tutte le violazioni procedimentali debbano automaticamente dare luogo alla
annullabilità del provvedimento, in quanto il giudice, in sede di esame del vizio sul contenuto del
provvedimento impugnato, non deve procedere all’annullamento laddove emerga che il vizio non abbia
inciso in maniera significativa sull’assetto di interessi contenuto nel dispositivo.

4.9 Diritti di intervento e di partecipazione


La disciplina dei diritti di intervento e di partecipazione recata dalla legge 241/1990 concerne in special
modo due aspetti, non toccati dalla revisione del 2005: soggetti titolari e contenuto. Quanto ai primi, i
soggetti portatori di interessi suscettibili di essere incisi dall’adozione del provvedimento, individuati, di
norma, dalla stessa amministrazione procedente ai sensi dell’art. 7, diventano parti del rapporto
pubblicistico nel quale il procedimento stesso consiste, ed assumono la facoltà di parteciparvi
rappresentando ed esprimendo i propri interessi. La legge 241 del 1990 assegna tuttavia il diritto di
partecipare al procedimento, esercitando i diritti elencati all’art. 10, non soltanto a tali soggetti (coinvolti,
come si è detto, doverosamente, dall’amministrazione procedente ai sensi dell’art. 7), ma anche a coloro
che decidono, spontaneamente e di propria iniziativa, di interloquire col soggetto pubblico in modo da
condurlo all’adozione di una decisione in linea con i propri interessi. La legge, come chiaramente recita l’art.
9, attribuisce infatti la facoltà di intervenire nel procedimento a “qualunque soggetto, portatore di interessi
pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa
derivare un pregiudizio dal provvedimento”. Tale potere di intervento è peraltro subordinato a due
specifiche condizioni – che spetterà al responsabile del procedimento verificare. Da un lato, il fatto che colui
che interviene nel procedimento possa subire un pregiudizio dall’adottando provvedimento, sicché, sotto
tale profilo, sembra opportuno sottolineare la minor dilatazione del novero dei potenziali interventori
rispetto a coloro ai quali, in base all’art. 7, deve essere comunicato l’avvio del procedimento. Mentre infatti
in questo secondo caso la norma si riferisce ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è
destinato a produrre “effetti diretti”, che ben possono essere sia favorevoli che sfavorevoli, l’art. 9
circoscrive la facoltà di cui stiamo parlando solo ai soggetti suscettibili di venir lesi nei propri interessi dal
provvedimento conclusivo del procedimento. Dall’altro, il fatto che l’interventore si ponga sul piano
giuridico come portatore di interessi pubblici, ovvero portatore di interessi privati, o ancora portatore di
interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati.

Detto questo, il contenuto della partecipazione procedimentale si articola, ai sensi dell’art.10, in due
aspetti. Da un lato, il diritto di prendere visione degli atti del procedimento, salvi i limiti generali del diritto
d’accesso; dall’altro, la rappresentazione scritta di fatti ed interessi propri (attraverso le “memorie”), anche
mediante l’esibizione dei pertinenti documenti, dei quali l’amministrazione deve tenere conto ai fini della
decisione da assumere.

4.10 Comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza


Particolare rilievo nel contesto degli istituti di partecipazione ha la prescrizione, introdotta dall'articolo 6
della legge n.15 del 2005, relativa alla comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza. La
norma – art.10bis - introduce, nei procedimenti ad istanza di parte, una nuova fase partecipativa, alla quale
si deve dar corso tutte le volte in cui l’amministrazione, esaminata la domanda dell’interessato e conclusa la
fase istruttoria, giunge alla determinazione di non accoglierla. In tal caso, prima di emanare il
provvedimento negativo, l’amministrazione procedente è infatti tenuta a comunicare i motivi che ostano
all’accoglimento dell’istanza. Si apre così, sulla base di tale comunicazione si apre una nuova fase
istruttoria, nella quale i predetti soggetti sono ammessi a rappresentare le loro osservazioni e a depositare
documenti entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione

La comunicazione dei motivi ostativi interrompe i termini per concludere il procedimento che iniziano
nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza dei
termine di cui al secondo periodo. Dell’eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data ragione
nella motivazione del provvedimento finale.

Con tale istituto, il legislatore, alla luce della ratio dell’istituto, da identificare con la volontà di realizzare un
contraddittorio utile, efficace, e proporzionato agli interessi in gioco, media tra l’esigenza di consentire
comunque il contraddittorio tra le parti, e le note istanze di celerità e di non aggravamento del
procedimento . La disposizione limita in primo luogo il nuovo obbligo di comunicazione ad alcune categorie
di procedimenti, cioè a quelli attivati su iniziativa di parte. Tra questi, l’istituto pare poi applicabile solo ai
procedimenti a carattere discrezionale, nei quali la partecipazione degli interessati può apportare elementi
utili alla decisione, con esclusione, quindi, dei procedimenti a carattere vincolato, cui si aggiungono,
presumibilmente con l’intento di evitare il rischio di paralisi a causa del loro elevato numero, quelli volti
all’accertamento di diritti a contenuto patrimoniale. In secondo luogo, la possibilità di partecipare al
supplemento di istruttoria non viene estesa a tutti gli interventori (necessari o facoltativi) del
procedimento, ma è circoscritta agli istanti, ossia a coloro che, attraverso la propria domanda, hanno messo
in moto il procedimento amministrativo, e che vi hanno un interesse qualificato.

Si discute sull’applicabilità dell’istituto anche alla segnalazione certificata d di inizio attività (s.c.i.a.) che ha
sostituito la denuncia di inizio attività. Infatti, la s.c.i.a. si qualifica come un atto di semplificazione
procedimentale che permette al privato di conseguire un titolo abilitativo con riferimento ad una attività
edilizia. Proprio in ragione della natura del suddetto atto che si configura come ad iniziativa di parte, si
ritenuto che il preavviso di rigetto potesse essere astrattamente applicabile alla s.c.i.a.

Per la dottrina e la giurisprudenza il preavviso di rigetto può essere considerato un atto


endoprocedimentale, visto che la sua funzione è quella di avvisare il privato dell’intenzione
dell’amministrazione di adottare un provvedimento a lui sfavorevole. Di conseguenza non è possibile
ammettere una autonoma impugnabilità del preavviso di rigetto, stante il suo carattere di atto non
immediatamente lesivo delle situazioni giuridiche soggettive dei privati.

La comunicazione di preavviso di rigetto è sottoposta al medesimo regome stabilito per la comunicazione di


avvio del procedimento, ciò significa che la sua omissione, ai sensi dell’art. 21 octies della l. n. 241 del 1990
non comporta l’annullabilità dei procedimenti vincolati, qualora sia palese che il suo contenuto dispositivo
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato e, per i provvedimenti discrezionali,
qualora la pubblica amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Secondo l’opinione maggioritaria in giurisprudenza9, infatti, la violazione dell’art. 10 bis della legge sul
procedimento amministrativo non produce ex se l’illegittimità del provvedimento terminale, dovendo la
disposizione sul cd. preavviso di diniego essere interpretata alla luce del successivo art. 21 octies della l. n.
214/1990, secondo cui, laddove il ricorrente sollevi determinati vizi di natura formale, è imposto al giudice
di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e, quindi, di non annullare l’atto nel caso in cui le
violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del provvedimento impugnato.

4.11 Il responsabile del procedimento


Il capo II (articoli 4 – 6) della legge n. 241 del 1990 regolamenta la figura del responsabile del procedimento,
a cui affida la gestione del procedimento amministrativo.

Attraverso l’introduzione della figura del responsabile del procedimento, il legislatore del 1990 ha inteso
rompere definitivamente il muro di anonimato e irresponsabilità che consentiva alla pubblica
amministrazione di sfuggire alle conseguenze di propri comportamenti omissivi o arbitrari e delle relative
lesioni cagionate ai privati.

La ratio dell’introduzione della figura del responsabile del procedimento può allora, rinvenirsi nell’esigenza
di attuazione dei principi di trasparenza ed efficienza dell’azione amministrativa, unitamente alla piena
responsabilizzazione degli amministratori preposti alla gestione del procedimento.

L’art. 6 della l. n. 241 del 1990 prevede una serie di compiti attribuiti al responsabile del procedimento,
prevalentemente finalizzati alla cura della fase istruttoria del procedimento, nonché, laddove ne abbia la
competenza, all’effettiva adozione del provvedimento finale.
I compiti che gli sono attribuiti sono indicati dall’articolo 6 della citata legge n. 241: iniziativa ed impulso;
avvisi e comunicazioni; verifica, formazione e acquisizione di fatti, atti ed interessi; eventuale adozione del
provvedimento finale. Si tratta, in sostanza, di compiti di impulso, di direzione e di coordinamento
dell’istruttoria procedimentale e, solo in via eventuale, di decisione.

La materia del responsabile del procedimento è stata interessata dal d.lgs. n. 29 del 1993, successivamente
novellato dal d. lgs. n. 80 del 1998 e poi recepito dal d. lgs. n. 165 del 2001, recentemente novellato dal
d.lgs n.150 del 2009 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della
produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni).

Per quanto riguarda la individuazione del responsabile del procedimento, il referente normativo è costituito
dall’articolo 5, comma 1, della richiamata legge n. 241, il quale espressamente prevede che il dirigente di
ciascuna unità organizzativa provvede ad assegnare a sé o ad altro dipendente addetto all'unità la
responsabilità della istruttoria e di ogni altro adempimento inerente il singolo procedimento nonché,
eventualmente, dell'adozione del provvedimento finale.

Pertanto, il dirigente assume la veste di responsabile di tutti i procedimenti che rientrano nella competenza
funzionale dell’unità organizzativa, dal loro impulso, alla loro conclusione, alle relative comunicazioni.

Può, tuttavia, nominare un funzionario per provvedere alle relative incombenze, conferendogli la qualifica
di responsabile del procedimento, fermo restando che l’adozione del provvedimento finale è riservata alla
sua competenza esclusiva.

Quindi, in caso di designazione, da parte del dirigente preposto all’unità organizzativa, del responsabile del
procedimento, su quest’ultimo viene ad incentrarsi ogni incombenza connessa all’impulso, agli avvisi,
all’istruttoria e alla comunicazione del provvedimento finale. Al proponente è però riservata l’emanazione
del provvedimento finale, in quanto è dalla legge chiamato a rispondere della gestione complessiva della
struttura organizzativa.

Inoltre, è previsto che l’organo competente per l’adozione del provvedimento finale, ove diverso dal
responsabile del procedimento, non possa discostarsi dalle risultanza dell’istruttoria condotta dal
responsabile del procedimento se non indicandone la motivazione del provvedimento finale.

Il designato responsabile del procedimento non è tuttavia un mero esecutore materiale delle direttive
impartite dal dirigente, in quanto egli è investito di ampia autonomia operativa tecnico-discrezionale.

Uno degli obiettivi principali che il legislatore ha inteso conseguire attraverso l’emanazione della legge sul
procedimento amministrativo è stato quello della responsabilizzazione dei funzionari della pubblica
amministrazione. La responsabilità può essere di tre tipi penale, civile e amministrativa.

Per quanto concerne la responsabilità penale, è da osservare che il responsabile del procedimento può
incorrere nella fattispecie delineata dall’art. 328, comma 2, c.p., in materia di omissione di atti di ufficio; ciò
secondo dottrina e giurisprudenza, sia in caso di omissione ingiustificata di adottare l’atto conclusivo, sia
nella ipotesi in cui non vengano posti in essere gli atti dovuti menzionati nell’art. 6 della l. n. 241 del 1990.

Per quanto riguarda, invece la responsabilità civile, si applica l’art. 28 della Cost. secondo cui i funzionari e i
dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi civili, penali e
amministrative degli atti compiuti in violazione dei diritti e, dall’altro, dall’art. 22 del d.p.r. n. 3/1957 (T.U.
impiegati civili dello Stato), il quale dispone che l’impiegato che, nell’esercizio delle attribuzioni ad esso
conferite dalle leggi o dai regolamenti, cagioni ad altri un danno ingiusto con dolo o colpa grave è
personalmente obbligato a risarcirlo.

L’azione di risarcimento nei suoi confronti può essere esercitata congiuntamente con l’azione diretta nei
confronti dell’amministrazione qualora in base alle norme ed ai principi vigenti dell’ordinamento giuridico,
sussista anche la responsabilità dello Stato.

Il danneggiato avrà la facoltà di agire sia nei confronti dell’amministrazione oppure nei confronti del
funzionario responsabile.

Infine, per quanto concerne la responsabilità amministrativa contabile e disciplinare, sono le responsabilità
nelle quali può incorrere il responsabile sia per i danni cagionati su di lui, secondo quanto previsto dalle
leggi e dai contratti collettivi.
5 Il procedimento amministrativo (II)
5.1 La semplificazione dell’azione amministrativa
Il capo IV della legge n. 241 del 1990 contiene una serie di disposizioni di notevole rilievo, dirette a snellire
l’azione amministrativa.

Recentemente sugli istituti di semplificazione ha inciso la l. n. 69/2009, sempre nella prospettiva di dare
attuazione ai criteri di economicità, efficacia, imparzialità.

In particolare, al fine di snellire l’azione amministrativa, la l. n. 241 del 1990 prevede: la conferenza di
servizi (artt.14 e ss l n. 241 del 1990). Costituisce una forma di cooperazione tra le pubbliche
amministrazioni che ha lo scopo di realizzare, attraverso l’esame contestuale dei vari interessi pubblici
coinvolti, la semplificazione di taluni procedimenti amministrativi particolarmente complessi.

La legge sul procedimento amministrativo prevede due tipi di conferenze di servizi: l’istruttoria e decisoria.

Un altro istituto finalizzato a snellire l’attività amministrativa è quello degli accordi fra amministrazioni
pubbliche e tra amministrazione e privati finalizzati a disciplinare lo svolgimento di attività di pubblico
interesse in collaborazione;

Inoltre, la generalizzazione della figura del silenzio devolutivo che comporta la possibilità di richiedere ad
altri organi valutazioni tecniche di necessaria acquisizione ai fini dell’adozione del provvedimento finale,
che quelli precedentemente aditi non abbiano effettuato. In tali casi, il responsabile del procedimento deve
richiedere tali valutazioni tecniche a altri organi dell’amministrazione o ad altri enti pubblici che siano
dotati di qualificazione e capacità tecnica equipollenti.

L’attuazione dell’istituto dell’autocertificazione che consente al privato di poter provare, nei suoi rapporti
con la pubblica amministrazione, determinati fatti, stati e qualità a prescindere dall’esibizione dei relativi
certificati, semplicemente presentando una dichiarazione sostitutiva.

L’istituto è attualmente disciplinato dal d.p.r n. 445 del 2000, novellato dal d.lgs n.85 del 2005 (codice
dell’amministrazione digitale).

La segnalazione certificata di inizio attività L’articolo 49, comma 4 – bis del decreto legge 31 maggio 2010,
n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, disciplina la Segnalazione certificata
di inizio attività (Scia), sostituendo integralmente la disciplina della dichiarazione di inizio attività contenuta
nell'articolo 19 della legge 7 agosto 1990 n. 241.

L'art. 19 della L. 241/1990, infatti, aveva previsto il meccanismo della Dichiarazione di inizio attività con la
quale, in luogo dell'autorizzazione, l'interessato poteva produrre un'autodenuncia di inizio attività, rispetto
alla quale l’amministrazione doveva effettuare i suoi controlli autoritativi entro un termine certo. L'attività
oggetto della dichiarazione poteva essere iniziata decorsi 30 giorni dalla data di presentazione della stessa
all'amministrazione competente.

Con l’obiettivo di accelerare e semplificare rispetto alla precedente disciplina contenuta nella legge 241/90,
che prevedeva il decorso del termine di trenta giorni prima di poter avviare l’attività oggetto della Dia, la
Scia consente di iniziare l’attività immediatamente e senza necessità di attendere la scadenza di alcun
termine.
Il senso di tale riforma è quello della riduzione degli oneri amministrativi per il privato, consentendogli di
intraprendere un’attività economica sin dalla data di presentazione di una semplice segnalazione
all’amministrazione pubblica competente.

La norma richiede espressamente che alla segnalazione certificata di inizio attività siano allegate, tra l’altro,
le attestazioni di tecnici abilitati, con gli elaborati progettuali necessari per consentire le verifiche successive
di competenza dell'amministrazione.

L’amministrazione competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti, nel termine di
sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione, adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione
dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa, salvo che, se possibile, l’interessato
provveda a conformare alla normativa vigente la stessa attività ed i suoi effetti entro un termine fissato
dall’amministrazione, in ogni caso non inferiore a trenta giorni.

Decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti, all'amministrazione è consentito intervenire solo in
presenza del pericolo di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l'ambiente, per la salute, per la
sicurezza pubblica o difesa nazionale e previo motivato accertamento dell’impossibilità di tutelare
comunque tali interessi mediante conformazione dell’attività dei privati alla normativa vigente.

Infine, la generalizzazione del silenzio assenso (art. 20 l. n.241/1990) che ha reso di immediata applicazione
la norma secondo la quale in tutti i casi in cui la pubblica amministrazione non dà risposta ad un’istanza di
rilascio di provvedimenti amministrativi, il suo silenzio ha valore di provvedimento di accoglimento, fatta
salva l’applicazione delle ipotesi previste dall’art. 19 della l. n. 241 del 1990.

5.2 La conferenza dei servizi


5.2.1 La Conferenza dei servizi: origini e natura
L’istituto della conferenza dei servizi è regolato dagli art. 14 e s.s. della L. 241/90. La conferenza costituisce
una forma di cooperazione tra le pubbliche amministrazioni che ha lo scopo di realizzare, attraverso
l’esame contestuale dei vari interessi pubblici coinvolti, la semplificazione di taluni procedimenti
amministrativi particolarmente complessi.

In particolare, con la conferenza di servizi si concentrano in un unico contesto logistico e temporale le


valutazioni e le posizioni delle singole amministrazioni portatrici degli interessi pubblici coinvolti in un
procedimento amministrativo, al fine di consentire il coordinamento tra le amministrazioni coinvolte e di
favorire l'intervento di accordi tra le stesse.

La disciplina della conferenza di servizi è finalizzata all'attuazione del principio di buon andamento
dell'Amministrazione pubblica, di cui all'art. 97 Cost., in quanto mezzo di semplificazione e snellimento
dell'azione amministrativa.

Sulla natura giuridica della conferenza di servizi si è a lungo discusso, ma tra le differenti posizioni dottrinali
emergono sostanzialmente due tesi.

