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Lineamenti di storia del

diritto Romano : TALAMANCA


Storia Del Diritto Romano
Università degli Studi di Napoli Federico II
86 pag.

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L’ETA’ MONARCHICA
Le condizioni economiche e l'ambiente materiale nel Lazio arcaico - Il paesaggio fisico in cui si situano i più antichi
insediamenti umani che daranno origine a Roma e alle altre città del Latium vetus agli inizi dell'ultimo millennio a.C.
non era molto diverso da quello odierno, ma più accidentato, il che contribuiva all'isolamento delle zone elevate e delle
comunità umane ivi raggruppate. Nella più antica storia delle primitive popolazioni laziali, sino agli inizi dell'ultimo
millennio a.C., è verosimile che la base economica sia stata rappresentata dall'allevamento, ovino e suino. Tuttavia, già
in epoca piuttosto risalente, accanto alla pastorizia, era nota e praticata dalle popolazioni latine una forma primitiva di
agricoltura in cui doveva avere un'importanza notevole il farro, un cereale povero (dal punto di vista alimentare), ma
resistente e adatto alle zone umide. Esso sopravvivrà, in età più avanzata, in alcune cerimonie religiose e in particolare
nella forma arcaica e solenne di matrimonio romano. Abbastanza risalente appare anche lo sfruttamento di certi alberi
da frutta, in particolare il fico, mentre invece l'ulivo e soprattutto la vite assumeranno importanza solo in età successiva.
Quando, nel corso dell'VIII secolo, le condizioni economiche delle popolazioni laziali subirono un incremento, aumentò
l’importanza delle strutture territoriali atte ad assicurare un sistema più o meno ampio di collegamenti. È in quest'epoca
che acquistano un notevole rilievo le rotte di carattere commerciale che uniscono l'Etruria alla Campania.
L'area cui si ricollega la storia delle comunità del Latium vetus, di dimensioni sono relativamente modeste, è limitata al
nord dal Tevere, ad ovest dal mare, ad est dai primi altipiani che segnano il confine fra i Latini e le popolazioni sabine e
su cui sorgono le città latine di Tibur e Praeneste e al sud dai Colli Albani.
Già nella sua prima età Roma, come le altre città del Lazio, si afferma come stato sovrano nella forma della pòlis, che
non è una semplice realtà urbana contrapposta alla campagna o al villaggio, ma realizza l'ordinamento statale all'interno
del quale si è partecipi della società civile e di una comunità politica. Per la sua esistenza è necessario l'affermarsi di un
potere politico-militare centralizzato in grado di controllare in modo stabile un dato territorio e la popolazione ivi
stanziata. Stabilità che può essere realizzata solo attraverso forme politiche e sociali atte a unificare in modo organico
questa stessa popolazione. Tale processo di unificazione, prima dell'VIII sec. a.C., non ha avuto ancor luogo né per
Roma né per nessun'altra comunità situata nell'area laziale.
Le dimensioni e le forme degli insediamenti precivici, che anticipano la successiva forma della città, rispondono a 2
opposti requisiti: da una parte le dimensioni dei vari insediamenti umani debbono aver superato il carattere atomizzato
(se mai esistito) costituito dal mero aggregato familiare, o, comunque, da unità sociali troppo ridotte, perché solo così è
possibile uno sfruttamento stabile di un'area territoriale ben determinata e adeguatamente difesa. Vi è tuttavia un limite
ad una crescita illimitata dei vari gruppi di popolazione, rappresentato dalla crescente difficoltà di assicurarsi lo
sfruttamento di zone troppo ampie di territorio. Non può meravigliare quanto gli archeologi dicono circa il carattere
demograficamente limitato delle comunità che, ancora nella prima metà dell'VIÌI secolo, appaiono disseminate nell'area
laziale. Si tratta sempre di forme evolutive incerte, di villaggi composti di poche capanne, destinati spesso, piuttosto che
a evolvere verso forme cittadine, a regredire nel quadro di un'indistinta prevalenza della campagna.
Plinio menziona l'esistenza di 30 populi uniti in una lega religiosa, che aveva come sede il monte Albano. Questi populi,
designati per l'appunto come Albenses, sarebbero stati tutti destinati a dissolversi in età storica senza lasciar traccia.
Le strutture sociali preciviche - La comunità di villaggio è l'unità di popolazione più arcaica che darà luogo alle
successive realtà proto-urbane; per quanto riguarda il tipo di organizzazione sociale e politica cui essa corrispondeva,
un'idea ricorrente, già presente nei filosofi greci, è che la città-stato fosse il punto di arrivo di un processo di crescita
della società umana che vedeva nella famiglia naturale (il padre e i suoi più diretti discendenti) il nucleo originario. Vi
sarebbe quindi un elemento comune sia alla più piccola cellula della società umana, sia alla forma politicamente più
compiuta che è lo stato stesso. Di tale idea è conseguenza quasi inevitabile l'ipotesi di una spontanea formazione del
modello cittadino, a seguito di un processo di crescita o di aggregazione dei gruppi minori realizzata in modo naturale.
Lo storico che, in Italia, più coerentemente ha cercato di sviluppare e sistemare questo complesso di orientamenti e di
idee è stato Pietro Bonfante, per il quale, nel corso della storia di Roma, elementi diversi avrebbero assolto ad una
funzione sostanzialmente identica. Lo studioso italiano partiva infatti dall'idea (condivisa allora da tutta la storiografia
giuridica europea) che lo stato fosse una costante nella storia delle società umane e che esso andasse identificato, di
volta in volta, con organismi diversi, a seconda del grado di sviluppo di queste stesse società.
La storia di questa istituzione poteva quindi esser tracciata fondandosi su uno dei fondamentali assunti di quegli
orientamenti evoluzionisti che allora dominavano anche il campo delle scienze sociali, secondo cui ogni organismo si
svilupperebbe necessariamente da forme più elementari verso dimensioni maggiori e più complesse. L'idea che la
famiglia e poi la gens o la tribù avessero, nell'età più antica, assolto alle funzioni che saranno in seguito assunte dalla
città-stato sembrava poter spiegare la posizione del pater della familia proprio iure, che, per molti secoli dopo la
definitiva costituzione della città, conservò un complesso di poteri molto vasti. La potestas del pater, nella ricostruzione
bonfantiana, sarebbe quindi il residuo di un più definito potere sovrano del capo su un gruppo politico che si estendeva
al territorio in cui era stanziato il gruppo familiare e a tutti i membri di questo.
I Romani conoscevano diversi tipi di famiglia, ma la figura destinata ad assumere in seguito la maggior importanza è la
familia proprio iure, che rappresenta l'unità elementare all'interno di un sistema matrimoniale rigidamente monogamico:
è la coppia di sposi con i suoi diretti discendenti. Nella familia proprio iure convivono, sottoposti alla potestas del
padre, la di lui moglie, i figli e le figlie non sposate o sposate sine manu e i successivi discendenti per linea maschile,
nonché le loro mogli. Agli effetti dei rapporti successori, dell'eventuale tutela degl'impuberi e delle donne, accanto alla
familia proprio iure, i Romani, in età più avanzata, conoscono e applicano un criterio più vasto di parentela; con la
familia communi iure, estendono il vincolo di agnazione a tutti i discendenti, sempre per linea maschile, da un comune

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capostipite. Mentre presupposto della familia proprio iure è l'esistenza di un pater vivente, nel pieno della sua potestas,
in quest'altra figura il capostipite è invece rappresentato da un antenato non più vivente. Secondo alcuni romanisti la
famiglia agnatizia riunirebbe insieme gli agnati sino al VI grado, ma le testimonianze romane non confermano questa
supposizione, talché sembra più esatto ammettere l'identità della familia communi iure con l'agnazione in senso lato: un
vincolo che sussiste sino a quando resti memoria precisa e si abbiano prove della comune discendenza dall'originario
capostipite. Vi è un momento tuttavia in cui tale ricordo viene offuscandosi e si confondono le diverse genealogie. A
questo punto, sopravvive solo una generica e imprecisa coscienza di un'origine comune e di una lontana parentela, le cui
testimonianze effettive sono il nome e la partecipazione a un comune culto gentilizio. Ma quando solo questi elementi
provano una lontana e generica discendenza comune, non ci si trova più di fronte alla famiglia agnatizia, ma alla gens.
Secondo questa interpretazione, la gens si fonda su un vincolo di sangue come la familia communi iure, ma mentre per
quest'ultima tale legame è effettivamente attestato, per la gens, esso assume un semplice carattere presuntivo.
È vero che il pater familias poteva bene raffigurare il capo di un gruppo politico, munito di poteri sovrani, ma Bonfante
non poteva riferirsi alla familia proprio iure per il carattere transitorio di tale organismo destinato a durare quanto la vita
del suo capo. Anche per il Benfante un elemento essenziale di una struttura statuale era il suo carattere di stabilità nel
tempo, per cui egli doveva individuare l'organismo politico in strutture più stabili, la gens o la famiglia agnatizia. Nel
corso delle sue ricerche il Benfante ondeggerà fra queste due figure, nel tentativo di ricostruire la più antica forma di
organizzazione statale precivica. Perché questo tentativo avesse successo, egli doveva immaginare che l'uno o l'altro di
questi organismi fosse retto dalla figura autoritaria di un capo, modellata sull'immagine offerta dal pater della familia
proprio iure. Poiché, in età storica, non sembra sia così, il Bonfante è costretto a immaginare un diverso regime per le
età più antiche. Attribuendo il ruolo politico alla famiglia agnatizia (la sua originaria posizione), proponeva l'anteriorità
della successione testamentaria rispetto a quella ab intestato; in tal modo il pater, alla sua morte, avrebbe designato un
unico successore fra i suoi discendenti, che avrebbe assunto i poteri semi-sovrani su tutto il gruppo. Abbandonata in
seguito tale ipotesi, egli ripiegò sull'idea che l'organismo sovrano, prima della civitas, andasse identificato direttamente
con la gens. Di qui la necessità di immaginare la presenza di un princeps o pater gentis; tuttavia, sebbene in particolari
frangenti emerga un capo del gruppo, assai più dubbio è se esso corrispondesse ad un ruolo organico e costante nel
tempo. Inoltre, non si riesce a comprendere il collegamento fra la figura e i poteri del princeps gentis e quella del pater
della familia proprio iure, che, nella logica del Bonfante, da quello dovrebbe esser derivata, almeno per quanto concerne
la determinazione dei suoi poteri. E questo è uno dei punti più incerti di tutta la ricostruzione bonfantiana.
Sebbene il successo dello schema bonfantiano fosse ampio e destinato ad imporsi, non sono mancate posizioni diverse,
tra cui quella del tedesco Meyer, che Meyer tendeva a identificare l'organismo sovrano con il più ampio stato-stirpe. La
minore unità cittadina si sarebbe quindi affermata solo a seguito della disgregazione della più vasta unità etnica, a sua
volta dissolvendo il primitivo sistema di villaggi in cui essa si era distribuita. Di qui anche la tendenza a completare
questo capovolgimento di prospettiva immaginando che il gruppo minore (la gens) derivasse e fosse successivo
all'affermarsi della pòlis.
Comunque, queste teorie si basano sull’assunto che lo stato (cioè un organismo politico sovrano, dal quale tutte le altre
strutture sociali derivano almeno la loro legittimazione) sia un fenomeno necessario e connaturato alla storia della
società umana. Così è assunto come postulato indiscusso l'identificazione della società con lo stato, senza che mai, in
questo contesto culturale ci si sia seriamente interrogati sulla possibile esistenza di società senza stato.
I pagi e le comunità proto-urbane - La vita sociale nel Lazio precivico sembra strutturarsi in un numero elevato di
piccoli nuclei di popolazione, i pagi, composti talvolta di poche capanne e collegati a un'area territoriale molto ristretta.
L’unità dei vari pagi (al loro interno e fra più pagi) doveva fondarsi sulla presenza di di tradizioni culturali consolidate,
ma anche interessi economici; di qui la presenza di leghe di villaggi intorno a qualche centro sacrale comune, ma che
non hanno mai funzioni esclusivamente religiose. La celebrazione dei sacrifici in comune, come nel caso dei triginta
populi Albenses che si riunivano in monte Albano, costituisce sia un momento importante nel sistema di comunicazioni
e di scambio fra i diversi pagi che un aspetto più direttamente politico. In tal modo si realizza un collegamento fra i vari
centri che rende possibile definire un sistema di difesa comune contro minacce esterne. Tuttavia non è detto che tali
leghe sfociassero necessariamente in sistemi federativi e che quindi la formazione della città latina vada identificata nel
processo di rafforzamento di tali vincoli e nella trasformazione dei centri federali nelle città-stato con il graduale
assorbimento dei villaggi circostanti.
I villaggi laziali, ancora nell'VIII secolo composti di poche capanne, corrispondono al livello di una società tribale, dove
gli stanziamenti umani sono caratterizzati da una notevole omogeneità di forme e dall'assenza di forti differenziazioni. Il
vincolo che assicura la coesione di tali gruppi è più o meno direttamente fondato sui legami di sangue, sull'appartenenza
o vera o presunta a stirpi e a genealogie comuni. Tuttavia non si deve identificare il pagus con una gens: del resto questa
figura, come la conosciamo attraverso le definizioni a noi pervenute e risalenti al massimo alla tarda età repubblicana,
probabilmente appartiene ad un'età successiva.
È assai probabile che, all'interno del pagus, il gruppo fosse organizzato in forme abbastanza semplici. Almeno sino
all'VIII secolo, non dovevano essersi ancora verificate notevoli differenziazioni sociali e dovevano quindi prevalere
situazioni relativamente paritarie. Infatti, la scoperta e l'esame di un numero relativamente elevato di tombe risalenti a
tali periodi permette di stabilire che, sino alla seconda metà dell'VIII secolo, il tipo di arredi funerari che corredavano la
sepoltura è omogeneo. Questa uniformità tende a scomparire nel periodo successivo, dove incontriamo differenze di
arredamento sempre più pronunciate. È dunque in questo periodo che sembrano affermarsi reali divisioni sociali
all'interno della comunità privata, con l'emergere sugli altri membri del villaggio di individui e poi di gruppi familiari

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economicamente più forti.
Il carattere sostanzialmente paritario che mostrano inizialmente i gruppi sociali nel Lazio, doveva sostanziarsi in una
serie di ruoli stabiliti in base ad elementi oggettivi: il sesso, l'età, o, al massimo, qualità del tutto personali. Non si tratta
quindi di società fortemente gerarchizzate e in cui la diseguale distribuzione della ricchezza (soprattutto della terra)
tendesse ad accentuare le sproporzioni nei rapporti fra i diversi gruppi e individui, né di una struttura sociale organizzata
secondo il modello del gruppo sottoposto alla autorità sovrana del pater familias, ma di forme primitive di democrazia,
in cui il potere sovrano è detenuto dall'assemblea degli uomini in arme. Comunque, è possibile che un ruolo di indirizzo
e di governo fosse poi assunto dagli anziani, i patres, detentori di saggezza, o che nei momenti di pericolo e di crisi i
poteri di decisione venissero deferiti a comandanti di particolare valore e capacità. Un modello sociale cui possiamo
forse richiamarci è quel tipo di struttura tribale e gentilizia descritta da Cesare a proposito dei Germani. Qui, in caso di
guerra si ha un’autolimitazione del gruppo sociale, con la scelta di magistrati incaricati dì dirigere la guerra e con poteri
di vita o di morte; invece, in tempo di pace non esiste presso di loro nessun comune magistrato, ma i principes delle
regioni e dei pagi regolano i rapporti all'interno dei gruppi e appianano le controversie.
La dissoluzione delle primitive comunità di villaggio - La presenza delle antiche forme tribali e di strutture sociali
sostanzialmente paritarie era possibile solo a un livello assai basso di sviluppo delle forze produttive. Con il loro
incremento, verso la metà dell'VIII sec., divenne inevitabile un processo di trasformazione della antica organizzazione.
Infatti, i mutati livelli di ricchezza non si riflessero meccanicamente su tutta la comunità di villaggio in modo uniforme.
È verosimile che sin da allora esistesse un regime di appropriazione individuale dei beni mobili, compresi i greggi, il
che, insieme a forme limitate di pertinenza della terra, contribuiva a determinare una diversa posizione dei singoli patres
all'interno degli ordinamenti gentilizi e del pagus. Ancor più determinanti dovevano essere le trasformazioni ingenerate
dall'affermarsi di un lavoro specializzato, che metteva artigiani e commercianti in posizione più autonoma rispetto alla
comunità tribale. Ma soprattutto essenziale nel processo di differenziazione sociale è il ruolo della guerra; attorno ai
guerrieri e ai gruppi familiari più forti si viene concentrando un numero variabile di seguaci, il che a sua volta accentua
le differenze e facilita un primitivo processo di accumulazione dei beni. Si afferma così una struttura sociale dominata
da emergenti aristocrazie guerriere, organizzate nella forma delle gentes; non è facile dire se sia la stessa organizzazione
gentilizia ad affermarsi solo ora, sovrapponendosi come dato esterno alle più antiche situazioni familiari, o se, come è
più verosimile, si tratti di un'intrinseca trasformazione della stessa, con il suo organizzarsi in senso aristocratico.
Comunque, è solo all'epoca della sua dissoluzione e dell'emergere di forme proto-urbane che il fenomeno gentilizio si
presenta con i caratteri di evidenza che per qualche verso sopravvivono e influenzano anche le età successive. La gens
si pone come elemento di differenziazione sociale, ma solo con la città assume un carattere politico, come strumento di
egemonia all'interno del più vasto ordinamento cittadino.
Proprio la crescita e la trasformazione delle strutture parentali in forme gentilizie è causa ed effetto di un aspetto
fondamentale nel primitivo processo di differenziazione sociale, la formazione di clientele, individui o famiglie
economicamente più deboli che si affidano alla protezione dei gruppi più forti, ponendosi al loro servizio. Così le gentes
diventano il fondamento delle forme di appropriazione e di sfruttamento della terra e del tipo di organizzazione militare
necessario a garantire lo stesso possesso della terra da parte della comunità. È probabile che non sussistessero
particolari limiti formali al formarsi di nuove gentes, ma solo nelle famiglie più ricche vi era l'interesse e la capacità di
di conservare i vincoli parentali e solo queste dovevano avere la capacità di attirare individui subalterni come clienti.
Il divaricarsi dei rapporti di forza (economici e militari) fra i vari pagi e la riduzione delle aree boschive o paludose (che
indeboliva i naturali confini fra i vari villaggi) furono le premesse per un intensificarsi dei rapporti (non sempre
pacifici) fra i vari insediamenti. È in questo contesto che si innestano complessi meccanismi di fusione fra più villaggi o
di allargamento di qualcuno più forte, che si pone come polo di attrazione e di unificazione dei villaggi circostanti. È in
quest'epoca che i villaggi sul Palatino, e probabilmente Alba, Tivoli ed altri centri, assumono il carattere di realtà proto-
urbane. Quindi, già nella seconda metà dell'VIII secolo, sul Palatino esisteva un centro proto-urbano, risultante dalla
fusione di più piccoli villaggi fra loro, e che a sua volta si protendeva verso i colli vicini dell'Esquilino e del Celio. Che
il nucleo originario della città fosse da identificarsi sul Palatino, era chiaro già alla memoria storica dei Romani. È a tale
colle infatti che si ricollegano le leggende e i più antichi riti religiosi che attengono alla coppia dei gemelli salvati dalle
acque del Tevere.
La fondazione di Roma - Per molti studiosi moderni, il passaggio dall'organizzazione paganica a quella cittadina è
interpretabile in termini di continuità, e non come una svolta brusca e radicale. In modo pressoché unanime, gli storici
antichi fanno risalire alle stesse origini di Roma una serie di suddivisioni in cui si sarebbe ripartita la popolazione,
alcune di carattere prevalentemente amministrativo, altre più di carattere politico-sociale. Per quanto concerne le prime,
Romolo distribuì tutti i cittadini in 3 tribù, composte ognuna di 10 curie, a loro volta suddivise in 10 decurie. A capo di
ogni tribù sarebbe stato posto un tribuno, di ogni curia un curione e di ogni decuria un decurione. Ci troviamo quindi di
fronte a un sistema piramidale di distribuzione della popolazione costituito da 300 decurie, 30 curie e 3 tribù.
Già con Romolo sembrerebbe poi affermarsi una differenziazione di carattere sociale, fra patrizi, discendenti dei primi
membri del senato, scelti dallo stesso sovrano fra i cittadini più ricchi e autorevoli, e i plebei. Quindi la tradizione antica
propone un modello compiuto di organizzazione politico-sociale sin dalle mitiche età delle origini di Roma: un assetto
costituzionale fondato sul rex, sul senato e sull'assemblea popolare costituita dai comizi curiati e una netta distinzione
fra patrizi e plebei. Distinzione che, nella rappresentazione di Dionigi, corrisponde a una diversità di funzioni all'interno
della civica: i plebei sottoposti all'onere del lavoro dei campi ed esentati dagli affari pubblici, di competenza dei patrizi.
Diversi studiosi hanno interpretato le 3 tribù romulee come il risultato dell'aggregazione di ordinamenti originariamente

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autonomi e distinti anche dal punto di vista etnico; ciò sembra suffragato dalle fonti, che ricordano la divisione del
popolo in 3 tribù e il collegamento di queste ad un organico dell'esercito primitivo consistente in 3000 fanti (1000 per
tribù) e in 300 cavalieri, i celeres (100 per tribù), questi ultimi a loro volta divisi in 3 centurie, corrispondenti alle 3 tribù
e chiamate Tities, Ramnes e Luceres. Gli stessi Romani avevano la tendenza a interpretare tali nomi sulla base di
personaggi eponimi nella storia di Roma: quasi ovvia è l'associazione di Ramnes a Romolo (comunità latina del
Palatino) e di Tities a Tito Tazio; per quanto riguarda Luceres, sebbene non univoca, si verificò la tendenza a collegarlo
con la figura di un mitico Lucumone, capo militare etrusco, che sarebbe intervenuto in ausilio di Romolo nella sua lotta
contro i Sabini del Quirinale capeggiati da Tazio.
Per Mommsen, dalla molteplicità di pagi si sarebbe passati a 3 più ampie comunità, e da queste (trasformate in tribù) si
sarebbe poi pervenuti alla costituzione cittadina vera e propria. Questa interpretazione è indubbiamente plausibile, ma,
pur accogliendo la tesi del Mommsen circa la non contemporaneità dell'ordinamento curiato e della divisione per tribù,
si potrebbe capovolgere lo schema cronologico da lui proposto e ammettere che le curie appartenessero ad una fase
storica anteriore a quella in cui si è imposta la ripartizione per tribù.
Un momento particolarmente importante nel processo di espansione di Roma è il saldarsi della comunità stanziata sul
Palatino con quella, di diversa stirpe, situata sul Quirinale. Secondo la tradizione, ciò risalirebbe addirittura al regno di
Romolo, ma, se si tiene considera che il Palatino è separato dal Quirinale dall'ampio avvallamento in cui verrà a trovarsi
il Foro, si comprende che solo con la bonifica di quest'ultimo il processo di fusione dovette concludersi: il che ci riporta
ad un'età più recente di quella delle origini romulee. In questa fase primitiva si verifica invece l’aggregazione
dell'Esquilino e del Celio (e più tardi del Viminale). La fusione del Palatino con la comunità sabina del Quirinale fa di
Roma uno dei centri più importanti, per territorio e popolazione, anche al di fuori della ristretta area laziale.
Il rex e la sua nomina - 3 sembrano, nella più antica città, gli organi fondamentali della costituzione politica: il rex, il
consiglio degli anziani, i patres, e l'assemblea di tutti i membri della comunità, ma tali elementi non debbono essere
valutati come un’anticipazione dell’assetto costituzionale repubblicano. In questa fase primitiva, si ha la trasformazione
di strutture già presenti nel mondo dei villaggi e delle comunità tribali; la più significativa consiste nel cambiamento di
peso di alcuni elementi a danno di altri: la figura del capo, il rex, è destinata progressivamente a rafforzarsi, mentre è
più ambigua la vicenda degli altri 2 organi. L'assemblea degli uomini in arme è un momento centrale della vita
cittadina, ma la sua attività sembra accompagnare rafforzare il comando del rex; più complessa ancora è la funzione e il
significato del consiglio degli anziani. È indubbio che nel senato, sin da età molto risalente, si condensi un processo di
formazione di aristocrazie politiche e sociali che coincide con la vicenda cittadina, ma anch'esso non appare egemone,
neppure nella prima fase della monarchia in Roma, rispetto alla guida politica della comunità che resta compito del rex.
È indubbio che la figura del rex si ponga al centro della vita politica e costituzionale romana arcaica. Anche se la sua
complessiva potestas sembra rafforzarsi nel corso del tempo, assumendo sempre più accentuati caratteri militari, sin
dall'inizio nel rex coesistevano 2 sfere di potere: da una parte egli si presenta come il ductor, il comandante militare
della comunità che assicura con il suo ruolo la stessa compattezza del populus armato e della città; dall'altra egli è il
supremo regolatore della vita cittadina, il giudice e l'amministratore della comunità. Il momento di saldatura fra tali
sfere è costituito dalla più elevata funzione del rex di mediatore fra gli dei e gli uomini.
La volontà degli dei assume un valore particolare già nella vicenda di Romolo, l'eroe fondatore; poi, la nomina di Numa
Pompilio, è collegata ad una cerimonia descritta abbastanza minuziosamente dagli storici antichi. Di fronte al popolo
riunito, operando rispetto ad uno spazio sacro appositamente determinato (il templum), l'augure, in una cerimonia ricca
di simbolismo, toccando con la destra il capo di Numa, richiede l'assenso degli dei alla nomina di questo a re della città.
L’inauguratio non serve solo a consultare la volontà divina, ma realizza una sacralizzazione della persona inaugurata.
Assolvono una funzione determinante anche le altre componenti della comunità cittadina: il popolo e il senato. Il primo,
già presente all'atto dell'inauguratio, secondo Cicerone eleggerebbe addirittura il rex nei comizi curiati, con
l'autorizzazione del senato. La partecipazione del popolo al processo di formazione del nuovo re è attestata da un istituto
persistente in età repubblicana: la lex curiata de imperio.
In effetti i magistrati repubblicani, successivamente alla loro elezione nei comizi centuriati, dovevano esser confermati
nel loro comando dai più antichi comizi curiati (o da una loro parvenza simbolica). Questa è la procedura che da luogo
alla lex de imperio. Secondo la maggior parte degli storici tale cerimonia dovrebbe esser proiettata all'indietro. Un
problema diverso è se questa lex esprimesse una vera e propria elezione popolare. È probabile in effetti che, negli autori
antichi che identificavano l'intervento delle curie con una effettiva elezione, giuocasse l'esempio del funzionamento dei
comizi d'età tardo-repubblicana. Il Mommsen ha svalutato tale interpretazione insistendo piuttosto sull'importanza
centrale che, nella nomina del nuovo magistrato supremo, avrebbe avuto la creatio da parte del predecessore. In effetti,
questa creazione del rex, piuttosto che al predecessore, sarebbe stata affidata all'interrex, essendo il rex stesso nominato
a vita. In tal modo i comizi curiati sarebbero intervenuti in tale procedimento con una funzione solo passiva. Secondo il
grande storico tedesco, la lex curiata sarebbe stata un semplice impegno di obbedienza al nuovo re da parte del popolo.
Se simile valutazione è nel giusto, come è abbastanza probabile, assumeranno ancora maggiore importanza la creatio
del rex e l'interregnum, che si ha quando, subito dopo la scomparsa del rex, il senato interviene assumendo nel suo
complesso i poteri di costui e gestendoli collettivamente. Di fatto tali poteri venivano attribuiti a un collegio di 10
senatori, cui spettavano collettivamente; invece, le insegne di comando venivano attribuite individualmente a ciascuno
di costoro per 5 giorni di seguito. La nomina del nuovo re veniva effettuata da uno di questi interreges (non il primo)
non appena i segni divini (le condizioni politiche) lo avessero reso possibile.
Diversi autori hanno proposto una distinzione sulla base dei differenti tipi di poteri di pertinenza del re. In particolare, i

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poteri civili deriverebbero dalla creatio, quelli militari dalla lex curiata e quelli religiosi dall’inauguratio.
È dubbio che i Romani dell'VIII o del VII secolo avessero chiaro il problema della sufficienza o meno della creatio (o
dell'inauguratio o della lex curiata) ai fini della piena assunzione dei poteri del rex. Di fatto, sia la creatio che il
successivo rituale potevano realmente effettuarsi solo quando già si fosse pervenuti ad una volontà politica unitaria. La
mediazione necessaria a realizzare tale situazione avveniva a monte della formale procedura di nomina del nuovo re. La
creatio non faceva che registrare tale consenso, per cui la successiva lex curiata e l'inauguratio difficilmente potevano
assumere il carattere formale di integrazione di un atto incompleto. Esse erano conseguenze inevitabili, il cui rifiuto,
mai registrato, avrebbe avuto un valore eversivo rispetto al modello costituzionale che si veniva delineando.
I compiti del rex e i suoi principali collaboratori - La legittimazione al governo della città è data al rex dal suo ruolo
di supremo mediatore fra la comunità e gli dei. Come garante della pax deorum, egli può e deve interrogare gli dei per
tutte le decisioni che attengono direttamente alla vita della città, mediante gli auspicia; tale competenza costituisce il
fondamento stesso del suo potere sovrano.
Il comando militare, nel corso del tempo, è destinato a rafforzarsi progressivamente, sino addirittura a caratterizzare la
figura del monarca nell'età dei re etruschi. Secondo vari studiosi, l'accentuarsi dell'aspetto militare avrebbe trasformato
la stessa natura dei poteri regi, con il passaggio dalla primitiva potestas (parola in genere impiegata a indicare il potere
del rex) dei re latini all'imperium (il termine tecnico che designa il comando dei supremi magistrati repubblicani) dei
reges etruschi, che evidenzierebbe il contenuto militare del supremo comando.
II comando militare, che copre un ambito più vasto della mera guida dell'esercito, e in genere i poteri del rex, vengono
esercitati con l'ausilio di una serie di collaboratori il cui ruolo si fonda su una delega più o meno ampia del sovrano.
Nel comando dell'esercito, accanto al re si incontra un magister populi, che è il suo diretto ausiliario e, nel caso in cui il
rex sia trattenuto in città dai suoi doveri religiosi e civili, lo sostituisce nel supremo comando militare. Accanto al
magister populi, in posizione subordinata, vi è il magister equitum, che ha il comando dei contingenti di cavalleria.
Riferiti ugualmente alla sfera dei poteri militari appaiono anche gli altri collaboratori competenti nella repressione dei
crimini più gravi, fra i quali i quaestores parricida.
All'interno della civitas ben difficilmente si può distinguere una serie di competenze specifiche del rex senza falsare i
caratteri stessi della figura, il cui potere e le cui competenze si presentano in termini essenzialmente unitari.
In primo luogo va ricordata la funzione di giudice supremo, che non deriva solo dalla posizione sacerdotale del rex, ma
anche da quello di garante dell'unità cittadina: certe tensioni fra gruppi familiari e gentilizi non dovevano essere lasciate
alla semplice autodifesa e alla vendetta privata, ma mediate dall'intervento esterno.
Al rex spetta anche il compito di elaborare e illustrare ai suoi cittadini quelle poche norme destinate a regolare la vita e i
rapporti all'interno della città e in base a cui si potrà appunto stabilire la ragione e il torto. Sebbene consuetudini
giuridiche e norme di comportamento fossero già un patrimonio delle singole gentes e venissero recepite poi dalla
comunità cittadina, è verosimile che questa rielaborasse tale materiale e si avviasse verso forme più ampie di
normazione. Gli autori antichi parlano di leggi votate dai comizi e approvate dal senato anche in età monarchica, con un
meccanismo immaginato come analogo a quello che sarà proprio delle leges in età repubblicana.
In realtà, è più probabile che le leges regiae fossero espressione del potere di ordinanza del re e consistessero nella
formalizzazione e nel cristallizzarsi di precetti consuetudinari; questo materiale veniva comunque utilizzato dal rex
come contenuto di una normativa da lui autoritativamente introdotta e, forse, resa nota al popolo riunito assemblea.
Quanto ai contenuti di tali leges, la materia religiosa aveva grande importanza, ma, oltre a regole più direttamente
attinenti alla limitata sfera dei rapporti pubblici, buona parte delle norme riguardano l'ordinamento criminale ed i
rapporti privati: anche questi ultimi venivano poi regolati prevalentemente con sanzioni religiose o sacrali. Così si
trovano delle regole molto articolate relative organizzazione della famiglia e alla condizione delle persone.
È verosimile che un complesso di regole relative sia alla vita religiosa che ai rapporti privati fra i singoli patres possa
essere stato elaborato nel corso dell'età monarchica. È anche possibile che in questo campo si sia verificato l’intervento
dei pontefici o dei feziali, se non altro come strumento della memoria e della sapienza politica e religiosa della città.
I collegi sacerdotali - I collegi sacerdotali, pur non potendo essere considerati organi ausiliari del rex, appaiono
strettamente legati alla sua figura ed al suo ruolo. Del resto lo stesso rex si presenta come il supremo sacerdote di Roma.
I 3 collegi di primaria importanza nella vita della civica erano quelli dei pontefici, dei feziali e degli auguri.
Il primo, presieduto dal pontefice massimo, in età monarchica era composto da 5 membri, scelti per cooptazione a vita;
in età tardo-repubblicana comprendeva 15 pontefici maggiori (o pontefici in senso proprio) e alcuni pontefici minori. Il
collegio è presente in ogni manifestazione di rilievo della vita della città. La sua rilevanza trascende ampiamente gli
aspetti più strettamente religiosi della comunità, benché su di essi tale collegio abbia un ampio potere di controllo e di
intervento. Ancora in età repubblicana era compito dei pontefici quello di dare il parere sulle varie cerimonie religiose
deliberate dalla città e assistere tecnicamente i magistrati destinati a presiedere tali cerimonie. Molti sacrifici e vari culti
minori erano inoltre direttamente assicurati dai pontefici. Inoltre, sia la conoscenza dei modi del computo del tempo e
della divisione dell'anno che la memoria delle antiche tradizioni giuridiche e della successiva elaborazione ad opera dei
reges è competenza pressoché esclusiva dei pontefici che appaiono dunque un elemento essenziale della stessa attività
regia. Il collegio dei pontefici in sostanza ci appare come il depositario di un sapere tecnico e costituisce, da questo
punto di vista, il meccanismo atto a garantire la memoria collettiva della città.
Il collegio dei feziali, costituito da 20 sacerdoti nominati a vita per cooptazione, era competente per i rapporti
internazionali di Roma; di volta in volta è scelto con un rituale assai arcaico un pater patratus che si incontrerà col pater
patratus di un altro popolo al fine di stipulare un trattato fra le 2 comunità. Non sembra che, al di fuori del pater

