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Riassunti Diritto Privato

Diritto Privato (Università Europea di Roma)

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IL CODICE CIVILE ITALIANO


Il codice civile italiano è un insieme di disposizioni di diritto civile, e insieme alla
Costituzione della Repubblica italiana e alle altre leggi speciali costituisce una delle fonti
del diritto. Di grande importanza sono le Disposizioni sulla legge in generale, che
precedono il Codice civile, il quale è suddiviso in 6 libri:
- “Delle persone e della famiglia” – va dall’art. 1 all’art. 455, è suddiviso in XIV titoli
e contiene la disciplina della capacità giuridica delle persone, dei diritti della
personalità, delle organizzazioni collettive, della famiglia;
- “Delle successioni” – va dall’art. 456 all’art. 809, è suddiviso in V titoli e contiene
la disciplina delle successioni in causa di morte e dei contratti di donazione;
- “Della proprietà” – va dall’art. 810 all’art. 1172, è suddiviso in IX titoli e contiene la
disciplina della proprietà e degli altri diritti reali;
- “Delle obbligazioni” – va dall’art. 1173 all’art. 2059, è suddiviso in IX titoli e
contiene la disciplina delle obbligazioni e delle loro fonti, principalmente dei contratti
e dei fatti illeciti;
- “Del lavoro” – va dall’art. 2060 all’art. 2642, è suddiviso in XI titoli e contiene la
disciplina delle imprese;
- “Della tutela dei diritti” - va dall’art. 2643 all’art. 2969, è suddiviso in V titoli e
contiene la disciplina della trascrizione, delle prove, della responsabilità
patrimoniale del debitore e le cause di prelazione e della prescrizione.

Capitolo 1: Società e diritto


Le norme giuridiche sono l’insieme delle regole di condotta garantite da una
organizzazione sociale; diritto è il complesso delle norme che formano l’ordinamento
giuridico. Si è in presenza di quest’ultimo quando: sussiste un minimo di regole o norme
tra loro coerenti e coordinate, sono previste specifiche sanzioni per la loro violazione,
esistono degli organi che hanno il compito di applicare tali sanzioni.

Capitolo 2: Fonti del diritto positivo


Il diritto positivo è l’insieme delle norme che compongono l’ordinamento giuridico di
una collettività e la norma è uno dei suoi elementi base e può essere:
- Generale, in quanto indirizza il suo precetto alla generalità dei consociati;
- Astratta, in quanto detta una regola destinata a disciplinare tutti i rapporti
suscettibili di rientrare nello schema prefigurato; -imperativa, impone di attenersi ad
un certo comportamento;
- Imperativa, impone di attenersi ad un certo comportamento.
Fonti del diritto sono i fatti dai quali traggono origine le norme giuridiche. Ogni ordinamento
ha delle regole che disciplinano tali fatti e nel nostro sono dettate nelle disposizioni sulla
legge in generale che sono premesse al testo del codice civile. Costituiscono fonti del
diritto alcuni atti e fatti che si distinguono in fonti scritte (leggi e regolamenti) e fonti non
scritte (usi). È fonte di produzione del diritto la legge in quanto considerata atto

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emanato dall’autorità competente. È fonte di cognizione l’enunciato linguistico nel quale


è formulata la regola giuridica. Le fonti di produzione del diritto si caratterizzano per la
diversa forza normativa e in caso di contrasto fra le relative previsioni, prevarranno le
norme di grado superiore (principio di gerarchia delle fonti). Le norme promananti da
una certa fonte possono essere abrogate o modificate solo da una fonte di pari grado o
superiore. Sono fonti del diritto:
- Costituzione e le leggi costituzionali: la Costituzione è una legge entrata in
vigore l’1.1.1948 che contiene le principali norme organizzative dei pubblici poteri e
i principi fondamentali di riconoscimento e garanzia dei diritti inviolabili della
persona. Si esprime anzitutto nel principio di rigidità in quanto può essere
modificata solo da un’altra legge costituzionale;
- Regolamenti comunitari: sono atti normativi dell’U.E. che hanno diretta efficacia
negli Stati membri e vincolano i cittadini dei singoli Stati al pari delle norme di fonte
statuale;
- Le leggi ordinarie e gli atti avente forza legge: le leggi ordinarie dello Stato sono
atti normativi emanati dal Parlamento secondo le regole dettate per la loro
formazione e ad esse sono equiparati: i decreti legge, atti aventi forza di legge
emanati dal Governo in casi straordinari di necessità e urgenza e devono essere
convertiti in legge dal Parlamento entro 60 giorni; i decreti legislativi, sono
emanati dal Governo in forza di una legge delega che conferisce il potere legislativo
su materie determinate. Il codice civile è una legge ordinaria;
- Leggi regionali: sono atti normativi emanati dalle Regioni nell’ambito della potestà
legislativa ad esse attribuita. Esse sono subordinate ai principi delle leggi statali;
- I regolamenti governativi: sono atti emanati da autorità amministrative per
disciplinare la pratica applicazione delle leggi. In tal caso la potestà normativa
compete all’organo dotato del potere esecutivo;
- Gli usi: sono quelle norme non scritte che nascono spontaneamente nel corpo
sociale per effetto della costante osservanza di una certa condotta.
Per giurisprudenza si intende l’attività di interpretazione e applicazione delle norme
giuridiche svolta istituzionalmente dai giudici. La dottrina è l’attività di interpretazione e
chiarimento del sistema svolta dagli studiosi.

Capitolo 3: Applicazione della legge


Il capo II delle disposizioni preliminari al c.c. è intitolato all’applicazione della legge: tale
procedimento consiste nell’attività con cui si individua e assegna ad un caso concreto la
disciplina che gli compete. Il compito istituzionale di applicare e far rispettare la legge è
affidato alla magistratura. L’applicazione della legge consta di due momenti:
l’individuazione della norma e la prescrizione del suo significato tramite l’interpretazione.
Quanto ai soggetti che compiono l’interpretazione, si distingue tra interpretazione
giurisprudenziale e dottrinale, che non sono vincolanti, a differenza
dell’interpretazione autentica che proviene dal legislatore ed è contenuta in una norma
di legge, detta interpretativa e la sua caratteristica deriva dal fatto che ha efficacia
retroattiva. L’interpretazione può essere definita come l’atto volto a chiarire il significato
delle disposizioni normative. L’art. 12 disk. prel. sancisce il criterio letterale, secondo il
quale alla legge non si può attribuire altro senso se non quello fatto palese dal significato

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proprio delle parole. L’interpretazione, inoltre, deve essere globale, dovendosi intendere le
parole non isolatamente, bensì secondo la connessione di esse e sistematica, poiché
nessuna norma vive da sola, ma si inserisce in un complesso sistema col quale occorre
coordinarla, dovendosi preferire, nel dubbio, il significato che la rende coerente alle altre.
Il medesimo articolo vincola l’interprete alla “intenzione del legislatore”; tale richiamo va
inteso come rinvio alla ratio o scopo della norma (cd. interpretazione
funzionale). Si parla di interpretazione estensiva quando si fanno rientrare
nella norma ipotesi non previste ma sicuramente coerenti alla sua ratio. Si parla di
interpretazione dichiarativa quando si riconosce alla disposizione un significato
esattamente corrispondente al suo tenore letterale. Nel caso in cui una controversia non
possa essere decisa con una precisa disposizione, si applicano le “disposizioni che
regolano casi simili o materie analoghe” (cd. analogia legis), e se il “caso rimane ancora
dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento” (cd. analogia iuris). È
esclusa l’applicazione di questo principio per le norme penali e eccezionali. Secondo l’art.
11 disp. prel. “la legge dispone solo per l’avvenire e non ha effetto
retroattivo”. È vietata la retroattività delle leggi penali. Le norme cessano di avere efficacia
a seguito di abrogazioni, dichiarazioni di incostituzionalità, referendum abrogativo e
scadenza del termine previsto. L’abrogazione di una norma è disposta da altra
disposizione normativa, di paro grado o di grado superiore, successiva alla prima. Essa
può essere espressa, ove contenga esplicita disposizione in tale senso, o tacita: in tal
caso può aversi o per incompatibilità tra le nuove e le precedenti disposizioni o perché la
nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore. La desuetudine,
invece, può abrogare un uso ma non può togliere efficacia alla legge e ai
regolamenti. Le norme del nostro ordinamento hanno efficacia nei confronti dei cittadini
italiani. Lo straniero ha piena capacità di diritto privato; le norme che risolvono le
controversie tra cittadini di Stati diversi prendono il nome di diritto internazionale privato.

Capitolo 4: Il diritto privato


Il diritto privato disciplina il rapporto tra soggetti privati, mentre appartengono al diritto
pubblico le norme che regolano gli aspetti organizzativi e istituzionali della società politica.
Il diritto privato si fonda sulla regola della parità fra i soggetti del rapporto e sulla loro
autonomia. Nell’ambito del diritto privato si distinguono:
- Le norme dispositive, o derogabili, le quali si limitano a prevedere una disciplina
per l’ipotesi in cui gli interessati non abbiano provveduto a dettare essi stessi una
regola per il loro rapporto;
- Le norme imperative, ossia le norme che si impongono all’osservanza dei
destinatari. Nel diritto privato si distinguono: diritto civile (disciplina i rapporti
personali e familiari); diritto commerciale (disciplina le attività di impresa); diritto
del lavoro (regola la prestazione del lavoro); diritto della navigazione (disciplina i
rapporti dei privati relativi alla navigazione marittima e aerea).

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Capitolo 5: Il rapporto giuridico in generale


È rapporto giuridico ogni relazione fra gli uomini disciplinata dal diritto. In esso si
identificano:
- I soggetti, cioè le persone tra le quali intercorre un rapporto giuridico, che sono i
titolari delle posizioni giuridiche;
- L’oggetto;
- Le situazioni giuridiche, che possono essere di vantaggio (dette situazioni
attive), come i diritti soggettivi, le potestà, le facoltà, le aspettative e gli interessi
legittimi, o di svantaggio (situazioni passive) come i doveri, gli obblighi e gli oneri.
Il diritto soggettivo è il potere attribuito ad un soggetto per la tutela di un suo interesse e
consiste nel potere di esigere dagli altri l’osservanza di un dovere o un obbligo, imposto
per la soddisfazione di un interesse individuale. La potestà invece è un diritto attribuito ad
un soggetto per la tutela di un interesse altrui come i diritti-doveri dei genitori verso la
prole. L’interesse legittimo è un potere attribuito ad un soggetto al fine di tutelare
interessi individuali e della collettività. Mentre il diritto soggettivo ha come oggetto
esclusivo e diretto di tutela un interesse individuale, l’interesse legittimo garantisce la
posizione del singolo indirettamente, poiché tale protezione garantisce al contempo
interessi che sono propri della collettività. Le facoltà sono quegli specifici poteri in cui si
estrinseca il diritto. L’aspettativa è una situazione giuridica provvisoria e strumentale,
tutelata al fine di garantire la possibilità del sorgere di un diritto. Lo status designa la
complessiva posizione di un soggetto rispetto ad un gruppo o ad una collettività. I diritti
soggettivi si distinguono in:
- Diritti assoluti, che attribuiscono una pretesa (generica) nei confronti di tutti i
consociati; possono farsi valere nei confronti di tutti e ci si deve astenere dal violarli.
Sono assoluti i diritti inviolabili della persona e i diritti reali;
- Diritti relativi, che attribuiscono una pretesa (specifica) nei confronti di un soggetto
determinato. Sono diritti relativi i diritti di credito, che attribuiscono al titolare la
pretesa ad una prestazione specifica verso un altro soggetto, e solo nei suoi
confronti.
I diritti personali di godimento (diritto dell’affittuario) occupano una posizione
intermedia in quanto hanno dei caratteri di entrambe le categorie. I diritti potestativi
consistono nel potere di produrre unilateralmente effetti nella sfera giuridica di un altro,
tenuto a subirne le conseguenze. Questo diritto può derivare dalla legge o dal contratto
(es. il diritto di dare le dimissioni), e ad esso non corrisponde un obbligo, a ma una
posizione di mera soggezione, poiché si devono subire le conseguenze dell’altrui
iniziativa. Le situazioni giuridiche passive sono:
- Il dovere (corrispondente ad un diritto assoluto in capo alla controparte);
- L’obbligo (correlato ad un diritto relativo di tipo personale o familiare);
- La soggezione (correlata a un diritto potestativo);
- L’obbligazione (corrispondente a un diritto relativo di carattere patrimoniale).
Va tenuta distinta la figura dell’onere, che consiste in un’attività o comportamento imposti
ad un soggetto per la realizzazione di un suo interesse. L’oggetto del rapporto giuridico è

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il bene, su cui cade l’interesse tutelato dalla legge. “Bene è tutto ciò che è in grado di
soddisfare un bisogno; la spinta verso tali beni prende il nome di interesse”. Il rapporto
giuridico tra due soggetti sorge e si estingue nei modi previsti dalla legge. Tali eventi si
designano come fatti giuridici e possono definirsi come gli accadimenti al cui verificarsi la
legge collega la nascita, la modificazione o l’estinzione di un rapporto giuridico. La
pubblicità di questi fatti è quel sistema predisposto dall’ordinamento al fine di garantirne
la conoscenza. Essa può essere:
- Notificativa, che serve a dare una semplice notizia e la sua omissione non tocca
né la validità né l’efficacia dei fatti (es. le pubblicazioni matrimoniali);
- Dichiarativa, che serve a rendere opponibili ai terzi determinati atti e la sua
omissione non tocca la validità ma l’efficacia dell’atto (es. la residenza anagrafica e
le trascrizioni immobiliari);
- Costitutiva, che condiziona sia la validità che l’efficacia dell’atto e in mancanza di
essa l’atto non produrrà effetti neppure fra le parti. (es. l’iscrizione dell’ipoteca nei
registri immobiliari al fine di far nascere l’ipoteca).
Per quanto riguarda l’estinzione dei diritti, ne esistono due modi:
- Prescrizione: è un istituto collegato al decorso del tempo e comporta l’estinzione
del diritto ove il titolare non lo eserciti nell’arco di tempo determinato dalla legge
(art. 2943). Si fonda perciò sull’inerzia del soggetto interessato. Quando il titolare
compie un atto di esercizio del diritto, si realizza la cd. Interruzione della
prescrizione; mentre la cd. sospensione si ha quando il titolare del diritto versa in
particolari condizioni (art. 2941). Si possono estinguere per prescrizione tutti i diritti
ad esclusione del diritto di proprietà e dei diritti indisponibili; l’ordinario termine di
prescrizione è di 10 anni (art. 2946); di vent’anni per la prescrizione dei diritti reali
su cosa altrui e cinque anni per le azioni nascenti da atto illecito.
- Decadenza: consiste nella perdita di un diritto per il mancato compimento entro un
dato termine, di uno specifico atto previsto dalla legge. Anche esso è un istituto
collegato al decorso del tempo e all’inerzia del titolare; qui però non è prevista
l’interruzione e la sospensione e non basta un atto di esercizio di diritto
per impedirla ma è impedita esclusivamente dal compimento dell’atto previsto
dalla legge o dal contratto (art. 2964-2966).

Capitolo 6: I soggetti del rapporto giuridico


Le persone fisiche
Il soggetto è il titolare delle posizioni giuridiche soggettive. La capacità giuridica è
l’attitudine ad essere titolari di posizioni giuridiche soggettive. Possiamo distinguere la:
- Capacità giuridica generale, che è attributo delle persone fisiche e giuridiche;
- Capacità giuridica parziale, che è attributo di altri enti giuridici e dipende dalla loro
più ridotta attitudine a essere portatori di interessi giuridicamente rilevanti; tali enti
non hanno piena capacità giuridica; hanno capacità parziale i concepiti, cioè gli
esseri umani non venuti ancora al mondo.
L’art 1 c.c. dispone che la capacità giuridica si acquista al momento della nascita. Alcuni
diritti sono riconosciuti dalla legge anche a chi non è ancora nato; la legge considera due
ipotesi: quella del nascituro concepito e quella del nascituro non ancora concepito. Al

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concepito si riscontrano delle specifiche forme di tutela dei suoi diritti, personali e
patrimoniali. Il concepito ha la capacità di succedere per causa di morte e di ricevere
donazioni (artt. 462, 784); i genitori ne assumono la rappresentanza e ne amministrano i
beni ancor prima della nascita ma l’acquisto perde efficacia se non consegue la nascita. Il
nascituro non concepito (colui che si prevede nascerà in futuro) può essere contemplato
come beneficiario in una donazione o in un testamento e si richiede solo che il futuro
beneficiario sia figlio di persona vivente al momento della donazione o della morte del
testatore (artt. 784, 462). La differenza dal concepito è che la sua non è realtà ma soltanto
una speranza di vita futura. La Costituzione vieta che la capacità giuridica possa essere
limitata per motivi politici (art. 22) e sono ammissibili solo quelle incapacità che sono
giustificate o da una esigenza di tutela del soggetto stesso o da un interesse pubblico: si
parla di incapacità speciali determinate dall’età, dallo stato della persona, dall’ufficio
ricoperto. Ove l’incapace si renda egualmente parte di tali rapporti, l’atto negoziale sarà
nullo e il rapporto privo di effetti. La capacità di agire consiste nell’idoneità a disporre
della propria sfera giuridica e a esercitare i diritti di cui si è titolari e ad assumere
direttamente obbligazioni; si acquista con la maggiore età. Con i 18 anni si acquista la
capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia prevista un’età diversa, cioè la
capacità legale di agire (art. 2). Sono forme di incapacità relativa di agire:
- L’istituto dell’amministrazione di sostegno: è la figura generale tra le misure di
protezione per le persone maggiori di età che siano incapaci di provvedere ai
propri interessi. E’ un istituto diretto a provvedere alle esigenze di
protezione della “persona che, per effetto di un’infermità o di una
menomazione fisica o psichica, si trova nell’impossibilità di provvedere ai
propri interessi (art. 404). L’amministratore è nominato dal giudice tutelare che
indica sia “gli atti che il beneficiario può compiere soltanto con l’assistenza
dell’amministratore”, sia “gli atti che questi ha il potere di compiere in nome
e per conto del beneficiario” (art. 405). La persona conserva “la capacità di agire
per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza
necessaria” dell’amministratore e per “tutti gli atti necessari a soddisfare le esigenze
della propria vita quotidiana” (art. 409). L’amministratore è scelto tra gli
stretti congiunti dell’interessato e deve tener conto dei suoi bisogni e delle sue
aspirazioni e informarlo preventivamente circa gli atti da compiere: in caso di
dissenso egli può ricorrere al giudice, che adotta con decreto motivato gli opportuni
provvedimenti” (art. 410).
Nel caso in cui l’amministrazione di sostegno si riveli inidonea, può farsi
luogo all’inabilitazione dell’incapace: essa consegue ad una sentenza giudiziale che
accerta uno stato di ridotta, ma non esistente, attitudine a curare i propri interessi (art.
415). Possono essere inabilitati:
- Le persone affette da malattia mentale non talmente grave da dar luogo
all’interdizione;
- Coloro che per prodigalità o abuso di bevande alcoliche o di stupefacenti
espongono sé stessi e la loro famiglia a gravi pregiudizi economici;
- Il sordomuto e il cieco quando tali minorazioni non siano compensate
da un’educazione sufficiente.
L’inabilitato gode di capacità di agire con riguardo agli atti di ordinaria amministrazione
del suo patrimonio; mentre per gli atti patrimoniali di straordinaria
amministrazione è necessaria l’assistenza di un curatore. L’emancipato si trova in una
situazione analoga di limitata capacità d’agire: questi è un minore al quale viene conferita

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una parziale capacità di agire in deroga alla regola generale. L’emancipazione è la


condizione che consegue di diritto al matrimonio contratto dal minore sedicenne e gli
consente di compiere tutti gli atti di ordinaria amministrazione e, con l’assistenza del
curatore, gli atti di straordinaria amministrazione (art. 390). Egli può essere autorizzato
all’esercizio di un’impresa commerciale senza l’assistenza del curatore, mentre l’inabilitato
può essere autorizzato solo alla continuazione di un’impresa commerciale. Incapacità
generale di agire:
- Il minore d’età si trova in uno stato di incapacità generale di agire in quanto tutte le
decisioni personali e patrimoniali che lo riguardano, e i relativi atti giuridici, sono di
competenza del suo legale rappresentante (cioè i genitori o il tutore). Fanno
eccezione “gli atti per i quali sia prevista un’età diversa (vedi art. 2, comma 1 e 2,
art. 250, comma 4 e art. 165). Pur non avendo la capacità legale di agire, ha
tuttavia la capacità naturale di intendere e di volere che varia in funzione dell’età:
per i diritti civili si riconosce ai minori la capacità di esercitare tali diritti ove
sussista un’adeguata maturità; per gli atti negoziali della vita quotidiana il dato
dell’incapacità può essere superato dal fatto che il minore agisca non in proprio ma
in qualità di rappresentante volontario dei genitori; infine gli atti giuridici non
negoziali richiedono soltanto la capacità naturale di intendere e di volere.
- L’ interdizione giudiziale si ha quando il soggetto, pur essendo maggiorenne, sia
del tutto incapace di provvedere ai propri interessi perché manca la capacità di
intendere e di volere (art. 414). Essa segue a un apposito procedimento giudiziale
che si conclude con la sentenza di interdizione che va annotata al margine del
certificato di nascita al fine di darne conoscenza ai terzi. Egli non può contrarre
matrimonio e gli atti da lui compiuti possono essere annullati, senza che occorra
dimostrare un pregiudizio dei suoi interessi.
- L’interdizione legale è una pena accessoria che discende da una condanna
penale all’ergastolo o alla reclusione per un tempo non inferiore a 5 anni.
L’interdetto legale si trova nella stessa condizione dell’interdetto giudiziale per
quanto riguarda la disponibilità e l’amministrazione dei beni, mentre rimane libero di
compiere gli atti che rientrano nella sua sfera personale.
- L’incapacità naturale è la condizione inversa di chi, pur legalmente capace, sia di
fatto incapace di intendere e di volere: vuoi perché abitualmente infermo di mente
ma non ancora interdetto, vuoi perché in condizioni di incapacità al momento in cui
compie un atto (es. per ubriachezza, ipnotismo etc.).
La legge tutela il soggetto prevedendo la possibilità di annullare l’atto compiuto ma, a
differenza che nell’incapacità legale, occorrerà dare prova dello stato di alterazione delle
facoltà mentali del soggetto. E’ possibile ottenere l’annullamento dei seguenti
negozi: matrimoni, testamento e donazione; per gli altri atti la legge distingue 2 ipotesi:
- Gli atti unilaterali sono annullabili se ne deriva un grave pregiudizio al suo autore;
- I contratti sono annullabili solo se risulta la malafede dell’altro contraente,
provando che questi conosceva la condizione della controparte.
L’inidoneità del soggetto al compimento di atti negoziali può durare nel tempo
e occorrerà provvedere alla cura dei suoi interessi o attribuendo a un altro soggetto il
potere di sostituirsi all’incapace (cd. rappresentanza legale) o affiancando all’interessato
una persona che lo assista nel compimento degli atti (cd. assistenza). La 1° è prevista per
i casi di incapacità generale di agire (minori di età e interdetti); la 2° per le ipotesi di
capacità relativa di agire. La rappresentanza legale è un potere di rappresentanza, e cioè

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di sostituzione dell’interessato nell’assunzione delle decisioni che lo riguardano e nel


compimento degli atti giuridici. Si parla di rappresentanza legale per sottolineare il fatto
che tale potere è attribuito dalla legge (art. 1387). Gli atti di maggiore importanza devono
essere preventivamente autorizzati dal giudice il quale svolge una funzione di
controllo. Il rappresentante può compiere solo atti di ordinaria amministrazione,
cioè quelli che attengono alle spese correnti e all’ordinaria gestione del
patrimonio. Sono atti di straordinaria amministrazione gli atti che variano la consistenza
del patrimonio (es. la vendita di un bene). Gli atti compiuti dal rappresentante senza
autorizzazione sono annullabili. Sono legali rappresentanti del minore d’età i genitori;
qualora i genitori non possano esercitare la potestà si apre la tutela: viene nominato un
tutore che assumerà la legale rappresentanza dei minori. Il rappresentante legale si
sostituisce all’incapace nel compimento degli atti giuridici; per il compimento di altri atti, la
legge prevede come necessaria l’assistenza di altra persona, ovvero l’amministratore e il
curatore. Queste figure non si sostituiscono all’incapace bensì ne integrano la volontà
poiché gli atti vengono compiuti congiuntamente. Anche nel caso della curatela
sarà necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare o del tribunale. Il domicilio è il luogo
in cui la persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi. La residenza è il
luogo dove la persona vive abitualmente (art. 43). Per la residenza è previsto un regime di
pubblicità assolto dai registri anagrafici dei comuni. Trasferita la residenza si presume
trasferito nello stesso luogo anche il domicilio salvo espressa dichiarazione da parte dei
terzi. Il domicilio legale è fissato dalla legge con riguardo ai minori e agli interdetti, i quali
hanno domicilio nel luogo di residenza della famiglia e del tutore; il domicilio elettivo si
contrappone al domicilio generale sia perché è frutto di una scelta sia perché riguarda
alcuni determinati atti. La dimora è il luogo ove la persona abita transitoriamente, per un
periodo di tempo limitato (es. casa al mare). La persona fisica cessa di esistere con la
morte: il momento in cui si considera sopraggiunta la morte non è determinato dalla legge
e si fa quindi riferimento alla nozione medica sulla cessazione del battito cardiaco e della
respirazione. L’accertamento della morte compete agli uffici dello stato civile e risulta
dall’apposito certificato di morte in cui vanno indicati anche data e ora del decesso. Ove
non si riesca a provare che una persona sia morta prima di un’altra, entrambe si
considerano decedute nello stesso momento (cd. presunzione di commorienza). Si ha la
scomparsa quando una persona si assenta dal suo domicilio o residenza e non se ne
abbiano più notizie. Il tribunale, su istanza degli interessati, dà i provvedimenti necessari
alla conservazione del patrimonio dello scomparso, provvedendo alla nomina di un
curatore che tuteli i suoi interessi (art. 48). Trascorsi 2 anni dalla scomparsa il tribunale ne
dichiara l’assenza e la relativa sentenza dà luogo a una situazione giuridica di obiettiva
incertezza sulla sopravvivenza della persona. Si procede così all’apertura del testamento
e all’immissione nel possesso temporaneo dei beni dell’assente. L’assenza non
dà luogo a una presunzione di morte ma ha soltanto lo scopo di dare sistemazione
provvisoria agli interessi del soggetto. La situazione di incertezza viene meno o quando
l’assente ritorni e in tal caso egli ha diritto alla restituzione dei beni e alle quote delle
rendite accantonate (art. 56) o nel caso in cui ne sia provata la morte, si apre la
successione a vantaggio di coloro che risultano eredi al momento della morte (art. 57). La
dichiarazione di morte presunta è emessa dal tribunale, su istanza dei presunti eredi,
quando si protragga l’incertezza sulla sorte della persona. Essa prescinde da
una previa dichiarazione di assenza richiedendo solo che siano passati 10 anni dal
giorno dell’ultima notizia, oppure che la scomparsa sia avvenuta in particolari
circostanze. Si apre così la successione ereditaria attribuendo a coloro che fossero
stati immessi nel possesso temporaneo dei beni la piena disponibilità degli stessi con
l’obbligo di redigere l’inventario. Se la persona ritorna recupera i beni nello stato in cui si
trovano salvo l’usucapione in favore dei possessori. Il matrimonio contratto dall’eventuale

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coniuge sarà nullo ma ne restano salvi gli effetti civili: in particolare i figli avranno lo stato
di figli legittimi.

Capitolo 7: Gli enti giuridici


Soggetti del diritto sono anche gli enti giuridici, che possono definirsi come
organizzazioni stabili, di persone o di beni, volte al perseguimento di uno scopo.
Distinguiamo due categorie generali:
- Enti dotati di personalità giuridica: Stato, regioni, comuni, enti pubblici,
associazioni riconosciute, fondazioni, società di capitali, cooperative;
- Enti non personificati: associazioni non riconosciute, comitati, società di persone.
I primi hanno piena capacità giuridica e sono perciò persone giuridiche in senso proprio;
mentre i secondi sono muniti di una ridotta capacità giuridica, per i quali si parla di mera
soggettività. Oggi la differenza sta nel fatto che le persone giuridiche sono dotate di
un’autonomia patrimoniale perfetta in quanto vi è una netta separazione fra il
patrimonio dell’ente e quello dei suoi membri, mentre gli enti non personificati sono
dotati di autonomia patrimoniale imperfetta perché manca una distinzione tra il patrimonio
dell’ente e quello dei suoi membri. La personalità giuridica si acquista solo a
seguito di una formale attribuzione, il riconoscimento che può derivare o
direttamente dalla legge o dall’iscrizione in appositi registri. Oggi, tale iscrizione e il
conseguente riconoscimento, sono subordinati ai soli requisiti della liceità dello scopo e
dell’adeguatezza del patrimonio al fine perseguito. Competenti a decidere sulla
domanda sono i prefetti, e per gli enti locali, le autorità regionali. Alla domanda di
riconoscimento vanno allegati atto costitutivo e statuto. Il riconoscimento sorge dall’atto
privato di costituzione. Gli enti pubblici si distinguono poi in:
- Territoriali (Stato, regioni, provincie, comuni);
- Non territoriali (Inps, Asl, Inail.) disciplinati da norme di diritto pubblico.
Gli enti privati si distinguono in:
- Enti associativi: caratterizzati da una pluralità di persone e dallo scopo;
- Enti amministrativi: caratterizzati dalla presenza di un patrimonio vincolato ad uno
scopo; appartengono a tale categoria le fondazioni e i comitati.
Gli enti sono forniti di personalità, che consiste nell’attribuzione della capacità giuridica
generale e di un’autonomia patrimoniale perfetta. La vita dell’ente è regolata dallo statuto,
che è il complesso delle norme regolamentari interne e può essere contenuto nell’atto
costitutivo, ma può anche essere rimesso, nel caso delle associazioni, alle determinazioni
dell’assemblea dei soci. Esso deve contenere le determinazioni essenziali dell’ente.
Principio fondamentale per le persone giuridiche è quello della pubblicità: tutti i dati
devono risultare da un apposito registro delle persone giuridiche, istituito in ogni prefettura.
L’ente opera a mezzo di organi, cui è affidata la specifica funzione di assumere e di
attuare le decisioni relative alla vita dell’ente stesso. Essi hanno la rappresentanza
dell’ente, ma l’organo, per le mansioni di sua competenza, si identifica con l’ente; di
conseguenza l’ente risponderà dell’operato del suo organo anche se si tratta del
compimento di atti illeciti. L’associazione riconosciuta è un’organizzazione stabile di
persone, fornita di personalità giuridica, che persegue un fine non di lucro. Ad essa si
applicano tutte le regole delle persone giuridiche. Elementi essenziali sono la pluralità di

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persone e il fine non di lucro, in quanto lo scopo deve essere di tipo ideale; beneficiari
dell’attività sono i terzi o gli stessi soci. L’associazione sorge con l’atto costitutivo,
consistente nell’accordo fra 2 o più persone di dar vita all’associazione stessa (art. 14); ha
natura negoziale e richiede la forma dell’atto pubblico. Lo statuto invece consiste nelle
regole relative all’ordinamento dell’ente e può essere contenuto nell’atto costitutivo,
in cui devono essere determinati diritti e obblighi degli associati e le condizioni della loro
ammissione. Eventuali modificazioni devono essere iscritte nel registro delle persone
giuridiche. Gli organi dell’associazione sono:
- L’assemblea dei soci, che è l’organo deliberante e decide in base al principio
maggioritario e le sue delibere hanno natura di atti collegiali;
- Gli amministratori, i quali sono l’organo esecutivo dell’ente e hanno il compito di
gestire, curare e rappresentare l’esecuzione delle delibere assembleari.
Sono nominati e revocati dall’assemblea, e sono responsabili verso l’ente
per il loro operato. Causa di estinzione dell’associazione può essere il
venir meno della pluralità dei soci o la sopravvenuta impossibilità dello scopo.
L’associazione non riconosciuta è un’organizzazione stabile di persone, priva di
personalità giuridica, diretta ad uno scopo non di lucro. Avendo autonomia patrimoniale
imperfetta, dei debiti sociali rispondono sia l’associazione sia coloro che hanno agito in
nome e per conto di essa. Il codice all’art. 36 stabilisce che l’associazione è retta dagli
accordi interni fra gli associati (cioè dallo statuto) e ha capacità di stare in giudizio
nella persona del suo presidente. Finché dura l’associazione i singoli associati non
possono chiedere la divisione del patrimonio né pretendere la propria quota in caso di
recesso o esclusione. La fondazione è un’istituzione dotata di personalità giuridica,
caratterizzata da un patrimonio vincolato a uno scopo. Elementi caratterizzanti sono il
patrimonio e la sua destinazione a uno scopo ideale. Il solo organo sono gli
amministratori anche essi vincolati allo scopo stabilito dal fondatore. L’ente sorge
con l’atto costitutivo, che è l’atto negoziale unilaterale con cui, uno o più soggetti, decidono
di dar vita all’ente stesso. Tale atto deve avere la forma dell’atto pubblico (ma può anche
essere contenuto in un testamento) e non può più essere revocato quando sia intervenuto
il riconoscimento, in quanto è esso che ne attribuisce la personalità giuridica. Il comitato è
un gruppo organizzato per la raccolta di fondi destinati a un fine determinato (art. 39). Essi
si caratterizzano per la presenza di una pluralità di persone e di un patrimonio vincolato a
un fine determinato. I componenti del comitato sono dei semplici gestori dei fondi raccolti e
non possono decidere di mutarne la destinazione. Fondamentale è la regola per cui, ove il
comitato non abbia chiesto o ottenuto la personalità giuridica, tutti i suoi componenti
rispondono personalmente delle obbligazioni assunte.

Capitolo 8: L’oggetto del rapporto giuridico


Oggetto del rapporto giuridico è il bene su cui cade l’interesse del soggetto. Sono beni
cose materiali, immateriali e servizi da cui ciascuno trae utilità. La spinta verso di essi
prende il nome di interesse. Il rapporto giuridico ha la funzione di garantire tale interesse
assicurando a ciascuno i beni della vita necessari alla soddisfazione dei suoi bisogni.
L’oggetto si differenzia in relazione ai diversi tipi di diritti: rispetto ai diritti assoluti l’oggetto
è costituito da beni che costituiscono lo specifico punto di riferimento di ciascuna posizione
giuridica; rispetto ai diritti relativi, esso è costituito dalla prestazione cui il debitore è tenuto
e dalla quale il creditore si aspetta la soddisfazione del proprio interesse. Il contenuto è il
comportamento destinato a soddisfare l’interesse del soggetto: nei diritti assoluti è dato

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dall’insieme dei poteri e delle facoltà che a ciascuno competono; nei diritti di credito è
l’attività del debitore che ne costituisce il contenuto.