La prima considera la conferenza di servizi quale organo amministrativo collegiale di carattere straordinario,
ragion per cui il provvedimento finale sarebbe imputabile non alla P.A. procedente che convoca la
conferenza istruttoria – o alle Amministrazioni che esprimono i loro assensi in quella decisoria - bensì alla
conferenza stessa quale centro autonomo d'imputazione.
In merito alla seconda tesi sulla natura giuridica della conferenza di servizi, essa la delinea come mero
modulo organizzatorio, una forma di accordo tra più organi di separate amministrazioni, privo di una
propria individualità. Tale tesi pone in rilievo che l'istituto si limita a facilitare il coordinamento tra le singole
autorità amministrative, unici centri di imputazione volontaristica. Ne consegue che l'atto finale risulta
imputato solo all'amministrazione che adotta il provvedimento finale, ovvero alle altre amministrazioni che
attraverso la conferenza esprimono la loro volontà provvedimentale.

Pertanto, la legittimazione passiva in sede processuale compete solo all’amministrazione o alle


amministrazioni che abbiano adottato le statuizioni rilevanti all’esterni, e non alla conferenza, la quale
funge da solo strumento di raccordo e di semplificazione organizzativo procedimentali.

Occorre precisare che l'istituto in parola riveste oramai una duplice funzione: da un lato si presenta come
modulo generale di semplificazione procedimentale, dall’altro come strumento di coordinamento volto alla
composizione dei differenti interessi pubblici coinvolti in un dato procedimento e quindi alla individuazione
dell'interesse pubblico prevalente.

Tale ultima tesi è stata avallata dalla Corte Costituzionale con la Sentenza 10 marzo 1996, n. 79 (Redattore
Mirabelli), con la quale la conferenza di servizi è stata definita come « un metodo che caratterizza il
procedimento di raccolta, di valutazione e di espressione dei diversi interessi , anche quando non modifica
le competenze in ordine ai singoli atti del procedimento (quali pareri, autorizzazioni, concessioni, nullaosta)
ed al provvedimento finale » .

Ulteriore conferma in tale direzione è intervenuta ad opera del Consiglio di Stato, Sez. IV, con la Sentenza 9
luglio 1999, n. 1193, con la quale si è stabilito che la conferenza di servizi è solo un modulo procedimentale
e non costituisce anche un ufficio speciale della pubblica amministrazione autonomo rispetto ai soggetti che
vi partecipano.

Merita di essere menzionata anche la Decisione del T.A.R. Lombardia, Sez. III, 28 febbraio 2002, n. 888,con
la quale i Giudici amministrativi hanno precisato che la conferenza di servizi, nonostante le innovazioni
introdotte con la Legge n. 340 del 2000, non costituisce un organo amministrativo collegiale straordinario,
ma soltanto un modulo procedimentale, pertanto, il provvedimento finale deve essere imputato alle
singole amministrazioni che formano la conferenza e adottano l'atto finale.

Si segnala infine la Sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, 7 maggio 2004 n. 2874 , ove si precisa che: «(…)
la conferenza dei servizi (in special modo quella c.d. decisoria), costituisce un originale modulo
organizzativo (funzionale alla concreta attuazione dei principi costituzionali che presiedono all'azione
amministrativa, come individuati dall'articolo 97 della Costituzione) per l'acquisizione, su di un dato
provvedimento da adottare, dell'avviso di tutte le amministrazioni preposte alla cura degli interessi
coinvolti in quest'ultimo , idoneo a produrre l'auspicata accelerazione dei tempi procedurali (e dunque la
speditezza, efficacia ed economicità dell'azione amministrativa) attraverso un esame contestuale di tutti gli
interessi pubblici coinvolti: essa non implica, tuttavia, la creazione di un apposito ufficio speciale della
pubblica amministrazione, separato dai soggetti che vi hanno partecipato (ex pluribus, C.d.S., sez. V, 25
gennaio 2003, n. 349; sez. IV, 14 giugno 2001, n. 3169), con la conseguenza che l'avviso espresso in
conferenza dei servizi dai rappresentanti delle varie amministrazioni partecipanti resta pur sempre
imputabile alle sole singole amministrazioni ».

La Legge 11 febbraio 2005, n. 15 ha eliminato la condizione del dubbio, infatti con l'abrogazione del comma
2, dell'art. 14 -quater , è stata soppressa la possibilità che la conferenza adotti autonomamente la
determinazione conclusiva del procedimento prescindendo dal dissenso di una o più amministrazioni in
posizione minoritaria.

Infatti il nuovo art. 6 -bis della Legge n. 241 del 1990 dispone che all'esito dei lavori della conferenza, e in
ogni caso scaduto il termine di cui al comma 3, l'amministrazione procedente adotta la determinazione
motivata di conclusione del procedimento, valutate le specifiche risultanze della conferenza e tenendo
conto delle posizioni prevalenti espresse in quella sede.

In definitiva dovrà essere adottato un provvedimento finale conforme alla determinazione conclusiva
ex art. 6 -bis , il quale sostituisce, a tutti gli effetti, ogni autorizzazione, concessione, nulla-osta ecc.

5.2.2 La diverse tipologie di conferenza


La Legge n. 241 del 1990, distingue tre forme di conferenza di servizi:

a) la conferenza istruttoria;
b) la conferenza preliminare (o predecisoria);
c) la conferenza decisoria.

Tutte e tre hanno una funzione accelleratoria e di coordinamento, tuttavia assolvono a funzioni differenti,
pur partendo dalla medesima idea di fondo.

La conferenza istruttoria

La conferenza istruttoria è prevista dall'art. 14, comma 1, della Legge n. 241 del 1990, che dispone:

«Qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un
procedimento amministrativo, l'amministrazione procedente indìce di regola una conferenza di servizi ».

Si tratta della codificazione di quella che per anni è stata la prassi, infatti vengono ascoltate tutte le
Amministrazioni titolari di interessi coinvolti dal provvedimento amministrativo, anche se non sono parti
tipiche del procedimento.

Un'applicazione giurisprudenziale del suddetto principio è da rinvenirsi nella Sentenza del T.A.R. Abruzzo 25
ottobre 2002, n. 540 , relativa alla realizzazione della galleria di messa in sicurezza del Traforo autostradale
del Gran Sasso, rientrante tra le opere strategiche da realizzare ai sensi della Legge 21 dicembre 2001, n.
443.

Il Giudice amministrativo dichiarava l'illegittimità della conferenza di servizi per una pluralità di vizi, tra i
quali ai nostri fini rileva quello della mancata convocazione delle A.S.L. competenti territorialmente,
nonostante fossero emerse problematiche di natura sanitaria

Inoltre possono anche essere invitati soggetti che hanno competenze solo in fase di esecuzione, o
comunque interessati: concessionari di servizi pubblici, enti di settore, e anche soggetti privati (ad es. enti
rappresentativi di categoria),

La conferenza è indetta, ex art. 6 della L. n. 241 del 1990, dal responsabile del procedimento qualora sia
competente per l'adozione del provvedimento ovvero da quest'ultimo su proposta del responsabile.

L'invito alla conferenza presuppone l'identificazione dei soggetti coinvolti e dell'oggetto della conferenza,
ciò implica che nella comunicazione debbano essere indicati il luogo e la data della conferenza con un
congruo preavviso temporale che consenta una preparata partecipazione da parte delle amministrazioni
convocate.

Tali soggetti sono coinvolti nella fase istruttoria, escluso qualsiasi concorso di tipo valutativo nella fase
costitutiva, ove l'ente competente, esaminate le varie istanze, esprimerà la decisione finale. Tuttavia
l'Amministrazione competente ad assumere la decisione deve tenere conto di ciò che è emerso in sede di
conferenza, cioè di tutti gli interessi in essa rappresentati.

La conferenza è uno strumento che assolve, per le amministrazioni pubbliche, alla stessa funzione che ha
per i privati la partecipazione al procedimento ex art. 7 e ss. della Legge n. 241 del 1990, con la differenza
che mentre per i privati la partecipazione è di tipo meramente cartolare, per le Pubbliche Amministrazioni il
Legislatore ha optato per un'istruttoria aperta.

La conferenza in parola semplifica le successive fasi del procedimento acquisendo l'intesa con le altre
Amministrazioni attraverso una “negoziazione informale”. Data la pluralità di interessi pubblici coinvolti,
con la conferenza di servizi istruttoria si procede ad un concertato bilanciamento degli stessi.

La caratteristica principale della conferenza istruttoria, sta nel fatto che le sue risultanze non producono
effetti giuridici sulla decisione finale. Ciò significa che l'amministrazione che deve adottare l'atto finale del
procedimento non è tenuta ad attenersi a quanto emerso in sede di conferenza. Essa infatti svolge una
funzione strumentale di coordinamento e di informazione, da cui non scaturisce alcun atto formale con
rilevanza esterna.

Un esempio paradigmatico di tale tipo di conferenza lo rinveniamo all'art. 34 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n.
267 (T.U.E.L.), che al comma 3 stabilisce: « Per verificare la possibilità di concordare l'accordo di
programma, il presidente della regione o il presidente della provincia o il sindaco convoca una conferenza
tra i rappresentanti di tutte le amministrazioni interessate » .

L'istituto de quo può riguardare anche una pluralità di procedimenti amministrativi connessi. La norma di
riferimento è l'art. 14 della Legge n. 241 del 1990 (come modificato dall'art. 8, comma 1, lett. b), della Legge
n. 15 del 2005) che all'art. 14, comma 3 dispone: « La conferenza di servizi può essere convocata anche per
l'esame contestuale di interessi coinvolti in più procedimenti amministrativi connessi, riguardanti medesimi
attività o risultati . In tal caso, la conferenza è indetta dall'amministrazione o, previa informale intesa, da
una delle amministrazioni che curano l'interesse pubblico prevalente. L'indizione della conferenza può
essere richiesta da qualsiasi altra amministrazione coinvolta ».

I procedimenti connessi devono riferirsi alle medesime attività o risultati e rimangono distinti lungo tutta la
sequenza procedimentale, tranne che per il segmento dell'istruttoria che attiene alla valutazione
comparativa degli interessi pubblici coinvolti. In questo caso la conferenza viene indetta da una delle
amministrazioni coinvolte, in sostanza quella che prende l'iniziativa, tuttavia occorre rilevare che il compito
di indire la conferenza spetta in primo luogo all'amministrazione cui è imputata la cura dell'interesse
prevalente, da definire caso per caso.

La conferenza predecisoria (preliminare)

Un’altra tipologia di conferenza di servizi è quella cd. predecisoria, regolamentata dall’ art. 14 -bis della
Legge n. 241 del 1990, (come modificato dalla novella del 2005), il quale prevede al comma 1 che: « La
conferenza di servizi può essere convocata per progetti di particolare complessità e di insediamenti
produttivi di beni e servizi , su motivata richiesta dell'interessato, documentata, in assenza di un progetto
preliminare, da uno studio di fattibilità, prima della presentazione di una istanza o di un progetto definitivi,
al fine di verificare quali siano le condizioni per ottenere, alla loro presentazione, i necessari atti di
consenso. In tale caso la conferenza si pronuncia entro trenta giorni dalla data della richiesta e i relativi
costi sono a carico del richiedente ». Questa ipotesi riguarda progetti ad elevata complessità in ordine ai
quali, prima di presentare il progetto definitivo, si reputa opportuno verificare quali siano le condizioni per
ottenere i necessari atti di consenso. Le amministrazioni coinvolte devono esprimere in linea di massima le
condizioni dell'assenso.

Un’altra ipotesi è quella disciplinata al successivo comma 2 : « Nelle procedure di realizzazione di opere
pubbliche e di interesse pubblico, la conferenza di servizi si esprime sul progetto preliminare al fine di
indicare quali siano le condizioni per ottenere, sul progetto definitivo, le intese, i pareri, le concessioni, le
autorizzazioni, le licenze, i nullaosta e gli assensi, comunque denominati, richiesti dalla normativa vigente.
In tale sede, le amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio
storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità, si pronunciano, per quanto riguarda
l'interesse da ciascuna tutelato, sulle soluzioni progettuali prescelte. Qualora non emergano, sulla base
della documentazione disponibile, elementi comunque preclusivi della realizzazione del progetto, le
suddette amministrazioni indicano, entro quarantacinque giorni, le condizioni e gli elementi necessari per
ottenere, in sede di presentazione del progetto definitivo, gli atti di consenso ». In detta ipotesi risulta
obbligatorio l'utilizzo dello strumento della conferenza in oggetto, ove il progetto preliminare viene
esaminato al fine di individuare quali sono le condizioni per ottenere, sul progetto definitivo, le intese, i
pareri, le concessioni, le autorizzazioni, i nulla-osta, ecc.

Gli elementi emersi in sede di conferenza, che si concretizzano in raccomandazioni o prescrizioni di vario
tipo, possono essere modificati o integrati solo in presenza di significativi elementi emersi nelle fasi
successive del procedimento, eventualmente anche in conseguenza di osservazioni di privati.

Con la conferenza predecisoria da un lato viene semplificata l'attività del privato, o della P.A. interessata
alla realizzazione del progetto, dall'altro si determina un vincolo a carico delle diverse Amministrazioni
interessate.

In tal ipotesi la conferenza di servizi si pronuncia entro 30 giorni dalla data della richiesta e i relativi costi
sono a carico del richiedente.

La conferenza decisoria

L'istituto in oggetto persegue il fine di velocizzare e semplificare l'attività amministrativa attraverso la


concentrazione, in un unico contesto, dei procedimenti e delle competenze decisionali di una pluralità di
amministrazioni.

Con la conferenza decisoria vengono acquisiti intese, concerti, pareri, ecc., nel senso che le determinazioni
assunte in questa sede tengono luogo di quest’ultime .

La disciplina è contenuta agli art. 14, comma 2, 14 -ter e 14 -quater , riformulati da ultimo con la Legge n. 15
del 2005.

Ai sensi dell'art. 14, comma 2, Legge n. 241 del 1990, la conferenza di servizi « è sempre indetta quando
l'amministrazione procedente deve acquisire intese, concerti, nulla osta o assensi comunque denominati di
altre amministrazioni pubbliche e non li ottenga, entro trenta giorni dalla ricezione, da parte
dell'amministrazione competente, della relativa richiesta. La conferenza può essere altresì indetta quando
nello stesso termine è intervenuto il dissenso di una o più amministrazioni interpellate».

Con riguardo al potere di convocare la conferenza, si rinvia a quanto già detto con riferimento alla
conferenza istruttoria. Va precisato che, a seguito delle modifiche introdotte dalla Legge n. 340 del 2000, è
stato introdotto un meccanismo di indizione obbligatoria della conferenza. In particolare, nel caso di
mancata acquisizione di assensi entro il termine di 30 giorni, ovvero qualora vi sia inerzia da parte
dell'amministrazione richiesta, la P.A. procedente deve provvedere ad indire la conferenza.

Con riguardo ai casi in cui l'attività del privato è subordinata ad atti di consenso afferenti ad una pluralità di
Amministrazioni, quindi con riferimento a procedimenti ad iniziativa privata, la convocazione della
conferenza può essere richiesta anche dall'interessato, anche se deve poi essere disposta
dall'Amministrazione competente.

Infine l'art. 14, comma 5, della Legge n. 241 del 1990, con riguardo alla concessione di lavori pubblici
dispone che: « la conferenza di servizi è convocata dal concedente ovvero, con il consenso di quest'ultimo,
dal concessionario , entro quindici giorni fatto salvo quanto previsto dalle leggi regionali in materia di
valutazione di impatto ambientale (VIA). Quando la conferenza è convocata ad istanza del concessionario
spetta in ogni caso al concedente il diritto di voto » .

In tale ipotesi, nella prima riunione (o comunque in quella immediatamente successiva alla trasmissione
dell'istanza o del progetto definitivo, ex art. 14 -bis , comma 1, Legge 241/90) le Amministrazioni
stabiliscono il termine per l'adozione delle determinazioni conclusive, il quale non deve comunque essere
superiore a 90 giorni, salvo che necessiti la V.I.A. (Valutazione d'Impatto Ambientale).

Allorché la Valutazione de qua non sopraggiunga nel termine per l'adozione del provvedimento, la
conferenza si conclude comunque nei 30 giorni successivi al termine in cui doveva pervenire. La V.I.A.
determina quindi un allungamento della tempistica di trenta giorni, anche se la conferenza, a maggioranza
dei partecipanti, può deliberare una proroga di ulteriori 30 giorni per finalità istruttorie.

5.3 Il procedimento in sede di conferenza


Con riguardo all'organizzazione e al funzionamento della conferenza, colmando una lacuna presente nella
normativa previdente, il Legislatore del 2005 ha modificato l' art. 14 -ter della Legge sul procedimento
amministrativo.

La prima riunione della conferenza di servizi è convocata entro 15 giorni (30 per istruttorie particolarmente
complesse) dalla data di indizione.

Viene stabilito che essa assume le determinazioni relative all’organizzazione dei propri lavori a maggioranza
dei presenti e può svolgersi per via telematica.

La convocazione, con l’ordine del giorno deve pervenire alle Amministrazioni interessate, anche per via
telematica o informatica, con almeno 5 giorni di anticipo. Entro i successivi 5 giorni le Amministrazioni
possono chiedere un rinvio, in conseguenza del quale verrà concordata una nuova data, comunque entro i
10 giorni successivi alla prima.

Il comma 3 dell'articolo in commento dispone: « Nella prima riunione della conferenza di servizi, o
comunque in quella immediatamente successiva alla trasmissione dell'istanza o del progetto definitivo ai
sensi dell'articolo 14-bis, le amministrazioni che vi partecipano determinano il termine per l'adozione della
decisione conclusiva. I lavori della conferenza non possono superare i novanta giorni , salvo quanto previsto
dal comma 4. Decorsi inutilmente tali termini, l'amministrazione procedente provvede ai sensi dei commi 6
-bis e 9 del presente articolo ».

Il termine per l'adozione della decisione conclusiva ha una funzione accelleratoria del procedimento, ragion
per cui il suo inutile decorso radica in capo all'Amministrazione procedente il potere di adottare la decisione
definitiva, sulla base delle posizioni acquisite in sede di conferenza.

In merito alla natura del termine de quo il Consiglio di Stato, Sez. IV, 19 ottobre 2004, n. 6714 ha ritenuto
che: « la norma in parola (art. 14-ter comma 3, Legge n. 241/90 n.d.a.) è rivolta unicamente a regolare il
potere d'intervento del Consiglio dei ministri, ma non può essere interpretata nel senso che, decorso il
termine di 90 giorni, la Regione perde il potere di procedere alla formazione dell'intesa potere che, dunque,
può essere efficacemente esercitato fintanto che non risulti esercitato quello, concorrente, del Governo
(…). A sostegno della non perentorietà di tale termine, si può osservare, da un lato, che, secondo
l'orientamento della giurisprudenza, tale natura deve essere espressamente prevista dalla singola
disposizione e, dall'altro lato, che, in assenza di specifica previsione in tal senso, i termini per l'esplicazione
di potestà pubbliche, hanno, di regola, carattere sollecitatorio».