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patratus, la cui nomina era però temporanea, vi fosse un ordine di priorità o una presidenza del collegio.
Mentre la sostanza dei rapporti internazionali spetta al rex e ai detentori del potere effettivo di scelta e di indirizzo della
politica estera romana, i feziali controllano la regolarità formale di tutte le attività romane aventi rilevanza
internazionale, traducendo le decisioni politiche nella forma richiesta dall'ordinamento romano per la validità degli atti
internazionali. In pratica, garanti della fides publica inter populos, sarà loro compito provvedere ad assicurare o a
chiedere il risarcimento di torti arrecati a Roma da comunità straniere, a controllare l'esatta applicazione dei trattati già
esistenti e a dichiarare in forme legali una guerra giusta ai popoli che avessero arrecato oltraggio ai Romani.
Questo corrisponde bene al rigido formalismo che sembra regolare la società romana arcaica e permette di legittimare,
con il rispetto di una serie di formalità, una data politica. Così sarà possibile considerare una guerra come giusta perché
dichiarata nel rispetto di certe regole formali, prescindendo dall’effettiva gravità delle offese subite, di cui i Feziali
chiedono la riparazione. Inoltre, proprio il rigido formalismo che regolava l'azione dei feziali favorì il formarsi di un
complesso di regole procedurali e sostanziali che costituisce il ius fetiale, un primitivo diritto internazionale.
Non è sorprendente che una comunità primitiva si interrogasse sulla volontà divina, al fine di regolare la vita sociale e
di prendere decisioni importanti, mentre è più difficile spiegarsi il perché ciò, a Roma, diede luogo a 2 sistemi diversi
(augurio ed auspicia), che non trovavano certo il loro motivo di differenziazione nel carattere dei segni né nel contenuto
delle interrogazioni rivolte agli dei. L'aspetto che più immediatamente differenzia questi 2 campi è rappresentato dagli
individui legittimati a ricercare la volontà divina: rispettivamente gli auguri e il rex e i magistrati repubblicani. Inoltre,
l'auspicium preso dal magistrato sembra riguardare prevalentemente una situazione concreta e vicina nel tempo, mentre
l'augurium può riguardare una situazione lontana nel tempo e investire un oggetto più ampio. Infine, l'augurium
sembrerebbe comportare non la mera ricerca della volontà divina, ma un incremento di potenza spirituale, un
arricchimento della condizione e dell'azione umana a seguito di un richiesto intervento degli dei.
Proprio per questi motivi, la maggioranza degli studiosi moderni tende ad escludere l'appartenenza del rex agli auguri.
Da una parte dunque si sarebbe avuto il rex inauguratus con il potere di trarre gli auspicia, dall'altra il collegio degli
auguri col potere di inaugurare e di interrogare gli dei mediante gli auguria. Quest'ultima sfera di competenza sembra
più vicina ad una dimensione più propriamente religiosa, mentre il rex, mediante gli auspicia, si rivolgeva agli dei
essenzialmente per essere guidato nel corso del suo operare quotidiano e nelle sue scelte.
Tutto ciò giustifica il grande prestigio del collegio degli auguri e il fatto che esso fosse composto di pochissimi membri
(5 in origine), tutti di elevato rango sociale. All'interno del collegio si aveva poi un ordine di priorità fondato sull'età dei
vari membri. Come per i feziali, anche in questo campo si venne solidificando una scienza e un diritto augurale.
I mores ed il diritto - Il sistema normativo del periodo monarchico, che si esauriva nei mores, dura fino alle XII
Tavole; lo stesso passaggio alla forma repubblicana di governo non sembra essere stato sancito da una legge comiziale.
Il fatto che mores diano luogo ad un ordinamento non scritto e che il termine mores indichi gli usi ha reso ovvio
rappresentare l'ordinamento giuridico della civitas fino alle XII Tavole come un ordinamento consuetudinario. Per
consuetudine si intende quel modo di produzione del diritto che si fonda sulla ripetizione di comportamenti uniformi da
parte dei consociati. È discusso, invece, se sia elemento necessario per la consuetudine l’opinio iurìs ac necessitatis, e
cioè la convinzione da parte dei consociati stessi di osservare, in quei comportamenti una norma giuridica.
Guardati dal punto di vista di noi moderni i mores sono senz'altro norme a formazione consuetudinaria, ma è probabile
che ciò non fosse vero nella consapevolezza dei contemporanei. Si tende così, nella dottrina più moderna, a vedere nei
mores non tanto il fondamento di validità su cui si sarebbe basato l'ordinamento, quanto il modo con cui si manifestava
un diritto che avrebbe trovato un fondamento che trascendeva il valore dell'uso in sé considerato. Due sono stati i punti
di vista che sono stati fatti valere al proposito: 1. i mores manifesterebbero un ordinamento insito nelle strutture stesse
della società civica e precivica, e che corrispondeva alla natura delle cose; 2.il fondamento teocratico della validità
dell'ordinamento, cioè la corrispondenza delle regole che lo compongono alla volontà della divinità. L'aspetto del
rapporto fra religione e diritto viene generalmente espresso con i termini ius e fas.
Il rapporto fra religione e diritto può riguardare la religione sotto 2 differenti aspetti. Per quanto riguarda il sistema di
valutazioni etiche o morali che connaturale a qualsiasi religione, il rapporto fra norme giuridiche e quelle morali di una
religione positiva si atteggia nello stesso modo in cui di regola si struttura il rapporto fra diritto e morale.
Una religione che non si esaurisca nella sfera di coscienza del singolo credente rappresenta un fenomeno sociale, che si
manifesta soprattutto nell'esistenza di una comunità di fedeli, dotata di un proprio ordinamento giuridico, a prescindere
dai rapporti con l'ordinamento della comunità politica generale, lo stato. Nell'ordinamento interno di una comunità
religiosa hanno particolare rilevanza, sul piano giuridico, le valutazioni etiche corrispondenti alla morale positiva di
quella religione, fondate, essenzialmente, sui rapporti con la divinità. La violazione dei doveri relativi a queste
valutazioni etiche viene così considerata come un illecito sul piano dell'ordinamento proprio della comunità religiosa.
Il rapporto fra lo stato e la religione assume particolare rilievo nel mondo antico, soprattutto in strutture sociali come
quelle delle comunità preciviche e della città-stato; qui, la religione nella pòlis è una religione di stato: nessuno può
praticare una religione diversa da quella della comunità, e l'appartenenza alla città-stato comporta necessariamente
l'appartenenza alla religione dello stato. Ciò significa che la comunità dei fedeli e quella dei cives coincidono. Il ius
humanum ed il ius divinum o sacrum, nei limiti in cui la differenza può porsi nella Roma delle origini, sono due insiemi
di norme che concorrono a formare, paritariamente, l'ordinamento della civitas.
Un valore essenziale nelle società antiche, e a Roma in particolare, è la pax deorum, la conservazione di un rapporto con
le divinità che ne garantisca il favore nei confronti della civitas e dei singoli appartenenti alla comunità. Deve esser
evitato qualsiasi atto che possa turbare la pax deorum e, se un tale atto si verifica, esso deve esser represso ed espiato in

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base all'ordinamento della civitas.
Quindi non può accettarsi una visione che tenda ad una rigorosa separazione del fenomeno religioso dall’organizzazione
dello stato e del diritto; le notizie che abbiamo su questo periodo della storia romana sono poche, ma permettono di
ricavare un quadro da cui risulta che le valutazioni di ordine religioso risultano determinanti nel modo in cui, dal punto
di vista giuridico, sono regolati larghissimi settori della vita della comunità cittadina. Si ha la previsione sia di sanzioni
giuridiche per comportamenti che si esauriscono nel rapporto fra la divinità e l'uomo, sia di sanzioni religiose per
comportamenti che si pongono sul piano dei rapporti extra-religiosi.
Nel complesso della tradizione romana, non vi sono testimonianze della posizione di norme direttamente da parte della
divinità; si è sostenuto che il collegamento delle norme che si manifestano nei mores con la volontà divina si possa
trovare nel processo, in quanto le sentenze del rex sarebbero state considerate come direttamente ispirate dalla divinità,
che era consultata attraverso l’auspicium o che manifestava la propria volontà nei procedimenti ordalici (giudizi di Dio).
Tuttavia, non risulta provata l'esistenza in Roma di prove di carattere ordalico, che chiamino a testimonianza della
ragione o del torto delle parti la divinità. Inoltre, non vi è traccia dell'utilizzazione dell'auspicium per determinare il
contenuto della sentenza: esso è adoperato per consultare gli dei sulla possibilità di svolgere, da parte dei magistrati, una
determinata attività ed è quindi rivolto necessariamente verso il futuro.
Secondo un’altra concezione, invece, i mores non rivelavano la volontà di divinità antropomorfe, ma un ordinamento
insito nella natura delle cose. Questo ordinamento vincolava sia uomini che dei, come dimostra la rilevanza, nell'ambito
del ius sacrum, del rito esattamente compiuto dagli uomini che vincola l'agire anche degli dei.
Si può ritenere che gli sviluppi socio-economici registrati nella fase etrusca della monarchia abbiano esercitato un
sensibile influsso nel senso di superare la rigidità di tale modello e che, già agli inizi del VI secolo a.C., si riconoscesse
che determinate norme giuridiche potessero trovare fondamento nella volontà politica.
Infatti, l'ordinamento basato sui mores non è un diritto naturale divino, connesso ad una volontà eterna ed immutabile
della divinità: la concezione immanentistica dell'ordine naturale insito nei rapporti socio-economici permetteva di
giustificare i mutamenti dell'ordine giuridico corrispondenti al variare di tali rapporti, senza necessità di venir meno ai
principi o di ricorrere all'operatività di atti di normazione positiva.
È evidente l'importanza che nella vita della comunità aveva la mediazione degli esperti del diritto, cioè dei pontifices,
ed è probabile che essa si sia accentuata dopo la fine della monarchia, quando cessò la connessione, nella persona del
rex, del supremo potere politico e sacrale, ed il pontifex maximus andò rapidamente svuotando le residue competenze
religiose del rex sacrorum, ridotto ben presto ad una struttura priva di qualsiasi rilevanza pratica. Ancor prima
dell'interpretatio dei mores, ai pontifices era affidata la memoria degli stessi, non ancora codificati. Dal modo in cui è
stata portata a termine la redazione delle XII Tavole, risulta che esistevano memorizzazioni dei mores precedenti a cui
potevano aver atteso soltanto i pontifices e di cui nella tradizione si conserva la traccia nelle leges regiae.
La questione delle leges regiae ha dato luogo ad ampie discussioni in dottrina; non sono attendibili le notizie di
complesse normazioni da parte dei re della monarchia latina, riguardanti principalmente l'organizzazione costituzionale
dello stato, ma è difficile negar fede alle fonti che attestano l'esistenza, in periodo predecemvirale, di norme il cui tenore
è strutturalmente analogo e spesso coincidente anche nel contenuto con le norme decemvirali stesse. È da escludere che
si tratti di provvedimenti fatti votare dal re nelle assemblee popolari allora esistenti, ma si può pensare a leges imposte
autoritativamente ed unilateralmente dal rex (ed eventualmente comunicate ai comitia).
Gli inizi della repressione criminale - II sovrapporsi dell'organizzazione cittadina ai gruppi sociali minori apre la
strada al graduale inserimento della persecuzione statale nel primitivo regime della vendetta privata. La comunità in
origine interviene di rado nella repressione dei crimini, lasciata alla reazione degli offesi, talora temperata dal taglione e
dalla consuetudine del riscatto. Soltanto nei casi in cui il fatto criminoso appare come un'infrazione alla pax deorum, lo
stato ritiene necessario interporre la propria opera per il ristabilimento dell'ordine turbato. E poiché della pace con gli
dei è custode il re, sommo sacerdote della comunità, a lui spetta l'applicazione di idonee sanzioni di natura religiosa.
Ampie tracce di un sistema punitivo fondato sull'espiazione sacrale si trovano nelle leges regiae, nelle quali la moderna
critica ravvisa le fonti più antiche del diritto criminale romano. Anche se alcune prescrizioni possono sembrarci volte
alla tutela della sicurezza pubblica, agli occhi degli antichi l'interesse laico era solo secondario e indiretto rispetto a
quello di ripristinare l'equilibrio fra la comunità e il mondo divino. Inoltre, tali leggi non configurano un sistema
organico di norme e lasciano ampio margine alla libera coercizione del monarca e alla persecuzione privata del gruppo
offeso: generalmente prescrivono (o vietano) il compimento di determinati atti, prevedendo sanzioni di carattere sacrale
per il trasgressore, o regolano l'esercizio della vendetta da parte di chi è ad essa legittimato dal costume.
Tra le statuizioni della prima serie rientrano numerosi precetti volti alla persecuzione di crimini interessanti la sfera
religiosa e di comportamenti lesivi di fondamentali rapporti (di famiglia, di clientela, di vicinato) della comunità
primitiva, originariamente repressi nell'ambito domestico o attraverso la rappresaglia. In qualche caso la normativa
regia si limita semplicemente ad accogliere gli antichi mores gentilizi, ma il più delle volte l'antica persecuzione,
familiare o di gruppo, cede il posto alla persecuzione statale, fondata sul concetto dell'espiazione religiosa.
Le infrazioni di minor rilievo (scelus expiabile) comportano per il trasgressore soltanto l'obbligo di un'offerta espiatoria
(piaculum) consistente nel sacrificio di un animale o nella devoluzione di un'entità patrimoniale alla divinità offesa. Per
esempio, in forza di leggi che la tradizione attribuisce a Numa, la vedova passata a nuove nozze prima dell'anno di lutto
deve sacrificare una vacca gravid; così, per legge detta di Remolo, il marito che senza giusto motivo abbia ripudiato la
moglie vede votata a Cerere la metà dei suoi averi, mentre l'altra metà è devoluta alla donna ripudiata.
Tuttavia non sempre il piaculum è sufficiente a placare l'ira degli dei: le colpe più gravi non ammettono espiazione

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(scelus inexpiabile) per cui il trasgressore è chiamato a rispondere con la sua persona, ed eventualmente con i suoi beni,
alla divinità offesa. Le fonti ci conservano testimonianza di 2 diverse forme di pena sacrale, o supplicium: l'abbandono
del colpevole e di quanto gli appartiene al dio oltraggiato (consecratio capitis et honorum) e la sua diretta messa a morte
a quale sacrificio espiatorio (deo necarì).
La consecratio comporta l'allontanamento del reo dalla comunità e il suo abbandono alla vendetta della divinità offesa.
Egli non gode più di alcuna tutela e chiunque può ucciderlo senza tema di incorrere nella sanzione dell'omicidio. La
religione non ravvisa tuttavia l'esigenza di placare l'ira divina mediante il sacrificio rituale del colpevole e, pur
ammettendo che la consacrazione abbia come conseguenza ultima e normale la morte del consacrato, non consente la
sua immolazione in guisa di vittima sacrificale ad opera degli organi della comunità. Tra i crimini così puniti, vi è la
violazione di fede del patrono nei confronti del cliente e viceversa e le violenze del figlio contro i genitori.
L'immediata messa a morte del reo a titolo di sacrificio espiatorio è invece prevista per alcuni crimini ritenuti lesivi ad
un tempo della religione e della societas civium. Esempio tipico è la perduellio, crimine diretto al tempo stesso contro
gli dei protettori della civitas e contro la compagine sociale, o la punizione del ladro notturno di messi, contenuta nella
legge delle XII Tavole ma probabilmente già enunciata in una lex regia.
Per quanto attiene alle leges regiae intese a regolare la persecuzione privata da parte del gruppo offeso, dev'essere
anzitutto ricordata la norma, attribuita a Numa, sull'uccisione volontaria di un uomo libero, la cui controversa sanzione
(paricidas esto) sembra doversi interpretare nel senso che imponesse ai congiunti dell'ucciso di uccidere l'uccisore. Ciò
trova conferma nel raffronto con la statuizione in materia di omicidio involontario che impone all'autore del crimine di
consegnare, alla presenza del popolo (in contione), un ariete agli agnati dell'ucciso, perché sia sacrificato in sua vece.
Una normativa siffatta, pur restando ancorata alle concezioni religiose che caratterizzano l'ambiente sociale e culturale
dell'epoca, rappresenta un momento di decisivo progresso nell'evoluzione del diritto criminale romano, sia per il rilievo
attribuito alla distinzione tra atto volontario ed atto involontario, sia perché apre la strada all'avocazione allo stato della
persecuzione dell'omicidio: infatti, essa trasforma l'omicidio volontario in un crimine non suscettibile di composizione,
del quale la comunità deve essere edotta e fissa un limite all'indiscriminata reazione dei parenti dell'ucciso. Ciò pone le
basi per una graduale configurazione dell'omicidio quale crimine di interesse pubblico sanzionato dallo stato e dotato di
propria individualità rispetto agli altri delitti ordinariamente rientranti nella sfera della vendetta gentilizia, come il furto
e le lesioni corporali, i quali andranno invece confluendo nella generale sanzione della pena pecuniaria privata. Il
significato del termine paricidas e l'interpretazione della formula paricidas esto sono tuttora oggetto di dibattito; oggi,
l'interpretazione che gode di maggior seguito ravvisa nell'espressione paricidas esto la clausola sanzionatoria della lex
Numae. Tale ipotesi èquella che meglio s'accorda con la parallela statuizione in materia di omicidio involontario, che
prevedendo la dazione dell'ariete in funzione sostitutiva del sacrificio del reo, ne costituisce il naturale complemento.
Non sempre l'intervento punitivo dello stato appare tuttavia riconducibile all'idea della purificazione della collettività di
fronte alla collera divina. Accanto ai reati colpiti da sacertas o sanzionati attraverso l'obbligo sacrale della vendetta, vi
sono altri fatti criminosi rivolti contro l'esistenza stessa della compagine statale, oggetto di pubblica persecuzione non a
fini purificatori, ma per il principio che all'offesa si risponde con l'offesa. Tra essi la proditio, o tradimento col nemico
(a torto considerata dagli studiosi meno recenti una specie della perduellio, crimine contro l'ordine politico della civitas
estraneo all'ambito del diritto di guerra), ed un'ampia gamma di illeciti suscettibili, al pari del tradimento, di mettere in
pericolo l'integrità del populus militarmente organizzato. Nella persecuzione di tali illeciti il re opera in veste di
comandante militare ed esplica il potere illimitato di coercizione derivante dal suo imperium. La sua attività non
costituisce esercizio della funzione giurisdizionale, ma estrinsecazione della facoltà di repressione inclusa nel supremo
potere di comando: ci troviamo cioè sul terreno della coercitio, non su quello della iudicatio. Il re non è vincolato da
norme né da procedure prestabilite ed è libero di adottare tutti i rimedi che gli sembrano necessari per la repressione del
crimine. La pena ha carattere laico e consiste di regola nella fustigazione e successiva decapitazione con la scure.
Quanto al modo di esplicazione della potestà punitiva regia, le incertezze e le contraddizioni delle fonti non permettono
di stabilire se il re giudicasse da solo o dopo aver ascoltato il consiglio degli anziani o con la loro partecipazione. Che
nella persecuzione di taluni crimini egli si avvalesse di ausiliari sembra probabile, ma quali fossero tali ausiliari e quali
le funzioni ad essi conferite non è agevole stabilire. La tradizione parla, a questo proposito, di quaestores par(r)icidii e
di duumviri perduellionis: compito dei primi sembra essere stato quello di accertare se l'omicidio fosse o meno
avvenuto con dolo e di sovraintendere all'esercizio della vendetta dinanzi al popolo in contione; i secondi invece
costituivano un tribunale straordinario a cui era affidato l'incarico di proclamare la responsabilità e di procedere
all'immediata esecuzione del capitale del reo di perduellione colto in flagranza.
Più difficile è determinare se il popolo intervenisse in qualche veste nei processi penali. Una tradizione raccolta da
Cicerone e da Livio fa addirittura risalire al tempo dei re il diritto del cittadino minacciato di pena capitale di invocare il
giudizio dell'assemblea popolare (provocatio ad populum). La più antica testimonianza di tale diritto sarebbe offerta dal
celebre processo dell'Orazio, unico superstite della lotta coi Curiazi, condannato a morte per perduellione e graziato dal
popolo per le benemeranze acquisite verso la patria. La vicenda non fu verosimilmente inventata dall'annalistica, ma
derivata da un antico episodio del patrimonio epico. Vi è ragione di credere che il racconto originario non contenesse
alcun accenno alla provocatio e che il popolo intervenisse nel giudizio su iniziativa del re, che intendeva con il conforto
dell'opinione pubblica sottrarre l'eroe alla crudele pena prevista dalla legge. Solo in epoca più tarda, allorché gli
annalisti vollero creare, a conferma dell'antichità dell'istituto, un processo archetipo che riportasse le sue origini all'età
regia, l'antica storia fu rielaborata e si introdusse nel testo (autentico) della legge la clausola di provocazione.
Ma anche se la provocatio è un'anticipazione da respingere, una partecipazione dei membri della comunità ai giudizi

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criminali non è impossibile né inverosimile. Sembrano darne conferma le fonti archeologiche, che attestano la creazione
negli ultimi anni del VII secolo di uno spazio destinato a riunioni del popolo (il comitium), e la sigla del più antico
calendario romano Q(uandoc) R(ex) C(omitiavit) F(as), che mostra che in determinati giorni il re comiziava, ossia
teneva un'assemblea a scopo di giurisdizione. In origine l'intervento del popolo non doveva consistere in un voto, ma in
una semplice prestazione di testimonianza, mentre il diritto di decidere spettava al re; tuttavia, in seguito, dapprima per
concessione del re, poi per diritto acquisito in via consuetudinaria, il popolo incominciò indubbiamente a prendere parte
attiva alla punizione dei crimini.
Le curie - La divisione per curie si inquadra in un complesso sistema di organizzazione della cittadinanza, di cui essa è
peraltro un elemento centrale. Tali organismi si collegavano ad una specifica dimensione territoriale e, una volta fuse
nell'ambito della comunità cittadina, ciascuna conservò una sua sede per celebrare in comune i sacrifici. Ancora nella
tarda età repubblicana le curiae veteres, site fra il Celio e il Palatino, erano la sede di alcune curie, mentre tutte le altre si
erano spostate in un edificio più recente, originariamente destinato ad accoglierle tutte e 30: le curiae novae.
Su come la popolazione si distribuisse in questi organismi abbiamo notizia da parte di un giurista di età adrianea:
diversamente dalle centurie e dalle tribù, la cittadinanza sarebbe distribuita fra le varie curie per genera hominum. Su
tale indicazione si è discusso a lungo: per alcuni studiosi essa stabiliva una diretta correlazione delle curie alle gentes
(identificandosi in tal caso genus con gens); per altri il rapporto sarebbe meno evidente, riconoscendosi a genus un
significato più ampio e generico. Comunque, se questo vincolo si manteneva per più generazioni, come doveva avvenire
dentro le curie, il processo di formazione delle gentes finiva con l'esserne agevolato.
Possiamo dunque supporre che la appartenenza alle varie curie fosse, in linea generale, fondata sui legami familiari e
sul lignaggio, il che ben si accorderebbe alla possibilità dell'esistenza di alcune curie sin da età precivica. Più incerto
invece appare il collegamento fra il sistema delle curie e la struttura del territorio: benché alcune curie traggano la loro
denominazione dai nomi di località, si può presumere che tale rapporto fosse mediato dagli stessi gruppi gentilizi aventi
un peso maggiore all'interno delle singole curie. Il processo di unificazione politica era destinato a indebolire il legame
dei gruppi gentilizi e familiari con i vari insediamenti territoriali.
Dionigi ricorda che Romolo, dopo aver distribuito il popolo in tribù e curie, divise il territorio di Roma in 3 parti: 1
destinata alle esigenze dei templi e della corona, 1 di pertinenza diretta della collettività e 1 assegnata in proprietà
privata ai singoli cittadini; quest'ultima sarebbe stata distribuita alle 30 curie in parti eguali. In tal modo esse avrebbero
svolto una funzione di mediazione rispetto al processo di appropriazione della terra da parte dei singoli individui.
Le curie svolgevano una funzione di carattere amministrativo che entra in gioco soprattutto per quanto concerne gli
aspetti militari. I 3000 fanti che nella primitiva costituzione romulea descritta da Dionigi costituiscono l'organico
dell'esercito romano sono infatti la somma dei contingenti fissi di 100 uomini forniti da ciascuna delle 30 curie. Queste
poi sembrano impegnate a fornire ognuna 10 cavalieri, per un totale complessivo di 300. In tal modo il sistema delle
curie sembra fondersi in modo organico con la struttura delle 3 tribù romulee.
Accanto ai comizi curiati, gli antichi ricordano i comizi calati, convocati per mezzo di un calator, ad opera dei pontefici.
È difficile stabilire in che consistesse la sostanziale diversità e se sia legittimo parlare di 2 diversi tipi di comizi. Incerte
appaiono infine alcune specifiche competenze dei comizi calati rispetto ai curiati: 1'adrogatio sembra spettare a questi
ultimi, il testamentum calatis comitiis, come prova la sua stessa denominazione, pur essendo strettamente
collegatoall’adrogatio, sarebbe di competenza dei comizi calati.
Inoltre, il popolo, riunito per curie, partecipava alla nomina del nuovo re, ma questa attività non esaurisce il ruolo dei
più antichi comizi curiati. È probabile che nella prima età cittadina i comizi avessero un ruolo abbastanza passivo, di
testimonianza e di generica adesione. Lo stesso termine che indicherà il voto delle assemblee popolari, suffragium, si
ricollega al rumore, evocando il momento in cui l'assemblea si esprimeva attraverso rumori di approvazione o dissenso.
Solo in un momento successivo, che si ricollega probabilmente all'affermarsi di altre forme di assemblea popolare, si
dovette giungere a formalizzare ulteriormente il peso e il carattere della partecipazione popolare sottolineando più
fortemente l'elemento del consenso.
Fra i più importanti atti effettuati di fronte alle curie, va annoverata l'enunciazione del calendario che il rex faceva
all'inizio di ogni mese. Con l'ausilio dei pontefici egli indicava, cioè, i giorni fasti e nefasti (in cui moltissime attività
erano vietate), scandendo il tempo e la vita di tutta la comunità. L’importanza di tali indicazioni del rex era dovuta
anche al fatto che l'anno romano era, allora, diviso in dieci mesi mobili, in cui la divisione del tempo non dava luogo a
periodi regolari facilmente conoscibili da tutti.
Dionigi ricorda inoltre, fra le competenze dei comizi curiati, le scelte concernenti la guerra e la pace e la nomina dei
magistrati ausiliari del rex, ma è più verosimile che il re si presentasse all'assemblea più con le decisioni che con vere e
proprie proposte. Tuttavia è comprensibile che alla guerra si finisse poi con l'addivenire solo se l'annuncio regio avesse
suscitato fra gli astanti un minimo di consensi, come anche che gli ausiliari del re, più che votati, fossero presentati al
popolo riunito in assemblea, che costituiva il destinatario del loro potere di comando. Per quanto concerne le leges,
statuizioni unilaterali del rex, è difficile che i comizi potessero intervenire efficacemente con un loro voto.
I comizi curiati intervenivano anche a presenziare una serie di attività più direttamente collegate alle strutture familiari e
gentilizie, il che conferma l'esistenza di un legame fra queste e il sistema delle curie. Così, ancora nell'età repubblicana,
un simulacro dei comizi curiati dovrà riunirsi a dare esplicita approvazione alla adrogatio, atto con cui un pater familias
si sottoponeva volontariamente alla potestas di un altro pater, ponendosi a tutti gli effetti come suo figlio. Nel
testamentum calatis comitns, la designazione di un'erede avviene anch'essa configurando una fittizia discendenza, che
però assume rilievo alla morte del testatore, comportando quindi solo la successione nella posizione del defunto da parte

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del designato. Una portata relativamente diversa aveva invece la detestatio sacrorum, con cui un membro di una gens
scindeva il suo vincolo familiare e religioso con il gruppo d'appartenenza. Sempre davanti alle curie dovevano
effettuarsi gli atti che modificavano la composizione e la struttura delle gentes, come il passaggio dal patriziato alla
plebe e l'ammissione di un nuovo gruppo gentilizio nella comunità.
Il senato - I componenti originari del senato sono anche indicati in senso tecnico come patres. La presenza di tale
organo sin dalle origini si riallaccia probabilmente al ruolo che gli anziani del villaggio dovevano assolvere nel mondo
dei pagi. Non a caso esso viene indicato in modo da far risaltare l'aspetto dell'età: senato viene da senes, l'anziano. È
dunque l'assemblea degli anziani, dei patriarchi delle varie gentes, ma, come la civitas non è la semplice somma delle
minori comunità politiche preesistenti, il senato non è mera assemblea dei capi delle gentes, sia per l’assenza di un
rapporto meccanico fra il numero dei patres e quello delle gentes, sia perché è dubbio che queste avessero un capo.
Tale idea era stata avanzata da vari studiosi che hanno fatto leva su elementi come l’interregnum per concludere che il
senato fosse l'insieme di tutti i capi delle gentes partecipanti all'ordinamento cittadino, per cui l'interregnum sarebbe il
ritorno, venuto meno il rex, del potere a quei capi sovrani degli organismi precivici che ne erano stati espropriati. Ma, di
fronte al numero evidentemente artificiale di 100 e poi di 150 o 200 senatori, e infine di 300, appare improbabile la
presenza di un numero corrispondente di gentes e una crescita di queste in numeri altrettanto artificiali.
Col rafforzarsi delle strutture cittadine sempre meno sarà il dato naturale della anzianità ad attribuire un particolare
ruolo politico ai membri delle gentes, mentre la partecipazione al senato si fonderà su una differenziazione sociale. Ad
esso saranno chiamati i patres più autorevoli per lignaggio e per il ruolo personale. Quanto poi al numero di senatori,
esso sarebbe cresciuto da 100 a 150 (o 200), secondo un'opinione diffusa, a seguito della fusione della città del Palatino
con la comunità sabina del Quirinale, sino al numero di 300 raggiunto sotto il regno dì Tarquìnio Prisco, quando Roma
conoscerà un ulteriore importante incremento sociale ed economico.
Tra le competenze di tale organismo, la più rilevante è l’interregnum; le testimonianze di cui disponiamo per l'età
repubblicana indicano che, anche in un periodo più tardo, i poteri derivanti non venissero genericamente devoluti al
senato, ma solo ai suoi membri patrizi: ai patres. Il che confermerebbe l'idea da molti sostenuta che, in una prima fase,
patres e senato dovevano identificarsi. Così come all'età monarchica parrebbe risalire un'altra importante prerogativa del
senato: quella di ratificare le delibere popolari mediante la sua auctoritas.
Accanto all'ìnterregnum e forse all'auctoritas, la funzione principale del senato consisteva nella consulenza e nell'ausilio
del rex. Anche qui non si deve anticipare la situazione propria dell'età successiva, in cui i consulta del senato avranno
ben altro peso nei riguardi dei magistrati repubblicani, ma anche in età regia il parere del senato deve aver rappresentato
un momento di mediazione politica, importante ai fini della formazione del consenso.
Per quanto riguarda la composizione di tale organismo, non esistendo un criterio obiettivo nella scelta dei patres e non
essendo ipotizzabile una designazione dal basso, è verosimile la scelta del re, condizionata comunque alla posizione
occupata da ciascuno dei designati all'interno delle singole gentes e dal peso delle varie gentes. Che il rex fosse talvolta
determinante lo mostra la vicenda relativa all'incremento del numero dei senatori ad opera di Tarquinio Prisco. Il vero
significato di tale provvedimento (creare un partito sicuro del re) era evidente già agli storici antichi, che, nel mettere in
evidenza il carattere di rottura dell'operazione di Tarquinio, non fanno riferimento al fatto che i nuovi senatori fossero
nominati dal rex (proprio perché su questo punto specifico non vi sono cambiamenti). L'elemento di novità è costituito
dal forte allargamento dei quadri; inoltre, mentre in precedenza la nomina dei nuovi senatori, sempre di spettanza del
rex, era comunque limitata ad una cerchia piuttosto ristretta di candidati, ciò non appare più vero nel caso di Tarquinio.
In precedenza infatti potevano aspirare al senato solo individui qualificati in base ad una situazione ereditaria
(appartenenza ad una gens) e da una specifica posizione personale di un certo rilievo all'interno delle stesse strutture
gentilizie. Invece, la scelta dei nuovi senatori sembra prescindere da un rango sociale già consolidato. Sembra che la
nomina dei nuovi senatori da parte di Tarquinio assumesse un significato opposto a quello che aveva la creazione dei
primi patres: mentre la designazione di questi ultimi si fondava sull'esistenza di preesistenti differenziazioni sociali,
sembra che la nomina fatta da Tarquinio accentui e acceleri una differenziazione sociale ancora non ben definita.
Patrizi e plebei - Che ad un ceto aristocratico, solidamente strutturato in gentes, si contrapponessero, in condizioni di
inferiorità, gruppi assai più numerosi di cittadini, indicati sin dall'inizio come plebs, è un dato costante nei richiami fatti
dagli autori antichi alle origini di Roma. Tuttavia il problema dell'origine della plebe e della sua successiva storia si
presenta come uno dei più oscuri per tutta l'età arcaica di Roma, a causa del numero e della varietà dei fattori che
possono aver giuocato nel senso di siffatta contrapposizione sociale e nella ricchezza delle interpretazioni che gli storici
moderni hanno potuto quindi formulare in proposito. In passato si è identificata la causa della distinzione patrizi-plebei
in una diversità etnica o comunque una sopraffazione militare di un gruppo precivico da parte di un altro, o nei diversi
ruoli assolti nella sfera economica. Così si associa tale distinzione alla contrapposizione fra pastori e agricoltori oppure
si collega la plebe ai ceti urbani e il patriziato alla campagna e alla sfera dell'agricoltura. Sebbene in queste valutazioni
sia indubbiamente presente un elemento di verità, il loro irrigidimento finisce con l'essere falsante. Tra le ipotesi degli
storici moderni vi è il formarsi di 2 gruppi sociali antagonisti come risultato di un processo storico sviluppatosi
all'interno della stessa vicenda cittadina, non come un dato esistente a priori e necessariamente statico. Il primo che ha
affrontato il problema nei suoi termini reali è stato Vico, dalla cui opera emerge l'idea di strutture familiari preciviche in
cui erano già presenti forme di subordinazione.
Nel secolo scorso si sono sviluppate 2 generali ipotesi ricostruttive: una è la tesi di Niebuhr, secondo cui la città,
derivata dalla fusione dei 3 comuni autonomi sfociati nelle 3 tribù romulee, aveva come suoi membri di pieno diritto
solo i patres inquadrati nelle curie. Fuori, anche materialmente, della città restavano le popolazioni conquistate da Roma