Capitolo 9: Vicende del rapporto giuridico


Fatti, atti e negozi giuridici
Nella categoria generale del fatto giuridico si distinguono:
- I meri fatti giuridici, che possono consistere in un accadimento naturale o in
un’azione umana;
- Gli atti giuridici, che sono atti umani consapevoli e volontari;
- I negozi giuridici, che oltre a dover essere consapevoli e volontari, si
caratterizzano per il fatto che l’autore ne vuole gli effetti.
Nella sfera intellettiva dell’uomo si distinguono due facoltà: la coscienza, che consiste
nella consapevolezza di sé e del mondo esterno e giuridicamente si designa come
capacità d’intendere e di volere e la volontà, che va intesa come capacità di
decidere liberamente il proprio comportamento in vista di uno scopo. Si ha così un
mero fatto giuridico quando tale capacità, non assume rilievo; si ha un atto giuridico,
quando il soggetto abbia la capacità naturale di intendere e di volere; si ha negozio
giuridico solo se il soggetto ha la capacità legale di agire. Per aversi un mero fatto
giuridico viene richiesta la pura fenomenicità dell’evento, l’accadere di un fatto, sia esso
determinato da forze della natura o da un’azione dell’uomo. Per aversi un atto giuridico
in senso stretto viene richiesta la volontarietà dell’atto e la naturale capacità di intendere
e di volere. Questi atti poi si distinguono in leciti e illeciti. Il soggetto può sottrarsi alle
conseguenze derivanti dal compimento dell’atto solamente provando la mancanza di
volontarietà dell’atto (art. 265). Per aversi un negozio giuridico occorre sia la volontarietà
dell’atto, sia che esso sia compiuto da chi ha la capacità legale di agire e sia
accompagnato dall’intenzionalità, occorre cioè che il soggetto voglia gli effetti giuridici
previsti dalla legge. Il negozio è lo strumento che la legge offre ai privati affinché ciascuno
dia ai propri interessi l’assetto che ritiene più congruo; è un atto di autonomia, cioè di
disposizione della propria sfera giuridica. Gli atti giuridici consistono in azioni umane alla
quale la legge ricollega effetti giuridici. Tali azioni possono consistere in dichiarazioni:
nell’ambito degli atti negoziali si avranno per lo più dichiarazioni di volontà in cui il
soggetto può manifestare il proprio intento. L’atto umano, nell’ambito degli atti
giuridici in senso stretto, può consistere in un’operazione materiale (come il
pagamento di un debito). Il negozio è una categoria dogmatica elaborata dalla dottrina
(pandettistica tedesca ed italiana) movendo da alcune figure di diritto positivo
accomunate dal fatto di costituire espressione di autonomia: esse dispongono di interessi
individuali perseguendo effetti giuridici tutelati dalla legge tramite un programma che
diviene vincolante per le parti. Sulla sua definizione non v’è accordo unanime: la
definizione classica lo vede come una “dichiarazione di volontà diretta a produrre
effetti giuridici tutelati dalla legge”. La teoria della volontà è stata abbandonata; oggi
riscuote maggior credito la teoria della dichiarazione, per cui ciò che rileva è il tenore
esterno della dichiarazione, e la teoria dell’affidamento, che vincola il soggetto solo nei
limiti in cui la sua dichiarazione abbia indotto terzi a farvi affidamento. Una più moderna
impostazione invece definisce il negozio come “atto di autoregolamento dei
propri interessi”; il soggetto cioè emette una dichiarazione con la quale,
ponendo un vincolo a se stesso, persegue effetti garantiti dalla legge, dove per atto si
intende un comportamento volontario il cui obiettivo è quello di costruire un atto di

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autoregolamento di interessi e la cui funzione corrisponde a quella prevista dalla


legge: da questa deriveranno gli effetti giuridici. Perché un negozio possa produrre gli
effetti cui è diretto è necessario che in esso sussistano alcuni elementi; sono elementi
generali (in quanto comuni a tutti i negozi) ed elementi particolari (legati al tipo specifico di
atto). Elementi generali del negozio sono la dichiarazione di volontà e la causa (intesa
come funzione che l’atto è diretto a realizzare); elementi particolari sono l’oggetto e la
forma (intesa come modo in cui deve essere resa la dichiarazione). Si tratta di requisiti
essenziali per la validità dell’atto, tanto che la mancanza o il vizio di uno di essi rende
invalido l’atto stesso: esso sarà nullo e non potrà produrre i suoi effetti. Gli elementi
accidentali sono la condizione, il termine e il modo, che le parti possono apporre, se
vogliono, al negozio, il quale sarà valido anche senza questi elementi, ma se verranno
inseriti nell’atto incideranno sulla sua efficacia. Non costituiscono elementi del negozio
alcune circostanze esterne all’atto, come la capacità delle parti e la legittimazione: essi
sono presupposti del negozio e la loro mancanza incide variamente sull’efficacia dell’atto. I
negozi vengono caratterizzati in ordine alla struttura soggettiva e alla funzione. In
relazione alla struttura soggettiva si distinguono negozi unilaterali, bilaterali
e plurilaterali, a seconda che esso sia posto in essere da una, due o più parti. Il concetto
di parte non coincide con quello di persona, identificandosi piuttosto come centro di
interessi: cioè quando l’interesse gestito sia comune a più persone, il relativo atto di
disposizione si imputa a una sola parte. Si avrà un negozio unilaterale quando due
fratelli, comproprietari di un bene, rinunciano al loro diritto conferendo ad un terzo una
procura per venderlo; sono bilaterali i contratti di scambio, posto che due siano i centri di
interesse (es. i contratti di compravendita); plurilaterali sono i negozi in cui sono
individuabili distinti centri di interesse (es. contratti di società). Nell’ambito delle
dichiarazioni unilaterali si distingue tra: atti collettivi, che si hanno quando le singole
dichiarazioni non hanno autonomo rilievo, concorrendo a formare la volontà di un gruppo
(es. la delibera dell’assemblea del condominio); atti collegiali, che si hanno quando le
diverse dichiarazioni formano la volontà di un soggetto distinto, come una
società per azioni; atti complessi, quando ciascuna dichiarazione ha un autonomo
rilievo e perciò una diretta incidenza sulla validità dell’atto (es. l’atto dell’inabilitato e del
suo curatore). In relazione alla funzione si distinguono: negozi a causa di morte,
destinati a produrre i propri effetti dopo la morte della persona (es. testamento); negozi
tra vivi sono invece tutti gli altri atti e negozi. Si parla di negozi familiari per quegli atti
che trovano la loro causa nel perseguimento di un interesse connesso ai rapporti di
famiglia (es. matrimonio, adozione..); negozi patrimoniali sono quelli volti a disciplinare
interessi economici e possono essere: negozi di attribuzione, quando mirano a
realizzare l’acquisto di un diritto (es. vendita) e negozi di accertamento, quando hanno lo
scopo di fissare il contenuto di un rapporto giuridico preesistente, vincolando le parti a
quanto risulta dall’accertamento stesso. Nell’ambito dei negozi patrimoniali si dicono:
- A titolo oneroso quelli il cui vantaggio o diritto attribuito ad un soggetto trova
causa, o giustificazione, in un correlativo sacrificio economico a suo carico;
- A titolo gratuito i negozi in cui un soggetto dispone di un suo diritto, o si impegna
ad eseguire una prestazione, senza un correlativo sacrificio economico a carico del
beneficiario. Oltre alla donazione e al testamento, sono gratuiti ad es. il comodato
(art. 1803) e il contratto con obbligazioni del solo proponente (art. 1333). Altro tipico
negozio gratuito è la rinunzia, che è l’atto unilaterale con cui il titolare dismette un
diritto; a seguito di rinunzia il diritto si estingue senza trasferirsi ad altri ma non è
ammessa per i diritti indisponibili. Infine, trattandosi di atto unilaterale, deve
ammettersi la possibilità di revoca dell’atto fin quando gli altri non abbiano
conseguito diritti in seguito alla rinuncia.

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Capitolo 10: La tutela giurisdizionale


L’attuazione del rapporto giuridico e la soddisfazione degli interessi ad esso sottostanti si
realizza nella maggior parte dei casi spontaneamente, ma è possibile che tale volontaria
attuazione non si dia o che altri contesti il mio diritto: in questi casi si apre la
possibilità di una tutela giurisdizionale dei diritti tramite il ricorso all’autorità giudiziaria,
che ha il compito di far applicare la legge. La tutela giurisdizionale è un diritto inviolabile
del singolo riconosciuto all’art. 24 della Costituzione: “Tutti possono agire in giudizio
per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”. L’azione in giudizio può essere compiuta
da chiunque pretenda di avere un diritto (chiamato attore perché agisce in giudizio), nei
confronti di chi contesti tale diritto (il convenuto, perché chiamato a difendersi). In
relazione al contenuto della controversia si distinguono: il processo di cognizione, volto
ad accertare una situazione giuridica determinando la regola specifica ad essa applicabile;
tale processo può dar luogo ad una sentenza di accertamento, in ordine all’esistenza e
al contenuto di un rapporto giuridico; una sentenza di condanna, che contenga un
comando alla parte soccombente; o infine una sentenza costitutiva, che procede
a costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici. Il processo di esecuzione è volto
ad assicurare l’attuazione delle sentenze di condanna (se nonostante la condanna il
debitore non paga la somma dovuta, si procede all’esecuzione forzata). Infine il
processo cautelare è volto ad assicurare il mantenimento dello stato di fatto in attesa
della conclusione del processo di cognizione. Anche il convenuto ha il diritto di prospettare
in giudizio le sue ragioni, e si denomina eccezione ciò che il convenuto oppone al diritto
fatto valere dall’attore. La tutela giurisdizionale prevista nel nostro ordinamento assicura
la possibilità di riesame della decisione del giudice da parte di un altro giudice; esauriti i
diversi gradi di giudizio, la decisione contenuta nella sentenza definitiva assume
autorità di cosa giudicata; verificatosi cioè il passaggio in giudicato della sentenza,
essa fa stato tra le parti, i loro aventi causa (art. 2909).

I diritti assoluti
Capitolo 11: Introduzione
I diritti soggettivi si distinguono in diritti assoluti, che si possono fare valere in maniera
diretta verso tutti i consociati (come i diritti della personalità e i diritti reali) e diritti relativi,
che possono farsi valere in maniera diretta solo nei confronti di determinate persone (i
debitori). In questa categoria rientrano i diritti di credito. Entrambi conferiscono al titolare
una forma di tutela contro l’altrui violazione; con riguardo ai diritti assoluti si distingue tra
tutela reale o in forma specifica, volta a inibire la violazione del diritto o ad impedirne la
prosecuzione e tutela risarcitoria o per equivalente, collegata alle conseguenze
dannose della violazione del diritto; essa richiede quasi sempre la colpa o il dolo del
soggetto e impone al soggetto che ha cagionato il danno l’obbligo di risarcimento.

Diritti inviolabili
Capitolo 12: I diritti della personalità
I diritti della personalità sono quei diritti che tutelano l’individuo nei suoi beni
fondamentali e competono al singolo in quanto persona umana e non possono essere

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privati a nessun individuo. Essi si acquistano automaticamente (art. 2 Cost.). Caratteri dei
diritti della personalità sono:
- L’assolutezza: sono diritti assoluti in quanto possono farsi valere verso tutti;
- L’indisponibilità: sono diritti indisponibili, o inalienabili, nel senso che il titolare può
solo goderne ma senza disporne: in particolare non possono essere
trasferiti ad altri, né si può rinunciarvi;
- L’imprescrittibilità: sono imprescrittibili nel senso che non si estinguono per effetto
del mancato esercizio protratto nel tempo.
Il diritto alla vita tutela il bene dell’esistenza individuale, sia verso lo Stato sia verso gli
altri consociati, tenuti ad astenersi dal ledere tale diritto. Il diritto all’integrità fisica tutela
il bene dell’incolumità personale, intesa come stato di salute fisica e psichica. La garanzia
opera sia verso i privati, tenuti ad astenersi da ogni atto di lesione, sia verso lo Stato,
tenuto ad un’azione di salvaguardia e promozione della salute. Tale diritto è indisponibile
nel senso che il soggetto non può ledere la propria integrità né può consentire che altri lo
faccia. Per atti di disposizione del proprio corpo si intendono sia gli atti di disposizione
materiale (es. automutilazione) sia quelli di disposizione giuridica “es. impegno di donare
un organo). L’art. 5 vieta entrambi i tipi di atti quando producano una menomazione
permanente dell’integrità o quando siano contrari all’ordine pubblico o al buon
costume. Sono vietati i prelievi di organi, le sterilizzazioni permanenti, le attività
sportive troppo violente. Risultano leciti gli atti di disposizione che non ledono in modo
irreversibile l’integrità. Sono ammessi quegli atti dispositivi che risultano giustificati da un
interesse superiore, come il fine di cura dell’interessato o di terzi. Si parla di integrità
morale per designare il bene dell’onore e del decoro: essi sono tutelati dal diritto
all’onore e la tutela è di tipo penale: costituiscono reato sia l’ingiuria, cioè l’offesa
all’onore o al decoro, sia la diffamazione, cioè l’offesa della reputazione altrui realizzata
comunicando con altre persone. Le sanzioni civili sono il sequestro degli scritti e il
risarcimento dei danni, patrimoniali e non. L’identità personale comprende il diritto al
nome, alla personalità morale e all’identità sessuale. Il diritto al nome tutela
l’interesse al proprio appellativo come segno distintivo della persona e mezzo di
identificazione personale (art. 6). Il nome si compone del prenome e del cognome. Il
diritto alla personalità morale tutela l’interesse alla stessa essenza di tale identità, come
modo d’essere, qualità e caratteristiche intrinseche della persona. La legge prevede che,
quando si tratti di notizia di notizia inesatta, l’interessato può pretendere la pubblicazione
di una smentita o rettifica che abbia lo stesso rilievo dell’errore. Si ha così diritto al
risarcimento del danno. Il diritto morale d’autore tutela l’interesse a vedersi riconosciuta
la paternità intellettuale sulle opere dell’ingegno e sulle invenzioni industriali contro
chiunque le contesti o cerchi di appropriarsene (art. 2577). Il diritto all’identità
sessuale si sostanzia nel diritto alla rettificazione delle risultanze anagrafiche
quando il sesso indicato nell’atto di nascita non corrisponda a realtà, vuoi per errore al
momento della redazione, vuoi per mutamento dei caratteri sessuali esterni a
seguito di un’operazione chirurgica. Il diritto all’intimità privata tutela l’interesse a
mantenere il riserbo sulla propria vita privata. Questo diritto può articolarsi nel diritto
all’immagine che tutela l’interesse all’uso esclusivo del proprio ritratto, vietando che esso
venga esposto o pubblicato senza il consenso della persona (art. 10) e nel diritto alla
riservatezza, che tutela l’interesse a mantenere il riserbo sui fatti della vita personale e
protegge l’interesse a evitare una divulgazione pubblica delle informazioni. Quanto alle
libertà civili occorre ricordare la libertà personale, come diritto a non subire altrui
costrizioni nella sfera personale e negoziale; la libertà religiosa, come diritto di
professare liberamente la propria fede; la libertà di associarsi per fini non vietati dalla

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legge penale; la libertà di manifestazione del pensiero; il diritto alla scelta libera del
lavoro; il diritto di iniziativa economica e il diritto alla proprietà privata.

I diritti reali
Capitolo 13: Introduzione
L’altra grande categoria di diritti assoluti è rappresentata dai diritti reali (il termine reale
deriva dal latino res: cosa); essi sono infatti diritti su una cosa, avendo ad oggetto una
porzione materiale della realtà. I diritti reali attribuiscono un potere diretto e immediato su
una cosa, che consente una diretta soddisfazione dell’interesse e può farsi valere verso
tutti. Fondamentale diritto reale è la proprietà, come diritto di godere e disporre
liberamente di una cosa; inoltre si danno anche diritti reali su cosa che appartiene ad altri
(es. usufrutto) limitando le facoltà del proprietario e attribuendo alcuni poteri sul bene ad
altri soggetti (cd. diritti reali minori). I caratteri salienti sono:
- L’immediatezza del potere: con immediatezza s’intende far riferimento al fatto che
il rapporto tra l’uomo e la cosa è diretto;
- L’inerenza alla cosa: consiste nel particolare nesso tra il diritto e il bene, che si
traduce nell’opponibilità erga omnes del diritto, e cioè nella possibilità di farlo
valere verso chiunque;
- La facoltà di seguito o sequela: tali diritti possono farsi valere nei confronti della
generalità dei consociati, ma anche nei confronti di chi venga ad acquistare uno
specifico diritto sullo stesso bene;
- L’elasticità: allude all’idoneità del diritto ad espandersi su tutta la cosa quando
essa si accresca o vengano meno i diritti altrui gravanti su di essa;
- Tipicità: i diritti reali sono soltanto quelli previsti e disciplinati dalla legge e non è
prevista la possibilità per i privati di crearne altri ma essi possono solo modificare il
contenuto dei diritti reali tipici.
La categoria dei diritti reali si divide in due partizioni: il diritto su cosa propria, nella
cui definizione rientra solo la proprietà che costituisce la figura fondamentale per l’intera
categoria, e diritti su cosa altrui, che sono quei diritti, cd. minori, che possono spettare
ad un soggetto su un bene di proprietà di altri; rientrano in questa categoria i diritti reali di
godimento e i diritti reali di garanzia.

Capitolo 14: I beni


L’art. 810 definisce beni tutte le cose che possono formare oggetto di diritti. I beni materiali
si distinguono in mobili e immobili. L’art. 812 definisce immobili il suolo e tutto ciò che è
incorporato al suolo; sono mobili tutti gli altri beni. C’è una diversa disciplina che attiene al
regime di circolazione e difesa; per gli immobili vige un sistema basato sul carattere
formale degli atti di trasferimento (la vendita richiede la forma scritta) e sulla pubblicità
degli atti stessi realizzata tramite appositi registri. Per i mobili non si richiede né pubblicità
del trasferimento né forma particolare. Si distinguono poi i beni mobili registrati, che
sono alcune categorie di beni (auto, navi) annotati in appositi registri sui quali va trascritto
il relativo trasferimento; le universalità di mobili sono pluralità di cose che appartengono
ad una stessa persona ed hanno una destinazione unitaria (art. 816). Il legame che unisce
le varie cose dipende dalla volontà del proprietario che le riunisce e le destina ad una

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funzione unitaria tanto che l’insieme viene denominato universalità di fatto, a cui si
contrappone l’universalità di diritto creata dalla legge. Non costituisce universalità il
patrimonio. Altra distinzione è quella tra cosa semplice, quella i cui elementi sono a tal
punto connessi fra di loro che una loro separazione distruggerebbe la cosa, e cosa
composta, quella che risulta dall’unione materiale di più cose distinte e suscettibili di
autonomo rilievo economico ove vengano separate. Si dicono divisibili i beni il cui
frazionamento non altera la funzione economica delle parti risultanti. Sono pertinenze le
cose destinate in modo durevole a servizio di un’altra (art. 817). Essa può essere
effettuata dal proprietario della cosa principale o dal titolare di un diritto reale su di essa.
Gli atti e i rapporti giuridici che hanno per oggetto la cosa principale comprendono anche
le pertinenze, se non è diversamente disposto (art. 818). I frutti sono beni che
provengono da un altro bene. Si dicono frutti naturali quelli che provengono
direttamente dalla cosa e appartengono al proprietario della cosa fruttifera, salvo che la
loro proprietà sia attribuita ad altri (art. 820 – 821). Si dicono frutti civili quelli che si
traggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia, come il canone
della locazione e gli interessi sui capitali. Si dicono fungibili i beni sostituibili con altri
dello stesso genere senza che l’interesse dell’utilizzatore venga a soffrirne. Sono
fungibili i beni che appartengono allo stesso genere. Sono infungibili i beni che
presentano caratteristiche proprie, che li distinguono da altri analoghi. Le cose
consumabili sono quelle “delle quali non si può far uso senza consumarle” (art. 750),
come il denaro; sono cose deteriorabili i beni che “senza consumarsi in un tratto, si
deteriorano a poco a poco, come l’automobile” (art. 996). Per beni pubblici si intendono i
beni appartenenti ad ente pubblico e si distinguono i beni demaniali che possono
appartenere solo allo Stato o ad altro ente territoriale e i beni patrimoniali
indisponibili che possono spettare anche ad altri enti pubblici. Sono beni del demanio
necessario (spettando solo allo Stato), il demanio marittimo, idrico e militare; fanno parte
del demanio eventuale (se, cioè appartengono a un ente pubblico territoriale) strade,
aeroporti, acquedotti, etc. Sono beni del patrimonio indisponibile le foreste, le miniere,
etc. Tutti gli altri beni pubblici rientrano nel cd. patrimonio disponibile e sono soggetti alle
stesse norme che disciplinano i beni privati.

Capitolo 15: La proprietà


La proprietà è il primo fra i diritti reali e l’art. 832 ne descrive il contenuto quale “diritto di
godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza
degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”. Il diritto di godere delle cose consiste
nella facoltà di utilizzare il bene perseguendo fini e interessi liberamente scelti; il diritto di
disporre consiste nella facoltà di alienare il bene o di costituire su di esso diritti reali (cd.
minori) in favore di terzi. Mentre nella facoltà di godere viene in considerazione il cd.
valore d’uso dei beni, nella facoltà di disporre il proprietario sfrutta il valore di scambio, e
cioè l’utilità derivante dal controvalore in denaro del bene stesso. Tali facoltà possono
esercitarsi in modo pieno ed esclusivo: in modo pieno in quanto il proprietario può
fare tutto ciò che non è espressamente vietato; in modo esclusivo, essendo esclusi tutti
coloro che non abbiano un titolo concorrente per esercitare poteri sulla cosa. Si può
parlare di ruolo costituzionale della proprietà nella codificazione civile del 1865 che si
componeva di 3 libri: il libro centrale era dedicato alla proprietà, il primo alle persone e il
terzo ai modi di acquisto della proprietà. L’impostazione muta con il codice civile del
1942 che unifica il codice civile ed il diritto commerciale. Nell’attuale sistema l’art. 42
Cost. riconosce e garantisce la proprietà privata ma non la annovera fra i diritti
fondamentali, disciplinandola invece nel quadro dei rapporti economici. La garanzia è
seguita dalla necessità di assicurare la sua funzione sociale, che svolge un duplice ruolo:

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essa costituisce la cornice teorica al cui interno si giustificano i limiti e gli obblighi previsti
dalla legge e opera anche come criterio di interpretazione della disciplina e come
strumento di integrazione per l’imposizione di nuovi limiti, oltre quelli già previsti. L’art. 840
è dedicato all’estensione della proprietà in linea verticale e stabilisce che essa “si
estende al sottosuolo, con tutto ciò che vi si contiene” e “il proprietario non può opporsi ad
attività di terzi” svolte a tale altezza o tale profondità che egli non abbia interesse ad
escluderle. Pertanto egli dovrà tollerare il passaggio di linee elettriche nello spazio
sovrastante e di gallerie nel sottosuolo. In senso orizzontale la proprietà è delimitata dai
confini del fondo che il titolare “può chiudere in qualunque tempo (art. 841), impedendo
così l’ingresso agli estranei. In mancanza di recinzione egli deve consentire l’accesso a chi
voglia esercitarvi la caccia o raccolta di piante spontanee, etc.; l’ingresso al fondo deve
essere consentito al vicino che abbia necessità di costruire o riparare il proprio muro voglia
riprendere qualcosa che vi si trova accidentalmente. Limiti specifici sono dettati per i
rapporti di vicinato. Tali vincoli sono reciproci poiché il sacrificio di ciascuno è
compensato dal vantaggio derivante dall’analogo limite in capo al vicino; sono automatici,
perché nascono direttamente dalla legge e sono gratuiti, non richiedendo il
pagamento di alcuna indennità. Secondo l’art. 844 “il proprietario non può impedire le
propagazioni derivanti dal fondo vicino se non superano la normale tollerabilità”. La
proprietà agricola è contemplata dalla Costituzione all’art. 44, che prevede “limiti alla sua
estensione e bonifica delle terre, trasformazione del latifondo e ricostruzione delle unità
produttive e sostegno alla piccola e media proprietà. La proprietà edilizia è contemplata
al codice civile all’art. 869 ss.: il proprietario può costruire solo se e nei limiti in cui gli
strumenti di pianificazione urbanistica prevedono una destinazione per le singole zone e
previo rilascio di un permesso di costruire rilasciato dietro pagamento del contributo di
costruzione. L’espropriazione per motivi di interesse generale è prevista dalla Costituzione
che ne prevede l’indennizzo. Per quanto riguarda la distanza tra edifici, la regola
generale è stabilita dall’art. 873: le costruzioni sui fondi vicini devono essere tenute ad una
distanza non inferiore ai 3 metri. Altre previsioni riguardano il muro di cinta, il muro
divisorio e il muro sul confine: questo può essere reso comune, previo pagamento
della metà del valore di esso e del suolo su cui è stato costruito. Per le distanze per altri
manufatti (pozzi, cisterne) e per alberi vale la regola che devono essere tenuti ad una
certa distanza dal confine allo scopo di preservare i fondi vicini da ogni danno alla solidità
e sicurezza (artt. 889 – 899). Per le luci e le vedute è disciplinata l’apertura di finestre
negli edifici, quando esse si affaccino sul fondo del vicino, per limitare gli inconvenienti ed
il reciproco disturbo (art. 900). Si distinguono due tipi di aperture: le luci sono aperture che
danno passaggio alla luce e all’aria ma che non permettono di affacciarsi sul fondo del
vicino; le vedute sono aperture che permettono di affacciarsi e guardare di fronte e la
legge dispone che debbano essere tenute ad una certa distanza dal confine. Le
prescrizioni e le distanze, costituiscono dei limiti, ma possono essere derogate dalle parti
con apposita convenzione, attribuendo così alle parti di costruire a distanza inferiore.
Quanto alla tutela in caso di violazione, la legge prevede il risarcimento di danni e la
riduzione in pristino, cioè il diritto di ottenere la demolizione delle opere. I modi di
acquisto della proprietà sono i fatti e gli atti ai quali è collegato l’effetto giuridico
dell’acquisto della proprietà di un bene (art. 922 ss.). Si distinguono:
- Modo di acquisto a titolo derivativo: sono tutti quegli acquisti che presuppongono
un precedente titolare del diritto, da cui è derivato l’acquisto tramite un titolo, che
trasferisce il diritto. Di conseguenza, il diritto si trasferisce con gli stessi caratteri
che aveva in capo al precedente titolare;

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- Modi di acquisto a titolo originario: sono gli acquisti che non trovano la loro base
o fonte in un precedente diritto in capo ad altri e pertanto “la proprietà si acquista
libera da diritti altrui sulla cosa” (art. 1153).
I modi di acquisto a titolo originario (oltre all’usucapione e al possesso titolato) sono:
- L’occupazione: è la presa di possesso di cose mobili non appartenenti ad alcuno
(come le res nullius, cioè i pesci del mare e le res derelictae, le cose abbandonate).
Requisito dell’acquisto sono il fatto oggettivo dell’impossessamento e l’intenzione di
far propria la cosa;
- L’invenzione: è il ritrovamento di cose mobili smarrite (ma non abbandonate) dal
proprietario. Il ritrovatore ne acquista la proprietà se il proprietario non la reclami
entro un anno e ove il proprietario si presenti recupererà la cosa ma dovrà al
ritrovante un premio proporzionato al valore della cosa. Ipotesi di invenzione è la
scoperta del tesoro il quale spetta al proprietario del fondo, ma se trovato da un
terzo spetta per metà a costui (art. 932);
- L’accessione: è l’acquisto della proprietà di un bene per effetto della sua
congiunzione ad un altro, considerato come principale.
Distinguiamo l’accessione di mobile a immobile che si verifica per qualunque
piantagione, costruzione od opera che sia realizzata sopra o sotto il suolo (art. 934):
essa appartiene al proprietario di questo, pur se l’incorporazione sia stata realizzata dal
proprietario con materiali altrui o da un terzo. L’acquisto è immediato e automatico e
prescinde dalla volontà del proprietario del suolo e del costruttore; la legge tende a
conservare le opere realizzate con materiale altrui: il terzo può richiedere la restituzione
dei materiali solo se la separazione non rechi grave danno all’opera. In caso contrario,
potrà ottenere solo il valore dei materiali, oltre al risarcimento del danno. Ove l’opera sia
stata realizzata da un terzo, il proprietario del suolo può chiederne la rimozione a spese
del terzo. Ipotesi particolare è quella della cd. accessione invertita (art.938): se nella
costruzione di un edificio si occupa in buona fede una porzione del fondo attiguo, il
giudice, su domanda del costruttore può attribuirgli la proprietà dell’edificio e del suolo
occupato, previo pagamento del doppio del valore del suolo. L’accessione di mobile a
mobile prende il nome di unione o commistione quando “più cose appartenenti a diversi
proprietari sono state unite o mescolate in modo da formare un sol tutto” (art. 939). In tal
caso se le cose non sono economicamente separabili “la proprietà diventa comune in
proporzione del valore”; se però una delle cose appare principale, il proprietario della
principale acquista la proprietà del tutto, con l’obbligo di pagare il valore della cosa unita.
Si ha invece specificazione, quando taluno abbia elaborato una “materia” altrui formando
una “nuova cosa”, cioè un bene con una distinta individualità (ad es. un artigiano che
costruisce un mobile o una barca con legname altrui). L’accessione di immobile a
immobile si ravvisa in una serie di ipotesi, denominate “incrementi fluviali” e
caratterizzate dal fatto che, in seguito a modificazioni nel regime o nel corso delle acque,
si verificano mutamenti nell’assetto dei fondi confinanti. L’alluvione consiste
nell’incremento che si forma nei fondi, posti lungo la riva dei fiumi, per effetto del deposito
di detriti o a causa del ritirarsi dell’acqua da una riva. L’avulsione è il distacco istantaneo
di una parte considerevole di un fondo che viene trasportato a valle e unito ad altro fondo.
L’alveo abbandonato è il greto abbandonato dal fiume che si forma un nuovo letto. Le
azioni a difesa della proprietà sono disciplinate dagli artt. 948-951 e hanno natura reale:
attribuiscono cioè una tutela oggettiva e in forma specifica del diritto, sulla base del solo
fatto della violazione. Tali azioni sono:

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- La rivendicazione: è l’azione fondamentale concessa al proprietario che, secondo


l’art. 948 “può rivendicare la cosa da chiunque la possiede o detiene”. L’azione ha
una duplice azione: di accertamento della titolarità del diritto e di restituzione del
bene. Legittimato attivo è chi sostiene di essere proprietario: egli dovrà dimostrare
tale sua qualità provando un titolo originario di acquisto. Legittimato passivo è
chiunque abbia il possesso o la detenzione della cosa, anche se, successivamente
alla domanda giudiziale, abbia cessato di possedere o detenere. In tal caso egli
sarà tenuto a recuperare la cosa a spese proprie, e in mancanza, a pagarne il
valore, oltre al risarcimento dei danni. Quanto al detentore, egli potrebbe non avere
la facoltà di restituire la cosa, dovendo renderne conto a chi gliel’ha consegnata;
egli potrà essere estromesso dal giudizio, che proseguirà contro tale soggetto.
L’azione di rivendicazione non si prescrive perché il non uso costituisce una facoltà
del proprietario;
- L’ azione negatoria: è concessa al proprietario per far dichiarare l’inesistenza di
diritti altrui sulla cosa e per far cessare le eventuali molestie o turbative (art. 949).
Essa è diretta ad un accertamento negativo ed eventualmente ad una condanna
alla cessazione delle molestie ed al risarcimento del danno. Legittimato attivo è il
proprietario dell’immobile che, non essendo contestata la titolarità della cosa, non
deve dare una prova della titolarità. Legittimato passivo è chi pretende di avere
diritti reali sul bene e sarà costui che dovrà darne la relativa prova. Anche l’azione
negatoria è imprescrittibile;
- L’azione di regolamento di confini: suppone un’incertezza in ordine alla posizione
del confine tra due fondi ed è diretta ad accertarlo (art. 950). In questo caso si
contesta l’oggetto del diritto, in particolare l’estensione materiale del fondo. L’azione
pertanto ha scopo di mero accertamento. È ammesso ogni mezzo di prova e in
mancanza di altri elementi il giudice si atterrà alle mappe catastali;
- L’azione per l’apposizione di termini: presuppone la certezza, o la non
contestazione, del confine ed ha lo scopo di far apporre o ristabilire a spese comuni
i “termini” di riconoscimento (art. 951).