L’ iter procedurale si presenta tendenzialmente agile, teso ad evitare inutili procrastinazioni, come
d'altronde si evince dal comma 8 dell'articolo in oggetto, che dispone : « In sede di conferenza di servizi
possono essere richiesti, per una sola volta , ai proponenti dell'istanza o ai progettisti chiarimenti o ulteriore
documentazione . Se questi ultimi non sono forniti in detta sede, entro i successivi trenta giorni, si procede
all'esame del provvedimento ».

Venendo al provvedimento conclusivo del procedimento ritengo che esso svolga una funzione dichiarativa,
rispetto alla determinazione finale assunta in seno alla conferenza.

Come è stato correttamente osservato la natura dichiarativa del provvedimento è conseguenza del fatto
che esso non può discostarsi da quanto emerso in sede di conferenza, d'altronde la determinazione
conclusiva è espressamente dichiarata impugnabile (comma 10).

5.4 Il problema del dissenso


Una delle problematiche più complesse in tema di conferenza di servizi riguarda la disciplina del dissenso
che una o più Amministrazioni possono manifestare.

La Legge n. 15 del 2005 ha riscritto gli effetti del dissenso espresso nella conferenza di servizi nell'intento di
razionalizzare una pluralità di interventi successivi che avevano posto non pochi problemi agli interpreti.

L'art. 14 -quater, comma 1 stabilisce che: « Il dissenso di uno o più rappresentanti delle amministrazioni,
regolarmente convocate alla conferenza di servizi, a pena di inammissibilità, deve essere manifestato nella
conferenza di servizi, deve essere congruamente motivato, non può riferirsi a questioni connesse che non
costituiscono oggetto della conferenza medesima e deve recare le specifiche indicazioni delle modifiche
progettuali necessarie ai fini dell'assenso ».

Il dissenso deve quindi essere, a pena di inammissibilità:

a) espresso in sede di conferenza ;


b) motivato;
c) pertinente all'oggetto della conferenza;
d) propositivo, cioè non risolventesi in un mero dissenso.

Occorre dunque un silenzio qualificato, giacché il dissenso a fini ostruzionistici deve essere considerato
tamquat non esset .

I dissensi manifestati in conferenza, qualora minoritari, potranno essere superati dall'Amministrazione


procedente, solo con argomentazioni ragionevoli, giacché in caso contrario, qualora il dissenso sia
oggettivamente insuperabile, non si potrà adottare la determinazione conclusiva positiva. In particolare in
tali ipotesi si rende necessaria un'argomentata valutazione circa la preminenza dell'interesse pubblico
perseguito dall'Amministrazione rispetto a cui gli interessi dei dissenzienti vanno posposti.

La novella del 2005 ridisciplina le conseguenze del dissenso motivato manifestato, nei confronti del
provvedimento conclusivo della Conferenza, dalle Amministrazioni a tutela di interessi sensibili di livello
costituzionale.

In merito ai poteri sostitutivi, detta Legge realizza l'adeguamento al nuovo criterio di ripartizione delle
competenze scaturito dalla riforma del Titolo V della Costituzione.

Va precisato che i commi 3 e 4, dell'articolo 14 -quater , prevedono che in caso di dissenso espresso
dall'Amministrazione preposta alla tutela della salute, del patrimonio storico-artistico, nonché alla tutela
ambientale, paesaggistico-territoriale e della pubblica incolumità, la decisione finale spetta:

a) al Consiglio dei Ministri , in caso di dissenso tra Amministrazioni statali;


b) alla Conferenza Stato-Regioni , in caso di dissenso tra un'amministrazione statale e una regionale o
tra più amministrazioni regionali;
c) alla Conferenza Unificata , di cui all'articolo 8 del Decreto Legislativo 28 agosto 1997, n. 281, in caso
di dissenso tra un'amministrazione statale o regionale e un ente locale o tra più enti locali.

Le innovazioni in discussione sono finalizzate ad integrare l'elenco degli interessi sensibili


costituzionalmente protetti, in relazione ai quali è necessario che la decisione venga rimessa ad una
superiore istanza .

Se il motivato dissenso è espresso da una Regione o da una Provincia autonoma in una delle materie di
propria competenza, la determinazione sostitutiva è rimessa dall'amministrazione procedente, entro dieci
giorni :

a) alla Conferenza Stato-regioni , se il dissenso verte tra un'amministrazione statale e una regionale o
tra amministrazioni regionali;
b) alla Conferenza unificata , in caso di dissenso tra una regione o provincia autonoma e un ente
locale.

In tali casi, previa verifica della completezza della documentazione inviata ai fini istruttori, la decisione è
assunta entro 30 giorni, salvo che il Presidente della Conferenza Stato-Regioni o della Conferenza unificata,
valutata la complessità dell'istruttoria, decida di prorogare tale termine per un ulteriore periodo non
superiore a sessanta giorni .

Il Legislatore ha previsto anche l'ipotesi in cui la Conferenza Stato-Regioni o la Conferenza Unificata non
provvedano nei termini. L'art. 14-quater al comma 3-ter dispone in merito:
«Se entro i termini di cui ai commi 3 e 3-bis la Conferenza Stato-regioni o la Conferenza unificata non
provvede, la decisione , su iniziativa del Ministro per gli affari regionali, è rimessa al Consiglio dei ministri ,
che assume la determinazione sostitutiva nei successivi trenta giorni, ovvero, quando verta in materia non
attribuita alla competenza statale ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, e dell'articolo 118 della
Costituzione, alla competente Giunta regionale ovvero alle competenti Giunte delle province autonome di
Trento e di Bolzano, che assumono la determinazione sostitutiva nei successivi trenta giorni; qualora la
Giunta regionale non provveda entro il termine predetto, la decisione è rimessa al Consiglio dei ministri,
che delibera con la partecipazione dei Presidenti delle regioni interessate».

Tale potere sostitutivo mal si concilia con la ripartizione di competenze di cui al nuovo Titolo V della
Costituzione, tuttavia occorre tenere presente che il buon andamento dell'Amministrazione, di cui all'art.
97 della Carta fondamentale, necessita di procedimenti che possano concludersi in termini certi, il più
possibile brevi. In tal senso, onde evitare l'ingessatura della macchina amministrativa, occorre prevedere
meccanismi di tipo sostitutivo, come quello in parola, che fungano anche da deterrente rispetto a
comportamenti meramente dilatori, che non possono che compromettere il buon esito della procedura.

5.5 Profili innovativi in tema di conferenza di servizi contenuti nel d.l. 31 maggio
2010, n, 78.
L’art. 49 del d.l. n. 78 del 2010 recante: “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di
competitività economica”; convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, reca una serie di
novità concernenti la disciplina della conferenza di servizi.

In particolare, tale disposizione prevede: a) l’attivazione di conferenze di servizi; b) i lavori della conferenza;
c) la disciplina del dissenso; d) l’ambito di applicazione.

a) Le modifiche di cui all’art. 14 nello specifico riguardano il comma 1, che, nella sua versione novellata,
dispone che l’amministrazione procedente, “può indire” (e non più “indice di regola”) la conferenza
medesima: in tal modo viene rimessa alla discrezionalità della P.a. la decisione della convocazione; nonché
il comma 2, il quale, con riguardo ai casi in cui la conferenza di servizi decisoria è facoltativa, statuisce che la
stessa possa essere indetta quando nello stesso termine è intervenuto il dissenso di una o più
amministrazioni interpellate ovvero nei casi in cui è consentito all’amministrazione procedente di
provvedere direttamente in assenza delle determinazioni delle PP.AA: competenti.

b) Altre novità concernono i lavori della conferenza di servizi, infatti, al comma 2 viene previsto con
riferimento alla convocazione della conferenza, il rinvio (di massimo 15 giorni) della nuova data di riunione
della medesima, nel caso che la richiesta provenga da una autorità preposta alla tutela del patrimonio
culturale.

Viene introdotto un nuova comma 3 bis, in virtù del quale il Soprintendente, in caso di opera o attività
sottoposta anche a di autorizzazione paesaggistica, si esprime, in via definitiva, in sede di conferenza, ove
convocata, in ordine a tutti i provvedimenti di sua competenza, ex d.lgs. n. 42/2004.

Ancora, viene introdotto un nuovo comma 4 bis, ai sensi del quale, qualora l’intervento oggetto della
conferenza sia sottoposto a VAS (valutazione ambientale strategica), i relativi risultati e prescrizioni devono
essere utilizzati senza modificazioni, ai fini della VIA (valutazione di impatto ambientale) qualora effettuata
nella medesima sede, statale o regionale; ai sensi del d.lgs. 152/2006.
I commi 6 bis e 7 sono integralmente sostituiti, infatti la versione novellata del primo prevede che,
terminati i lavori, della conferenza, l’amministrazione procedente, in caso di VIA statale, può adire
direttamente il Consiglio dei Ministri, ai sensi del d.lgs. n. 152/2006, in tutti gli altri casi, valutate le
risultanza della conferenza e tenendo conto delle posizioni prevalenti espresse, adotta la determinazione
motivata di conclusione del procedimento; che sostituisce tutte le autorizzazioni necessarie per il progetto:
Il nuova comma 7, invece, prevede che è considerato acquisito l’assenso della p.a., ivi comprese quelle
preposte alla tutela della salute e alla tutela ambientale, il cui rappresentante, all’esito dei lavori della
conferenza, non abbia espresso definitivamente la volontà dell’amministrazione rappresentata: restano
esclusi da tale silenzio assenso i provvedimenti in materia di VAS, VIA AIA paesaggistico territoriale.

c) Il d.l n.78/2010 modifica, infine, anche l’art. 14 quater della l. n. 241 del 1990, concernente gli effetti del
dissenso espresso in sede di conferenza di servizi. In particolare, viene previsto la possibilità di rimettere
all’esame del Consiglio dei Ministri la maggior parte dei casi di motivato dissenso tranne le ipotesi di cui
all’art. 117, comma 8. (intese tra Regioni), di specifici procedimenti disciplinati dal Codice degli Appalti,
nonché di localizzazione di opere di interesse statale.

d) In ultimo, occorre ricordare che le norme sulla conferenza di servizi, attraverso la modifica dell’art. 29
della l. n. 241 del 1990, concernente l’ambito di applicazione della stessa legge, vengono inserite tra i livelli
essenziali delle prestazioni ex art, 117, comma 2, lett. m) della Cost., che devono essere garantiti in maniera
uniforme in tutto il territorio nazionale.

5.6 Sinteticamente le novità introdotte dalla legge n.69 del 2009


Il legislatore, pur riconoscendone la funzionalità, negli ultimi anni ha introdotto molteplici correttivi al
meccanismo generale di conferenza, da ultimo con la Legge n. 69/09.

Nel complesso, le variazioni più significative sono:

o la possibilità di convocare la conferenza anche quando le Amministrazioni hanno già espresso il


proprio dissenso;
o il ruolo primario e autonomo assegnato alla conferenza sul progetto preliminare, sulla scorta delle
esperienze della legge sui lavori pubblici ed utilizzabile per gli impianti produttivi di particolare
complessità;
o il nuovo criterio per l’assunzione della decisione, con riferimento alle risultanze di conferenza e alle
posizioni prevalenti espresse in quella sede;
o l’obbligo, per l’Amministrazione che esprime parere contrario, di motivare e indicare le modifiche
progettuali necessarie per l’assenso;
o l’adozione di termini certi per la decisione conclusiva e il “provvedimento finale” di conferenza;
o il termine per la conclusione del procedimento ed i rapporti con la disciplina del danno da ritardo;
o le possibili reazioni del privato in caso di mancata conclusione del procedimento nei termini
previsti;
o la più articolata disciplina della conferenza in caso di interventi per i quali sia richiesta la V.I.A.;
o il superamento del dissenso mediante le decisioni del Consiglio dei Ministri, della Conferenza Stato-
Regioni o della Conferenza Unificata e il superamento del dissenso in caso di V.I.A. negativa;
o le conseguenze connesse alla mancata partecipazione delle Amministrazioni invitate;
o le indicazioni per la normativa regionale;
o la generalizzazione della pubblicità dei lavori di conferenza e l’accesso agli atti;
o le modalità di partecipazione dei privati.
Inoltre, vi sono talune specifiche ipotesi di conferenza che meritano di essere approfondite. Ci si riferisce, in
particolare:

o alle norme sullo “sportello unico”;


o alla cd. riforma Bersani sul commercio;
o alle conferenze previste dalla cd. Legge obiettivo (ora disciplinate dal Codice degli appalti), dal
Testo Unico sugli espropri e dal D. Lgs. n. 387/03 (autorizzazione unica per gli impianti di energia
elettrica alimentati da fonti rinnovabili).

Il legislatore, inoltre, con il T.U. degli EE.LL. ha proceduto ad un’opportuna ricognizione del precedente
assetto dell’accordo di programma, che consente di definire, approvare e attuare opere, interventi o
programmi di intervento che richiedono – per la loro completa attuazione – l’azione integrata e coordinata
di più soggetti pubblici, come pure di sostituire i provvedimenti unilaterali della P.A. con accordi fra P.A. e
privati.

Infatti, tramite l’accordo di programma (e gli strumenti ad esso assimilabili come i protocolli d’intesa, le
intese generali quadro e la programmazione negoziata) è possibile:

o valutare e modificare i progetti;


o rispettare le sfere di competenza di ciascun Ente interessato;
o contrattualizzare l’azione futura delle P.A., in modo da assorbire tutte le autorizzazioni richieste e
ridurre i rischi di un eventuale contenzioso fra privati e P.A. o anche fra P.A.;
o affrontare i problemi di coordinamento delle azioni;
o determinare i tempi, le modalità di esecuzione e i mezzi di finanziamento.
6 Atti e provvedimenti amministrativi
6.1
13 Attività contrattuale della PA
13.1 Definizione di “contratto pubblico” e disciplina normativa
ART. 3,c.3, d.lgs 163/2006: Sono contratti pubblici “i contratti di appalto e le concessioni aventi ad oggetto
l’acquisizione di servizi o forniture, ovvero l’esecuzione di opere o di lavori, posti in essere dalle stazioni
appaltanti, dagli enti aggiudicatori, dai soggetti aggiudicati”.

La definizione, tratta dal codice dei contratti (d.lgs. n.163/2006), include tutti gli strumenti di natura non
autoritativa mediante i quali la PA, nel perseguimento dei propri fini istituzionali, si rivolge a soggetti terzi
per l’affidamento di lavori, per l’acquisto di servizi e di forniture.

In via preliminare, essi vanno tenuti distinti dai contratti di diritto pubblico, o ad oggetto pubblico, che
intervengono talora nell’esercizio di poteri pubblicistici per regolare aspetti patrimoniali (es, convenzioni tra
enti pubblici, accordi sostitutivi etc..).

Occorre anche rapidamente dare conto della differenza esistente tra contratti attivi e passivi della PA,
soggetti a regole e normative diverse con riferimento alla scelta del contraente.

Sono comunemente indicati come attivi quei contratti da cui derivi per la PA una entrata economica.
Questa tipologia di contratti è esclusa dall’ambito di applicazione del d.lgs. n. 163/2006 ma è soggetta alle
regole di contabilità pubblica e delle leggi speciali che dettano un regime diverso da quello di diritto
comune.

Infine, va precisato in apertura di trattazione che il codice dei contratti si applica tanto ai contratti di
appalto quanto alle concessioni.

La differenza tra i due moduli negoziali è data essenzialmente dal tipo di remunerazione che ne deriva.

Nel contratto di appalto la remunerazione è data dal corrispettivo che la PA eroga all’appaltatore per la sua
attività.

Nella concessione, invece, la remunerazione è data dai proventi della gestione dell’opera o del servizio che
il concedente riesce a ricavare nel suo rapporto diretto con l’utenza.

Ambedue le tipologie contrattuali sono normate dal codice dei contratti.

Per chiudere la rapida disamina iniziale, occorre richiamare la distinzione tra appalti di rilevanza
comunitaria ed appalti cosiddetti sotto soglia comunitaria. A questi ultimi si applica non l’intera disciplina
del codice dei contratti ma i principi generali.

Nella disciplina dei contratti pubblici l’aspetto di maggiore criticità è rappresentato dalla commistione tra
normativa privatistica e normativa pubblicistica, con ricadute fondamentali in punto di riparto di
giurisdizione.

In linea di principio, è possibile affermare che ricadono sotto l’egida del diritto amministrativo tutti gli
aspetti relativi alla formazione della volontà negoziale del soggetto pubblico e alla scelta del contraente
mentre spetta al diritto privato la disciplina sostanziale del rapporto negoziale.
La legislazione in materia di contratti pubblici ha conosciuto negli anni un imponente fenomeno di
stratificazione che ha conferito alla materia un aspetto frammentario e disorganico.

La pubblicazione del codice dei contratti pubblici (d.lgs n.163/2006) ha inteso, innanzitutto, ricomporre il
quadro normativo esistente, per esigenze incomprimibili di riordino della intera materia.

In seconda istanza, lo sforzo del legislatore nazionale, confluito nella compilazione del testo unico, è stato
finalizzato al necessario adeguamento al quadro normativo comunitario.

La materia dei contratti pubblici è stata infatti oggetto di intesi sforzi legislativi a livello europeo per le
ricadute dirette che essa produce in materia di concorrenza e, quindi, in un campo in cui il legislatore
comunitario è particolarmente attivo.

Anche là dove non trovino applicazione le direttive, sussistono in ogni caso i principi del Trattato vincolanti
a prescindere da qualsiasi atti interno di recepimento e quindi anche per gli appalti sotto-soglia, le
concessione di servizi ed in generale per i contratti esclusi.

L’art. 121 del codice dei contratti, poi, ha esteso anche ai contratti sotto soglia la disciplina generale se non
derogata.

In particolare, trovano applicazione:

1. il principio di pubblicità e trasparenza;


2. il principio di proporzionalità;
3. il principio della parità di trattamento;
4. il principio di mutuo riconoscimento.