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e trasferite nelle sue immediate vicinanze o ivi migrate volontariamente. Tali gruppi erano composti di uomini liberi che
partecipavano alla vita economica della città, mentre il governo dello stato era loro precluso.
Su posizione diversa sembrano collocarsi autori quali l'Ihne e il Mommsen. Anche per costoro infatti l'originaria
cittadinanza romana andrebbe identificata con le gentes patrizie, ma essi danno maggior peso alla clientela come
elemento costitutivo dal nuovo ceto plebeo, che sarebbe nato dall'allentarsi dei vincoli che legavano i clienti alle gentes.
In realtà, le distanze fra i 2 orientamenti sono forse meno nette di quanto sembri. L'Ihne contrastava il Niebuhr non sul
punto fondamentale dell'essere il patriziato la vera cittadinanza, ma su quello del momento in cui la plebe ebbe origine.
Inoltre, per Mommsen, lo stesso istituto della clientela appare organicamente collegato alla realtà rurale. Ai clienti
sarebbe infatti assegnato dalle gentes patrizie una parte del territorio agricolo da coltivare in tanti piccoli lotti.
A partire dagli ultimi anni dell'800 erano state avanzate obiezioni sempre più gravi in ordine alle tesi sino ad allora
dominanti. Il carattere solo patrizio della primitiva cittadinanza romana poneva il problema di quando la plebe sarebbe
stata integrata nelle curie di cittadini, ma l’assenza di memorie su ampliamenti delle curie con elementi originariamente
estranei o su una pretesa in proposito dei plebei fa supporre che tale partecipazione esistesse sin dall'inizio.
Una vera e propria svolta si delinea già a partire dagli anni precedenti la seconda guerra mondiale, quando l'interesse
degli studiosi si sposta sempre più dal problema delle origini della plebe a quello legato alla successiva dialettica fra i
due ordini. Si abbassava così la prospettiva cronologica, in quanto, mentre il problema della genesi della plebe risale
alle origini stesse della città, lo sviluppo dell'antagonismo e i contenuti del conflitto fra plebei e patrizi trovano effettivo
sviluppo in epoca più tarda, collocandosi il loro momento più intenso nel primo secolo della repubblica.
Quindi la più recente storiografia si è interrogata soprattutto sulla composizione della plebe e sui fattori che ne hanno
determinato il coagulo. Per l'età monarchica infatti, è ben attestata solo la presenza delle strutture gentilizie e la loro
progressiva definizione nel senso di un compatto sistema aristocratico, mentre meno netta è la situazione degli elementi
che verranno a costituire la plebe. In tal senso appaiono particolarmente significative le osservazioni del Momigliano
volte a evidenziare il carattere sostanzialmente composito dei gruppi sociali estranei ai patres e che tuttavia, già in età
monarchica, facevano parte della civitas. Eterogeneità che, a suo avviso, solo nella prima età repubblicana, con
l'acutizzarsi dei conflitti sociali e la chiusura del patriziato in un gruppo chiuso ed esclusivo, sarebbe stata superata.
Riferendosi alle nuove forme organizzative dell'esercito romano introdotte da Servio Tullio e richiamando la
identificazione della legione di combattenti con la classis, il Momigliano la identificava con gli elementi patrizi e con i
loro clienti. Restava un gruppo sociale di rango minore, fuori dell'esercito, gli extra classem, che sarebbero il nucleo
originario della plebe, cui andrebbero aggiunti gruppi di clienti i cui legami con le genti patrizie si erano allentati. Ma
un altro gruppo sociale differenziato dai patrizi, anche se di rango relativamente elevato, sarebbe costituito, forse già
negli ultimi anni della monarchia, dai conscripti, i membri del senato non appartenenti ai patrizi. La saldatura fra i vari
gruppi non patrizi non sarebbe avvenuta prima dell'età repubblicana. Sarebbero così spiegati quei nomi non patrizi di
vari consoli dei primi anni della repubblica. In sostanza, il punto esatto di partenza nell'analisi del problema delle origini
della plebe consista nel tentativo perseguito dalla più recente generazione di storici di non interpretare su un piano di
contemporaneità la bipolarità patriziato-plebe.
La tendenza a interpretare la vicenda plebea in termini di un processo evolutivo e come il risultato dì successive
trasformazioni delle strutture sociali romane, appare oggi la più suggestiva, anche perché permette di sottolineare gli
indubbi nessi che il contrasto patrizi-plebei doveva avere con le forme economiche della società romana.
Il processo di trasformazione delle strutture gentilizie nel senso di un crescente processo di differenziazione sociale,
ancora nella prima età monarchica si svolgeva in gran parte all'interno della gens. Sono in sostanza i gentiles, gli strati
superiori della gente e della città che vengono assumendo il ruolo di una aristocrazia economica e politica, mentre i
gruppi subalterni in gran parte si trovano ancora all'interno della gens. È solo nell'ultimo secolo della monarchia che
prende corpo un processo nuovo che vede la stessa aristocrazia ai vertici della società gentilizia confrontarsi con una
forza antagonista che si coagula fuori delle gentes. Questo fenomeno corrisponde ad una fase della storia romana in cui
il ruolo delle gentes e del patriziato subisce una prima serie limitazione ad opera dei re etruschi.
La monarchia etrusca - È indicazione pressoché unanime, nella tradizione antica, di una cesura nella storia della
monarchia romana, che separerebbe i primi 4 re, d'origine latino-sabina, degli ultimi 3, di stirpe etrusca. Sempre più
cauti si è oggi nell' associare in modo meccanico questo cambiamento a quello della politica di Roma, anche se è
indubbio che per un certo periodo gli interessi di questa città sembrano avvicinarsi a quelli del mondo etrusco che, nel
corso del VI secolo, estende la sua sfera d'influenza verso l'Italia meridionale. È probabile che l'ascesa di Tarquinio
Prisco e di Servio Tullio al trono di Roma si colleghi soprattutto alla presenza di gruppi militarmente forti, al seguito di
abili capitani, ma ciò non esclude che il rafforzarsi di tali presenze fosse anche dovuto a congiunture legate alla politica
internazionale. Le testimonianze degli antichi associano la nuova fase della monarchia romana ad una situazione di
particolare benessere e di espansione anche politica di Roma e a profonde riforme introdotte nella sua costituzione.
Aumenta l'intensità e il livello dei traffici commerciali, anche a grandi distanze, favoriti dal rafforzato ruolo di Roma
come passaggio obbligato di importanti sistemi di comunicazione. Si sviluppano numerose attività artigianali, in buona
parte grazie all’impulso dei re etruschi a grandi opere pubbliche e anche nel campo delle attività agrarie si assiste a un
forte incremento dei livelli produttivi.
L'affermarsi o l'espandersi della proprietà privata della terra in concorrenza con i più antichi e vasti possessi comuni da
parte delle gentes e l'accresciuta importanza di un'economia cittadina legata ai commerci e all'artigianato non hanno
effetto solo sugli aspetti sociali, ma da incidono direttamente sull'assetto politico-istituzionale. Infatti il controllo sulla
terra coltivabile sfuggiva parzialmente alle gentes man mano che si espandeva la proprietà delle singole famiglie;

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inoltre, lo stesso sviluppo di un'economia cittadina difficilmente doveva verificarsi in forme omogenee alle strutture
gentilizie. Sia nel commercio che nell'artigianato appariva assai più funzionale un organismo più ridotto ed elastico, la
famiglia proprio iure, il cui ruolo nella società gentilizia non è ancora ben precisato.
Alla crescente importanza di nuovi rapporti di produzione corrisponde una struttura sociale nuova, dove il peso
dell'aristocrazìa e la sua capacità di controllo dei rapporti di produzione si attenua: come in tutte le società in fase di
espansione economica, Roma attira nuova forza lavoro e questa migrazione poteva prescindere dalla mediazione offerta
dalle gentes. Al contrario, è la crescente importanza di un'agricoltura fondata sulla proprietà privata e sono le opere
pubbliche, progettate e commesse dai re etruschi, a offrire nuovi sbocchi all'offerta di lavoro.
Le aristocrazie gentilizie un peso assai grande, ma il loro dominio ormai non è totale ed esse stesse non sono più in
grado di assolvere a un ruolo di unificazione dei processi sociali. È allora che si verificano le condizioni reali per
l'affermarsi di una forza sociale che tende a sottrarsi all'egemonia patrizia e che si identifica unitariamente come plebe.
I nuovi equilibri furono insieme causa ed effetto del ruolo particolarmente importante assunto dai re etruschi: infatti essi
sono essi i grandi committenti di opere pubbliche, gli autori delle divisioni dell' ager publicus in proprietà privata delle
singole famiglie proprio iure, di una politica espansionista più aggressiva, atta ad attirare nuovi elementi in Roma. Ma è
indubbio che il rafforzato prestigio del rex derivi dal fatto che egli poteva in parte emanciparsi dal pesante controllo
delle antiche aristocrazie che dominavano sia il consesso dei patres che le curie, nonché i collegi sacerdotali.
Diventa quindi comprensibile l'immagine dei re etruschi che la tradizione antica ci descrive come capi particolarmente
autoritari, talora tirannici, ma anche come grandi riformatori delle istituzioni, sino a identificare in Servio il fondatore
dell'assetto costituzionale vivo ancora in età repubblicana. Essi sono dipinti come eversori del vecchio ordine e creatori
di nuovi equilibri: si pensi all'ascesa al trono di Tarquinio Prisco e di Servio Tullio, che nella maggior parte degli storici
antichi appare più o meno viziata dal mancato rispetto delle forme costituzionali. E tuttavia a ciò si contrappone il
favore popolare di cui essi godono. Per questo acquista verosimiglianza un accostamento, effettuato da diversi studiosi,
dei re etruschi ai tiranni greci, volti a rafforzare le strutture cittadine con l'indebolimento delle antiche aristocrazie, sulla
base di un sostanziale appoggio popolare. Un altro punto centrale è costituito dal nuovo carattere di comando militare,
che sembra assumere toni più decisi di quelli dell'età precedente. Indubbia del resto è l'importanza in particolare di
Tarquinio Prisco e di Servio come riformatori dell'esercito.
Il rafforzato prestigio e l'autorità dei re etruschi è espressione di un mutato rapporto fra lo stato cittadino e i suoi
membri. Solo in quest'epoca una piena e assoluta sovranità della città è realizzata, con il venir meno delle funzioni
istituzionali delle gentes come elemento di mediazione fra i singoli e la comunità.
Già con Tarquinio Prisco vediamo delinearsi una significativa linea di politica costituzionale: l'allargamento del numero
di senatori, pur a vantaggio del rex, rispondeva anche a nuovi problemi dovuti alla presenza di un più vasto organico
della cittadinanza e all’accresciuta disponibilità di quadri emergenti, anche al di fuori delle antiche aristocrazie. Questa
ipotesi ci sembra confermata da quanto sappiamo circa il tentativo dello stesso rex di creare una nuova centuria di
celeres; all’opposizione dell'augure Atto Navio, egli avrebbe risposto sdoppiando le antiche centurie.
L'allargamento del senato spezzò in qualche modo il processo dì circolazione sociale che doveva essersi attuato nelle età
precedenti: la formazione di nuovi gruppi gentilizi e la loro nobilitazione era già possibile, ma doveva verificarsi in
modo limitato e graduale, per garantire la sostanziale stabilità dell'aristocrazia romana. L'immissione massiccia di 100 o
150 nuovi patres appare antitetica alle precedenti forme d'arruolamento e contribuisce all'emersione di un nuovo gruppo
sociale: le minores gentes che non si identificano tout court con la precedente aristocrazia gentilizia. Si prepara così,
agli inizi della repubblica, la serrata del patriziato.
I nuovi gruppi tendono ad assumere strutture analoghe all'antica aristocrazia, ma sussistono incertezze addirittura sulla
loro più tarda appartenenza al patriziato, il che fa pensare che, nella coscienza dell'epoca, dovesse essere ben chiara la
diversità di collocazione. È quindi possibile identificare, almeno in parte, i nuovi senatori con i conscripti (i membri non
patrizi del senato repubblicano).
Con Tarquinio Prisco le riforme non sono ancora eversive delle antiche strutture gentilizie, ma volte solo a limitare
l'egemonia delle gentes sulla comunità cittadina. Il processo viene invece portato ben più a fondo dal suo successore,
Servio Tullio, con il quale non solo viene radicalmente trasformata l'organizzazione militare delle città, ma le strutture
di inquadramento della popolazione sono radicalmente sostituite. Anche se non si dovessero attribuire a Servio tutte le
riforme costituzionali che gli antichi gli riferiscono in modo molto insistente, è indubbio che, con il suo regno, tutto
l'assetto cittadino conosca una profonda trasformazione.
L'ordinamento centuriato - Nella città antica la guerra è compito e privilegio esclusivo dei cittadini: la qualifica di
civis e l'obbligo di partecipare alla difesa dello stato sono 2 aspetti di una stessa realtà. È per questo che organizzazione
politica dei cittadini e strutture dell'esercito sono anche a Roma, sino alla tarda repubblica, indissolubilmente connessi.
Nella prima età è il sistema delle 3 tribù romulee e delle curie che provvede ad assicurare l'organico dell'esercito. Ogni
gens, a seconda della sua forza economica, schierava in combattimento un certo numero di armati. Gli altri gentiles e i
clienti seguivano poi i combattenti veri e propri con funzioni ausiliarie. È possibile che il rapporto fra i celeres e
l'esercito di fanti esprimesse questa situazione e che quindi solo i primi fossero dotati di un armamento completo.
Con la crescita delle risorse e l'accresciuta disponibilità di metalli divenne possibile per un numero maggiore di cittadini
assicurarsi l'armatura completa. Si afferma così un nuovo tipo di esercito, fondato sugli opliti (armati), che segna il
tramonto degli eserciti aristocratici, fondati sulla preminenza e sul valore individuale dei principes delle varie genti.
Gli antichi insistevano sul significato politico delle centurie, piuttosto che su quello militare e attribuivano a Servio un
ruolo più ampio: di fondatore di tutto un nuovo assetto costituzionale, basato in primo luogo sui comizi centuriati. La

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maggior parte degli storici moderni ammette la non contemporaneità dei 2 aspetti dell'ordinamento centuriato (militare
e politico): è convinzione comune che il primo sia stato quello originario, mentre solo in un momento successivo si
sarebbe imposto in Roma il nuovo sistema comiziale, assunto come fondamento della stèssa costituzione repubblicana.
Il popolo romano, nel sistema delle centurie, si distribuiva in 5 classi di cittadini in grado di portare le armi, in base alla
loro ricchezza personale. La I classe si componeva di 40 centurie di iuniores (dai 18 ai 45 anni) e di 40 di seniores (dai
45 ai 60 anni). La II, la III e la IV classe si componevano ognuna di 10 centurie di iuniores e 10 di seniores, mentre la V
classe ammontava a 15 centurie di iuniores e 15 di seniores. Inoltre vi erano: 18 centurie di cavalieri, più elevate di
rango, derivate da successive moltiplicazioni delle originarie centurie dei Ramnes, dei Tities e dei Luceres; 4 centurie in
cui erano inseriti artigiani e musici e 1 centuria che ricomprendeva tutti i capite censi, i cittadini privi del livello minimo
di ricchezza richiesto per l'appartenenza all'ultima classe.
Ai fini militari ogni centuria rappresenta un'unità di popolazione tenuta a fornire all'esercito un contingente fisso di
uomini armati; nei comizi essa costituisce una unità di voto.
Il Fraccaro, partendo dalle fonti che attestano che solo gli iuniores delle prime tre classi di centurie erano dotati di
armamento pesante adeguato alla fanteria oplitica, aveva dedotto che, in origine, l'organico offerto dalle prime 3 classi
con le sue 60 centurie rappresenta un raddoppiamento dell'esercito primitivo con le sue tre migliaia e le 30 centurie di
fanti. D'altra parte l'organico delle sessanta centurie (6.000 uomini) corrisponde ai quadri di quell'unica legione romana
che, ai tempi della monarchia etrusca, costituiva tutto l'esercito della città. Solo in seguito l'originaria legione verrà
sdoppiata, senza però che alle due nuove legioni corrisponda un raddoppio degli effettivi.
Sulla base degli studi del Fraccaro, si può affermare che il distacco dell'organizzazione militare romana dalle strutture
gentilizie e l'affermarsi di un ordinamento censitario sono fenomeni interdipendenti e avvenuti contemporaneamente.
Sembra anche possibile confermare l'epoca in cui si data tradizionalmente la riforma centuriata, essendo verosimile che
lo sdoppiamento della legione debba riferirsi ad una fase in cui il comando supremo in Roma vedeva due titolari: i
consoli. Se questa operazione risale agli inizi della repubblica, allora la formazione di una sola legione, con l'organico
di 6.000 uomini, va posta in un periodo anteriore, quello degli ultimi re. Alcuni storici moderni, pur non dubitando
dell'anteriorità delle riforme militari sulla creazione dei nuovi comizi, non credono che Roma potesse mettere in campo
un organico di 6000 uomini atti alle armi, già in quest'epoca; ma, anche considerando una basso numero di abitanti per
chilometro quadrato, alla fine dell'età monarchica non doveva essere impossibile per il territorio controllato da Roma,
fornire il sostentamento ad una popolazione abbastanza numerosa da assicurare un esercito di linea di 6000 uomini.
Un altro problema relativo alla primitiva organizzazione dell'esercito centuriato è dato dall’indicazione che troviamo
nelle fonti in cui il termine classis (cioè l'esercito) è impiegato a indicare sole le centurie della I classe. Tutti gli altri
cittadini sono indicati come infra classem. Sembrerebbe quindi che l'esercito vero e proprio non si identificasse con le
prime 3 classi di centurie, ma solo con la I, le cui centurie danno un totale di 4000 uomini. Si è allora supposta una fase
intermedia nella composizione dell'esercito, ma si è ancora lungi dall'aver acquisito certezze definitive.
Per quanto l'età serviana fosse caratterizzata da un forte sviluppo economico, è inverosimile che i cittadini più abbienti
(distribuiti in un numero assai maggiore di centurie) fossero in proporzione più numerosi degli altri, ma la ripartizione
fra le centurie non teneva conto delle dimensioni dei vari strati sociali, fondandosi invece sul principio tipico della città
antica, per cui il peso politico e l'impegno militare dei cittadini non erano uguali, ma proporzionali alla ricchezza.
I più ricchi, distribuiti nelle centurie dei cavalieri e delle prime classi, sopportavano un onere assai maggiore degli altri
cittadini per quanto concerne l'impegno militare, dovendo ogni centuria fornire comunque un ugual numero di armati.
Tuttavia, quest'ordinamento timocratico si riflette poi sul peso politico delle varie classi: votandosi per centurie, i più
ricchi cittadini controlleranno moltissime unità di voto con un numero relativamente basso di persone. Inoltre, essendo
pari le centurie dei seniores e quelle degli iuniores, mentre in assoluto il numero dei primi doveva essere inferiore ai
secondi, che gli anziani contavano più dei giovani.
Anche se nuovi ceti emergenti, estranei ai patres, erano stati favoriti dalle riforme serviane, queste non avevano lo
scopo di attenuare le differenze sociali presenti nella città; anzi, l'ordinamento centuriato si fondava su tali differenze di
per assegnare a ciascun cittadino un complesso di doveri e di poteri, all'interno della costituzione cittadina. Nel nuovo
ordinamento c'è spazio solo per chi è abbastanza ricco da potersi assicurare un completo armamento oplitico.
Con l'affermarsi di un ordinamento timocratico e la peculiare rilevanza della proprietà privata della terra, fondamento
dell'appartenenza alle varie classi delle centurie, divenne necessario classificare le famiglie in base alle loro proprietà.
Sebbene un'apposita magistratura (la censura) sia stata introdotta solo verso la fine del V secolo, è probabile che già il
rex dovesse sovrintendere a tale attività (le fonti ci informano su censimenti effettuati dallo stesso Servio).
Le tribù territoriali - Un'altra importante riforma attribuita a Servio Tullio è la sostituzione delle 3 antiche tribù
romulee con nuove e più numerose tribù di carattere territoriale. Rappresentando esse delle vere e proprie ripartizioni
amministrative, la loro funzione non era solo quella di costituire un distretto di leva (come sarebbero state in origine le
centurie), ma anche di assicurare la riscossione dei tributi a favore dello stato da parte dei tribuni aerarii.
Questa rappresentazione non elimina qualche dubbio che può sorgere in ordine al possibile sovrapporsi di tali organismi
al funzionamento dell'ordinamento centuriato. Alcuni hanno parlato di una vera e propria contrapposizione fra i due
sistemi e di un reciproco intralcio, il che potrebbe anche essere vero, se si ammettesse una loro non contemporaneità,
potendosi così spiegare la mancata omogeneità con l'essere essi sorti in situazioni storiche diverse. Se però rinunciamo a
spostare verso l'età repubblicana la genesi dell'ordinamento centuriato, tale spiegazione risulta inammissibile, giacché
troppi dati concordanti fanno risalire anche la ripartizione in tribù territoriali alla tarda età monarchica.
È vero però che il numero di queste è andato progressivamente crescendo, dalle prime 4 tribù urbane sino alle 21 tribù

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agli inizi della repubblica e al numero definitivo di 35 raggiunto nel 241 a.C., per cui appare difficile stabilire un
rapporto organico e costante fra il numero di tali organismi e quello delle centurie. L'unica possibilità sembra quella di
stabilire una corrispondenza numerica fra i 2 sistemi a un momento dato della loro evoluzione, come hanno tentato di
fare, sia pure in forme diverse, vari storici.
Lo stesso sistema delle tribù si presenta in modo poco omogeneo. Fra le prime 4 tribù urbane in cui è divisa la città e
che prendono la loro denominazione dai suoi colli (associate direttamente alla città delle 4 regioni) e il successivo
crescente numero di tribù rustiche in cui si suddivide l'ager Romanus, il sistema di distribuzione dei cittadini viene
modificato. Infatti la tradizione ci informa che Servio ha creato prima le 4 tribù urbane e solo in un momento successivo
ha costituito le prime tribù rustiche. Nello spazio di tempo in cui si presume esistessero solo le prime, la popolazione
era distribuita fra di esse in base al domicilio; con la creazione delle tribù rustiche, il criterio di appartenenza si fondò,
oltre che sul domicilio, sulla proprietà fondiaria. I cittadini che avessero avuto la proprietà di un fondo erano iscritti
nella tribù cui apparteneva il distretto rurale in cui era situato il fondo, mentre i nullatenenti nelle 4 tribù urbane.
L'inquadramento dei vari individui e dei nuclei familiari si fonderà essenzialmente sulla presenza o meno della proprietà
fondiaria e anche nel sistema delle tribù il peso dei singoli dipenderà dal loro livello di ricchezza: i proprietari terrieri
infatti verranno distribuiti in un numero piuttosto elevato di tribù rustiche e quindi in ognuna di esse vi saranno meno
elementi che non nelle 4 urbane in cui si raccoglie tutto il popolo minuto. E ciò avrà tanto maggior rilevanza quando,
verso la metà del V secolo, le tribù saranno chiamate a votare come unità di popolazione nei concilia tributa. Di qui il
carattere di svolta rappresentato dalla introduzione delle tribù rustiche, che non si realizza gradualmente. Già il
Mommsen aveva osservato che le prime 16 tribù si presentano in modo così unitario da far pensare ad una loro
costituzione in blocco. Mommsen, tra l’altro, presentava una ricostruzione diversa della ripartizione dei cives fra le
tribù, che non avrebbe ricompreso tutti i cittadini, ma solo alcune categorie determinate in base alla ricchezza. Tuttavia
il Fraccaro si è opposto a tale valutazione, sottolineando l'assenza di una documentazione in tal senso.
Nelle riforme introdotte nel corso della monarchia etrusca e in particolare da Tarquinio Prisco e da Servio Tullio si
possono individuare 2 fasi: nella I le innovazioni seguono linee in parte tradizionali (il raddoppio delle centurie di
celeres, l'aumento del numero dei senatori, la formazione delle 4 tribù urbane). Nella II fase, che si collega a Servio, si
ha una svolta verso modelli istituzionali radicalmente diversi, con l’affermazione dell’ordinamento timocratico sia
nell'organizzazione dei quadri di arruolamento dell'esercito costituiti dalle centurie che nel più complesso sistema delle
tribù rustiche e urbane. La proprietà privata della terra, pur non trovando la sua genesi nell'età serviana, assume da
allora un'importanza centrale e costituisce il fondamento di nuovi equilibri politici e di un mutato tipo di rapporti
produttivi all'interno della società romana.

L’ETA’ REPUBBLICANA
La caduta della monarchia in Roma – Secondo la tradizione, verso la fine del VI secolo, i Romani, guidati da uomini
appartenenti alla stessa gens del re, cacciarono Tarquinio il superbo e si scelsero due capi annuali, praetores o consules,
eletti dai comizi. Alcuni associano l’evento alla fine dell’espansionismo etrusco, ma ciò appare eccessivo e non spiega
la tradizione che vede Porsenna, giunto in aiuto dei Tarquini e poi alleatosi con i rivoltosi, come un ottavo re di Roma.
Una teoria contrasta l’ipotesi della fine rapida e violenta della monarchia, immaginando l’avvento della repubblica
come conseguenza di un lento processo di esautoramento del rex, probabilmente per l’influenza di fattori quali: il
confronto con le poleis greche, dove il basileus subì effettivamente un ridimensionamento dei poteri; le teorie
evoluzionistiche ottocentesche; la sopravvivenza della figura del rex sacro rum (che, però, può essere spiegato con la
separazione tra la sfera religiosa e quella civile ad opera degli autori del colpo di stato e con il fatto che egli era
inauguratus, per cui sarebbe stata necessaria una exauguratio).
Tale interpretazione sarebbe accettabile solo in presenza di uno spazio di tempo sufficiente ad assicurare questo
processo graduale, ma tra le testimonianze relative a Tarquinio e le leggi decemvirali passa solo circa mezzo secolo.
Inoltre, pur non escludendo che le forze antimonarchiche si siano coagulate più o meno lentamente, la tradizione indica
troppo insistentemente la presenza di una frattura perché si possa trascurare tale dato. Il tramonto della monarchia è
stato il risultato di un processo brusco, giustificato solo in parte dalla situazione generale dell’Italia alla fine del VI
secolo. Gli storici vedono nell’instaurazione della repubblica una rivalsa delle antiche gentes sulle strutture sociali ed
economiche create dai Tarquini e da Servio: non potendo rimettere in discussione certe trasformazioni, l’unica
possibilità era colpire l’elemento costituzionale, il rex, che aveva favorito i mutamenti per loro svantaggiosi.
Le vicende repubblicane fino alle XII Tavole – Per tradizione la data della nascita della repubblica è il 509 a.C., ma
essa si ricava dai Fasti, che non ci sono stati tramandati in un’unica versione. I popoli antichi datavano gli avvenimenti
di ogni anno col nome dei magistrati in carica (eponimi); a Roma l’onore era tributato ai consoli, perciò l’elenco è
chiamato Fasti consolari. Questi sono stati conservati fedelmente solo dal 300 in poi, mentre per i secoli precedenti
esistono redazioni diverse; per evitare fraintendimenti gli studiosi moderni hanno concordato l’uso di un’unica lista,
probabilmente la più lontana dal vero: i Fasti consolari capitolini, che rappresentano la cronologia lunga. Accanto ad
essa esiste anche una cronologia media ed una corta, che probabilmente è quella che più si avvicina al vero.
I primi 50 anni della repubblica sono probabilmente il periodo più oscuro della storia romana; le indicazioni dateci dalle
fonti non sono né chiare né univoche e la stessa vicenda costituzionale è incerta: i Fasti presentano sin dall’inizio una
coppia consolare, ma una serie di indicazioni diverse suggerisce la presenza di un solo magistrato supremo, il praetor
maximus, cui corrispondevano uno o due magistrati subalterni.

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Inoltre nei primi anni ricorrono nomi di consoli plebei, che verranno meno fino alle Liciniae Sextiae; non è da escludere
che tali nomi corrispondessero ad un gruppo sociale intermedio, non ancora saldato con la plebe. È possibile che la
scomparsa di nomi plebei dai Fasti corrisponda al momento di massimo arretramento di questo gruppo sociale, come
sembra confermato dalla secessione dell’Aventino del 494, che segna un momento di grave crisi nella situazione della
plebe, che non sembra riuscire, inizialmente, ad ottenere risultati significativi per l’equiparazione politica e sociale. A
guidare la secessione plebea furono magistrati ispirati alle cariche politiche cittadine, se non addirittura dei tribuni
militum passati dalla parte della plebe, di cui divennero i leaders con il nome di tribuni della plebe.
Il limitato successo plebeo fu il riconoscimento di questi magistrati e dei concilia plebis (assemblee di soli plebei) che li
eleggevano e prendevano le decisioni relative a tale classe. Ciò non costituiva l’avvio del processo di equiparazione, in
quanto le differenze di fondo venivano riconosciute implicitamente dagli stessi plebei quando, con propri magistrati e
assemblee, si premunivano contro eventuali prevaricazioni dell’ordinamento politico controllato dalle gentes patrizie.
Il tribuno della plebe esprime, nei suoi caratteri originari, la condizione generale della plebe in questo periodo; i suoi
poteri sono funzionali ai suoi compiti di auxilium, difesa della plebe e dei singoli plebei nei confronti di un magistrato
patrizio. Rilevano soprattutto i poteri negativi, quali l’intercessio, diritto di veto contro gli atti dei magistrati, e la
coercitio, un potere, probabilmente più tardo, con cui il tribuno poteva irrogare sanzioni agli stessi magistrati.
Tali poteri consentivano alla plebe di paralizzare la normale attività delle magistrature repubblicane, ma restavano
limitati al controllo di una gestione politica che continuava ad essere affidata esclusivamente ai patrizi. È possibile che
la lotta plebea si svolgesse su piani diversi e tendesse alla conquista di un’effettiva partecipazione alla vita cittadina ma,
di fronte al rischio di emarginazione, doveva emergere quell’orientamento garantista di cui sono espressione i tribuni.
Nonostante nel periodo delle lotte la plebe si presenti come un blocco compatto, essa aveva carattere composito, ed era
formata da almeno 2 diversi strati sociali: non patres economicamente forti, che miravano all’equiparazione politica;
strati economicamente più deboli, che richiedevano la distribuzione delle terre pubbliche e la cancellazione dei debiti.
La lotta tra patrizi e plebei si può considerare solo in parte come una conseguenza della serrata del patriziato, con cui
esso si chiuse all’ascesa di genti nuove, ma, probabilmente, senza tale provocazione si sarebbe difficilmente giunti ad
una radicale contrapposizione e alla compattezza con cui la plebe portò avanti la sua politica di rivendicazione. Infatti,
visti i diversi interessi perseguiti dai componenti della plebe, l’unità politica era dovuta solo al profondo contrasto con
l’aristocrazia. Il conflitto si svolse su 3 piani:
- politico: punto centrale era la direzione dello stato repubblicano.
- economico: si svolgeva su due piani: l’alleggerimento dei debiti ma, soprattutto, la questione dello sfruttamento della
terra coltivabile, che la plebe richiedeva fosse distribuita in proprietà privata a tutti i cittadini. Ciò contrastava con la
tendenza patrizia a lasciare la massima quantità di territorio sottoforma di ager publicus, formalmente di proprietà dello
Stato, ma di fatto lasciata allo sfruttamento dei privati.

- sociale: riguardava soprattutto l’assenza del conubium tra patrizi e plebei; secondo alcuni tale divieto derivava
dall’operazione di chiusura da parte del patriziato, anche se Livio lascia intendere che il divieto fosse originario. Il
termine conubium indica la legittimazione di individui appartenenti a ordinamenti diversi di stringere matrimonio
valido; l’assenza dello stesso impedisce il formarsi di un legittimo vincolo matrimoniale e, di conseguenza, il
riconoscimento della legittimità dei figli nati dal rapporto, i quali, perciò, invece di essere sottoposti alla potestas del
pater, restano legati alla condizione della madre. Probabilmente, l’assenza del conubium tra patrizi e plebei doveva
servire a conservare la purezza della gens, impedendo che i figli nati da un’unione mista potessero entrarne a far parte.
Lo sviluppo del processo criminale e le leggi de provocatione - Con la separazione tra funzioni religiose e politico-
militari, attuata nella repubblica, la suprema dignità sacerdotale passò al rex sacrorum e poi al pontifex maximus,
mentre al primo magistrato della repubblica fu attribuito il comando degli uomini in armi, con la conseguente possibilità
di esercitare la coercitio derivante dall’imperium rispetto a tutti i cittadini (qui populus=esercito). Per limitare tale
potere ed impedire abusi, si decise di subordinare l’irrogazione delle più gravi misure repressive al giudizio del popolo
riunito in assemblea; nacque così la provocatio ad populum, istituto in virtù del quale un cittadino perseguito in via di
coercizione dal magistrato esercitante l’imperium poteva sottrarsi a fustigazione e morte chiedendo l’instaurazione di un
processo davanti ai comizi. Secondo alcuni l’istituto nacque come mezzo di difesa della plebe contro i patrizi, ma più
probabilmente fu uno strumento di tutela voluto dallo stesso patriziato; teoricamente esso era a disposizione anche dei
plebei, che però difficilmente poterono utilizzarlo nell’età più antica della repubblica.
Le fonti ricordano 3 successive leggi de provocatione:
- una lex Valeria del 509, per cui nessun magistrato poteva far fustigare e mettere a morte un cittadino romano che
avesse provocato al popolo
- una lex Valeria Horatia del 449 con cui veniva vietata la creazione di nuove magistrature esenti da provocatio
- una lex Valeria del 300, di contenuto analogo alla prima, ma che prevedeva una più efficace sanzione, dichiarando
meritevole di riprovazione l’atto del magistrato che avesse fatto fustigare e uccidere un cittadino nonostante questi
avesse provocato al popolo
L’ultima è storicamente provata e non sembra che le precedenti siano solo sue proiezioni nel passato, anche perché
quella del 449 non ha lo stesso contenuto delle altre 2; al limite, la falsificazione degli annalisti potrebbe riguardare
l’attribuzione di tutte e 3 le leggi alla gens Valeria. Inoltre, la preesistenza del limite della provocatio rispetto alle XII
Tavole è attestato: 1.dalle testimonianze degli antichi scrittori per cui i decemviri e il dittatore ne erano sottratti; 2.dalle
leggi Aternia Tarpeia del 454 e Menenia Sextia del 452 che fissavano a 30 buoi + 2 pecore (3020 assi) il limite delle

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multe oltre il quale era accordato il diritto alla provocatio; 3.da Cicerone che afferma che le XII Tavole, in numerose
disposizioni, consentivano al cittadino di provocare il popolo.
Non c’è motivo di dubitare della storicità delle leggi de provocatione; i motivi per cui la stessa norma fu ripetuta
possono essere diversi: per Livio, tale necessità era dovuta alla frequenza della sua disapplicazione nei confronti dei
plebei, il che non stupisce, visto che la più efficace sanzione introdotta nel 300 prevedeva una semplice riprovazione
morale (ciò fa pensare che quelle precedenti fossero leges imperfectae, non prevedenti sanzioni per il trasgressore, per
cui il ius provocationis dei plebei si sarebbe ridotto ad una garanzia meramente formale).
Le fonti non specificano i comizi davanti ai quali si svolgevano i processi popolari, ma è presumibile che inzialmente si
trattasse dei comitia curiata, davanti ai quali l’antico sovrano amministrava la giustizia e aveva luogo l’esecuzione
dell’omicida volontario da parte dei familiari dell’ucciso.
La persecuzione criminale plebea imitava quella degli organi della civitas: come il magistrato ha la coercitio derivante
dall’imperium, il tribuno ha la summa coercendi potestas derivante dall’inviolabilità garantitagli dalle leggi sacrate e
chiunque gli rechi offesa è considerato sacer e può essere ucciso e privato di tutti i suoi beni, senza possibilità di
provocatio. La plebe si riunisce in collegi giudicanti simili ai comitia curiata, sotto la presidenza di un tribuno o di un
edile, infliggendo multe ed emettendo addirittura condanne a morte.
La classe patrizia fu costretta a fare delle concessioni: le leggi Aternia Terpeia e Menenia Sextia, ma, soprattutto, la
previsione delle XII Tavole che, oltre a ribadire il diritto di provocatio, stabilirono che l’unica sede competente ad
emettere condanne a morte fosse l’assemblea delle centurie (la norma, come testimonia Cicerone, aveva il suo
precedente in una lex sacrata, cioè una deliberazione giurata della comunità plebea).. In cambio, ottennero l’inserimento
del divieto di mettere a morte una persona non regolarmente condannata, il che comportava l’abolizione dei processi
capitali rivoluzionari dei tribuni davanti ai concilia plebis. Probabilmente anche la sacertà non poté essere irrogata che
dai comizi del popolo, dopo regolare processo.
Il decemvirato legislativo - Le fonti ammettono l’esistenza di leggi scritte sin dall’età regia, ma si tratta di testi poco
numerosi e non collegati in sistema; la giustizia era amministrata secondo consuetudini tramandate oralmente, il che
consentiva al re, e successivamente ai magistrati repubblicani, un ampio margine di arbitrio.
Il movimento della plebe per ottenere una codificazione iniziò nel 462 su iniziativa del tribuno Gaio Terentilio Harsa;
nel 454 fu raggiunto un primo compromesso tra patrizi e plebei, che comportò l’inviò ad Atene di alcuni senatori
incaricati di studiare le leggi di Solone. Nel 451 fu eletto ed entrò in carica un collegio di 10 legislatori. Sul breve
periodo del decemvirato, 451-449, gli storici hanno da raccontare più che su qualunque altra fase della repubblica;
nell’ambito della tradizione, alcune notizie sembrano attendibili, altre probabili, altre quasi certamente inventate.
a) Tutti i critici moderni ammettono che nel 451 siano stati eletti i decemviri legibus scribundis col compito di redigere
un corpus di leggi destinato a raccogliere le norme consuetudinarie tramandate oralmente da tempo immemorabile. Essi,
tutti patrizi, ebbero pieni poteri militari e civili, poiché furono sospese tutte le magistrature e le elezioni dei tribuni e
degli edili plebei; ciò sembra indicare che il decemvirato fosse frutto dell’accordo tra i due ordini e che quindi la
codificazione fosse voluta soprattutto dalla plebe. L’importanza della legislazione decemvirale non sta nel contenuto
delle norme, ma nella stabilità e nella pubblicità derivanti dal testo ufficiale che garantiva la certezza del diritto.
b) È probabile che i decemviri, o almeno alcuni di essi, abbiano preteso di rimanere in carica oltre la scadenza del
mandato e siano stati abbattuti con la forza dopo una rivolta dell’esercito e una secessione della plebe sull’Aventino. La
rivolta di cui parla la tradizione non può essere stata solo plebea, in quanto tale ordine non aveva la forza di rovesciare
un governo; l’iniziativa fu invece presa da alcune genti patrizie, guidate dai Valeri e dagli Orazi. In questo quadro
diventa credibile che Valerio Potito e Orazio Barbato, assunto il potere dopo la caduta dei decemviri, nel 449 abbiano
adottato, insieme a misure di stampo conservatore, anche provvedimenti favorevoli ai plebei, noti come leggi Valerie
Orazie. Le fonti parlano di 3 (4) distinte leggi:
- de plebiscitis, che avrebbe riconosciuto alle deliberazioni dei concilia plebis efficacia vincolante per tutto il popolo, il
che appare un’anticipazione incredibile di una conquista politica non ottenuta prima del 339 con la lex Publilia Philonis
o del 287/286 con la secessione del Gianicolo e conseguente lex Hortensia. Verosimilmente, questa legge dette validità
costituzionale alle elezioni dei magistrati plebei effettuate nei loro concilia. Non è da escludere che, piuttosto che una
legge autonoma, essa fosse una clausola preliminare della lex de tribunicia potestate, cui apparterrebbe anche la lex de
senatus consultorum custodia, che affidava agli edili plebei la custodia, nel tempio di Cerere, del testo ufficiale dei
senatoconsulti
- de provocatione, che avrebbe ripristinato, dopo la parentesi del decemvirato, la garanzia costituzionale della
provocatio e vietato la creazione di magistrature esenti dalla stessa
- de tribunicia potestate, che avrebbe riaffermato l’inviolabilità dei tribuni, dando efficacia vincolante per tutto il
popolo ad una protezione fino ad allora fondata su un’autonoma disposizione plebea, trasformando la sanzione di tipo
rivoluzionario basata sulla lex sacrata in una tutela giuridico-religiosa verso tutta la comunità; pur non sancendo la
definitiva parificazione delle classi, compiva un passo avanti in quella direzione. Infatti, tutte le leggi Valerie Orazie
sembrano il frutto di un compromesso politico ormai maturo, che apriva la strada alle future conquiste plebee.
c) Si narra che nel 450 il collegio decemvirale sia stato quasi totalmente rinnovato (ad eccezione di Appio Claudio, da
alcuni visto come un ardito riformatore), con l’avvento di personaggi oscuri o addirittura plebei ed è a questo secondo
collegio che le fonti ascrivono le scelleratezze e l’introduzione del divieto di conubium in una delle 2 ultime tavole.
L’infondatezza della versione è data sia dall’improbabilità che, a distanza di solo un anno, lo stesso corpo elettorale
abbia scelto il collegio con criteri opposti; inoltre, nel 450 la plebe era ancora ben lontana dalla possibilità di accedere