Capitolo 16: I diritti reali di godimento


I diritti reali di godimento attribuiscono un potere su una cosa altrui: sono i cosiddetti
diritti reali minori. In quanto diritti reali hanno i caratteri dell’assolutezza, inerenza alla
cosa, elasticità e tipicità. Si dicono minori rispetto alla proprietà, perché hanno un più
ristretto contenuto, che si riduce facoltà (es. passare sul fondo altrui). Sono diritti su cosa
altrui perché gravano su beni in proprietà di altri, limitando le facoltà del proprietario. Su
uno stesso bene possono coesistere più diritti reali minori, purché di contenuto diverso (ad
es. usufrutto e servitù). L’altruità della cosa è coessenziale a tali diritti: se le qualità di
proprietario e di titolare di diritto reale minore si riuniscono nella stessa persona (ad es.
compro o eredito la proprietà del fondo di cui ho l’usufrutto), il diritto minore si
estingue (cd. consolidazione). Mentre la proprietà è perpetua, essi possono essere a
tempo o perpetui ma in ogni caso si estinguono per non uso protratto per 20 anni. La
tutela di tali diritti è ammessa erga omnes e il titolare può agire direttamente contro
chiunque si trovi nel possesso del bene, o contesti il suo diritto, per ottenerne la
restituzione o l’accertamento del suo diritto (cd. confessoria servitus, diretta a far
accertare l’esistenza e/o il contenuto di un diritto reale minore; mentre la negatoria
servitus è diretta a negare l’esistenza di diritti altrui sulla cosa). I diritti reali di godimento
sono:

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- La superficie: consiste nel diritto di fare (e mantenere) una costruzione sopra o


sotto il suolo altrui (cd. ius aedificandi) ovvero nel diritto di proprietà di una
costruzione separata dalla proprietà del suolo (cd. proprietà superficiaria) – artt.
952;954 -Si tratta di due situazioni giuridiche distinte; costituiscono però entrambe
deroga al principio posto dall’art. 934, per cui ogni opera esistente sopra
o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo per accessione. Tuttavia,
la prima consiste nel diritto di costruire sul suolo altrui, ove però la costruzione
non venga realizzata entro 20 anni il diritto si estingue per prescrizione, come tutti i
diritti reali minori; la seconda consiste in un vero e proprio diritto di
proprietà sulla costruzione, separato dalla proprietà del suolo. Tale diritto
può derivare o dalla edificazione realizzata in conformità al concesso ius
aedificandi (art. 952) o dall’alienazione di una preesistente costruzione fatta dal
proprietario. Si realizza in tal modo una separazione tra la proprietà del suolo e la
proprietà delle opere realizzate sopra di esso e di conseguenza la proprietà
superficiaria non è soggetta a prescrizione. La costituzione della superficie può
avvenire per contratto (richiede la forma scritta), per legge, per usucapione. Il
superficiario può alienare il suo diritto e costituire diritti reali a favore di terzi (ad es.
usufrutto e servitù), che si estinguono con l’estinzione del suo diritto sulla cosa.
L’estinzione della superficie può avvenire per scadenza del termine, per
consolidazione, per prescrizione del diritto di costruire (art. 953). In ogni caso,
l’estinzione della superficie non necessita di accettazione;
- L’enfiteusi: attribuisce al titolare (enfiteuta) lo stesso potere di godimento che
spetta al proprietario, salvo l’obbligo di migliorare il fondo e di pagare un canone
periodico (art. 959 ss.). L’enfiteuta ha ampi poteri di godimento (potendo anche
modificare la destinazione economica del fondo, realizzare addizioni e costruzioni
etc.) tanto che si parla di dominio utile per descrivere la sua posizione: si
tratterebbe di una vera e propria figura di proprietà configurandosi la posizione del
concedente come un mero diritto reale al canone. L’enfiteusi si estingue per non
uso (art. 970). L’enfiteuta può disporre liberamente del suo diritto, per atto fra vivi o
a causa di morte, e costituire diritti reali minori in favore di terzi. La durata non può
essere inferiore a 20 anni e il concedente ha diritto di ottenere un atto di
riconoscimento del suo diritto prima del compimento del ventennio (art. 958,969).
Gli obblighi riguardano il miglioramento del fondo e il pagamento di un canone che
non può essere superiore all’ammontare del reddito dominicale (art.960). Di
fondamentale rilievo è il diritto dell’enfiteuta di ottenere l’affrancazione del fondo,
cioè di divenire proprietario a pieno titolo pagando una somma fissata in 15 volte
l’ammontare annuo del canone. Di contro sta il diritto del concedente di ottenere la
devoluzione, che importa l’estinzione dell’enfiteusi, ove l’enfiteuta non migliori il
fondo, lo deteriori o sia in mora nel pagamento. In caso di devoluzione l’enfiteuta
ha diritto al rimborso di miglioramenti e addizioni. Oltre che per affrancazione e
devoluzione, l’enfiteusi si può estinguere anche per decorso del termine, per
perimento del fondo e per prescrizione estintiva, cioè per effetto del non uso
protratto per vent’anni (art.970);
- L’usufrutto: L’usufrutto è il diritto di godere una cosa entro i limiti segnati dal
rispetto della sua destinazione economica (art. 981) e attribuisce al titolare un
ampio potere di usare e godere una cosa altrui traendone ogni utilità che questa
può dare e si estende a tutte le accessioni (gli incrementi della cosa) pur se
realizzati da terzi dopo la costituzione dell’usufrutto (art.983). La destinazione
economica della cosa si configura come un limite al potere di godimento ed è tipica
dell’usufrutto, pur se derogabile dalla volontà privata. Essenziale è la durata

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temporanea dell’usufrutto; il diritto “non può eccedere la vita dell’usufruttario


né durare più di 30 anni” (art. 979). Oggetto dell’usufrutto può essere qualsiasi tipo
di bene mobile e immobile, ma anche i crediti e i titoli di credito. Se l’usufrutto è
costituito su una cosa consumabile è evidente che l’utilizzazione ne importerà la
perdita, e dunque l’impossibilità di restituirla al termine dell’usufrutto. È stabilito
perciò che l’usufruttario possa servirsene liberamente, pagandone poi il valore di
stima convenuto o restituendo cose dello stesso genere o qualità (art. 955). In
questo caso la proprietà della cosa passa all’usufruttario e si parla di quasi-
usufrutto. Ove si tratti di cose deteriorabili, lì usufruttuario può servirsene secondo
l’uso ordinario, restituendole poi nello stato in cui si trovano (art. 996). L’usufruttario
può “trarre dalla cosa tutte le utilità che questa può dare”; in particolare può
utilizzare la cosa direttamente e indirettamente traendone i frutti naturali e civili: i
primi si acquistano al momento della separazione mentre i secondi si acquistano
giorno per giorno in ragione della durata del diritto. Egli può realizzare
miglioramenti, che consistono in un incremento qualitativo che si fonde con la
cosa e ne aumenta la produttività, o addizioni, che consistono in un incremento
quantitativo, che rimane distinto dalla cosa. Per entrambi egli ha diritto a
un’indennità nella misura della minor somma tra lo speso e il miglioramento al
momento della cessazione dell’usufrutto. L’usufruttario è legittimato alla tutela del
suo diritto sia in via possessoria che petitoria: egli ha diritto di conseguire il
possesso della cosa, tramite le relative azioni e, in via petitoria, gli compete la cd.
vindicatio usufructus (analoga all’azione di rivendica): cioè l’azione confessoria
contro chi contesti il suo diritto. Può anche agire con l’azione negatoria
chiamando in giudizio anche il proprietario (art. 1012). Gli obblighi dell’usufruttario
sono connessi all’obbligo di restituire la cosa al termine dell’usufrutto e competono
ad egli le spese di ordinaria manutenzione mentre al proprietario le spese per
riparazioni straordinarie e le imposte dominicali. L’usufrutto può costituirsi per
legge (ad es. quello legale dei genitori sui beni dei figli minori), o per volontà
privata (tramite testamento o contratto). È frequente la donazione con riserva di
usufrutto (art.796) cioè l’atto con cui un genitore dona al figlio un bene
riservandosene il godimento. È possibile anche che il proprietario riservandosi la
proprietà alieni l’usufrutto: in questo caso si parlerà di acquisto derivativo-
costitutivo, perché l’acquirente deriva da altri il diritto, che non esisteva come
entità autonoma e perciò si costituisce con il contratto. Sarà un acquisto
derivativo-traslativo quello ottenuto per “cessione” da chi sia già titolare
dell’usufrutto (art. 980). È possibile anche un acquisto per usucapione nella forma
abbreviata (art. 1158 - vedi cap. 19). Non è ammesso l’usufrutto successivo, cioè il
passaggio dell’usufrutto da una persona ad un'altra al momento della morte, poiché
l’usufrutto si estingue con la morte del titolare (art. 698). La trasmissione per
successione ereditaria è ammessa solo quando l’usufrutto sia stato ceduto ad altra
persona e questa muoia prima del cedente. L’estinzione si verifica per
scadenza del termine e alla morte dell’usufruttuario, per prescrizione
ventennale, per perimento totale della cosa, per abuso che l’usufruttario faccia del
suo diritto e per consolidazione, cioè riunione dello stesso soggetto nella qualità di
proprietario e usufruttario;
- L’uso e l’abitazione: sono sottospecie di usufrutto caratterizzate da una facoltà
di godimento limitata ai bisogni del titolare e della sua famiglia. Hanno carattere
personale, in quanto non possono essere ceduti. Per il resto la disciplina è analoga
a quella dettata per l’usufrutto (art. 1026). L’uso è il diritto di servirsi di una cosa e
di raccoglierne i frutti limitatamente ai bisogni personali e familiari; l’abitazione è il
diritto di abitare una casa nei limiti dei bisogni della famiglia (art. 1022).

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- La servitù: consiste in un peso imposto sopra un fondo (detto servente) per l’utilità
di un altro fondo (detto dominante) appartenente a diverso proprietario (art. 1027).
Consente un’utilizzazione specifica e circoscritta della cosa altrui (ad es. passare
sul fondo altrui) e nasce e vive in funzione di una oggettiva relazione di servizio tra
due fondi, in virtù della quale la limitazione apposta al primo avvantaggia il secondo
(cd. predialità della servitù). Infine essa si caratterizza per la sua accessorietà alla
proprietà di un immobile, nel senso che è legata inscindibilmente ad esso e si
trasferisce automaticamente con il trasferimento della proprietà del bene (ad es. se
il proprietario di un edificio ha una servitù di passaggio su un fondo vicino, tale
servitù si trasferirà automaticamente sia al nuovo proprietario, sia all’acquirente del
fondo). L’art. 1027 definisce la servitù un peso imposto sopra un fondo per
l’utilità di un altro fondo, appartenente a diverso proprietario. Il peso consiste
in una limitazione delle facoltà di godimento del fondo di contenuto vario (es. non
sopraelevare). Tale peso può consistere o nell’imposizione di un “non facere” (es.
non costruire) o nel tollerare che altri lo facciano. Il contenuto del peso
può essere determinato dalle parti entro i limiti dello schema legislativo. L’utilità del
fondo può consistere in qualsiasi vantaggio, anche non economico, per la migliore
utilizzazione del bene purché stabile e oggettivo, nel senso che deve riguardare il
fondo e non personalmente al proprietario: è il principio del collegamento
funzionale oggettivo tra i fondi (cd. predialità delle servitù). L’utilità può anche
consistere anche nella “maggiore comodità del fondo dominante” (ad es. il divieto di
mutare la destinazione a verde di un terreno), inerire alla sua destinazione
industriale, o riferirsi ad un vantaggio futuro. Ultimo requisito indicato dall’art. 1027
è la diversità dei proprietari dei due fondi, servente e dominante, derivante dal
principio per cui il proprietario di un bene non può essere titolare di un diritto
parziario sulla stessa cosa. È ammesso che il titolare del fondo servente sia
comproprietario, insieme ad altri, del fondo dominante e viceversa. Le servitù
nascono solo in virtù di uno specifico titolo costitutivo, sono
unilaterali e onerose.
Quanto al modo di costituzione si distinguono:
- Le servitù coattive, che si costituiscono forzosamente, per lo più con sentenza del
giudice, in virtù di una previsione legislativa. In presenza di alcuni presupposti, la
legge attribuisce al proprietario di un fondo il diritto potestativo di ottenere, previo
pagamento di un’indennità, l’imposizione di una servitù (che, in mancanza di
accordo fra le parti, è stabilità con sentenza del giudice) a carico di un fondo vicino.
Criterio generale è quello della soddisfazione del bisogno del fondo dominante col
minor aggravio possibile per il fondo servente. In alcuni caso la servitù può essere
imposta tramite atto amministrativo. Le figure più importanti di servitù
coattive sono: l’acquedotto coattivo, che attribuisce il diritto di collocare
sul fondo servente acquedotti o canali; la somministrazione d’acqua, che
attribuisce il diritto di prelevare acqua dal fondo servente; il passaggio coattivo,
che attribuisce il diritto di passare sul fondo servente qualora il fondo vicino sia
intercluso, cioè non abbia accesso alla via pubblica;
- Le servitù volontarie: sono quelle derivanti dal fatto dell’uomo e si costituiscono
tramite un atto negoziale, per usucapione e per destinazione del padre di
famiglia (art. 1031). In via negoziale le servitù possono costituirsi per testamento o
per contratto (art. 1058), che richiedono la forma scritta e danno luogo ad un
acquisto derivativo-costitutivo. L’usucapione e la destinazione del padre di famiglia
danno luogo ad acquisti a titolo originario; essi sono riservati solo alle servitù
apparenti, cioè quelle al cui esercizio sono destinate opere visibili e permanenti (art.

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1061). La destinazione per padre di famiglia ha luogo quando due fondi,


attualmente divisi, sono appartenuti allo stesso proprietario e questi ha
realizzato opere tali da asservire oggettivamente un fondo all’altro. Fin quando
la proprietà rimane allo stesso soggetto non può nascere alcuna servitù; ma se tale
proprietà si scinde la servitù s’intende stabilita attivamente e passivamente a
favore e sopra ciascuno dei fondi separati (art. 1062). A norma dell’art. 1063
l’esercizio della servitù e il suo contenuto sono regolati dal titolo costitutivo
(sentenza, contratto e testamento) e, in mancanza, dalla legge. Le regole in
proposito sono due: la servitù “comprende tutto ciò che è necessario per usarne”; il
modo di esercizio deve ispirarsi al criterio “minimo mezzo o minor incomodo”. La
tutela della servitù può avvenire in via petitoria e in via possessoria. L’azione
confessoria consente al titolare di farne riconoscere l’esistenza e di far cessare
eventuali impedimenti o turbative al suo esercizio (art. 1079). La servitù si può
estinguere per rinuncia (richiede l’atto scritto), per confusione e per
prescrizione (non uso per vent’anni).
Quanto al contenuto si distinguono:
- Servitù negative, che attribuiscono il potere di vietare qualcosa;
- Servitù positive, che attribuiscono il potere di fare qualcosa sul fondo altrui;
- Servitù continue, per il cui esercizio non è necessario un contestuale fatto
dell’uomo;
- Servitù discontinue, per il cui esercizio è necessario un contestuale fatto
dell’uomo. Per queste ultime il termine di prescrizione decorre dal giorno in cui si è
cessato di esercitare la servitù; per quelle negative e continue il termine decorre dal
giorno in cui si è verificato un fatto che ne ha interrotto o impedito l’esercizio.

Capitolo 17: La comunione


La comunione è la contitolarità di un diritto reale da parte di più persone. L’art. 1100 la
definisce come l’ipotesi in cui “la proprietà o altro diritto reale spetta in comune a più
persone”; tali soggetti sono contitolari di uno stesso diritto sullo stesso bene. Il diritto di
ciascuno investe la totalità della cosa ma è al contempo limitato dal diritto degli altri e la
misura in cui ciascuno è ammesso ad esercitarlo è espressa dal concetto di quota, che
indica la misura di partecipazione di ciascuno alla contitolarità. L’assetto dei rapporti
registra una prevalenza dell’interesse collettivo su quello individuale, per l’adozione del
principio maggioritario: le decisioni di interesse comune sono adottate a maggioranza
con decisione vincolante anche per i dissenzienti. Criterio di fondo è quello per cui il
gruppo ha competenza solo per gli interessi comuni ma non può ledere l’interesse
esclusivo del singolo e il suo diritto individuale di partecipare al godimento della cosa. Si
distinguono le comunioni volontarie, create dalle parti, e le comunioni incidentali,
create dalla legge. Fra queste si dicono forzose le comunioni necessarie cioè quelle che
non è possibile sciogliere per volontà unilaterale. Il codice disciplina la comunione
ordinaria (art. 1100): essa è segnata da una sola prevalenza dell’interesse collettivo su
quello individuale ed è retta dal principio di concorso, secondo cui ciascun partecipante
può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli
altri di farne parimenti uso, e dal principio maggioritario, in base al quale le decisioni
della maggioranza vincolano anche i dissenzienti ma non possono menomare i diritti
individuali. La disciplina può essere raggruppata attorno a tre profili:

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- L’uso spetta individualmente a ciascuno in proporzione alla sua quota (art. 1102);
- L’ amministrazione spetta collettivamente a tutti, secondo il principio maggioritario,
per le decisioni di interesse comune (art.1105); per gli atti di ordinaria
amministrazione basta la maggioranza semplice calcolata in base alle sole; per
gli atti di straordinaria amministrazione occorre una doppia maggioranza, per capi e
per quote: cioè la maggioranza numerica dei partecipanti che rappresentano
almeno due terzi del valore della cosa. La rappresentanza nella comunione spetta
disgiuntamente a ciascuno;
- La disposizione spetta individualmente a ciascuno nei limiti della propria quota.
Ciascuno può cioè vendere liberamente a terzi la propria quota e può in ogni
momento domandare lo scioglimento della comunione (art. 1111). Il patto di
rimanere in comunione è valido per un massimo di 10 anni, mentre per l’alienazione
di un bene occorre il consenso di tutti i contitolari.
Il condominio è una particolare comunione che si instaura negli edifici: in essi ciascuno è
al contempo proprietario esclusivo di un piano o porzione di esso e comproprietario di
alcune parti comuni (art. 1117). Qui la comunione è forzosa, non è soggetta a divisione e
né si può rinunciare ad essa. Il diritto sulle cose comuni è segnato dalla quota espressa in
millesimi e si trasferisce automaticamente con l’alienazione della porzione di proprietà
esclusiva. Il condominio è caratterizzato da un vincolo di destinazione delle parti comuni e
da un interesse collettivo su quelli individuali. Le norme relative all’amministrazione sono
affidate a due organi: l’assemblea dei condomini, che è l’organo deliberativo e ha
competenza generale sulla gestione delle cose comuni. Per la validità delle deliberazioni si
richiede la preventiva comunicazione di tutti gli aventi diritto con un ordine del giorno;
l’intervento di un numero minimo di condomini; l’approvazione a maggioranza semplice o
qualificata. Per gli atti di ordinaria amministrazione occorre l’approvazione di un terzo
dei condomini che siano titolari di almeno un terzo del valore dell’edificio; per gli atti di
straordinaria amministrazione occorre l’approvazione della maggioranza numerica degli
intervenuti che siano titolari di almeno metà del valore dell’edificio. Il secondo organo è
l’amministratore, organo esecutivo che ha la rappresentanza del condominio. La sua
competenza è speciale, cioè limitata a quanto previsto dalla legge o dal regolamento.
L’amministratore attua le delibere, disciplina l’uso delle cose comuni, riscuote i contributi,
esegue i pagamenti. La sua nomina è obbligatoria ove i condomini siano più di 4. Il
regolamento è lo statuto del condominio e la sua formazione è obbligatoria quando i
condomini sono più di dieci ed è approvato a maggioranza semplice. La multiproprietà
immobiliare è una comunione caratterizzata da un vincolo di destinazione e da una
particolare modalità di godimento ripartitivo di beni immobili e i condomini hanno diritto al
godimento di una unità immobiliare in periodi prefissati di tempo. Gli artt. 69-81 del codice
del consumo disciplinano i contratti con i quali si attribuiscono i diritti di godimento su
immobili per un periodo determinato. Questo diritto può avere natura di diritto reale ovvero
di altro diritto di godimento e che solo nel primo caso può essere impiegato il termine di
multiproprietà. Quando il diritto di godimento attribuito ha natura reale, la multiproprietà si
configura come una comproprietà caratterizzata da un vincolo negoziale di uso turnario.

Capitolo 18: Il possesso


Il possesso non è un diritto. Esso consiste in una situazione di fatto, precisamente nel
fatto che un soggetto gode di un bene, a prescindere dalla circostanza che egli abbia o no
il diritto di farlo. Ciò che conta è che un soggetto esercita i poteri che competono al titolare
di un diritto reale sulla cosa, abbia o non abbia il diritto di farlo. A differenza della proprietà

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e dei diritti reali minori, che designano una situazione giuridica consistente nell’attribuzione
di un legittimo potere di godimento sulla cosa, il possesso indica una situazione di fatto
consistente nell’effettivo esercizio di un godimento sulla cosa e tale potere viene esercitato
da chi ha il diritto di farlo ma può accadere che tale potere sia esercitato da chi non ha
titolo (es. il ladro): anche in tal caso viene garantita temporaneamente la situazione
possessoria pure contro il legittimo proprietario. La tutela, in questo caso, consiste nel
mantenere temporaneamente il mantenimento della situazione di fatto: il possessore non
deve giustificare i suoi poteri sulla cosa e, ove sia privato del possesso, può ottenere
un’immediata reintegrazione. Di norma il titolare del diritto è anche possessore della
cosa, pertanto la tutela della situazione possessoria di norma protegge chi ha diritto di
possedere. La tutela possessoria, limitandosi a mantenere la situazione di fatto esistente
non richiede che il soggetto dia la prova del proprio diritto. Nel caso in cui il possessore
non sia titolare del diritto sarà il proprietario a far valere in giudizio il suo diritto. Un’altra
ragione a tutela del possesso in capo a chi non ha il diritto è l’intento di premiare chi
utilizza il bene e lo mette a frutto; i vantaggi che il possesso assicura sono: la posizione di
convenuto nell’azione di rivendica; la tutela giudiziaria; il diritto al rimborso di determinate
spese sostenute per la cosa. Il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in
un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale (art.
1140). Si può possedere direttamente o per mezzo di altra persona che ha la detenzione
della cosa, cioè la materiale disponibilità. Si distinguono diverse situazioni possessorie:
- Il possesso vero e proprio, consistente nell’esercizio diretto dei poteri sulla cosa;
- Il possesso mediato, che si ha quando i poteri sono esercitati per il tramite di un
terzo che ne ha la detenzione;
- La detenzione, cioè la materiale disponibilità.
Il possesso ha due elementi: uno oggettivo, cioè la materiale disposizione della cosa, e
uno soggettivo, cioè l’intenzione di tenere la cosa per sé. Nella detenzione si riscontra solo
l’elemento oggettivo perché essa implica l’obbligo di restituire la cosa. Possesso e
detenzione sono entrambe situazioni di fatto che consistono nell’esercitare potere sulla
cosa: per aversi possesso occorre che il potere esercitato corrisponda al contenuto di un
diritto reale; per la detenzione è sufficiente che il potere sulla cosa consista nell’avere la
cosa presso di sé. Il potere che il detentore può esercitare sulla cosa dipende dal titolo in
base al quale la cosa gli è stata affidata (custodia, amministrazione, locazione.): il
detentore, derivando il suo potere da altri, può farne esclusivamente l’uso consentito dal
titolo per cui la cosa gli è stata consegnata. Se la detenzione sussiste in capo al
possessore, essa costituirà solo una modalità dell’esercizio del potere: un potere diretto
sulla cosa. Se invece la detenzione sussiste in capo ad un soggetto diverso, che costituirà
il tramite per mezzo del quale il possessore esercita il suo potere (cd. possesso
mediato), la detenzione assume una fisionomia diversa, come situazione distinta dal
possesso. Si presume il possesso in colui che esercita il potere di fatto a meno che non si
provi che ha cominciato a esercitarlo come detenzione. In pratica occorre dimostrare che
la disponibilità del bene è stata ottenuta in base ad un titolo qualificato come semplice
detenzione della cosa. Quindi ciò che è decisivo non è l’animus (intenzione) di chi esercita
i poteri sulla cosa, quanto il titolo in base al quale ha iniziato a esercitarli. È possibile che
la detenzione si muti in possesso; per far ciò occorre che il titolo venga a mutarsi per
causa proveniente da un terzo ovvero che il detentore faccia “opposizione contro il
possessore” (art. 1141). Esempio: Tizio, affermandosi proprietario del bene dato da Caio in
comodato a Sempronio, gliene dona la proprietà. NB: L’opposizione consiste in una
manifestazione esterna che renda univoco il significato dei poteri esercitati sulla cosa
come possesso. La detenzione può acquistarsi solo in modo derivativo,

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presupponendo un possessore dal quale si riceve la cosa, il possesso si può acquistare


anche in modo originario:
- Nelle ipotesi di acquisto della proprietà a titolo originario, che presuppongono
l’apprensione materiale della cosa (accessione, occupazione, invenzione);
- Nelle ipotesi di mutamento della detenzione in possesso;
- Quando il possesso sia conseguito direttamente con la materiale apprensione dei
beni altrui.
Non valgono a fare acquistare il possesso gli atti compiuti con l’altrui tolleranza, cioè
consentiti per benevolenza (quindi non acquisterà il possesso il vicino che per mia
tolleranza posteggia nel mio posto macchina o passa nel mio fondo). Si ha un acquisto
derivativo quando il possesso venga trasmesso dal precedente possessore tramite la
consegna, materiale o simbolica, della cosa. Le circostanze che qualificano il possesso
sono:
- Lo stato psicologico del soggetto al momento dell’acquisto, qualifica il
possesso di buona o di mala fede. È possessore di buona fede colui che possiede
ignorando di ledere altrui diritto (art. 1147). Si richiede che l’ignoranza non dipenda
da colpa grave; la buona fede si presume;
- Le modalità di acquisto qualificano il possesso come viziato ove sia stato
acquistato in modo violento o clandestino, cioè conto la volontà del proprietario o
del possessore: si ha violenza quando venga usata la minaccia per farsi
consegnare la cosa; si ha clandestinità quando l’acquisto sia stato realizzato in
modo da tenerlo nascosto alla pubblica conoscenza;
- Le modalità di esercizio del possesso lo qualificano come continuo quando non
si hanno sopravvenute interruzioni: l’interruzione civile si realizza quando il
proprietario reclama in giudizio la cosa sua o il possessore riconosce il proprio
obbligo di restituirla; l’interruzione naturale si verifica quando si sia perduto il
possesso per oltre un anno;
- In ordine alla durata del possesso, il possesso attuale non fa presumere il
possesso anteriore ma il possessore che dimostri di avere posseduto in un tempo
anteriore si presume che abbia posseduto anche nel tempo intermedio.
Dunque il possesso si qualifica in base alle circostanze che accompagnano il suo
acquisto: in caso di acquisto originario del possesso, il soggetto sarà in buona fede in
relazione al suo effettivo stato psicologico, senza essere pregiudicato dall’eventuale mala
fede dei precedenti possessori. In caso di acquisto derivativo occorre fare una distinzione:
ove si tratti di successione a titolo universale si ritiene prevalente il subingresso dell’erede
nella stessa posizione del defunto il quale se era in buona fede tale sarà anche il
possesso dell’erede, se era viziato tale continua ad essere in capo all’erede; ove si tratti di
successione a titolo particolare (ES. consegna del bene a seguito di vendita o donazione),
colui che subentra nel possesso sarà di buona o di mala fede in dipendenza della sua
condizione psicologica al momento dell’acquisto. La legge però, dà facoltà a chi succede
nel possesso altrui, di unire il suo possesso a quello del suo autore per goderne gli effetti.
La tutela del possesso è solo provvisoria, e in seguito all’azione di rivendica da parte del
titolare, il possessore dovrà restituire la cosa, e se questa è fruttifera dovrebbero essere
restituiti anche i frutti nel frattempo prodotti. Il possessore di buona fede fa suoi i frutti
percepiti fino al giorno della domanda giudiziale. Il possessore tenuto a restituire i frutti
ha diritto ad un rimborso delle spese necessarie per la produzione. Per le riparazioni

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straordinarie il possessore ha sempre diritto ad un rimborso. A tutela delle situazioni


possessorie sono previste alcune azioni dirette a mantenere o ripristinare lo stato di fatto
alterato dall’altrui intromissione. Reintegrata la situazione di fatto, chi pretende di avere un
diritto sulla cosa, potrà agire in giudizio; trascorso un anno, per recuperare la cosa il
proprietario dovrà agire con le azioni petitorie (azione di rivendica etc. vedi cap.15). Le
azioni a difesa del possesso sono:
- L’azione di reintegrazione: concessa a chi sia stato spogliato violentemente del
possesso o della detenzione e mira ad ottenere la reintegrazione nella situazione
possessoria (art. 1168). Legittimato attivo è sia il possessore che il detentore (ma
non il detentore disinteressato, cioè colui che abbia la detenzione della cosa per
ragioni di servizio o ospitalità). Legittimato passivo è colui che abbia commesso uno
spoglio violento o clandestino. L’azione è soggetta al termine di decadenza di un
anno dal giorno dello spoglio, e se clandestino, dal giorno in cui si è scoperto
l’autore dello spoglio. L’azione di reintegrazione deve essere ordinata dal giudice
sulla semplice notorietà del fatto: deve cioè rinviare al giudizio petitorio ogni
questione relativa al diritto di possedere la cosa in quanto titolare della posizione
giuridica;
- L’azione di manutenzione: è concessa a chi sia stato molestato nel possesso di
un suo immobile e mira a ottenere la manutenzione del possesso medesimo (art.
1170). Legittimato attivo è solo il possessore di diritti reali su beni immobili e
requisiti specifici per l’azione sono il possesso non viziato, continuo e non interrotto
da oltre un anno. Legittimato passivo è chiunque compia atti di turbativa del
possesso altrui. L’azione mira ad ottenere la cessazione della turbativa e a
consentire la continuazione del libero esercizio del potere sulla cosa;
- La denunzia di nuova opera e di danno temuto: sono azioni cautelari e mirano a
preservare il bene da un pregiudizio o danno che possa derivare da una cosa del
vicino o da una nuova opera da lui intrapresa (art. 1171,1172). La denunzia di
nuova opera può essere esercitata quando si abbia ragione di temere che da una
nuova opera possa derivare un danno; la denunzia di danno temuto può essere
esercitata quando si ha ragione di temere un danno grave ed imminente da una
cosa del vicino.

Capitolo 19: L’acquisto dei diritti reali mediante il possesso


Tra gli effetti del possesso (art. 1153 ss.) la legge inserisce anche altri modi d’acquisto a
titolo originario della proprietà e degli altri diritti reali: il possesso titolato di beni mobili e
l’usucapione. Si tratta di istituti che si fondano sull’esigenza di rendere rapida e sicura la
circolazione dei beni. In sintesi, l’esercizio di fatto del possesso attribuisce al possessore,
a determinate condizioni, la titolarità del diritto pur se manca un efficace titolo d’acquisto.
Un modo di acquisto della proprietà di beni mobili è costituito dal possesso titolato, più
spesso denominato “possesso vale titolo”. Secondo l’art. 1153, chi acquista beni mobili
dal non proprietario, ne consegue la proprietà se ricorrono le seguenti condizioni: un titolo
idoneo al trasferimento del diritto, la buona fede, il possesso. L’ambito di applicazione
della regola è esclusivamente quello dei beni mobili; per i mobili registrati esiste un
apposito regime di pubblicità (trascrizione). La regola opera solo in caso di valido acquisto
dal non proprietario (o per meglio dire dal non titolare del diritto); non opera in caso di
contratto nullo e non serve a sanare eventuali vizi o anomalie dell’atto di acquisto ma vale
ad ovviare esclusivamente alla mancanza di titolarità in capo all’alienante. Requisiti
affinché si possa operare la regola del “possesso vale titolo” sono:

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- Un titolo idoneo al trasferimento del diritto: cioè deve aversi un atto o fatto di
per sé in grado di realizzare un’attribuzione immediata all’acquirente (come la
vendita di una cosa determinata). Deve trattarsi di un titolo astrattamente idoneo,
che sarebbe cioè in grado di trasferire la proprietà (o altro diritto reale) se a ciò
non fosse d’ostacolo la mancanza di titolarità del disponente. Pertanto, non è
idoneo un contratto nullo, poiché privo d’effetti; ma è idoneo un contratto
annullabile, in quanto provvisoriamente efficace;
- La buona fede al momento della consegna: qui buona fede significa ignoranza
dell’altruità della cosa. La buona fede si presume, ma non giova se dipende da
colpa grave (art. 1147);
- Il possesso della cosa derivante da una effettiva consegna da parte del disponente.
La regola del possesso vale titolo non realizza un acquisto a titolo derivativo (perché chi
vende non è proprietario), bensì un acquisto a titolo originario e “libero da diritti altrui sulla
cosa...che non risultano dal titolo” (art. 1153). La regola si applica anche quando il
proprietario aliena lo stesso bene a più persone: la prima fra queste che ne consegue il
possesso in buona fede è preferita alle altre, anche se il suo acquisto è di data posteriore
(art. 1155). L’usucapione è un modo di acquisto della proprietà e degli altri diritti reali di
godimento derivante dal possesso continuato per un certo tempo. L’acquisto è a titolo
originario e la proprietà della cosa quindi si acquista libera da eventuali pesi o diritti altrui.
L’usucapione viene in rilievo, come modo di acquisto della proprietà in due ipotesi:
- Possesso senza alcun titolo o con titolo nullo;
- Possesso legittimato da titolo valido ma inefficace perché proveniente da chi
non è titolare del diritto alienato.
L’usucapione ordinaria si compie in virtù del possesso continuato per 20 anni (art. 1158).
Ai fini dell’usucapione il possesso deve essere pacifico e pubblico, cioè non acquistato in
modo violento né clandestino; inoltre il possesso dev’essere continuo e non interrotto. Con
l’usucapione ordinaria ventennale si acquistano i diritti di proprietà e di godimento su tutti i
beni, mobili e immobili, universalità di mobili e mobili registrati. L’usucapione abbreviata
richiede, oltre al possesso continuato per un certo tempo, un titolo idoneo a trasferire il
diritto, la buona fede, la trascrizione del titolo. Il titolo richiesto dev’essere astrattamente
idoneo a trasferire il diritto, e perciò un titolo valido, pur se in concentro inefficace perché
proveniente da chi non è titolare del diritto alienato; buona fede significa ignoranza non
gravemente colposa dell’altruità del bene; la trascrizione del titolo è richiesta per i soli beni
immobili e mobili registrati. Quanto al possesso, la sua durata varia in relazione ai beni.
L’usucapione si compie in 10 anni per i beni immobili e per le universalità di mobili; in 5
anni per la piccola proprietà rurale e in 3 anni per i mobili registrati. Anche per i beni mobili
è prevista un’usucapione abbreviata di 10 anni; tuttavia essa opera per il caso in cui
l’acquirente, pur se di buona fede, manchi di un titolo valido (art. 1161).

Capitolo 20: Introduzione


I diritti relativi attribuiscono una pretesa tutelata in via diretta solo nei confronti di
determinati soggetti. Rientrano in questa categoria i diritti di credito, che si caratterizzano
come specifica pretesa verso un soggetto determinato, cioè attribuiscono il potere di
pretendere un certo comportamento. Mentre i diritti reali si caratterizzano per l’attribuzione
di un potere sulle cose che consente una diretta soddisfazione dell’interesse. Nei diritti di
credito viene in risalto il profilo del rapporto giuridico, della relazione tra debitore e

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creditore. Inoltre si parla di obbligazioni quando la prestazione ha carattere patrimoniale; si


parla di obbligo quando manca tale carattere.

Capitolo 21: Il rapporto obbligatorio


Il rapporto obbligatorio consiste in un vincolo fra due soggetti in virtù del quale uno di
essi, detto debitore, è tenuto ad eseguire una specifica prestazione a favore dell’altro,
detto creditore. Si tratta di un rapporto giuridico che si caratterizza per la correlatività delle
situazioni soggettive nel senso che la situazione passiva è corrispondente alla situazione
attiva e le è funzionale, cioè diretta a soddisfare l’interesse soggettivo ad essa sottostante.
Art. 1173: “Fonti delle obbligazioni sono il contratto, il fatto illecito e ogni altro atto
idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico.” Essi sono i fatti giuridici
a cui la legge attribuisce idoneità a far sorgere un rapporto obbligatorio. Il contratto è un
accordo liberamente stipulato fra due o più persone (e ha natura di atto negoziale); fatto
illecito è ad esempio il ferimento di una persona “si tratta di un atto giuridico in senso
stretto). Mentre il contratto e il fatto illecito sono figure o schemi generalmente atipici
(derivando da essi obbligazioni in tutti i casi in cui vengano in considerazione interessi
meritevoli di tutela) gli altri atti e fatti menzionati all’art. 1173 costituiscono fattispecie
tipiche idonee a generare obbligazioni solo nei casi determinati dalla legge. L’obbligazione
appartiene al novero delle situazioni giuridiche passive e si caratterizza sia per la
vincolatività ( cioè l’obbligatorietà del comportamento) sia per la coercibilità: ove manchi
un adempimento spontaneo del debitore, il creditore potrà agire in giudizio per fare valere
la sua pretesa chiedendo l’esecuzione forzata: cioè un’esecuzione in forma specifica ,
che consente di ottenere coattivamente un risultato del tutto corrispondente a quello
dedotto in obbligazione e potrà essere chiesta ove essa sia possibile in relazione alla
prestazione inadempiuta (art. 2930, 2933); o un’esecuzione per equivalente , cioè si
potrà chiedere tramite la vendita forzata dei beni del debitore e il soddisfo sul ricavato di
essa, un risultato economico equivalente alla prestazione non eseguita (art. 2910). Qui
viene in considerazione quell’aspetto vincolante delle obbligazioni rappresentato dalla
responsabilità patrimoniale del debitore (art. 2740) cioè il patrimonio dell’obbligato
costituisce una garanzia per il creditore. Il debito e la responsabilità sono coessenziali
all’obbligazione; senza il debito si avrà una mera garanzia del debito altrui, mentre senza
responsabilità si avrà un’obbligazione naturale (art. 2034): cioè quell’obbligo che nasce
sul terreno dei doveri morali e sociali (ES. pagamento dei debiti di gioco).