13.2 Ambito soggettivo di applicazione della normativa in materia di contratti


pubblici
Il legislatore nazionale individua, in genere, nelle “amministrazioni pubbliche” i soggetti tenuti ad applicare
la normativa sui contratti pubblici quando intendano ricorrere a strumenti negoziali per la cura degli
interessi pubblici loro demandati (ex art. 1, c. 1 d.lgs 163/2006, la disciplina del codice si applica alle
stazioni appaltanti, agli enti aggiudicatori, ai soggetti aggiudicatori).

Sono tali certamente i soggetti inclusi nella elencazione ex art. 1 d.l.lgs. 165/2001 ma anche altri che non
sono ivi indicati pur essendo indubbiamente vincolati al rispetto delle regole della evidenza pubblica per la
scelta del contraente (fondazioni di diritto pubblico, agenzie, enti pubblici economici).

La nozione, dunque, non è esaustiva ed appare superata dalla intervenuta frammentazione della nozione di
soggetto pubblico, oggi non più ricostruibile a priori ma sempre subordinata alla analisi concreta dei
compiti affidati e dei poteri esercitati.

In ambito comunitario si sono affermate la nozione, più ampia e flessibile, di “amministrazioni


aggiudicatici”e la nozione correlata di “organismo di diritto pubblico”.

Nella direttiva comunitaria 2004/18 si enumerano le amministrazioni aggiudicatici, includendovi lo Stato, gli
Enti pubblici territoriali e gli organismi di diritto pubblico.

La nozione derivata di “organismo pubblico” rappresenta il canale di espansione della normativa in materia
di contratti pubblici a tutti i soggetti che intendano stipulare un contratto per lo svolgimento di una attività
preordinata alla cura di un interesse pubblico, finanziata, direttamente o indirettamente, da risorse
pubbliche.

Tramite questa figura è stata superata la difficoltà delle diverse classificazioni nazionali dei soggetti pubblici.

La nozione di organismo di diritto pubblico è individuata da tre elementi (art. 3, c. 26, d.lgs. 163/2006):

1. perseguimento di un interesse generale di natura non commerciale o industriale;


2. personalità giuridica;
3. attività finanziata in modo maggioritario dallo Stato e da altri soggetti pubblici o organismi di diritto
pubblico, o gestione soggetta al controllo di questi ultimi o il cui organi deliberante sia controllato
per più della metà da componenti designati da questi ultimi.

I tre requisiti hanno carattere cumulativo e devono coesistere.

La nozione è molto ampia e potremmo dire omnicomprensiva, restano però fuori le imprese pubbliche
proprio perché in esse è ontologicamente ravvisabile un fine commerciale e/o industriale.

13.3 Fase preparatoria, la deliberazione a contrarre


La stipula del contratto è preceduta da una serie di adempimenti preparatori di varia natura, come studi di
fattibilità, attività di progettazione, acquisizione di pareri tecnici ed amministrativi.

Breve cronistoria:

 TU EE.ll 1934: la deliberazione a contrarre era considerata fulcro e momento essenziale della
attività contrattuale della PA; l’atto negoziale non preceduto da deliberazione a contrarre o privo di
copertura autorizzativa era ritenuto nullo o annullabile, comunque inficiato da invalidità. Solo la
deliberazione a contrarre conferiva legittimazione ad agire e a stipulare contratti in capo agli organi
gestionali;
 riforma anni ’90 degli enti locali: viene precisato che la deliberazione a contrarre è atto della Giunta
e che essa è nulla in caso di mancata indicazione della copertura finanziaria;
 riforme della dirigenza anni ’90 e introduzione del principio della separazione tra attività di indirizzo
ed attività di gestione: la delibera a contrarre è sostituita dalla determinazione a contrarre,
spettante al responsabile del procedimento (art. 11, c. 2, d.lgs. 163/2006). È sempre atto
prodromico ma non ha più funzione legittimante quanto piuttosto valenza di atto di verifica, da
parte del responsabile del procedimento, della sussistenza di tutti i requisiti di regolarità della
procedura. L’atto non è soggetto a pubblicità ed è atto interno, sempre revocabile ed impugnabile
davanti al GA.

13.4 Procedure di scelta del contraente


La scelta del contraente è soggetta alle regole della evidenza pubblica, deve cioè avvenire con gara.

Non è richiesta una particolare qualificazione giuridica ma il possesso di determinati requisiti di affidabilità
sotto vari profili (requisiti morali, capacità tecnica, capacità economica) .

Il possesso dei suddetti requisiti è di regola verificato nelle procedure preliminari di ammissione e pre-
qualificazione ma è sempre più diffuso il ricorso ad un sistema generale di qualificazione basato su apposite
attestazioni di qualificazione rilasciate da organismi privati a ciò abilitati (SOA, società organismi di
attestazione).
I requisiti generali e speciali devono essere posseduti alla data di presentazione della domanda di
partecipazione e devono essere mantenuti sino al termine dell’affidamento.

Inoltre, l’art. 46 nuovo testo del codice dei contratti ha tipizzato le cause di esclusione dalle procedure di
evidenza pubblica per limitare la discrezionalità delle stazioni appaltanti in questa fase preliminare.

La mancanza dei requisiti tecnici o della capacità economica può essere superata attraverso la costituzione
di Associazioni temporanee di imprese (ATI) da parte di aziende di settore interessate alla partecipazione
alla gara che cumulano i rispettivi requisiti per raggiungere la soglia minima richiesta dal bando di gara,
oppure attraverso l’istituto dell’avvalimento.

I requisiti di ordine morale devono, tuttavia, essere posseduti da tutti i soggetti partecipanti al
raggruppamento, e sono al pari richiesti per tutti i soggetti coinvolti in caso di cessione del ramo d’azienda,
incorporazione e fusione.

Sistemi e criteri di aggiudicazione, art. 54 d.lgs.163/2006

Per sistemi di scelta si intendono le particolari procedure di scelta imposte dalla legge per la individuazione
del soggetto con cui la PA potrà concludere il contratto.

L’art. 54, c.1, cod. contratti stabilisce che “per l’individuazione degli operatori economici che possono
presentare offerte per l’affidamento di un contratto pubblico, le stazioni appaltanti utilizzano le procedure
aperte, ristrette, negoziate, ovvero il dialogo competitivo”.

La scelta della procedura da seguire deve essere già indicata nel decreto o determinazione a contrarre,
previsto dall’art. 11.

Prima della entrata in vigore del codice dei contratti pubblici la classificazione dei sistemi di scelta del
contraente, secondo la normativa di contabilità pubblica, prevedeva:

 pubblico incanto (asta): regola generale per tutti i contratti attivi ed una delle opzioni possibili,
insieme alla licitazione privata, per i contratti passivi;
 licitazione privata;
 appalto concorso;
 trattativa privata.

Nell’ordinamento comunitario, le procedure di scelta del contraente sono:

 procedure aperte (pubblico incanto);


 procedure ristrette (licitazione provata);
 procedure negoziate (trattativa privata);
 asta elettronica;
 dialogo competitivo;
 sistema dinamico di acquisizione.

Il codice dei contratti ha recepito la terminologia comunitaria ed ha introdotto anche nuovi meccanismi di
affidamento quali l’accordo quadro, i sistemi dinamici di acquisizione, le aste elettroniche e il dialogo
competitivo.
Solo con riferimento agli appalti di lavori pubblici, il legislatore ha previsto il project financing (art. 153
codice dei contratti) come procedura di affidamento della realizzazione di un’opera senza oneri economici
per la finanza pubblica e ricorso a capitali interamente privati.

Per criteri di aggiudicazione si intendono i metodi con cui si procederà alla selezione della offerta
aggiudicataria, disciplinati agli artt. 81-84 del codice dei contratti.

I criteri di scelta sono:

 prezzo più basso, art. 82;


 offerta economicamente più vantaggiosa, art. 83.

Il criterio del prezzo più basso, calcolato sul prezzo posto dalla stazione appaltante a base d’asta, è
certamente una modalità di scelta semplificata che lascia scarso margine discrezionale alla commissione di
gara.

Tuttavia una distinzione è necessaria secondo che il contratto debba essere stipulato a corpo” o “a misura".

Il criterio della offerta economicamente più vantaggiosa implica la valutazione di elementi ulteriori e
maggiormente sindacabili rispetto al prezzo offerto, relativi all’oggetto ed alle caratteristiche del contratto
che si intende stipulare all’esito della procedura di gara.

Si tratta di un criterio tipicamente utilizzato per la realizzazione delle opere e dei servizi caratterizzati da
maggiore complessità, in cui l’aspetto economico è fondamentale ma recessivo rispetto alla caratteristiche
tecniche che, infatti, debbono essere esaminate dalla commissione di gara con priorità.

Il legislatore non esprime opzioni di favore per l’uno o l’altro criterio ma si tratta di elemento che deve
essere chiaramente definito nel bando di gara.

ASTA PUBBLICA (procedure aperte)

Rappresenta la regola generale per i tutti i contratti attivi, con possibilità solo in via eccezionale di ricorrere
alla licitazione privata.

Per i contratti passivi, invece il nostro ordinamento ammette indistintamente il ricorso a procedure aperte
(asta pubblica) e ristrette (licitazione privata), al pari dell’ordinamento comunitario che prevede restrizioni
solo per la trattativa privata.

La procedura aperta è di regola preceduta da un bando, invito pubblico a partecipare, che legittima tutti
coloro che siano in possesso dei requisiti a presentare la propria offerta.

Più specificamente, il bando fissa con ampia discrezionalità modalità, requisiti e termini di partecipazione,
avendo natura e funzione di lex specialis della gara che vincola al rispetto delle statuizioni in esso contenute
non solo i concorrenti ma anche la stessa amministrazione che lo ha adottato.

Pur se fornita di larga discrezionalità nelle predisposizione del contenuto del bando, le scelte
dell’amministrazione in questa fase sono comunque sottoposte a taluni limiti nella misura in cui non
possono essere introdotti adempimenti illogici o sproporzionati, non giustificati dall’oggetto e dalla natura
della prestazione dedotta in contratto.
Le clausole del bando immediatamente lesive nelle misura in cui precludono illegittimamente la
partecipazione di potenziali concorrenti alla gara, determinandone l’esclusione, possono costituire oggetto
di immediata impugnazione.

LICITAZIONE PRIVATA (procedure ristrette)

In origine si trattava di una procedura alla quale erano ammessi a partecipare solo coloro che fossero stati
invitati dalla amministrazione procedente.

Questa caratteristica è andata gradualmente sfumando.

Con l. n. 14/1973 è stato introdotto l’obbligo di un avviso di gara per consentire agli interessati di
presentare la propria candidatura, pur lasciando alla amministrazione un ampio margine di discrezionalità
ai fini della ammissione alla procedura.

Tale margine di discrezionalità è stato progressivamente eroso per effetto del recepimento della normativa
comunitaria che ha imposto alle amministrazioni stringenti obblighi di motivazione in caso di esclusione.

Tuttavia, è ancora previsto (art. 62, c. 1 cod. contratti) che l’amministrazione possa limitare il numero
minimo ma anche il numero massimo di concorrenti in applicazione di criteri obiettivi predeterminati (c.d.
forcella).

La disciplina comunitaria prevede una fase di prequalificazione preceduta dalla pubblicazione di un bando
che specifica i requisiti minimi di capacità tecnica ed economica per l’ammissione alla fase di gara
propriamente intesa (art. 55, c. 6, codice dei contratti).

Il bando di gara, dunque, deve indicare un doppio termine per la ricezione delle domande di partecipazione
e per la spedizione degli inviti a presentare offerte.

Tutte le imprese che abbiano fatto richiesta e che siano in possesso dei requisiti previsti dal bando, devono
essere invitate alla licitazione privata, cioè al confronto

Il cambiamento ha interessato, però, solo i contratti sottoposti alla disciplina comunitaria, mentre per gli
altri trova applicazione ancora la normativa contabile interna che è meno garantista benché l’orientamento
più recente sia quello dell’ampliamento delle regole comunitarie sulle gare anche agli appalti cosiddetti
sotto-soglia, almeno con riguardo ai principi fondamentali.

L’APPALTO CONCORSO

L’istituto, di carattere eccezionale e derogatorio, era previsto in passato ma non è contemplato dal codice
dei contratti.

Secondo i più, è stato riassorbito dalle procedure ristrette condotte con il criterio della offerta
economicamente più vantaggiosa.

La procedura si basava sulla presentazione di un progetto tecnico da parte delle ditte concorrenti, in
funzione della realizzazione di speciali lavori e forniture che richiedevano particolari competenze
scientifiche, tecniche o artistiche.

L’aggiudicazione avveniva, perciò, non solo sulla base del prezzo ma sulla base di una attenta valutazione
anche degli aspetti tecnici e qualitativi del progetto.
TRATTATIVA PRIVATA (procedure negoziate)

Sistema di scelta del contraente caratterizzato dalla assenza di qualsiasi vincolo di procedura concorsuale e
quindi utilizzabile solo in ipotesi tassativamente indicate.

La classificazione comunitaria non prevede la trattativa privata ma parla di procedure negoziate che
possono essere o non essere precedute da un bando (art. 31, direttiva 2004/18/CE).

La soluzione è stata recepita nel codice dei contratti che specifica i casi in cui la previa pubblicazione del
bando è necessaria (artt. 56 e 57).

Anche nei casi in cui non sia necessaria, è sempre ammessa la possibilità per la PA di esperire gare
informali, attraverso le quali individuare la migliore offerta nel caso specifico.

Tali procedure di gara non erano in passato codificate ma si riteneva che dovessero comunque svolgersi nel
rispetto di alcuni fondamentali principi quali imparzialità, trasparenza e buon andamento.

Il codice dei contratti ha fatto chiarezza in materia, precisando che quando per l’affidamento del contratto
non è necessaria la gara né la previa pubblicazione del bando, la PA può comune svolgere delle mere
consultazioni.

13.5 L’aggiudicazione del contratto


L’aggiudicazione conclude la procedura di scelta del contraente, proclamando il vincitore.

La natura giuridica di questo atto è stata a lungo dibattuta, scontrandosi essenzialmente due tesi a favore
della natura provvedimentale o negoziale dello stesso.

Si distingua tra aggiudicazione provvisoria ed aggiudicazione definitiva.

La prima spetta alla Commissione di gara che, applicando i criteri stabiliti nel bando, individua il miglior
contraente tra quelli che hanno presentato la propria candidatura.

Dopo acceso dibattito, se ne ammette la immediata lesività per i concorrenti soccombenti ai quali è
riconosciuta una immediata legittimazione ad impugnare.

Segue l’aggiudicazione definitiva che è di competenza dell’organo di controllo della stazione appaltante e
che conduce una autonoma attività di valutazione dell’effettivo possesso dei requisiti in capo
all’aggiudicatario.

Tale aspetto esclude la natura di atto meramente confermativo della aggiudicazione definitiva.

Di più, l’aggiudicazione provvisoria, benché autonomamente impugnabile, rimane atto


endoprocedimentale “ad effetti instabili e del tutto interinali” che il concorrente ha la facoltà ma non
l’onere di impugnare immediatamente.

Il concorrente che abbia impugnato l’aggiudicazione provvisoria ha invece l’onere di impugnare anche la
aggiudicazione definitiva, atto nuovo che richiede autonoma impugnazione.

La mancata impugnazione della aggiudicazione definitiva rende inammissibile il ricorso avverso gli atti di
gara intermedi, tra cui esclusioni ed aggiudicazione provvisoria.
Trattandosi di atti di spettanza della autorità amministrativa nell’esercizio di potere discrezionale,
l’orientamento oggi nettamente prevalente propende per la natura pubblicistica di tali atti con attribuzione
della giurisdizione al giudice amministrativo.

13.6 Appalti in house


Solo per gli appalti di servizi è ammessa, dal diritto comunitario e dal diritto interno, la possibilità di
affidamento diretto senza gara da parte di una amministrazione aggiudicatrice ad altro soggetto che
presenti determinate caratteristiche.

Nello specifico, l'affidamento in house rappresenta un particolare modo di gestione dei servizi pubblici
attraverso il quale si assiste ad una sorta di delegazione interorganica con l'amministrazione aggiudicatrice
che demanda la gestione del servizio pubblico ad un soggetto che solo formalmente è estraneo rispetto ad
essa, giacché, sostanzialmente, ne rappresenta la longa manus.

In giurisprudenza e dottrina si è parlato anche di “autoproduzione” da parte della PA che, acquisisce un


bene o predispone un servizio, rivolgendosi alla propria compagine organizzativa anziché al mercato ed ai
suoi operatori.

Di recente, la Adunanza plenaria 3 marzo 2008, n. 1 ha riassunto in maniera esaustiva le condizioni per la
legittimità dell’affidamento in house, cioè senza gara, da parte di una amministrazione aggiudicatrice.

L'affidamento diretto (in house) di un servizio pubblico viene consentito tutte le volte in cui un ente
pubblico decida di affidare la gestione del servizio, al di fuori del sistema della gara, avvalendosi di una
società esterna (ossia, soggettivamente separata) che presenti caratteristiche tali da poterla qualificare
come una "derivazione" dell'ente stesso.

Tale requisito sussiste quando l’amministrazione giudicatrice eserciti sull’affidatario un controllo analogo a
quello che esercita sui propri organi interni.

Più compiutamente, i requisiti della gestione in house sono:

a) il capitale sociale interamente pubblico;


b) l'esercizio da parte dell'ente locale o degli enti pubblici titolari del capitale sociale di un controllo
sulla società analogo a quello esercitato sui propri servizi;
c) la realizzazione da parte della società in house della parte più importante della propria attività con
l'ente o gli enti pubblici che la controllano .

Sul requisito del controllo analogo, in diverse occasioni, è intervenuta la Corte di Giustizia Europea
affermando che deve trattarsi di un rapporto che determina da parte dell'amministrazione controllante un
assoluto potere di direzione, coordinamento e supervisione che attiene ai più importanti atti di gestione.

La partecipazione pubblica totalitaria, tuttavia, è condizione necessaria, ma non sufficiente. Occorre anche
l'influenza determinante del socio pubblico, sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti.

Il regime dell’in house richiede la presenza di strumenti di controllo da parte dell'ente più incisivi rispetto a
quelli previsti dal diritto civile (non deve essere statutariamente consentito che una quota del capitale
sociale, anche minoritaria, possa essere alienata a soggetti privati; il consiglio di amministrazione della
società deve essere privo di rilevanti poteri gestionali; all'ente pubblico controllante deve essere consentito
l'esercizio di poteri maggiori rispetto a quelli che il diritto societario riconosce normalmente alla
maggioranza sociale; l'impresa non deve acquisire una vocazione commerciale che renda precario il
controllo dell'ente pubblico, con la conseguente apertura obbligatoria della società ad altri capitali, fino
all'espansione territoriale dell'attività a tutta l'Italia e all'estero; le decisioni più importanti devono essere
sottoposte al vaglio preventivo dell'ente affidante).