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alle più alte cariche, senza considerare l’assurdità di attribuire provvedimenti dannosi per i plebei ad un collegio del
quale avrebbero fatto parte suoi rappresentanti. Il divieto di conubium doveva essere un principio tradizionale recepito
dai decemviri, non una loro innovazione.
Il codice decemvirale - Al di là delle vicende politiche che hanno portato la codificazione decemvirale, le XII Tavole
presentano vari problemi dal punto di vista storico-giuridico. Sono stati fugati i dubbi relativi alla veridicità delle notizie
riguardanti l’avvenimento, ma resta il problema del contenuto delle XII Tavole, soprattutto circa la sua conoscibilità.
Si deve distinguere tra il testo originale e quello a disposizione delle persone colte e degli studiosi a partire dal II secolo,
per noi solo parzialmente conoscibile; la prima questione riguarda il rapporto tra le due versioni. Quella del II secolo si
basa probabilmente su una recensione del codice decemvirale effettuata all’inizio del secolo dal giurista Sesto Elio Peto
Cato nei suoi Tripertita. Tale versione sicuramente differiva dal testo originale, ma è dubbio in cosa consistesse tale
diversità. Il paragone con le iscrizioni latine arcaiche mostra cambiamenti nell’ortografia e nella morfologia delle
parole, anche se il testo delle XII Tavole del II secolo appare arcaizzante rispetto al latino della fine della repubblica.
Sotto tale profilo, non si sa se tutti gli ammodernamenti siano da ascrivere a Sesto Elio, mentre mancano prove sicure di
un rammodernamento del lessico.
Dubbio è se Sesto Elio potesse disporre di un testo coincidente con quello originario in quanto quest’ultimo potrebbe
essere stato distrutto nell’incendio gallico del 390, anche se comunque sarebbe stato ricostruito subito dopo, per cui la
ricostruzione sarebbe stata fedele; inoltre non c’è motivo di dubitare che esso si trovasse tra le cose più preziose che
furono trasportate a Cere in previsione dell’invasione gallica. È comunque da escludere che vi siano state delle coscienti
manomissioni da parte di Sesto Elio.
Il testo del II secolo era quindi sostanzialmente autentico dal punto di vista del contenuto; noi lo conosciamo solo
tramite citazioni dirette e allusioni indirette, per cui la sua ricostruzione è frammentaria.
Un primo problema riguarda lo stabilire entro quali limiti, nelle intenzioni dei decemviri e nella consapevolezza dei
contemporanei, la legislazione decemvirale fosse sentita come esaustiva dell’ordinamento. Attualmente la dottrina
considera le XII Tavole come una codificazione solo parziale, che avrebbe lasciato sopravvivere settori più o meno
ampi regolati solo dai mores. Che anche i romani fossero giunti a tale conclusione non risulta provato.
Per quanto riguarda l’ordinamento privatistico, le fonti non indicano che istituti e principi risalenti al periodo
predecemvirale non fossero stati compresi nella codificazione; inoltre, seguendo l’ipotesi di una codificazione parziale,
si perderebbe la funzione del decemvirato nel compromesso patrizio-plebeo. Le XII Tavole potevano rappresentare un
vantaggio per la plebe solo in quanto assicurassero la certezza del diritto, il che non sarebbe stato possibile se la
codificazione non fosse stata esaustiva. Comunque, bisogna inquadrare l’esaustività nelle condizioni storiche del tempo:
è da sottolineare il carattere astratto e generalizzante delle norme delle XII tavole, molto diverse dalle leges rogatae, che
avevano una forma minuziosamente analitica, che tendeva a limitare al massimo l’arbitrio dell’interprete.
I decemviri utilizzarono probabilmente memorizzazioni del contenuto dei mores fornite dai potifices, in quanto solo la
presenza di materiale già elaborato poteva rendere possibile, nelle condizioni della cultura dell’epoca, la redazione di un
testo legislativo. Lo stesso utilizzo di una prosa ritmica, utile per la memorizzazione, sembra confermare questa ipotesi.
Il fatto che le formulazioni verbali dei mores siano state consegnate per iscritto nelle XII tavole non mutò di molto
l’atteggiamento della comunità e dei pontifices nei confronti dei principi da essi sanciti, che erano sentiti come criteri di
massima, che trovavano la loro giustificazione, ma anche il loro limite, nella struttura dei rapporti regolati, in base alla
concezione immanentistica da cui derivavano. Perciò, a differenza dei testi legislativi moderni, le XII Tavole, per essere
considerate esaustive, non dovevano necessariamente regolare in modo diretto tutti gli aspetti dell’ordinamento, in
quanto, nella concezione dei romani, essi si fondavano sull’ordine immanente della natura delle cose: in alcuni punti, la
normazione diventa addirittura implicita. Sembr che prevalessero le norme di relazione su quelle di organizzazione: ad
esempio, non viene fissato il contenuto della patria potestas, ma si determinano i limiti dello ius vendendi.
Le norme relative alle strutture costituzionali e, più in generale, pubblicistiche, sono molto scarse ed è difficile attribuire
tale ridotta documentazione alla frammentarietà delle notizie in nostro possesso, anche se è possibile che, come alcuni
istituti privatistici, anche le strutture costituzionali e i loro poteri fossero presupposti.
Pur nell’incompletezza in cui le conosciamo, le XII tavole rispecchiano fedelmente le strutture socio-economiche
dell’epoca in cui furono redatte: le strutture sociali sono ancora rigidamente ancorate alla famiglia agnatizia (dominata
dalla potestas del pater) e gentilizia, anche se quest’ultima, col rapido decadere dell’importanza politica dei comitia
curiata, stava perdendo il suo ruolo di centralità nell’assetto politico-costituzionale.
La parte dell’ordinamento privatistico relativa alla proprietà e alle obbligazioni mostra un’organizzazione economica
ancora fondata sull’agricoltura e la pastorizia, mentre l’economia di scambio mantiene una funzione subordinata e
regredisce probabilmente rispetto al periodo dei Tarquini. Infatti, nella disciplina della proprietà, la circolazione dei
beni appare l’eccezione e l’attenzione maggiore è dedicata alla regolamentazione dei rapporti tra i fondi; inoltre, come
in tutte le società nella cui organizzazione economica non abbia grande importanza la circolazione dei beni, tra le
obbligazioni sembrano prevalere quelle derivanti da delitto.
Le norme sul processo privato danno il via alla laicizzazione del processo di cognizione, con l’affiancarsi della legis
actio per iudicis arbitrive postulationem a quella sacramento, ma mostrano ancora tracce dell’importanza dell’autodifesa
privata come fondamento o in sostituzione delle forme di intervento degli organi della comunità (es: manus iniectio).
Pur consistendo della redazione per iscritto di mores, nelle XII tavole vi sono state delle innovazioni, anche se è quasi
impossibile individuarle con precisione; la vera novità è costituita dal fatto stesso della codificazione.
Il fatto che le XII Tavole testimonino la corrispondenza dello stato di sviluppo della società romana all’esperienza

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pregressa rileva nel problema relativo all’influenza greca; la tradizione narra della spedizione di un’ambasceria in
Grecia e della collaborazione di Ermodoro d’Efeso alla redazione delle XII Tavole. Comunque sia, il contenuto delle
XII tavole si salda con il passato di Roma, e anche nei pochi casi in cui si è ipotizzato l’influsso greco, esso non è stato
mai pienamente dimostrato. Vi è la possibilità di obiettive coincidenze tra norme, che solo a posteriori sono state
spiegate con l’influsso delle une sulle altre.
Il diritto penale e la codificazione decemvirale - Nelle XII Tavole fu ribadito il principio per cui una condanna a
morte non poteva essere inflitta se non a seguito di giudizio dell’assemblea centuriata, per cui fu definitivamente
sottratta ai comitia curiata la cognizione dei delitti capitali. Il fatto che in esse si menzionassero i quaestores parricidii fa
pensare che le XII Tavole prescrivessero anche la procedura da seguire; anche se le fonti non precisano i poteri devoluti
a tali magistrati, è probabile che essi istruissero il processo e promuovessero l’accusa.
Alla norma de capite civis faceva riscontro quella, imposta dai patrizi, che vietava di mettere a morte un cittadino che
non fosse stato condannato in un regolare processo; quindi l’autore di un’infrazione poteva essere chiamato a rispondere
davanti al concilium plebis solo se la pena prevista era diversa da quella capitale, altrimenti era necessario il processo
comiziale in cui il tribuno, come i quaestores in quelli di loro competenza, operava in veste di inquirente e accusatore.
Il processo davanti ai comizi era in primo ed unico grado; la teoria del Mommsen che essi operassero in appello
contrasta con quanto testimoniano le fonti. Il Kunkel sosteneva che i comizi giudicassero solo in materia di reati politici
e non di reati comuni, ma forniva prove estremamente fragili di questa sua teoria.
Fuori del campo della repressione criminale vera e propria, la potestà coercitiva del magistrato cum imperio si esplicava
liberamente, con il solo limite della provocatio, che non era esercitabile per le misure coercitive di minore gravità, quali
le multe inferiori alla maxima, l’incarcerazione, il sequestro dei beni e, fino alle leges Porciae, la fustigazione. Inoltre, il
diritto di provocazione poteva essere esercitato solo domi, cioè a Roma ed entro 1000 passi dalla città e non poteva
essere richiesto: per il fatto di uno straniero, uno schiavo o una donna; se la condanna proveniva da un dittatore; per le
sentenze pronunciate da magistrati espressamente esentati; in ordine ad alcuni illeciti.
In caso di perduellione flagrante, non essendovi necessità di provare il reato, si procedeva senza partecipazione
dell’assemblea: il console delegava il compito di procedere ai duumviri perduellionis, che, proclamata la responsabilità
del reo, lo mettevano a morte immediatamente. A differenza dei quaestores parricidii, ausiliari stabili del console con
competenze limitate, i duumvirii erano nominati caso per caso e, più che giudici, erano meri esecutori della pena.
La legislazione decemvirale è caratterizzata dalla notevole estensione della repressione pubblica a molti atti prima non
ritenuti passibili di sanzione e dalla tendenza a sottoporre a controllo statale il regime della vendetta privata. Oltre alla
riaffermazione dell’illiceità di atti già precedentemente perseguiti (es: omicidio involontario), furono introdotte nuove
figure criminose assoggettate alla pubblica persecuzione in quanto lesive degli interessi della comunità: collusione del
giudice/arbitro con una delle parti, falsa testimonianza, rifiuto della stessa.
Erano poi contemplati atti lesivi dei diritti dei singoli, e perciò lasciati alla reazione della parte lesa; la legislazione
decemvirale segna un momento di transizione tra l’antico regime della vendetta privata e il nuovo sistema delle
composizioni legali. Significative appaiono le sanzioni previste per alcuni atti di violenza fisica, che in seguito
confluiranno le concetto generale di iniuria. Per il membrum ruptum è ancora ammesso il taglione, salvo che le parti si
accordino per una composizione volontaria, mentre negli altri casi essa è imposta dalla legge.
Analogamente, in materia di furto, il ladro colto in flagranza può essere ucciso se il furto è commesso di notte o di
giorno a mano armata, mentre negli altri casi la pena è prevista dalla legge. All’ipotesi di flagranza è assimilata quella
in cui la cosa rubata sia rinvenuta dalla vittima del furto nell’abitazione del ladro in seguito a perquisizione solenne.
Mentre per il furto flagrante la composizione è volontaria, per quello non flagrante è legale. Sono previste sanzioni
anche per il depositario infedele, il tutore responsabile di dolose sottrazioni ai danni del pupillo, l’usuraio.
Nelle XII Tavole inizia a delinearsi la distinzione tra delitti pubblici (crimina), perseguiti dallo stato per mezzo di organi
giurisdizionali e delitti privati (delicta o maleficia), perseguiti dall’offeso nelle forme del processo private e sanzionati
con pena privata, sempre pecuniaria.
La lex Canuleia ed il tribunato militare - Secondo un’opinione diffusa, inizialmente i plebei non facevano parte
dell’esercito, anche se questo stato di cose doveva essere mutato fin dalla tarda età monarchica, in quanto la tradizione
vuole che la plebe usasse come strumento di protesta proprio il rifiuto di rispondere all’ordine di mobilitazione. Fu ciò
che fece anche nel 445, per appoggiare il tribuno Gaio Canuleio che intendeva abolire il divieto di conubium. I patrizi
cedettero, e, pur riuscendo a respingere l’ennesima richiesta plebea di accedere alla suprema magistratura, l’ammissione
al conubium faceva venir meno implicitamente ogni preclusione giuridico-religiosa in tal senso.
Nello stesso periodo, la struttura dello stato romano subì un mutamento, come testimoniano i Fasti che riportano, dal
444, un numero variabile di nomi, prima da 2 a 3, poi da 2 a 4 ed infine da 2 a 6, fino al 367. Le fonti chiamano consoli
i magistrati eletti negli anni in cui appaiono solo 2 nomi, tribuni militum quelli degli altri anni, ma sembra che anche
quando i magistrati erano di più, ve ne fossero 2 dotati di poteri maggiori e chiamati consoli. Ciò è verosimile anche per
la necessità di un ridotto numero di eponimi e perché, visto che i tribuni militum non potevano prendere gli auspicia,
erano necessari magistrati che ne fossero dotati. Secondo la tradizione, l’istituzione dei tribuni militari sarebbe stata
voluta dai tribuni della plebe colleghi di Canuleio, ma fino al 400 nessun plebeo fu eletto al tribunato militare e anche
dopo, nei collegi misti, gli eponimi sono sempre stati patrizi; pertanto sembra più credibile che la riforma sia stata
provocata dell’estensione degli impegni militari e amministrativi dovuti allo sviluppo militare e della società romana.
Inizialmente il problema fu risolto con l’aumento dei magistrati, che poi si dividevano i compiti; in seguito, con la
riforma del 367, si sarebbe stabilita una gerarchia di magistrature chiaramente differenziate nei poteri e nelle funzioni.

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L’ingresso dei plebei nel collegio, coincidente con la guerra contro Veio, fa supporre che la classe patrizia, incapace di
reggere da sola il peso del governo e dell’impegno militare, sia stata costretta a limitare i conflitti sociali interni che
impedivano l’impiego di tutte le energie disponibili nella comunità. Quindi è probabile che il tribunato militare derivò
da una riforma amministrativa, ed è per questo che non ne furono mai codificati composizione e funzionamento.
Le leggi Licinie Sestie - Fra il 385 e il 384, secondo le fonti, il patrizio Manlio Capitolino, poi smascherato e
condannato a morte, tentò di instaurare una tirannide; l’episodio è un sintomo della tensione all’interno del patriziato, in
quanto la plebe non era alla ricerca di un capo e non cercava di sovvertire la costituzione repubblicana, ma di assidersi
al vertice della repubblica con i patrizi. Per far ciò mancava solo l’accesso al consolato, per la cui richiesta l’agitazione
fu guidata dai tribuni Licinio Stolone e Sestio Laterano. Secondo la tradizione il conflitto durò 10 anni, ma ciò appare
inverosimile; più credibili invece le notizie che parlano del ricorso dei patrizi alla dittatura per 2 volte, con l’elezione di
Furio Camillo, che la prima volta si oppose e fu costretto ad abdicare, mentre la seconda volta, nel 367, cedette. Per
suggellare la pacificazione fu votato un tempio alla concordia e Sestio Laterano fu eletto al consolato che rivestì nel 366
insieme al collega patrizio Mamercino.
Confusi sono i resoconti sul modo in cui fu approvata la riforma: normalmente si parla di una legge Licinia Sestia, ma
anche di una legge Licinia. Inoltre non vi sono allusioni ad una votazione dell’assemblea popolare né ad un plebiscito.
Ciò che è certo è il consenso del senato, per cui è più verosimile un impegno politico dei patrizi, visto anche che non vi
era necessità di una legge poiché la lex Canuleia aveva eliminato ogni ostacolo sacrale o costituzionale all’elezione. Il
consolato non fu l’ultima conquista plebea, ma fu il culmine del periodo storico detto rivoluzione della plebe.
Dopo la riforma del 367, l’ordinamento dello stato assunse caratteristiche più definite, con la definizione di gerarchie,
derivazioni, condizionamenti che dettero vita a quella forma di governo nota come governo senatorio, destinato a durare
fino alla crisi della repubblica. I nuovi gruppi dirigenti patrizio-plebei spostarono progressivamente il baricentro del
potere verso il senato, a cui si trovò in pratica subordinato il potere magistratuale, teoricamente sovrano in quanto
dotato sia di potestas che di imperium, ma limitato dalla temporaneità della carica e dal divieto di iterazione. Per questo,
una linea politica duratura e di ampio respiro poteva essere elaborata solo dal senato che, pur diviso al suo interno,
riuscì a svolgere un ruolo di direzione sostanzialmente conservatrice e di freno delle tendenze democratiche che non
riuscivano ad esprimersi appieno nemmeno nell’assemblea popolare, anche se di essa erano ormai espressione diretta i
maggiori magistrati e da essa erano scelti i senatori, visto l’affermarsi della regola dell’elettività di tutte le cariche
magistratuali ordinarie e della prassi per cui i magistrati, una volta cessato l’ufficio, entravano a far parte del senato.
L’assetto maturo della costituzione repubblicana – Con le leggi Licinie Sestie si determinò un riassetto delle
strutture della repubblica, con la definizione di una gerarchia delle magistrature con al vertice (oltre la censura) il
consolato, la pretura e la dittatura, magistrature maggiori cum imperio, la cui titolarità comportava in genere il comando
militare ed i connessi poteri coercitivi. Tali magistrati, tranne il dittatore, eletti per un anno dai comizi centuriati, erano
muniti di ius agendi cum populo e cum patribus, di coercitio, di ius edicendi ed erano titolari di auspicia maiora, come
anche i censori, gli unici magistrati maggiori privi di imperium ed eletti per 18 mesi, di solito ogni 5 anni. A tali
magistrature erano parificate le altre straordinarie diverse dalla dittatura, istituite cum imperio.
Segno visibile della titolarità dell’imperium era l’accompagnamento dei littori, che potevano innestare la scure nei fasci
solo al di fuori del pomerium, dove il magistrato poteva esercitare i concreto l’imperium militiae o, all’interno del
pomerium, solo in occasione del trionfo.
Magistrature minori erano l’edilità patrizia e plebea, la questura e i collegi ausiliari dei vigintisexviri. Tali magistrati,
permanenti, era dotati della sola potestas; avevano anch’essi ius edicendi e poteri coercitivi (limitati), tra cui il diritto di
comminare multe e di imporne il pagamento coattivo anche tramite il pignoramento dei beni.
Vi erano poi le tradizionali cariche magistratuali plebee, primi tra tutti i tribuni della plebe, con la posizione peculiare
che derivava dal diritto di opporre l’intercessio nei confronti di tutti i magistrati.
I consoli – Magistrati eponimi, titolari del supremo potere civile e militare, esercitavano la suprema potestas e
l’imperium maius, teoricamente illimitato collegialmente, in quanto ciascuno ne era titolare per intero, ma il collega
poteva bloccare ogni suo atto con l’intercessio. Vari rimedi consentirono di adattare alle esigenze quotidiane la
collegialità pari: stabilendo per alcune azioni un previo consenso del collega, escludendo il ricorso all’intercessio; il
turno; il sorteggio per la spartizione di alcune sfere di esercizio individuale delle comuni competenze, che investivano
tutti i settori del pubblico potere, limitate solo dalla provocatio e dall’esistenza di altre magistrature con autonomo
imperium, qualitativamente uguale al loro, ma gestito da magistrati con potestas minor, da esplicarsi in campi ben
precisi. Ogni potere non specificamente attribuito ad altri magistrati spettava ai consoli, detti anche iudices e praetores.
Manifestazione fondamentale dell’imperium domi era il ius agendi cum patribus e cum populo ed il connesso potere di
iniziativa legislativa (rogatio). Ogni console, salvo il diritto di intercessio dell’altro, poteva procedere alla creatio dei
successori e degli altri magistrati ordinari attraverso l’accettazione e la proposta delle candidature all’assemblea e con la
proclamazione degli eletti dopo il voto. Nel caso di dictio del dittatore, invece, il console sceglieva senza elezioni
preventive, ma di solito seguendo le indicazioni del senato, alle cui direttive era in genere legato anche se, per le
decisioni urgenti, i consoli si avvalevano di un ristretto consilium formato dai principes civitatis.
Dubbi sono stati sollevati sulla titolarità di un effettivo potere giurisdizionale, ma è certo che essi avessero quella della
legis actio e sovrintendessero alle manomissioni.
Avevano competenza nel campo della coercitio criminale, erano responsabili del mantenimento dell’ordine pubblico ed
esercitavano le funzioni amministrative devolute ai censori quando questi non erano in carica; potevano imporre nuovi
tributi e gestire il denaro pubblico.

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In quanto titolari dell’imperium militiae, avevano il comando dell’esercito e la piena responsabilità del suo impiego in
guerra (secondo le direttive del senato), provvedevano alla leva, nominavano una parte dei tribuni militari, imponevano
tributi militari e utilizzavano il bottino di guerra nell’interesse pubblico. L’imperium militiae, non sottoposto a limiti
costituzionali, poteva essere esercitato solo al di fuori del pomerio e nei confronti dei militari e dei nemici.
Allo scadere dell’anno di carica ogni console rispondeva dell’uso fatto dei suoi poteri e poteva essere perseguito per
infrazioni e crimini commessi durante la magistratura.
Il pretore – Magistrato maggiore eletto dai comizi centuriati sotto la presidenza di un altro magistrato maggiore, di
solito di un console (di cui era conlega minor) e titolare di un imperium qualitativamente uguale al loro ma di minore
potestas, in età storica il pretore aveva competenze specifiche soprattutto nella giurisdizione civile. In virtù del suo
imperium domi, si affiancava e sostituiva i consoli, anche se evitava di compiere atti politicamente impegnativi, che
comunque i consoli avrebbero potuto vanificare in qualunque momento. In quanto titolare del ius agendi cum populo et
cum patribus, convocava e presiedeva i comizi per l’elezione dei magistrati minori ed aveva un autonomo potere di
iniziativa politica, anche se se ne avvaleva raramente. In quanto dotato dell’imperium militiae aveva spesso il comando
dell’esercito fuori dell’urbe, da solo o con i consoli, accompagnato da 6 littori con le scuri (i consoli 12 a testa).
La sua funzione primaria era quella di amministrare la giustizia tra cittadini in Roma; a tal proposito Livio narra che la
carica fu riserva ai patrizi nel 367 come contropartita dell’ammissione dei plebei al consolato. Solo nel 337 fu eletto per
la prima volta pretore un plebeo, Publilio Filone, già console e dittatore.
La non collegialità caratterizzante la pretura era tale che nel 242, in seguito all’infittirsi delle relazioni economico-
commerciali con gli stranieri, al praetor urbanus si aggiunse il praetor peregrinus, che aveva la iurisdictio nelle
controversie di cui fossero parte peregrini; i due pretori esercitavano i loro poteri indipendentemente nelle rispettive
sfere di competenza. La situazione non si modificò neanche in seguito, quando furono creati nuovi posti di pretore e la
ripartizione delle competenze avvenne sempre per sorteggio tra pretori eletti. La possibilità di intercessio è attestata solo
nel I sec. a.C. tra pretore urbano e peregrino.
La giurisdizione pretoria e il sistema delle legis actiones – La iurisdictio romana ha una portata differente rispetto
alla moderna giurisdizione; quest’ultima si riferisce alla funzione giudiziaria intesa nella sua completezza, mentre la
prima si riferiva quasi esclusivamente ai processi privati e comprendeva solo l’attività svolta dal magistrato nella fase in
iure, volta a permettere l’impostazione dei termini della controversia. La decisione, nei limiti fissati nella fase in iure,
era invece demandata alla sententia di un giudice privato, che nella terminologia romana costituisce una iudicatio.
Quando venne creata la carica del pretore urbano, il sistema processuale romano era quello delle legis actiones, ancora
non completo, visto che la legis actio per condictionem fu introdotta tra il 230 e il 150 dalla lex Silia e dalla lex
Calpurnia. Verso la metà del IV secolo esistevano quindi la legis actio sacramento e quella per iudicis arbitrive
postulationem e le due azioni esecutive per manus inictionem e per pignoris capionem. La caratteristica principale del
processo delle legis actiones era la bipartizione del procedimento; nella fase in iure, il pretore era soprattutto garante
dell’esatto compimento del rito, con la pronuncia di formule con le quali si impostavano i termini della controversia
che, nella fase apud iudicem sarebbe stata decisa dal giudice privato. Il sistema delle legis actiones era sorto quando
l’ordinamento si identificava con lo ius civile e rimase sempre collegato alla tutela dei rapporti civilistici, che potevano
essere fatti valere solo mediante una legis actio. Poiché il sistema era molto rigido, ed in seguito alla codificazione delle
XII Tavole solo una lex poteva introdurre un nuovo modus agendi o estenderlo a nuove fattispecie, le possibilità di
innovazioni in questo ambito erano molto limitate. Lo stesso pretore non poteva creare nuovi modi agendi né introdurre
nuove actiones né disapplicare il nuovo diritto civile mediante la denegatio actionis.
Le origini del processo formulare e la formazione dell’editto del pretore – La nascita del processo formulare si ha
tra la metà e la fine del IV secolo, sia per la rigidità della procedura delle legis actiones e l’impossibilità della loro
estensione agli stranieri, sia per le caratteristiche dei poteri del pretore che si assommavano nel suo imperium:
l’imperium dei magistrati maggiori era un potere indifferenziato, limitato solo dalle garanzie fondamentali dei cittadini
e dal sistema dei reciproci controlli e dalle sfere di competenza degli altri magistrati. Pur essendo il pretore un conlega
minor dei consoli, egli aveva il potere di trovare le forme più opportune per assolvere ai suoi compiti.
L’intensificarsi dei traffici pone il problema della disciplina giuridica da applicare ai rapporti fra stranieri e romani e
degli stranieri fra loro; nascono così le forme che, sviluppate per circa 3 secoli, avrebbero dato luogo alla procedura per
formulas, che dopo la lex Iulia del 17 sarebbe diventata l’unico processo ordinario dei cittadini romani, prendendo il
posto delle legis actiones anche per la tutela delle situazioni disciplinate dal ius civile. Importante nella storia di questa
forma processuale è la creazione del pretore peregrino che, visto che fino al 242 la giurisdizione peregrina era esercitata
dall’unico pretore, mostra il rilevante aumento del numero dei processi in cui almeno una parte era straniera.
Sul modo in cui si svolgevano i processi della giurisdizione peregrina sappiamo direttamente solo che non potevano
effettuarsi nelle forme delle legis actiones, per cui il pretore doveva organizzare una tutela giurisdizionale sulla base del
proprio imperium. Il processo formulare, che conserva la bipartizione del processo, si fonda su istruzioni, date dal
magistrato al giudice privato sul modo in cui quest’ultimo doveva risolvere la controversia, che rappresentavano il
contenuto della formula, che veniva concordata fra le parti e il magistrato nella fase in iure e su cui le parti stesse
esprimevano il loro consenso nella litiscontestatio, atto che chiudeva la fase in iure. Inizialmente le istruzione date dal
magistrato venivano determinate caso per caso, ma l’aumento della frequenza dei processi porto all’introduzione
dell’editto giurisdizionale del pretore: dapprima si individuarono schemi di istruzioni-tipo da applicare a fattispecie
analoghe, poi si passò all’editto vero e proprio, mantenuto per tutto l’epoca classica, emanato all’inizio dell’anno di
carica e contenente i principi ai quali il magistrato si sarebbe ispirato nell’esercizio della giurisdizione. Nell’editto erano

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contenute le formule che il pretore prevedeva di concedere; nonostante il pretore fosse libero di fissarne il contenuto,
invalse la prassi che quello dell’anno successivo recepisse in linea generale l’editto del precedente, portando alla nascita
di un insieme di regolamentazioni che si trasmettevano immutate da un pretore all’altro, l’edictum tralaticium.
Poiché il ius civile dimostrava di essere sempre più inadeguato anche nella regolamentazione delle controversie tra
cittadini, il pretore iniziò a stendere i propri interventi anche alle controversie tra cives. La data in cui ciò avvenne può
essere approssimata alla prima metà del II secolo; fra la metà e la fine del II secolo venne emanata la lex Aebutia che
conferì al processo formulare efficacia sul piano del diritto civile. La sua effettiva portata è dubbia, poiché l’abolizione
delle legis actiones avvenne solo nel 17; in passato si riteneva che essa avesse creato un concorso fra le due procedure,
mentre oggi prevale l’opinione che si fosse limitata ad abolire la legis actio per condictionem, dando effetti civili al
processo formulare solo per le formule che servissero a sostituirla. Le fonti però non permettono di escludere che in
seguito all’emanazione della lex Aebutia fossero utilizzate formule con effetti civili al di fuori delle cause regolate per
condictionem, per cui resta preferibile l’opinione più antica.
Agli inizi del I secolo l’editto del pretore assunse un importanza sempre maggiore, sia perché su di esso si basava il ius
honorarium sia perché iniziava a contenere anche i concepta verba delle formule civili, in concorrenza con i certa verba
delle legis actiones. L’affermarsi del fenomeno dell’edictum tralaticium relegava sul piano astratto la facoltà del pretore
di determinare il contenuto dell’editto, per cui le modificazioni introdotte dovevano corrispondere a precise scelte di
politica legislativa ed essere del tutto eccezionali. Tuttavia il magistrato poteva denegare i mezzi previsti dall’editto e
concedere azioni non previste, le actiones decretales.
In contrapposizione ad edictum, il termine decretum assume il significato di provvedimento particolare del pretore.
Dall’edictum perpetuum deve distinguersi l’edictum repentinum, un provvedimento di carattere generale ed astratto
volto a disciplinare l’esercizio della giurisdizione, emanato non all’inizio dell’anno di carica, ma per fronteggiare
necessità ed esigenze sopravvenute.
La funzione centrale dell’editto viene accentuata dalla lex Cornelia de edictis del 67 che stabiliva che i pretori
dovessero ius dicere in base al proprio editto, ma la sua effettiva portata resta dubbia, visto che anche in seguito il
pretore poteva, in via decretale, rifiutare mezzi giudiziari previsti e concederne di non previsti. Probabilmente la
formulazione della Lex Cornelia era tale da non comportare una sanzione di nullità per l’esercizio della giurisdizione
all’infuori delle previsioni dell’editto; si può ritenere che essa sia stata interpretata nel senso di porre limiti alla
discrezionalità del pretore.
La struttura dell’editto del pretore - La struttura dell’editto corrisponde alla sua storia e funzione ed è da noi
conosciuta solo nel testo della codificazione adrianea, che si presuppone sostanzialmente identica a quella assunta nel I
secolo. Le formule erano sottoposte ad un processo di tipizzazione che era il presupposto necessario per la proposizione
nell’editto annuale e, viceversa, l’uso della pubblicazione rafforzava la tendenza alla tipizzazione. C’era quindi una
corrispondenza biunivoca tra diritto riconosciuto dal ius honorarium e formula processuale con cui farlo valere, così
come era stato tra actio e situazione giuridica protetta dal ius civile. La sostanziale differenza era che, mentre i certa
verba dell’actio erano immodificabili e qualsiasi errore nella pronuncia comportava la perdita definitiva della causa, la
tipicità delle formule non comportava alcuna conseguenza se in concreto si allontanavano dallo schema tipico. Le
formule contenute nell’editto dovevano essere adattate al caso concreto, in primo luogo mediante l’indicazione di nomi
e dell’oggetto specifico della controversia, ma anche con l’integrazione di elementi non presenti nello schema tipico, a
favore del convenuto (praescriptio pro reo o exceptio) o dell’attore (praescriptio pro actore). Erano tipizzati anche le
eccezioni, gli interdicta (ordini dati dal pretore su richiesta dell’interessato per intimare ad un soggetto di tenere un
determinato comportamento), le stipulationes praetoriae (il pretore imponeva ad una parte di promettere mediante
sponsìo il risarcimento di un eventuale danno futuro); a partire dalla lex Aebutia, anche le formule delle azioni civili.
I poteri del pretore erano diversi rispetto alle azioni onorarie e a quelle civili e ciò si riflette nella struttura dell’editto:
per le azioni civili il potere discrezionale del pretore è limitato, in quanto egli deve tradurre in una formula la pretesa
avanzata dall’attore sulla base di una situazione giuridica tutelata dal ius civile, e perciò indipendente dall’editto e
dall’imperium del pretore. Sul piano della forma dell’editto, le azioni civili dovevano essere stabilite sulla base del ius
civile e il pretore aveva solo il potere di rifiutare l’azione o concedere un’eccezione nel caso concreto; per le situazioni
irrilevanti per il ius civile era necessario specificare le circostanze nelle quali potesse essere richiesta la formula
onoraria, attraverso la clausola edittale. La concessione di un’azione onoraria, quindi, avveniva mediante tale clausola e
la proposizione delle formule tipo, precedute da una rubrica; per le azioni civili si aveva solo rubrica e formula-tipo.
È opinione comune che l’editto del pretore sia un’autoregolamentazione dell’attività del magistrato e non costituisca
una normativa rivolta ai destinatari sul piano sostanziale; tuttavia, disposizioni dirette ai soggetto dell’ordinamento si
riscontrano già nell’editto del pretore e sono prevalenti in quello degli edili curuli.
Quanto al rapporto fra il diritto sostanziale e azione, si sostiene che per i romani prevalesse una visione processuale
dell’ordinamento, per cui la concessione dell’azione sarebbe il presupposto per la configurazione della situazione
giuridica sostanziale protetta, mentre nella visione moderna avviene il contrario, anche se in realtà non vi è una
differenza essenziale.
Sulla questione se l’editto del pretore possa dirsi fonte del diritto e in quali termini possano ritenersi norme giuridiche
quelle che sostituiscono il diritto onorario, vista la discrezionalità del magistrato giusdicente, è da notare che la certezza
del diritto, nell’esperienza giuridica romana, non è mai stata assunta come valore fondamentale; pertanto, la possibilità
che la soluzione prevista dall’editto cambiasse il base alla valutazione del pretore non influiva sulla considerazione
dell’editto come parte dei iura populi romani. Il diritto, nell’esperienza romana, era un sistema aperto.