Capitolo 22: Gli elementi del rapporto obbligatorio


L’oggetto
L’oggetto del rapporto obbligatorio è costituito dalla prestazione del debitore (art. 1174).
Per prestazione si intende il comportamento cui il debitore è tenuto: cioè l’attività che egli
è obbligato a svolgere e il risultato che è tenuto a conseguire per soddisfare l’interesse
creditorio. La prestazione può consistere in:
- Dare, cioè la consegna di un bene o trasferimento di un diritto. È importante la
distinzione tra obbligazioni generiche, dove il debitore deve consegnare una certa
quantità di cose appartenenti ad un genere e non ancora individuate e
obbligazioni specifiche, dove il debitore deve dare una cosa determinata. La
distinzione rileva in ordine al momento in cui si realizza il trasferimento della
proprietà;

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- Fare, cioè un’attività materiale o giuridica. Qui si distinguono le obbligazioni di


mezzi e le obbligazioni di risultato, che corrispondono alla distinzione tra
prestazioni di attività e di risultato: nelle prime opera una responsabilità per colpa
mentre nelle seconde una responsabilità oggettiva del debitore. Si ricomprende tra
le obbligazioni di fare anche l’obbligo di contrarre, e cioè di stipulare un
contratto);
- Non fare, cioè un comportamento omissivo.
Carattere distintivo della prestazione è la patrimonialità: dev’essere suscettibile di
valutazione economica (art. 1174). La prestazione deve corrispondere anche ad un
interesse non patrimoniale del creditore e deve avere un contenuto economico valutabile.
L’interesse è un elemento necessario del rapporto e risponde all’esigenza di garantire la
meritevolezza degli scopi perseguiti tramite i vincoli giuridici: se l’obbligazione non
risponde ad un interesse socialmente apprezzabile, l’obbligazione è nulla. Ciò che rileva è
l’interesse tipico sotteso al rapporto, come risulta dalla fonte (legale/negoziale)
dell’obbligazione e non coincide con l’utilità pratica in quanto essa può andare a beneficio
di un altro ed attiene alla sfera individuale e può costituire solo uno dei motivi
dell’obbligazione. La prestazione deve poi essere possibile: quando l’impiego della
diligenza richiesta (per legge o per contratto) consentirebbe astrattamente a un qualsiasi
debitore di adempiere; lecita, quando non urta contro norme imperative, ordine pubblico
o il buon costume; determinata, quando è fissata nei suoi estremi qualitativi e quantitativi
e determinabile, quando siano fissati, dalla legge o dalle parti, i criteri o parametri per la
sua determinazione. Con riguardo alle obbligazioni di fare distinguiamo prestazioni
fungibili, nelle quali è indifferente che ad adempiere sia il debitore o un terzo e
infungibili, nelle quali il debitore deve adempiere personalmente, poiché vengono in
considerazione le sue qualità personali. Le obbligazioni pecuniarie (art. 1224) sono
quelle che hanno ad oggetto una somma di denaro; le funzioni del denaro sono 3:
costituisce un generale mezzo di scambio; è unità di misura dei valori in quanto esprime il
valore relativo dei beni economici; costituisce riserva di liquidità assicurando una
disponibilità di mezzi finanziari per un futuro acquisto di beni. La sua attitudine a costituire
mezzo di pagamento, e cioè esatto adempimento dell’obbligazione è condizionata al suo
potere di acquisto cioè alla sua inalterata idoneità ad acquistare quella stessa quantità di
beni che con essa si poteva acquistare nel momento in cui è sorta l’obbligazione. È regola
generale il principio nominalistico, quale irrilevanza delle variazioni del potere di
acquisto della moneta tra il momento della nascita dell’obbligazione e quello della
scadenza. Denaro è un termine generico; moneta indica quel denaro che ha corso legale
nello Stato ed è rispetto alla valuta che si verificano i fenomeni di svalutazione e
rivalutazione ed è con moneta avente corso legale nello Stato che occorre adempiere le
obbligazioni pecuniarie. In ordine al principio nominalistico occorre distinguere un
nominalismo valutario (art. 1277), ove si dispone che i debiti pecuniari si estinguano con
moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento, e con tale moneta si
estinguono anche i debiti relativi a monete non aventi più corso legale al tempo del
pagamento. Il debitore è tenuto ad adempiere con moneta contante e non può adempiere
con titoli di credito. Oggi vi è una deroga, poiché i pagamenti superiori a 12500 euro non
possono essere effettuati né in contanti né tramite titoli al portatore. Mentre il
nominalismo del rapporto obbligatorio fa riferimento al potere di acquisto della moneta
e nell’art. 1277 si dispone la validità del pagamento effettuato con moneta legale e per il
suo valore nominale. Tale regola è derogabile dalle parti che possono pattuire apposite
clausole volte a rivalutare la somma dovuta ed agganciarla a determinati parametri. Si ha
debito di valuta quando l’obbligazione è determinata fin dall’origine con riferimento ad
una certa quantità di denaro; si ha debito di valore quando l’obbligazione è determinata

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con riferimento ad un valore economico diverso dal denaro. Gli interessi sono
un’obbligazione pecuniaria accessoria a una principale avente ad oggetto una somma di
denaro; essi consistono in una somma ulteriore, che si aggiunge al capitale, determinata
in misura percentuale e in relazione al tempo. Anche se accessoria è un’obbligazione
distinta dalla principale e può formare oggetto di separati atti di disposizione (art. 818). È
opportuno distinguere tre profili: funzione, fonte e saggio degli interessi. Quanto alla
funzione, gli interessi hanno natura composita svolgendo una funzione compensativa e
risarcitoria. La funzione compensativa indica il compenso dovuto per il godimento del
denaro; adempiono a tale funzione gli interessi corrispettivi, che rappresentano la
remunerazione del capitale; la funzione risarcitoria serve a risarcire il danno per il ritardo
dell’adempimento. Gli interessi moratori hanno funzione risarcitoria, ma assorbono gli
interessi corrispettivi, in quanto sono dovuti di norma in misura superiore ad essi. Quanto
alla fonte distinguiamo: interessi convenzionali, che traggono origine da un apposito
accordo fra le parti; e gli interessi legali, la cui norma fondamentale è l’art. 1282 secondo
cui i crediti pecuniari liquidi ed esigibili producono interessi di pieno diritto. Sono liquidi i
debiti determinati nel loro ammontare; sono esigibili i crediti non sottoposti a termine o
condizione. Quanto al saggio degli interessi, la misura è fissata al 2,5% in ragione
d’anno, sia per gli interessi legali che per quelli convenzionali. La pattuizione di un saggio
superiore richiede, a pena di nullità, la forma scritta mentre rimane vietata la pattuizione di
interessi usurari, cioè quelli che siano sproporzionati e che superino del 50% i tassi medi.
L’anatocismo consiste nella produzione di interessi da altri interessi, scaduti e non pagati.
Venuta a scadenza l’obbligazione con gli interessi nel frattempo maturati, questi si
sommano al capitale e sull’ammontare totale si calcoleranno gli interessi fino a nuova
scadenza o fino all’effettivo pagamento. Secondo l’art. 1283 gli interessi anatocistici sono
dovuti solo dal giorno della domanda giudiziale e occorre che si tratti di interessi dovuti
per almeno 6 mesi. Le obbligazioni alternative sono quelle in cui sono dedotte due o più
prestazioni ma il debitore si libera eseguendone una sola (art. 1285). Si tratta di
obbligazione unica a contenuto determinabile: la determinazione avviene con la scelta
che spetta al debitore e con essa si attua la concentrazione dell’obbligazione, che da
alternativa diventa semplice. Effetto analogo alla scelta ha l’impossibilità, originaria o
sopravvenuta, di una delle due prestazioni: l’obbligazione si considera semplice e il
debitore deve eseguire quella che è rimasta possibile. Quando, però, l’impossibilità sia
imputabile a una delle due parti, questa ne risponde o perdendo la facoltà di scelta o
restando obbligata al risarcimento del danno (art. 1289). Le obbligazioni facoltative sono
quelle in cui è dovuta una sola prestazione, ma il debitore ha la facoltà di liberarsene
eseguendone un’altra. Se tale obbligazione diviene impossibile, il debitore è liberato.

Capitolo 23: I soggetti


Soggetti del rapporto obbligatorio sono i titolari delle posizioni giuridiche di debito e di
credito, cioè il debitore e il creditore. Essi devono essere almeno due, in due distinte
situazioni, attiva e passiva, e devono essere determinati o almeno determinabili al
momento in cui sorge l’obbligazione. Figura tipica è quella delle obbligazioni
ambulatorie, destinate alla circolazione. Qui può darsi un’incertezza soggettiva sul titolare
del rapporto, ma questi è in ogni momento determinato: precisamente si tratta di un
soggetto individuato per il tramite della titolarità di un altro rapporto. Analogamente, nelle
obbligazioni reali l’obbligato si individua in funzione della titolarità di un diritto reale;
trasferita la titolarità della cosa, si trasferisce automaticamente anche l’obbligazione. È
possibile che si diano obbligazioni con pluralità di soggetti: sono le cd. obbligazioni
plurisoggettive, cioè quelle obbligazioni in cui più debitori sono obbligati, o più creditori
hanno diritto, alla medesima prestazione. Questo schema può dare luogo a diverse figure

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di obbligazioni, che hanno in comune il fatto che ciascuno dei debitori debba pagare (o
ciascuno dei creditori possa pretendere) l’intero debito o solo una parte di esso. Sono le:
- Obbligazioni solidali passive: sono quelle in cui ciascuno dei condebitori è
obbligato a pagare l’intero e l’adempimento di uno libera anche gli altri (art. 1292);
- Obbligazioni solidali attive: sono quelle in cui ciascuno dei concreditori può
pretendere il pagamento dell’intero e l’adempimento conseguito da essi libera il
debitore verso tutti i creditori (art. 1292). Requisiti affinché si abbia un’obbligazione
solidale sono (a parte la pluralità dei soggetti): l’unicità della prestazione e l’unicità
della causa dell’obbligazione. In presenza di tali estremi si avrà automaticamente il
vincolo solidale dal lato passivo: la cd. presunzione di solidarietà passiva (art.
1294), ma in mancanza di tali estremi la solidarietà non si presume e deve essere
prevista espressamente. La solidarietà attiva non si presume e necessita di
apposita previsione. Il vantaggio della prestazione va suddiviso fra condebitori e
concreditori; il debitore che ha pagato ha “azione di regresso” verso i condebitori,
secondo il criterio dell’interesse (art. 1299). Se l’interesse è comune “l’obbligazione
si divide” in proporzione alle rispettive quote; se invece l’obbligazione era stata
contratta nell’interesse esclusivo di uno dei soggetti, questi sarà tenuto a
rimborsare l’intera somma a colui che ha pagato. In caso di insolvenza di uno dei
condebitori “la perdita si ripartisce fra tutti gli altri”;
- Obbligazioni parziarie: sono quelle in cui ciascuno dei debitori deve, e ciascuno
dei creditori può pretendere, soltanto la propria parte di prestazione (art. 1314); ne
sono esempi i crediti e i debiti ereditari, che si ripartiscono tra gli eredi. È sancita la
regola della parziarietà attiva, secondo cui in mancanza di un apposito patto o
previsione legislativa, l’obbligazione plurisoggettiva è parziaria soltanto dal lato
attivo (mentre è solidale dal lato passivo). Anche se parziaria, è possibile che la
prestazione sia indivisibile (es. un animale vivo). Il codice (art. 1316) parla di
obbligazioni indivisibili e le definisce obbligazioni parziarie che hanno per oggetto
“una cosa o un fatto che non è suscettibile di divisione”.

Capitolo 24: Adempimento delle obbligazioni


L’adempimento è l’esatta realizzazione della prestazione dovuta; con esso
l’obbligazione si estingue e il debitore consegue la liberazione dal vincolo obbligatorio.
Esso ha natura di atto giuridico in senso stretto e affinché consegua l’effetto liberatorio,
l’adempimento dev’essere esatto (art. 1218), cioè conforme ai criteri legali, che sono quelli
della diligenza e della buona fede; occorre poi l’esattezza materiale e la regolarità giuridica
della prestazione, la puntualità di tempo e di luogo e l’idoneità di chi adempie e la
legittimazione di chi riceve il pagamento. Diligenza e buona fede sono i criteri
fondamentali che definiscono il comportamento dovuto dal debitore; l’obbligo di diligenza
(art. 1176) si riferisce a quel livello di competenza che gli operatori di ciascun settore sono
soliti impiegare nell’adempiere le loro obbligazioni. La prestazione diligente implica perizia
(competenza), prudenza e attenzione nell’esecuzione del compito. L’obbligo della buona
fede (art. 1175) impone ad entrambi i soggetti del rapporto di comportarsi secondo le
regole della correttezza; è la “buona fede oggettiva”, che consiste in un obbligo: essa
impone ad entrambi i soggetti un impegno di cooperazione che si può esprimere come
l’obbligo di salvaguardare l’altrui interesse nei limiti in cui sia compatibile col proprio.
Quando oggetto della prestazione sia un bene, costituiscono requisiti dell’esatto
adempimento la sua esattezza materiale e la regolarità giuridica. Quanto all’esattezza
materiale, si devono prestare cose di qualità non inferiore alla media (art. 1178) e “immuni

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da vizi” che ne diminuiscano il valore. Il creditore può rifiutare un adempimento parziale e


non è tenuto ad accettare una prestazione diversa, anche se di valore superiore; Perché il
debitore possa adempiere con una diversa prestazione, occorre il consenso del creditore
(questa figura prende il nome di “prestazione in luogo dell’adempimento o datio in
solutum”. È importante ricordare che l’accordo per sostituire la prestazione non incide sul
rapporto obbligatorio: è previsto che l’obbligazione originaria si estingue solo quando la
diversa prestazione è eseguita (art. 1197). Quanto alla regolarità giuridica, il debitore
deve adempiere con cose di cui abbia piena disponibilità (art. 1192). In ordine al tempo
dell’adempimento vigono le seguenti regole (art. 1183):
- Se non è determinato il tempo in cui la prestazione deve essere eseguita, il
creditore può esigerla immediatamente;
- Se un termine è necessario per la natura della prestazione, esso è stabilito dal
giudice ove manchi un accordo tra le parti;
- Spetta ugualmente al giudice, su istanza dell’interessato, la fissazione del termine
che sia rimesso alla discrezionalità delle parti;
- Quando il termine sia fissato, esso si presume a favore del debitore, per
consentirgli di prepararsi all’adempimento; il creditore non può pretendere un
pagamento anticipato, ma è nelle facoltà del debitore adempiere prima della
scadenza. In ogni caso, il debitore che abbia pagato in anticipo, non potrà
chiederne il rimborso ma soltanto la restituzione dell’arricchimento conseguito dal
creditore;
- Il debitore decade dal beneficio del termine ove sia divenuto insolvente, ovvero non
abbia mantenuto le garanzie promesse (art. 1186).
Il luogo dell’adempimento è determinato dal titolo, dagli usi o dalla natura della
prestazione e in mancanza di tali indicazioni, la consegna di una cosa determinata va
eseguita nel luogo in cui si trovava la cosa quando è sorta l’obbligazione, l’obbligazione
pecuniaria va pagata al domicilio del creditore mentre le altre vanno adempiute al domicilio
del debitore. Obbligato ad adempiere è il debitore, ma legittimato (autorizzato) ad
adempiere è anche qualsiasi terzo: il creditore non può rifiutare tale adempimento “a meno
che non abbia interesse a che sia il debitore ad eseguire personalmente la prestazione”
(art. 1180) e il debitore non potrà opporsi a tale intervento ma potrà solo evitarlo
adempiendo direttamente. Soltanto in caso di rifiuto di entrambi, al terzo sarà precluso
l’adempimento. Il pagamento del terzo va tenuto distinto dall’adempimento per mezzo
del terzo: il primo è caratterizzato dalla spontaneità dell’intervento, in quanto il terzo
agisce di propria iniziativa e paga a nome proprio; nel secondo caso è invece il debitore
che chiede al terzo di provvedere e questi adempirà in nome altrui. L’adempimento verrà
imputato direttamente al debitore. L’adempimento va assicurato al momento della nascita
dell’obbligazione ed è sufficiente che il debitore, al momento del pagamento, abbia la
naturale capacità di intendere e di volere, valutata in relazione all’atto da compiere.
Legittimato a ricevere l’adempimento è il creditore, il suo rappresentante, la persona
indicata dal creditore o autorizzata dalla legge o dal giudice (art. 1188). Il creditore è privo
di legittimazione a ricevere quando sia legalmente incapace (art. 1190) o quando perde la
disponibilità del credito, come in caso di fallimento. Il debitore è liberato se paga al
creditore apparente, cioè a chi appare legittimato a riceverlo in base a circostanze
univoche (art. 1189). Effetto dell’esatto adempimento è l’estinzione dell’obbligazione
e la liberazione del debitore. L’adempiente ha diritto di ottenere quietanza liberatoria,
cioè ricevuta, nonché di dichiarare, quando paga, quale debito intende soddisfare, ove
abbia più di un debito: è la cd. imputazione di pagamento (art. 1193). Ove manchi la

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dichiarazione del debitore, il pagamento va imputato al debito scaduto, poi a quello meno
garantito e quindi al più oneroso. Ulteriori effetti dell’adempimento sono l’estinzione delle
garanzie (reali e personali) che assistevano il credito e la liberazione di altri eventuali
obbligati. In alcuni casi il pagamento non estingue l’intera obbligazione: un esempio è la
surrogazione nel credito: essa consiste nel sub ingresso di un terzo, a seguito del
pagamento, nella posizione creditoria. Essa, pur determinando un trasferimento del
credito, è un effetto del pagamento e si realizza solo in dipendenza di esso. La
surrogazione può avvenire:
- Per volontà del creditore, che ricevendo il pagamento da un terzo, lo surroga nei
propri diritti verso il debitore. Requisito fondamentale è la dichiarazione espressa e
la contestualità col pagamento (art. 1201);
- Per volontà del debitore che, prendendo a mutuo una somma di denaro per pagare
il debito, surroga il mutuante nei diritti di creditore (art. 1202);
- Per volontà della legge; la surrogazione legale ha luogo: a vantaggio di chi,
creditore o debitore, paga un altro creditore che ha diritto di essergli preferito in
ragione di una causa di prelazione, a vantaggio di chi, essendo tenuto con altri al
pagamento del debito, aveva interesse a soddisfarlo; negli altri casi previsti dalla
legge.
L’adempimento, per poter essere effettuato, richiede di norma la cooperazione del
creditore che riceve la prestazione e faccia quanto gli compete per mettere il debitore in
grado di adempiere. Il creditore ha diritto e non obbligo di ricevere la prestazione; il
debitore se non può pretendere di adempiere nelle mani del creditore, ha però diritto a non
rimanere in definitivamente obbligato. Sono previsti allora gli istituti della mora del
creditore e della liberazione coattiva del debitore. La mora credendi si verifica quando il
creditore, senza motivo legittimo, rifiuti l’offerta formale, cioè quella fatta dal debitore
secondo le rigorose formalità previste (art. 1206 ss.). Ci sono di 2 tipi di offerta: offerta
solenne, effettuata tramite un pubblico ufficiale in modo reale (cioè portando con sé le
cose da consegnare) o per intimidazione (cioè invitando il creditore a ricevere la
prestazione) e offerta secondo gli usi, effettuata direttamente dal debitore che offre la
prestazione in modo conforme alla prassi o effettua il deposito/sequestro delle cose
dovute. Effettuata l’offerta formale, il creditore è costituito in mora, per cui si trasferisce
su di lui il rischio dell’impossibilità sopravvenuta dell’obbligazione ed è tenuto al
risarcimento del danno (art. 1207). Nel caso di offerta solenne se pure il debitore non può
essere considerato inadempiente, l’obbligazione non è stata comunque adempiuta, quindi
essa non è ancora estinta né il debitore è liberato e ciò può essergli di pregiudizio, A tale
scopo è prevista la liberazione coattiva del debitore: egli adempiendo nelle mani di un
terzo, estingue definitivamente l’obbligazione (art. 1210). Essa consegue solo al deposito
(per le cose mobili) o al sequestro (per gli immobili), che per produrre i loro effetti, devono
essere accettati dal creditore o convalidati con sentenza.

Capitolo 25: Inadempimento delle obbligazioni


L’inadempimento è l’inesatta esecuzione della prestazione dovuta (art. 1218).
L’inadempimento è assoluto quando la prestazione è mancata del tutto; relativo quando
una prestazione vi è stata ma risulta difforme da quella dovuta. L’inadempimento si dice
imputabile quando è dovuto a colpa del debitore ed egli debba risponderne. Il creditore
può chiedere l’esecuzione in forma specifica, sempre che la prestazione sia ancora
possibile ed egli ne abbia interesse. In ogni caso, conseguenza dell’inadempimento è la

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responsabilità del debitore che è tenuto a risarcire i danni cagionati con


l’inadempimento, a meno che non provi che l’inadempimento o il ritardo sia stato
determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (art.
1218). La prestazione è impossibile quando non può essere eseguita con l’impegno della
diligenza richiesta; si richiede un’impossibilità oggettiva, tale che nessun debitore sarebbe
in grado di superare e un’impossibilità relativa, dovendo essere valutata in relazione allo
sforzo debitorio richiesto. All’obbligo di diligenza, al fine di evitare la responsabilità per
inadempimento, si aggiunge l’onere di provare l’impossibilità della prestazione e che la
causa non sia ad esso imputabile: il debitore deve provare la causa specifica che ha
impedito la prestazione, e se non vi riesce risulterà responsabile. La causa inoltre non
deve essere a lui imputabile e deve essere imprevedibile e inevitabile (es. caso fortuito o
forza maggiore). Secondo l’art. 1219 il ritardo semplice non costituisce sempre e
necessariamente inadempimento presumendosi tollerato dal creditore. Costituisce
inadempimento solo quel ritardo che prende il nome di mora ed è caratterizzato da una
situazione in cui il ritardo appare intollerabile. La mora del debitore è un ritardo
imputabile e qualificato. Essa richiede: un ritardo imputabile al debitore e una circostanza
che valga a qualificare come intollerabile il ritardo. Questa circostanza può essere
costituita da un atto di costituzione in mora da parte del creditore, cioè un’intimazione o
richiesta di adempimento fatta per iscritto. In tal caso è il creditore che fa notare
l’intollerabilità del ritardo: cd. mora ex persona. In altri casi, invece la mora non richiede
una specifica iniziativa del creditore; ciò si verifica: quando il debito deriva da fatto
illecito; quando il debitore ha dichiarato per iscritto di non volere adempiere; quando è
scaduto il termine e si tratti di una prestazione da eseguire al domicilio del creditore;
quando si tratti di obbligazioni di non fare, poiché ogni fatto compiuto in violazione di esse
costituisce inadempimento (art. 1222). Gli effetti della mora costituiscono l’obbligo di
risarcire il danno e nell’aggravamento del rischio: durante la mora la sopravvenuta
impossibilità della prestazione è a carico del debitore pur se derivi da causa a lui non
imputabile. La legge muove dal presupposto che se la prestazione fosse stata eseguita a
tempo debito il creditore avrebbe evitato la perdita e soddisfatto così il suo interesse. Solo
se il debitore riesce a provare che l’oggetto della prestazione sarebbe egualmente perito, il
creditore è esonerato da responsabilità (art. 1221). La responsabilità per inadempimento
del debitore costituisce un profilo essenziale delle obbligazioni: è vietato “il patto che
esclude o limita preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o colpa grave” (art.
1229). Il debitore risponde anche dell’operato degli ausiliari di cui si avvale. Si tratta della
responsabilità contrattuale la quale si contrappone alla responsabilità
extracontrattuale (o per fatto illecito). Nella prima ipotesi sono ricomprese tutte le ipotesi
di inadempimento di una specifica obbligazione, qualunque ne sia la fonte.
L’inadempimento imputabile al debitore, non estingue l’obbligazione che rimane dovuta,
ma aggiunge anche l’obbligo di risarcire i danni, con il ristoro del pregiudizio subito dal
creditore: ha cioè la funzione di reintegrare il soggetto nella stessa situazione in cui si
sarebbe trovato se non vi fosse stato l’inadempimento, tramite una prestazione diversa,
che di norma consiste nel pagamento di una somma di denaro di ammontare equivalente
al valore della prestazione mancata (si parla infatti di risarcimento per equivalente).
Secondo l’art. 1223 il risarcimento “deve comprende la perdita subita dal creditore e il
mancato guadagno”. Il danno risarcibile si determina in funzione della:
- Perdita subita e il mancato guadagno: designati come danno emergente e lucro
cessante. Il primo consiste nel valore del bene dovuto e non consegnato; il lucro
cessante invece è il guadagno che il creditore avrebbe potuto realizzare utilizzando
la prestazione. Per l’inadempimento di obbligazioni pecuniarie il risarcimento si
effettua tramite la corresponsione di interessi moratori;

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- Nesso di causalità tra inadempimento e danno: occorre che sussista un rapporto


di derivazione tra essi, cioè che l’uno sia conseguenza immediata e diretta
dell’altro;
- La prevedibilità del danno al tempo in cui è sorta l’obbligazione (art. 1225): si
vuole evitare di esporre il debitore per conseguenze che egli non poteva
ragionevolmente prevedere e che vanno oltre il limite dell’impegno normalmente
assunto;
- Il concorso del fatto colposo del creditore (art. 1227). Si possono distinguere
due ipotesi: la prima è che il creditore abbia contribuito a cagionare il danno; in
questo caso il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa; la seconda
prevede un caso di mancata cooperazione del creditore che non si adopera per
evitare o limitare il danno; in tal caso il risarcimento non è dovuto.

Capitolo 26: Modi di estinzione diversi dall’adempimento


È possibile che l’obbligazione si estingua per altre vie o modi, che il codice designa come
“diversi dall’adempimento” (art. 1230 ss.) e che la dottrina distingue in modi satisfattivi
e non satisfattivi, a seconda che comportino il soddisfacimento o no dell’interesse
dedotto in obbligazione. La compensazione è l’estinzione dei reciproci rapporti obbligatori
correnti fra gli stessi soggetti (art. 1241). Può accadere che, nei confronti della stessa
persona, un soggetto sia allo stesso tempo debitore e creditore; la compensazione elimina
la necessità di effettuare due distinti pagamenti, operando l’estinzione dei due debiti fino a
concorrenza del relativo ammontare. Presupposto generale della compensazione è
l’autonomia dei debiti, nel senso che essi devono derivare da fonti distinte. La
compensazione legale è disposta dalla legge e opera di diritto (cioè automaticamente)
l’estinzione dei debiti reciproci che siano omogenei, liquidi ed esigibili: sono omogenei
quando hanno ad oggetto beni fungibili dello stesso genere (es. denaro); liquidi quando
sono determinati nel loro ammontare; esigibili quando non sono sottoposti né a termine né
a condizione. La compensazione giudiziale è pronunciata dal giudice, quando in giudizio
sia opposto in compensazione un credito omogeneo ed esigibile ma non ancora liquido
(art. 1243). La compensazione volontaria è operata dalle parti, con apposito accordo,
quando non ricorrono le condizioni per la compensazione legale o giudiziale (art. 1252).
L’accordo può anche essere preventivo, cioè riguardare debiti non ancora scaduti. Ne
costituisce una fattispecie la compensazione facoltativa, che attribuisce a una delle parti il
diritto potestativo di determinare, con proprio atto unilaterale, la compensazione dei debiti.
La compensazione legale e volontaria operano a far data dalla coesistenza dei debiti, i
quali si estinguono per il fatto di tale coesistenza anche se non possono essere rilevati di
ufficio dal giudice e occorre l’eccezione di parte, cioè che la parte interessata la invochi. La
compensazione giudiziale e quella facoltativa richiedono l’emanazione della sentenza e
dell’atto unilaterale con cui il soggetto dichiara di avvalersi della facoltà di cui si è detto. La
confusione si realizza quando le qualità di creditore e di debitore si riuniscono nella
stessa persona (art. 1253). Ciò si verifica in seguito a successione del debitore nella
posizione del creditore (o viceversa). Tutto ciò determina l’estinzione dell’obbligazione in
quanto viene meno la pluralità dei soggetti. NB. La confusione non ha luogo nel caso di
accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario. Mentre in altre ipotesi, l’estinzione
dell’obbligazione non è opponibile ai terzi che hanno acquistato diritti di usufrutto o di

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pegno sul credito; mentre è solo provvisoria per il caso di titolo cambiario girato allo
stesso emittente. La novazione è il contratto con cui le parti sostituiscono all’obbligazione
originaria una nuova obbligazione. Per effetto di essa, la vecchia obbligazione si estingue
e il debitore sarà tenuto esclusivamente ad adempiere la nuova. La novazione si dice
soggettiva quando la modifica riguarda la persona del debitore (art. 1325), mentre si dice
oggettiva quando la modifica concerne l’oggetto o il titolo dell’obbligazione. Gli elementi
che caratterizzano la novazione sono:
- L’animus novandi, che consiste nella volontà di estinguere l’obbligazione, che
peraltro deve risultare in modo non equivoco;
- L’aliquid novi, cioè l’elemento oggettivo che consiste nell’oggetto o titolo diverso
che caratterizza la nuova obbligazione.
Con la novazione la vecchia obbligazione si estingue e se ne crea una nuova, con titolo o
oggetto diverso; essa dipende funzionalmente da quella originaria: pertanto, se questa era
nulla, la novazione è senza effetto; se questa era annullabile, la novazione è valida ove
possa configurarsi come una convalida (art. 1234). Tale caratteristica consente di
distinguere la novazione dalla dazione di cosa diversa, la quale comporta una semplice
sostituzione della prestazione dovuta con un’altra, ma mantiene inalterata l’obbligazione
originaria che si estingue solo e quando la nuova prestazione è adempiuta. La novazione
invece estingue immediatamente la nuova obbligazione con tutti i suoi accessori: se la
nuova obbligazione non viene adempiuta, il creditore non potrà chiedere l’adempimento di
quella originaria. La remissione è la rinuncia del creditore al proprio diritto; essa ha
l’effetto di estinguere il debito non appena è comunicata al debitore (art. 1236). È un
negozio unilaterale perché consiste in una dichiarazione proveniente dal solo creditore e
non serve l’accettazione del debitore; recettizio perché produce l’effetto estintivo al
momento in cui giunge a conoscenza del destinatario. Il debitore, tuttavia può rifiutare la
liberazione comunicando il suo rifiuto entro un termine congruo. È infine un atto gratuito,
perché senza vantaggio o corrispettivo. Non è richiesta alcuna forma per la validità
dell’atto: l’art. 1237 prevede la figura di remissione tacita, che consiste nella restituzione
volontaria del titolo originale del credito (es. la cambiale). Oggetto di remissione possono
essere tutti i crediti, salvo quelli indisponibili come gli alimenti e le retribuzioni di lavoro.
Effetto della remissione è la liberazione del debitore e di norma, tutti i condebitori (art.
1301). Altra causa di estinzione dell’obbligazione è l’impossibilità sopravvenuta per
causa non imputabile al debitore (art. 1256); tipiche ipotesi di impossibilità sono il caso
fortuito e la forza maggiore. L’impossibilità non deve dipendere da un fatto imputabile al
debitore, cioè da un fatto che rientra nella sua sfera di controllo. Se l’impossibilità è solo
temporanea il debitore è esonerato da responsabilità fin quando dura l’impedimento ma se
questo perdura fin quando il creditore non ha più interesse a conseguire la prestazione,
l’obbligazione si estingue (art. 1256). Se si tratta di impossibilità parziale, il debitore si
libera eseguendo la parte di prestazione che è rimasta possibile. L’impossibilità quindi
estingue l’obbligazione, libera il debitore e lo esonera da responsabilità facendo ricadere
sul creditore la perdita economica, il quale tuttavia ha la possibilità di sostituirsi nei diritti
che il debitore vanta nei confronti di terzi in dipendenza del fatto che ha causato
l’impossibilità (art. 1259).

Capitolo 27: Circolazione delle obbligazioni


Oltre ai beni, sono suscettibili di circolazione giuridica anche i diritti di credito,
trasmettendosi le posizioni giuridiche di debito e di credito. Anche qui sono possibili
acquisti a titolo originario e a titolo derivativo; nelle obbligazioni il primo modo d’acquisto

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trova spazio esclusivamente nei titoli di credito, in cui la prestazione è incorporata in un


bene mobile, il documento, e circola secondo le regole proprie di tali beni (art. 1992 ss.).
Tale tipo di circolazione consente di rendere indipendente la prestazione indicata sul
documento, dai rapporti sottostanti, rendendo sicura e rapida la circolazione dei crediti. Al
di fuori di tale ipotesi, la circolazione delle obbligazioni si realizza a titolo derivativo tramite
una successione derivativo-traslativa da un soggetto ad un altro: cioè il diritto si trasferisce
con gli stessi limiti e le stesse caratteristiche che aveva in capo al precedente titolare. Le
modificazioni nel lato attivo del rapporto obbligatorio danno luogo ad una successione
nel credito, cioè a fattispecie in cui al creditore originario subentra un nuovo creditore. Si
tratta di una vera e propria successione, cioè di un subingresso di un soggetto in una
situazione giuridica il cui contenuto, per il resto, rimane invariato: il nuovo creditore, perciò
potrà esercitare il diritto con gli stessi poteri e gli stessi limiti che competevano al vecchio
titolare. Tale effetto si realizza soprattutto nella cessione del credito, ma anche nella
delegazione attiva: si tratta di ipotesi in cui il trasferimento del credito costituisce l’oggetto
proprio o esclusivo delle singole fattispecie traslative. Ma l’effetto si realizza anche nelle
successioni per causa di morte e nelle fusioni tra società, sia nella cessione del contratto
che nella cessione dell’azienda. Principio generale della cessione nel lato attivo è quello
per cui il trasferimento del credito non richiede il consenso del debitore, essendo per lui
indifferente adempiere a uno piuttosto che ad un altro creditore. N.B. Mentre le
modificazioni nel lato attivo del rapporto obbligatorio danno luogo a ipotesi di vera e
propria successione nello stesso rapporto, che a parte la modifica soggettiva, rimane
identico in tutti i suoi elementi, le modificazioni dal lato passivo possono dar luogo a
fenomeni diversi come una vera e propria successione, una novazione che estingue il
vecchio debito o l’aggiunta di un nuovo debitore o di una nuova obbligazione con fonte
diversa da quella originaria. Tuttavia il ruolo svolto da entrambe è lo steso: far circolare
quella ricchezza futura in cui consistono i crediti, e perciò trasferire tale risorsa da un
soggetto a un altro. La cessione del credito consiste nel trasferimento di un credito dal
creditore originario (detto cedente) ad un nuovo creditore (detto cessionario). La cessione
non è un contratto, ma solo il possibile oggetto di un contratto, in relazione alla causa per
cui avviene l’attribuzione (può darsi che la cessione avvenga dietro corrispettivo e allora si
avrà una vendita – art. 1740 -). Se io cedo un credito per estinguere un mio debito verso il
cessionario si avrà un contratto solutorio, così chiamato perché si intende
solvere/pagare un debito (ad es. è frequente la cessione del 5° dello stipendio). Non tutti i
crediti sono cedibili in quanto vi è un’incedibilità oggettiva, dipendente dal tipo di credito
che abbia carattere strettamente personale (art. 1260) e una soggettiva, dipendente o
dalla qualità dei possibili cessionari o dalla volontà delle parti che abbiano escluso questa
cedibilità. Concluso l’accordo di cessione, il credito si trasferisce al cessionario con effetto
immediato (art. 1376), unitamente agli accessori del credito, quali le garanzie reali e
personali. Anche se la cessione non richiede il consenso del debitore ceduto (art. 1260),
egli ne deve essere informato per evitare che, ignorandola, paghi al vecchio creditore.
L’art. 1264 dispone che la cessione ha effetti nei riguardi del ceduto quando gli è stata
notificata o egli l’abbia comunque accettata: in tale ipotesi, il debitore che paghi al cedente
non è liberato. Inoltre non è liberato ove si provi che egli, pur in mancanza di
notificazione, ne aveva comunque prova certa. Ove manchi tale conoscenza, il debitore è
liberato pur se abbia adempiuto a chi non è più titolare del credito. Bisogna sottolineare
che l’accettazione del debitore non ha valore di consenso negoziale al trasferimento
(essendo la cessione un negozio bilaterale), bensì di implicito riconoscimento del debito.
La notificazione serve inoltre a risolvere il conflitto fra più cessionari di un medesimo
credito; in tal caso prevale la cessione notificata o accettata per prima dal debitore con
atto di data certa, anche se essa sia di data posteriore. Se la cessione è a titolo oneroso, il
cedente deve garantire soltanto l’esistenza del credito. È possibile anche escludere tale

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garanzia, ma il cedente rimane obbligato per il fatto proprio; inoltre è possibile che le parti
pattuiscano un’estensione della garanzia alla solvenza del debitore ceduto e tale
significato hanno le clausole “salvo buon fine” e “salvo incasso”, ma in tal caso la
responsabilità del cedente è limitata dall’art. 1267 al danno emergente, dovendo egli
rispondere nei limiti di quanto abbia ricevuto come corrispettivo. La regola per cui, salvo
patto contrario, la cessione s’intende fatta pro solvendo riguarda l’ipotesi della cessione
solutoria (art. 1198): si tratta di una figura di prestazione in luogo dell’adempimento e
segue le relative regole: in caso di cessione di un credito in luogo dell’adempimento, la
cessione si intende fatta per pagare (pro solvendo) e perciò la vecchia obbligazione si
estingue solo con l’effettiva riscossione del credito ceduto. Se le parti hanno convenuto
che la cessione sia fatta in pagamento (pro soluto) l’obbligazione si estingue
immediatamente per effetto dell’accordo di cessione, rimanendo indifferente che il credito
ceduto sia poi pagato o no. Le modificazioni dell’obbligazione dal lato passivo
possono aversi o per successione o in relazione a tipiche figure negoziali, il cui contenuto
consiste nel realizzare una modificazione nel lato passivo dell’obbligazione. Principio
generale è quello per cui, senza il consenso del creditore, è possibile solo associare un
nuovo soggetto nel vincolo obbligatorio, cioè aggiungere un nuovo debitore accanto al
debitore originario, che non rimane liberato senza il consenso del creditore. La
delegazione di pagamento è l’incarico che un soggetto (delegante) dà ad un altro
soggetto (delegato) di pagare, o promettere un pagamento, a un terzo soggetto
(delegatario). L’ipotesi più frequente è quella del soggetto A, che è contemporaneamente
creditore di B e debitore verso C. Il soggetto A potrà utilizzare il credito che vanta nei
confronti di B per adempiere il debito verso C tramite l’istituto della delegazione. Esistono
due figure: delegazione di pagamento e delegazione di debito. Con la delegazione di
pagamento il delegante incarica il delegato di effettuare un pagamento al delegatario; il
delegato non è tenuto ad accettare l’incarico, anche se sia debitore del delegante, ma se
accetta e lo esegue il suo adempimento avrà l’effetto di estinguere contemporaneamente
sia il suo debito verso il delegante sia il debito di questi verso il delegatario. Questo
schema si ritrova spesso nell’assegno bancario. Nella delegazione di debito il delegante
incarica il delegato di promettere un pagamento, cioè di assumere un’obbligazione verso il
delegatario (art. 1268). Tale schema si trova nella cambiale tratta, che consiste in un
invito che il delegante fa ad un terzo, di obbligarsi verso un altro. Effetto della delegazione
di debito è quello di creare una nuova obbligazione, a carico del delegato, per effetto della
sua promessa. Poiché la delegazione è cumulativa, la nuova obbligazione non estingue
quella del delegante: essa rimane in vita, pur diventando sussidiaria, in quanto il
delegatario accettante non può rivolgersi al delegante se prima non ha richiesto al
delegato l’adempimento. Se invece, con il consenso del delegatario, la delegazione fosse
liberatoria, essa avrebbe l’effetto di creare una nuova obbligazione che si sostituisce a
quella vecchia. La delegazione passiva è la sola disciplinata dal codice, il quale definisce
tale ipotesi come quella in cui il debitore (delegante) assegna al creditore un nuovo
debitore (art. 1268). È ammissibile anche la delegazione attiva, che si ha quando
delegante è il creditore: il creditore A incarica B di obbligarsi verso un terzo C.
L’espromissione è un contratto fra il creditore e un terzo, il quale senza delegazione del
debitore, ne assume il debito verso il creditore (art. 1272). Caratterizzante della figura è
l’iniziativa del terzo espromittente, che interviene senza un previo incarico del debitore
(l’espromesso), e senza manifestare al creditore espromissario l’eventuale intesa col
debitore: in questo sta la differenza con la delegazione. Essa si differenzia anche
dall’intervento del terzo poiché l’espromittente non paga immediatamente ma si limita a
promettere in proprio il pagamento del debito altrui. Il debitore estromesso rimane quindi
estraneo al contratto, che intercorre tra terzo e creditore e non abbisogna del suo
consenso. L’espromissione non libera automaticamente il debitore originario, ed è perciò

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di norma cumulativa, salvo che il creditore dichiari espressamente di liberarlo (art.1272).