Richiede, inoltre, che vi sia "destinazione prevalente dell'attività" (cioè il rapporto di stretta strumentalità
fra le attività dell'impresa e le esigenze pubbliche che l'ente controllante è chiamato a soddisfare).

L'ente "in house" non può ritenersi terzo rispetto all'amministrazione controllante, ma deve considerarsi
come uno dei servizi propri dell'amministrazione stessa.

Il Consiglio di Stato, con la menzionata AP n. 1/2008, ha precisato che la sussistenza del controllo analogo è
esclusa in presenza di un socio privato.

Deve escludersi, infatti, la riconducibilità del modello organizzativo della società mista a quello dell' in
house providing.

Il fenomeno delle società miste rientra nel concetto di partenariato pubblico-privato (Ppp), la cui
codificazione risale al libro verde della Commissione Ce relativo al Ppp e al diritto comunitario degli appalti
e delle concessioni.

I requisiti dell'"in house providing" (controllo analogo e strumentalità del rapporto fra attività d'impresa ed
esigenze pubbliche) vanno interpretati restrittivamente.

13.7 Tutela giurisdizionale


Il nuovo codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104/2010) reca agli artt. 120 e ss. il rito speciale per i
contratti della PA, improntato ad accelerazione dei tempi processuali e maggiore snellezza in una materia in
cui il fattore “tempo” è, più ancora che altrove, determinante.

Il codice introduce, innanzitutto, l’istituto nuovo del preavviso di ricorso, consistente in una comunicazione
che il ricorrente deve inoltrare alla stazione appaltante in cui esplicita volontà e motivazioni della iniziativa
processuale che intende promuovere avverso gli atti di gara.

Tale preavviso non è condizione di procedibilità per il successivo ricorso ma costituisce comportamento
valutabile dal giudice ai sensi dell’art. 1227 c.c. e strumento di collaborazione tra le parti allo scopo di
elidere sul nascere un contenzioso che andrebbe a detrimento di tutti gli attori coinvolti.

In materia di contratti pubblici, non è ammesso ricorso straordinario al capo dello Stato, rimanendo il
ricorso giurisdizionale l’unico rimedio esperibile, ex art. 120, c. 1, c.p.a..

Il ricorso deve essere notificato entro il termine di decadenza di 30 giorni, art. 120, c. 2 e 5 d.lgs. 163/2006,
mentre il deposito deve avvenire entro 15 giorni dall’ultima notifica.

Tutti gli ulteriori termini processuali sono dimezzati.

Nel caso in cui siano stati omessi gli avvisi, il termine di impugnazione è di sei mesi decorrenti dalla stipula
del contratto.

Gli stessi termini si applicano alla presentazione di motivi aggiunti al ricorso principale.

Avverso gli atti delle procedure di gara può essere formulata richiesta di misure cautelari provvisorie, da
adottarsi nelle more della decisione del ricorso nel merito con sentenza.
Successivamente al deposito del ricorso, nel tempo intercorrente fino alla prima camera di consiglio utile
per l’esame della richiesta di misure cautelari provvisorie, può essere adottato, con decreto monocratico
presidenziale, un provvedimento interinale inaudita altera parte, cioè in assenza di contraddittorio pieno,
allo scopo di paralizzare gli effetti dell’atto che potrebbero compromettere l’efficacia della ordinanza
cautelare collegiale che sarà nel prosieguo adottata.

Il nuovo codice del processo amministrativo prevede anche lo strumento della tutela cautelare c.d. ante
causam, cioè antecedente al deposito del ricorso, nei casi di assoluta indifferibilità della decisione
giurisdizionale.

Tutti gli strumenti di anticipazione della tutela al fine di garantirne la effettività sostanziale, sono stati in
parte svuotati di reale utilità per effetto della previsione della clausole di sospensione della stipula del
contratto (c.d. clausola stand still) che inibisce alla stazione appaltante di procedere alla firma del contratto
se non sia decorso un termine di sicurezza (35 giorni) dalla comunicazione della aggiudicazione che coincide
con il termine di presentazione del ricorso.

Di recente, la adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha definitivamente chiarito che il termine di trenta
giorni per la notifica del ricorso decorre dalla comunicazione della aggiudicazione definitiva .

Tuttavia, per la impugnazione degli atti endoprocedimentali immediatamente lesivi gli strumenti di tutela
cautelare si rivelano estremamente utili poiché le norme di procedura stabiliscono che il ricorso cautelare
non possa essere fissato se non siano decorsi 10 giorni dall’ultima notifica (il termine è di 20 giorni nei
ricorsi che seguono il rito ordinario).

Le controversie in materia di procedure di gara sono devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo.

Lo spartiacque tra le giurisdizioni è rappresentato dalla aggiudicazione definitiva di cui conosce il giudice
amministrativo.

Le controversie sorte dalla fase della stipulazione del contratto in avanti sono invece demandate al giudice
ordinario, ma la dichiarazione di inefficacia del contratto a seguito dell’annullamento della aggiudicazione è
ancora di spettanza del giudice amministrativo, con definitivo superamento della diatriba sorta sulla
questione della sorte del contratto a seguito dell’annullamento della aggiudicazione a monte.

In alternativa alla caducazione del contratto il G.A. ha il potere di comminare delle sanzioni alternative ex
art. 123 c.p.a. che possono anche cumularsi ad eventuali istanza risarcitorie.
14 Attività contrattuale della PA (II parte)
14.1 Le nuove procedure
Il quadro normativo si è arricchito di nuovi e moderni sistemi, alcuni di marca nazionale, altri di matrice
comunitaria.

14.1.1 Il promotore (project financing)


L’istituto, di derivazione anglosassone, è stato introdotto nel nostro ordinamento per agevolare la
realizzazione di opere pubbliche che l’Ente pubblico non sarebbe in grado di eseguire, mediante l’apporto
di capitali privati, ed ha come caratteristica quella di porre a carico dei soggetti promotori o aggiudicatari, in
tutto o in parte, i costi necessari per la progettazione ed esecuzione dei lavori, garantendo come
controprestazione il diritto di gestione e sfruttamento economico delle opere realizzate.

Si tratta, dunque, di uno strumento di finanziamento di opere pubbliche che consente, su base
programmatica, una libera iniziativa del promotore interessato a formulare una proposta progettuale
operativa, finanziariamente asseverata da un istituto bancario, per realizzare un’opera pubblica.

Al promotore è, tuttavia, garantito solo il ristoro delle spese sostenute per la presentazione della proposta,
ivi compresi i diritti di ingegno, ma non la materiale esecuzione dell’opera, che dipendente dall’esito di una
procedura concorrenziale in doppia fase: in primis una gara pubblica fra soggetti diversi dal promotore con
il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa e con a base il progetto presentato dal promotore.
Tale criterio, come noto, postula che il progetto o l’offerta tecnica debbano essere valutati dalla
commissione di gara prima di conoscere il contenuto dell’offerta economica, al fine di evitare che la
valutazione del primo sia influenzata da motivi di economicità dell’offerta e per far sì che il peso reciproco
delle due valutazioni (quella tecnica e quella economica) sia esso stesso oggetto di autonoma valutazione .

In un secondo momento una procedura negoziata da svolgere tra il promotore ed i soggetti presentatori
delle due migliori offerte.

La procedura si conclude con l’affidamento in concessione dell’opera, dalla quale differisce, tuttavia, perchè
l’iniziativa è del privato e non della stazione appaltante, che quindi non provvede nemmeno a predisporre il
progetto preliminare.

Il terzo correttivo del codice dei contratti (d.lgs n. 113/2007) prevede due diverse possibilità:

 una normale procedura finalizzata alla presentazione di offerte che contemplino l’utilizzo di risorse
totalmente o parzialmente a carico dei soggetti proponenti, mediante un regolare bando di gara;
 una procedura alternativa (finanza di progetto pura) su iniziativa dello stesso privato promotore
che presenta una proposta sulla base di un progetto preliminare, corredato da un piano economico
finanziario.

Un ruolo centrale è svolto proprio dal piano economico finanziario perché deve dimostrare la capacità di
autofinanziamento e la previsione di utili in grado di ammortizzare i prestiti.

Il project financing si risolve in un’operazione creditizia volta alla realizzazione di un progetto e rende
fattibile il partenariato pubblico-privato. Tra le opere di pubblica utilità possono includersi anche alcuni
interventi di urbanizzazione secondaria, come gli impianti sportivi, le attrezzature culturali etc. tali opere,
per la loro redditività, si presentano a rendere più appetibile il project financing ed a consentire il ricorso a
tale istituto anche quando la realizzazione e gestione dell’opera non comporta grandi flussi di reddito
sufficienti a ripagare l’investimento.

La giurisprudenza ha ritenuto possibile l’operazione di finanza di progetto anche nei rapporti fra un ente
locale e la società interamente partecipata accompagnata da una concessione di credito alla società stessa,
ma la dottrina ritiene la soluzione dubbia perché disattende la vera finalità dell’istituto che è quella di
attrarre capitali privati ed inoltre potrebbe essere elusiva dei vincoli derivanti dal patto di stabilità.

Si segnala una recentissima sentenza del Tar Puglia che afferma che è contrario alla normativa sul project
financing il bando di gara che contempla espressamente un corrispettivo in favore del concessionario posto
a carico della p.a., perché la società interessata non si accollerebbe alcun rischio dall’assumere la gestione
delle relative opere, né si verificherebbe alcun trasferimento del rischio gestionale ed economico dalla p.a.
al concessionario, trasferimento costituente il carattere fondamentale della “concessione”; pertanto,
questo bando di gara snatura la struttura stessa del project financing, in quanto è del tutto assente lo
sfruttamento economico del bene da parte del concessionario, risolvendosi il suo utile esclusivamente nel
mero introito del canone annuo - ai sensi del bando - posto a carico della p.a.

14.1.2 L’asta elettronica


Con la direttiva 2004/18/CE, oggi recepita dal nostro codice dei contratti all’art 85, il legislatore comunitario
ha dato un nuovo impulso al sistema di e-procurement pubblico, il quale consente alle Pubbliche
Amministrazioni di provvedere all'approvvigionamento di beni e di servizi mediante l'utilizzo di strumenti
tecnologici avanzati con cui quali addivenire alla scelta del contraente nel rispetto dei principi di evidenza
pubblica.

La direttiva unificata 2004/18/CE, definisce le modalità dell’asta elettronica, ritenendola esperibile solo per
gli appalti di forniture, lavori e servizi le cui specifiche possono essere definite in modo preciso.

In primo luogo occorre evidenziare come essa non costituisca propriamente una procedura di gara,
configurando piuttosto uno strumento di negoziazione delle offerte ove la relativa valutazione viene
eseguita non da una commissione all'uopo costituita bensì esclusivamente in via telematica.

Si tratta, in particolare, di uno strumento idoneo a stimolare attraverso la negoziazione telematica


un'ulteriore fase competitiva all'interno delle ordinarie procedure di appalto.

Presenta il vantaggio di consentire alle pp.aa. di chiedere agli offerenti di presentare nuovi prezzi modificati
al ribasso, oppure, quando la gara è aggiudicata all’offerta economicamente più vantaggiosa, anche di
migliorare i diversi elementi del prezzo.

In proposito, l'art. 3, comma quindicesimo, del Codice definisce l'asta elettronica come "un processo per
fasi successive basato su un dispositivo elettronico di presentazione di nuovi prezzi, modificati al ribasso,
e/o di nuovi valori riguardanti taluni elementi delle offerte, che interviene dopo un prima valutazione
completa delle offerte permettendo che la loro classificazione possa essere effettuata sulla base di un
trattamento automatico. Gli appalti di servizi e di lavori che hanno per oggetto prestazioni intellettuali,
come la progettazione di lavori, non possono essere oggetto di aste elettroniche". Il fatto che la valutazione
delle offerte sia affidata ad un sistema completamente automatizzato presuppone che detto istituto possa
essere applicato ai soli appalti pubblici da affidarsi mediante procedure aperte, ristrette o negoziate previo
bando le cui specifiche siano suscettibili di essere determinate in modo sufficientemente preciso, di modo
che siano oggetto di valutazione automatica solo elementi idonei ad essere espressi in cifre o percentuali.
Non potranno, pertanto, formare oggetto di aste elettroniche quegli appalti di servizi o di lavori aventi ad
oggetto prestazioni intellettuali di per sé non esprimibili in termini matematici, quali, in primo luogo, la
progettazione di lavori.

Tutti gli offerenti che hanno presentato offerte ammissibili sono invitati simultaneamente per via
elettronica a presentare nuovi prezzi e/o nuovi valori, precisando la data e l’ora di inizio dell’asta, che si
conclude alla data e ora prefissate, oppure quando non pervengano più nuove offerte migliorative.

In definitiva l’asta elettronica costituisce una procedura particolare che realizza un moderno sistema
competitivo dinamico, che consente il continuo miglioramento della propria offerta per superare le altre.

L'introduzione di un sistema di e-procurement pubblico in generale e dell'istituto dell'asta elettronica in


particolare potrà presumibilmente consentire alle Pubbliche Amministrazioni di agevolare la concorrenza
garantendo maggior trasparenza delle procedure d'appalto nonché di risparmiare sui prezzi di affidamento
degli appalti e sui tempi necessari per l'espletamento delle relative procedure.

Si è, tuttavia, da più parti paventato che l'introduzione di forme di gestione elettronica dell'appalto possa
risultare lesiva nei confronti di quelle imprese che ancora oggi non si siano dotate di un adeguato supporto
informatico.

14.1.3 Il dialogo competitivo


La procedura del “dialogo competitivo” (o “colloquio multilaterale”) costituisce una delle procedure
innovative, in ordine ai metodi di contrattazione ed alle modalità di scelta del contraente a cui le
amministrazioni pubbliche possono ricorrere, introdotte dalla Direttiva 2004/18 CE che, come noto, è
confluita nel c.d. Codice dei Contratti Pubblici (art. 58)

Presupposti per l’avvio della procedura sono: particolare complessità dell’appalto, convinzione che la
procedura aperta o ristretta non permetta l’aggiudicazione, opportunità di ricorrere alla collaborazione
degli operatori economici per la individuazione e definizione dei mezzi più idonei a soddisfare le necessità
della stazione appaltante.

Le pp.aa. pubblicano un bando in cui rendono note le loro esigenze; a differenza dell’appalto concorso,
quindi, non è richiesto nemmeno un progetto preliminare.

Successivamente le amministrazioni avviano con i candidati selezionati un dialogo tecnico durante il quale
possono essere discussi tutti gli aspetti dell’appalto, dialogo che può proseguire finché l’amministrazione
non sia in grado di trovare la soluzione soddisfacente.

Concluso il dialogo, e dopo aver informato i partecipanti, li invita a presentare le loro offerte finali
contenenti tutti gli elementi richiesti per l’esecuzione del progetto. Le offerte vengono valutate in relazione
ai criteri di aggiudicazione fissati dal bando unicamente in base all’offerta economicamente più
vantaggiosa.

Possono essere previsti premi o pagamenti a favore dei partecipanti al dialogo.

Le peculiarità di questa procedura non consentono una precisa assimilazione a quelle tradizionali.

È una procedura ibrida che si avvicina all’appalto concorso, dal quale però si distingue per la mancanza di
una progettazione minimale da parte dell’amministrazione; per altri versi si avvicinerebbe alla procedura
del promotore, per la duplicità di fase.
Il dialogo competitivo è disegnato come “procedura bifasica, nella quale a una fase di dialettica tecnica
assai ricca e aperta, caratterizzata dalla raccolta ad ampio raggio di idee e suggerimenti circa i bisogni
dell’appaltante e le misure per soddisfarli, segue una seconda – maggiormente accostabile alle tradizionali
procedure – culminante nell’aggiudicazione dell’appalto”.

Le ragioni della previsione di una procedura di tal fatta sono molteplici. In primo luogo, il dialogo
competitivo postula una stretta collaborazione tra soggetto pubblico e soggetto privato, per cui tale
procedura sembra riconducibile nell’alveo dei modelli di Partenariato Pubblico Privato contrattuale, e, più
in generale, nell’ambito del noto disegno della Commissione CE teso a sviluppare ampiamente i modelli
collaborativi tra il settore pubblico e quello privato. Ciò contribuisce a determinare il superamento della
rigida distinzione/contrapposizione pubblico-privato.

In secondo luogo, il rapporto dialogico tra la pubblica amministrazione e gli operatori di mercato permette
di individuare soluzioni e di far fronte a domande cui l’amministrazione stessa non è, autonomamente, in
grado di soddisfare.

La specificità delle condizioni che legittimano il ricorso al dialogo competitivo rendono tale strumento
eccezionale e residuale tra le procedure di aggiudicazione. Il carattere eccezionale della procedura in esame
si evince chiaramente dall’art. 58, comma 3, Codice, che, per un verso, dispone che il ricorso al dialogo
competitivo sia possibile “nel caso di appalti particolarmente complessi, qualora ritengano che il ricorso alla
procedura aperta o ristretta non permetta l’aggiudicazione dell’appalto”, e, per altro verso, stabilisce che il
provvedimento con cui l’amministrazione decide di ricorrere al dialogo competitivo debba contenere una
specifica motivazione circa la sussistenza dei presupposti richiamati dal medesimo art. 58, comma 3.

14.1.4 Il sistema dinamico di acquisizione


È stata prevista dall’art 33 della direttiva unificata 2004/18/EU ed è classificabile tra le procedure aperte
essendo espressamente previsto che il sistema dinamico di acquisizione è soggetto alle regole di quella
procedura in tutte le sue fasi fino all’attribuzione degli appalti da aggiudicare e si caratterizza per il fatto che
sono utilizzati esclusivamente mezzi elettronici.

Tale sistema è definito un “processo” di acquisizione interamente elettronico per acquisti di uso corrente,
limitato nel tempo ed aperto per tutta la durata a qualsiasi operatore economico, al quale, sulla base delle
indicazioni del bando, viene data la possibilità di presentare un’offerta indicativa allo scopo di essere
ammesso al sistema; si procede al confronto concorrenziale solo dopo aver valutato tutte le offerte
indicative introdotte entro il termine di 15 giorni.

Successivamente tutti gli offerenti ammessi al sistema vengono invitati a presentare un’offerta per ogni
singolo appalto specifico entro il termine stabilito e l’appalto è aggiudicato alla migliore offerta secondo i
criteri enunciati nel bando.