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Nella ricostruzione di Lenel, l’editto sarebbe diviso in 5 parti: la 1° imperniata sull’esercizio della giurisdizione, la 2°
sui mezzi giudiziari ordinari, la 3° su quelli straordinari, la 4° sulla nullità e l’esecuzione delle sentenze, la 5° sugli
interdicta, le exceptiones e le stipulationes paetoriae; tuttavia, osservando l’editto, si nota un notevole disordine.
Editto del pretore, ius honorarium e ius civile - Per la disciplina dei rapporti privatistici, le norme dell’ordinamento
romano si dividono tra ius civile e ius honorarium sulla base della fonte da cui derivano; il primo trova origine in tutte
le fonti che di in epoca in epoca sono destinate a produrlo, il secondo nell’imperium o nell’editto del magistrato. Nella
tarda repubblica, oltre al diritto onorario, agli stranieri era applicata anche quella parte del diritto civile che costituisce il
ius gentium, anche se molti istituti classificati dalla giurisprudenza imperiale nel ius gentium come parte di quello civile
hanno trovato una prima tutela nel diritto onorario.
È stato sostenuto che a Roma, anche in epoca alto repubblicano, sarebbe stato in vigore il principio della personalità del
diritto, per cui i vari soggetti avrebbero dovuto essere giudicati secondo il diritto della comunità di appartenenza; nelle
città-stato greche ed italiche, invece, vigeva l’opposto principio della territorialità del diritto, per cui allo straniero
veniva applicato il diritto della città in cui si trovava. La situazione a Roma non doveva essere diversa, all’inizio, ma
quando si cominciò ad avere una tutela giurisdizionale degli stranieri attraverso l’imperium del pretore, essa venne
attuata con un’ampiezza sconosciuta al mondo delle poleis greche; nella giurisdizione peregrina non sembra rinvenirsi
l’applicazione del principio della personalità del diritto, poiché le norme venivano applicate solo in base all’imperium
del pretore. Bisogna inoltre considerare che spesso le controversie avvenivano tra romani e stranieri e che era assai
improbabile che quelle fra stranieri potessero rifarsi alla stessa legge personale.
In alcuni casi il pretore estendeva agli stranieri la disciplina del diritto civile, spesso avvalendosi di un’actio ficticia;
tuttavia i casi più numerosi sono quelli in cui il magistrato procedeva in modo autonomo, individuando gli elementi di
fatto rilevanti per la concessione della protezione giuridica e fissando le conseguenze, costruendo la formula qualificata
come in factum concepta. Il diritto onorario connesso alla giurisdizione peregrina fu recepito dal pretore urbano tra la
fine del III e gli inizi del II sec., nell’organizzazione degli iudicia imperio continentia; le formule da lui usate erano le
stesse di quello peregrino (in factum conceptae e ficticiae), cui si aggiunsero altri mezzi formulari e non.
Il problema dei rapporti tra diritto civile e onorario si pone sotto un aspetto statico e uno dinamico; sotto quest’ultimo si
intreccia con quello del ius gentium. È ammesso in dottrina che una serie di istituti rientranti in quest’ultimo, e di
conseguenza nel diritto civile, siano sorti sulla base dell’imperium del pretore, tra cui i quattro contratti consensuali
(compravendita, locazione, società e mandato) tutelati da iudicia bonae fidei. Questi erano così chiamati perché
facevano valere un oportere ex fide bona, che inizialmente alludeva ad un obbligazione che aveva vigore su un piano
diverso da quello del diritto civile a cui si riferiva l’oportere puro e semplice; in seguito esso viene fatto rientrare nel ius
civile, anche se la struttura della formula rimase invariata.
In questo periodo si ebbe una progressiva civilizzazione delle azioni concesse dal pretore che formarono il ius gentium,
applicabile agli stranieri non sulla base dell’imperium pretorio, ma quali norme di diritto civile; in esso confluirono
anche norme che appartenevano da sempre al diritto civile, per cui esso risulta composto da due filoni di istituti.
La maggior parte degli istituti basati sull’imperium pretorio rimase a far parte, per tutto il periodo classico, del ius
honorarium, formalmente diviso in quello fondato sull’editto del pretore urbano e su quello del pretore peregrino;
l’ordinamento romano assunse quindi la struttura che lo avrebbe caratterizzato per tutto il principato, fondata su due
sottosistemi formalmente indipendenti fra loro. Essi erano di notevole complessità, in quanto il diritto onorario
applicabile ai cittadini toccava quasi tutti i settori del diritto privato; dalla prima metà del I secolo, esso era però
sottoposto alla rielaborazione dei prudentes, che tendeva ad una unificazione sostanziale del sistema normativo.
Anche se diritto civile e pretorio sono visti come sistemi normativi contrapposti, solo il primo era autosufficiente,
nonostante le lacune; il secondo presupponeva per l’applicazione l’esistenza del diritto civile, visto che, oltre ad avere
lacune nel campo dei diritti patrimoniali, non regolava il diritto di famiglia e delle persone. Spesso è lo stesso pretore
che evidenzia tali mancanze, applicando alle situazioni giuridiche da lui tutelate le norme previste dal diritto civile per
casi analoghi, soprattutto concedendo azioni fittizie.
Caratteristica peculiare del rapporto tra diritto civile ed onorario è che fra di essi non vi è una scala gerarchica; essendo
indipendenti, il pretore, creando norme di diritto onorario, non introduce nuove norme di diritto civile né può abrogarne.
Ciò non toglie che sorgessero problemi in caso di contrasto tra una norma di diritto civile ed una di diritto pretorio; a
questo proposito Papiniano individuava 3 funzioni del diritto pretorio: supplere, adiuvare e corrigere il diritto civile. Il
1° compito consiste nell’introdurre una nuova regolamentazione laddove il diritto civile non ne prevede alcuna; il 2° nel
prevedere una tutela più efficace di quella prevista dal ius civile; il 3° nell’intervento sulla regolamentazione civilistica
per eliminare quegli aspetti ritenuti insoddisfacenti sul piano della politica legislativa.
Nel primo caso, il problema della coesistenza di norme civili e onorarie non si poneva; nel secondo, se la norma
civilistica continuava ad esistere accanto a quella pretoria, dovevano sussistere criteri in base ai quali effettuare la
scelta, altrimenti il magistrato operava in concreto la sostituzione della prima con la seconda; nel terzo avveniva lo
stesso, attraverso la denegatio actionis da parte del magistrato o l’inserzione di un’exceptio da parte del giudice privato.
Pertanto il problema dei rapporti veniva risolto nel campo pratico e su iniziativa della parte a favore della quale era
sancita la norma pretoria; in mancanza di essa, il giudice procedeva applicando il diritto civile.
Il dittatore ed il magister equitum – Chiamato in tempi più antichi magister populi, era un magistrato straordinario
nominato in caso di emergenza da uno dei consoli su proposta o con l’accordo del senato ed era dotato di summum
imperium e summa potestas. Il dictator optimo iure creatus aveva pieni ed indefiniti poteri, mentre il dictator imminuto
iure era destinato ad assolvere specifici compiti, ma spesso di rilevante peso politico. L’eccezionalità delle circostanze

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della sua elezione giustificava l’ampiezza dei poteri del dittatore, fondati su un imperium maggiore anche di quello dei
consoli, i cui poteri passavano in subordine, pur senza cessare. Probabilmente il console procedeva alla dictio del
dittatore e non alla creatio in quanto nessun magistrato poteva conferire un imperium superiore al proprio.
La procedura di nomina, compiuta attraverso arcane pratiche rituali, mostrava la connessione col sacro di tale
magistratura dai connotati essenzialmente militari e dalla fisionomia simile a quella dei re.
Il dittatore aveva una scorta pari a quella spettante alla coppia consolare e i 24 littori avevano le scuri innestate nei fasci
anche in città, a riprova dello svanire della distinzione tra imperium domi e militiate, in quanto quest’ultimo,
nell’emergenza, acquistava valore assorbente; a lungo egli non fu soggetto nemmeno alla provocatio né all’intercessio
tribunicia per gli atti di esercizio di poteri di governo civile compiuti in Roma. Anche i poteri del senato venivano
raramente esercitati nei suoi confronti, sia per il prestigio della carica, sia per l’omogeneità degli indirizzi tra i gruppi al
governo e lo stesso dittatore; l’unico limite era la temporaneità della carica, limitata al tempo necessario per il
conseguimento dello scopo e comunque a massimo 6 mesi. Allo scadere della carica egli non rispondeva degli atti
compiuti né rendeva conto delle somme assegnategli per lo svolgimento delle imprese militari.
Non può considerarsi un limite al suo potere neanche l’obbligo di nominare, subito dopo l’investitura, un magister
equitum, cui affidare in subordine il comando della cavalleria, che durava in carica per lo stesso periodo del dittatore.
Scelto ed eventualmente revocato a discrezione del dittatore, il magister equitum era un magistrato di rango elevato,
dotato di un proprio imperium e al quale poteva essere affidato il comando anche di tutto l’esercito. Senza seguito
rimase il tentativo del 217 di equiparare le due cariche, instaurando una sorta di collegialità; comunque, a quel tempo, la
figura del dittatore era già in declino, grazie anche alla conquistata possibilità di opporre ai suoi atti la provocatio e
l’intercessio tribunicia, oltre all’accesso alla carica da parte di un plebeo già nel 356.
L’ultima dittatura optima lege fu nel 216, l’ultima imminuto iure nel 202; poi, per oltre un secolo, si ebbe nella prassi
un suo totale abbandono fino a quando, nel 82, Silla la fece rivivere, anche se deformata; dopo le 4 diverse dittature di
Cesare nel 49, 48-47 e 44, essa non fu più utilizzata e, sempre nel 44, Antonio ne fece sancire per legge l’abolizione.
I censori – La censura, dotata di potestas e auspici maggiori, ma non di imperium, aveva un ruolo eminente tra le
magistrature ordinarie maggiori per la specificità delle sue funzioni, essenziali per l’organizzazione sociale romana, a
struttura timocratica. L’ordinamento centuriato rendeva necessario l’accertamento periodico del patrimonio dei cives,
effettuato dai pretori-consoli fino al 459 e poi, nel periodo del tribunato militare, da due censores patrizi.
Livio indica il 443 come anno di inizio della censura, ma probabilmente la magistratura acquistò la sua definitiva
identità solo in seguito, forse nel 367; una tappa fondamentale in tal senso fu una legge Emilia del 434 che stabilì la
durata della censura in 18 mesi, rispetto all’anno dei tribuni militum, e contemporaneamente ne affievolì l’imperium. La
differenziazione introdotta da tale legge favorì il graduale enuclearsi dal collegio tribunizio della coppia censoria.
Appena eletti, di solito tra senatori ex consoli, i censori emanavano un editto contenente la data del censimento e i
criteri di valutazione che avrebbero seguito; tutti i padri di famiglia erano tenuti a partecipare alla contio che avveniva
nel campo Marzio (l’equitum census nel Foro), dove dichiaravano le generalità proprie e dei membri della propria
famiglia e denunciavano i propri averi (dapprima solo le res mancipi, poi anche le nec mancipi), che venivano stimati
dai censori coadiuvati da un consilium formato dai pretori, dai tribuni della plebe e da vari ausiliari. I censiti venivano
registrati in due ruoli, uno per stabilire l’ordinamento dei tributi e uno per le leve e i comizi; erano previste sanzioni per
chi forniva informazioni false o inesatte. Sulla base della capacità patrimoniale, quindi, patres e relativi filii familias
venivano iscritti dai censori nelle varie tribù a seconda della residenza o del territorio in cui si trovavano i loro beni,
nelle classi a seconda della ricchezza e nelle centurie, in base all’età e a propria discrezione; proprio tale libertà
comportò la fortuna di questa magistratura, cui fu attribuito l’esercizio del regimen morum, cioè di controllare a
posteriori il comportamento privato e pubblico, civile e morale dei cittadini e di punire chi avesse tenuto una condotta
riprovevole, ma non qualificabile come crimine, con la nota censoria. Essa, oltre ad essere produttiva di ignominia,
poteva comportare la rimozione dalla classe dei cavalieri, il trasferimento ad una centuria di una classe inferiore o ad
una tribù di minor peso politico o addirittura la privazione dei diritti politici, di voto e di eleggibilità e l’iscrizione del
colpito nella lista degli aerarii, tenuti a pagare i tributi in proporzione maggiore. I successivi censori potevano
confermare o cancellare la nota censoria.
Tra le prerogative che col tempo si svilupparono, prima in fatto e poi formalmente, vi era la lectio senatus, formalmente
prevista da un plebiscito Ovinio intorno al 312, fonte di grande prestigio e responsabilità per i censori e strumento
attraverso il quale i valori da loro stabiliti vennero diffusi.
Per la validità della lectio e della nota censoria, era necessario che i censori agissero di comune accordo, per cui, se uno
veniva a mancare, l’altro doveva dimettersi o attendere l’elezione di un nuovo collega.
I censori erano titolari anche di altre competenze minori nel campo dell’amministrazione dell’ager publicus, della
cognizione delle controversie relative a tali beni, degli appalti per il loro sfruttamento, cui sovrintendevano durante il
periodo di carica, emanando, se necessario, delle leges censoriae. Esauriti i compiti principali, o comunque allo scadere
dei 18 mesi, essi cessavano dalla carica, dopo il rito purificatore della lustratio, che dava valore legale alle operazioni
compiute e che comprendeva il sacrificio unitario di un maiale, un ovino e un toro. Negli intervalli tra le varie coppie
censorie, molte delle loro competenze minori erano solitamente devolute a consoli e pretori.
Gli edili, i questori, i vigintisexviri – L’edilità fu riconosciuta per la prima volta nel 449 dalla legge Valeria Orazia de
tribunicia potestate, che prevedeva la sacertà per gli attentatori all’integrità personale dei tribuni della plebe, degli
iudices decemviri e degli aediles plebis, due collaboratori dei tribuni, cui erano affidati la custodia degli archivi e la
gestione del tesoro depositati nel tempio di Cerere sull’Aventino. In seguito al compromesso politico-istituzionale del

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367 essa divenne una magistratura mista di 4 membri ed estese le sue competenze amministrative a tutta la città.
I nuovi edili, detti curuli perché, come i consoli e i pretori, avevano diritto alla sella curulis, si affiancarono a quelli
primitivi, ma rimanendo da essi distinti; pertanto le 2 coppie non costituirono mai un collegio magistratuale unificato,
neppure quando si ammise che anche i plebei potessero ricoprire la carica di edili curuli, gli unici cui era riconosciuta
una specifica funzione giurisdizionale, anche se limitata ad alcune delle competenze attribuite nel complesso ai 4
magistrati, chiamati dalle fonti curatores urbis, annonae, ludorumque sollemnium. La cura urbis implicava poteri di
vigilanza e polizia sulle opere pubbliche di una delle 4 regioni in cui era divisa la città; la cura annonae, la
sovrintendenza dei mercati, la conservazione e la distribuzione delle scorte di cereali; la cura ludorum la sorveglianza
sui pubblici spettacoli e in seguito anche l’organizzazione delle feste e dei giuochi, importanti strumenti di propaganda.
L’edilità divenne così una tappa non necessaria, ma consueta e spesso utile, del cursus honorum.
Per lo svolgimento delle proprie funzioni, gli edili avevano limitati poteri di coercizione e repressione; i curuli, anche
uno ius edicendi grazie al quale influirono notevolmente sull’evoluzione del diritto privato repubblicano.
I questori, eletti dai comizi tributi, erano magistrati minori, privi di imperium e titolari soprattutto di potestà finanziarie,
come l’amministrazione dell’erario, l’erogazione dei fondi necessari per le spese decise dai consoli, la vigilanza sul
pagamento degli oneri tributari ed il perseguimento dei debitori, l’amministrazione dei proventi delle province. Alcuni
avevano anche competenze nel campo della repressione criminale e, fino all’introduzione delle quaestiones perpetuae,
si occupavano dell’istruttoria e dell’accusa dei colpevoli di crimini capitali.
Anche se con aspri contrasti, sopiti con la concessione dell’accesso alla magistratura ai plebei, ai 2 quaestores urbani o
aerarii, nel 421 se ne aggiunsero altri militari, ausiliari e sostituti dei consoli, che provvedevano all’amministrazione
finanziaria delle legioni e facevano da controllori contabili. Dal 267 furono aggiunti altri 4 questori, Italici o classici,
supervisori dell’attività della flotta, per le loro competenze su regioni marittime.
Le sfere di competenza, assegnate per sorteggio, venivano fissate ogni anno dal senato a seconda delle esigenze di
Roma, dell’Italia e delle province, dove spesso veniva mandato un ex-questore. Solo nell’81, una legge Cornelia di Silla
li portò da 8 a 20; Cesare li portò a 40 nel 45, ma Augusto ristabilì la regola sillana.
Nella tarda repubblica, ai questori inviati nelle province, dove rappresentavano la più alta autorità romana dopo il
governatore, era attribuito con legge l’imperium e il titolo di quaestores pro consule o pro praetore.
Ultima nel cursus honorum, la questura rappresentava la tappa iniziale della carriera politica; prima di accedervi, era
d’uso esercitare una di quelle funzioni ausiliarie delle magistrature i cui titolari vengono indicati come vigintisexviri,
prive di imperium ed escluse dal cursus honorum, probabilmente istituite subito dopo il 367.
I tresviri capitales erano funzionari di polizia creati per combattere la delinquenza comune, nominati e dipendenti dal
pretore finché una legge Papiria ne attribuì l’elezione ai comizi tributi. Perseguivano di propria iniziativa o su denuncia
i responsabili di ogni tipo di violenza e, secondo alcuni, se i rei erano schiavi, stranieri o appartenenti ad infimi strati
sociali, esercitavano, su incarico del pretore, una specie di giustizia di polizia, mettendoli a morte personalmente se colti
in flagrante o rei confessi, giudicandoli sommariamente se si proclamavano innocenti. Dirigevano il carcer del Foro e le
altre prigioni dell’Urbe, custodivano gli accusati in attesa di giudizio, esigevano dalla parte soccombente di una legis
actio sacramenti le multe processuali.
I quattuorviri praefecti Capuam Cumas, dapprima delegati del pretore urbano ad amministrare la giustizia in alcune città
campane, verso la fine del III secolo divennero magistrati minori eletti dai comizi tributi; furono aboliti da Augusto.
I decemviri litibus iudicandis erano un collegio risalente alla metà del IV secolo, quando iniziò a diffondersi largamente
la schiavitù, e giudicavano in materia di libertà. Alla fine del III secolo divennero magistrati stabili, eletti dai comizi
tributi. È controverso se, fin dalle origini, fu loro assegnata la presidenza del collegio dei centumviri, competenti per
questioni di eredità.
Altri 3 ausiliari erano preposti alla coniazione delle monete, 6 erano ausiliari degli edili.
I tribuni della plebe – Non più solo capi rivoluzionari, ma leaders politici, riconosciuti sacrosanti nel 449, i tribuni
della plebe occuparono dal 367 una posizione di potere adeguata alla rilevanza politico-militare raggiunta dal ceto che li
esprimeva ed assunsero attribuzioni che, pur derivando da quelle originarie, erano ora riconosciute dall’intera comunità,
e quindi consentivano di attuarvi l’auxilium plebis. I tribuni svolsero tale compito dapprima guidando la lotta per il
completo pareggiamento con i patrizi, poi, anche attraverso la rivoluzionaria stagione graccana e post-graccana,
partecipando attivamente alla gestione politica della repubblica ed infine inserendosi nel certus ordo magristratuum.
Eletti dai concili della plebe riunita per tribù in numero di dieci, utilizzavano le potestà derivanti dal generico potere
dell’ausilio. Alla base di tale potere di fatto era stata inizialmente la forza politico-militare conquistata dalla plebe, ma
dal 449, il riconoscimento della loro personale inviolabilità, li rendeva immuni da qualsiasi coercizione dei magistrati
patrizi. Si affermò nella prassi anche il generale potere negativo di intercedere, che paralizzava l’azione di qualunque
magistrato e rendeva impossibile l’esecuzione delle decisioni adottate dagli organi di governo; espandendosi,
l’intercessio divenne un vero e proprio ius intercessionis, esercitabile singolarmente da ciascun tribuno. Questa regola
derivava dall’antica logica rivoluzionaria per cui l’ausilio non poteva richiedere decisioni collegiali, vista la natura di
emergenza degli interventi; tuttavia, dopo il 367, tali esigenze vennero attenuandosi e l’antico principio rivoluzionario si
trovò a dover coesistere con la regola fondamentale della potenziale unanimità e nella pratica si affermò la convinzione
che ogni tribuno potesse utilizzare la sua intercessio nei confronti dei propri colleghi.
Funzionali all’esercizio dell’intercessio vi era una serie di altri poteri i cui contenuti vennero di volta in volta fissandosi
grazie all’accumularsi nella realtà istituzionale di prove della loro efficace ed energica utilizzazione. Il potere di
intercedere era impiegato per autonoma decisione o su appelatio dei plebei nei confronti di tutti i magistrati (dopo il 300

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anche del dittatore), tranne che dei censori per gli atti relativi al censimento.
Il blocco del dilectus (leva) rappresentava la misura più grave e fu usato soprattutto in età graccana e post-graccana;
notevole peso politico aveva anche l’impedimento alla convocazione e al compimento delle decisioni dei comizi e del
senato, anche se quest’ultimo poteva cercare di contrastare il veto ai senatoconsulti dichiarando l’agire dei tribuni contra
rem publicam e ponendo le premesse per una loro incriminazione.
I tribuni potevano esercitare l’intercessio anche nel processo, su richiesta della parte interessata.
A tutela della propria sacrosanctitas fu loro riconosciuta una summa coercendi potestas, che permetteva la
comminazione di multe, il sequestro di beni, l’arresto, la detenzione e la condanna capitale senza appello. Tale potere,
inizialmente solo di fatto, trovò fondamento legale nella terza delle leggi Valerie Orazie, sulla base della quale i tribuni
trattarono come violatori della propria persona tutti coloro che li ostacolassero.
I poteri coercitivi dei tribuni subirono nella prassi delle modifiche sia episodiche che durature; il senato talvolta
contribuì a rafforzarli, perché li esercitassero contro magistrati ostili, ma più spesso si servì dell’intercessio collegarum
di tribuni amici per impedire l’esercizio di potestà tribunizie pericolose per il ceto aristocratico. Anche il consolidarsi di
garanzie democratiche concorse a circoscriverli, subordinando la potestà di irrogare condanne capitali alla regolare
condanna e alla provocatio e introducendo, con le leggi Aternia Tarpeia e Menenia Sestia, la valutazione delle multe in
denaro; pertanto la summa coercendi potestas si istituzionalizzò. Rinunciando talvolta ad usare la propria coercitio, i
tribuni assunsero sempre più spesso l’iniziativa di trascinare dinnanzi alle corte criminali ordinarie ex magistrati e
cittadini accusati non di violazione della loro sacrosanctitas, ma di illeciti a sfondo politico.
L’auxilium plebis si era realizzato sin dalle origini, oltre che in negativo, anche attraverso la capacità di riunire, dirigere
e consultare la plebe e forse anche di decidere da arbitri sulle controversie insorte tra i suoi appartenenti; da ciò derivò il
diritto di agere cum plebe, cioè di mantenere un rapporto organico attivo con la plebe riunita in concilia. In virtù di tale
diritto, ogni tribuno poteva convocare e dirigere i concilia plebis e proporre schemi di deliberazioni politiche o
normative (plebis scita). Solo per l’elezione dei nuovi tribuni l’assemblea era convocata con editto collegiale di tutti
quelli in carica; nel 448 una legge Trebonia abolì il sistema della cooptazione, per cui si seguì questa stessa procedura
anche per integrare il collegio quando veniva a mancare uno dei componenti nel corso dell’anno. I tribuni restavano in
carica un anno e potevano essere rieletti, anche se ciò avvenne solo nei tempi più antichi e sino ai Gracchi.
Verso la fine del III secolo la tribunicia potestas si arricchì con lo ius senatus habendi, cioè il diritto, non solo di
partecipare alle sedute del senato, ma anche di convocarlo e di presiederlo; tale diritto fu ottenuto ben prima della legge
Atinia che riconobbe agli ex tribuni il diritto di entrare a far parte del senato se scelti dai censori. Un peso rilevante in
questa evoluzione ebbero la lex Hortentia, che equiparò i plebisciti alle leggi, e la tendenza ad avvicinare sempre più il
tribunato alle magistrature cittadine.
Il pareggiamento degli ordini, il plebiscito Ovinio, la lex Ogulnia - L’acceso al consolato fu per la plebe una
conquista. I plebei furono ammessi alla dittatura nel 356, alla censura nel 351, alla pretura nel 337 e al senato nel corso
del IV secolo, anche se per molto tempo i senatori provenienti dall’antico ordine egemone rimasero numericamente
superiori. Il numero dei conscripti iniziò a crescere dal 312, per effetto del plebiscito Ovinio che, attribuendo ai censori
la lectio sentus, aveva stabilito che il reclutamento avvenisse tra gli uomini migliori di ogni ordine; alla fine del III
secolo, i conscripti erano già la maggioranza dei membri del senato.
Nel 300 i due fratelli tribuni Ogulni proposero l’ampliamento di alcuni collegi sacerdotali e il riconoscimento ai plebei
del diritto di farne parte; i patrizi non lasciarono nulla di intentato per cercare di bloccare la proposta, ma la legge
Ogulnia fu ugualmete approvata. I plebei furono ammessi nel collegio dei pontefici e in quello degli auguri, anche se
l’influenza dei patrizi continuò ad essere notevole anche dopo il 300. Anche dopo il plebiscito Ogulnio, ai patrizi
rimasero riservate alcune cariche sacerdotali di scarsissimo rilievo politico, quali il rex sacrorum e i flamini di Giove,
Marte e Quirino; conservarono due altri importanti privilegi, la carica di interrex e la gestione dell’auctoritas patrum.
Interregnum ed auctoritas - Come in età monarchica in caso di morte del re o di regifugium, anche nella repubblica,
se venivano a mancare entrambi i consoli senza che fossero stati ancora nominati i successori, per garantire la continuità
degli auspici, veniva nominato un interrex. Venuti meno i magistrati titolari, gli auspicia tornavano ai senatori patrizi e
ciascuno esercitava per turni di 5 giorni il potere di capo provvisorio dello Stato, finché, con nuove elezioni, l’ultimo
interrex effettuava la creatio dei nuovi magistrati. L’interregnum era uno strumento di governo idoneo ad affrontare
l’emergenza istituzionale dovuto alla vacanza della suprema magistratura; dato l’uso di provvedere alle elezioni
consolari anticipatamente, la sua applicazione non era frequente, ma l’istituto non andò mai in desuetudine.
Normale e indispensabile era invece l’esercizio dell’auctoritas patrum, ratifica delle delibere delle assemblee popolari,
che non potevano assumere da sole decisioni vincolanti l’intera comunità, da parte dei soli membri patrizi del senato.
L’auctoritas rappresentò a lungo un privilegiato strumento di controllo dei maggiori esponenti del ceto patrizio
sull’attività politica dei magistrati e di tutti gli altri cittadini. Quando nei comizi si compivano atti fondamentali per la
gestione della cosa pubblica, dopo la votazione, il magistrato che aveva presieduto l’assemblea doveva riferire al senato
le decisioni del popolo e chiedere ai patres la concessione della loro autorità. È discusso se questa procedura riguardasse
già i comizi curiati, ma il problema è di scarso rilievo, visto che essi furono esautorati dai comizi centuriati, le cui più
importanti delibere non potevano fare a meno dell’auctoritas patrum. L’uso dell’auctoritas rispondeva alla necessità
avvertita dal gruppo dirigente patrizio di limitare il potere di un’assembla democratica a composizione mista; la
decisione di concedere o meno l’auctoritas si presentava a volte come un mero sindacato di legittimità costituzionale,
più spesso come un potere discrezionale di controllo, come dimostra il fatto che talvolta, solo per motivi di opportunità
politica, i patres la concessero a deliberazioni irregolari, rendendole pienamente efficaci. Un esempio è il caso di quella

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concessa nel 357 alla legge Manlia de vicesima manumissionum (voluta dal console Manlio Capitolino): l’approvazione
era stata irregolare: perché i comizi non erano stati convocati nel campo Marzio, e addirittura in castris; sia perché il
popolo non era stato ordinato per centurie ma per tribù, e alla votazione aveva partecipato solo una parte degli aventi
diritto. Tuttavia i patres ignorarono i vizi di legittimità e la ratificarono, in virtù del beneficio finanziario che
l’istituzione di un’imposta del 5% sulle manomissione avrebbe arrecato all’erario; inoltre la legge avrebbe scoraggiato
l’affrancazione degli schiavi, che in numero eccessivo avrebbero potuto determinare degli squilibri sociali.
Tale episodio comportò varie conseguenze: si posero le base per una trasformazione, seppur parziale, della struttura dei
comizi; si registrò un’accettazione sconcertante, da parte dei tribuni, dell’uso discrezionale dell’actoritas, tanto più che i
loro poteri erano stati annullati dalla vigenza, in castris, dell’imperium militiae. Pertanto, per evitare il ripetersi in futuro
di tale avvenimento, i tribuni imposero l’approvazione di un plebiscito che prevedeva la pena capitale per chi avesse
violato il divieto di convocare il popolo fuori dei luoghi tradizionali. Il fatto che i tribuni richiesero immediatamente una
dura normativa in tema di repressione degli abusi magistratuali, ma non tentarono neppure di contestare la decisione dei
patres sulla concessione dell’auctoritas mostra che, nei rapporti di forza allora esistenti, ai primi doveva sembrare
normale che il controllo dei patres andasse al di là del semplice sindacato formale di costituzionalità. Se fosse stato così,
sarebbe stato possibile almeno un controllo politico, ma l’atteggiamento remissivo dei tribuni doveva rispecchiare
l’opinione che l’auctoritas fosse un vero e proprio potere di intervento insindacabile; pertanto, le decisioni comiziali si
presentavano come un momento preliminare, necessario ma non sufficiente per produrre autonomi effetti giuridici. La
concessione dell’auctoritas serviva a perfezionare le deliberazioni e aveva un’efficacia integrativa e sanante tale da
eliminare qualunque rilevanza delle carenze di cui erano affetti gli atti del popolo.
Tale concezione influenzò anche il processo di adeguamento delle istituzioni repubblicane alle nuove realtà politico-
sociali: anche quando il peso politico dei patres apparve sproporzionato rispetto al loro potere reale, non si tentò di
superare il vecchio istituto, ma di ridimensionarlo, cambiando la sua collocazione nell’iter formativo delle leggi.
Nel 339, infatti, nell’ambito di una forte ripresa dell’iniziativa plebea, espressa nella pretesa della riserva di un posto
nella coppia censoria e dell’equiparazione alle leggi dei plebiscita, il dittatore plebeo Quinto Publilio Filone ottenne che
la concessione dell’auctoritas fosse richiesta prima del voto comiziale; in tal modo, essa non poteva più essere gestita in
modo arbitrario a seconda dell’esito della votazione e perse molta della sua forza condizionante.
Il senato, il ceto equestre, la nobilitas – La parte patrizia del senato rimase a lungo l’ultimo baluardo della tradizionale
oligarchia che per secoli aveva detenuto in via esclusiva il governo della comunità. In seguito al plebiscito Ovinio il
senato divenne profondamente diverso, non tanto per i suoi compiti e poteri, quanto per la base sociale e politica del
reclutamento dei suoi membri. Il numero di 300, per tradizione fissato da Tarquinio Prisco, rimase invariato finché Silla
lo raddoppiò; Cesare lo portò prima a 900 e poi a 1.000, mentre Augusto tornò a 600.
La lectio, affidata ai censori, avveniva ogni 5 anni secondo regole precise; oltre ai precedenti senatori, di solito
riconfermati, venivano chiamati, nell’ordine in cui erano stati eletti, gli ex censori, dittatori, consoli, pretori, magistri
equitum ed edili curuli. Da una certa epoca in poi, anche gli ex edili plebei, tribuni della plebe e questori; se necessario,
per raggiungere il plenum stabilito, si ricorreva a cittadini che non avevano ricoperto magistrature ma godevano di alto
prestigio. Quest’ultima eventualità viene considerata straordinaria dalla storiografia, ma se si considerano le iterazioni
delle cariche, il fatto che spesso le cariche venissero ricoperte da ex magistrati e il numero di magistrati per anno, non si
comprende in quale altro modo si sarebbe potuto raggiungere il plenum.
Non di rado si poneva il problema dell’esclusione della nomina (praeteritio) di coloro che, avendo ricoperto una
magistratura curule, erano in attesa di essere scelti nell’intervallo tra due censure ed erano ammessi a partecipare alle
assemblee senatorie, senza diritto di voto ma con facoltà di prendere la parola. Questa facoltà e la relativa aspettativa
furono formalizzate ed estese ai tribuni della plebe dalla lex Atinia.
Essendo composto da ex magistrati, nel senato si riproduceva la gerarchia nata tra le magistrature; i senatori erano
distinti in censorii (tra essi, il patrizio più anziano aveva il titolo di princeps senatus), consulares, praetorii, aedilicii,
tribunicii, quaestorii. La gerarchia rilevava soprattutto perché il magistrato che presiedeva la seduta la seguiva per
interpellarli, per cui il princeps senatus, gli altri censorii e i consulares influenzavano la discussione con le proprie
opinioni e spesso i senatori più giovani o di minor rango non riuscivano nemmeno ad intervenire. Infatti, vi era ampia
libertà di argomentazione e nessuno poteva essere privato della parola, per cui non era raro l’uso di pratiche
ostruzionistiche che miravano ad esaurire la seduta con poche lunghissime argomentazioni.
Le adunanze si svolgevano dall’alba al tramonto, in privato ma a porte aperte, in un luogo chiuso inaugurato (templum),
sia fuori che dentro il pomerio, nella sede e nel giorno stabilito dal magistrato munito di ius agendi cum patribus che
convocava e presiedeva l’assemblea. I senatori erano tenuti a partecipare, a pena di coercitio del magistrato; la seduta si
apriva con la presa degli auspici da parte del magistrato presidente e con una relatio sua o di un altro e si chiudeva
quando il presidente riteneva esauriente la discussione, con la messa ai voti di una proposta che, se approvata con la
maggioranza, costituiva la deliberazione del senato. La votazione avveniva per discessionem, cioè per divisione
nell’aula: bisognava andare nel settore in cui si trovava chi aveva espresso l’opinione che si approvava.
Il testo del senatus consultum era redatto da un relator e da un comitato da lui scelto ed era depositato nell’aerarium
Saturni, sotto il controllo dei questori urbani, mentre una copia era custodita dagli edili plebei nel tempio di Cerere.
Oltre alla proditio interregis e all’auctoritas patrum, il senato assolveva altri compiti fondamentali, esprimendo pareri,
senatus consulta, giuridicamente non vincolanti, ma quasi sempre osservati. Non mancarono contrasti tra senato e
magistrati, ma anche quando non erano manifesti e perseguiti con le armi, il primo riuscì quasi sempre ad imporsi con
mezzi coercitivi diretti o indiretti. Infatti il senato poteva esercitare una serie indefinita di interventi, facoltà e potestà.