Per effetto dell’espromissione il terzo subentra nella stessa posizione del debitore e
rimane coobbligato per lo stesso debito. L’accollo è il contratto fra un terzo (accollante) e
un debitore (accollato) in virtù del quale il primo ne assume il debito verso il creditore
(accollatario): art. 1237. Si parla di accollo interno quando il terzo si obbliga solo verso il
debitore accollato e il creditore nulla potrà pretendere da lui in caso di inadempimento. Di
norma l’accollo si struttura come accollo esterno che, attribuendo un diritto al creditore,
ha i caratteri del contratto a favore di terzi (vedi cap. 37); in tal caso il creditore può aderire
alla convenzione rendendo irrevocabile la stipulazione a suo favore e potrà pretendere il
pagamento anche dal terzo accollante, ormai condebitore solidale. Il debitore originario
non è automaticamente liberato, a tal fine occorre che vi sia un’espressa dichiarazione del
creditore o che la liberazione costituisca condizione espressa della stipulazione. Per
effetto dell’accollo il terzo subentra nella stessa posizione del debitore: potrà quindi
opporre tutte le eccezioni che avrebbe potuto opporre il debitore originario, ad esclusione
di quelle contemplate nell’art. 1272.

La responsabilità patrimoniale
Capitolo 28: La garanzia patrimoniale generica
Il debitore risponde all’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti
e futuri: questo è il principio di responsabilità patrimoniale sancito all’art. 2740 (libro 6°
Titolo 3° - Capo 1° c.c.) Ciò comporta che il debitore risponde delle sue obbligazioni con
tutto il suo patrimonio. Non sono ammesse limitazioni della responsabilità al di fuori dei
casi espressamente previsti dalla legge; le limitazioni previste riguardano beni e diritti
strettamente connessi alla persona e alle sue esigenze di lavoro o sostentamento (ad es.
sono inespropriabili alcuni arredi della casa e gli strumenti da lavoro). In passato non era
consentito creare patrimoni separati, cioè distaccare alcuni beni sottraendoli alla
responsabilità patrimoniale e alla garanzia dei creditori; era la legge che ammetteva la
facoltà di destinare alcuni beni a fini specifici, riservandoli poi alla soddisfazione dei
creditori. Oggi la legge consente la possibilità di istituire patrimoni di destinazione,
riconoscendo ai privati anche la facoltà di determinare gli scopi e gli interessi cui destinare
detti patrimoni, pur se impone alcune cautele e precisi requisiti di pubblicità previsti dagli
artt. 2447 bis ss. che prevedono che le società per azioni possano destinare uno o più
patrimoni alla realizzazione di uno specifico affare; l’art. 2645 ter prevede la possibilità di
destinare beni immobili e mobili registrati alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela,
a beneficio di persone fisiche o enti giuridici determinati nell’atto di destinazione. In queste
ipotesi i beni conferiti e i loro frutti hanno un vincolo di destinazione e sono soggetti a
esecuzione forzata solo per i debiti contratti per tale scopo (art. 2645 ter). Il patrimonio di
ciascun soggetto costituisce la garanzia patrimoniale dei creditori. Si parla di garanzia
patrimoniale generica sia perché riguarda tutti i beni in generale, sia perché sussiste solo
se detti beni vi siano. A tale garanzia si contrappongono le garanzie specifiche, quali
strumenti che garantiscono un creditore rispetto ad altri creditori oppure un credito rispetto
a tutti gli altri crediti. Le garanzie specifiche possono essere personali, le quali consistono
nel vincolo personale di un soggetto e sono costituite dall’obbligo di una persona, diversa
dal debitore, di rispondere dei debiti di quest’ultimo e patrimoniali specifiche, che
consistono in un vincolo che riguarda alcuni beni particolari del debitore o di terzi. Si
dicono specifiche perché sia riguardano alcuni beni determinati, sia perché nascono in
virtù di un titolo specifico. Sono garanzie patrimoniale specifiche i privilegi, il pegno e
l’ipoteca. Un altro principio che caratterizza la responsabilità patrimoniale è quello della
parità di trattamento dei creditori (o par condicio creditorum), secondo cui tutti i

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creditori hanno eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore: art. 2741 (Libro 5°).
Tuttavia si tratta di una regola non assoluta, in quanto lo stesso articolo fa salve le “cause
legittime di prelazione”, cioè i casi in cui è attribuita a un creditore una preferenza: questi
avrà diritto di soddisfarsi con precedenza sul ricavato della vendita dei beni; gli altri
creditori non privilegiati potranno soddisfarsi solo sull’eventuale residuo. Sono cause
legittime di prelazione (nonché garanzie specifiche) i privilegi, il pegno e l’ipoteca. I
creditori hanno interesse a conservare la garanzia patrimoniale del debitore, evitando che
questi diminuisca il proprio patrimonio. La legge appresta alcuni mezzi di conservazione
della garanzia patrimoniale:
1. Azione surrogatoria: è il potere di surrogarsi, cioè di sostituirsi al debitore
nell’esercizio dei diritti che gli spettano verso i terzi (art. 2900 – Libro 6°). Quando il
soggetto trascura di esercitare i propri diritti, mettendo così in pericolo il
soddisfacimento dei creditori, la legge autorizza questi ultimi ad esercitare, in
sostituzione del debitore, i diritti di questo verso terzi.
Presupposti per l’esercizio del potere surrogatorio sono:
- L’inerzia (oggettiva) del debitore, che trascura di esercitare i propri diritti;
- Il pregiudizio del creditore, derivante dal fatto che il rimanente patrimonio non
rappresenta una sufficiente garanzia di adempimento;
- I diritti che il debitore trascura devono essere diritti di credito o diritti potestativi (cioè
esercitabili verso una persona determinata), che abbiano contenuto patrimoniale e
non siano strettamente personali.
1. Azione revocatoria: è diretta a reagire contro un comportamento commissivo,
contro gli atti con cui il debitore deteriora la propria situazione patrimoniale (art.
2901).
Presupposti per questa azione sono:
- L’atto di disposizione, cioè l’atto con cui il debitore modifichi in senso peggiorativo la
sua condizione patrimoniale. Vi rientrano gli atti di alienazione, la remissione di un
debito, la concessione di un’ipoteca. Viceversa non sono revocabili i pagamenti dei
debiti scaduti, in quanto si tratta di atti giuridicamente dovuti;
- Il pregiudizio per il creditore, consistente nel fatto che il patrimonio rimanente è
insufficiente a garantire il pagamento dei debiti;
- La conoscenza del pregiudizio arrecato alle ragioni del creditore da parte del
debitore.
Non si richiede l’intenzione di nuocere al creditore, ma è sufficiente che il debitore sappia
che, con quell’atto di disposizione, il rimanente patrimonio non è una sufficiente garanzia
per i creditori. Occorre inoltre tutelare il terzo che ha contratto col debitore (ad es.
l’acquirente del bene): se l’atto è a titolo oneroso occorre che anche il terzo sia a
conoscenza del pregiudizio altrui; se si tratta di atto a titolo gratuito si prescinde da tale
requisito. Effetto dell’azione revocatoria (sempre se sia accolta dal giudice) è l’inefficacia
relativa dell’atto revocato (art. 2902): cioè l’atto diviene inopponibile al creditore revocante,
ma per il resto conserva la sua efficacia, sia tra le parti (il terzo acquirente rimane
proprietario del bene), sia rispetto ai creditori che non hanno partecipato al giudizio di
revocazione. L’atto non è quindi nullo né invalido, e dunque l’azione non ha effetto
restitutorio e il bene non torna nel patrimonio del debitore. Per i subacquirenti del bene
(cioè coloro che hanno causa dal terzo il cui atto d’acquisto del debitore è stato revocato),

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essi non vengono pregiudicati dalla revoca se sono in buona fede e il loro acquisto è a
titolo oneroso. I terzi che a seguito della revoca abbiano subito evizione, ovvero si siano
visti espropriare il bene, hanno azione di risarcimento verso il debitore e potranno fare
valere le proprie ragioni anche sul ricavato dell’espropriazione. L’azione revocatoria si
prescrive in 5 anni e richiede la partecipazione al giudizio di tutti gli interessati: creditore,
debitore, terzo acquirente ed eventuali subacquirenti. Il codice prevede anche la possibilità
di revocare atti di disposizione anteriori al sorgere del credito; in tal caso si richiede la
dolosa preordinazione, come specifica intenzione del debitore di sottrarre i beni
all’esecuzione dei creditori, e la partecipatio fraudis del terzo, cioè si richiede che il
debitore abbia dolosamente ordito una frode in danno dei creditori.
1. Il sequestro conservativo: è un provvedimento preventivo (anteriore al
compimento di atti pregiudizievoli) e cautelare emesso dal giudice su istanza del
creditore che ha fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito (art.
2905). Per effetto del sequestro sorge un vincolo di indisponibilità che,
analogamente al pignoramento, rende automaticamente inefficaci verso il creditore
sequestrante, le alienazioni e gli altri atti di disposizione dei beni sequestrati (art.
2906).

Capitolo 29: Le garanzie patrimoniali specifiche


Forme di garanzia specifica sono i privilegi, il pegno e l’ipoteca. I caratteri di tali garanzie,
che danno luogo alla specificità sono i seguenti:
- Esse cadono su beni determinati, del debitore o di un terzo;
- Non sono automaticamente ricollegate dalla legge all’esistenza di una obbligazione
(come accade per la garanzia patrimoniale generica) ma occorre un titolo apposito
per la loro costituzione (ad es. un contratto);
- Attribuiscono un diritto ulteriore e specifico come il diritto di prelazione, cioè il diritto
di soddisfarsi con precedenza sul ricavato della vendita di alcuni beni; le cause
legittime di prelazione costituiscono deroga al principio della par condicio
creditorum;
- Attribuiscono il diritto di seguito o sequela sul bene, cioè il diritto segue il bene nei
suoi successivi trasferimenti.
Sono cause legittime di prelazione il privilegio, il pegno e l’ipoteca. Il privilegio è la
prelazione che la legge accorda in considerazione della causa del credito (art. 2745). Solo
la legge ha l’autorità di conferire a un credito un privilegio, e a differenza di quanto accade
per pegno e ipoteca, questo tipo di garanzia può cadere solo sui beni del debitore, non
anche di un terzo. Sono previsti due tipi di privilegi: il privilegio generale cade su tutti i
beni mobili del debitore (art. 2746); esso dà prelazione, ma non attribuisce diritto di seguito
e perciò non può esercitarsi in pregiudizio dei diritti spettanti ai terzi (art. 2747); il
privilegio speciale cade su determinati beni mobili o immobili. Esso attribuisce, oltre alla
prelazione, il diritto di seguito. L’art. 2748 fissa il principio che il pegno prevale sul
privilegio speciale sui mobili, mentre il privilegio speciale sugli immobili prevale
sull’ipoteca. Il pegno e l’ipoteca attribuiscono al creditore un vero e proprio diritto reale

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sul bene che ne costituisce oggetto. Sono diritti di garanzia, che attribuiscono al creditore
alcuni poteri specifici a tutela del suo credito, e sono:
- Il diritto di prelazione nella distribuzione del denaro ricavato dalla vendita dei beni
vincolati;
- Il diritto di seguito, o sequela: cioè il diritto di fare espropriare il bene anche se nel
frattempo esso sia passato in proprietà di altri. Il diritto segue il bene nei suoi
passaggi di proprietà; si tratta di un tratto comune al privilegio speciale, anch’esso
caratterizzato dal diritto di seguito. Una differenza rispetto ai privilegi è che questi
sono accordati esclusivamente dalla legge (art. 2745), mentre pegno e ipoteca
sono costituiti dalla volontà dei privati, per cui possono essere costituiti anche
successivamente al sorgere del credito, necessitano di un titolo costitutivo proprio
(es. il contratto di pegno o ipoteca). Infine, i privilegi cadono solo su beni del
debitore, mentre pegno e ipoteca possono essere costituiti anche sui beni di un
terzo (con il suo consenso): il cd. Terzo datore di pegno o ipoteca.
Carattere comune al pegno e all’ ipoteca è l’accessorietà: cioè sono diritti accessori a un
credito (che può essere anche futuro o condizionato –art.2852-) e si estinguono in caso di
estinzione del credito garantito. Se la cosa soggetta a pegno o ipoteca perisce o si
deteriora, il creditore può chiedere che gli sia prestata altra idonea garanzia e, in
mancanza può chiedere l’immediato pagamento del credito (art. 2743). È vietato il patto
commissorio, cioè il patto con il quale si conviene che, in mancanza di pagamento, la
proprietà della cosa passi al creditore (art. 2744): in particolare, si vogliono evitare
approfittamenti da parte del creditore. È valido comunque il patto con il quale si stabilisce
che la cosa passi immediatamente in proprietà del creditore e che, in caso di esatto
adempimento, essa torni al debitore (cd. alienazione in garanzia) ed anche il patto con cui
il debitore assegna in pagamento al creditore un suo bene (cd. datio in solutum –
cap.24-). Il pegno è un diritto reale che vincola un bene mobile a garanzia di un credito; il
diritto attribuisce al creditore pignoratizio la facoltà di espropriare la cosa anche se essa
sia stata alienata a terzi, e di soddisfarsi con prelazione su di essa. Oggetto di pegno
possono essere i beni mobili, le universalità di mobili e i crediti. Il pegno si costituisce con
apposito contratto, che ha natura di contratto reale in quanto per la sua conclusione, oltre
ai requisiti ordinari, si richiede anche la consegna della cosa al creditore o ad un terzo
designato dalle parti. Inoltre occorre che la cosa rimanga in possesso del creditore o del
terzo, altrimenti viene meno la garanzia (art. 2787). Lo spossessamento è requisito
essenziale per la nascita e il mantenimento del diritto di pegno e svolge una funzione di
pubblicità. Il contratto di pegno è un contratto formale, in quanto richiede la forma scritta e
la data certa quando il credito garantito eccede le 5000 lire o l’oggetto del pegno è
costituito da un credito. Se il credito garantito non viene pagato, il creditore può far
vendere la cosa, ovvero farsi assegnare in pagamento dal giudice la cosa o il credito
ricevuti in pegno. L’ipoteca è un diritto reale che vincola un bene immobile a garanzia di
un credito; essa attribuisce al creditore ipotecario il diritto di espropriare il bene anche in
confronto del terzo acquirente (diritto di seguito) e di soddisfarsi con prelazione sul
ricavato della vendita forzata. Oggetto di ipoteca possono essere i beni immobili e i diritti
reali di godimento sugli stessi, i mobili registrati e le rendite dello Stato. Si tratta di un
diritto reale su beni altrui e si estende ai miglioramenti e alle accessioni; se è costituito
dall’usufrutto, si estingue col cessare di questo, mentre se grava sulla nuda proprietà si
estende alla proprietà piena quando l’usufrutto viene a cessare. Caratteri dell’ipoteca sono
la specialità e l’indivisibilità. Essa può costituirsi solo su beni specialmente indicati e per
una somma determinata (art. 2809). L’ipoteca è inoltre indivisibile in quanto sussiste per
intero sopra tutti i beni vincolati e sopra ogni loro parte. Pertanto, anche se il debito sia
stato pagato in parte, il debito continua a gravare su tutti i beni ipotecati; in alcuni casi è

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prevista la riduzione dell’ipoteca, che si opera riducendo la somma per cui l’ipoteca è
iscritta, o riducendo i beni originariamente vincolati. A costituire l’ipoteca concorrono due
elementi:
- L’iscrizione, che è una forma di pubblicità costitutiva: in mancanza di essa l’ipoteca
non sorge;
- Il titolo, che autorizzi l’iscrizione, poiché trattandosi di una garanzia specifica, non
basta la semplice esistenza di un credito.
Fonti del diritto di iscrivere ipoteca sono: la legge, la sentenza del giudice e la volontà
privata; si distinguono perciò:
- L’ipoteca legale, che nasce in forza di una specifica previsione di legge che
attribuisce a creditori il diritto di iscrivere l’ipoteca (art. 2817). Hanno diritto di
iscrivere ipoteca legale: l’alienante sugli immobili alienati a garanzia del
pagamento del prezzo, i coeredi e i soci condividenti a garanzia del pagamento dei
conguagli. L’ipoteca dell’alienante e del condividente è iscritta d’ufficio dal
conservatore dei registri immobiliari al momento della trascrizione dell’atto di
acquisto o di divisione;
- L’ipoteca giudiziale, che trova titolo in una sentenza o altro provvedimento
giudiziale che comporti la condanna del debitore al pagamento di una somma di
denaro o all’adempimento di altra obbligazione (art. 2818). Presentando tale
provvedimento di condanna, il creditore può ottenere iscrizione di ipoteca sui
pubblici registri;
- L’ipoteca volontaria, che nasce in forza di un contratto o di una dichiarazione
unilaterale redatti per atto pubblico o scrittura privata autenticata e può gravare
sia sui beni del debitore sia sui beni di un terzo. È possibile anche concedere
ipoteca sui beni altrui o su cose future: in tal caso però non si potrà procedere
immediatamente all’iscrizione sui pubblici registri, ma occorrerà attendere che il
concedente acquisti la proprietà del bene o che la cosa venga ad esistenza.
La pubblicità ipotecaria ha funzione costitutiva in quanto l’ipoteca non nasce se non
quando è iscritta. L’iscrizione va eseguita nei registri del luogo dove si trova il bene e si
effettua sui registri immobiliari, sul pubblico registro automobilistico e sui registri navale e
aeronautico. Su uno stesso bene sono possibili più ipoteche successive per crediti diversi:
a ciascuna di esse viene assegnato un numero che vale a determinare la precedenza tra i
diversi creditori ipotecari. Soddisfatta l’ipoteca di primo grado si soddisferà quella di
secondo grado e così via. I creditori possono effettuare volontariamente uno “scambio di
grado ipotecario” (ad es. il creditore di 1° grado diventa creditore di 2° e viceversa) ed è
possibile la “surrogazione ipotecaria di pagamento”, che si verifica in alcune delle ipotesi
di surrogazione legale nel credito pagato. Infine si può anche avere la “surrogazione del
credito perdente”, in cui il creditore perdente Tizio trasferisce la sua ipoteca su un altro
bene del debitore, ipotecato a favore di Caio. La rinnovazione è la ripetizione della
formalità dell’iscrizione, effettuata dopo un certo tempo. L’iscrizione ipotecaria conserva la
sua efficacia per 20 anni, dopodiché si estingue, a meno che il creditore non proceda
tempestivamente alla sua rinnovazione. Decorso tale termine, è possibile procedere ad
una nuova iscrizione. L’ipoteca è un diritto reale che segue il bene nei suoi successivi
passaggi di proprietà, pertanto il creditore potrà fare valere il suo diritto anche nei confronti
del terzo acquirente (art. 2808), il quale non è responsabile del debito ma ha
semplicemente acquistato un bene già gravato di ipoteca e la legge gli offre tre possibilità
se vuole evitare di subire l’espropriazione (art. 2858):

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- Pagare egli stesso i creditori ipotecari surrogandosi poi nel credito pagato;
- Effettuare il rilascio dei beni ipotecati attraverso una dichiarazione;
- Effettuare la cd. purgazione delle ipoteche: cioè liberare i beni tramite un apposito
procedimento e l’offerta di una somma di denaro a tacitazione dei crediti garantiti.
Alcune cause di estinzione dell’ipoteca incidono sul titolo e travolgono anche l’iscrizione,
anche se ha solo funzione strumentale; estinta l’ipoteca, si potrà chiedere la cancellazione
dell’iscrizione ipotecaria. Altre cause di estinzione invece incidono direttamente
sull’iscrizione e perciò fanno venir meno il diritto ma non escludono che l’ipoteca si possa
nuovamente iscrivere. L’estinzione si verifica per il decorso del termine di 20 anni
dall’iscrizione. Una distinta causa di estinzione dell’ipoteca è prevista a favore del 3°
acquirente: decorsi 20 anni dalla trascrizione dell’acquisto, l’ipoteca si estingue per
prescrizione, anche se il credito è ancora in vita.

Capitolo 30: Il contratto come fonte di obbligazioni


L’autonomia privata
Il contratto come fonte di obbligazioni
L’art. 1321 definisce il contratto come” l’accordo di due o più parti per costituire,
regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”. Nel codice il
contratto si configura come fonte di rapporti giuridici e in particolare di obbligazioni: esso è
idoneo a produrre nelle relazioni fra gli uomini modificazioni giuridiche tutelate dalla legge:
esso dà luogo ad un rapporto contrattuale con i relativi diritti e obblighi.
Contratto e rapporto contrattuale
I due profili che caratterizzano il contratto sono la creazione di un rapporto giuridico, e
perciò di una serie di diritti e obblighi e la sua derivazione dall’accordo, e cioè da un atto di
volontà degli interessati. Il termine contratto infatti viene usato infatti sia per indicare l’atto
posto in essere dalle parti, tramite le dichiarazioni di volontà con cui si costituisce
l’accordo, sia per indicare il rapporto, e cioè la relazione giuridica che dall’atto stesso
deriva. L’atto è perciò strumentale al rapporto e ne è il presupposto necessario: se l’atto
manca, o è invalido, non sorgerà l’effetto del rapporto o vincolo giuridico. Il contratto-atto
consiste nelle dichiarazioni delle parti fuse nell’accordo; il contratto-rapporto consiste nella
relazione giuridica che, come effetto dell’atto, si instaura fra le parti e ne precisa diritti e
obblighi. Si può quindi dire che il contratto-atto è fonte del rapporto contrattuale fra le parti
(art. 1173).
Autonomia privata e autonomia contrattuale
Il codice sancisce il principio dell’autonomia contrattuale, che si colloca nel quadro
dell’autonomia privata, come libertà dei soggetti di autodeterminarsi, di decidere da sé
circa i propri interessi personali ed economici. Primo e fondamentale aspetto
dell’autonomia contrattuale è la facoltà di autodeterminarsi in ordine all’opportunità di
concludere o meno un contratto e in ordine alla libera scelta dell’altro contraente (cd.
libertà contrattuale in senso negativo). Corollario di questa regola è il principio per cui
nessuno può essere vincolato da un contratto al quale sia rimasto estraneo, ovvero non
abbia prestato il proprio consenso (art. 1372). In senso positivo l’autonomia
contrattuale si specifica anzitutto nella facoltà delle parti di “determinare
liberamente il contenuto del contratto, nei limiti imposti dalla legge” (art. 1322). Infine

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l’autonomia contrattuale attribuisce ai singoli la facoltà di “concludere contratti che non


appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare”; possono cioè stipulare contratti
innominati (o atipici). I privati possono così dettare per i loro interessi un regolamento
che non trova rispondenza nei tipi predisposti dalla legge. È però necessario che tale
contratto atipico sia “diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento
giuridico” (art. 1322).
Gli atti unilaterali
La volontà unilaterale di un soggetto non trova un analogo, generale riconoscimento quale
fonte di rapporti giuridici e degli atti unilaterali sono ammissibili soltanto quelli previsti
dalla legge (art. 1987). Una delle ragioni di ciò è quella per cui al singolo non è consentito
incidere unilateralmente sulla sfera giuridica: infatti uno degli aspetti dell’autonomia
contrattuale consiste nella cd. libertà negativa: nessuno può essere vincolato dalla altrui
volontà. La peculiarità degli atti unilaterali consiste nel fatto che manca una disciplina di
carattere generale: ad essi si applicano le disposizioni dettate dalla legge e, in quanto
compatibili le norme che regolano i contratti (art. 1324). Nei limiti in cui sono ammessi,
anche gli atti unilaterali sono idonei a produrre effetti giuridici; ad alcuni di essi la legge
dedica una disciplina come fonti di obbligazione (promesse unilaterali e titolo di credito
(artt. 1987 ss.).
Categorie di contratti
Si dicono bilaterali i contratti in cui intervengono due parti, intese come contrapposti centri
di interesse: si tratta di tutti i contratti di scambio. Sono detti plurilaterali quelli in cui vi
sono due o più parti, ma i relativi interessi non sono contrapposti fra loro. La categoria si
identifica con i contratti con comunione di scopo, cioè quei contratti in cui le parti tendono
a realizzare un comune risultato utile (es. contratti di società o assicurazione). Contratti a
titolo oneroso sono quelli in cui alla prestazione di una parte corrisponde un sacrificio
economico a carico dell’altra, come la vendita, la locazione e l’appalto; mentre sono a
titolo gratuito quelli connotati da un sacrificio economico unilaterale, come la donazione,
il comodato e il deposito. Nell’ambito dei contratti onerosi distinguiamo quelli a
prestazioni corrispettive, in cui sussiste un nesso di reciprocità fra le due prestazioni, nel
senso che ciascuno costituisce il compenso diretto dell’altra (così ad esempio per la
vendita). Il contratto è aleatorio quando l’entità di una o di entrambe le prestazioni
dipende da un evento casuale (ad es. il contratto di assicurazione). Di norma i contratti
sono commutativi, nel senso che i contraenti assumono su di sé solo i comuni rischi di
variazione nel valore delle prestazioni derivanti dalle oscillazioni del mercato.
Contratto e negozio
Il negozio è un concetto elaborato dalla dottrina tedesca del 19° secolo e quella italiana
del secolo scorso come “dichiarazione di volontà diretta a produrre effetti giuridici
riconosciuti e tutelati dall’ordinamento”. Per un verso, il negozio si configura come
supercategoria di tutti gli atti di autonomia riconducibili alla libera volontà del soggetto; per
l’altro verso si propone come strumento astratto e generale in grado di rendere un efficace
servizio al mercato e alla circolazione dei beni.

Capitolo 31: La formazione del contratto


I rapporti giuridici preparatori

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Le trattative sono quella fase antecedente alla stipulazione di un contratto in cui le parti
tentano di raggiungere un’intesa sul programma contrattuale. Essa non è una fase
necessaria. Fin quando non si sia raggiunto un accordo su tutti i punti del contratto, esso
non è ancora concluso e le parti rimangono libere di stipulare o meno. L’ art. 1337
stabilisce che le parti “devono comportarsi secondo buona fede”: cioè con correttezza; la
buona fede indica un vero e proprio dovere di comportamento (cd. buona fede in senso
oggettivo). La responsabilità precontrattuale è la sanzione prevista per chi viola il
dovere di buona fede nella fase delle trattative, obbligandolo a risarcire il danno arrecato
alla controparte.
- Ipotesi tipica di violazione della buona fede è quella della rottura ingiustificata delle
trattative;
- La correttezza, inoltre, impone obblighi di informazione, in modo da rendere note
all’altra parte le circostanze di fatto e di diritto che incidono sull’affare, rendendolo
eventualmente inutile;
- Uno specifico obbligo di informazione è previsto poi dall’art.1338, che rende
responsabile la parte che, “conoscendo o dovendo conoscere una causa di
invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all’altra parte”. Più in generale si
ricomprendono in questa ipotesi tutti i casi di stipulazione di contratto invalido o
inefficace: esso è perciò nullo, annullabile o inefficace.
La violazione dell’obbligo di correttezza è fonte di responsabilità e comporta l’obbligo di
risarcire tutto il danno arrecato: cioè il danno emergente e il lucro cessante (art. 1223).
Nella responsabilità precontrattuale il lucro cessante sarà costituito dal guadagno che
avrei realizzato impegnandomi in un altro affare. Le trattative non obbligano a concludere il
contratto; può accadere che le parti, una volta concluse le trattative con esito positivo,
trovino utile garantirsi la facoltà di concludere il contratto e al contempo rinviare la
stipulazione vera e propria a un tempo successivo. È possibile allora che la stipulazione
sia preceduta dalla creazione di specifici rapporti giuridici, strumentali alla successiva
stipulazione del contratto, che sono fonte di vincoli a carico delle parti: essi consistono nel
vincolo a stipulare un contratto o nell’obbligo di preferire un certo soggetto e possono
designarsi come rapporti giuridici preparatori. Essi sono dunque quei vincoli giuridici
con i quali le parti bloccano un affare, fissando subito il suo contenuto, ma rinviano a un
tempo successivo la stipula del vero e proprio contratto.
L’obbligo di contrarre: gli obblighi reali
Un fondamentale aspetto della libertà contrattuale consiste nella libertà negativa, cioè
nella facoltà di decidere liberamente se stipulare o no un contratto. In alcune ipotesi tale
libertà viene meno e il soggetto è obbligato a contrarre: ciò può avvenire o in
adempimento di un obbligo precedentemente assunto o per effetto di disposizioni di legge.
Rientra in quest’ultima categoria l’obbligo legale di contrarre, che trova la sua fonte
nella legge. Una delle ipotesi previste è quella dell’art. 2597, che sancisce l’obbligo di chi
esercita un’impresa in condizioni di monopolio legale, di contrarre con chiunque ne faccia
richiesta osservando la parità di trattamento.
Gli obblighi negoziali: il contratto preliminare
Gli obblighi negoziali di contrarre trovano la loro fonte in un’obbligazione
precedentemente assunta, come quella nascente dal contratto preliminare: esso si
caratterizza per il suo peculiare oggetto: l’obbligo di stipulare un contratto successivo. Il
preliminare crea un vincolo tra le parti, ma è solo un vincolo preliminare, strumentale
all’assetto finale dei loro interessi, che sarà raggiunto con la stipula del contratto definitivo,

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rinviato ad un tempo successivo. Stipulato il preliminare, le parti sono obbligate a


concludere il definitivo; esse possono sciogliersi soltanto per una giusta causa. È
necessario che il preliminare sia fatto nella stessa forma richiesta per il definitivo (art.
1351) e che contenga tutti gli elementi essenziali del contratto. Il codice prevede una tutela
efficace per il caso di inadempimento del preliminare, cioè di rifiuto di una delle parti di
stipulare il definitivo: su richiesta dell’interessato, il giudice emanerà una sentenza che
produca gli effetti del contratto non concluso. Di norma il contratto preliminare vincola
entrambe le parti ma è possibile che il vincolo gravi su una sola di esse e che l’altra
rimanga libera di decidere se stipulare o no il contratto: cd. preliminare unilaterale.
Figura diversa dal preliminare è la prelazione, cioè l’obbligo di preferire un certo
contraente qualora si decida di stipulare un contratto. Essa non vincola le parti a
concludere il contratto. Il soggetto obbligato a preferire non è tenuto a stipulare il contratto,
ma se deciderà di farlo, a parità di condizioni dovrà attribuire la preferenza al soggetto
prelazionario, ma ove egli si rifiuti, l’obbligato sarà libero di vendere ad altri. Fonte del
diritto può essere l’accordo delle parti (cd. patto di prelazione) o la stessa legge (cd.
prelazione legale). I privati sono liberi di contrarre con chi vogliono, ma specifiche
disposizioni hanno introdotto il divieto di discriminazioni basate sull’apparenza razziale,
etnica e religiosa o sulle condizioni di disabilità della persona. Ove tali discriminazioni si
verifichino il giudice può ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e
adottare ogni altro provvedimento idoneo a rimuovere gli effetti delle discriminazioni, ivi
compreso il risarcimento del danno anche non patrimoniale.