La descritta disciplina conferma che trattasi di una procedura aperta, non solo nel momento della
istituzione del sistema (statico, ma anche ogni volta si debba procedere ad un appalto specifico (aspetto
dinamico) che non può essere aggiudicato se non previo eventuale aggiornamento dei candidati ammessi in
base a nuove e tempestive offerte indicative.

14.1.5 La centrale di committenza


La nuova direttiva consente, a determinate condizioni, che i singoli Stati istituiscano centrali di
committenza, nel rispetto del principio di non discriminazione e di parità di trattamento.
Una centrale di committenza è definita come amministrazione aggiudicatrice che acquista forniture e
servizi destinati ad altre amministrazioni, aggiudicando appalti o concludendo accordi quadro.

Le centrali di committenza sono uno strumento di centralizzazione degli acquisti in modo da evitare
l’atomizzazione delle procedure ed ottenere, su acquisti di maggiori dimensioni, risparmi sia in termini di
prezzi che di costi di gestione della procedura (per personale, per pubblicazioni, per contenzioso, etc.). Esso
origina da una constatazione che ha effettuato il legislatore italiano guardando anche all’esperienza privata
ed in particolare a quella effettuata dai consorzi di albergatori della Romagna. Tale istituto si pone altresì
come importante strumento di politica economica volto a favorire l’aggregazione delle imprese in modo da
superare il limite proprio del mercato produttivo italiano che, costituito da migliaia di piccole e medie
imprese, non è concorrenziale sul piano internazionale di fronte a colossi economici quali le multinazionali.

Il codice recepisce la definizione delle centrali di committenza legittimando le stazioni appaltanti ad


avvalersi di esse per l’acquisizione di lavori, servizi e forniture.

Il nostro Paese, in base alla legge n.488/1999 ha istituito la società Consip, già concessionaria di servizi
informatici pubblici, che è divenuta, poi, l’intermediaria di tutte le amministrazioni, le quali, prima
obbligatoriamente e poi solo in via facoltativa, possono aderire alle convenzioni da essa stipulate.

Il decreto di stabilizzazione finanziaria del 6 luglio 2001 n.98 (art.11) ha previsto un programma di
razionalizzazione della spesa per acquisti di beni e servizi delle amministrazioni pubbliche mediante
processi di centralizzazione ed ha ripristinato la nullità dei contratti posti in essere in violazione dei
parametri di prezzo delle convenzioni quadro stipulate dalla Consip e la configurazione come illecito
disciplinare ed erariale.

14.1.6 Il principio di pubblicità ed il bando di gara


In materia di appalti, i principi del Trattato UE, tra cui quelli di trasparenza e adeguata pubblicità, che hanno
trovato anche recepimento espresso nel diritto interno, si elevano a principi generali di tutti i contratti
pubblici e sono direttamente applicabili, a prescindere dalla ricorrenza di specifiche norme comunitarie o
interne e in modo prevalente su eventuali disposizioni interne di segno contrario.

Le direttive comunitarie considerano la pubblicità una condizione essenziale per l’effettività della
concorrenza; in particolare esse esigono informazioni adeguate e sufficienti per i prodotti e le prestazioni da
fornire, al fine di permettere agli imprenditori di manifestare il proprio interesse a partecipare agli appalti.
In tal senso, le imprese, opportunamente stimolate e sollecitate, contribuiscono ad allargare il mercato e la
concorrenza.

La pubblicità, inoltre, costituisce elemento essenziale dei principi costituzionali di imparzialità e buona
amministrazione ed è criterio fondamentale di trasparenza dell’attività amministrativa (art. 1 legge
n.241/1990).

La pubblicità delle gare è già nota al nostro ordinamento, ma era posta nell’interesse dell’amministrazione
al fine di conseguire la massima partecipazione alle procedure concorsuali in modo da ottenere le migliori
condizioni economiche possibili; inoltre era prevista come obbligatoria solo per il pubblico incanto e
parzialmente per la licitazione privata (artt. 63, 89 e 90 R.C.S.).

La pubblicità accompagna l’intero procedimento della gara, assumendo una non minore finalità di
trasparenza anche la cosiddetta pubblicità di preinformazione e postinformazione.
In particolare, in ambito comunitario, sono previsti sia l’avviso di preinformazione circa la consistenza
annuale degli appalti, obbligatoria solo se le amministrazioni intendono ridurre i termini di ricezione delle
offerte; sia la postinformazione sui risultati della procedura di aggiudicazione.

Il bando di gara è il primo atto della serie procedimentale pubblica ed ha la duplice funzione di legale
conoscenza e di regolazione della gara.

La funzione di regolazione, tuttavia, non ha carattere normativo, mancando il carattere della generalità ed
astrattezza proprio delle statuizioni normative, in quanto le regole poste restano limitate alla sola
procedura presa in considerazione, con vincoli cogenti in primis per l’amministrazione appaltante che è
tenuta ad osservarli per assicurare la par condicio.

L’espressione “bando di gara” compare per la prima volta nelle prime direttive comunitarie, recepite dalla
nostra normativa, mentre nella normativa contabile si fa riferimento all’avviso d’asta.

Il bando di gara è considerato un atto amministrativo autoritativo cui si applica, conseguentemente, il


relativo regime giuridico.

In quanto volto a mettere in relazione la stazione appaltante con la sfera dei possibili interessati, che
possono da quel momento tutelare al meglio le proprie posizioni giuridiche, è considerato un atto generale
con funzione partecipativa di un procedimento concorsuale, autonomamente impugnabile tutte le volte
che sia idoneo a provocare una lesione immediata e concreta e determini un interesse ad agire personale
ed attuale.

Stante la sua natura di lex specialis, vincola non solo i concorrenti ma anche la stessa amministrazione che
non può esimersi dall’osservarlo una volta che sia stato emanato e né il principio del favor della massima
partecipazione alle gare di appalto consente di eludere l’applicazione di prescrizioni del bando dal
contenuto chiaro e preciso.

Le clausole in esso contenuto non sono disapplicabili trattandosi di atto non normativo, mentre tenuto
conto della intrinseca configurazione del bando come dichiarazione negoziale (proposta al pubblico od
invito ad offrire), le clausole sono interpretabili in base ai normali canoni propri del contratto, tra cui il
principio di buona fede, affidamento e di conservazione.

Costituisce consolidata acquisizione in giurisprudenza quella secondo cui in sede di interpretazione dei
bandi di gara, il principio sancito dall’art 1366 c.c. (interpretazione secondo buona fede) deve essere
applicato non solo con riferimento alla necessità di tutelare l’affidamento di chi è risultato aggiudicatario,
ma anche nel senso di garantire l’effettiva possibilità per tutti gli interessati di partecipare alle gare
conoscendo ciò che l’amministrazione esattamente richiede, con la conseguente esigenza di interpretare il
contratto privilegiando il senso che determinati termini rivestono obiettivamente nel linguaggio comune
per la maggior parte dei soggetti che operano in un particolare settore economico e siano interessati ad
entrare in contatto con la p.a.

14.2 Il procedimento ed i principi di gara


Il procedimento di gara in senso ampio comprende sia la fase di prequalificazione che la seduta di gara e le
altre operazioni collegate.

La fase della prequalificazione pur avendo il compito di determinare i requisiti soggettivi di partecipabilità
alla gara delle imprese (mediante verifica del possesso della soglia minima di idoneità delle imprese ad
essere valutate per il mezzo di parametri obiettivi riportati nelle dichiarazioni e nelle autocertificazioni
allegate alla domanda) e pur costituendo una fase distinta da quella della gara in senso stretto, non può
dirsi autonoma ai fini dell’efficacia costitutiva dell’assetto sostanziale cui mira assieme alla seconda. La
prima costituisce, infatti, un sub-procedimento i cui effetti confluiscono nella seconda che definisce
l’assetto finale degli interessi coinvolti e dalla quale soltanto può ritrarsi l’ambito delle lesioni definitive
dell’interesse sostanziale all’aggiudicazione vantato dai partecipanti .

La gara ha inizio con la dichiarazione di apertura dell’asta o della licitazione e termina con la formale
aggiudicazione.

Tutta la procedura si caratterizza per la presenza dei seguenti principi:

formalità: che significa innanzitutto rispetto della forma solenne, essendo richiesta la forma pubblica,
comportante che tutte le operazioni di gara siano formalizzate da un pubblico ufficiale. La regola significa
anche che non sono ammesse forme di gara atipiche;

pubblicità: significa che la seduta di gara è pubblica e si svolge alla presenza di tutti gli interessati e di
chiunque voglia assistervi. Tale principio rende concreta la regola di trasparenza, consentendo il controllo
immediato della correttezza delle operazioni. Tuttavia tale regola è ritenuta essenziale per la fase di
apertura dei plichi e non anche per le fasi istruttorie o di valutazione delle offerte;

effettività: assicura che il confronto non sia solo apparente ma concreto e reale, nel senso che i concorrenti
devono poter partecipare alla pari e seriamente;

continuità: tende a garantire l’immediatezza dell’aggiudicazione che deve normalmente avvenire seduta
stante, in modo da evitare influenze esterne e preservare da eventuali manomissioni la documentazione di
gara. Sono ammesse bravi interruzioni per verificare la regolarità di taluni documenti;

imparzialità: postula che tutte le volte che si deve procedere a giudizio tecnico-discrezionale occorre
predeterminare i criteri di valutazione;

par condicio: regola soprattutto i criteri di interpretazione ed applicazione della lex specialis del bando per
garantire a tutti un trattamento univoco; il principio è alla base del divieto di partecipazione di imprese
collegate;

segretezza: impone particolari formalità di presentazione dell’offerta, cui si ricollega la riservatezza delle
informazioni, che oggi è sanzionato penalmente (art.22 legge 109/1994).

14.2.1 Gli organi di gara


Il funzionamento degli organi di gara non è disciplinato direttamente dalla normativa contabile ed è
rimesso alla potestà organizzativa delle amministrazioni.

Secondo la normativa contabile, le gare devono svolgersi a cura di un’autorità che presiede la gara (artt. 65
e 69 R.C.S.).

L’autorità va intesa in senso monocratico, in quanto quella che impropriamente viene definita commissione
di gara non è un organo collegiale, poiché nella redazione del verbale finale è prevista (art.81 R.C.S.) la
sottoscrizione dell’autorità che la presiede, di due testimoni e dell’ufficiale rogante che l’autentica, oltre
che dell’aggiudicatario se presente.
La commissione è invece richiesta solo per le procedure di appalto concorso o assimilate, non con funzione
aggiudicatrice ma solo come commissione giudicatrice, operante quale organo straordinario interno le cui
valutazioni di giudizio tecnico – discrezionale assumono rilevanza solo se recepite dalla stazione appaltante.

La commissione di gara è un organo straordinario e temporaneo dell’amministrazione aggiudicatrice e non


già una figura organizzativa autonoma e distinta rispetto ad essa, la cui attività acquisisce rilevanza esterna
solo in quanto recepita ed approvata dagli organi competenti della predetta amministrazione appaltante.

Essa svolge compiti di natura essenzialmente tecnica, con funzione preparatoria e servente, rispetto
all’amministrazione appaltante, essendo investita della specifica funzione di esame e valutazione delle
offerte formulate dai concorrenti. La sua funzione si esaurisce con l’approvazione del proprio operato da
parte degli organi competenti dell’amministrazione appaltante e, cioè, con il provvedimento di
aggiudicazione definitiva .

Altra figura tipica della gara è l’ufficiale rogante, che immedesima il funzionario designato per ricevere i
contratti ed i processi verbali di aggiudicazione (art 95 R.C.S.) ed assolve alla funzione di notaio interno della
p.a.

Il ricorso all’ufficiale rogante non è tuttavia obbligatorio, essendo consentito avvalersi di un notaio esterno
quando lo richieda l’amministrazione o l’atra parte contraente.

14.2.2 La celebrazione
La gara ha inizio con la formale dichiarazione di apertura da parte dell’autorità che la presiede e si svolge
nel luogo e nell’ora fissati dal bando.

La prima operazione è la verifica della integrità dei plichi e la loro successiva apertura. La regolarità delle
offerte, assume un ruolo essenziale per la regolarità della gara. Il controllo sul possesso dei requisiti (art 48)
consente alle stazioni appaltanti l’immediata esclusione dalle gare dei partecipanti che non siano in
possesso dei requisiti di ordine speciale, al fine di evitare che offerte inappropriate possano influenzare la
successiva fase di determinazione della soglia di anomalia.

Secondo i principi previsti dall’ordinamento ed elaborati dalla giurisprudenza, l’offerta per essere
considerata valida deve essere: tempestiva, segreta, completa, sottoscritta, irretrattabile, immodificabile,
unica, garantita, trasparente, certa, non alterabile, seria (non anomala).

Salvo interruzioni per anomalia delle offerte, la gara ha termine con l’aggiudicazione e del suo esito ne
viene data comunicazione, entro 10 giorni, all’aggiudicatario, il quale è tenuto a presentare, per la verifica,
la documentazione comprovante i requisiti di capacità economica, finanziaria, tecnica.

L’aggiudicazione di una gara è un atto endoprocedimentale ad efficacia provvisoria, producendo effetti


meramente prodromici all’adozione della determinazione conclusiva.

Ad essa consegue l’aggiudicazione definitiva, che non è un atto meramente confermativo di quella
provvisoria, presupponendo una nuova valutazione dei fatti, delle norme e delle circostanze inerenti al
procedimento di gara, che può anche sfociare in una determinazione negativa con conseguente
annullamento della gara.

Di tutte le operazioni viene dato atto fedelmente in un verbale autenticato dall’ufficiale rogante.
Essendo redatto in forma pubblica, il verbale è atto pubblico e pertanto fa fede fino a querela di falso, di
modo che dà piena prova di tutto quanto in esso attestato, ivi comprese l’integrità dei plichi, la tempestività
della spedizione delle offerte, e gli eventuali vizi od omissioni del verbale non possono essere denunciati
neanche con gli ordinari ricorsi ma solo con la querela di falso, ferma restando l’impugnativa del verbale
per vizi riguardanti il procedimento.

La documentazione degli atti di gara va custodita dalla stazione appaltante per consentire gli eventuali
controlli e l’esercizio del diritto di accesso.

14.2.3 La stipulazione
La scelta del contraente, mediante ricorso alle procedure di evidenza pubblica, e segnatamente la
aggiudicazione definitiva, chiudono la fase pubblicistica e costituiscono lo spartiacque con la fase di
esecuzione del contratto che, invece, afferisce alla gestione privatistica del vincolo contrattuale ed è
soggetta alle norme del diritto comune dei contratti.

La legislazione contabile antecedente alla entrata in vigore del codice dei contratti, (art.16 L.C.S. ed art.93
R.C.S.) conteneva statuizioni solo sui soggetti legittimati e sulle formalità da seguire nella redazione dei
documenti contrattuali, non premurandosi di fornirne adeguate definizioni.

Occorre dare conto del rapporto intercorrente tra aggiudicazione definitiva e stipulazione del contratto,
precisando da subito che, di regola, la stipulazione rappresenta una fase autonoma e ben distinta dalla
aggiudicazione definitiva.

Nel caso della asta pubblica e della licitazione privata l’aggiudicazione definitiva può coincidere con il
contratto ma, tuttavia, questa evenienza deve essere valutata negativamente nella misura in cui, benché
recante la parte essenziale del regolamento contrattuale che le parti hanno inteso sottoscrivere, la
aggiudicazione definitiva certamente non presenta la esaustività e la completezza che solo uno specifico
contratto può garantire in merito alla regolazione di tutti gli aspetti, anche meno significativi, del rapporto
giuridico che ne scaturisce.

La aggiudicazione non può fare le veci del contratto quando ab initio sia e chiaramente sancito che la scelta
del contraente mediante gara sarà seguita dalla stipulazione del contratto con il medesimo, scongiurando
così ogni possibile impiego surrogatorio della aggiudicazione.

La stipulazione deve seguire nel più breve tempo possibile (art.88 R.C.S.) per la generalità dei contratti.

Nello specifico, per gli appalti di lavori essa deve avvenire entro 60 giorni dall’accettazione dell’offerta.

Il termine non è perentorio ma esibendo natura ordinatoria ed istruttoria, non esclude, in caso di mancato
rispetto, che il contratto possa essere validamente sottoscritto dalle parti.

I tempi per la conclusione dl contratto e per l’attivazione di eventuali rimedi giurisdizionali contro lo stesso
sono ristretti, in una logica di efficacia ed efficienza che permea anche questa materia.

La scansione temporale degli adempimenti successivi alla aggiudicazione è stata tuttavia ampiamente
rivista dal codice dei contratti (d.lgs. n.163/2006) per ineludibili esigenze di conciliazione con la certezza
della aggiudicazione prima dell’avvio della esecuzione del contratto.
In particolare, il nuovo codice, addirittura anticipando la prescrizione della direttiva ricorsi 2007/66/CE, ha
introdotto un termine dilatorio sospensivo (c.d. clausola stand still) di 30 giorni dalla comunicazione del
provvedimento di aggiudicazione definitiva (art 11, comma 10).

Lo scopo perseguito da tale previsione è quello di evitare la sovrapposizione del rimedio giurisdizionale (se
del caso corroborato anche da richiesta di misure cautelari provvisorie) e dell’inizio della esecuzione del
contratto, allo scopo di assicurare la effettiva utilità del ricorso avverso la decisione di aggiudicazione e la
stipula del contratto.

Il d.lgs. 20.03.2010 n.53, ha aumentato a 35 giorni il termine dilatorio per la stipula ed ha, inoltre, integrato
l’art 11, con il comma 10 ter, escludendo espressamente che, in caso di impugnazione giurisdizionale degli
atti di gara con richiesta di misure cautelari provvisorie, il contratto possa essere sottoscritto.

Il divieto decorre dalla notificazione dell’istanza cautelare e rimane in vigore per i successivi 20 giorni (c.d.
stand still processuale), a condizione che entro tale termine sia pubblicato almeno il provvedimento
cautelare di primo grado nonché il dispositivo.

In pendenza della clausola stand still la legge autonomamente prescrive che la sentenza che decide sul
ricorso debba essere pubblicata entro sette giorni, a prescindere dalla istanza di parte e con riconoscimento
di assoluta priorità nella trattazione della causa in oggetto.

Il panorama normativo descritto è caratterizzato da un intervento del giudice amministrativo molto


anticipato rispetto al passato, allo scopo di ridurre le conseguenze negativa, anche sotto il profilo
risarcitorio, di un eventuale annullamento degli atti di gara successivo all’inizio della esecuzione del
contratto.