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Nel IV secolo, la classe dirigente non poteva essere identificata con il patriziato, in quanto, dopo il 367, iniziò a
formarsi quella che era chiamata, dagli stessi Romani, nobilitas; secondo la maggioranza dei critici, inizialmente fu
nobilis (illustre) chiunque avesse fra i propri antenati un magistrato curule, mentre in seguito il titolo fu limitato ai
discendenti dei consoli. In realtà, la nobilitas si acquisiva solo con il consolato e la pretura ed il rango di nobilis era
riconosciuto anche a colui che, per primo nella sua gens, raggiungeva le cariche più alte.
Il patriziato conservò per tutta la repubblica il suo carattere di casta chiusa, cui si poteva accedere solo per nascita o per
adozione, per cui il numero dei patrizi nell’ambito della nobilitas andò gradualmente diminuendo. In teoria, la nobilitas
era una classe aperta; in pratica, solo nei primi tempi dopo la riforma del 367 il rinnovamento fu abbastanza rapido,
poiché nei 100 anni successivi almeno 30 genti plebee giunsero al consolato, mentre in seguito, l’avvento di novi
homines si fece sempre più raro. Questo perché le cariche non erano retribuite, per cui solo chi riusciva a raggiungere la
pretura o il consolato e a condurre con successo una campagna militare poteva trarne vantaggi economici; poiché i più,
però, non riuscivano a superare i primi gradini della scala magistratuale, il censo divenne una qualifica necessaria,
anche se non sufficiente, per intraprendere la carriera politica.
I novi homines erano di solito ricchi proprietari agricoli o, in seguito, uomini d’affari o pubblicani, che però dovevano
lasciare tali incarichi per accedere al senato; in generale, provenivano dal ceto equestre (coloro che erano iscritti nelle
18 centurie equestri e gli equites che militavano a cavallo a proprie spese). Durante l’epoca repubblicana, gli equites in
soprannumero erano iscritti nelle centurie della prima classe, ma, dal III secolo, venero censiti in un elenco a parte.
Ulteriore ostacolo al ricambio del senato era la struttura dell’elettorato, in gran parte legato alle grandi famiglie da
vincoli di fedeltà personale; pertanto, chi non disponeva di proprie clientele, per misurarsi nelle contese elettorali,
doveva avere alleati all’interno della nobilitas, per cui si può dire che l’aristocrazia si accrescesse per cooptazione.
Comunque, nella maggior parte dei casi, i novi homines raggiungevano al massimo la pretura, più accessibile del
consolato da quando i posti furono portati a 4 e poi a 6.
I senatusconsulta – Il problema del carattere normativo dei senatusconsulta si presenta in modo articolato nei vari
periodi; Gaio afferma che essi avevano forza di legge, anche se al riguardo vi era una disputa che sarà superata solo
verso la fine del I e l’inizio del II secolo d.C., mentre per tutto il periodo repubblicano ad essi non fu mai riconosciuto il
potere di creare ius civile (funzione legislativa), anche se la loro efficacia normativa è fuori discussione.
Il senato interveniva in vario modo nel procedimento legislativo volto a creare ius civile, oltre che con l’auctoritas, con
la deliberazione di deroghe parziali alle leges comiziali e la cassazione di quelle irritualmente votate. Poiché gli stessi
romani erano consapevoli che il potere di derogare alle leggi vigenti spettava alle assemblee che le avevano votate, il
senato poteva invitare il magistrato titolare del ius agendi cum populo a provvedere alle necessarie rogationes; verso la
fine della repubblica il senato iniziò a procedere direttamente alla concessione della deroga, dapprima in casi di
urgenza, salva la ratifica dei comizi, poi indipendentemente dall’urgenza e dalla ratifica. Per quanto riguarda la
cassazione delle leggi irritualmente votate, il senato accertava un’inefficacia o una nullità di lex di per sé operanti, per
cui la pronuncia non aveva valore costitutivo; inizialmente essa aveva importanza per l’autorità politica dell’assemblea
che constatava la nullità, e solo in seguito al senato fu probabilmente riconosciuta competenza in materia.
In epoca repubblicana il senato poteva intervenire senza porre direttamente delle norme di carattere generale ed astratto,
sollecitando: 1. i magistrati muniti del ius agendi a presentare alle assemblee una rogatio (il carattere vincolante nei loro
confronti dipendeva dal loro rapporto con il senato e dal tenore del senatusconsultum); 2. i magistrati giusdicenti ad
adeguarsi, nell’esercizio della iurisdictio, a principi fissati nel senatusconsultum (vincolavando quindi i magistrati e non
i soggetti dell’ordinamento, per i quali i principi contenuti nel senatusconsultum sarebbero diventati obbligatori in base
all’edictum o ai decreta del pretore; la normativa aveva efficacia solo nel campo del ius honorarium).
Nel campo della repressione criminale non rileva la dicotomia diritto civile-diritto onorario, ma imperium del
magistrato-leggi de provocatione. In assenza del principio di legalità, la coercitio del magistrato poteva teoricamente
esercitarsi indipendentemente dall’individuazione normativa o legislativa delle fattispecie criminose, purché venisse
rispettato il limite della provocatio.
Anche qui il senato poteva invitare il magistrato a proporre rogationes regolanti sia l’aspetto sostanziale che quello
procedurale della repressione criminale; dalla fine del III secolo esso si muove sempre più in questo senso, prevedendo
di solito che con i magistrati collaborasse un collegio inquirente-giudicante: le quaestiones extraordinariae. L’intervento
del senato poteva essere variamente articolato e la portata della delibera poteva essere diversa anche per quanto riguarda
l’individuazione della fattispecie criminosa e delle sanzioni, ma non poteva avere carattere permanente, perché ciò era
riservato alle leggi: la prima quaestio perpetua (de repetundis) venne costituita con la lex Calpurnia nel 149.
La tendenza del senato era quella di sottrarre le sentenze del magistrato e della quaestio extraordinaria dalla possibilità
di provocatio, il che porterà ad un aperto conflitto politico e giuridico. Nel corso del II secolo il senato riuscì ad
affermare il proprio punto di vista, finchè la lex Sempronia de capite civis del 123 stabilì che esso non avesse la
competenza di istituire quaestiones extraordianriae le cui sentenze non fossero sottoposte a provocatio; ciò portò alla
rapida obsolescenza di questi collegi e l’affermarsi della prassi del senatusconsultum ultimum.
Nel campo del diritto pubblico, non sembra che il senato abbia svolto un’attività normativa, in quanto qui rilevava
soprattutto il crearsi di una prassi e di consuetudini costituzionali. In materia di amministrazione pubblica, invece, i
senatusconsulta hanno efficacia normativa, vincolando i magistrati competenti sia per singoli casi concreti, sia con
direttive generali, tanto da poter parlare di un potere regolamentare del senato. È però impossibile distinguere, come nel
diritto privato, tra senatusconsulta direttamente obbligatori per i soggetti dell’ordinamento e quelli che trovavano
attuazione sulla base dell’imperium del magistrato. È stato probabilmente nell’ambito delle competenze amministrative

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che si è diffusa la convinzione che le delibere del senato vincolassero formalmente il magistrato, nonostante avessero la
forma di un parere, e che di conseguenza tali norme si riferissero direttamente ai soggetti dell’ordinamento.
Anche se è innegabile la competenza normativa del senato in materia amministrativa, non si sono mai configurati settori
in cui avesse una competenza esclusiva, anche per l’assenza di limiti sostanziali al potere delle assemblee legislative.
Le assemblee popolari. I comizi curati e i comizi centuriati - Le funzioni e i poteri degli antichi comizi curiati
appaiono, sin dalla prima repubblica, estremamente limitati: ristretti alla cooperazione e al compimento di pochi e
determinati atti solenni, avevano forti implicazioni sacrali e alcuni di essi potevano produrre effetti rilevanti sulla
struttura e la composizione delle singole unità familiari. Nei comizi curiati si procedeva all’inauguratio del rex sacrorum
e dei flamini maggiori e si pronunciava la lex curiata de imperio, che confermava l’imperium dei magistrati maggiori,
eletti dai comizi centuriati. Priva di contenuto normativo, essa era divenuta un atto meramente simbolico, compiuto dai
30 littori che rappresentavano le curie e che annunciavano il voto di maggioranza della curia rappresentata.
I più importanti comizi repubblicani erano quelli centuriati: in base al censo, i romani erano distribuiti in 5 classi e 193
centurie, di cui 18 di cavalieri e 5 di inermi; inizialmente l’organizzazione doveva essere più semplice di quella descritta
da Livio, che anticipa l’organizzazione repubblicana all’epoca serviana. A questo sistema si giunse attraverso vari
processi di trasformazione e perfezionamento, che determinarono un distacco tra la struttura reale dell’esercito e
l’assemblea popolare, il cui ordinamento rimase sempre legato al censo. Quest’ultimo, nelle fonti, è sempre misurato in
valori monetari, il che testimonia l’epoca abbastanza tarda cui esse si riferiscono; non è noto come venisse calcolata la
consistenza patrimoniale in precedenza. Lo schema descritto da Livio è comunque chiaro, come la logica politica
perseguita con tale assetto, con cui, non solo tutti gli oneri, ma anche tutti gli onori, furono trasferiti agli abbienti.
Non sappiamo quando e come si ebbe la trasformazione in assemblea politica dell’insieme dei cittadini alle armi e le
ipotesi della storiografia moderna non poggiano su sicure basi testuali.
Secondo le fonti, le prime determinazioni politiche e normative adottate dai comizi centuriati riguardarono
l’approvazione popolare delle dichiarazioni di guerra, il che mostra la natura primitiva di tale assemblea. Essa poteva
essere convocata solo da magistrati cum imperio, i consoli, il dittatore e il pretore (quasi solo per l’espletamento delle
funzioni giurisdizionali comiziali in materia di repressione criminale). Il pretore non poteva convocarli per l’elezione
dei magistrati maggiori, la cui creatio doveva essere fatta da un console; se entrambi mancavano e non era in carica un
dittatore, si ricorreva all’interregnum. Anche se l’interrex aveva il diritto di convocarli, normalmente non lo faceva per
l’espletamento della funzione legislativa; perciò il ius agendi cum populo spettò ai tribuni militari con potestà consolare,
ai decemviri legibus scribundis e a tutti i magistrati straordinari con potestà consolare. I censori li riunivano per
compiere le operazioni del censo, ma non potevano sottoporre loro alcuna proposta.
L’editto con cui si annunciava l’indizione dei comizi conteneva luogo e data della riunione, l’oggetto della votazione, le
leggi proposte, i candidati alle magistrature, il nome degli accusati, le imputazioni e le pene corrispondenti. Solo il
magistrato poteva presentare proposte al comizio, che poteva approvarle o respingerle, ma non modificarle; per lungo
tempo il magistrato fu anche il solo a poter proporre le candidature dei magistrati e anche quando questo potere
esclusivo gli fu sottratto, la proposta del proprio nome non poteva essere fatta direttamente all’assemblea, ma a lui, che
decideva sull’ammissibilità, poteva rifiutare il voto favorevole a candidati sgraditi, interrompere le votazioni, farle
ripetere, non procedere alla proclamazione dei risultati.
Il trinundinum, periodo fra l’annuncio della convocazione e la riunione che serviva all’illustrazione e alla discussione
preventiva degli argomenti, poteva essere abbreviato per ordine del senato o per iniziativa autonoma del magistrato. La
notte precedente all’assemblea il magistrato si recava nel templum per prendervi gli auspici; se erano sfavorevoli,
l’assemblea veniva rinviata, altrimenti si procedeva alla convocazione con una serie di complesse formalità. Il popolo si
recava davanti al magistrato nel luogo di riunione recintato stabilito, che era sempre fuori dal pomerio ma in località
prossima alla città, mai ad castra. L’assemblea si apriva con un nuovo invito al popolo a recarsi ad conventionem; si
aveva una breve contio, in cui il magistrato, dopo aver compiuto un sacrificio agli dei e pronunciato una solenne
preghiera, faceva dare formalmente notizia da un banditore della sua proposta. Si passava poi al voto: ordinati per
centurie i cittadini entravano nei septa, recinti che erano in numero inferiore a quelli delle centurie, visto che le varie
unità non votavano contemporaneamente: prima i cavalieri e poi le classi in ordine. Si votava individualmente, all’inizio
oralmente ma, dalla fine del II secolo fu introdotto l’obbligo della votazione segreta, prima nei comizi elettorali, poi nei
iudicia populi e nei comizi legislativi; per far ciò venivano preposte delle urne e distribuite delle tessere. Terminate le
operazioni di voto di una centuria, lo scrutatore competente procedeva alla diribitio e quindi alla ricognizione del voto
unitario della centuria stessa, che era quello che contava. Il voto veniva proclamato dal presidente, anche se il
magistrato poteva rifiutare la proclamazione e far ripetere il voto. Poiché durante la diribitio dei voti delle prime
centurie si continuava a votare nelle successive, il voto dei ricchi influenzava quello degli altri, per cui il risultato della
votazione era sempre deciso dai ceti egemoni, che, pur rappresentando una minoranza di cittadini, avevano da soli la
maggioranza dei voti dell’assemblea, 98 su 193. Se vi era l’accordo dei primores, non c’era bisogno di far votare
neppure i cives della seconda classe; quasi mai si arrivò a far votare anche le ultime classi.
I concilia plebis e l’equiparazione dei plebiscita alle leges - A bilanciare parzialmente gli effetti discriminatori del
sistema delle centurie, sempre maggior rilievo acquisirono gli antichi concilia plebis, detti ora tributa perché, dal 471, in
essi la plebe si riuniva e votava per tribù. Si pensa che prima di allora i plebei fossero stati ordinati secondo un criterio
rispecchiante l’organizzazione complessiva della comunità, il che aveva consentito ai patrizi di influenzare le decisioni
esercitando pressioni sui plebei da loro dipendenti. Questa sarebbe stata la ragione per cui il tribuno Publilio Volerone
propose e poi ottenne che l’elezione dei tribuni avvenisse in assemblee alle quali i plebei partecipassero ordinati in base

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alle tribù territoriali in cui erano iscritti. In tal modo il potere di scelta dei capi e la direzione politica furono trasferiti ai
tribules, quei plebei che, per essere iscritti alle tribù dovevano avervi la sede e il fondo e godevano perciò di una
autosufficienza economica che doveva garantire un’autonomia politica reale.
La nascita della nobilitas patrizio–plebea sottrasse ai concilia plebis il primitivo carattere rivoluzionario, ma essi
conservarono in ogni epoca caratteri distintivi, a partire dalla denominazione ufficiale di concilia, in contrapposizione
con comitia, oltre al riconoscimento del potere di convocarli ai soli tribuni e ad un’estraneità religiosa.
La natura delle deliberazioni adottate nei concili plebei fu a lungo considerata diversa da quella delle decisioni prese dal
popolo nei comizi: quest’ultimo aveva la potestà di ordinare, per cui le sue decisioni vincolavano tutti, mentre la plebe
poteva solo stabilire e le sue decisioni erano dei semplici scita. Alle origini i plebiscita non avevano valore legale ma
solo l’autorità politica derivante dalla forza dell’ordine subalterno; talvolta venivano raggiunti degli accordi grazie ai
quali il contenuto di alcuni di essi era recepito in rogationes magistratuali, sottoposte e attuate dai comizi, come sembra
il caso della lex Icilia del 456, che concesse ai plebei terre pubbliche sull’Aventino perché vi edificassero le loro case.
Il riconoscimento dell’efficacia vincolante dei plebisciti per tutto il popolo fu possibile solo in seguito ai cambiamenti
sociali dell’epoca postlicinia, quando la plebe iniziò ad essere considerata fortemente rappresentativa del popolo. Poiché
in tal modo l’intera comunità delegava ad una sua parte il potere normativo e un certo potere giurisdizionale in materia
criminale, la decisione di equiparare i plebisciti alle leggi dovette essere presa dai comizi centuriati, al più tardi nel 287.
Era il punto di arrivo di un itinerario tortuoso passato per la legge de plebiscitis rogata dal dittatore Publilio Filone nel
339, che, secondo l’opinione prevalente, avrebbe effettivamente attribuito alle deliberazioni conciliari valore vincolante
per l’intero popolo, ma entro dei limiti che si è ancora discordi nel definire. Secondo alcuni, sarebbe stata stabilita la
sottoposizione all’auctoritas dopo l’approvazione, mentre contemporaneamente lo stesso dittatore avrebbe proposto ed
ottenuto che per le leggi approvate al popolo l’auctoritas fosse concessa preventivamente; se così fosse, la legge
Ortensia avrebbe eliminato ogni residua differenza tra i due tipi di normazione. Secondo altri, le due leggi Publilie
avrebbero reso preventiva l’auctoritas sia per le deliberazioni comiziali che per quelle plebee e la legge Ortensia
l’avrebbe del tutto abolita per i plebisciti, ma le fonti lasciano intendere che l’auctoritas preventiva dei patres sia stata
considerata necessaria per i plebisciti almeno per tutto il III secolo. Vi è anche chi nega che l’auctoritas sia mai stata
necessaria per i plebisciti e sostiene che la legge Publilia li abbia equiparati alle rogazioni magistratuali, per cui i plebei
avrebbero potuto esigere che le loro deliberazioni fossero sottoposte al’approvazione dei comizi centuriati, previa
auctoritas patrum, dai magistrati titolari del ius agendi cum populo, per poter essere eventualmente trasformate in vere e
proprie leggi; solo la lex Hortensia avrebbe equiparato i plebisciti a queste ultime.
L’esistenza di ipotesi tanto diverse e non prive di acute argomentazioni prova l’impossibilità di chiarire i rapporti
realmente esistenti tra le leggi Publilia e Ortensia ed il modo in cui si giunse nel 287 all’effettiva equiparazione dei
plebisciti alle leggi. Quando ciò avvenne, buona parte della produzione normativa si trasferì ai concilia plebis, per la
maggior semplicità del loro modo di riunirsi e deliberare, per la mancanza di ostacoli di natura religiosa opponibili al
normale andamento dei loro lavori, per i crescenti impegni politici e militari dei consoli e per la disponibilità dei tribuni
che, oltretutto, non potevano lasciare la città e quindi erano più facilmente pronti a convocare e presiedere l’assemblea.
Ad essa, dopo il 287, fu lasciata in pratica la funzione legislativa in settori di notevole importanza, soprattutto nel diritto
privato e processuale. Inoltre, i concili continuarono ad eleggere tribuni ed edili plebe e fu loro conferita competenza
giurisdizionale in materia criminale per i giudizi promossi da magistrati plebei per crimini passibili di multae dictio.
I comitia tributa – In età repubblicana si affermarono i comitia tributa, oscuri nella genesi e nell’identità, tanto che
spesso li si è confusi con i concili plebei; secondo alcuni, venuta meno nel 287 ogni differenza di capacità normativa tra
populus e plebs grazie alla legge Ortensia, i patrizi sarebbero stati ammessi nei concili, diventati quindi riunioni di tutto
il popolo. Secondo altri, i comitia tributa sono nati per motivi pratici, per evitare le complesse formalità richieste per la
convocazione ed il funzionamento dei comizi centuriati, quando possibile; grazie alla lex Hortensia, i comizi tributi si
sarebbero fusi con i simili concilia tributa. Tali tesi non tengono conto dell’importanza della tradizione nelle istituzioni
repubblicane: anche dopo la legge Ortensia rimase sempre viva la distinzione tra i comizi e le assemblee parziali.
Comunque è sicuro che i comitia tributa furono assemblee del popolo intero, ordinato per tribù, convocato da magistrati
curuli cum imperio e che, anche dopo la loro comparsa, i concili della plebe continuarono a funzionare. Pertanto,
comitia tributa e concilia plebis tributa erano organi diversi ed eterogenei, anche se le ragioni pratiche e politiche che
consentirono loro di conquistare notevole importanza dovettero essere simili: per prima cosa, la distribuzione per tribù,
che consentiva un seppur parziale riequilibrio rispetto alla preponderanza garantita alla nobilitas dai comizi centuriati,
in quanto erano i medi e piccoli proprietari terrieri, distribuiti nelle tribù rurali, ad avere la maggioranza dei voti, mentre
i nullatenenti si affollavano nelle 4 tribù urbane. Quindi, mentre i più ricchi continuarono ad esercitare la loro influenza
riguardo le questioni più importanti, nei comizi maggiori, al ceto medio fu lasciata la prevalenza nell’attività legislativa
e nell’elezione dei magistrati minori, che costituivano le competenze fondamentali dei comizi tributi.
Presi gli auspici, i magistrati curuli (console o pretore) li convocavano nel Foro o in Campidoglio con una procedura
simile a quella prevista per i comizi centuriati, ma semplificata e resa più rapida dalla sostituzione delle 193 unità di
voto con le sole 33, poi 35 tribù, che votavano contemporaneamente.
I magistrati potevano rogare le leggi dinanzi ai comizi centuriati o tributi, ma, nella repubblica classica, nei primi furono
approvate solo quelle specificamente riservate. Nei comizi tributi si eleggevano i magistrati minori e le cariche
magistratuali ausiliarie; fu loro riconosciuta anche una limitata competenza giurisdizionale, come organo di provocatio
contro le multe imposte dagli edili curuli e, in seguito, dal pontefice massimo.
La struttura della legge comiziale - I provvedimenti legislativi votati nelle assemblee popolari avevano una struttura

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uniforme, distinta in 3 parti: praescriptio, rogatio e sanctio, nei confronti delle quali la votazione assumeva una diversa
rilevanza. In senso stretto, lex è quella votata dalle assemblee del popolo, i comizi centuriati e quelli tributi; in senso
lato, il termine comprendeva anche i plebisciti. Si distingueva anche la lex rogata, votata dalle assemblee popolari, dalla
lex data, imposta da un atto del magistrato; tuttavia esse non possono essere considerate come due specie nell’ambito di
una rigorosa classificazione della categoria generale della lex. Infatti, nel primo caso, si sottolinea la rogatio del
magistrato, cui segue l’approvazione dell’assemblea, ed in questo senso si dovrebbe contrapporre la lex dicta, deliberata
ed emanata dal magistrato senza l’intervento delle assemblee. Nel secondo caso si poneva l’accento sul carattere
eteronomo della statuizione normativa, come quella che veniva data alle civitates Romanae; in questo senso, la lex data
poteva anche essere rogata.
La praescriptio, non sottoposta al voto dell’assemblea, ma aggiunta successivamente per completare il testo,
documentava le fasi del procedimento di formazione della lex, indicando il magistrato o il tribuno proponente, il luogo e
la data della votazione, i dati relativi alla prima centuria votante o alla prima tribù di cui era stato proclamato il voto e
del cittadino che per primo aveva espresso il voto.
La rogatio era il testo proposto dal magistrato o dal tribuno, che l’assemblea poteva solo approvare o respingere.
La sanctio, nell’attuale teoria generale del diritto, comprendeva gli effetti conseguenti alla violazione del precetto di una
norma proibitiva. Essa conteneva delle clausole, capita, più o meno tipizzate, che avevano lo scopo di regolare o
garantire l’applicazione della legge cui afferivano; la sanctio non aveva lo stesso contenuto né si ispirava ad un modello
uniforme nelle varie leges, a differenza della praescriptio. Fra le clausole, bisogna distinguere quelle che miravano ad
assicurare l’osservanza della legge e quelle che regolavano i rapporti tra la legge e l’ordinamento.
Tra le prime, nate soprattutto nel periodo graccano, vi era quella che imponeva ai magistrati di prestare giuramento per
obbligarsi ad osservare la legge e quella che fissava una multa per chi avesse dolosamente omesso di applicarla.
Tra le seconde, di origine più antica, vi era il caput tralaticium de impunitate, che stabiliva non essere responsabile della
violazione di leggi precedenti colui che le avesse trasgredite per ottemperare alla nuova legge cui la sanctio si riferiva;
ciò sembra in contrasto con il principio di abrogazione stabilito dalle XII Tavole, usato anche in assenza di abrogazione
espressa. La spiegazione più plausibile è che, in un clima di forti tensioni politiche, si sia paventata l’insufficienza del
principio dell’abrogazione implicita.
Dello stesso tipo, ma con un orientamento differente e formulazioni varie, era la clausola che escludeva la validità della
legge cui era apposta per le disposizioni per le quali, secondo il ius o il fas, non era possibile presentare una rogatio.
Tale clausola non doveva riferirsi all’oggetto della rogatio, ma alla disciplina formale del procedimento legislativo. Si
potrebbe ritenere che la violazione dei limiti legali comportasse automaticamente l’inefficacia della legge, ma non può
escludersi che la clausola fosse volta ad evitare possibili argomentazioni in senso contrario all’invalidità della legge,
basate ad esempio sul principio di abrogazione implicita; inoltre, la clausola permetteva al magistrato o al tribuno
proponente di cautelarsi contro l’accusa di non aver voluto rispettare quei limiti.
Anche la sanctio faceva parte del progetto presentato all’assemblea popolare.
La lex e il sistema normativo repubblicano - Né i pontefici né la prima giurisprudenza repubblicana hanno elaborato
una classificazione delle fonti del diritto; dalle XII tavole, la lex rogata ha sempre costituito la fonte di rango più elevato
fino alla fine del principato e l’unico mezzo per porre in modo espresso norme giuridiche. Con lo sviluppo dell’attività
normativa del pretore, rimase l’unico mezzo di produzione di diritto civile, finché, alla fine del I secolo d.C, tale
efficacia fu riconosciuta ai senatusconsulta e alle costituzioni imperiali.
Dopo che i mores erano stati codificati nelle XII tavole, in materia costituzionale la posizione di norme avveniva solo
mediante leggi comiziali, fatti salvi i mores rappresentativi di prassi costituzionale; in materia amministrativa il potere
regolamentare spettava innanzitutto al senato e poi ai singoli magistrati che vi provvedevano con i propri edicta.
Nel periodo tardo repubblicano, la lex assume importanza per l’organizzazione del processo criminale nell’ambito delle
quaestionaes perpetuae, in quanto, per derogare al ius provocationis, era necessario ricorrere alla legge. L’intervento
legislativo era necessario anche nel processo privato, per estendere il sistema delle legis actiones o riconoscere effetti
civili al processo formulare, come avvenne con la lex Aebutia e con la lex Iulia iudiciorum privatorum.
Secondo buona parte della dottrina, in una delle sue tante valenze, ius civile sarebbe contrapposto a lex, indicando il
diritto fondato sui mores non codificati e pertanto non modificabile mediante una lex e sviluppabile solo mediante
interpretatio, prima dei pontifices e poi dei prudentes. Tale significato di ius civile sembra però doversi respingere; il ius
sine scripto di Pomponio è il diritto elaborato con l’interpretazione, non quello fondato sui mores. Per quanto riguarda
la presunta immodificabilità, anche gli eventuali accenni in fonti tardo repubblicane si riferiscono al piano politico e
sociale, ma non esprimono un’impossibilità giuridica; inoltre esistono esempi di abrogazione legislativa di norme
originate da mores, come la lex poetelia papiria che abrogò l’antico istituto del nexum.
In linea di principio non esisteva alcun limite alle modificazioni legislative del ius civile, anche se la legislazione
comiziale intervenne assai poco. A tal proposito bisogna considerare la tripartizione delle leggi rogate presentata dai
Tituli ex corpore Ulpiani: leges perfectae, minus quanm perfectae e imperfectae. Le prime, vietando un atto ne
disponevano la nullità; le seconde, vietando l’atto, prevedevano solo una pena per chi avesse violato il divieto; le
ultime, pur vietando l’atto, non ne disponevano la nullità e non prevedevano multe. Una riprova della tendenza a non
incidere profondamente sul ius civile si trova nella maggior frequenza di leggi del secondo e del terzo tipo rispetto a
quello del primo; ciò nell’ambito di una complessiva tendenza a limitare l’uso dello strumento legislativo, giustificata
dal fatto che, per i romani, i principi dei mores codificati non avevano perso la loro fondamentale natura. Ciò spiega
anche la grande libertà di interpretazione dei pontefici e dei primi giuristi laici, insieme alla loro considerazione del

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sistema normativo romano come aperto. L’interpretazione poteva ampiamente sopperire alle necessità della società
romana tra il V e il IV secolo, ma essa doveva trovare dei limiti, dato che gli sviluppi normativi corrispondenti alle
esigenze più eterogenee furono offerti dall’editto del pretore e dal diritto onorario. Su ciò hanno influito fattori diversi,
tra cui la necessità di regolare rapporti in cui almeno una delle parti non godeva della cittadinanza (per cui l’impiego
della lex era escluso); inoltre, quando si sentì la necessità di estendere ai cittadini gli istituti onorari, ciò avvenne sulla
base della iurisdictio del magistrato. Si diffuse così la convinzione che, per gli interventi non rientranti in un graduale
sviluppo del sistema civilistico, lo strumento più adatto fosse l’intervento del magistrato giusdicente.
I pontefici e i giuristi laici fino a Mucio Scevola appartennero prima all’aristocrazia patrizia e poi alla nobilitas patrizio–
plebea, per cui erano partecipi dei valori conservatori di queste oligarchie; incaricati soprattutto della risoluzione dei
conflitti nelle classi dominanti, formalizzavano sul piano giuridico le decisioni relative restando legati alle strutture
tramandate, per cui non portarono grandi contributi alla soddisfazione delle esigenze della nuova realtà socioeconomica.
Tra interpretatio, attività normativa del pretore e tendenziale astensione dalla legislazione di diritto privato esistevano
forti interazioni, caratterizzate da una sostanziale circolarità.
L’organizzazione dei territori conquistati e l’ager publicus - La politica espansionistica di Roma la portò in breve a
governare buona parte del territorio italico; l’organizzazione del dominio romano sulle regioni e i popoli sottomessi non
seguiva schemi rigidi ma si adattava di volta in volta alle condizioni economiche, politiche e strategiche, tenendo conto
dei limiti imposti dalle strutture istituzionali della repubblica. Solo raramente le comunità soggiogate furono private
interamente delle loro terre; di solito solo uno o due terzi di territorio venivano confiscati, entrando a far parte dell’ager
romanus. La terra poteva essere distribuita in proprietà ai singoli, ma la maggior parte restava nella condizione di agro
pubblico. In genere si consentiva che le terre incolte e quelle meno produttive fossero occupate senza corrispettivo da
chi ne avesse interesse, che ne acquistava il pieno godimento, trasmissibile tra vivi e mortis causa e tutelato contro i
terzi dagli interdetti possessori. Pur essendo revocabili, queste possessiones si rivelavano di solito definitive e, poiché
ne godevano quasi solo i ceti egemoni, la tradizione ricorda che nel 367 fu emanata una legge Licinia che fissava il
limite alle appropriazioni individuali a 500 iugeri per pater familias. Non sembra ci siano dubbi alla storicità di tale
provvedimento, che apriva anche alle elites plebee la possibilità di accedere ad una parte delle terre conquistate, anche
se la legge fu presto e ripetutamente violata, a partire dal proprio autore.
Problemi analoghi nascevano all’interno degli stessi ceti possidenti in relazione allo sfruttamento delle terre pubbliche
destinate al pascolo, concesse dallo stato a comunità o gruppi di proprietari dietro pagamento di un canone esatto dai
publicani, appaltatori di imposta. La situazione di conflittualità divenne tale che, nei primi decenni del II secolo, fu
approvata una nuova legge agraria che, oltre a ribadire il divieto di possedere più di 500 iugeri di terra, stabilì che
nessuno potesse immettere sui pascoli pubblici più di 100 capi di bestiame grosso e 500 di minuto ed impose ai grandi
possessori di ingaggiare persone libere per la sorveglianza.
Dal IV secolo in poi, su autorizzazione del senato o dei comizi, parte dell’agro pubblico fu venduto dai questori ai
privati, dietro pagamento di un prezzo immediato e di un canone periodico, il vectigal, mentre i censori usavano dare in
concessione temporanea delle porzioni di agro pubblico, solitamente i terreni migliori, per ottenere alti canoni.
Analogo era il caso dei terreni siti entro 50 miglia da Roma, che la repubblica concedeva ai propri creditori in luogo
della restituzione di una delle 3 rate del prestito pubblico contratto durante la seconda guerra punica, e di quelle terre
concesse dal senato agli abitanti dei borghi situati lungo le vie pubbliche, in cambio della manutenzione delle stesse.
L’organizzazione amministrativa dei territori rifletteva generalmente l’ordinamento delle tribù: quando i proprietari
stanziati nel territorio diventavano abbastanza numerosi, venivano raggruppati in nuove tribù, finché, dal 241, il loro
numero si stabilizzò su 35; in seguito, si preferì estendere le tribù già esistenti, indipendentemente dalla contiguità o
meno delle regioni loro assegnate.
Le coloniae civium Romanorum e i municipia – Nei territori già assimilati venivano a volte fondate delle nuove
colonie (dette civium Romanorum perché i coloni conservavano la cittadinanza romana), di piccole dimensioni e dotate
di autonomia amministrativa, con magistrati propri, detti praetores o duoviri, proprio senato e proprie assemblee. Le più
antiche furono Ostia, Anzio e Terracina. La fondazione di una colonia era stabilita, dopo l’approvazione del senato, con
un plebiscito che fissava la località, il numero dei coloni (di solito volontari atti alle armi, ma esentati dal prestare il
regolare servizio militare), l’estensione delle terre da distribuire e l’autorità che avrebbe presieduto alle operazioni
necessarie, solitamente una commissione di 3 membri, i tresviri coloniae deducendae, magistrati straordinari dotati di
ampi poteri e di imperium. Inizialmente nominati dai consoli, in seguito furono eletti dai comizi tributi ed erano delegati
ad emanare con lex data lo statuto della nuova comunità, di cui diventavano patroni.
Presi gli auspici, i coloni erano condotti in formazione militare sul luogo stabilito, dove l’area veniva delimitata secondo
riti antichissimi; gli agrimensori preparavano il terreno, dividendolo secondo i principi della centuratio, incentrata sulle
due linee fondamentali del decumano massimo, da est a ovest, e del cardo massimo, dal nord al sud; con altri decumani
e cardini, tutto il territorio era diviso in quadrati regolari o in rettangoli. Le particelle individuate venivano divise in lotti
assegnati per sorteggio in proprietà, a meno che non facessero parte di quelle che i magistrati fondatori riservavano a
persone di loro scelta; quelli che restavano al termine delle assegnazioni venivano dati in possesso in sovrappiù.
La politica di romanizzazione procedette lentamente e su piccola scala, per evitare di compromettere i meccanismi di
governo e i rapporti di potere fra i vari gruppi; il senato era riluttante all’annessione di comunità stranieri, e quando ciò
fu necessario, si tentò di preservare gli equilibri politici concedendo ai nuovi cittadini solo i diritti civili, ma non il
diritto al voto né quello di candidarsi alle cariche pubbliche. Le comunità annesse ai cui abitanti era stata concessa la
civitas sine suffragio erano dette municipia, lo stesso termine usato anche per altre città assorbite dalla repubblica i cui