Capitolo 32: I requisiti del contratto: l’accordo delle parti


Il contratto deve presentare alcuni requisiti perché sia valido; detti elementi sono definiti
essenziali in quanto la loro presenza è indispensabile perché il contratto sia regolarmente
formato. Questi elementi sono l’accordo delle parti, la causa, l’oggetto, la forma (art.
1325). In mancanza di tali elementi il contratto è nullo. Esistono altri elementi detti
accidentali in quanto possono essere inseriti nel contratto o possono mancare. Essi sono
la condizione, il termine e il modo (o onere). Ove siano inseriti nel contratto concluso, essi
ne condizionano gli effetti. Le parti costituiscono “presupposto” del contratto; si parla di
parti in senso formale per indicare i soggetti che emettono le dichiarazioni contrattuali e
formano il contratto-atto, mentre sono parti in senso sostanziale coloro in capo ai quali si
producono gli effetti del negozio. Di solito le due parti coincidono; parte sostanziale può
essere chiunque abbia la capacità giuridica, mentre parte formale può essere solo chi
abbia la capacità legale di agire. L’incapacità giuridica della parte sostanziale rende nullo il
contratto, mentre l’incapacità di agire della parte in senso formale rende l’atto annullabile.
Il primo dei requisiti del contratto è l’accordo delle parti, cioè l’intesa che le parti
raggiungono in ordine ad un certo programma contrattuale (art. 1325). L’accordo risulta
dalle dichiarazioni di volontà delle parti: quando queste dichiarazioni convergono l’accordo
è raggiunto e il contratto è stipulato. L’accordo su un certo programma può essere
raggiunto in modo espresso o tacito: la dichiarazione è espressa quando è attuata con
segni linguistici, mentre è tacita quando è attuata tramite comportamenti concludenti cioè
a mezzo di comportamenti da cui si desume indirettamente la volontà del soggetto. Il
silenzio non vale a esprimere un consenso, salvo che esso sia accompagnato da
circostanze tali da rendere significativa tale condotta: si parla in tal caso di silenzio
circostanziato e può verificarsi o per effetto della legge che attribuisce tale valore al
silenzio; o per effetto di un precedentemente accordo fra le parti. La legge considera
intervenuto l’accordo fra le parti quando vi sia stato uno scambio o incontro fra due
dichiarazioni di volontà: la proposta e l’accettazione. Quando vi sia tale scambio l’accordo
è raggiunto e il contratto concluso. Si distinguono diversi modi di stipulazione di contratto:

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- Scambio di proposta e accettazione: secondo l’art. 1326 il contratto è concluso


nel momento e nel luogo in cui il proponente ha notizia dell’accettazione della
controparte. Proposta è l’atto unilaterale con cui un soggetto (proponente)
sottopone ad un altro (oblato) un certo programma contrattuale. Accettazione è
l’atto unilaterale con cui l’oblato aderisce alla proposta, concludendo così il
contratto. La proposta dev’essere completa, cioè deve contenere almeno
l’indicazione degli elementi essenziali del contratto da concludere. L’accettazione
deve essere conforme alla proposta, cioè esprimere un’adesione completa al
programma contrattuale offerto: la divergenza su alcuni punti esclude l’accordo e
vale a qualificare l’atto come una “nuova proposta”, che potrà essere
eventualmente accettata dalla controparte (art. 1326). Ulteriore requisito
dell’accettazione è la tempestività, dovendo giungere al proponente nel termine da
lui stabilito o in quello necessario secondo la natura dell’affare o secondo gli usi
(art.1326). Altro requisito comune a proposta e accettazione è la forma: entrambe
devono essere fatte nella forma richiesta per il contratto che si vuole concludere.
Avendo un destinatario determinato, hanno entrambe carattere recettizio, cioè la
loro efficacia è subordinata alla conoscenza da parte del destinatario (art. 1334).
L’art. 1328 stabilisce che proposta e accettazione possono essere revocate
fino a quando il contratto non è concluso; pertanto il proponente può revocare
l’offerta purché la revoca giunga all’oblato prima che gli pervenga l’accettazione di
questo e l’accettazione potrà essere revocata purché la revoca giunga al
proponente prima della dichiarazione di accettazione. La revoca costituisce un
diritto soggettivo delle parti, e non dà luogo a responsabilità. È previsto che il
proponente è tenuto a corrispondere un indennizzo all’accettante qualora questi, in
buona fede ne abbia intrapreso l’esecuzione (art. 1328). Oltre alla revoca, tolgono
efficacia a proposta e accettazione anche la morte e la sopravvenuta incapacità di
una delle parti (art. 1329). La proposta è irrevocabile quando il proponente si è
obbligato a mantenerla ferma per un certo periodo di tempo (art. 1329); cioè
egli si priva della facoltà di ritirarla per il tempo indicato nella proposta stessa,
assicurando così alla controparte un lasso di tempo nel quale potrà verificare con
tranquillità la convenienza dell’affare. Tale utilità pratica può essere assicurata o con
atto unilaterale del proponente o tramite un accordo fra le parti, cioè un apposito
contratto detto contratto di opzione, il quale si considera proposta irrevocabile per
gli effetti previsti dall’art. 1329. Un’ ipotesi di proposta contrattuale è l’offerta al
pubblico, cioè l’offerta rivolta ad una generalità di persone. L’art. 1336 precisa che
essa equivale ad una proposta contrattuale quando contiene gli estremi
essenziali del contratto che si vuole stipulare (ad es. l’esposizione di un vestito in
vetrina con il cartellino del prezzo). Il contratto si conclude con l’accettazione,
espressa o tacita. Nell’offerta al pubblico, mancando un destinatario determinato, la
proposta non ha carattere recettizio: essa è efficace non appena sia resa pubblica e
l’eventuale revoca è valida anche nei confronti di chi non ne abbia avuto notizia.
I contratti plurilaterali aperti sono contratti già conclusi fra due o più parti e aperti
all’adesione di altri soggetti: ad es. il contratto di società. Le adesioni devono essere
indirizzate ai contraenti originari o all’organo costituito per l’attuazione del contratto. Il
contratto sarà concluso nel momento in cui tali contraenti ne abbiano conoscenza.
- Inizio dell’esecuzione: il contratto si può stipulare anche con l’inizio
dell’esecuzione da parte dell’oblato accettante. L’ipotesi è disciplinata dall’art. 1327
e costituisce deroga al principio della conclusione nel momento in cui il proponente
ha notizia dell’accettazione. Tale modo di conclusione è ammesso quando “su
richiesta del proponente o per la natura dell’affare o secondo gli usi” non appaia

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necessaria una preventiva risposta dell’accettante: in tal caso il contratto si


perfeziona nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l’esecuzione. L’avviso
dell’iniziata esecuzione che l’accettante deve dare alla controparte non condiziona
la conclusione del contratto e la sua mancanza comporta solo responsabilità per gli
eventuali danni.
- Contratti con obbligazioni del solo proponente: alcuni tipi di contratti prevedono
obbligazioni a carico di una sola parte. In tali ipotesi la legge muove dal
presupposto che l’oblato ha senz’altro convenienza ad accettare la proposta e non
richiede un’espressa accettazione perché il contratto si concluda, ma stabilisce che
i contratti da cui derivino obbligazioni per il solo proponente si concludano
col mancato rifiuto dell’oblato. L’art. 1333 dispone che la proposta di contratto da
cui derivino obbligazioni per il solo proponente è irrevocabile e l’oblato ha facoltà di
rifiutare la proposta stessa, ma la mancanza di un tempestivo rifiuto equivale ad
accettazione e il contratto si considera pertanto concluso. Si tratta di un’ipotesi di
silenzio circostanziato.
- Contratti reali: in questi contratti il consenso non è sufficiente in quanto occorre
anche la consegna della cosa. Tali sono il deposito, il comodato, il mutuo, il
pegno: essi, per la loro perfezione, richiedono anche la consegna della cosa che
forma l’oggetto del contratto. Fin quando non interviene la consegna, l’accordo che
le parti abbiano eventualmente raggiunto non basta a concludere il contratto.
- Contratti standard: sono i contratti che vengono stipulati senza una previa
contrattazione del contenuto (es. contratti di trasporto); in questi si riscontra una
predisposizione unilaterale delle clausole contrattuali, spesso contenuti in moduli o
formulari che il cliente può soltanto accettare o rifiutare in blocco.
Per quanto riguarda il consenso dell’aderente, non solo il cliente non discute le clausole,
ma spesso lo stipula senza neppure conoscere le condizioni generali di contratto, cioè le
clausole contrattuali predisposte unilateralmente dalla controparte. La legge riconosce
efficacia alle condizioni generali di contratto quando l’aderente le ha conosciute o avrebbe
dovuto conoscerle utilizzando l’ordinaria diligenza (art. 1341). Per quanto riguarda il
contenuto del contratto standard, è prevista una particolare forma di tutela con riferimento
alle clausole vessatorie: quelle clausole che aggravano sensibilmente la posizione
dell’aderente rispetto alla disciplina legale dei contratti. La legge determina quali siano le
clausole da ritenere vessatorie e stabilisce che esse devono essere specificatamente
approvate per iscritto. L’art. 1341 considera vessatorie le clausole che stabiliscono, a
favore del predisponente, delle limitazioni di responsabilità e facoltà di recedere dal
contatto o di sospenderne l’esecuzione. Sono inoltre vessatorie le clausole che
sanciscono, a carico dell’aderente: decadenze e limiti alla facoltà di proporre eccezioni;
restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti con i terzi; tacite proroghe o rinnovazioni del
contratto; clausole compromissorie che deferiscono ad arbitri privati la decisione di una
futura lite. Oggi esiste il divieto di abuso del potere contrattuale a carico del contraente che
si trovi in posizione di forza rispetto al contraente debole. Numerosi sono stati gli interventi
a tutela dei consumatori attraverso il codice del consumo; in particolar modo sono state
vietate le pratiche scorrette, ingannevoli e aggressive; è stata prevista in capo alle
associazioni dei consumatori la legittimazione ad agire a tutela degli interessi collettivi dei
consumatori e degli utenti mirando ad ottenere un provvedimento che vieti in via generale
a determinati professionisti l’utilizzazione di determinate clausole in tutti i loro contratti.
Sono regolamentate le attività pubblicitarie e le tecniche di vendita, prevedendo che i
prodotti destinati ai consumatori riportino alcune indicazioni quali le istruzioni d’uso. La
disciplina di maggior rilievo è quella concernente i contratti tra consumatori e

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professionisti: consumatore è la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività
imprenditoriale mentre per professionista si intende la persona fisica o giuridica che agisce
nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale. Per tali contratti la
disciplina sancisce la nullità di alcune clausole contrattuali: quelle colpite da invalidità sono
quelle definite vessatorie, cioè le clausole che determinano a carico del consumatore un
significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. La tutela prevista è
quella della nullità relativa delle clausole vessatorie, nel senso che l’invalidità opera solo a
vantaggio del consumatore, mentre il contratto rimane valido per il resto.

Capitolo 33: La causa, l’oggetto, la forma


Gli altri requisiti del contratto elencati dall’art. 1325 sono la causa, l’oggetto e la forma. Il
codice non dà la nozione di causa del contratto, ma comunemente per causa si intende la
funzione economico-sociale del contratto, cioè lo scopo cui è diretto un certo schema
contrattuale. La necessaria presenza di una causa, lecita e meritevole di tutela, rende
evidente come la volontà privata non è da sola sufficiente a creare un rapporto giuridico,
ma è necessario che la volontà degli interessati sia accompagnata e sostenuta da una
sufficiente giustificazione: deve essere diretta a realizzare interessi meritevoli di tutela
secondo l’ordinamento giuridico (art. 1322).
Contratti tipici
Si parla di contratti nominati o tipici a proposito di vendita, locazione, mutuo, mandato,
trasporto etc. ovvero tutti quei contratti che appartengono ai “tipi aventi una disciplina
particolare” nella legge (art. 1322). Questi contratti si presentano come modelli astratti o
schemi tipici di operazioni economiche che le parti possono adottare. La tipizzazione
equivale ad una preventiva valutazione circa la tutelabilità degli interessi perseguiti e la
meritevolezza del contratto. Può accadere che la causa non possa in concreto realizzarsi
o che essa sia utilizzata dalle parti per raggiungere finalità diverse non approvate dalla
legge oppure che le parti utilizzino schemi contrattuali tipici per il perseguimento di
interessi diversi rispetto a quelli propri del negozio utilizzato: è il cd. uso indiretto del
negozio. Sono consentiti i negozi indiretti ove si voglia raggiungere finalità diverse
rispetto a quelle tipiche (come il negozio del matrimonio celebrato al fine di acquisire la
nazionalità del coniuge). Talvolta però il risultato finale è molto diverso da quello tipico del
negozio e quindi bisogna verificare se sia vietato dalla legge e in tal caso si parla di
negozio in frode alla legge, cioè di un negozio che viola in concreto i precetti. Questo
contratto è nullo per illiceità della causa (art. 1344).
Contratti atipici
Alle parti è consentito stipulare contratti “che non appartengono ai tipi aventi una disciplina
particolare” nella legge, purché siano diretti a “realizzare interessi meritevoli di tutela” (art
1322). La disciplina dei contratti atipici è quella dettata per in contratti in generale (art.
1323), quella derivante dagli specifici accordi fra le parti e dalle norme imperative di legge,
e infine quella desumibile per analogia da disposizioni che regolano casi simili. Il problema
si pone per i contratti misti, cioè quelli che hanno caratteri che li accomunano a più di un
contratto tipico. In alcuni casi è la legge stessa che indica la preferenza (criterio della
prevalenza o assorbimento, che la giurisprudenza applica ai casi in cui, in un contratto
atipico, appaiono prevalenti gli elementi di un certo tipo contrattuale. Negli altri casi si

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ritiene applicabile il criterio della combinazione: a ciascuna clausola del contratto si


applicano le regole del tipo contrattuale al quale maggiormente si avvicina.
Negozi astratti
Quando si tratta di un negozio formale (cioè che richiede una certa forma: ad es, l’atto
pubblico), la causa deve emergere dall’atto e poter essere rilevata dall’atto stesso. Non è
possibile realizzare gli effetti voluti prescindendo dalla causa, cioè facendo astrazione
dalla causa. È ammesso un caso di negozio astratto, che produce i suoi effetti a
prescindere dalla causa: è il caso della cambiale: nei confronti del terzo giratario la
cambiale opera come negozio astratto che prescinde dalla causa sottostante. Questa di
cui abbiamo parlato è l’astrazione sostanziale, quale autonomia del negozio dal requisito
della causa; mentre l’astrazione processuale della causa, quale autonomia della pretesa
dall’onere di provare la causa del negozio consiste nell’inversione dell’onere della prova:
chi agisce per l’adempimento di un’obbligazione è tenuto a dimostrare il titolo da cui essa
deriva, e quindi una valida causa del contratto che ne è fonte. In alcuni casi la legge
esclude tale onere e chi agisce non è tenuto a dimostrare l’esistenza di una causa valida a
fondamento dell’obbligazione: sono i casi della promessa di pagamento e della
ricognizione di debito. Qui la causa si presume fino a prova contraria, e sarà il debitore,
se vuole evitare di pagare, che dovrà dimostrare che la causa non esiste.
I motivi
La causa è un profilo oggettivo del contratto e costituisce un elemento comune alle parti,
poiché è unica per entrambi i contraenti; essa si distingue dai motivi, cioè dalle finalità
individuali e dalle utilità specifiche che ciascuno si ripromette. I motivi, anche se noti alla
controparte, rimangono giuridicamente irrilevanti ma acquistano rilevanza se vengono
inseriti nella struttura contrattuale, ad es. con una clausola condizionale: compro la
bottega a condizione che riesca a ottenere la licenza di commercio. Al di fuori di tale
ipotesi, la legge prevede che il motivo sia rilevante solo se esso è illecito, il quale rende
nullo il contratto quando sia comune ad entrambe le parti e determinante del consenso
(art. 1345). Il motivo è comune quando ambedue i contraenti traggono profitto dalla
finalità illecita; è determinante quando le parti “hanno stipulato il contratto esclusivamente
per tale motivo”. Il motivo erroneo o errore sui motivi rileva soltanto nella donazione e
nel testamento: l’atto è annullabile se il donante o testatore si siano indotti a una certa
disposizione per un motivo erroneo, risultante dall’atto. Non costituisce un semplice motivo
la “presupposizione” in quanto tale circostanza costituisce una condizione implicita del
contratto perché entrambe le parti la presupponevano, cioè non soltanto la conoscevano
ma ne condividevano la rilevanza. Esse costituiscono un presupposto oggettivo e comune
sul quale si fonda non solo l’interesse di una delle parti, bensì l’intero contratto. Si ha
diritto allo scioglimento del contratto ove questa circostanza venga meno.
L’oggetto
Il codice non fornisce una definizione dell’oggetto del contratto: per oggetto deve
intendersi il contenuto del contratto, cioè l’insieme delle disposizioni contrattuali e
delle clausole di cui esso consiste. Esso deve essere possibile, lecito, determinato o
determinabile. Possibilità dell’oggetto significa che esso deve essere realizzabile con
l’impiego della diligenza richiesta; vi deve essere l’esistenza materiale del bene o la
possibilità di costruirlo. È previsto che possono essere dedotti in contratto anche beni
futuri (art. 1348). L’impossibilità originaria dell’oggetto comporta la nullità del contratto /art.
1418); l’impossibilità sopravvenuta (intervenuta dopo la stipulazione) comporta la
risoluzione. Liceità dell’oggetto significa che esso non deve essere contrario a norme
imperative, all’ordine pubblico e al buon costume (art. 1343). Determinatezza significa

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che l’oggetto è già specificato con sufficienti indicazioni: è sufficiente che l’oggetto sia
determinabile, cioè che possa essere determinato in base ai criteri fissati dalla legge o
dalle parti. In alcuni casi è la legge che determina l’oggetto del contratto; di norma sono le
parti stesse a fissare i criteri per la successiva determinazione dell’oggetto: ci si può
riferire ad elementi esterni (il prezzo di borsa di una certa data) o affidare la
determinazione a un terzo (in questo caso si parla di arbitraggio: cioè l’atto di
determinazione del contenuto del contatto effettuato da un terzo, detto arbitrante).
La forma
La forma costituisce elemento essenziale del contratto solo nei casi specificamente
previsti dalla legge (art. 1325). La forma è il modo di manifestazione della volontà
negoziale; è la modalità con cui questa volontà viene esternata. Principio generale è
quello della libertà di forma: le parti possono adottare la forma che ritengono più opportuna
purché idonea al fine di manifestare la volontà negoziale in questione. Si ha
dichiarazione espressa quando la volontà è manifestata con segni di linguaggio (parole,
scritti, gesti); si ha manifestazione tacita quando la volontà si desume indirettamente in
un comportamento concludente, cioè un comportamento socialmente univoco e
significativo. Il principio della libertà di forma subisce delle limitazioni, quando la legge
impone sia che la dichiarazione sia espressa, sia che essa sia resa secondo certe
modalità (c.d. negozi formali o a forma vincolata). In alcuni casi la forma è richiesta a pena
di nullità (art. 1325, 1350), cioè costituisce un elemento essenziale e, in mancanza il
contratto è nullo e improduttivo di effetti (cd. forma ad substantiam). La forma imposta
dalla legge consiste nella redazione del contratto per iscritto: in alcuni casi è sufficiente la
scrittura privata mentre in altri è necessario l’atto pubblico. Devono farsi per atto pubblico,
sotto pena di nullità, il contratto di donazione e la costituzione di società capitali, gli atti
matrimoniali e gli altri previsti dalla legge; devono farsi per scrittura privata, sotto pena di
nullità, i contratti di alienazione della proprietà e di altri diritti reali su beni immobili; le
locazioni abitative e ultranovennali, i conferimenti in società del godimento di immobili per
un tempo superiore ai 9 anni; i contratti relativi alle operazioni e ai servizi di banca nonché
i contratti stipulati con i clienti dalle società di intermediazione immobiliare. Per scrittura
privata si intende qualsiasi documento sottoscritto dall’interessato che, in tal modo, fa
proprio il contenuto del documento stesso e si impegna a quanto è in esso contenuto. Per
atto pubblico si intende il documento redatto da un notaio o da altro pubblico ufficiale
autorizzato ad attribuire pubblica fede all’atto (art. 2699). Al di fuori di queste ipotesi le
parti sono libere di adottare la forma che ritengono più opportuna e possono anche
obbligarsi all’adozione di una forma specifica per i loro contratti. La necessità di adottare
una certa forma può anche derivare anche da precedente accordo delle parti (cd. forma
convenzionale). Dai contratti formali vanno distinti i contratti a prova formale come
l’assicurazione, la transazione, la vendita di azienda. Qui la legge prescrive la forma scritta
al fine limitato della prova: il contratto deve essere solo provato per iscritto; pertanto ove
sia stipulato verbalmente esso sarà valido e potrà essere eseguito regolarmente ma in
caso di contestazione l’interessato non potrà provarlo con gli ordinari mezzi di prova.
L’onere della forma scritta è assoluto anche quando gli atti siano formati con strumenti
elettronici e telematici che diano luogo a documenti informatici; è sancito anzitutto il
principio della equiparazione dei documenti informatici ai documenti cartacei.
Capitolo 34: Le clausole accidentali del contratto
Gli elementi accidentali fanno parte del contratto soltanto se le parti li abbiano voluti,
inserendoli nel contratto stesso. La qualificazione come “accidentali” evidenzia appunto il
loro carattere eventuale. Questi elementi o requisiti sono: la condizione, il termine e il
modo. La condizione è la clausola che subordina gli effetti del contratto a un

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avvenimento futuro e incerto (art. 1353). La condizione si dice sospensiva se sospende


l’efficacia del negozio fino a che l’evento non si sia verificato (ad es. ti dono il mio studio a
condizione che tu ti iscriva all’albo); è risolutiva se, al verificarsi dell’evento, essa fa venir
meno gli effetti già prodottisi (ad es. compro il negozio, ma se non otterrò la licenza il
contratto si risolverà): qui gli effetti si producono immediatamente ma se non si verificherà
l’evento previsto essi verranno meno. La clausola condizionale o condizione volontaria è
il mezzo con cui i contraenti possono attribuire rilievo ai motivi, agli interessi specifici che li
inducono a un determinato negozio e che non trovano accoglimento nella disciplina tipica
del contratto stipulato. È consentito apporre condizioni a tutti gli atti negoziali, salvo i casi
di specifico divieto normativo, cioè atti che non tollerano condizioni (cd. atti puri o legittimi).
La condizione legale è quella posta dalla legge (ad es. condizione legale per l’efficacia di
una donazione a favore di un nascituro non concepito è la sua nascita). L’evento
dedotto in condizione dev’essere futuro e incerto, cioè non deve essersi ancora
verificato e deve essere dubbio se si verificherà o no. Si parla perciò di condizione
impropria visto che fin dal momento della stipulazione del contratto è già oggettivamente
certo o accertabile se esso è definitivamente efficace o inefficace. Non assume rilievo il
fatto che sia certo il momento in cui dovrà darsi l’evento; è sufficiente che ne sia certo il
verificarsi. In ordine al tipo di evento la condizione si distingue in causale, se il suo
avvenimento dipende dal caso e potestativa, quando il suo verificarsi dipende dalla
volontà di una delle parti. Si parla di condizione potestativa semplice quando l’evento è
collegato ad un comportamento volontario, ma che coinvolge un qualche interesse della
parte sicché non risulterà indifferente se compierlo o no. Si definisce meramente
potestativa la condizione che dipende dall’arbitrio dell’interessato, da una semplice
dichiarazione di volontà: essa rende nullo l’atto se fa dipendere l’alienazione di un diritto o
l’assunzione di un obbligo dalla mera volontà dell’obbligato. L’evento inoltre deve essere
possibile e lecito; la condizione impossibile rende nullo il contratto se è sospensiva,
mentre se è risolutiva si ha per non apposta: non potendo l’effetto verificarsi, gli effetti
prodotti dal negozio non verranno mai rimossi. La condizione è illecita quando è contraria
a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume: essa rende nullo il contratto
sia quando è sospensiva sia quando è risolutiva (art. 1354). L’illiceità può derivare dal
comportamento illecito dedotto in condizione, ma anche dal fatto che la condizione tende a
realizzare una pressione indebita sulla libertà individuale. In un contratto condizionato, fin
quando la condizione non si è verificata le situazioni giuridiche in esso disciplinate si
trovano in uno stato di incertezza: se la condizione è sospensiva il diritto non è ancora
sorto in capo all’acquirente, ma potrebbe nascere in futuro; se la condizione è risolutiva il
diritto è stato già acquisito ma potrebbe venire meno. Questo stato si denomina pendenza
della condizione ed è caratterizzato dal fatto che la parte, il cui acquisto è condizionato a
un certo evento, non ha un diritto pieno e completo: è titolare piuttosto di un’aspettativa, di
una situazione giuridica tutelata in via preliminare. La legge dispone che, in pendenza
della condizione, “ciascuna delle parti deve comportarsi secondo buona fede per
conservare integre le ragioni dell’altra” (art. 1358). Si ha avveramento della condizione
quando si verifica l’evento contemplato; l’avveramento risolve la situazione di incertezza e
rende il contratto definitivamente efficace o inefficace. Essa ha effetto retroattivo, cioè gli
effetti retroagiscono al tempo in cui è stato concluso il contratto (art. 1360). Il termine è il
momento dal quale o fino al quale si produrranno gli effetti del contratto: cd.
termine di efficacia. Caratteristica è quella di essere stabilito in relazione a un evento
futuro e certo. A differenza della condizione si caratterizza per la certezza
dell’avvenimento, anche se sia incerto quando si avvererà. Non in tutti i negozi è
consentito apporre un termine (ad es. nel matrimonio). È valido il termine potestativo,
cioè la clausola che rimette alla volontà dell’obbligato la determinazione del momento
iniziale o finale del rapporto. Il modo è una limitazione apposta a un’attribuzione

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gratuita (ad es. dono un edificio al Vescovo con l’onere di destinarlo a centro di
accoglienza). È perciò un obbligo giuridico che grava sul beneficiario di un’attribuzione
gratuita e che viene a ridurre il valore del beneficio. La clausola modale costituisce un
mezzo con il quale si attribuisce rilevanza a particolari motivi o finalità dell’autore del
negozio: la sua caratteristica è che può essere inserita nei negozi gratuiti. L’onere può
consistere in un dare, fare o in un non fare; in ogni caso costituisce una vera e propria
obbligazione, giuridicamente vincolante, di cui può chiedere l’adempimento coattivo
chiunque vi abbia interesse. La risoluzione dell’attribuzione può essere pronunciata solo
se è stata prevista o se l’adempimento abbia costituito il solo motivo determinante della
disposizione. Clausola penale e caparra svolgono la funzione di rafforzare il vincolo
contrattuale. La clausola penale è una determinazione anticipata e forfettaria del
risarcimento per il caso di inadempimento o ritardo (art. 1382). La sua funzione è quella di
precostituire un diritto al risarcimento senza che sia necessario fornire la prova del danno.
Essa limita il risarcimento alla somma convenuta e costituisce una liquidazione forfettaria.
In ogni caso è previsto che la penale “può essere equamente diminuita dal giudice” ove sa
manifestamente eccessiva, avuto riguardo all’interesse del creditore (art. 1384). La
caparra confirmatoria è la somma consegnata a una parte, al momento della
conclusione del contratto, a garanzia dell’impegno contrattuale assunto (ed eventualmente
a titolo di acconto sulla prestazione dovuta art. 1385). Al momento dell’adempimento, la
caparra sarà imputata alla prestazione dovuta (in questo senso costituisce un acconto sul
prezzo), o sarà restituita quando la prestazione consiste nel dare altre cose o in un fare (in
tal senso costituisce una garanzia del futuro adempimento, che rafforza il vincolo
contrattuale). In caso di inadempimento di chi ha dato la caparra, l’altra parte può recedere
dal contratto “ritenendo la caparra” a titolo di risarcimento. Ove invece sia inadempiente
chi ha ricevuto la caparra, sarà la controparte a poter recedere dal contratto esigendo il
doppio della caparra data (art. 1385). È prevista anche la caparra penitenziale, che è la
somma consegnata a una parte, al momento della conclusione del contratto, a titolo di
corrispettivo per il diritto di recesso attribuito alla controparte. La multa penitenziale è
caratterizzata dal fatto che la facoltà di recesso non è accompagnata dalla consegna
immediata della somma di denaro, bensì dalla previsione dell’obbligo di pagare una multa
se e quando la parte deciderà di recedere (art. 1373).

Capitolo 35: Invalidità del contratto


Quando l’atto è conforme ai requisiti previsti si dice che esso è valido e si parla di validità
del contratto. Si avrà invalidità del contratto quando esso non sia regolarmente formato,
quando manchi o sia illecito uno dei suoi elementi; l’invalidità è la sanzione che colpisce
l’atto giuridicamente irregolare e comporta l’inidoneità dell’atto a conseguire gli effetti cui è
diretto. Si distinguono 3 forme di invalidità: la nullità, che è la forma di invalidità che ha
carattere generale nel senso che consegue a tutte le ipotesi in cui un negozio è contrario a
norme imperative salvo che la legge disponga diversamente (art. 1418); l’annullabilità e la
rescindibilità, che sono forme speciali di invalidità, poiché conseguono solo nei casi
previsti dalla legge.
- Nullità: è la forma generale e più grave di invalidità del contratto che comporta la
radicale e definitiva inefficacia dell’atto. Essa è irrimediabile in quanto i contraenti
non possono sanare, convalidare il negozio nullo. Il contratto è nullo quando manca
o è illecito uno dei suoi requisiti essenziali (art. 1418); nei contratti tipici la causa
potrebbe mancare in concreto quando essa non può effettivamente realizzarsi; nei
contratti atipici la causa manca quando le parti perseguono interessi non meritevoli
di tutela; l’oggetto manca quando non esiste materialmente il bene ovvero esso è

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impossibile o indeterminato; la forma può mancare perché quella adottata non


rispetta le prescrizioni legali. Poiché il negozio è dichiarazione di volontà, quando la
volontà manca il negozio è nullo. La legge perciò tutela coloro che abbiano fatto
affidamento sulle altrui dichiarazioni; in concreto si distinguono due ipotesi
fondamentali: mancanza di volontà e divergenza tra volontà e dichiarazione.
- Una vera e propria mancanza di volontà si ha nei casi di dichiarazione non seria,
come quella fatta per scherzo o in rappresentazioni teatrali; la volontà manca anche
nel caso della violenza fisica, quando la volontà è del tutto inesistente.
- Si ha divergenza tra volontà e dichiarazione nei casi di errore ostativo e di
simulazione. L’errore ostativo è l’errore commesso nell’emettere la dichiarazione
(voglio scrivere 100 e scrivo 200). Qui la dichiarazione non rispecchia la volontà e
l’atto dovrebbe essere nullo. Si ha simulazione quando ad es. dichiaro di donare a
Tizio ma in realtà intendo arricchire Caio.

Inesistenza del contratto


Affinché si possa parlare di nullità di un contratto per mancanza del consenso delle
parti occorre che vi sia almeno una parvenza di accordo contrattuale: diversamente l’atto
sarà inesistente.
Illiceità del contratto
Il contratto è nullo quando è illecito, cioè contrario a norme imperative, all’ordine
pubblico e al buon costume (artt. 1418, 1343). Per contrarietà alle norme imperative si
intende la violazione di norme, che tutelando interessi generali, non possono essere
derogate dai privati. L’ordine pubblico è l’insieme dei principi fondamentali e inderogabili
dell’ordinamento giuridico: si tratta di quei principi irrinunciabili che costituiscono la base
stessa dell’ordinamento e della convivenza sociale. Il buon costume è l’insieme dei
principi morali comunemente accolti nella società. Nulli sono infine anche i contratti con
motivo illecito comune ad entrambe le parti e i contratti in frode alla legge, cioè che
costituiscano il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa.
L’azione di nullità
La sanzione della nullità opera automaticamente, per effetto dell’obiettivo contrasto
dell’atto con una previsione normativa e il contratto nullo è inefficace fin dall’inizio.
L’azione di nullità è pertanto un’azione di mero accertamento in quanto il giudice dovrà
solo accertare che il contenuto impugnato sia effettivamente nullo e la relativa pronuncia
sarà una sentenza dichiarativa. La nullità può essere fatta valere da chiunque ne ha
interesse (art. 1421) e, parallelamente può anche essere rilevata di ufficio dal giudice
anche se le parti non l’abbiano fatta valere. Nella legislazione recente sono state introdotte
ipotesi di nullità relativa, e cioè di nullità che può essere fatta valere solo da uno dei
contraenti, il contraente debole. L’azione di nullità è imprescrittibile e può essere fatta
valere senza limiti di tempo ma l’art. 1422 fa salvi gli effetti dell’usucapione e della
prescrizione delle azioni di ripetizione. La nullità è una forma di invalidità insanabile e
non si può rimediare al difetto dell’atto, che rimane definitivamente viziato non essendo
suscettibile di sanatoria. Non è ammissibile la convalida dell’atto che è invece consentita
per i contratti annullabili. Le parti possono solo fare una rinnovazione del contratto, cioè
stipulare un nuovo negozio evitando il difetto che ha dato luogo alla nullità. Sarà peraltro
un nuovo contratto, e gli effetti, anche con riguardo ai terzi, prenderanno vita dalla nuova
data in cui esso sia compiuto. Fermo restando che il contratto nullo è insanabile, sono

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previste alcune forme di recupero dell’atto nullo, fondate su un meccanismo di


modificazione legale dell’atto viziato; ciò si verifica nelle ipotesi di nullità parziale e di
conversione. La nullità parziale è la nullità che riguarda solo una parte o una clausola del
contratto e se essa è stata determinante, nel senso che le parti non lo avrebbero concluso
senza quella clausola, cade l’intero contratto; se invece le parti lo avrebbero ugualmente
concluso senza la parte colpita da nullità, rimane caducata solo tale parte e il rimanente
contratto resta valido (artt. 1419, 1420). La regola costituisce applicazione del principio di
conservazione del contratto. Non occorre una dichiarazione di volontà delle parti per
conservare il contratto “modificato” in quanto la salvaguardia del negozio avviene sulla
base del significato, del ruolo oggettivo rivestito dalla clausola nulla all’interno del
contratto. La conversione è la trasformazione legale del contratto nullo in un contratto
diverso e valido; secondo l’art. 1424 il contratto nullo può produrre gli effetti di un contratto
diverso del quale contenga i requisiti di sostanza e di forma, qualora debba ritenersi che le
parti lo avrebbero voluto se avessero conosciuto la causa di nullità. La conversione opera
sulla base della sussistenza dei requisiti di sostanza e di forma di un altro contratto e sulla
congruità degli effetti del nuovo contratto e lo scopo perseguito dalle parti (art. 1424). Non
si fa luogo a tale valutazione di congruità nella cd. conversione automatica o legale,
disposta direttamente dalla legge in alcune ipotesi specifiche.
L’annullabilità
Il negozio annullabile è provvisoriamente efficace, cioè gli effetti possono venir meno a
seguito di sentenza di annullamento su domanda della parte tutelata. A differenza della
nullità che tutela interessi generali, l’annullabilità tutela interessi individuali, di uno dei
contraenti. In via generica può dirsi che è sancita l’annullabilità quando è parsa eccessiva
la sanzione della nullità dell’atto. L’annullamento si configura con il rimedio offerto dalla
legge a tutela della libertà del volere: precisamente l’annullabilità è prevista per i casi di
incapacità di agire e di vizi della volontà (errore, violenza, dolo). Il rimedio è applicabile a
tutti gli atti negoziali, anche quelli unilaterali. Il negozio è annullabile nel caso di
incapacità di una delle parti, legale o naturale (art. 1425). L’incapacità legale di agire
è la condizione in cui si trova il minore di età, l’interdetto e per alcuni atti l’inabilitato,
l’emancipato e il beneficiario dell’amministrazione di sostegno. La legge provvede ai casi
in cui l’incapace abbia posto in essere atti a lui vietati e dispone che tali atti possano
essere annullati a domanda dell’incapace o del suo rappresentante. L’annullamento
prescinde dalla circostanza che l’altro contraente conoscesse la condizione d’incapacità
legale della parte. L’incapacità naturale è la condizione di chi, sebbene non interdetto,
sia stato incapace di intendere e di volere al momento in cui ha posto in essere un atto
(es. il contraente era ubriaco). In questo caso, per l’annullamento dei contratti occorre
dimostrare la malafede dell’altro contraente, mentre per gli altri atti occorre che ne risulti
un grave pregiudizio all’incapace (art. 428). I vizi del consenso sono ipotesi di alterazione
della volontà negoziale che si forma in maniera distorta. I vizi della volontà possono
definirsi come anomalie del processo formativo della volontà in quanto viziano il consenso
a un atto negoziale o contratto. Questi vizi sono l’errore, la violenza, il dolo. L’errore
consiste in una falsa conoscenza della realtà che determina una delle parti ad un contratto
che, senza quell’errore, non avrebbe stipulato. Esso è causa di annullamento del contratto
a condizione che sia essenziale e riconoscibile dall’altro contraente (art. 1428). L’errore è
riconoscibile quando una persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo, tenuto
conto del contenuto del contratto, delle circostanze o della qualità dei contraenti (art.
1431); è essenziale quando è determinante del consenso: cioè se la parte non avrebbe
contrattato senza l’errore in cui è caduta. In mancanza di tale estremo l’errore non rende
annullabile il contratto, ma può assumere importanza sotto il profilo della responsabilità
precontrattuale, quando abbia determinato un danno per l’errante che sarebbe stato