La forma scritta non è espressamente richiesta ma si ricava dall’intero contesto normativo ed è


pacificamente ammessa dalla giurisprudenza secondo cui il requisito della forma scritta è richiesto ad
substantiam, a pena di nullità, rispondendo all’esigenza di conoscibilità e certezza dei contenuti al rapporto,
allo scopo di renderlo più agevolmente identificabile e controllabile.

La mancanza di formale stipulazione preclude al contraente la possibilità di fare valere la responsabilità per
colpa del committente, in quanto l’invalidità stessa deriva da norme di carattere generale da presumersi
note agli interessati.

I rimedi a disposizione del privato contraente sarebbero quindi limitati all’ azione di indebito arricchimento
con la possibilità di sostenere la responsabilità precontrattuale 24 della PA per violazione degli obblighi di
protezione scaturenti dal più generale obbligo di buona fede nelle trattative.

14.2.4 L’approvazione
La fase della approvazione caratterizza fortemente il procedimento di conclusione degli atti negoziali della
PA, trovando la propria origine nella organizzazione gerarchica della stessa che presupponeva una fitta rete
di controlli da parte degli organi sovraordinati sugli atti e procedimenti degli organi sottoposti.

L’istituto non ha ricevuto una disciplina unitaria e risente della notevole frammentazione che ancora, in
parte, connota la materia dei contratti.

A titolo meramente esemplificativo, si può rammentare che l’atto di approvazione rimane necessario per il
perfezionamento dei contratti conclusi dalle amministrazioni dello Stato, sottoposti al regime contabilistico,
mentre diversamente è a dirsi per i contratti stipulati dagli enti locali.
In particolare, i contratti delle amministrazioni dello Stato, ancorché validamente stipulati, non sono
obbligatori né suscettibili di esecuzione per l’amministrazione finché non interviene l’atto di approvazione
(art 19 L.C.S.).

L’approvazione si rende necessaria per tutte le tipologie di contratto, senza distinzione tra contratti attivi o
passivi, rimanendo esclusi solo quelli di vendita di oggetti a consegna immediata (cfr. art 19, comma 4,
L.C.S.).

L’approvazione, pur dispiegando effetti di notevole portata ai fini operativi, rimane atto esterno al
regolamento negoziale che è stato voluto e posto in essere dalle parti, incidendo solo sulla efficacia del
contratto come condizione sospensiva.

Il contratto, di per sé pienamente valido e perfetto nei suoi elementi costitutivi, non è in grado dispiegare i
propri effetti fintanto che non viene adottato l’atto di approvazione, a prescindere da espresse statuizioni
delle parti.

L’operatività della approvazione come condicio iuris discende, infatti dalla legge, e non è un aspetto
rimesso alla libera determinazione delle parti del contratto.

In tal senso si parla di condizione impropria.

La lettera dell’117 R.C.S., secondo cui il contratto solo dopo l’approvazione può essere eseguito, supporta la
ricostruzione dell’atto di approvazione in termini di condicio iuris impropria specificando espressamente
che essa agisce sull’efficacia del contratto come elemento dal cui avverarsi dipende il perfezionamento del
vincolo sotto il profilo dell’efficacia.

Con l’approvazione la posizione giuridica del privato contraente viene ad assumere la veste di diritto
soggettivo, mentre prima dell’approvazione la posizione rimane di interesse legittimo, azionabile davanti al
giudice amministrativo.

Secondo quanto previsto dalla norma di cui all’art. 107 R.C.S, l’approvazione può essere qualificata alla
stregua di atto amministrativo di controllo che conclude un procedimento di verifica e controllo interno di
cui è investito l’organo sovraordinato sulla regolarità del procedimento e sulla conformità dei patti stipulati
con i capitolati e le altre condizioni predeterminate dalla amministrazione stipulante.

L’approvazione determina il perfezionamento della obbligazione contrattuale così realizzando, sotto il


profilo contabilistico, il presupposto giuridico dell’impegno di spesa.

Anche l’atto di approvazione è soggetto al controllo esterno che ne rappresenta condizione di esecutività.

Tale aspetto è fortemente sintomatico di una tendenza, ridotta rispetto al passato ma ancora esistente, ad
una eccessiva proliferazione di controlli, con ripercussioni negative sulla efficienza della azione
amministrativa condotta con strumenti negoziali di stampo privatistico, la cui utilità è in parte vanificata
dalle lentezze connesse inevitabilmente ai procedimenti di controllo e riesame.

L’istituto della approvazione è previsto ancora in molte leggi regionali per la adozione degli atti
amministrativi da parte di organi interne alla regione, mentre è stato del tutto eliminato dalla legislazione in
materia di enti locali ed enti pubblici.
La normativa nazionale più recente, confluita da ultimo nel codice dei contratti e nei successivi correttivi,
conferma la necessità della approvazione per gli atti negoziali della singole amministrazioni, riproponendolo
secondo la tradizionale configurazione di condicio iuris impropria.

In particolare, si prevede che il contratto è soggetto alla condizione sospensiva dell’esito positivo
dell’approvazione (art.11, comma 12), demandata all’organo competente nel rispetto dei termini previsti,
decorrenti dal ricevimento del contratto.

Decorsi inutilmente detti termini, il contratto si intende approvato (approvazione tacita).

In punto di riparto di giurisdizione, le controversie riferibili all’approvazione del contratto e aventi riflessi
risarcitori sono soggette alla giurisdizione del g.o., in quanto l’atto opera come condicio iuris di efficacia del
contratto sul piano negoziale.

Tuttavia, per effetto della commistione ancora non del tutto superata tra fase pubblicistica e fase
privatistica delle procedure negoziali, non si esclude l’impugnabilità dell’approvazione stessa innanzi al g.a.
quando essa assuma rilievo come atto amministrativo.

In particolare si è ritenuto che rientra nella giurisdizione esclusiva l’annullamento dell’atto di approvazione
del contratto, in quanto espressione della funzione di riesame e quindi di una potestà di diritto pubblico.

14.2.4 Le fasi delle procedure secondo il codice dei contratti pubblici


Il codice dei contratti pubblici, approvato con d.lgs. 12 aprile 2006 n.163, ha superato lo schema
procedimentale tipico previsto dalla normativa di contabilità di Stato, ma allo stesso tempo fa salvi gli
ordinamenti delle singole amministrazioni per quanto riguarda l’organizzazione e la cronologia delle singole
fasi con particolare riferimento a quella dell’aggiudicazione.

Innanzitutto è venuta meno la possibilità che l’aggiudicazione possa avere un effetto equipollente al
contratto, rendendo obbligatoria la stipula del contratto (art 10, comma 7).

Le fasi della procedura di affidamento sono cadenzate da adempimenti di verifica, approvazione e controlli,
di modo che non è più concepibile un’aggiudicazione definitiva seduta stante da parte dell’autorità che
presiede il seggio di gara.

Secondo il codice l’aggiudicazione, dichiarata al termine delle procedure di selezione della migliore offerta,
è provvisoria e diventa definitiva dopo che la stazione appaltante abbia provveduto a verificarla e a farla
approvare da parte dell’organo competente.

Il provvedimento di aggiudicazione definitiva ha natura amministrativa per quel che concerne


l’individuazione del contraente, contenendo, in primo luogo, un atto amministrativo di accertamento
costitutivo e solo in secondo luogo anche la manifestazione di volontà negoziale della p.a. in ordine al
contratto da stipulare.

In tal senso assume una valenza procedimentale ed amministrativa ed integra una vera e propria
determinazione autoritativa dell’esito della gara, mediante una statuizione propria degli atti pubblici diretti
a creare certezze legali privilegiate e ad incidere sulla posizione soggettiva degli aspiranti all’aggiudicazione,
qualificabile come interesse legittimo con conseguente giurisdizione del g.a.
Divenuta efficace l’aggiudicazione, e fatti salvi i poteri di autotutela, si procede alla stipula del contratto non
prima di 35 giorni dalla comunicazione ai controinteressati del provvedimento di aggiudicazione definitiva
ed entro il termine di 60 giorni, oltre il quale l’aggiudicatario può sciogliersi dal vincolo.

Il vincolo dei 35 giorni, come astensione dalla conclusione del contratto, è finalizzato a permettere alla
stazione appaltante di verificare la proposizione di eventuali impugnazioni degli atti di gara prima
dell’insorgenza del vincolo contrattuale.

Tuttavia il mancato rispetto di tale termine, come termine minimo, non incide sul procedimento di gara,
avendo unicamente effetti sul contratto senza comunque determinare alcuna patologia, trattandosi di un
termine legale iniziale di efficacia.

Il risultato è che il quadro complessivo è divenuto estremamente complesso e confuso, essendosi allungato
il percorso per rendere efficace l’aggiudicazione ed eseguibile il contratto.

Soprattutto la disarticolazione dell’aggiudicazione, che, da atto unico, è stata procedimentalizzata in 3 sub-


fasi, senza che ve ne fosse effettiva necessità.

Peraltro l’aumento dei passaggi per rendere eseguibile il contratto non sembra in linea con il principale
criterio direttivo della legge delega, che richiedeva la semplificazione delle procedure di affidamento,
finalizzata al contenimento dei tempi.

14.3 I servizi pubblici


È nota la tendenza moderna di abbandonare la gestione diretta dei servizi pubblici da parte di organismi
pubblici per affidarla a soggetti privati, aventi personalità giuridica di diritto privato, variamente costituiti al
fine di realizzare una tendenziale privatizzazione dei gestori e la liberalizzazione del mercato, riservando alla
mano pubblica la sola regolazione.

I nuovi moduli di organizzazione dei servizi pubblici privilegiano l’affidamento in house a società di diritto
privato all’uopo costituite; l’espressione “in house providing” identifica il fenomeno di “autoproduzione ”
da parte della p.a., la quale affida la gestione di un bene o un servizio, al di fuori del sistema della gara,
avvalendosi di una società esterna, i cui unici momenti di collegamento con il bilancio dell’ente
rimarrebbero l’apporto di capitale iniziale, le partecipazioni azionarie e l’allegazione al bilancio preventivo
del documento dimostrativo dei risultati dei rendiconti delle società di capitali all’uopo costituite (art 172
t.u. 267/2000).

I requisiti dell’in house providing, costituendo un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario
imperniate sul modello della competizione aperta, vanno interpretati restrittivamente.

In sostanza, l’in house providing evidenzia un modello di organizzazione in cui la pubblica amministrazione
provvede al perseguimento dell’interesse pubblico o alle risorse ad essa necessarie mediante lo
svolgimento di un’attività interna. Questo modello è contrapposto al modello di outsourcing (o contracting
out) in cui, invece, l’amministrazione si rivolge al privato esternalizzando l’esercizio dell’attività
amministrativa ovvero la produzione ed il reperimento delle risorse necessarie al suo svolgimento.

Nella gestione dei servizi pubblici trova sempre più spazio la regolazione pattizia a mezzo di apposito
contratto di servizio con il quale vengono stabilite le modalità di svolgimento del servizio nel rispetto delle
carte dei servizi pubblici che stabiliscono standard qualitativi e quantitativi a garanzia dell’utenza (art 113
t.u. 267/2000). Il conferimento dei servizi pubblici locali avviene, in via ordinaria, a favore di imprenditori o
di società di qualunque forma costituite, individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica
nel rispetto dei principi del trattato CE e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare,
dei principi di economicità, efficacia ed imparzialità. Per incoraggiare la concorrenza nei servizi locali è stato
introdotto un meccanismo premiale a favore degli enti che adeguano, entro un anno, i propri ordinamenti
al principio secondo cui l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che
non è espressamente vietato dalla legge (art. 3 d.l. 138/2011).

14.3.1 La gestione a mezzo società per azioni a partecipazione pubblica


Uno dei modi di erogazione dei servizi pubblici locali, di rilevanza economica e/o privi di rilevanza
economica, avviene attraverso il conferimento della titolarità del servizio stesso a società a capitale misto
pubblico privato, nelle quali il socio privato viene scelto attraverso l’espletamento di gare con procedure di
evidenza pubblica (art 113, comma 5, lett. B, t.u. 267/2000, come da ultimo modificato dal d.l. 269/03,
conv. L. 326/2003).

Il fenomeno della “società mista” rientra nel concetto di partenariato pubblico-privato (PPP) la cui
codificazione risale al “Libro Verde” della Commissione Ce relativo al PPP e al diritto comunitario degli
appalti e delle concessioni.

Il diffondersi di questo fenomeno ha sviluppato un ampio dibattito sulle connesse problematiche giuridiche,
per quanto riguarda la natura speciale della struttura societaria, la configurabilità come organismo di diritto
pubblico ai fini del rispetto delle regole comunitarie sugli appalti, la natura dell’atto di conferimento del
servizio pubblico e del relativo contratto di servizio, la possibilità di un affidamento diretto, e, da ultimo, il
regime di responsabilità degli amministratori e l’eventualità di un doppio canale, quello della responsabilità
secondo il codice civile e quello della responsabilità amministrativa per il danno alle risorse pubbliche 36.

La scelta di un ente pubblico di costituire una società mantiene il carattere pubblicistico e le relative
controversie rientrano nella giurisdizione amministrativa non esclusiva.

Quanto agli aspetti contabili-finanziari, il testo unico n. 267/2000 prevede tutta una serie di norme (artt.172
ss.) dalle quale si evince una stretta connessione tra la gestione dei servizi a mezzo società e la finanza
dell’ente locale e come la cattiva gestione si traduca in una mancata acquisizione di utili o in una secca
perdita tanto più pesante quanto più forte è la partecipazione pubblica.

In base al nuovo regolamento dei servizi pubblici locali (d.p.r. n.168/2010), gli enti locali sono tenuti a
verificare entro 12 mesi la realizzabilità di una gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali, limitando
l’attribuzione dei diritti di esclusiva, ove non diversamente stabilito dalla legge, ai casi in cui, in base ad
un’analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non risulti idonea a garantire un servizio
rispondente ai bisogni della comunità.

L’art 3, comma 4, istituzionalizza la c.d. gara a doppio oggetto prevedendo che le procedure competitive ad
evidenza pubblica possano avere ad oggetto, allo stesso tempo, la qualità di socio e l’attribuzione di
specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio.

14.3.2 Il partenariato pubblico-privato


Il termine, pur non trovando una precisa definizione nelle fonti comunitarie, viene riferito in generale a
tutte quelle forme di cooperazione tra le autorità pubbliche e le imprese che mirano a garantire il
finanziamento, la costruzione, il rinnovamento, la gestione di un’infrastruttura o la fornitura di un servizio.
Tale figura è vista favorevolmente quale strumento di collaborazione e cooperazione fra il partner pubblico
e quello privato, soprattutto perché in presenza di restrizioni di bilancio risponde alla necessità di assicurare
il contributo di finanziamenti privati al settore pubblico e di beneficiare del “know how” e dei metodi di
funzionamento.

Secondo la Commissione CE, la cooperazione tra pubblico e privato può offrire vantaggi microeconomici,
consentendo di realizzare un progetto con il miglior rapporto qualità/prezzo, mantenendo al contempo gli
obiettivi di pubblico interesse, ma il ricorso al PPP non può tuttavia essere presentato come una soluzione
per un settore pubblico soggetto a restrizioni di bilancio e perciò per ciascun progetto occorre valutare se
l’opzione del partenariato comporta un plusvalore reale rispetto ad altre opzioni come la stipulazione di un
contratto di appalto.

La commissione traccia una distinzione tra PPP di tipo puramente contrattuale, che si fonda su legami
esclusivamente convenzionali, e PPP di tipo istituzionalizzato, che implica una cooperazione tra il settore
pubblico ed il settore privato in seno ad un’entità distinta.

Il partenariato pubblico-privato di tipo “puramente contrattuale” è quello basato esclusivamente su legami


contrattuali tra i vari soggetti. Esso definisce vari tipi di operazioni, nei quali uno o più compiti più o meno
ampi – tra cui la progettazione, il finanziamento, la realizzazione, il rinnovamento o lo sfruttamento di un
lavoro o di un servizio – vengono affidati al partner privato” I modelli di partenariato di tipo puramente
contrattuale più conosciuti sono l’appalto e la concessione.

I partenariati pubblico privato di “tipo istituzionalizzato” sono, secondo la Commissione, quelli che
implicano una cooperazione tra il settore pubblico e il settore privato in seno ad un’entità distinta. Sono
forme di collaborazione, cioè, che implicano la creazione di un’entità distinta dal partner pubblico e dal
partner privato, la quale ha la “mission” di assicurare la fornitura di un’opera o di un servizio.

Il modello di partenariato di tipo istituzionalizzato più conosciuto è quello della “società mista”.

La Commissione Europea tende ad assimilare il partenariato pubblico privato di “tipo istituzionalizzato” a


quello di “tipo puramente contrattuale” e, perciò, a considerare applicabile anche al primo tipo di
partenariato il “diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni”.

Ciò ha delle ovvie ricadute sulle modalità di scelta del partner privato, essendo chiaro che, anche in tal caso,
in assenza di norme specifiche, devono applicarsi, come avviene per l’affidamento a terzi di servizi
mediante concessioni, le norme del Trattato sulla libera prestazione dei servizi e sulla libertà di
stabilimento, nonché i principi di trasparenza, di non discriminazione, di parità di trattamento, pubblicità,
proporzionalità e reciproco riconoscimento.

Il codice dei contratti (art.3, comma 15-ter) dà una definizione dei contratti di partenariato pubblico come
contratti aventi per oggetto una o più prestazioni quali la progettazione, la costruzione, la gestione o la
manutenzione di un’opera pubblica o di pubblica utilità, oppure la fornitura di un servizio, compreso il
finanziamento totale o parziale a carico di privati, anche in forme diverse, di tali prestazioni, con allocazione
dei rischi ai sensi delle prescrizioni e degli indirizzi comunitari vigenti.

Rientrano, a titolo esemplificativo, la concessione di lavori, di servizi, la locazione finanziaria, l’affidamento


di lavori mediante finanza di progetto, le società miste.
Lo strumento del partenariato contrattuale costituisce, dunque, una nuova categoria negoziale alternativa
all’appalto, che rappresenta non più la realizzazione di un lavoro o di un’opera da parte di privati con
risorse esclusivamente pubbliche, alla quale conseguiva la necessità di una disciplina di stampo
contabilistico, ma un intervento di politica economica di cui è protagonista la p.a. e con essa il mondo
economico, le imprese.

Questo innovativo schema contrattuale non si adatta, tuttavia, alla realizzazione di tutte le opere pubbliche
ma solo di quelle opere che si definiscono “self liquidating”, ovvero che prevedono tariffe da far pagare
all’utente, e quindi appetibili per il soggetto privato.