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abitanti erano cittadini romani di pieno titolo; probabilmente Roma creò più tipi di municipi, in cui la condizione
giuridica degli abitanti sarebbe stata diversa. Infatti non fu sicuramente identico il grado di autonomia interna lasciata
loro al momento dell’annessione, che avveniva con vari strumenti giuridici: di solito con una lex, atto unilaterale della
repubblica, altre volte mediante un foedus, un accordo internazionale.
Alcuni municipi continuarono a reggersi secondo le loro antiche istituzioni, mentre ad altri fu imposta l’osservanza del
diritto romano anche nei rapporti interni; molti conservarono le originari e magistrature, in altri furono introdotti anche
magistrati di derivazione romana, altri ancora furono privati in seguito di ogni autonomia, come avvenne a Capua.
La giurisdizione criminale era affidata a magistrati locali, mentre quella civile a delegati del pretore urbano romano,
detti praefecti; la circoscrizione cui era assegnato un prefetto era detta praefectura e poteva comprendere sia municipi
che colonie e frazioni dipendenti dagli stessi.
Con la concessione della cittadinanza romana ai soci italici nel 90, il regime municipale si estese anche alle città
federate e fu reso sostanzialmente uniforme.
L’ordinamento dell’Italia romana - Dopo sanguinose campagne terminate nel 191, Roma sottomise le popolazioni
celtiche della pianura padana e, anche se le tribù liguri difendevano ancora la propria indipendenza, i romani
consideravano ormai soggetta alla propria egemonia tutta la penisola. Una piccola parte del territorio era integrata nello
stato romano e governata direttamente dai magistrati della repubblica; il resto era diviso in municipi e colonie.
Fino alla guerra sociale i confini della repubblica non furono ulteriormente ampliati ed il senato preferì esercitare la
supremazia in modo indiretto mediante alleanze. Gli alleati dovevano fornire contingenti di fanteria e cavalleria o navi
ed equipaggi, su richiesta del senato o dei consoli; a tal fine era aggiornato anche il censimento delle comunità federate.
Essendo lo stato di guerra quasi permanente, il peso imposto dai trattati era notevole; in alcuni casi gli obblighi erano
reciproci, ma nella pratica agli alleati non veniva alcun vantaggio. Essi non erano collegati fra loro, ma avevano un
legame diretto ed esclusivo con Roma attraverso foedera iniqua, aequa o aequissima.
I soci latini godevano di una posizione privilegiata, mentre sullo status degli altri soci sappiamo poco, anche se si
presume che almeno inizialmente godessero di autonomia di governo.
L’ordinamento delle province – La conquista di ampi territori transmarini pose la repubblica a contatto diretto con
popolazioni profondamente diverse e problemi organizzativi nuovi, risolti con l’impiego di metodi analoghi a quelli
della federazione e dell’annessione effettuati in passato e con il ricorso a pratiche di governo duttili.
L’impero venne gradualmente organizzato in province, sottoposte alla diretta autorità di un magistrato romano; alcune
comunità, lasciate formalmente indipendenti, erano legate a Roma con trattati prevedenti determinate prestazioni e i
loro abitanti andarono ad ingrossare le fila dei soci. Quelle che mantennero un’autonomia interna e un’indipendenza
formale, senza essere vincolate da trattati, erano dette civitates sine foedere immunes ac liberae, a simboleggiare la
concessione da parte di Roma attraverso un atto unilaterale sempre revocabile. Ad altre ancora fu lasciata di fatto una
limitata autonomia ma si impose di versare a Roma un tributo; in tutte queste province la sovranità era solo nominale.
Roma si impossessò anche di territori organizzati secondo i principi del dispotismo orientale; essa non trasformò quei
domini, ma li mantenne in una condizione di sudditanza molto simile a quella in cui erano stati prima della conquista, li
esonerò dal servizio militare e li sottopose a oneri di varia natura; parte delle loro terre fu confiscata e incorporata
nell’ager publicus, che veniva concesso in possesso temporaneo dietro pagamento di un canone (vectigal). Le terre non
ridotte ad ager publicus erano considerate sotto la proprietà sovrana di Roma, che imponeva ai privati cui li concedeva
in perpetuo di versare periodicamente una percentuale dei frutti, di solito la decima parte, riscossa dai publicani.
Il governo sui territori extra italici era affidato prima ai magistrati che ne avevano effettuato la conquista, poi a quelli
che si succedevano nel comando dell’esercito e che esercitavano i poteri illimitati derivanti dal loro imperium. Quando
il dominio romano si stabilizzò in Sicilia si provvide istituzionalmente all’organizzazione delle zone conquistate: nel
227 furono eletti per la prima volta due pretori competenti uno per la Sicilia e uno per la Sardegna e la Corsica, che
furono le prime province romane; si aggiunsero la Spagna citeriore e la ulteriore, ciascuna con un proprio pretore. In
seguito il numero delle province aumentò considerevolmente, per cui i magistrati esistenti non furono più sufficienti e
divenne prassi che il magistrato impegnato in operazioni militari continuasse a gestire il proprio imperium anche dopo
lo scadere dell’anno di carica, sino a quando non fosse sostituito dal successore; nel 327 un plebiscito prorogò
esplicitamente il comando al console Publilio Filone e da allora la prorogatio imperii venne concessa sempre più
frequentemente a consoli e pretori. Per sopperire alla carenza di magistrati titolari di imperium, l’amministrazione delle
province iniziò ad essere affidata ad ex magistrati investiti allo scopo di imperium pro consule o pro praetore.
Il ricorso alla prorogatio fu favorito dal senato, cui spettava di stabilire le sfere di competenza da affidare agli ex
magistrati, i limiti delle province e di vigilare sulla loro amministrazione; il sistema più semplice per assicurare la
permanenza di governatori graditi al senato era quello di non mandarvi i loro successori, ma a volte anche per essi si
ricorreva alla prorogatio esplicita, adottata con senatoconsulto e successivo plebiscito (anche se in seguito quest’ultimo
non è testimoniato). Per tentare di limitare gli arbitri del senato, una legge Sempronia del 123 stabilì che esso dovesse
procedere all’assegnazione delle province ai futuri consoli prima che questi fossero eletti e fu seguita da numerose altre
norme relative al problema che subirono non poche deroghe e violazioni. Per punire gli abusi più gravi compiuti dai
magistrati nelle province governate furono approvate alcune leggi repetundarum, da cui prese l’avvio il sistema delle
corti permanenti di giustizia criminale.
L’ordinamento interno di ogni provincia era stabilito con una lex provinciae (a volte data, altre dicta), elaborata dal
magistrato assistito da 10 legati senatorii ed emanata con decreto. Essa indicava i principi generali dell’amministrazione
e poteva essere modificata con le stesse procedure usate per la promulgazione. Il governatore godeva di notevole libertà

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e adottava i provvedimenti più opportuni ed esercitava l’imperium militiae con l’unico limite della provocatio, estesa
intorno al 195 anche ai cives fuori Roma da una delle leges porciae. Esercitava nei conventus la giurisdizione criminale
e civile, emanando, all’entrata in carica, un editto analogo a quello dei pretori urbano e peregrino. Nelle sue attività di
governo era assistito da legati senatorii, che facevano da collegamento con il senato e ne garantivano il controllo;
inoltre, come magistrato cum imperio, aveva ai suoi ordini un questore, con competenze finanziare, amministrative e
militari simili a quelle dei suoi colleghi operanti a Roma e competenze giurisdizionali come gli edili curuli, per
l’esercizio delle quali emanava un apposito editto e sostituiva il governatore su sua delega o in caso di assenza.
Gli sviluppi del processo criminale nel II a.C – Il sistema dei delitti e delle pene pubbliche sancito dalla XII tavole
rimase sostanzialmente immodificato fino alla metà del II secolo a.C; solo intorno al 200 a.C. è attestata l'emanazione di
alcune leggi istitutive di nuove figure di reato, come le due leggi Cornelie sull'ambitus, l'indebito accaparramento di
voti nelle elezioni mediante la distribuzione di doni agli elettori. Ma ben più rilevanti furono altri provvedimenti intesi a
rafforzare ed estendere la garanzia della provocatio, come le 3 leges Porciae, la prima delle quali avrebbe concesso il
ricorso al popolo contro la fustigazione come provvedimento autonomo; la seconda avrebbe esteso il diritto oltre i 1000
passi da Roma, e la terza avrebbe introdotto una più severa sanzione, probabilmente la pena di morte, nei confronti del
magistrato che non si fosse attenuto alle norme sulla provocatio.
I procedimenti giudiziari dinanzi alle assemblee popolari, invece, non andarono soggetti a modifiche legislative, anche
se proprio in questo campo si realizzarono alcune importanti trasformazioni dal punto di vista sostanziale, che apriranno
la strada alla riforma del processo penale. L'antico precetto capite civis, implicante il giudizio dell'assemblea centuriata
nelle cause capitali, conservò il suo pieno vigore. I quaestores restavano legittimati ad istruire il processo, tranne che nel
caso di perduellione flagrante, di cui si occupavano i duumviri perduellionis. Probabilmente i tribuni della plebe furono
ammessi a portare i processi con proposta di pena capitale dinanzi ai comizi centuriati già verso la metà del V secolo;
quando il tribunato plebe divenne una magistratura dello stato, il loro ruolo giudiziario passò dall'antica competenza
repressiva contro gli offensori della propria persona e chiunque violasse le prerogative della comunità plebea, alla
persecuzione di qualunque reato di carattere pubblico, fino ad assumere la titolarità dell'accusa anche nei casi prima
rimessi ai duumviri, una funzione di notevole importanza politica.
La legge decemvirale non aveva tolto al concilium plebis il potere di giudicare crimini che davano luogo a semplici
sanzioni pecuniarie, per cui i tribuni e gli edili conservarono la facoltà di instaurare processi per l'irrogazione di multe
dinanzi a dette assemblee; tale facoltà passò in seguito anche agli edili curuli, ma, trattandosi di magistrati patrizi, la
competenza a giudicare delle multe da essi proposte non apparteneva ai concilia plebis, bensì ai comitia tributa.
Le fasi dei giudizi dinanzi alle assemblee (iudicia populi) possono essere delineate con sufficiente chiarezza solo nelle
grandi linee. Il procedimento, di carattere inquisitorio, era promosso d'ufficio dal magistrato, che citava l'accusato a
comparire ad una certa data dinanzi ad un'assemblea informale del popolo, specificando l'imputazione e la pena
proposta; l'imputato doveva fornire dei garanti della sua comparazione (vades), per evitare la detenzione preventiva. In
tre adunanze a distanza di almeno un giorno l'una dall'altra venivano sentite l’accusa, la difesa e i testimoni, dopodiché
il magistrato formulava l'accusa; conclusa questa prima fase, dopo almeno 3 giorni si aveva una quarta adunanza, nella
quale il popolo emanava la sentenza, in seguito a votazione che a partire dalla lex Cassia del 137 si svolgeva a scrutinio
segreto. Se la sentenza non era pronunciata nel giorno stabilito, il processo si concludeva e il magistrato non poteva più
riproporlo. L'esecuzione della pena capitale era effettuata da uno schiavo pubblico, il carnifex, sotto la sorveglianza dei
tresviri capitales; tuttavia, tale pena veniva applicata raramente, essendo diffusa la prassi di consentire all'imputato,
prima della pronuncia del voto decisivo per la condanna, di recarsi in volontario esilio presso un'altra città; all'espatrio
seguiva un formale provvedimento di interdizione dall'acqua e dal fuoco, comportante la perdita della cittadinanza, la
confisca dei beni e il divieto di rientrare, sotto pena di morte, nel territorio urbano.
Fino agli inizi del II secolo a.C. gli iudicia populi funzionarono in maniera abbastanza soddisfacente; poi, a causa del
gran numero di processi, dell'eccessiva lunghezza del procedimento, della difficoltà di affrontare adeguatamente
questioni complesse e della diffidenza della classe di governo, iniziarono una lenta ma inarrestabile decadenza. Di
conseguenza, nel caso di crimini particolarmente gravi, il senato, pur non abolendo formalmente gli iudicia populi,
incominciò ad esercitare la repressione criminale indipendentemente dai comizi, affidando sempre più spesso a corti di
giustizia straordinarie (quaestiones extraordinariae), composte dai consoli o da uno dei pretori con l'assistenza di un
collegio di giurati, l'incarico di indagare e di giudicare, con una procedura determinata caso per caso, su crimini di
risonanza pubblica e su reati a sfondo politico. Tribunali straordinari furono in seguito istituiti anche mediante
plebiscito; e probabilmente solo mediante plebiscito dopo la lex Sempronia de capite civis, fatta votare da Caio Gracco
nel 123, che dichiarerò illegittima l'istituzione di quaestiones capitali senza la sanzione del voto popolare.
Le quaestiones perpetuae — L'istituzione di corti di giustizia straordinarie fu il mezzo usato per sopperire, nel corso
del II secolo a.C., alla procedura degli iudicia populi, ma solo la creazione dei corti permanenti avrebbe potuto
eliminare totalmente la funzione giudicatrice popolare. Le repressioni di carattere straordinario cedettero così
gradualmente il posto a tribunali stabili (quaestiones perpetuae), istituti per legge e presieduti da un magistrato o ex-
magistrato, che divennero poi l'organo ordinario della repressione criminale dell'ultima età repubblicana e dei primi
tempi dell'impero.
La prima quaestio perpetua fu istituita per la repressione delle repetundae, illecite appropriazioni ed estorsioni da parte
di magistrati romani a danno di popolazioni alleate o sottoposte al dominio di Roma, per la cui persecuzione non
esisteva in origine una via legale ben definita. Sappiamo da Livio che ancora nel 171 a.C., in seguito ad abusi nelle
province spagnole, il senato, più che ad una quaestio, diede vita ad una procedura ispirata al modello dal processo

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privato; oggetto del giudizio non fu la repressione di un crimine, ma la mera restituzione del maltolto, poiché
l’oligarchia senatoria intendeva circoscrivere la responsabilità dei magistrati, evitando che fossero esposti a
conseguenze di carattere penale. Alla stessa esigenza rispondeva anche la nomina di giurati di rango senatorio e
l'assistenza obbligatoria di un patrono. Tuttavia, per le violazioni tanto gravi da destare risonanza nell'opinione
pubblica, si rendeva inevitabile processo penale promosso dai tribuni della plebe dinanzi alle assemblee tribute, mentre
altre volte la repressione era attuata mediante la nomina, per iniziativa popolare, di una corte speciale giudicante extra
ordinem.
Solo nel 149, con un plebiscito proposto dal tribuno della plebe che le diede il nome, la lex Calpurnia istituì una corte
permanente per i casi di concussione, affidandone la presidenza al praetor peregrinus e disponendo la formazione di una
lista annuale di giudici tratti dall'ordo senatorio, da cui dovevano essere ogni volta tratti quelli del singolo processo. I
dettagli di questa legge ci sono ignoti, ma, dalla lettura della successiva lex Acilia (dalla quale sappiamo che il processo
si svolgeva tramite sacramentum), si suppone che essa abbia confermato nelle sue linee essenziali il sistema adottato nel
171, configurando il giudizio dinanzi alla corte come un procedimento di carattere privato, diretto all'indennizzo e non
alla persecuzione di un crimine, e promuovibile solo con l'assistenza di patroni romani tratti dall’ordine senatorio.
IJn radicale mutamento si ebbe negli anni 123-122 a.C. nel quadro dell'attività di Caio Gracco, quando la lex Acilia
repetundarum, un plebiscito, istituì la quaestio perpetua repetundarum; il provvedimento, probabilmente preceduto da
una legge giudiziaria generale, attribuì l’ufficio di giudice ai cavalieri, sostituì all'actio repetundarum civile un'azione di
carattere penale in duplum, affidò la presidenza della giuria ad un praetor de repetundis, da nominarsi ogni anno tra
quelli eletti alla magistratura. Questi, entro 10 giorni dall'entrata in carica, doveva compilare e pubblicare su uno
speciale albo una lista di 450 cittadini, da cui, per ogni singolo processo, l'accusatore sceglieva 100 nomi e li
comunicava all'accusato, il quale a sua volta ne sceglieva 50 che avrebbero composto la corte giudicante.
Il provinciale danneggiato ora poteva promuovere personalmente l'accusa, avendo la facoltà, non più l'obbligo, di farsi
assistere da un patrono; in caso di vittoria, se straniero, otteneva la cittadinanza romana e il diritto di voto nella tribù
dell'accusato; se latino, la scelta tra la cittadinanza e il ius provocationis.
La quaestio repetundarum servì da modello alle corti giudicanti in seguito istituite per la repressione di altri crimini, sia
politici che comuni, anche se le testimonianze delle fonti sui modi e l'epoca dell’introduzione di altri tribunali
permanenti sono assai scarse. La prima attestazione sicura dell'esistenza di un tribunale stabile per l'omicidio ci è offerta
da un'orazione ciceroniana in cui si accenna ad una quaestio de sicariis operante anteriormente alla restaurazione sillana.
Comunque, la persecuzione dei crimina per mezzo di corti stabili costituite da apposite leggi aveva in quest'epoca
ancora carattere eccezionale. Per ciascun tribunale si redigeva anno per anno una lista di giudici, il titolo per entrare a
far parte delle quali variò più volte in relazione alla lotta tra senatori e ceto equestre; presiedeva, di regola, un pretore.
Varie leggi si succedettero, ma la generalizzazione e il consolidamento del sistema delle quaestiones perpetuae furono
opera di Silla, che promosse un'importante serie di provvedimenti intesi alla riconquista del monopolio delle giurie e al
potenziamento delle corti di giustizia permanenti a scapito delle assemblee popolari. Con una lex Cornelia iudiciaria
dell'81, abrogò la lex Plautia, che prevedeva la scelta dei giudici da parte delle tribù, e restituì i collegi giudicanti di tutti
i tribunali al senato; poi, con singole leggi, riorganizzò le quaestiones già esistenti e ne istituì di nuove. Fissò per
ciascuna corte i termini del crimine da perseguire, la procedura da applicare e la pena da irrogare al trasgressore ed
affidò la presidenza a un pretore, o a un iudex quaestionis scelto fra gli aedilicii.
Dopo l'età di Silla furono emanate molte altre leggi, dirette più che altro a modificare o a riorganizzare le quaestiones
già esistenti, particolarmente in materia di ambitus. Quanto alla composizione delle giurie, nel 70 a.C. una lex Aurelia
iudiciaria stabilì che le liste dei giudici fossero composte in parti uguali da senatori, cavalieri e tribuni aerarii e che i
collegi fossero formati mediante sorteggio di un ugual numero di persone da ciascuna tre categorie. Questo regime fu
più tardi modificato da una lex lulia, fatta votare da Cesare nel 44, che estromise dalle liste i tribuni aerarii.
Funzionavano dunque in Roma 9 corti criminali permanenti, di cui 5 per reati di carattere politico (maiestatis,
repetundae, ambitus, peculatus, vis) e 4 per reati comuni (omicidio, parricidio, falso, ingiurie gravi); esse, sviluppatesi
gradualmente, in concorrenza con i iudicia populi e con la libera cognitio magistratuale, divennero l’organo ordinario
per la repressione criminale nell'Urbe ed il relativo processo andò strutturandosi secondo un modello uniforme: di
natura accusatoria, il processo poteva essere promosso da qualunque privato cittadino come rappresentante
dell’interesse pubblico; prima della vera e propria accusa vi era un’istanza preliminare, con cui il denunciatore chiedeva
al magistrato il riconoscimento della sua legittimazione ed accusare (onorabilità). Se vi erano più postulanti per lo
stesso fatto, con una divinatio era scelto l'accusatore, mentre gli esclusi potevano aderire mediante subscriptio; poi c’era
la presentazione formale dell'accusa e l'accettazione del magistrato. A norma della lex Acilia l'accusatore doveva
giurare di non promuovere l'accusa al solo scopo di recar danno all'accusato e nella consapevolezza della sua innocenza,
perché ciò era considerato come crimen (punito per lo stesso reato di cui si propone l’accusa). Costituita la giuria, si
avevano le orationes dell'accusatore e dell'accusato e l'escussione dei testimoni; se a causa delle astensioni non si
formava una maggioranza, il dibattimento poteva essere rinnovato una o più volte. Concluso il dibattimento, ogni
giurato deponeva la tabella con il voto nell'urna e il magistrato dichiarava l'esito dello scrutinio. La sentenza si limitava
all'affermazione della colpevolezza o dell'innocenza dell'accusato circa il fatto criminoso, poiché la pena era fissata
dalla legge.
In taluni casi alla causa principale seguiva un giudizio accessorio per fissare l'entità del risarcimento.
Almeno fino all'età di Silla, le sanzioni previste dalle leggi istitutive di quaestiones rimasero la morte o il pagamento di
una somma di denaro, pur perdurando dell'esilio volontario sanzionato dall'aqua et igni interdictio. La condanna inflitta

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dalle quaestiones non era suscettibile di provocatio, nonostante i tentativi di Tiberio Gracco e poi Marco Antonio.
Le quaestiones perpetuae avevano giurisdizione solo in Roma ed entro 1000 passi dalla città: i municipia avevano
proprie corti di giustizia che operavano in modo simile alle corti romane. Nelle province, la persecuzione criminale era
attuata dai rispettivi governatori in forza dei loro poteri di coercizio, con l'assistenza di un consilium di cittadini da essi
stessi liberamente scelti.
La giurisprudenza romana — Fra le testimonianze sulla giurisprudenza romana e la sua storia, la rappresentazione più
attendibile, fino all'età adrianea, è un lungo frammento del Liber singularis enchiridii di Pomponio, pervenutoci
attraverso la compilazione giustinianea, che stabiliva un rapporto di successione logica tra le XII Tavole e il primo
manifestarsi di una interpretatio fondata sull'auctoritas prudentium.
L'intervento dei pontifices e dei prudentes era strettamente connesso con le strutture del processo privato, e all’inizio
anche con quelle religiose, mentre in seguito tenderà sempre più a coincidere con la doctrina dei giuristi e il prestigio
sociale che essa sa ottenere.
Il frammento di Pomponio, per definire la giurisprudenza più antica, distingue due campi d'intervento dei pontifices: le
actiones, cioè la composizione di formulari processuali con cui i privati svolgevano le loro controversie, e la scientia
interpretandi, attività intellettuale volta a definire e sviluppare regole di comportamento desunte dai mores e dalle
norme legislative, in primis quelle delle XII Tavole. Anche Cicerone, nel definire l'attività di giuristi laici dell'ultimo
secolo della repubblica, distingue due componenti nella loro opera: la cognitio e l'usus.
Mentre nell'epoca più antica la conoscenza del rituale giuridico è patrimonio inaccessibile dei pontifices, dalla fine del
III secolo i giuristi tendono a divenire prevalentemente laici, iniziano a dare pubblicamente consigli sul modo di agire in
giudizio, sulle forme rituali da impiegare per la conclusione di contratti e più in generale su questioni di interpretazione
dei mores e delle leggi. Dagli inizi del II secolo a.C., la riflessione sul diritto conquista un'autonomia e si esprime
attraverso opere letterarie non limitate alla raccolta di norme o di formulari. Questa letteratura ha anzitutto lo scopo di
rendere accessibile e trasmettere la conoscenza del diritto, rivolgendosi ad un pubblico che almeno in teoria va al di là
degli iuris prudentes. I giuristi prediligono sempre un'impostazione pratica ed i loro scritti rimarranno a lungo legati
all'attività di consulenza.
Il primo giurista che offre alla conoscenza dei suoi contemporanei una riflessione sul diritto è Sesto Elio Peto Cato,
autore dei Tripertita, opera sistematica che sarà considerata come un inizio nella tradizione della iurisprudentia.
Nei primi anni del II secolo si ha l'inizio di una riflessione giuridica che va al di là delle singole, concrete decisioni e si
definiscono in modo più preciso le attività della giurisprudenza. Cicerone delinea 3 tipi d'intervento nella prassi,
riferendoli ai giuristi di questo periodo, ma adatti a descrivere i prodotti del lavoro giurisprudenziale durante tutta
l'epoca repubblicana: il respondere, il cavere e l'agere.
Il respondere consiste nel dare consigli ai privati, ai magistrati o ai giudici. Responsum è termine comprensivo di
qualsiasi soluzione giuridica, per cui può anche indicare la forma espressa e letteraria che esteriorizza la giurisprudenza
cautelare dell'agere e del cavere.
Agere indica la composizione di schemi processuali, che i giuristi elaboravano su richiesta dei magistrati o dei privati.
Questa attività era diversa dall’assistenza in giudizio prestata ai privati nella fase del processo apud iudicem, nella
quale, di solito, le parti non erano assistite da giuristi, che, se intervenivano, svolgevano un'attività non rientrante nei
loro compi tipici. Dal punto di vista professionale, la difesa in giudizio era compito dell'oratore, che aveva il compito di
persuadere gli interlocutori e quindi adoperava nozioni giuridiche solo quando gli faceva comodo. Nei processi meno
importanti le parti si difendevano da sole, soprattutto se non appartenevano alle classi elevate. II giurista doveva invece
guidare i privati e consigliare i magistrati nella fase in iure del procedimento; pertanto, agere è la predisposizione delle
parole solenni nelle legis actiones e, nel processo formulare, la definizione della formula
Il verbo cavere indica letteralmente la cura di un interesse perseguita mediante atti negoziali, per cui riguardava
l’elaborazione di schemi di testamenti, mancipationes, contratti consensuali, ecc.
La giurisprudenza pontificale — All'epoca delle XII Tavole, erano 4 i collegi aventi il compito di fissare schemi di
comportamento per i singoli e per la civitas, sul piano del ius sacrum e del ius humanum: i pontefici, gli auguri, i
fetiales e i decemviri sacris faciundis. Tuttavia, dal Liber enchiridii di Pomponio emerge una piena competenza dei
pontefici nel campo della scientia interpretandi ed in quello delle legis actiones. Infatti, il collegio dei pontefici, retto da
una definita organizzazione interna, in base alla quale veniva designato a turno un membro competente ad intervenire in
materia di diritto e di rapporti tra privati, svolgeva l'attività più rilevante in materia d'interpretatio iurìs, dato che gli
auguri ed i feziali avevano una competenza più limitata. Il potere di dirigere e controllare la prassi giuridica rimase in
massima parte ad esso per più di due secoli dopo l'emanazione delle XII Tavole, dapprima a causa del monopolio della
conoscenza giuridica, che però, alla fine del IV secolo, investì lo strato più ampio della nobilitas.
Nel campo religioso, il compito dei pontefici è di interpretare il pensiero degli dei; in quello giuridico, i loro interventi
possono avere un'incidenza diretta nella vita della civitas, in particolare nel diritto di famiglia e nel diritto ereditario; ad
esempio, il pontifex maximus ha facoltà di convocare i comitia curiata per far ratificare una adrogatìo.
Sul piano tecnico, l'attività dei pontifices, oltre che nel respondere, si manifesta soprattutto nell'agere e nel cavere; le
legis actiones assumeranno l'appellativo di legali in quanto istituite o confermate dalle XII Tavole o da leggi particolari,
che saranno quindi le basi della loro legittimità, ma esse vengono composte in concreto dalla giurisprudenza pontificale,
che è anche la prima a definire le situazioni degne di tutela.
L’attività interpretativa dei pontefici era permeata da una visione formalistica del diritto, da cui il rilievo attribuito
dall'ordinamento al compiersi di determinati atti o alla pronuncia di parole stabilite in modo tassativo; a tali forme

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esteriori era subordinato il prodursi di effetti giuridici. Analoga è l'attività dei pontifices nell'ambito del cavere, con la
quale, tra i vari negozi formali, svilupparono ed adattarono la sponsio, già conosciuta dalle XII Tavole come promessa
di una prestazione propria, dalla quale scaturisce una obligatio verbis contratta. Essa sarà applicata ai rapporti più
svariati, diventando infine accessibile, come istituto iuris gentium, anche agli stranieri, a condizione che non usino il
verbo spondere, rigorosamente limitato ai cittadini romani.
L'opera dei pontifices è stata ancor più importante per l'evoluzione della mancipatio, formalizzazione dello scambio
della cosa contro il prezzo espresso in aes rude, anteriore all'introduzione della pecunia numerata. Alla presenza del
venditore, che manteneva un atteggiamento passivo, il compratore, alla presenza di 5 testimoni e di un sesto cittadino
che aveva il compito di tenere la bilancia e pesare il bronzo, dichiarava solennemente che la cosa gli apparteneva e
veniva da lui acquistata con quella quantità di bronzo non coniato che teneva fra le mani e si accingeva a pesare.
Partendo da questo modello, la mancipatio venne estesa e adattata ad una molteplicità di scopi, spesso ad opera dei
pontefici: ad esempio alla mancipatio del filius, attraverso la quale il pater familias poteva vendere il figlio, che nei
confronti dell'acquirente veniva a trovarsi in uno stato di soggezione simile a quello servile, tale da sospendere la patria
potestas dell'alienante. Essendo inizialmente la patria potestas inestinguibile, la manomissione del figlio da parte
dell'acquirente faceva ricadere quest'ultimo nel potere del padre; per evitare abusi, le XII Tavole stabilirono che il padre
che avesse venduto per tre volte il figlio, sfruttando la perpetuità della patria potestà, perdesse ogni potere su di lui. Tale
norma fu utilizzata in modo indiretto dalla giurisprudenza pontificale per l’emancipazione o per l’adozione.
Un'altra applicazione dello stesso istituto è la mancipatio familiae, con cui la giurisprudenza creò un nuovo meccanismo
volto a regolare la successione. Il titolare del patrimonio familiare, il mancipio dans, stabilisce a chi verranno assegnati i
beni di cui dispone e che aliena mediante mancipatio ad un amico, familiae emptor. Questi ha incarico di effettuare, alla
morte del mancipio dans, l'assegnazione dei beni ai rispettivi destinatari, secondo la volontà manifestata all'atto della
mancipatio.
La laicizzazione del sapere giurìdico fino a Sesto Elio Peto Cato — Fino al III secolo a.C., il miglior modo per
apprendere il diritto custodito dai pontefici era entrare a far parte del loro collegio. In questo periodo tuttavia si sviluppa
una giurisprudenza che, pur dipendendo dalla tradizione sacerdotale, non si identifica più nei pontefici né condivide il
senso di sacralità che alle origini e fino all'epoca delle XII Tavole aveva accompagnato il loro operare. Tra la fine del
IV secolo e l’inizio del III la tradizione colloca alcuni episodi che avrebbero avviato il processo di diffusione e
laicizzazione della conoscenza giuridica; anche a questo proposito le testimonianze più esplicite si traggono da quel che
rimane, nel Digesto, del testo di Pomponio. Gneo Flavio, scriba del giurista Appio Claudio, avrebbe per primo
pubblicato il calendario pontificale (con i giorni in cui si potevano svolgere le liti) ed un libro di azioni civili composto
dallo stesso Appio Claudio. Sarebbe stato infranto così il monopolio della giurisprudenza. Tiberio Coruncanio, console
nel 280, primo pontifex maximus di origine plebea, avrebbe introdotto l'uso di dare responsi in pubblico. In realtà, il
rilievo che le notizie relative ad Appio Claudio e Tiberio Coruncanio assumono nelle fonti è eccessivo.
Il calendario e le azioni che Appio Claudio e Gneo Flavio avrebbero reso noti non dovevano essere vincolati al segreto,
come sembra dal racconto di Pomponio, altrimenti essi non avrebbero potuto pubblicarli, in quanto estranei al collegio.
Ugualmente priva di fondamento è la posizione di preminenza attribuita a Tiberio Coruncanio, forse derivante dall'aver
enfatizzato eccessivamente un passaggio di un'opera di Cicerone, ove si sottolineava il merito di alcuni pontefici
massimi che avevano dato consigli davanti al senato ed al popolo ed ove il più antico tra quelli citati era Coruncanio.
Comunque, pur non potendo attribuirgli l'origine dell'insegnamento giuridico, né la pubblicità dei responsi, dobbiamo
cogliere il valore emblematico che la sua figura assume nella tradizione. È il primo pontefice massimo plebeo e la sua
attività di giurista respondente coincide con la linea politica seguita dalla plebe durante il III secolo: entrare a far parte
dei collegi sacerdotali e ottenere condizioni di eguaglianza nell'amministrazione attiva della religione e del diritto.
Con Sesto Elio Peto Cato siamo alla vera e propria nascita della letteratura giuridica: oltre a dare responsi, egli compone
e pubblica i Tripertita, un'opera in cui l’interpretatio occupa un posto centrale. Sembra che egli sia stato il primo giurista
ad affrontare il problema dei rapporti fra la propria attività interpretativa, la propria cultura ed il pensiero greco,
sostenendo l'inutilità della pura speculazione filosofica e la validità di una giurisprudenza fatta di riflessione e studio, da
usare nella vita quotidiana e nell'organizzazione della civitas. Pomponio parla dell'opera di Sesto Elio in due passi,
verosimilmente designando 2 titoli diversi (Ius Aelianum e Tripertita) la stessa opera: il primo, di uso comune, deriva
dal nome dell'autore; il secondo, con ogni probabilità il titolo originario, è dovuto allo schema di organizzazione della
materia che era divisa in tre parti: testo delle XII Tavole, interpretatio, legis actio (formulari processuali).
Pomponio non fa coincidere la nascita del diritto con i Tripertita, ma afferma che questi contengono la prima infanzia
del ius. L'aspetto originario riguarda proprio l'oggetto fondamentale intorno a cui ruota l'interpretatio: le norme delle
XII Tavole; l’autore ha quindi a che fare con un diritto che è ad un tempo reliquia del passato e norma per il presente.
Manio Manilio, Giunio Bruto e Publio Mucio Scevola - Per Pomponio, Manio Manilio, Giunio Bruto e Publio Mucio
Scevola riformularono il ius civile, inteso come diritto elaborato dall'interpretatio prudentium.
Celebrato da Cicerone per la sua attività cautelare (cavere) e per i suoi responsi, Manilio non appartiene ad una famiglia
senatoria e si fa strada come giureconsulto. Sappiamo poco delle sue opere, ma vi sono testimoniante sul suo lavoro
interpretativo, in particolare sul nexum, inteso come categoria generale comprendente tutti gli atti per aes et libram,
quelli che si compiono con la dazione della cosa e la pesatura del bronzo sulla bilancia. La sua opera principale è una
raccolta di formulari negoziali e processuali, le Actiones, di cui sono particolarmente ricordati i formulari per le vendite.
Giunio Bruto, appartenente alla nobilitas, compone una raccolta di responsa in 3 libri e (caso unico nella giurisprudenza
romana) in forma dialogica: i responsi da lui raccolti venivano illustrati al figlio, suo interlocutore, di fronte al quale

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assumevano il valore di exempla.
Publio Mucio Scevola fu console nel 133 a.C., lo stesso anno in cui Tiberio Gracco fu tribuno della plebe. Publio
Mucio, dapprima tra i consiglieri di Tiberio Gracco, assume poi un atteggiamento oscillante: resiste alla tesi di quei
senatori che chiedevano l’emanazione di un senatusconsultum ultimum che autorizzasse a muovere in armi contro
Tiberio ed il suo movimento, ma, quando Scipione Nasica guida la repressione violenta contro i graccani, sotto forma di
azione privata che si conclude con l'assassinio di Tiberio, legittima la sostituzione privata dei pubblici poteri.
Sul terreno del diritto privato alcune fonti ricordano una discussione che coinvolse i tre giuristi, relativamente alla
condizione giuridica del figlio della schiava quando questa fosse stata data in usufrutto. Conosciamo il parere di Giunio
Bruto, che non appare condiviso dagli altri due, ma è generalmente accolto nella tradizione giurisprudenziale: secondo
lui, il parto della schiava rientra nel dominio del proprietario, in quanto il figlio non può considerarsi un frutto.
Non abbiamo testimonianze che chiariscano perché Pomponio individui nell'attività dei 3 giuristi di una svolta della
giurisprudenza repubblicana Forse perché la loro opera si allontana dalle XII Tavole, tendendo a fondare l'interpretatio
sui contenuti normativi più vari e più liberamente determinati, rispetto a quanto avveniva nei Tripertita di Sesto Elio.
La crisi dell'agricoltura e Tiberio Gracco - Intorno alla metà del II secolo, la crisi dell'agricoltura italiana si era molto
aggravata, secondo le fonti soprattutto per la tendenza dei ricchi ad appropriarsi dell'ager publicus, e in particolare
dell'ager occupatorius, trascurato dalle autorità. Infatti, i poderi assegnati in proprietà ai veterani nei territori conquistati
erano insufficienti al mantenimento di una famiglia, perché si supponeva che essi integrassero il raccolto coltivando
anche quella parte delle terre confiscate ai vinti che rimaneva nella condizione di ager publicus, o esercitandovi la
pastorizia. Se venivano privati di questa risorsa, si trovavano in gravi ristrettezze.
Le difficoltà degli agricoltori non erano sfuggite a Scipione Emiliano ed ai suoi amici: uno di questi, Gaio Lelio, aveva
proposto una riforma agraria, su cui non abbiamo alcun particolare, ma che, dato l'ambiente da cui proveniva, non
doveva essere molto ardita. Eppure Lelio aveva incontrato l'opposizione di molti senatori, e non aveva insistito.
Dopo il 140 la situazione si aggravò: esaurite le riserve accumulate con le guerre in oriente, l'edilizia pubblica si arenò;
inoltre, verso il 135, esplose in Sicilia una rivolta di schiavi che fu domata solo dopo vari anni di dure lotte; dall'isola, in
condizioni normali, veniva gran parte del grano consumato in città, sicché l'approvvigionamento divenne molto diffi-
cile.
Questi avvenimenti contribuirono ad affrettare il corso della crisi, anche se, quando nel 133 il tribuno della plebe
Tiberio Gracco propose la sua legge agraria, egli aveva in mente i problemi delle campagne. La lex Sempronia agraria
imponeva alle occupazioni di ager publicus un limite massimo: 500 iugeri per ogni paterfamilias e altri 250 per ogni
figlio maschio (fra l'altro, il progetto mirava allo sviluppo demografico). In sostanza, però, si trattava di una legge
agraria, perché regolava anche la destinazione del terreno eccedente il limite. Questo, lasciato libero dagli occupanti
abusivi, doveva essere distribuito ai contadini poveri in lotti la cui estensione non ci è nota (forse 30 iugeri).
L'esecuzione del provvedimento era affidata a una commissione di 3 membri, eletti dai concilia plebis (alla
commissione un'altra legge assicurò i pieni poteri, rendendo inappellabili le loro decisioni). Nella speranza di evitare
l'opposizione dei vecchi occupanti, si concedeva loro in piena proprietà la quota di agro pubblico posseduta rientrante
nei limiti consentiti.
Gracco era appoggiato da un gruppo di nobili, fra i quali i giuristi Mucio Scevola e Licinio Crasso Muciano, che si
ritiene abbiano collaborato alla stesura del plebiscito. L’ostilità di parte dell'aristocrazia sembra in contraddizione col
fatto che nella prima metà del secolo erano state attuate senza difficoltà vaste distribuzioni di terre, ma è presto
spiegata: le distribuzioni precedenti avevano ottenuto modesti risultati perché generalmente i coloni venivano stanziati
su terre incolte, che diventavano redditizie solo dopo anni di lavoro. L'aristocrazia non avrebbe avuto nulla da obiettare
contro una continuazione del vecchio sistema, ma Gracco si proponeva di confiscare e distribuire terre già valorizzate.
Intanto, nel 133, morì il re di Pergamo, lasciando il suo regno in eredità al popolo romano. Grazie ai rapporti clientelari
che legavano la sua famiglia alla gens Sempronia, Tiberio fu informato per primo della cosa, e, prevenendo le decisioni
del senato, fece approvare un altro plebiscito che affidava il tesoro del re alla commissione agraria. Ma una ribellione
antiromana scoppiata in Asia rese impossibile (e politicamente inopportuno) il trasporto di grandi somme a Roma. La
repubblica non ebbe modo di impegnarsi seriamente contro i ribelli prima del 131, e la guerra durò ancora alcuni anni;
frattanto, l'attività della commissione agraria era stata paralizzata.
Sembra che molti senatori siano rimasti da principio neutrali fra graccani e antigraccani, ma, in seguito, le azioni di
Tiberio gli alienarono molte simpatie: poiché il collega Marco Ottavio impediva col suo veto l'approvazione della legge
agraria, lo fece destituire dalla carica con una votazione del concilium plebis (il primo caso di abrogazione della potestà
tribunizia). Più tardi, col plebiscito sul tesoro di Attalo, interferì nel campo della finanza pubblica, nel quale il senato si
riteneva il solo organo competente. Infine, per sfuggire alle rappresaglie dei suoi nemici, decise di farsi rieleggere
tribuno per il 132, per essere ancora protetto dalla sacrosanctitas. Ciò non era vietato, ma un fatto del genere non
avveniva da molto tempo, ed il tentativo fu interpretato come un primo passo verso la tirannide (regnum).
Tra l’estate e l’autunno del 133, l'assemblea elettorale fu interrotta dal pontefice massimo Scipione Nasica, che non
esitò a utilizzare in modo anomalo la procedura eccezionale della evocatio, che consentiva a chiunque in caso di
pericolo per le istituzioni di usare le armi contro i nemici (esterni) della repubblica. Parte degli elettori oppose
resistenza, e nella lotta caddero in centinaia, compreso Tiberio. Nasica si era sostituito al console Publio Mucio Scevola,
che si era rifiutato di eseguire il compito repressivo affidatogli dal senato con un senatusconsultum ultimum.
Il conflitto si prolungò negli anni successivi. I consoli eletti nel 133, e in carica nel 132, erano antigraccani. Spalleggiati
dalla maggioranza senatoria, istituirono una quaestio dinanzi alla quale i graccani furono accusati di complicità nel