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evitato ove l’altro contraente avesse adempiuto al suo obbligo di informazione. Secondo
gli artt. 1429 e 1430 l’errore è essenziale quando:
- Cade sulla natura o sull’oggetto del contratto;
- Su una qualità della prestazione in concreto essenziale per il contraente;
- Sull’identità o sulle qualità dell’altro contraente;
- Sulla quantità della prestazione che non soddisfa proporzionalmente l’interesse del
contraente.
È infine rilevante l’errore di diritto, purché esso sia stato la ragione unica o principale del
contratto (art. 1428). Per errore di diritto si intende l’errore che cade sull’esistenza o sul
contenuto di una norma giuridica: si tratta del fatto che l’ignoranza di una norma mi induce
a valutare erroneamente una certa situazione e sulla base di tale valutazione mi induco a
stipulare un contratto. L’errore di diritto deve cadere su un elemento interno al contratto. Il
dolo è un inganno che induce in errore l’altro contraente; è causa di annullamento quando
i raggiri sono stati tali che, senza di essi, l’altro contraente non avrebbe stipulato (art.
1439): il dolo quindi deve essere determinante per il consenso. Quando invece il raggiro
non è stato decisivo per la stipulazione, il contraente ingannato potrà chiedere il
risarcimento del danno ma non l’annullamento del contratto (cd. dolo incidente, art.
1440). Il dolo di cui si è parlato è il dolus malus, mentre il dolus bonus consiste
nell’esagerata esaltazione della qualità della merce o del servizio: tali vanterie sono
tollerate e non comportano né annullabilità né risarcimento del danno. Quello di cui si è
parlato è il dolo commissivo, perché suppone la commissione di una qualche azione
volta ad ingannare; il dolo omissivo invece è l’inganno realizzato tramite un’omissione. Il
contratto è annullabile anche se il raggiro è stato usato da un terzo, ed era noto al
contraente che ne ha tratto vantaggio (art. 1439). La violenza è la minaccia di un male
ingiusto e notevole, alla persona o ai beni del contraente, esercitata al fine di estorcere il
consenso a un determinato contratto o negozio (art. 1435). Caratteristica della violenza è
la pressione psicologica esercitata sul soggetto. Si ritiene peraltro che la violenza non
esclude totalmente la volontà del soggetto, il quale se pure costretto ha tuttavia voluto:
una volontà c’è stata e la sanzione quindi è dell’annullabilità e non della nullità dell’atto. La
violenza viene anche chiamata violenza psichica o morale e si distingue da quella fisica,
quale costrizione materiale che non lascia nessuno spazio di libertà e la conseguenza è
quella della nullità o dell’inesistenza del contratto. La minaccia, per dar luogo
all’annullabilità, deve essere seria, cioè di tal natura da fare “impressione sopra una
persona sensata” (art. 1435). Coerente con tale impostazione è la regola sulla irrilevanza
del timore reverenziale, cioè della condizione psicologica di soggezione verso persone
autorevoli o influenti. La serietà della minaccia va valutata anche in relazione al male
minacciato, che deve riguardare la persona o i beni del contraente e deve essere ingiusto
e notevole: è notevole quando il danno è rilevante; è ingiusto quando lede un interesse
protetto dalla legge. La violenza è rilevante anche se, provenendo da un terzo, il
contraente che ne trae vantaggio non ne era a conoscenza (art. 1434). L’azione di
annullamento è la domanda giudiziale diretta a fare annullare il contratto e spetta “alla
parte nel cui interesse è stabilita dalla legge” (art. 1441) e cioè all’incapace e al contraente
il cui consenso è viziato da errore dolo o violenza (art. 1427). Sono eccezionalmente
previsti casi di annullabilità assoluta (artt. 119, 1441). L’azione si prescrive in 5 anni,
decorrenti dal momento in cui è cessato lo stato di incapacità ovvero si è scoperto l’errore,
il dolo o è cessata la violenza (art. 1442). Trascorso tale periodo non è più possibile
un’azione diretta a fare annullare l’atto. Rimane la possibilità di chiedere l’annullamento in
via d’eccezione, ove la parte tutelata sia convenuta in giudizio per l’esecuzione del

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contratto (art. 1442). Effetto dell’annullamento è l’eliminazione del contratto e la


caducazione del rapporto giuridico sorto da esso. La sentenza di annullamento è una
sentenza costitutiva, perché ad essa va riportata l’eliminazione del contratto e la
caducazione del rapporto. La sentenza ha effetto retroattivo: è come se il contratto non
fosse mai stato stipulato, non si è tenuti ad eseguirlo e le prestazioni eventualmente
adempiute vanno restituite in quanto “non dovute” o indebite (art. 2033) e quindi vanno
restituite. Rispetto ai terzi la retroattività non è assoluta; l’annullamento che non dipende
da capacità legale non pregiudica i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede,
salvi gli effetti della trascrizione (art. 1445). L’annullamento del contratto dà diritto al
risarcimento dei danni, sempre che vi sia colpa in capo all’altro contraente. A differenza del
contratto nullo, il contratto annullabile può essere sanato. La convalida è un atto di
conferma del contratto annullabile proveniente “dal contraente al quale spetta l’azione di
annullamento” (art. 1444). Requisito di essa è che il soggetto sia in condizione di stipulare
un valido contratto: deve essere cessata l’incapacità o la violenza, essere stato scoperto
l’errore o il dolo. La convalida è un atto negoziale e la relativa dichiarazione di volontà può
essere espressa o tacita. La convalida espressa è un’esplicita dichiarazione di volere
convalidare il contratto, accompagnata dalla menzione dell’atto e della causa che lo
invalida; la convalida tacita è un comportamento concludente, incompatibile con la
volontà di chiedere l’annullamento, da cui si desume l’intento di convalidare l’atto. Accanto
alla convalida opera il rimedio della rettifica in caso di errore, che consiste nell’offerta di
eseguire il contratto in modo conforme alle aspettative della controparte (art. 1432). La
rescindibilità è una forma particolare di invalidità contrattuale che si avvicina
all’annullabilità. Essa è sancita a tutela di interessi diversi e oscilla tra la garanzia della
libertà del volere e la salvaguardia del principio di equità contrattuale. Gli effetti della
rescissione ricadono sul rapporto contrattuale. Il contratto può essere rescisso quando
è stato concluso a condizioni inique per la condizione di alterata libertà del volere di
uno dei contraenti: può aversi rescissione quando le condizioni inique sono state
determinate dallo stato di bisogno ovvero dallo stato di pericolo in cui si trovava
uno dei contraenti. L’azione di rescissione compete solo alla parte che si sia trovata nello
stato di pericolo o bisogno; si prescrive in un anno dalla conclusione del contratto e non è
ammessa convalida (art. 1451) ma solo la rettifica, quale offerta di una modificazione del
contratto sufficiente per ricondurlo ad equità: il contraente contro cui è domandata la
rescissione può evitarla offrendo un supplemento di prestazione che ridia equilibrio al
contratto (art. 1450). La rescissione è pronunciata dal giudice e ha effetto retroattivo solo
tra le parti, ma non verso i terzi (art. 1452). Lo stato di pericolo è la condizione del
soggetto che contrae per la necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno
grave alla persona (art. 1447). Ne sono requisiti: l’attualità del pericolo, il fatto che il
pericolo sia conosciuto dall’altra parte, la gravità del pregiudizio temuto a beni personali (la
vita, l’onore). Non si può richiedere la rescissione quando il pericolo non è immediato o il
contratto è diretto a salvare beni patrimoniali. Non è richiesto che il pericolo sia reale e
neppure, che esso non fosse altrimenti evitabile e non volontariamente causato dal
contraente. Sussistendo tali estremi il contratto può essere rescisso, su domanda della
parte lesa, sempre che esso sia stato concluso a condizioni inique. L’iniquità delle
condizioni contrattuali è la sproporzione fra l’entità delle due prestazioni. Lo stato di
bisogno è la condizione di seria difficoltà economica o finanziaria in cui versa una parte.
Oltre ad essa sono requisiti per la rescissione del contratto la lesione e l’approfittamento
della controparte (art. 1448). La lesione è una specifica sproporzione fra le entità delle due
prestazioni superiore alla metà, mentre l’approfittamento dello stato di bisogno si realizza
quando l’altro contraente, consapevole dell’altrui difficoltà, trae vantaggio da tale
situazione.

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Capitolo 36: Gli effetti del contratto


“Il contratto ha forza di legge fra le parti” (art. 1372): il rapporto contrattuale costituisce
un vincolo tra le parti e “non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause
ammesse dalla legge”. Il contratto è perfezionato o concluso quando sussistono tutti i
requisiti essenziali; esso è anche efficace: produce cioè i suoi effetti. L’effetto
fondamentale del contratto consiste nel vincolo che si istaura fra le parti e che può
dirsi generale in quanto consegue a tutti i contratti (art. 1372). Si concretizza
essenzialmente nel divieto di sciogliersi unilateralmente dal rapporto e nell’obbligo di
“conservare integre le ragioni della controparte” che, si ritrova nel contratto sottoposto a
condizione sospensiva (cd. pendenza). Accanto ad esso, vi sono gli effetti finali (o propri,
o tipici) che variano in relazione al tipo di contratto e sono volti a soddisfare gli interessi
specifici che le parti hanno inteso regolare con il contratto (ad es. effetto finale della
locazione è l’obbligo di far godere un bene e l’obbligo di pagare il canone). Le parti
possono disporre degli effetti finali, ad esempio possono subordinarli al verificarsi di un
certo evento (la condizione) o rinviarli nel tempo (con l’apposizione di un termine). Non
possono invece escluderli del tutto, poiché se essi non dovessero mai prodursi il contratto
sarebbe inutile. Si distinguono:

- Contratti a effetti obbligatori, cioè quelli da cui derivano obbligazioni in capo ai


contraenti. Tutti i contratti producono effetti obbligatori in quanto obbligano una o
entrambe le parti ad un’attività necessaria per la realizzazione dell’interesse;
- Contratti a effetti reali, quelli che producono l’immediata attribuzione del diritto alla
controparte. Nei contratti a effetti reali si producono anche effetti obbligatori, come
consegnare la merce, pagare il compratore etc.
Per l’art. 1376 sono a effetti reali i contratti che hanno ad oggetto il trasferimento della
proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale o di
un altro diritto: essi sono la vendita, la donazione, la concessione, la cessione del credito.
L’effetto del trasferimento del diritto si produce immediatamente, senza bisogno che la
cosa sia consegnata. Gli effetti reali si realizzano immediatamente, per effetto del
consenso delle parti legittimamente manifestato; tali contratti si possono definire contratti
“a effetto traslativo immediato”. La regola espressa nell’art. 1376, circa l’immediato
trasferimento del diritto, può operare solo se sussistono determinati requisiti nell’oggetto
del contratto; infatti, si può trasferire immediatamente il diritto solo se il suo oggetto esista
attualmente, sia sufficientemente individuato nella sua specificità, sia nella titolarità di chi
ne dispone. Di conseguenza, ha soltanto effetti obbligatori la vendita che ha ad oggetto
cose generiche, future o altrui; ciò significa che dal contratto sorge l’obbligo per il venditore
di far acquistare il diritto. Ove il venditore non riesca a procurare all’acquirente il diritto
promesso, risulterà inadempiente al contratto (art. 1381). Per quanto riguarda la vendita di
cose generiche, la proprietà si trasmette con l’individuazione della cosa, che può avvenire
o con la separazione delle cose fatta d’accordo tra le parti o mediante la consegna al
vettore o allo spedizioniere (art. 1378). Da tale momento le cose escono dalla sfera del
venditore e la proprietà si trasferisce all’acquirente e per tanto la perdita o l’avaria sarà
pertanto a suo carico. Negli altri casi indicati, l’effetto reale del trasferimento del diritto si
produrrà solo con la venuta ad esistenza del bene e l’acquisto della proprietà da parte del
venditore, ma, sopravvenuti tali requisiti, il trasferimento si produrrò automaticamente in
capo all’acquirente (artt. 1472, 1478). La distinzione tra contratti consensuali e reali
riguarda il momento della formazione e attiene al modo in cui il contratto si conclude. Il
contratto si perfeziona con il semplice consenso e da esso poi seguiranno gli effetti, reali o

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obbligatori. In alcuni casi invece, il consenso non è sufficiente alla sua conclusione, in
quanto occorre anche la consegna della cosa oggetto del contratto. Il contratto si conclude
solo con la consegna della cosa, della res, e si parla di contratti reali. Il rapporto
contrattuale può sciogliersi solo “per mutuo consenso o per cause ammesse dalla
legge” (art. 1372); il suo scioglimento, e cioè la cessazione della sua efficacia, richiede il
consenso di entrambi i contraenti e ha di massimi effetti retroattivi: è come se il contratto
non fosse mai stato stipulato e le prestazioni già eseguite dovranno essere restituite. Lo
scioglimento del contratto consegue a uno specifico accordo, il mutuo dissenso, un vero
e proprio accordo contrattuale diretto ad estinguere il rapporto nato dal precedente
negozio. Si ritiene che per tale atto sia necessaria la stessa forma prevista per il contratto
che si vuole estinguere. Il recesso è un atto unilaterale recettizio col quale si esercita il
diritto di determinare lo scioglimento del rapporto. Salvo diverso accordo delle parti il
recesso non può essere esercitato dopo che il contratto è stato eseguito. La legge
consente di recedere dal contratto, liberamente o in presenza di alcuni presupposti.
Costituisce espressione di un principio generale la regola che ammette il recesso nei
contratti a esecuzione continuata o periodica che siano a tempo indeterminato, essendo
contrari all’interesse generale rapporti che vincolino le parti in perpetuo (art. 1373). Altra
ipotesi di recesso è prevista per i contratti effettuati al di fuori dei locali commerciali
(vendita porta a porta): l’operatore commerciale deve informare per iscritto il consumatore
sull’esistenza del diritto di recesso e sulle modalità per esercitarlo e al consumatore è
attribuito il diritto di recedere dal contratto entro il termine di 10 giorni lavorativi. Il recesso
si distingue dalla revoca, che è l’atto negoziale con cui si priva di efficacia un precedente
atto unilaterale.
Integrazione del contratto
Secondo gli articoli 1374 e 1375, il contratto obbliga le parti oltre a quanto è espresso,
anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, gli usi, l’equità e la buona
fede.
- Quanto alla legge, vengono in considerazione sia le norme dispositive, le quali
operano l’integrazione suppletiva, cioè suppliscono ad una mancata previsione
del contratto. L’integrazione cogente è invece operata dalle norme inderogabili e
determina il contenuto del rapporto anche contro una diversa volontà delle parti;
- Gli usi normativi sono vere e proprie fonti del diritto e hanno un ambito di operatività
molto ridotto, non potendo derogare a quanto previsto da norme di legge o di
regolamento. Gli usi negoziali sono le pratiche contrattuali diffuse nei diversi settori
di affari e usualmente praticate dagli operatori economici: esse sono le pattuizioni
ricorrenti nei diversi tipi di contratto e il codice il denomina clausole d’uso (art. 1340)
che si fondano sulla volontà delle parti e hanno natura negoziale e possono
derogare a norme dispositive di legge;
- L’equità è un criterio di giustizia sostanziale che si specifica nell’esigenza di
massima di un equilibrio dei sacrifici reciproci;
- La buona fede impone di salvaguardare l’altrui interesse nei limiti in cui sia
compatibile con il proprio.

Capitolo 37: Il contratto e i terzi


Il contratto “rispetto ai terzi non produce effetto che nei casi previsti dalla legge” (art.
1372); il contratto intercorso fra le parti non può né avvantaggiare né essere di pregiudizio

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ai terzi, cioè a coloro che siano rimasti estranei alla sua stipulazione è il cd. principio della
relatività degli effetti. Rispetto ai terzi il contratto produce effetti solo nei casi previsti
dalla legge (art. 1372). Tuttavia, il contratto costituisce o modifica posizioni giuridiche e
incide sulla titolarità di diritti con i quali anche i terzi possano venire in contatto o in
conflitto. Nell’ipotesi di conflitto tra più acquirenti di uno stesso diritto, si seguono le
seguenti regole: a) Se si tratta dell’acquisto di diritti reali su universalità di mobili, si applica
la regola generale della priorità dell’acquisto; b) quando si tratta dell’acquisto di diritti reali
su beni mobili, il conflitto si risolve in base alla regola sul possesso titolato, cioè prevale
colui che ha conseguito per primo il possesso; c) trattandosi dell’acquisto di diritti reali su
beni immobili o su mobili registrati, prevale colui che per primo ha effettuato la trascrizione
del suo acquisto, anche se di data posteriore; d) ove oggetto del contratto sia un credito,
prevale la cessione notificata o accettata per prima dal debitore con atto di data certa;
infine, se si tratta dell’acquisto di diritti personali di godimento su beni mobili o immobili,
prevale colui che per primo ha conseguito il godimento della cosa o colui che ha un titolo
di data certa anteriore.
Il contratto a favore di terzi
È possibile anche un’efficacia diretta del contratto nei confronti dei terzi solo quando si
tratti di effetti favorevoli e il terzo ne voglia profittare. Questo è il contratto a favore di
terzo, nel quale i contraenti prendono il nome di stipulante e promittente. Per effetto di tale
contratto, il terzo acquista il diritto di pretendere una prestazione dal promittente (art.
1411). Un esempio è l’assicurazione sulla vita a favore di un terzo. Il terzo acquista il diritto
per effetto della stipulazione a suo favore, come diretta conseguenza del contratto; non è
quindi necessaria una sua dichiarazione di accettazione né egli diviene parte sostanziale
del contratto. Il beneficiario rimane estraneo al rapporto contrattuale e non può agire con i
rimedi offerti dalla legge a tutela dei contraenti ma può solo ottenere l’esecuzione della
prestazione promessagli; invece il terzo può dichiarare di voler profittare della stipulazione,
ma tale dichiarazione non vale a renderlo parte del contratto, ma ha l’effetto di rendere
irrevocabile la stipulazione a suo favore. Finché non è accettata dal terzo infatti la
stipulazione non può essere revocata o modificata dallo stipulante. Nell’ipotesi in cui una
situazione appare all’esterno diversa da quella che è in realtà vige la regola generale
dell’autoresponsabilità: chi pone in essere dichiarazioni negoziali ne subisce le
conseguenze in base al loro significato oggettivo, ma solo nei limiti in cui abbia suscitato
nei terzi o nella controparte un ragionevole affidamento. Così, la dichiarazione emessa per
errore può essere annullata, purché l’errore fosse riconoscibile dall’altro contraente.
L’autoresponsabilità è una diretta conseguenza dell’autonomia contrattuale: chi emette
una dichiarazione negoziale è tenuto al tenore oggettivo di essa. La tutela dei terzi è
ancorata alla regola dell’affidamento incolpevole e all’obbligo di diligenza nell’intendere le
altrui dichiarazioni. Agli stessi criteri fa riferimento il principio dell’apparenza: coloro che,
senza colpa, hanno fatto affidamento su una situazione apparente mantengono i diritti
acquisiti su tale base.
Il contratto simulato
Si ha simulazione quando le parti fingono di stipulare un contratto ma in realtà non ne
vogliono gli effetti (simulazione assoluta) ovvero vogliono gli effetti di un contratto diverso
(simulazione relativa). Questo risultato viene raggiunto affiancando alla dichiarazione
contrattuale una controdichiarazione nella quale si chiarisce il reale intendimento delle
parti. sottospecie di simulazione relativa è la cd. interposizione fittizia di persona:
stipulo una donazione a favore di Tizio ma in realtà, il mio intendimento è di beneficiare
Caio. La simulazione è possibile sia nei contratti, sia negli atti unilaterali recettizi, ove vi sia
accordo tra il dichiarante e il destinatario. Gli effetti tra le parti del contratto simulato sono

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congrui alla natura del negozio quale atto che nasce dalla volontà degli interessati: il
negozio simulato è lecito e produce gli effetti realmente voluti. Pertanto nella simulazione
assoluta non si produce nessun effetto visto (art. 1414) visto che le parti in realtà non li
vogliono; nella simulazione relativa il contratto simulato non produce effetti (perché non
voluti), ma ha effetto il contratto dissimulato (quello nascosto dietro il contratto
apparente) in quanto effettivamente voluto, a condizione che ne sussistano i requisiti di
sostanza e di forma. Le parti possono agire in giudizio per fare dichiarare la simulazione:
senza limiti di tempo in caso di simulazione assoluta, entro dieci anni per quella relativa.
Nella disciplina degli effetti della simulazione rispetto ai terzi, si distingue tra terzi in
genere, terzi aventi causa dal simulato acquirente e terzi creditori. La regola fondamentale
è dettata nell’art. 1415: i terzi controinteressati possono far valere la simulazione quando
essa pregiudica i loro diritti. Quindi, chiunque vi abbia interesse è ammesso a far prevalere
la realtà sull’apparenza. La seconda regola in materia è contenuta nel 1° comma del
medesimo articolo: la simulazione non può essere opposta ai terzi che in buona fede
hanno acquistato diritti dal titolare apparente, cioè dal simulato acquirente. Quanto ai
creditori, anch’essi sono terzi rispetto all’atto simulato e dunque vale la regola espressa
nell’art. 1415: essi possono far valere la simulazione che pregiudichi i loro diritti. Nel caso
di conflitto fra i creditori, la legge dispone che i creditori del simulato alienante sono
preferiti ai creditori del simulato acquirente se il loro credito è di data anteriore alla
simulazione. Il contratto fiduciario realizza un’attribuzione effettiva a un soggetto in vista
di uno scopo ulteriore rispetto al contratto. Ad esempio, temendo una confisca dei miei
beni li vendo ad un amico, con l’intesa che me li rivenderà una volta cessato il pericolo. La
differenza rispetto alla simulazione sta nel fatto che qui l’effetto è realmente dovuto, in
quanto è strumentale rispetto al raggiungimento di un fine ulteriore. Il negozio fiduciario è
lecito nei limiti in cui è lecito lo scopo finale di tutta l’operazione e se questo è illecito lo
sarà anche tutta l’operazione. Se il fiduciario non adempie l’impegno di ritrasferire il bene,
il fiduciante non avrà un’azione di rivendica per farselo restituire ma potrà solo chiedere il
risarcimento dei danni.

Capitolo 38: La rappresentanza


La rappresentanza è il potere attribuito ad un soggetto (rappresentante) di compiere
atti giuridici che producano effetti direttamente nella sfera di un altro soggetto
(rappresentato). La rappresentanza diretta è il potere di compiere atti giuridici in nome e
nell’interesse del rappresentato. Tale potere è conferito dalla legge o dall’interessato (art.
1387). Il rappresentante è parte del contratto in senso soltanto formale, in quanto emette
la dichiarazione negoziale; parte sostanziale dell’atto e destinatario degli effetti è il
rappresentato, nella cui sfera si producono direttamente e immediatamente le
conseguenze giuridiche. La rappresentanza è un istituto ammissibile sia nei contratti che
negli atti unilaterali ed è esclusa solo in alcuni atti a carattere strettamente personale come
il matrimonio e il testamento. Fonte del potere di rappresentanza è sia la legge sia la
volontà privata (art. 1387). La rappresentanza legale è quella conferita dalla legge, come
ad es. nelle ipotesi di incapacità di agire. Si parla di questo tipo di rappresentanza anche a
proposito degli enti giuridici. Il potere di rappresentanza è conferito al fine di realizzare
l’interesse del rappresentato. La rappresentanza indiretta è una forma di collaborazione
nell’altrui attività giuridica che presenta alcuni punti di contatto con la rappresentanza vera
e propria, ma se ne distacca per altri. Essa è caratterizzata dall’agire di un soggetto
nell’interesse altrui ma in nome proprio: il rappresentante diviene parte formale e
sostanziale del contratto, che produrrà effetti in capo al rappresentante stesso, il quale poi,
con un atto di trasferimento dovrà riversarli nella sfera giuridica dell’interessato. La
rappresentanza volontaria è conferita con un apposito negozio, la procura: è un atto

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unilaterale volto a far conoscere ai terzi che il delegato ha il potere di compiere atti giuridici
in nome del delegante; ha natura negoziale e la relativa dichiarazione può essere
espressa o tacita. La delega può essere conferita per singoli affari determinati (procura
speciale) o per tutti gli affari del rappresentato (procura generale). Il potere di
rappresentanza si estingue per cause attinenti sia alla procura, sia al rapporto interno di
gestione tra rappresentante e rappresentato. La revoca della procura è sempre possibile,
salvo il caso che il potere sia conferito anche nell’interesse del rappresentante.
L’estinzione del rapporto di gestione comporta il venir meno del potere rappresentativo.
Altre cause di estinzione sono la sopravvenuta incapacità o il fallimento del rappresentante
o del rappresentato, la scadenza del termine, il compimento dell’affare per il quale il potere
è stato conferito. Mentre nella rappresentanza legale è il rappresentante che dev’essere
capace di agire, in quella volontaria è il rappresentante che deve avere la capacità d’agire;
il rappresentante volontario è sufficiente che abbia la capacità di intendere e di volere
“avuto riguardo alla natura e al contenuto del contratto” (art. 1398). Per quanto riguarda i
vizi della volontà è sempre al rappresentante che deve aversi riguardo in quanto è la sua
volontà che dà vita al negozio. Se il rappresentante invece di perseguire l’interesse del
rappresentato tutela quello proprio o altrui l’atto si dirà compiuto in conflitto di interessi col
rappresentato; la legge valuta come illecito tale comportamento per l’abuso del potere
rappresentativo e prevede che il contratto è annullabile (art. 1394): l’annullabilità è esclusa
quando sia escluso ogni possibile conflitto di interessi. È così ad esempio per il contratto
con sé stesso (art. 1395), in cui il rappresentante assume una doppia veste, contrattando
in proprio e nella qualità di procuratore. L’art. 1398 denomina rappresentanza senza
potere il caso di chi contratta come procuratore di altri “senza averne i poteri o eccedendo
i limiti delle facoltà conferitegli”: è il cd. falso rappresentante; il contratto da lui stipulato è
inefficace, non produce effetti. Egli è responsabile dei danni sofferti dall’altro contraente
che abbia confidato senza sua colpa nella validità del contratto (art. 1398). Tale contratto
non è nullo e l’interessato lo può ratificare, rendendo efficace l’atto compiuto dal falso
rappresentante con effetto retroattivo: l’atto si considera efficace in capo al ratificante fin
dal principio (art. 1399). La ratifica è un negozio unilaterale con cui l’interessato si
attribuisce gli effetti dell’atto, e viene comunemente intesa come una procura successiva.
Il contratto per persona da nominare
Si dice “per persona da nominare” il contratto nel quale una parte si riserva la facoltà di
nominare successivamente il soggetto nella cui sfera il contratto produrrà i suoi effetti (art.
1401). Se nel termine stabilito segue la dichiarazione di nomina, accompagnata
dall’accettazione del nominato, il contratto produrrà i suoi effetti in capo al designato fin dal
momento in cui è stato concluso; se il designato non accetta o la nomina non viene fatta, il
contratto produce effetti in capo a colui che aveva stipulato (art. 1405). Il contratto può
produrre effetti alternativamente in capo alla parte formale o in capo ad un altro soggetto
nominato successivamente. La figura costituisce una forma di rappresentanza diretta: si
tratta di una rappresentanza eventuale di persone incerta. È eventuale perché se manca
la nomina o l’accettazione del designato il contratto produce effetti tra le parti originarie; è
di persona incerta perché lo stipulante non rivela subito il nome dell’interessato. La
dichiarazione di nomina attribuisce al designato la posizione di parte sostanziale del
contratto e deve essere fatta entro 3 giorni. La cessione del contratto è il negozio con cui
una parte, col consenso dell’altra, sostituisce a sé un terzo nei rapporti derivanti da un
contratto a prestazioni corrispettive (art. 1406). Non è un contratto tipico, e non ha una
causa propria, ma si caratterizza per il suo oggetto rimanendo segnata dalla causa
concreta per cui essa è fatta. È un contratto plurilaterale, poiché per la sua validità occorre
il consenso del contraente ceduto; non ha effetto retroattivo e i soggetti del negozio
prendono il nome di cedente (colui che cede la propria posizione contrattuale), ceduto (il

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contraente originario che rimane vincolato), cessionario (il nuovo soggetto al quale si
trasferisce il rapporto contrattuale). Il cedente è tenuto a garantire verso il cessionario la
validità del contratto trasferito. Esistono anche numerose ipotesi di cessione legale del
rapporto, in cui la legge prevede il trasferimento automatico di un rapporto contrattuale da
un soggetto a un altro. Con il subcontratto si dà vita ad un nuovo contratto, derivato da
quello precedente, che continua a sussistere tra le parti originarie: qui accade che uno dei
contraenti originari utilizza la posizione contrattuale che ne deriva per stipulare un nuovo
contratto con un terzo.

Capitolo 39: L’esecuzione del contratto. La risoluzione


Nel momento in cui il contratto è efficace, deve essere eseguito: cioè devono adempiersi
le sue obbligazioni. I criteri che presiedono all’esecuzione del contratto sono gli stessi
dell’adempimento delle obbligazioni (artt. 1175 ss.), tenuto conto che l’obbligo di buona
fede (art. 1375) impone di tenere conto che le singole prestazioni sono collegate le une
alle altre. Una volta che il contratto è stato eseguito esso ha adempiuto alla sua funzione.
Le prestazioni sono in rapporto di corrispettività o reciprocità e tale nesso che lega le
controprestazioni prende il nome di sinallagma contrattuale: ciascuna prestazione è la
giustificazione dell’altra e si comprende come la mancanza o il difetto dell’una toglie
giustificazione all’altra. La legge dunque prevede alcuni istituti volti a garantire tale
sinallagma. Nei contratti a prestazioni corrispettive ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di
adempiere la sua obbligazione se l’altro non adempie o non offre di adempiere
contemporaneamente la propria: è la cd. eccezione di inadempimento, considerata come
un mezzo di autotutela a disposizione di ciascuno. Tuttavia è possibile che le parti
escludano pattiziamente la possibilità di eccepire l’altrui inadempimento con la clausola
solve et répete, che costituisce una clausola limitativa della facoltà di proporre eccezioni
(art. 1462). Per effetto di tale clausola la parte vincolata non può opporre eccezioni al fine
di evitare o ritardare la prestazione dovuta: intanto dovrà pagare e successivamente far
valere le sue ragioni. Questo tipo di clausola è presente nei contratti standard, conclusi
tramite moduli o formulari. Infine è previsto che ciascun contraente può sospendere
l’esecuzione della prestazione se le condizioni patrimoniali dell’altro sono divenute tali
da porre in pericolo il conseguimento della controprestazione (art. 1461). Per il caso di
inadempimento il contraente fedele ha due possibilità di tutela (art. 1453):
- Manutenzione del contratto, che si consegue con la domanda in giudizio volta ad
ottenere la condanna all’adempimento: si chiederà al giudice di condannare il
contraente ad eseguire il contratto e di disporne, eventualmente, l’esecuzione
forzata in forma specifica (art. 2930). Anche chiedendo l’adempimento, il contraente
conserva la facoltà di chiedere la risoluzione del contratto;
- Risoluzione: è lo scioglimento del rapporto contrattuale per cause successive alla
sua stipulazione (art. 1453). Essa è prevista nei contratti a prestazioni corrispettive
per cause di inadempimento, impossibilità sopravvenuta, eccessiva onerosità
sopravvenuta. Può operare di diritto, automaticamente, al verificarsi di determinati
presupposti, o per effetto di una sentenza; in entrambi i casi ha efficacia retroattiva
tra le parti, ma soltanto tra di esse (art. 1458). Inoltre, quando la risoluzione è
determinata da fatti imputabili a uno dei contraenti, il contraente fedele ha diritto al
risarcimento dei danni.
La risoluzione per inadempimento è lo scioglimento del rapporto determinato
dall’inadempimento imputabile di uno dei contraenti. Di fronte all’altrui inadempimento, il
contraente fedele può chiedere l’esecuzione del contratto o la sua risoluzione; chiesto

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l’adempimento, potrà sempre optare successivamente per lo scioglimento del contratto,


ma una volta chiesta la risoluzione, non potrà più pretendere l’adempimento né, il
contraente in ritardo potrà più adempiere al contratto (art. 1453). Per potersi avere
risoluzione occorre che l’inadempimento sia grave, sia cioè di non scarsa importanza
avuto riguardo all’interesse della controparte (art. 1455). Possono aversi due tipi di
risoluzione per inadempimento:
- Risoluzione giudiziale, che si realizza con sentenza del giudice, a seguito di
domanda dell’interessato e previa verifica della sussistenza dei presupposti per la
risoluzione stessa e della gravità dell’inadempimento. La sentenza ha valore
costitutivo: lo scioglimento del rapporto si verifica al momento della pronuncia e per
effetto di essa;
- Risoluzione di diritto o automatica, che può aversi nei seguenti casi:
o Diffida ad adempiere: è il caso in cui uno dei contraenti intima per iscritto
alla controparte di adempiere entro un certo termine, con l’avvertenza che in
mancanza, il contratto si intenderà risolto. In questo modo si evitano i fastidi
e le spese di una lite giudiziaria, ottenendo la risoluzione immediata;
ovviamente in caso di contestazione si ricorrerà al giudice, il cui compito sarà
quello di verificare l’esistenza dei presupposti per la risoluzione;
o Termine essenziale: è l’ipotesi in cui l’adempimento tardivo sarebbe del
tutto inutile per la controparte (art. 1457): una prestazione tardiva non
soddisfa neppure in misura ridotta l’interesse sotteso al contratto che è ormai
definitivamente venuto meno;
o Clausola risolutiva espressa: è la clausola contrattuale in cui si prevede
che in caso di inadempimento di una determinata obbligazione, il contratto si
risolverà automaticamente (art. 1456). Occorrerà che la parte interessata
emetta una dichiarazione in cui comunica all’altra che intende valersi della
clausola risolutiva: da quel momento il contratto è risolto. La clausola, per
essere valida, deve fare riferimento a una determinata, specifica
obbligazione.
Risoluzione per impossibilità sopravvenuta
Nei contratti a prestazioni corrispettive l’impossibilità sopravvenuta della prestazione è
causa di risoluzione del contratto: in questo caso non c’è colpa del contraente debitore,
dunque non si potrà far luogo a risarcimento. La parte liberata per la sopravvenuta
impossibilità della prestazione non può chiedere la controprestazione e deve restituire
quella che abbia già ricevuto secondo le norme sulla ripetizione dell’indebito (art. 1463).
Così ad es. se il concerto non si terrà più, ho diritto al rimborso del biglietto. Ove
l’impossibilità sia solo parziale, v’è diritto a una riduzione della controprestazione, sempre
che, vi sia interesse ad una prestazione ridotta (art. 1464).
Risoluzione per eccessiva onerosità
Può essere richiesta nel momento in cui eventi eccezionali e imprevedibili alterino
l’originario equilibrio di valore stabilito fra le due prestazioni. Una prestazione diviene
eccessivamente onerosa per una parte e si realizza un’alterazione funzionale della causa
(art. 1467). Il rimedio vuole ovviare a uno squilibrio successivo, a una onerosità
sopravvenuta rispetto alla stipula del contratto. Questo tipo di risoluzione può essere
chiesta solo se ricorrono le condizioni indicate nell’art. 1467:

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- Deve trattarsi anzitutto di contratti a esecuzione differita, a esecuzione continuata o


periodica, e il rimedio può operare solo per le prestazioni future e non per quelle già
eseguite;
- Occorre che l’onerosità sia eccessiva: cioè deve superare l’alea normale del
contratto, ossia quell’ordinario livello di rischio sempre connesso a tutte le
operazioni economiche;
- L’onerosità deve essere dovuta ad eventi straordinari e imprevedibili al momento
della stipula, tali da oltrepassare la sfera di rischi che ciascuno è in grado di
prevedere.
Ricorrendo tali estremi la parte pregiudicata potrà chiedere la risoluzione, ma la
controparte può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto.