Come accennato in precedenza, uno degli strumenti più antichi e conosciuti, ascrivibili al partenariato, è i
modello concessorio, che è caratterizzato dal legame diretto esistente fra il partner privato e l’utente finale:
il partner privato fornisce un servizio al pubblico, in luogo dell’ente pubblico, ma sotto il suo controllo; il
modello è caratterizzato anche dal tipo di retribuzione, consistente in compensi riscossi presso gli utenti del
servizio, se necessario completata da sovvenzioni versate dall’autorità pubblica.

Una forma più moderna è la formula del c.d. promotore finanziario, che si ha quando l’iniziativa di
un’operazione PPP è presa dagli operatori economici che formulano una proposta dettagliata di progetto,
generalmente finalizzata alla costruzione e gestione di un’infrastruttura.

Tali figure permettono di incitare gli operatori economici a sviluppare soluzioni tecniche innovative,
adeguate alle esigenze particolari dell’organismo aggiudicatore.

Diversa figura è il partenariato istituzionale (PPPI), che implica, invece, la creazione di un’entità detenuta
congiuntamente dal partner pubblico e privato con la funzione di assicurare la fornitura di un’opera o di un
servizio a favore del pubblico.

Generalmente vi si ricorre per la gestione dei servizi pubblici a livello locale.

La creazione di un PPPI può avvenire sia attraverso la creazione di un ente dotato di personalità giuridica
propria, sia tramite il passaggio a controllo privato di un’impresa pubblica già esistente.

Il codice dei contratti si preoccupa di prescrivere (art.1, comma 2) che nei casi in cui le norme vigenti
consentono la costituzione di società per la realizzazione e/o gestione di un’opera pubblica o di un servizio,
la scelta del socio privato avviene con procedure di evidenza pubblica.

La Corte di Giustizia, dal suo canto, ha confermato che tale diritto si applica quando un organismo
aggiudicatore decide di affidare un compito ad un terzo, ovvero ad una persona giuridicamente distinta;
una procedura diversa può essere applicata solo nell’ipotesi in cui, allo stesso tempo, l’organismo
aggiudicatore eserciti sulla persona in oggetto un controllo analogo a quello che esercita sui propri servizi:
tale entità risulta assimilata alle entità in house e può vedersi affidare i compiti al di fuori di una procedura
concorrenziale.

In ambito nazionale si è chiarito che il modello organizzativo della società mista non è riconducibile in via
generale a quello dell’in house providing, che costituisce pur sempre un’eccezione rispetto alle regole
generali di diritto comunitario richiedenti la previa gara.
21 Comunicazione e Marketing
21.1 La comunicazione esterna
La legge sulle nuove norme in materia di procedimento amministrativo (cosiddetta legge sulla trasparenza)
n. 241/1990, e la legge sulle autonomie locali n.142/1990 hanno aperto un differente scenario, che si è poi
completato con le leggi Bassanini, in particolar modo la 59 del 1997, e con la legge quadro n.150 del 2000,
che ha dettato la disciplina delle attività di informazione e comunicazione delle P.A., e in particolar modo
della comunicazione esterna, cioè rivolta ai cittadini, alle associazioni e agli altri enti pubblici.

Questo processo ha portato ad un cambiamento di prospettiva radicale, che possiamo esemplificare così: se
una volta esistevano gli uffici informazioni o reclami, per cui, nella prospettiva della legge 1990, era il
cittadino che si rivolgeva all’amministrazione, adesso ci sono gli URP, Uffici di Relazione con il Pubblico, che
già nel loro nome fanno intravedere una prospettiva diversa: è l’amministrazione stessa, in un’ ottica
bidirezionale e non più unidirezionale, che attiva le relazioni con il pubblico, facendo il primo passo, e non
aspettando il reclamo del cittadino.

La comunicazione esterna contribuisce a costruire la percezione della qualità del servizio e costituisce un
canale permanente di ascolto e verifica del livello di soddisfazione del cliente/utente, tale da consentire
all'organizzazione di adeguare di volta in volta il servizio offerto.

Gli enti pubblici si trovano a dover affrontare alcuni problemi, nel momento in cui decidono di avviare o
sviluppare processi di comunicazione organizzativa; il primo è legato direttamente alla natura originaria
della struttura organizzativa della burocrazia, disegnata sul modello militare, quindi fortemente
gerarchizzato e formale, all’interno del quale le comunicazioni rispettano precise procedure.

Vi sono almeno due diverse modalità di comunicazione esterna che si differenziano in base agli scopi da
raggiungere: dove l'intento dell'Amministrazione è quello di comunicare o rendere un servizio dedicato a
specifici utenti, la comunicazione esterna sarà diretta proprio a quella tipologia di utenza e gli strumenti
utilizzati consentiranno una personalizzazione del messaggio. Se invece l’obiettivo consiste nello svolgere
un'azione di sensibilizzazione o informazione di tipo generale, sarà utile servirsi di strumenti che
consentano una larga diffusione del messaggio.

La finalità della comunicazione esterna è quella di:

1. far conoscere l'Amministrazione, i servizi e i progetti dell'ente;


2. facilitare l'accesso ai servizi e agli atti dell'Amministrazione;
3. conoscere e rilevare i bisogni dell'utenza;
4. migliorare l'efficacia e l'efficienza dei servizi;
5. favorire i processi di sviluppo sociale, economico e culturale;

Nella scuola, questo tipo di comunicazione può servire a diversi scopi, simili a quelli appena enunciati, ma
che si caratterizzano per il particolare ambiente da cui derivano. Nella scuola, la comunicazione potrebbe
tendere a :

1. Creare una rete operativa con il territorio di cui fa parte


2. Far conoscere e valorizzare la mission d’istituto
3. Proporre iniziative di collaborazione con il mondo del lavoro
4. Rendere pubblica l’attività didattica
5. Costruire momenti di aggregazione

Infine, un aspetto importante della comunicazione esterna per enti pubblici, come le scuole, è quello di
differenziare la comunicazione, in base alle esigenze dell’utenze, anticipandole, invece di seguirle.

Ad esempio, una scuola potrebbe inviare a domicilio di guide e documenti per l’iscrizione alla scuola
d’infanzia o dell’obbligo o di preavvisi per la scadenza di documenti, la predisposizione di opuscoli
informativi. Si parla a questo proposito di “segmentazione ragionata”.

Lo slogan che dovrebbe guidare questo tipo di segmentazione è: ad ogni utente-cliente-cittadino


l'informazione di cui ha bisogno, nel momento in cui ne ha bisogno, nel modo in cui può riceverla.

21.2 Il marketing nella Pubblica Amministrazione


Con l’avvio del processo di riforma della P.A., che pone il cittadino al centro dell’azione amministrativa,
il rapporto tra amministrazione pubblica e utenti entra nell’ottica dello scambio e conduce le
organizzazioni pubbliche all’adozione di un orientamento volto a soddisfare i cittadini-clienti. In altri
termini, la soddisfazione dei bisogni dell’utenza, la funzione di indirizzo e di controllo delle scelte
gestionali diventano gli obiettivi primari delle pubbliche amministrazioni, che trasformano il cittadino-
cliente in protagonista.

Tale funzione risulta ulteriormente rafforzata dalle implicazioni connesse alla valutazione della qualità
dei servizi, in particolare dei servizi pubblici.

Nei servizi, l’unica qualità che conta è la qualità percepita dal cittadino-cliente, che comporta una
comparazione tra aspettative e prestazioni:

la valutazione sulla qualità sarà positiva solo se le prestazioni erogate saranno percepite dal cittadino-
cliente come superiori alle sue aspettative.

Il cittadino-cliente sarà soddisfatto solo se il servizio erogato gli apparirà superiore alle sue aspettative,
che tuttavia sono destinate a evolversi continuamente.

Dal punto di vista dell’organizzazione erogatrice di servizi pubblici, quindi, l’orientamento alla
soddisfazione dei bisogni del cittadino-cliente non consente di limitare l’analisi conoscitiva della
domanda alla sola fase iniziale del processo di pianificazione, ma rende necessario il confronto
continuo con le aspettative, le percezioni e le evoluzioni del cittadino-cliente, accorciando sempre di
più i tempi del ciclo di pianificazione (customer satisfaction).

Questo approccio alla soddisfazione dei bisogni del mercato caratterizza un numero sempre maggiore
di organizzazioni e richiede la continua attivazione di:

 strumenti di analisi e monitoraggio della domanda e del suo livello di soddisfazione;


 personalizzazione dell’approccio al cliente, attraverso il continuo sviluppo di strumenti di
comunicazione ed erogazione mirati;
 riprogettazione del servizio, sulla base dei feed-back ottenuti attraverso il monitoraggio del
livello di soddisfazione dell’utenza. Nell’ottica della customer satisfaction, il cittadino cliente si
trasforma in protagonista del servizio pubblico e assume un ruolo centrale nel processo di
riforma dell’intero sistema della P.A., in quanto: a) attraverso la sua percezione della qualità,
valuta il servizio erogato;

b) attraverso la sua manifestazione di consenso, legittima il sistema e l’operato dell’organizzazione di


servizio pubblico;c) attraverso la sua partecipazione, agevola il processo di modernizzazione dell’intero
apparato amministrativo.

La centralità del cittadino-cliente trova riscontro nel ruolo che ricopre all’interno del processo di
marketing management, in quanto rappresenta il costante punto di riferimento delle funzioni di
marketing (conoscitiva, strategica e operativa). L’organizzazione orientata alla soddisfazione dei
bisogni del mercato, infatti, raggiunge i suoi obiettivi solo se:

 conosce la domanda, analizzando i bisogni e le aspettative del cittadino-cliente, e monitorando


il suo livello di soddisfazione;
 focalizza le strategie a partire dall’individuazione dei segmenti obiettivo;
 calibra le scelte operative del marketing-mix in funzione della coerenza con i bisogni e le
caratteristiche dei segmenti obiettivo di cittadini-utenti.

21.3 Il marketing territoriale


Negli ultimi anni si è fatta sempre più strada la concezione del territorio come di un sistema complesso
di forze che, come dimostrano le significative esperienze di alcune importanti capitali europee, se
coordinate in una unitarietà strategica, sono in grado di trasformare la realtà e la percezione che
questa suscita. L’amministrazione pubblica locale, qualunque sia il suo orientamento politico e
gestionale, ha un grandissimo interesse all’incremento del valore del proprio territorio. Quest’ultimo è
considerato come sistema competitivo dinamico, in un “mercato” che lo vede concorrente con gli altri
territori.

Il territorio diventa così un soggetto economico che opera in un ambiente altamente competitivo.
Comunicare le ricchezze di un territorio, le sue vocazioni imprenditoriali, le opportunità localizzative, le
possibilità di business sono gli strumenti che consentono di stimolare lo sviluppo economico
sostenendo la nascita di imprese locali e attraendo i capitali esterni al territorio. Il Marketing
territoriale si pone come uno strumento di promozione del territorio e di stimolo allo sviluppo locale.
Saper comunicare è saper guidare lo sviluppo del territorio in modo coerente con le professionalità
locali, in modo da valorizzare i carismi del territorio e di incentivare l’imprenditorialità.

Con il termine marketing territoriale si intende l’insieme degli strumenti per la promozione del
prodotto territorio attraverso una comunicazione capace di valorizzarne le potenzialità di sviluppo, le
caratteristiche socioeconomiche e ambientali. Per essere efficace il marketing territoriale deve
promuovere il territorio, sia come luogo possibile di attrazione di risorse, in particolare di investimenti
produttivi in grado di creare ricchezza, sia come luogo di produzione di beni e di servizi locali da
commercializzare all’esterno.

Il marketing territoriale si pone quindi il preciso obiettivo di definire e guidare il rilancio e lo sviluppo
dei comprensori territoriali in funzione delle specifiche caratteristiche ed esigenze producendo la più
stretta simbiosi tra i potenziali ed i mercati.
Spesso le attività legate allo sviluppo del marketing territoriale sono state, ed ancor oggi troppo spesso
lo sono, interpretate quale "semplice" azione destinata alla definizione e sviluppo delle attività di
promozione confondendo appunto il marketing, quale definita attività di pianificazione e
programmazione strategica, con quella di promozione.

La politica di marketing deve essere pianificata e mirata a seconda di quelle che sono le aspettative
degli utenti (cittadino del territorio e non) in modo tale da offrire esattamente ciò che questi vogliono.

La programmazione dei processi di sviluppo territoriale viene così assimilata alla pianificazione
strategica aziendale per cui le attività di promozione verso l’esterno sono assimilabili ad attività di
marketing.

Diventa, cioè, indispensabile un approccio aziendalista dei sistemi territoriali, considerati alla stregua
di imprese integrate.

Nella politica del marketing territoriale un ruolo chiave è svolto dalla comunicazione intesa non
soltanto a livello esterno, volta alla promozione del territorio, ma anche e soprattutto a livello interno,
quando è intesa a favorire l’interazione tra i vari attori del territorio e la creazione dei vari obiettivi che
si vogliono raggiungere attraverso questo strumento.

Ne deriva che gli enti pubblici non sono più solo fornitori di servizi e infrastrutture, ma anche soggetti
che in qualche modo governano la capacità competitiva del territorio in forza della rispettiva capacità
di progettazione, programmazione e coordinamento tra i diversi attori sociali.

21.4 La comunicazione interna


Dal punto di vista tecnico, la comunicazione interna realizza l'insieme degli strumenti atti a costruire un
sistema di relazioni costante tra un'organizzazione e le persone che la compongono.

Per rappresentare efficacemente la Pubblica Amministrazione i dipendenti devono essere responsabili


del proprio ruolo e, innanzi tutto, poter conoscere "cosa sta succedendo" e cioè gli obiettivi, i progetti,
le attività dell'organizzazione per cui lavorano. Nello stesso tempo le persone devono poter trovare dei
canali per "far sapere" al vertice i loro bisogni, le proposte critiche. La comunicazione interna serve
soprattutto a coinvolgere e a motivare tutti coloro che operano all'interno dell'organizzazione. Questo
può avvenire solo se essi sono coinvolti direttamente nel processo di cambiamento e se sono
consapevoli di cosa deve cambiare, di come deve cambiare, di che cosa esse rappresentano dentro
l'organizzazione.

La comunicazione rivolta ai dipendenti ha la funzione di indurre gli stessi ad operare direttamente ed


indirettamente in funzione degli obiettivi che l’amministrazione intende perseguire.

Al riguardo, nei confronti dei dipendenti, al pari dei cittadini, sorge il diritto-dovere all’informazione,
tra gli stessi e l’amministrazione.

L’insieme del sistema di comportamenti ed attività comunicative che coinvolge tutti i soggetti coinvolti
nella vita dell’organizzazione, consentendo loro di conoscere e partecipare ai processi produttivi
decisionali, rientra nel novero della c.d. comunicazione interna.
La comunicazione interna è testualmente richiamata dalla legge n.150 del 2000, articolo 1, lettera c)
secondo cui è considerata attività di informazione e di comunicazione istituzionale anche la
comunicazione interna realizza nell’ambito di ciascun ente.

Il flusso di comunicazioni che si svolgono all'interno dell'organizzazione rispondono prevalentemente a


due obiettivi: mantenere in vita l'organizzazione e nello stesso tempo permettere una socializzazione
tra gli individui che fanno parte dell'organizzazione.

La comunicazione interna può essere definita, pertanto, come un processo complesso che mira a
costituire una rete di canali di comunicazione per agevolare la circolazione di informazioni di qualsiasi
natura, indirizzati al pubblico interno, ovvero dipendenti e collaboratori.

In altri termini, si può considerare quale finalità strategica della comunicazione interna quella di avere
quale risultato da un lato quello di indurre atteggiamenti quali senso di appartenenza, motivazione e
condivisione di valori da parte del personale e dall’altro quello di indurre comportamenti di efficienza,
efficacia, produttività ecc.

In tale prospettiva il dipendente, considerato nel suo ruolo della struttura organizzativa, si considera
come un cliente, un consumatore con proprie attese e proprie esigenze, che va ascoltato e
assecondato nelle sue aspettative.

Sotto il profilo operativo, le modalità per promuovere la comunicazione interna possono essere di tipo:
top-down e bottom-up, a queste se ne aggiunge un’ulteriore ‘‘a rete’’. Tutte queste modalità sono
accomunate dal fatto di essere bi-direzionali.

Nel primo caso, top-down, le informazioni sono veicolate dall’alto e rivolte agli altri strati
dell’organizzazione.

Oggetto di comunicazione verso il basso possono essere: informazioni che riguardano le politiche, le
regole, le procedure, gli obiettivi ed i piani dell’organizzazione, nomine, trasferimenti, ecc.

Nel secondo, invece, bottom-up, le informazioni seguono il percorso contrario, partendo dalla base
dell’organizzazione per raggiungere gli altri livelli dell’ente. Tale modalità è quella che meglio trasmette
i feed-back dei dipendenti e collaboratori ed è pertanto molto utile per valutare l’ambiente ed il clima
organizzativo del personale della struttura dell’ente pubblico.

Le forme principali di comunicazione verso l’altro sono quelle delle relazioni sull’andamento generale e
sull’avanzamento nel conseguimento degli obiettivi.

Queste modalità d informazione sono molto diffuse nelle tipologie organizzative di tipo tradizionale,
ma sono poco adatte per organizzazioni meno gerarchizzate. Per quest’ultimo tipo di organizzazioni si
parla di informazione ‘‘a rete’’ o “orizzontale”, una tipologia di informazione diffusa che segue i centri
nevralgici dell’organizzazione senza distinguere una direzione prevalente, attuandosi in modo
indipendente dalle gerarchie tra dipendenti e collaboratori, con le modalità più diverse.

In generale un normale sistema di comunicazione interna comprende quattro fasi:


a) Analisi delle esigenze: è il momento in cui si rilevano i bisogni, si analizzano i flussi in essere,
valutandone l'efficacia e il gradimento della comunicazione in atto e individuando i possibili
punti di forza e di debolezza delle pratiche di comunicazione;
b) Piano di comunicazione: comprende gli obiettivi strategici, enunciati in base alle politiche
dell’ente e gli obiettivi operativi diversi, determinati in funzione delle necessità strutturali;
c) Realizzazione delle azioni di comunicazione: è la fase in cui si provvede all’attuazione della
gamma di interventi in funzione degli obiettivi;
d) Controllo degli effetti: comprende la misurazione della qualità e della quantità del know how
prodotto.

E’ evidente che per la messa in opera di tutti questi meccanismi l’ente dovrà avvalersi di strumenti
idonei di comunicazione, tra i quali i più diffusi sono intranet e la posta elettronica.

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