Gli atti unilaterali


Capitolo 40: Le promesse unilaterali
Un’altra fonte di obbligazione è costituita dalle promesse unilaterali (titolo 4° del 4°libro,
art. 1987 ss.), che rientra tra gli atti negoziali unilaterali. L’art. 1987 stabilisce il principio
per cui “la promessa unilaterale di una prestazione non produce effetti obbligatori fuori dei
casi ammessi dalla legge”. Da ciò la dottrina deduce il principio della tipicità degli atti
unilaterali: sono cioè ammissibili solo le figure considerate espressamente dalla legge e
con gli effetti specificamente previsti. Le promesse unilaterali ammesse dal codice sono:
- La promessa di pagamento: è l’impegno unilaterale di effettuare una prestazione
a favore del destinatario della promessa;
- La ricognizione di debito: è la dichiarazione unilaterale con cui un soggetto
riconosce, anche implicitamente, di essere debitore di una certa somma;
Tuttavia, non basta che mi impegni a pagare o che riconosca di essere debitore per
essere realmente obbligato a farlo, ma occorre anche una causa (lecita e meritevole di
tutela) che giustifichi giuridicamente il mio obbligo. Dunque, la promessa di pagamento e
la ricognizione di debito non sono fonte di obbligazioni al pari del contratto o del fatto
illecito.
- La promessa al pubblico è una vera e propria fonte di obbligazione sancita
dall’art. 1989, che la definisce come “la promessa di una prestazione a favore di chi
si trovi in una determinata situazione o compia una determinata azione”;
La promessa è un negozio unilaterale non recettizio, poiché non ha un destinatario
determinato ma è rivolta alla generalità (art. 1334), ed è vincolante non appena sia resa
pubblica: ha efficacia per un anno e può essere giustificata solo per giusta causa. Netta è
la distinzione con l’offerta al pubblico: proposta contrattuale liberamente revocabile che
non vincola fino a quando non è accettata. La promessa al pubblico è immediatamente
vincolante e non richiede accettazione. Inoltre è un atto gratuito.
- I titoli di credito sono dei documenti che contengono la promessa di una
prestazione a favore di chi risulti possessore del documento stesso, purché
legittimato nelle forme prescritte dalla legge (art. 1992). Tali forme sono le cambiali
e l’assegno.

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Caratteristica dei titoli di credito è quella per cui la prestazione in essi indicata si incorpora
nel documento, il quale non ha solo funzione probatoria ma serve a realizzare una rapida
e sicura circolazione del credito portato sul titolo. Si distinguono diversi tipi di titoli di
credito:
- Titoli al portatore (ad es. buoni del tesoro): qui il trasferimento del titolo si opera
con la consegna e il possessore è legittimato all’esercizio del credito in base alla
semplice prestazione di esso (art. 2003);
- Titoli all’ordine (cambiali, assegno): si tratta di titoli, intestati a una determinata
persona, il cui trasferimento si opera con la consegna del documento e la sua
“girata”, ossia l’autorizzazione dell’intestatario a pagare a un altro (art. 2008);
- Titoli nominativi (ad es. le obbligazioni di una società): hanno la caratteristica di
essere intestati a favore di una persona non solo sul documento, ma anche nel
registro dell’emittente. Il trasferimento si opera con la consegna e con la doppia
intestazione a favore del prenditore, sia sul titolo sia sul registro dell’emittente (art.
2021).

I fatti illeciti
Capitolo 41: La responsabilità per fatto illecito
Costituiscono fonte di obbligazione anche i fatti illeciti, cioè i fatti e gli atti che cagionano
un danno ad altri. Essi sono fonte di obbligazione risarcitoria: obbligano a risarcire il danno
cagionato ad altri e l’istituto prende il nome di responsabilità extracontrattuale. La qualifica
extracontrattuale vale a sottolineare che si tratta di responsabilità che nasce al di fuori di
uno specifico rapporto obbligatorio fra le parti; si tratta della violazione del precetto
generale denl neminem laedere: non arrecare danno agli altri. La differenza da quello
penale è che quello penale è un illecito tipico in quanto si può essere condannati ad una
pena solo se il fatto commesso è specificatamente previsto come reato dalla legge,
mentre l’illecito civile è atipico cioè non è necessario che preveda specificatamente un
determinato comportamento ma sufficiente che si sia violato un interesse tutelato dalla
legge affinché si abbia responsabilità civile. Il fatto costituisce il primo elemento della
responsabilità e può consistere sia in un fatto giuridico sia in un atto giuridico che la legge
non predetermina in modo rigido. Sono rilevanti sia i fatti commissivi sia i fatti omissivi. Un
secondo elemento della responsabilità è il danno il quale consiste nella lesione di un
interesse tutelato dalla legge. Esso si può dire sia patrimoniale, quando il pregiudizio
riguarda un bene economico come il denaro, sia non patrimoniale, quando il pregiudizio
riguarda un bene della personalità come l’onore. Il danno può essere biologico (inteso
come lesione dell’integrità psicofisica della persona); morale (inteso come dolore o
sofferenza). A tenore dell’art. 2043 il danno deve essere ingiusto cioè deve ledere un
interesse o un diritto protetto dalla legge. Per quanto riguarda i diritti di credito non vi è una
lesione del diritto che provenga dal debitore inadempiente in quanto in questo caso si avrà
una pacifica responsabilità contrattuale per inadempimento. Viene però in considerazione
la lesione che provenga da terzi, i quali rendano impossibile l’adempimento del debitore
obbligato: i terzi non sono tenuti ad adempiere l’obbligazione che può farsi valere nei
confronti del debitore quindi dai terzi non può venire una violazione dell’obbligo ma
un’alterazione delle condizioni esterne che rende impossibile l’adempimento (così avviene
se il fatto illecito del terzo provoca la morte del debitore). Un altro requisito della
responsabilità è il nesso di causalità tra il fatto e l’evento dannoso: rilevano solo i danni
che siano conseguenza diretta ed immediata dell’illecito. Se più persone hanno concorso

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a cagionare il danno, sono tutte tenute al risarcimento con il vincolo di solidarietà anche se
sia stato diverso il contributo di ciascuno (art. 2055). Nei rapporti interni fra i
corresponsabili la responsabilità si suddivide in proporzione alla gravità delle rispettive
colpe. Per importare responsabilità, il comportamento deve essere doloso o colposo: si ha
dolo quando l’evento è voluto dall’agente come conseguenza della propria azione (l’evento
è lo scopo cui è diretta l’azione del soggetto); si ha colpa quando vi sia negligenza,
imprudenza o imperizia e l’importante è che non sia direttamente voluto cioè che non sia
lo scopo cui è diretta l’azione (ciò che si rimprovera al soggetto è di non avere osservato la
diligenza media). L’atto dannoso inoltre deve essere imputabile al suo autore, cioè deve
essere commesso con coscienza e volontà. L’imputabilità può mancare per difetto di
coscienza o libertà nei seguenti casi:
- Non sarà responsabile chi non aveva la capacità di intendere e di volere al
momento in cui ha commesso il fatto (art. 2046): lo stato di incapacità non deve
dipendere da colpa del soggetto;
- L’imputabilità è esclusa quando l’agente pur essendo capace, non ha piena
libertà di scelta (cause di giustificazione): La responsabilità è esclusa sia
quando il comportamento è tenuto nell’esercizio di un diritto sia quando il danno è
cagionato per legittima difesa. La responsabilità è attenuata quando sussiste uno
stato di necessità cioè si è agito per la necessità di salvare sé o altri dal pericolo di
un danno grave.
L’art. 2043 fa gravare la responsabilità su colui che ha commesso il fatto ma nel diritto
privato sono previste ipotesi in cui la responsabilità incombe su soggetti diversi e si parla
dunque di responsabilità indiretta nei casi di responsabilità dei genitori, per il danno
cagionato dal fatto illecito dei figli minori in quanto chi è tenuto alla vigilanza su altre
persone risponde del danno da queste cagionato (art. 2047): genitori e insegnanti
rispondono in via esclusiva del danno cagionato dalle persone loro affidate quando queste
siano incapaci di intendere e di volere; rispondono in via concorrente con le persone loro
affidate quando esse siano naturalmente capaci. La legge prevede che i soggetti tenuti a
rispondere dell’operato altrui possano liberarsi provando di non avere potuto impedire il
fatto. Responsabilità dei datori di lavoro, per i danni arrecati dai dipendenti
nell’esercizio delle loro incombenze: il datore risponderà dell’illecito in quanto di esso
devono rispondere gli autori materiali mentre il danneggiato potrà agire per il risarcimento
sia verso l’agente sia verso il responsabile indiretto. La responsabilità oggettiva è una
sottospecie di responsabilità extracontrattuale caratterizzata dal fatto che non è richiesto il
requisito di dolo o della colpa: il risarcimento potrà ottenersi sulla base del solo rapporto di
causalità tra un fatto illecito e un danno. Le ipotesi di responsabilità oggettiva sono:
- Esercizio di attività pericolosa: l’esercitante sarà responsabile dei danni cagionati
ai terzi salvo che dimostri di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il
danno (art. 2050);
- Circolazione dei veicoli senza guida di rotaie: cioè dei veicoli liberi di muoversi
sulla strada senza un percorso prestabilito. Il conducente è responsabile dei danni
prodotti dalla circolazione del veicolo se non prova di avere fatto tutto il possibile
per evitare il danno. Responsabile in solido con il conducente è il proprietario del
veicolo a meno che non provi che la circolazione è avvenuta contro la sua volontà;
- Cose o animali in custodia: la responsabilità grava su chi utilizza o tiene presso di
sé cose o animali che cagionano danni ad altri. Qui la responsabilità è esclusa solo
se si provi il caso fortuito cioè il sopravvenire di un evento che si inserisce come
fattore determinante nel rapporto di causalità;

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- Rovina di edificio o di una sua parte (art. 2053): il proprietario è responsabile dei
danni se non prova che la rovina è dovuta a causa diversa dal difetto di
manutenzione o vizio del costruttore;
- Prodotti difettosi: è una figura introdotta al fine di superare le difficoltà riscontrate
nel risarcimento dei danni derivanti ai consumatori da prodotti industriali, cibi o
prodotti agricoli. Il produttore è responsabile dei danni derivanti dai difetti di tali beni
i quali sono considerati difettosi quando non offrono la sicurezza che ci si può
legittimamente attendere in relazione ad alcune clausole.
Il risarcimento consiste in una prestazione atta a riparare la perdita subita dal
danneggiato. La forma ordinaria è quella del risarcimento per equivalente cioè effettuata
con la prestazione di una somma di denaro pari al valore del pregiudizio. Quando si tratta
di danno alle persone che abbia conseguenze permanenti, la liquidazione può avvenire
anche sotto forma di rendita vitalizia (art.2057), ma nella maggior parte dei casi si
preferisce liquidare una somma unica rapportata ai prevedibili, mancati guadagni futuri. Il
risarcimento può avvenire anche in forma specifica cioè tramite il ripristino o la
reintegrazione della situazione preesistente all’illecito. Nella responsabilità contrattuale è
sufficiente che il creditore insoddisfatto provi il suo credito e l’entità del danno: sarà il
debitore a dovere provare che l’inadempimento non gli è imputabile (art.1218). Nella
responsabilità extracontrattuale invece è il danneggiato che deve provare non solo l’illecito
e l’entità del danno, ma anche la colpa o il dolo di chi ha commesso l’illecito. La
responsabilità per fatto illecito è soggetta a prescrizione più breve di quella prevista per
l’inadempimento (art. 2947). Nell’illecito può mancare un danno oppure l’atto dannoso può
in certi casi non essere illecito. La qualifica di illiceità deriva dal dato obiettivo della
violazione di una norma e sono previsti specifici mezzi di tutela volti a reagire contro tali
violazioni della legge. Le misure preventive sono dirette ad impedire il compimento
dell’illecito: è la cd. Condizione inibitoria (che inibisce, vieta un certo comportamento). Le
misure reintegrative hanno la funzione di reintegrare il soggetto leso nella situazione
giuridica alterata. Gli atti leciti dannosi sono quegli atti consentiti dalla legge che sono
fonte di danno per gli altri. In tali ipotesi la legge contempera gli interessi in conflitto
consentendo l’attività dannosa ma imponendo al contempo l’obbligo di corrispondere
un’indennità al danneggiato che costituisce solo un equo ristoro.

Altri fatti fonte di obbligazione


Capitolo 42: Le obbligazioni nascenti dalla legge
L’art. 1173 richiama anche ogni altro fatto idoneo a produrre obbligazioni in conformità
dell’ordinamento giuridico: sono molti i fatti che costituiscono fonte di obbligazione alla
stregua di specifiche previsioni normative ad es. il perimento della cosa in garanzia (art.
2743). Gli articoli raggruppati, raggruppati dalla legge nel codice, che sono caratterizzati
nell’idoneità di produrre obbligazioni, vano dall’art 2028 al 2042. Non è la legge ad essere
fonte diretta di un’obbligazione infatti anche quando l’obbligo deriva da una disposizione
normativa è previsto un fatto al cui verificarsi è collegata la nascita dell’obbligazione. Le
figure considerate sono:
- La gestione di affari altrui: la legge considera l’ipotesi in cui un soggetto, senza
averne il potere, gestisce un affare altrui. In mancanza di un apposito potere di
rappresentanza nessuno può vincolare giuridicamente altre persone e l’introduzione
negli affari altrui costituisce di regola un illecito. Nel caso in cui l’interessato non è in
grado di provvedere se ad es. faccio riparare la porta del mio vicino perché

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scardinata dai ladri, non compio un atto riprovevole, ma un atto di solidarietà. L’art
2028 dice che se qualcuno assume spontaneamente la gestione di un affare altrui,
è obbligato continuarla fino a quando l’interessato non è in grado di provvedervi
personalmente. L’interessato rimane vincolato alle obbligazioni assunte dal gestore
in suo nome e deve rimborsarlo per le spese necessarie. Condizione per tali
obblighi è che la gestione sia stata utilmente iniziata;
- Il pagamento dell’indebito: si ha pagamento dell’indebito quando una persona
esegue una prestazione non dovuta: la legge considera questo pagamento come
fonte di un’obbligazione del ricevente e chi ha pagato ha il diritto di riavere la
prestazione eseguita. L’indebito è oggettivo quando la prestazione non è dovuta da
nessuno e in tal caso chi ha pagato ha diritto alla restituzione, ai frutti e agli
interessi; l’indebito è soggettivo quando la prestazione non è dovuta
soggettivamente, non è dovuta cioè da chi effettivamente ha pagato ma è dovuta
da una terza persona. Chi ha pagato il debito ha diritto alla restituzione solo se il
pagamento è avvenuto per errore scusabile: se non c’è errore si ha un’ipotesi di
adempimento del terzo (art. 1180), se l’errore inescusabile, peggio per chi ha
pagato. Fanno eccezione alla regola del pagamento dell’indebito le obbligazioni
naturali: il codice chiama obbligazioni naturali quegli obblighi che nascono sul
terreno dei doveri morali e sociali, che non danno luogo a vere e proprie
obbligazioni giuridicamente vincolanti. Se tali obbligazioni vengono
spontaneamente adempiute, la legge prevede che non è ammessa la ripetizione di
quanto è stato spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o sociali,
salvo che la prestazione sia stata eseguita da un incapace (art. 2034). Analoga
previsione è sancita anche dall’art. 2035 per le prestazioni eseguite per uno scopo
contrario al buon costume: l’azione di ripetizione non è ammessa da chi sia
partecipe dell’immoralità;
- L’arricchimento senza causa: lo si ha quando un soggetto consegue un
incremento patrimoniale in danno di un altro senza che tale incremento abbia un
adeguata giustificazione. Gli spostamenti patrimoniali da un soggetto ad un altro
devono essere sostenuti da una causa lecita e meritevole di tutela che li giustifichi
giuridicamente: non solo le prestazioni indebite vanno restituite ma chi ha
comunque conseguito un arricchimento ingiustificato in danno di altri è tenuto a
restituire l’arricchimento o ad indennizzare l’impoverito. La legge ha sancito la
regola dell’azione generale di arricchimento senza causa all’art. 2041: chi, senza
giusta causa, si è arricchito in danno di un’altra persona è tenuto, nei limiti
dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione
patrimoniale. Questa azione ha 2 caratteristiche: si dice generale perché in genere
è concessa a chiunque si trovi nelle condizioni sopra dette; è residuale perché è
concessa nei casi in cui il danneggiato non può esercitare un’altra azione per farsi
indennizzare del pregiudizio. Le ipotesi in cui più frequentemente può venire in
considerazione l’azione generale di arricchimento senza causa sono quelle in cui
l’arricchimento deriva da: atto dell’arricchimento che non sia fonte di responsabilità
civile extracontrattuale; atto dell’impoverito il quale esercita una prestazione non
dovuta per la quale non sia in concreto esercitabile la ripetizione di indebito. Il limite
dell’azione di arricchimento è quello che non si può chiedere più della propria
perdita patrimoniale né più dell’effettivo vantaggio altrui.

La tutela dei diritti

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Capitolo 43: La trascrizione


La trascrizione è una forma di pubblicità dichiarativa che riguarda atti relativi a beni
immobili e beni mobili registrati: si attua riportando su un pubblico registro gli atti che
incidono sulle vicende giuridiche di tali beni in modo da consentire a tutti gli interessati di
prenderne coscienza. La pubblicità dichiarativa è una forma di pubblicità il cui
assolvimento non condiziona la validità o l’efficacia degli atti ma solo l’opponibilità ai terzi:
la compravendita di un immobile sarà valida ed efficace tra le parti anche se non sia
trascritta, ma non potrà essere opposta a tutti i terzi. Per comprendere meglio bisogna
richiamare il principio consensualistico: il contratto ha immediata efficacia traslativa della
proprietà senza che sia necessaria la consegna della cosa (art. 1376) ma tale regola non
dà sicurezza all’acquirente in quanto potrebbe succedere che il proprietario di un bene lo
venda a più persone. In tal caso la prevalenza la dovrebbe avere l’acquisto di data
anteriore ma ciò rallenta la circolazione dei beni in quanto si impongono complesse
indagini sulla loro reale situazione giuridica: per i beni mobili il conflitto si risolve on la
regola del possesso titolato o possesso vale titolo; per gli immobili e i mobili registrati
soccorre l’istituto della trascrizione che va a dirimere il conflitto tra più acquirenti di uno
stesso diritto dal medesimo dante causa. Funzione della trascrizione è quella di risolvere il
conflitto tra più acquirenti di uno stesso diritto da un medesimo dante causa: tra i diversi
acquirenti viene preferito quello che per primo ha reso pubblico il suo acquisto col mezzo
della trascrizione anche se il suo acquisto è di data posteriore. Questa forma di pubblicità
non svolge alcun ruolo sostanziale in ordine alla validità o efficacia del contratto: chi
compra un immobile diviene proprietario per effetto del contratto anche se non trascrive il
proprio acquisto (c.d. natura dichiarativa della trascrizione); la trascrizione non sana gli
eventuali vizi dell’atto di acquisto né può servire a superare il difetto di titolarità
nell’alienante come nel caso in cui se chi vende non è proprietario del bene, non basterà
la trascrizione della vendita a far acquistare il bene all’acquirente; oppure se due fratelli
affermandosi tutti e due proprietari di un bene e lo vendono a persone diverse prevarrò
colui che ha acquistato dal vero proprietario del bene. Quindi la trascrizione non
costituisce un obbligo per l’acquirente ma un onere necessario per garantirsi contro una
eventuale alienazione ad altra persona che trascriva il proprio acquisto. La trascrizione
non riguarda direttamente i beni ma alcuni atti che incidono sulla situazione giuridica di
determinati beni e precisamente i beni immobili e i beni mobili registrati. Gli atti soggetti a
trascrizione sono elencati negli artt. 2643 ss. e si devono rendere pubblici col mezzo della
trascrizione tutti e soltanto gli atti preveduti dalla legge, si devono trascrivere: i contratti
che trasferiscono la proprietà o che costituiscono diritti reali di godimento (vendita,
permuta, donazione della proprietà); gli atti unilaterali che producano i medesimi effetti
(artt. 1503, 2653 n.3); le sentenze che operano un effetto analogo su tali diritti. In sintesi si
tratta di atti negoziali e sentenze che trasferiscono, costituiscono o modificano diritti reali
su beni immobili. La trascrizione ha efficacia dichiarativa e non costitutiva quindi non è
necessaria per l’acquisto dei diritti. L’efficacia della trascrizione si coglie sul piano dei
rapporti su alcuni terzi e precisamente con i terzi che hanno acquistato diritti in base ad un
atto trascritto anteriormente: gli atti soggetto a trascrizione non hanno effetti riguardo a
coloro che hanno trascritto anteriormente pure se il loro acquisto sia di data posteriore.
L’effetto della trascrizione anteriore opera anche quando il secondo acquirente fosse in
mala fede, fosse cioè a conoscenza della vendita precedente: l’acquirente che soccombe
nei confronti del primo trascrivente in mala fede potrà agire per il risarcimento dei danni in
base alle norme sulla responsabilità extracontrattuale. È in tal senso che la trascrizione
svolge la funzione di risolvere il conflitto tra più acquirenti dal medesimo titolare: lo risolve
perché attribuisce prevalenza al primo trascrivente. La trascrizione ha efficacia costitutiva
in alcune provincie italiane dell’ex impero austro-ungarico: è il sistema tavolare basato su
libri fondiari contenenti la registrazione dei beni immobili e sui quali si effettua l’iscrizione

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degli atti di trasferimento. In tali zone i trasferimenti di proprietà di beni immobili si


realizzano solo con l’intavolazione. La generalità dei registri immobiliari è ordinata su base
personale: essi fanno riferimento alle persone che pongono in essere gli atti da trascrivere,
e non ai beni. È possibile effettuare una ricerca partendo da un bene e individuare così
tutti gli atti giuridici che lo riguardano: gli atti vengono trascritti con riferimento alle persone
che li hanno compiuti e perciò per ogni atto viene effettuata una doppia trascrizione: una a
favore dell’acquirente e una contro l’alienante. La consultazione dei registri si effettua sulla
base dei nomi delle parti e così si può risalire nel tempo e ricostruire le vicende del bene.
Una ricerca scrupolosa deve risalire fino ad un acquisto a titolo originario. Se manca uno
dei passaggi anteriori le successive trascrizioni non hanno effetto perché non sono in
grado di rendere note ai terzi tutte le vicende del bene: viene a mancare la c.d. continuità
delle trascrizioni. La regola espressa dall’art. 2650 è che la trascrizione a carico di un
soggetto non produce effetto se non è stato trascritto l’atto anteriore di acquisto. La
trascrizione di alcuni atti svolge una funzione di prenotazione assicurando la possibilità di
opporre ai terzi la sentenza ed il contratto definitivo con effetto dalla data della prima
trascrizione. Innanzitutto si devono trascrivere le domande giudiziali riguardanti atti
soggetti a trascrizione (art. 2652): qui la pubblicità ha la funzione di rendere la sentenza
opponibile ai terzi che abbiano acquistato il diritto controverso durante il processo. Essa
assicura a colui che agisce in giudizio che la controparte non venda il bene a terzi,
frustando così le sue aspettative. La trascrizione della domanda serve anche a mettere
sull’avviso i terzi: chi intende acquistare un appartamento può apprendere se l’atto di
acquisto di chi vuol vendere sia stato impugnato. In particolare vanno trascritte le
domande di risoluzione e di rescissione, di esecuzione forzata dell’obbligo di contrarre e di
accertamento della simulazione, di revoca degli atti fraudolenti, di nullità o annullamento
dei contratti (art. 2652). Le sentenze che accolgono tali domande vanno annotate a
margine della trascrizione della domanda stessa. Per i casi di nullità e di annullamento per
incapacità legale, la sentenza che accoglie la domanda travolge anche i diritti acquistati
dai terzi di buona fede che pur abbiano trascritto prima della trascrizione della domanda.
La ragione è che per un verso la dichiarazione di nullità ha efficacia retroattiva erga
omnes; per l’altro l’incapacità legale è una causa di invalidità che può essere rilevata
consultando i registri dello stato civile. Nel caso in cui siano trascorsi 5 anni senza che sia
stata trascritta la domanda giudiziale il terzo di buona fede non sarà travolto dalla
sentenza che accolga la domanda di nullità o di annullamento per incapacità (pubblicità
sanante). La trascrizione delle domande giudiziali opera come una sorta di prenotazione
garantendo a chi agisce in giudizio la possibilità di opporre la successiva sentenza a chi
acquisti diritti sul bene durante il processo. Analogo ruolo svolge la trascrizione del
preliminare di vendita immobiliare. L’art 2645-bis prevede la trascrizione dei contratti
preliminari che abbiano ad oggetto trasferimento, costituzione o modificazione della
proprietà o di diritti reali di godimento su immobili quando detti contratti risultino da atto
pubblico o da scrittura privata autenticata. È in facoltà delle parti effettuare la trascrizione
setali contratti siano stipulati per semplice scrittura privata. Il promittente acquirente
trascrivendo il preliminare prenota la possibilità di trascrivere il contratto definitivo,
rendendolo opponibile ai terzi dalla data di trascrizione del preliminare. Vi sono ipotesi in
cui la trascrizione ha efficacia costitutiva per gli atti interruttivi di usucapione immobiliare,
per il realizzo dei diritti reali che si realizzano sull’usucapione abbreviata, per il
pignoramento di immobili. Per la prima ipotesi il titolare di un diritto reale non potrà
intimare la restituzione del bene per interrompere l’usucapione, dovrà trascrivere l’atto di
intimazione o la domanda giudiziale (art 2653 n.5) per la seconda in caso di acquisto a
non domino l’acquirente di buona fede realizza un’usucapione abbreviata se ha un valido
titolo e lo abbia trascritto possedendo il bene per un certo periodo di tempo. Vi sono casi in
cui la trascrizione ha funzione di pubblicità notizia: è così per gli acquisti a causa di morte

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e per le sentenze di accertamento dell’avvenuta usucapione immobiliare: tali fatti sono


opponibili ai terzi anche se non trascritti e la pubblicità serve al fine di realizzare la
continuità delle trascrizioni pertanto colui che acquisterà da chi ha realizzato un
usucapione a proprio favore può opporre l’acquisto sia al vecchio titolare, sia agli aventi
causa di costui e pur se questi abbia trascritto. La trascrizione va eseguita presso l’ufficio
dei registri immobiliari nella cui circoscrizione sono situati i beni e può essere ottenuta solo
in forza di un titolo cioè di sentenza, di atto pubblico o di scrittura privata con
sottoscrizione autenticata. Non basterebbe presentare una scrittura privata non
autenticata in quanto è idonea a realizzare il trasferimento della proprietà ma non è idonea
per la trascrizione. Inoltre occorre allegare copia dell’atto da trascrivere e una doppia nota
di trascrizione che indichi i dati delle parti, il titolo di cui si chiede la trascrizione e la
relativa data, il nome del pubblico ufficiale che ha redatto l’atto. Le omissioni della nota
possono comportare l’invalidità della trascrizione.

Capitolo 44: Le prove


La tutela civile è segnata dal principio dispositivo: i soggetti sono liberi di agire o di non
agire in giudizio. Di tale principio costituiscono aspetti specifici il principio della domanda e
le regole sull’onere della prova gravante sulle parti: non è il giudice che deve cercare le
prove bensì le parti stesse se vogliono ottenere tutela: il giudice deve decidere in base alle
prove fornite durante il processo ed è in tal senso che il processo civile è informato al
principio dispositivo. L’onere della prova grava sulle parti del processo e chi vuol far valere
un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento mentre chi
vuole resistere a tale pretesa deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda (art. 2697).
Oggetto della prova sono i fatti giuridici e non i diritti in quanto essi saranno desunti dal
giudice in base ai fatti allegati e provati. È l’attore che deve dare la prova dei fatti sui quali
si fonda la sua pretesa ed il convenuto, ai fatti costitutivi provati dall’attore, può
contrapporre dei fatti impeditivi dell’altrui pretesa. La regola sulla ripartizione dell’onere
della prova può essere modificata dalle parti: esse possono invertire l’onere della prova o
anche modificarlo. I patti relativi all’onere della prova non devono riguardare diritti
indisponibili e non devono rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto (art.
2698). La prova va fornita tramite specifici mezzi di prova cioè documenti dai quali sia
possibile ricostruire la verità dei fatti. Si distinguono così le prove storiche (tendono a
ricostruire direttamente il fatto da provare) e prove logiche (fanno desumere indirettamente
il fatto da provare tramite una deduzione logica). Mezzi di prova storica sono i documenti,
la testimonianza, la confessione, il giuramento; mezzi di prova logica sono le presunzioni.
La prova documentale è fornita tramite documento che rappresentano un fatto o una realtà
fisica (certificati, ricevute). Documenti per eccellenza sono l’atto pubblico e la scrittura
privata: l’atto pubblico è il documento redatto da un notaio e sua caratteristica è la
pubblica fede che ad esso consegue infatti fa piena prova delle dichiarazioni delle parti e
degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuti alla sua presenza (art. 2700).
Vincolante all’atto pubblico sono le parti: chi vuole contestare tali risultanze è tenuto ad
istaurare un procedimento, la querela di falso, nel corso del quale si verificherà l’eventuale
falsità dell’atto. La scrittura privata consiste in un documento sottoscritto da un privato
(testo contrattuale, lettera di diffida): essa non ha la medesima efficacia probatoria dell’atto
pubblico ma fa prova soltanto contro chi l’ha sottoscritta e a condizione che la
sottoscrizione sia autenticata dal notaio. La scrittura privata non fa prova contro terzi della
sua data: la legge stabilisce che questa acquista data certa di fronte ai terzi dal giorno
dell’autenticazione da parte di u notaio. Lo stesso valore probatorio è attribuito ai
telegrammi anche se non sottoscritti. La prova per testimoni non è ammessa: per i fatti
contrari o aggiunti il contenuto di un documento che si affermi essere anteriori o

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contemporanei al documento stesso (artt. 2722/2723); per i contratti, i pagamenti e le


remissioni di debito superiori alle 5000 lire ma è previsto che il giudice possa consentire la
prova oltre il limite anzidetto tenuto conto della qualità delle parti. La prova testimoniale è
ammessa: quando c’è un principio di prova scritta che faccia apparire verosimile il fatto
allegato; quando la parte si è trovata nell’impossibilità morale o materiale di procurarsi una
prova scritta; quando si è perduto senza colpa il documento scritto. La confessione è la
dichiarazione che una parte fa della verità di fatti a sé sfavorevoli e favorevoli all’altra parte
(art. 2730). Essa è giudiziale quando è resa in giudizio e quindi fa piena prova contro il
confidente; è stragiudiziale quando è resa fuori dal giudizio. La dichiarazione della
confessione concerne la verità di determinati fatti e la sua dichiarazione giuridica è quella
di una dichiarazione di scienza che può essere impugnata solo per errore di fatto o per
violenza. Se la dichiarazione non vertesse su fatti ma su diritti, essa non costituirebbe in
senso proprio un mezzo di prova. Il giuramento è la dichiarazione solenne di una parte
circa la verità di determinati fatti: può essere prestato solo in giudizio e da una delle parti e
fa piena prova dei fatti affermati. Il giuramento non è ammesso quando la lite riguardi diritti
indisponibili, fatti illeciti, contratti formali. Il codice prevede due specie di giuramento:
decisorio (prestato da una parte su invito dell’altra che lo deferisce per farne dipendere la
decisione totale o parziale della causa art. 2736. Esso deve vertere o su un fatto proprio
della parte o su una conoscenza che essa ha di un fatto altrui); suppletorio (è deferito dal
giudice a una delle parti quando le prove fornite non sono del tutto persuasive ovvero
quando non si può altrimenti accertare il valore di una cosa controversa). Le presunzioni
sono un mezzo di prova logica: esse non danno una dimostrazione diretta del fatto da
accertare, bensì una dimostrazione tramite ragionamenti logici. Il codice le definisce come
le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto
(art. 2727). Esistono le presunzioni legali (stabilite direttamente dalla legge e dispensano il
soggetto dall’onere di fornire altre prove: provato il fatto base egli è dispensato da provare
il fatto ulteriore. Esse si dicono assolute quando non è ammessa prova contraria mentre si
dicono relative quando è ammessa la prova contraria e perciò si risolvono in una
inversione dell’onere della prova) e le presunzioni semplici (deduzioni logiche elaborate
dal giudice caso per caso secondo il prudente apprezzamento).

Capitolo 45: La prescrizione e la decadenza


La prescrizione è l’estinzione dei diritti dovuti alla inerzia del titolare che non li esercita per
il tempo determinato dalla legge (art.2934). se il titolare di un diritto ha trascurato di
esercitarlo per un rilevante periodo di tempo, ciò induce i controinteressati a ritenere che
egli non vi abbia più interesse e che possa avervi rinunciato. Non sono soggetti a
prescrizione i diritti indisponibili e gli altri diritti indicati dalla legge (art. 2934): in particolare
la proprietà e le azioni a far dichiarare la nullità di un atto. Quanto ai primi l’imprescrittibilità
costituisce ulteriore garanzia di tutela e serve ad evitare l’effetto di indiretta disposizione
derivante dal mancato esercizio; quanto alla seconda l’imprescrittibilità dipende da una
delle sue caratteristiche: infatti il non uso è una delle facoltà del proprietario. Non sono
soggette a prescrizione le facoltà in quanto esse non sono distinte posizioni giuridiche e
non si acquistano né si perdono automaticamente. L’art 2936 sancisce l’inderogabilità
della disciplina legale: le parti non possono escluderla né modificarne i termini, né
rinunciarvi, fin quando essa non sia compiuta. La concreta tutela delle ragioni spetta al
singolo e questi è libero di avvalersi o meno dei suoi diritti pertanto è previsto che spetta

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alla parte interessata far rilevare in giudizio l’avvenuta prescrizione dei diritti altrui. È
possibile rinunciare ad avvalersi della prescrizione dopo che essa sia compiuta. Il soggetto
a favore del quale è prevista può rinunciare ad essa. Ove l’inerzia del titolare venga meno
la prescrizione non può operare. Per tali ipotesi sono previsti due istituti: l’interruzione
(deriva da qualunque atto di esercizio del diritto e appena compiuto la prescrizione è
interrotta e inizia a decorrere un nuovo termine di prescrizione mentre il periodo trascorso
perde valore e non viene più computato) e la sospensione (si fonda sull’esistenza di
particolari rapporti tra i soggetti che giustificano l’inerzia del titolare del diritto: la
prescrizione rimane sospesa nei rapporti tra i coniugi e tra gli incapaci e i soggetti che ne
hanno cura). La prescrizione inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto
valere (art. 2935). Essa si compie allo spirare dell’ultimo giorno del termine. Non si
computa il giorno iniziale e se il momento finale cade in giorno festivo il termine è
automaticamente prorogato al giorno successivo. Per quanto riguarda la durata si
distinguono prescrizioni ordinaria (si compie con il decorso di 10anni e vale per tutti i diritti
per cui non sia disposto diversamente) e prescrizioni brevi (sono previste per ipotesi
precise: si prescrive in 5 anni il diritto al risarcimento dei danni da fatto illecito mentre in
20anni i diritti reali di godimento su beni altrui in parallelo con la durata ventennale
dell’usucapione. Le prescrizioni presuntive sono figure che si basano sul decorso del
tempo e da esso fanno discendere la presunzione che il debito sia estinto. Al debitore
basterà invocare la prescrizione presuntiva per essere esonerato dall’onere di provare
l’avvenuto adempimento. La presunzione non è assoluta ed ammette la prova contraria: il
creditore può vincerla solo deferendo alla controparte il giuramento decisorio (art. 2960) o
ottenendone una confessione. L’esercizio dei diritti entro i termini prefissati vale ad
impedire l’estinzione per prescrizione. La legge impone in alcune ipotesi, a chi voglia
conservare il diritto, un onere specifico: impone il compimento di uno specifico atto che
valga a manifestare l’intenzione di avvalersi del diritto dando così certezza in tempi brevi
alle situazioni giuridiche. Il compimento di tale atto impedisce la perdita e consente al
soggetto di esercitare il diritto entro il termine di prescrizione. Può dirsi che la decadenza è
l’estinzione del diritto dovuto all’oggettivo decorso del tempo fissato dalla legge. Mentre la
prescrizione è interrotta da qualunque atto di esercizio del diritto, la decadenza è impedita
solo dal compimento dell’atto specificatamente previsto. La decadenza costituisce un
limite alla possibilità di far valere un diritto e le relative previsioni sono di stretta
interpretazione. Esso non è istituto stabilito al posto della prescrizione ma in aggiunta alle
regole sulla prescrizione che riguarda in linea di principio tutti i diritti. Una volta impedita la
decadenza il diritto rimane soggetto alle disposizioni sulla prescrizione. Sono previsti due
tipi di decadenza: legale (è prevista dalla legge per ragioni di interesse generale o
nell’interesse di uno dei soggetti: nel primo caso le parti non possono modificare la
disciplina né rinunciarvi; nel secondo le parti possono determinare la disciplina cioè
possono stabilire termini diversi o particolari oneri di forma. La disciplina convenzionale
non deve rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto art 2965).

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