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presunto tentativo di tirannide: si voleva così legittimare l'operato di Nasica. Ai giudizi partecipò anche Gaio Lelio.
Il Nasica si trovava in una posizione così difficile che il senato lo inviò in Oriente per organizzare la nuova provincia
d'Asia nel territorio pergameno; visto che esso era ancora dominato dai ribelli, l’incarico era chiaramente un pretesto.
Ivi egli morì poco dopo, e il suo successore nella carica di pontefice massimo fu Licinio Crasso Muciano, amico di
Tiberio e membro della commissione agraria: in questo periodo si entrava nel collegio pontificale per cooptazione, ma il
pontefice massimo era eletto dal popolo. Egli fu eletto console per il 131 e ottenne, sempre per votazione popolare, il
comando della guerra in Asia. Più tardi fu approvato un plebiscito che riconosceva lecita la rielezione al tribunato.
Ciò dimostra che i graccani erano ancora forti: si spiega così che nessuno abbia osato abrogare la legge agraria, e che il
triumvirato abbia potuto svolgere la sua attività. Le conseguenze sul numero di adsidui furono tuttavia modeste.
Nel 129 l'attuazione della riforma subì un grave colpo a causa di Scipione Emiliano, che promosse un senatusconsulto
secondo cui ai triumviri agrari erano lasciati solo compiti esecutivi. I casi controversi dovevano essere giudicati da uno
dei consoli, scelto di anno in anno dal senato: e quasi tutti i casi erano controversi, poiché le occupazioni abusive
risalivano spesso a tempi molto antichi, e non esistevano più i documenti che avrebbero potuto dimostrare la proprietà
pubblica dei terreni occupati. Visto che il console designato fu subito spedito in Istria a combattere contro tribù celtiche
e illiriche, ogni deliberazione fu rinviata e il lavoro della commissione fu bloccato.
Nel 125 furono censiti circa il 25% in più di adsidui rispetto al censimento precedente, ma è probabile che ciò derivi
dall’abbassamento del limite minimo per l'appartenenza alla quinta classe.
I fautori della riforma sapevano ormai che il problema agrario era inscindibile da quello dei rapporti con gli alleati; e
perciò Marco Fulvio Flacco, amico dei Gracchi, nel suo consolato del 125 propose di concedere ai socii, in compenso
dei danni materiali arrecati dalla legge Sempronia, o la cittadinanza romana o il diritto di provocatio contro eventuali
provvedimenti punitivi dei magistrati romani. La rogatio fu bloccata prima ancora d'essere sottoposta al voto, e il
console fu mandato in Gallia con l'incarico di proteggere Marsiglia.
Il tribunato di Gaio Gracco. Gli equites - Caio Gracco, fratello di Tiberio, fu eletto tribuno nel 123 e 122, e nei due
anni svolse un'intensa attività legislativa. Egli varò una legge agraria che sostituiva quella del 133; è probabile che essa
restituisse ai triumviri il potere giudiziario loro tolto per iniziativa di Scipione Emiliano, stabilisse nuove modalità per le
assegnazioni e regolamentasse il regime delle terre distribuite, imponendo il pagamento di un vectigal. Prevedeva forse
anche la fondazione di colonie in varie zone d'Italia, e la costruzione di nuove strade. Comunque è certo che deduzioni
di colonie a Taranto (e forse Capua) in Italia ed a Cartagine furono disposte da norme proposte da lui o da suoi alleati
(quest’ultima, prevista con lex Rubria, sarebbe stata la prima colonia civium Romanorum in territorio extraitalico). Con
queste iniziative si tendeva a sottrarre alle appropriazioni indiscriminate dei capitalisti, che sino ad allora se li erano
spartiti in via esclusiva, terreni italici fertilissimi come l'ager Campanus; con il plebiscito di Rubrio si voleva spezzare il
monopolio del senato sul controllo e la gestione del suolo provinciale.
Un altro gruppo di rogazioni sembra ispirato dal desiderio di vaste intese politiche (con la plebe urbana, i cavalieri, gli
alleati), per rimuovere gli ostacoli frapposti all'attuazione della riforma agraria; esso, nell'insieme, rappresenta anche un
organico tentativo di rinnovare le strutture dello stato e della società. Ed è per questo che le iniziative di Caio sono
presentate dalla tradizione storiografica di ispirazione aristocratica come nocive per la repubblica, corruttrici degli
antichi sani costumi e ordinate all’acquisizione di potere personale. Così, Cicerone si unisce alle critiche alla contestata
lex frumentaria che disponeva l'assegnazione, ad un prezzo politico, inferiore a quello di mercato, di una certa quantità
di grano al mese ad ogni proletario. La legge Sempronia frumentaria, comunque, fu ben presto modificata in senso
decisamente restrittivo da un plebiscito che aumentò il prezzo politico e diminuì la quantità di grano assegnato.
Una lex de capite civis Romani rafforzò la garanzia della provocatio, impedendo che ad essa potessero esser sottratti
(magari mediante senatusconsultum ultimum), comportamenti politici qualificati pretestuosamente come crimini di alto
tradimento (perduellio) dai magistrati o dal senato; anche per essi era vietata l’istituzione di quaestiones extraordinariae
abilitate ad infliggere condanne a morte con la sola autorizzazione (politica) del senato. Caio propose anche di
concedere lo ius Latinum ai soci italici e la cittadinanza ai Latini e di riformare il sistema di votazione dei comizi
centuriati in senso democratico, mediante chiamata al voto delle centurie per sorteggio.
Inoltre, con una legge giudiziaria, fu trasferita la funzione di giurati nei processi criminali dai senatori ai cavalieri. A
questa netta divisione tra i 2 ordini si era giunti gradualmente, muovendo da un'originaria identità. Sembra che i Romani
usassero il termine equites, ufficialmente, solo per gli equites equo publico iscritti nelle 18 centurie; nel linguaggio
comune anche per quelli che avevano la qualifica censitaria. I moderni lo usano di solito nel senso più generale.
L'aristocrazia equestre, come quella senatoria, era costituita da grandi proprietari agricoli. Tuttavia molti cavalieri erano
dediti alle attività mercantili; altri (i pubblicani) agli appalti di opere pubbliche, forniture militari, sfruttamento di
miniere, percezione di tributi e dogane. Una parte dei cavalieri si distingueva dal ceto senatorio solo per la sua estraneità
alla vita politica, mentre quella più dinamica era costituita da mercanti e pubblicani, che avevano interessi propri. La
differenza, in origine solo di fatto, era stata sancita da un plebiscito Claudio che aveva vietato ai senatori di esercitare il
commercio, e da un'altra norma più o meno coeva, che estendeva il divieto ai pubblici appalti.
Nel 129 a.C. circa, un plebiscito aveva fatto perdere ai senatori l’equus publicus e, con esso, il diritto di voto nelle 18
centurie equestri. Separati, sia pure solo formalmente, dall'ordine senatorio, gli equites equo publico si avvicinarono
sempre più agli altri equites, che erano molto più numerosi, formando un gruppo sociale con una sicura coscienza dei
propri interessi di classe e con la capacità di agire efficacemente per tutelarli. Visto che i principi fissati dalla lex
Sempronia iudiciaria furono immediatamente applicati, come testimonia il testo di una legge coeva che, regolando la
procedura della quaestio repetundarum, escludeva dalle relative corti giudicanti i senatori ed i loro parenti, è chiara la

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portata politica della riforma e la reazione ferma del ceto senatorio, i cui esponenti, impegnati nel governo delle
province, erano sempre esposti alle accuse di malversazioni e di concussioni.
Spesso si parla di Caio come di un politico e di Tiberio come un puro idealista. In realtà Caio si distingue per la vastità e
per la complessità dei suoi progetti, non per un maggiore senso pratico; anzi, gli interessi che voleva coalizzare erano
troppo disparati: soprattutto, né la plebe urbana né i cavalieri approvavano la concessione della cittadinanza ai Latini.
Il più pericoloso fra i suoi molti avversari fu il suo collega nel tribunato del 122, Marco Livio Druso, che gli fece
concorrenza sul suo terreno, proponendo distribuzioni gratuite di grano, deduzione di 12 colonie destinate ad accogliere
i nullatenenti e abolizione del canone che i beneficiari della riforma pagavano sui terreni loro assegnati. Ai Latini offrì,
invece della cittadinanza, il diritto di provocatio e l'immunità dalla pena delle verghe anche durante il servizio militare
(immunità garantita già da tempo ai cittadini romani). È possibile che alcune delle colonie promesse siano state
realmente fondate; è incerta la sorte della rogatio frumentaria e della proposta sul canone, mentre quella favorevole ai
Latini non fu approvata e forse neanche sottoposta al voto.
Nel 122 Gaio presentò per la terza volta la candidatura al tribunato, e, pur venendo sconfitto, continuò a organizzare la
colonia di Cartagine. Nella primavera del 121, prendendo a pretesto alcuni prodigi infausti osservati a Cartagine, gli
avversari proposero di annullare la legge istitutiva della colonia. All’opposizione dei graccani si rispose con la forza e
nello scontro furono uccisi Gaio Gracco, Marco Fulvio Fiacco (il console del 125) e centinaia di loro seguaci.
La repressione era stata condotta dal console ottimate Lucio Opimio, che aveva accolto l'invito ad usare i pieni poteri
formulato dal senato con un senatusconsultum ultimum: uno strumento di lotta politica (mascherato da autorevole
parere legale sul pericolo mortale in cui versava la repubblica), destinato a diventare sempre più spesso la risposta dei
ceti privilegiati ai sussulti rivoluzionari. Ricorrendo ad esso, l'aristocrazia senatoria voleva esonerare, con la
dichiarazione di stato d'emergenza, i magistrati fidati dall'osservanza delle disposizioni della lex Sempronia de capite
civis e di ogni altra norma che assicurava ai cittadini la garanzia costituzionale della provocatio e di legittimare, con la
dichiarazione (dapprima implicita) di hostes rei publicae in esso contenuta, le uccisioni senza processo degli avversari
più pericolosi.
Per questo, però, il senatusconsultum ultimum non era sufficiente, in quanto esso era solo un parere, per quanto
autorevole, che sul piano legale nulla poteva aggiungere ai compiti istituzionali dei magistrati, né autorizzarli a fare
giustizia sommaria degli avversari. Per aggirare l'ostacolo, il senato iniziò a rendere esplicita e spesso autonoma, dall'88
in poi, la dichiarazione di hostis di coloro nei cui confronti pronunciava il provvedimento, trasformando formalmente i
nemici di classe o di fazione in nemici esterni della repubblica, privi del diritto di appellarsi al popolo. Il diritto di
dichiarare la guerra e di privare i cives della cittadinanza non competeva, secondo la costituzione, al senato. Eppure, a
poco a poco, si venne affermando la convinzione che il senatusconsultum ultimum fosse fonte di poteri eccezionali e in
base ad esso tutto fosse consentito a coloro che erano investiti del compito di fronteggiare situazioni di emergenza.
Mario e la riforma dell'esercito - Due dure sconfitte in 12 anni e le violente repressioni avevano stroncato il gruppo
graccano. Inoltre, tramite una serie di provvedimenti, le più significative riforme graccane furono ben presto vanificate.
Nel giro di 15 anni, quella agraria, prima stravolta, fu completamente smantellata: già nel 121 si abolì il divieto, mai
rigorosamente osservato, di alienare le parcelle assegnate; poi fu sospesa ogni altra assegnazione e soppresso il
triumvirato agrario. Si riconobbe anche la definitività dei possessi comunque tenuti (anche oltre i limiti graccani); agli
occupanti si impose il pagamento di un vectigal, destinandone il gettito al «popolo». Infine, venne abolito anche il
vectigal e le possessiones furono convenite in proprietà.
La più importante eredità di Gaio Gracco fu il coinvolgimento degli equites nella vita pubblica, che, poco dopo la
fondazione della colonia romana a Narbona (promossa da Lucio Licinio Crasso, che si batté per sottrarre le quaestiones
ai cavalieri e restituirle al senato), manifestarono la propria forza e autonomia negli sviluppi della politica africana.
Il regno alleato di Numidia era diviso fra tre principi, discendenti di Massinissa; tra essi, Giugurta, che voleva affermare
la sua indipendenza, in breve tempo eliminò i rivali, fedeli alla tradizione filoromana della famiglia, e riunì tutto il
regno nelle sue mani. La maggioranza della nobilitas, in questo periodo poco interessata alle attività mercantili, non
diede gran peso all'episodio, e cercò di evitare un intervento, ma fu costretta a decidere la guerra dall'indignazione
popolare, guidata da Gaio Memmio, eletto al tribunato per il 111. I primi generali inviati in Africa, per volontà del
senato, si limitarono ad azioni dimostrative per ottenere dal re garanzie di fedeltà e riparazioni pecuniarie, ma furono
accusati di essersi lasciati comprare da Giugurta. Nel 109 fu votata l'istituzione di una quaestio straordinaria, composta
di cavalieri, che condannò e costrinse all'esilio vari senatori. Il comando fu affidato a Metello, che condusse la guerra
con energia e con successo, ma senza vittorie decisive, ma i cavalieri, nel 107, portarono al consolato e imposero come
nuovo comandante un personaggio di loro fiducia e uscito dalle loro file: Gaio Mario, homo novus di Arpino. Di qui
l'ostilità fra i due generali, aggravata dal fatto che Mario era legato ai Metelli, una delle più potenti famiglie della
nobilitas plebea, da vincoli di clientela che aveva tradito. Pur non avendo potuto condurre a termine la guerra, Metello
celebrò il trionfo ed ottenne il cognomen Numidico. Mario impiegò circa 2 anni per condurre a termine le operazioni;
Giugurta fu catturato e ucciso, e il regno fu assegnato a suo fratello Gauda, debole di mente e di provata fedeltà.
Una riforma di carattere tecnico, ma destinata ad avere conseguenze politiche, fu introdotta durante la guerra giugurtina
dal console Gaio Mario, che formò il suo esercito arruolando volontari fra nullatenenti (capite censi), fino ad allora
esclusi dal servizio militare. Dal punto di vista economico non si trattava di una radicale innovazione, visto che ormai i
cittadini considerati adsidui e iscritti alla quinta classe erano di condizioni tanto disagiate che già da tempo la repubblica
doveva sopperire alle spese di armamento e d vestiario per i mobilitati. Tuttavia, col tempo, l'iniziativa di Mario
avrebbe portato alla formazione di eserciti professionali, che vedevano nel servizio militare una fonte di guadagno e di

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avanzamento sociale e attendevano la soddisfazione delle loro speranze non dalla repubblica, ma dai loro capi.
La lotta politica da Saturnino alla guerra sociale - In seguito Mario accrebbe la sua fama annientando i Teutoni e i
Cimbri, la cui invasione era attesa e temuta da tempo. Egli rivestì ininterrottamente i1 consolato dal 104 al 100, contro
la legge che vietava l'iterazione delle magistrature. Il senato avrebbe potuto prorogargli il comando in forma legale,
conferendogli il titolo e l'imperio di proconsole; ma si volle evitare che altri avessero un imperium superiore al suo.
L'elezione al consolato del 100, non più giustificabile con uno stato di grave pericolo, fu molto contrastata. Mario, negli
ultimi tempi, aveva fatto causa comune con Saturnino e Glaucia, anch'essi malvisti dall'oligarchia dominante.
Saturnino, tribuno della plebe nel 103, aveva istituito una quaestio de maiestate che offriva ai cavalieri un nuovo
potente mezzo di pressione sulla nobilitas e promosso distribuzioni di terre e fondazioni di colonie in Africa per i
veterani della guerra giugurtina. Glaucia aveva ricoperto la stessa carica nel 101: è l'autore di una lex iudiciaria che
restituì ai cavalieri la quaestio de repetundis. Nel 100, tribuno per la seconda volta, Saturnino varò una nuova legge
agraria che assegnava terre in Gallia, sempre ai veterani di Mario. Subito dopo, l'accordo fra i 3 venne meno, poiché
Glaucia, sostenuto da Saturnino, presentò la candidatura al consolato contro la legge e Mario rifiutò di accettarla.
Quando i 2 uomini si resero responsabili dell’omicidio di Gaio Memmio, pure candidato al consolato, i nobili, i
cavalieri, la plebe urbana e Mario fecero causa comune e il senato affidò il compito di reprimere i disordini a Mario.
Questi fece arrestare i suoi ex-alleati, con l'intento di sottoporli a un processo, ma i prigionieri furono linciati dai nobili
e dalla plebe urbana. Le leggi di Saturnino furono abrogate, mentre restò in vigore quella di Glaucia sulle quaestiones,
gradita al ceto equestre.
Mario era disposto a servirsi di qualunque mezzo pur di consolidare la sua posizione fra i principes civitatis, ma non
voleva scardinare il regime aristocratico. Saturnino si presentava come un continuatore di Gaio Gracco, ma le sue leggi
agrarie favorivano solo i veterani di Mario. Sia lui che Glaucia tentarono di accattivarsi i cavalieri con le loro leggi sulle
quaestiones, ma li spaventarono e se li resero ostili con l'assassinio di Gaio Memmio.
I legami fra Mario e il ceto equestre rimasero invece molto stretti. È indicativo il processo a Publio Rutilio Rufo, che, in
qualità di legato, aveva seguito nella provincia d'Asia il proconsole Quinto Mucio Scevola, con cui aveva difeso gli
interessi dei sudditi contro l'avidità e la prepotenza dei pubblicani. Questi non osarono vendicarsi contro il governatore,
molto influente e imparentato con Mario, e, con l'appoggio di quest’ultimo, accusarono Rutilio di concussione; la
quaestio de repetundis, formata da cavalieri, lo ritenne colpevole ed egli, non potendo pagare l’elevatissima multa
impostagli, si ritirò in Asia Minore. L'esito del giudizio, apparentemente favorevole a Mario e ai suoi, indebolì la loro
posizione, acuendo vecchie inimicizie e procurando loro nuovi avversari.
Nel II secolo a.C. la maggioranza dei socii aspirava a una tutela contro gli arbitri dei magistrati romani e le comunità
etrusche consideravano anche la possibilità che la concessione della cittadinanza permettesse loro di percorrere il cursus
honorum ed entrare in senato, o essere qualificati per il censo come cavalieri ed entrare nelle corti giudicanti.
Nel 91 a.C., era tribuno Marco Livio Druso, figlio del noto uomo politico antigraccano; egli si ispirò sia alla tradizione
paterna, presentandosi come difensore dell'aristocrazia senatoria, sia a quella di Caio, cercando di soddisfare varie
esigenze per ottenere consensi a realizzare alcune riforme. Sostanzialmente teso a rafforzare il governo senatorio, il suo
programma aveva come primo obiettivo il trovare una soluzione urgente e definitiva all'ormai scottante questione degli
Italici, ai quali egli voleva concedere la cittadinanza. Prima di proporre formalmente questa misura egli predispose una
serie di interventi per stringere intorno a sé gli interessi convergenti dei gruppi moderati dei vari ceti romani ed italici
del cui consenso (o almeno della cui neutralità) sapeva di aver bisogno.
Con una prima legge, decise il ripristino delle frumentationes, abolite con l'abrogazione di tutte le leggi di Saturnino, e
(pare) una riduzione del prezzo del grano da distribuire ai non abbienti. Con una lex nummaria, consentì la coniazione
di monete d'argento contenenti una parte non trascurabile di rame, il che penalizzava soprattutto i cavalieri. Poi, con una
lex agraria, stabilì ampie distribuzioni di terre in Campania, in Etruria, in Umbria e la deduzione di colonie decretate ai
tempi del padre, ma non ancora realizzate; istituì una magistratura decemvirale per l’attuazione della riforma, che entrò
immediatamente in vigore. Infine, sfruttando le ostilità antiequestri suscitate dal verdetto pronunciato contro Rutilio
Rufo, promosse una riforma giudiziaria, con cui ritrasferì ai senatori il compito di far parte delle giurie criminali e, per
intimorire i cavalieri più compromessi con gli abusi e quindi più restii a cedere la prerogativa, creò una nuova quaestio
contro giudici che si fossero fatti o si facessero corrompere. Per evitare l’opposizione dei cavalieri, raddoppiò
temporaneamente il numero dei membri del senato, stabilendo che i nuovi senatori dovessero essere scelti tra gli
equites.
Druso godeva di grande popolarità, e in un primo tempo aveva l'appoggio di molti senatori, favorevoli alle riforme. Fra
i suoi sostenitori vi era anche Lucio Licinio Crasso, il console del 95, che aveva cambiato idea sul problema iella
cittadinanza. I cavalieri invece restavano fondamentalmente ostili agli alleati; fra questi ultimi, poi, i grandi proprietari
etruschi non consideravano la cittadinanza un compenso sufficiente per i sacrifici loro imposti dalla riforma agraria.
L'improvvisa morte di Crasso indebolì la causa delle riform, i plebisciti che Livio aveva fatto votare furono annullati e
la rogatio de civitate non fu autorizzata; infine il tribuno fu pugnalato da mano ignoti.
Questa volta gli alleati si ribellarono (tranne i Latini). Esplosa alla fine del 91, la guerra sociale (da socii), o italica, si
prolungo fino all'87. Si suol dire che Roma vinse la guerra sul piano militare, ma la perse sul piano politico; infatti, già
verso la fine del 90, una lex Iulia concesse la cittadinanza a tutti gli alleati rimasti fedeli e furono emanate altre leggi per
i popoli che man mano si arrendevano. Nell'89 lo ius Latii fu concesso alle civitates Transpadanae. Alcuni popoli italici,
che non chiedevano più cittadinanza romana, ma l'indipendenza, continuarono a combattere.
All'inizio della guerra, i senatori e i cavalieri ostili a Druso istituirono, con lex Varia, una quaestio straordinaria,

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composta di cavalieri, per giudicare coloro avessero istigato i socii a ribellarsi. Nell’89, il tribuno Marco Plauzio, senza
abolire la legge, fece votare un plebiscito che modificò la composizione della corte, rendendola elettiva, e non chiese
particolari qualificazioni per l'eleggibilità. Di fronte a questa corte vennero accusati e condannati Quinto Vario e alcuni
dei suoi partigiani: la definizione del reato era sempre la stessa, ma ora si incriminavano coloro che, rifiutando ogni
concessione, avevano esasperato i socii, costringendoli alla rivolta come ultima risorsa.
L'ascesa al potere di Silla e la costituzione sillana — Già da tempo Mitridate VI, re del Ponto, stava accrescendo i
suoi domini a spese degli stati vicini e si preparava allo scontro con Roma presentandosi come il liberatore del mondo
ellenistico dalla tirannide straniera. Tra i Romani, favorevoli alla guerra erano i cavalieri attivi nella provincia d'Asia,
che volevano estendere l'area dei loro commerci e dei loro investimenti, i senatori legati agli interessi degli equites e
Mario, che aspirava a un nuovo comando per rinverdire il proprio prestigio. Nell'88 fu inviato un esercito romano in
Oriente, ma il comando non fu affidato a Mario, coinvolto nella sconfitta politica di Vario e dei cavalieri, ma a uno dei
consoli in carica, Silla. Mario, deluso, reagì inserendosi in un nuovo conflitto a proposito degli ex-alleati.
La capitolazione di molti fra i ribelli e l'isolamento degli altri che persistevano nella lotta avevano ridotto l'interesse per
il problema della cittadinanza; fra i senatori che avevano collaborato con Druso alcuni erano morti, altri erano in esilio,
altri ancora si erano rassegnati alla nuova atmosfera di indifferenza. La sostanziale normalizzazione dei rapporti con gli
Italici era avvenuta concedendo loro la cittadinanza, ma essi erano stati relegati in poche tribù, probabilmente create ex
novo ed ammesse al voto, nei comizi, dopo le 35 già esistenti.
Restava invece fedele alle idee di Druso il tribuno Publio Sulpicio Rufo, che esigeva l'iscrizione dei nuovi cittadini in
tutte le tribù. Inasprito dall'inerzia del senato, egli venne a patti con Mario, che gii offriva il suo appoggio e quello dei
cavalieri in cambio del comando della guerra mitridatica. Usando la forza, Sulpicio costrinse l'assemblea della plebe a
votare la sua proposta sugli alleati e successivamente fece votare il trasferimento del comando da Silla a Mario.
Silla, rispondendo alle illegalità commesse a suo danno con un altro atto illegale, molto più grave e fino allora inaudito,
entrò in Roma alla testa del suo esercito in armi e fece uccidere alcuni dei suoi avversari, fra cui Sulpicio, mentre Mario
e altri riuscivano a fuggire. Quindi abrogò tutti i plebisciti votati nell'ultimo periodo, compreso quello sugli ex-alleati.
Le prime misure con cui, nell'88, Silla stabilì un ordine nuovo, furono di certo dirette a limitare i poteri delle assemblee
popolar e dei tribuni democratici e a rafforzare il governo senatorio, ma dei suoi primi interventi sappiamo ben poco.
In questa fase Silla dovette muoversi con grande prudenza: per sopire le diffidenze dei gruppi senatori tradizionali, da
lui favoriti, ma sconcertati dall'ardire dimostrato nel portare le armi del suo esercito in Roma; per far fronte alle ostilità
degli ambienti mariani, sconfitti ma non del tutto eliminati; anche e soprattutto perché doveva partire per l'Oriente.
Nonostante la sua cautela, Silla non riuscì a controllare pienamente le elezioni per il consolato dell'87: furono eletti un
suo seguace, Gneo Ottavio, e un suo avversario, Lucio Cornelio Cinna. Quest'ultimo ripropose immediatamente la legge
di Sulpicio per la distribuzione dei nuovi cittadini in tutte le 35 tribù, e riuscì a farla votare dopo un conflitto con
Ottavio che assunse, anche questa volta, i caratteri di una vera e propria guerra civile. Era tornato frattanto Mario e
molte furono le vittime fra i vinti (compreso Ottavio); ma Cinna e il suo legato Quinto Sertorio riuscirono ad arginare le
violenze e a ristabilire l'ordine, eliminando i più sanguinari fra i mariani. Mario morì all'inizio dell'86, pochi giorni dopo
l’elezione al settimo consolato. Cinna si screditò facendosi rieleggere console contro la legge fino alla sua morte nell'84;
secondo alcune fonti, anzi, conservò il titolo senza nemmeno convocare i comizi.
Intanto Silla procedeva di vittoria in vittoria; poiché il suo unico scopo era quello di tornare in patria alla testa di un
esercito agguerrito e fedele, appena possibile concluse con Mitridate una pace di compromesso. Sbarcato in Italia
nell'83, in 2 anni sconfisse gli eserciti della repubblica. Mentre la maggioranza della nobilitas attendeva l'esito della
lotta senza compromettersi, si schierarono con lui i futuri triumviri Crasso e Pompeo, che coi suoi successi nella guerra
civile si procurò il soprannome di Magno. Silla inoltre riuscì a tener tranquilli i nuovi cittadini assicurando che avrebbe
rispettato i lori diritti; si schierarono contro di lui solo alcune città etrusche e i Sanniti, di cui fece strage. Dopo
un'ultima cruenta battaglia alle porte di Roma, nel novembre dell'82 Silla rimase padrone assoluto della città, in cui
entrò con i suoi partigiani armati, senza deporre l'imperium militiae. Iniziò una fase di terrore e di repressioni.
L'agire di Silla e dei suoi era chiaramente eversivo della legalità repubblicana, che non tollerava l'esercizio del potere
militare nel pomerio, non consentiva condanne a morte senza appello dei cittadini, non conosceva la pratica delle liste
dei proscritti, delle confische arbitrarie e private dei loro beni. Di ciò era consapevole lo stesso Silla che, perseguendo
un disegno politico di formale restaurazione dell'antica repubblica su cui affermare il suo dominio personale, cercò di
dare ex post un fondamento legale alla sua presa del potere ed agli atti illegittimi con essa correlati. Egli fece sì che,
mancando i consoli, i patres proclamassero l'interregnum. Divenuto interré, il princeps senatus Lucio Valerio Flacco,
suo partigiano, invece di indire le elezioni consolari, propose al popolo una legge, approvata dai comizi centuriati, con
cui fu attribuita a Silla una dittatura legibus scribundis et rei publicae constituendae, molto più estesa dell'antica
dittatura repubblicana, da cui si differenziava per la durata non circoscritta ai 6 mesi massimi normali, la genesi
inconsueta (deliberazione comiziale e dictio di un interré), la funzione anomala (mai un dittatore aveva avuto poteri
costituenti) e i fini reali (porre le premesse giuridiche e di fatto di un potere personale incontrollato ed istituzionaliz-
zato).
A questa legge gli storici antichi ricollegano il conferimento a Silla di poteri amplissimi, cui si fanno risalire anche le
radici delle attribuzioni religiose di cui egli era titolare e che, nel loro complesso, contribuivano ad avvicinare la sua
posizione di dittatore a tempo sostanzialmente indeterminato a quella dei re ellenistici. Le fonti concordano sulla potere
conferitogli di mettere a morte qualsiasi cittadino senza possibilità di provocatio e sull’approvazione di due norme
fondamentali per dare completa impunità a lui e apparente legittimità al regime: un senatoconsulto, approvato subito

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dopo la sua presa del potere, che confermava tutti gli atti da lui compiuti dall'88 sino al novembre dell'82, liberandolo
da ogni responsabilità; una clausola della legge Valeria che, concedendo al dittatore i pieni poteri, ratificava sin da
allora, per il futuro, tutto quanto egli avrebbe comunque fatto o stabilito.
Sulla base di tali norme e con la garanzia di queste immunità il dittatore procedette ad un definitivo regolamento di
conti con i suoi avversari, continuando ad inserirne i nomi nelle liste dei proscritti, che furono lasciate aperte sino al 1°
giugno dell'81. Con la confisca dei beni e l'esecuzione sommaria di coloro che venivano catturati, le proscrizioni
comportavano altre conseguenze di natura giuridica, tra cui la perdita del ius honorum per i discendenti dei colpiti.
Inasprendo le disposizioni della legge rogata nell'88, Silla apportò anzitutto drastiche limitazioni ai poteri dei tribuni: li
spogliò del diritto di intercedere, riducendo la loro potestà al semplice auxilium; impose l’obbligo di sottoporre i
plebisciti al parere preventivo del senato; forse attribuì addirittura la loro nomina al senato.
Poiché, soprattutto a causa delle proscrizioni, il senato si era ridotto a non più di 150 membri, Silla nominò direttamente
150 nuovi senatori e poi ne raddoppiò l’organico, nominando sempre di persona altri 300 senatori scelti tra i cavalieri. Il
dittatore stabilì che solo dal senato fossero tratti i giudici delle varie corti permanenti che istituì a fianco di quelle già
esistenti, regolandone il funzionamento, la procedura, le competenze, i crimini conosciuti, le pene. Ad ognuno di questi
tribunali venne preposto un pretore. Il numero di questi ultimi fu perciò elevato ad 8 (2 addetti alla iurisdictio e 6 come
presidenti delle corti permanenti per i giudizi criminali.
Silla elevò anche il numero dei questori; ammettendo al senato coloro che avevano ricoperto tale magistratura, fornì per
l'avvenire il personale necessario a completare la copertura dell'elevato numero di membri di quel consesso (e cosi delle
corti giudicanti) e nello stesso tempo limitò i poteri di libera scelta dei censori.
Abrogò il plebiscito che nel 151 aveva vietato l'iterazione del consolato ma ristabilì l'intervallo decennale, fissato nel
342 (e poi spesso violato) per l'iterazione delle cariche. Con la lex Cornelia de magistratibus il dittatore irrigidì la se-
quenza, le età minime, gli intervalli necessari per percorrere le varie tappe del cursus honorum fissati in precedenza in
modo non vincolante. Oltre ad anticipare il tempo della elezione dei consoli, Silla stabilizzò il sistema della proroga
dell'imperium per il governo delle province, in cui vennero inviati normalmente tutti i consoli ed i pretori allo scadere
dell'anno di carica. Egli stabilì che, durante il periodo normale dell'ufficio, i magistrati urbani fossero obbligati a
risiedere a Roma, provvedendo solo alle incombenze del governo civile della repubblica; solo su espresso incarico del
senato, e in via eccezionale, erano autorizzati a condurre spedizioni militari in Italia o altrove, mentre la responsabilità
della guerra e la gestione delle province erano affidate, di regola, ai promagistrati. Si determinò così una frattura nella
tradizionale concezione unitaria dell'imperium, che non fu più gestito in modo collegiale e globale dai consoli: ma da
questi domi, dai proconsoli e dai propretori militiae.
Il confine dell'Italia fu esteso sino al Rubicone, a nord del quale fu istituita la nuova provincia della Gallia Cisalpina;
nello stesso tempo fu ampliata da Silla, sia pure dì poco, la linea pomeriale dell'Urbe.
Silla abolì le frumentationes, ma stabilì dei calmieri sui prezzi delle derrate; avviò un vasto piano di opere pubbliche, sia
per far fronte alle esigenze create dal crescente inurbarsi di Italici e di contadini romani che per dare lavoro alle plebi
cittadine e tenerle tranquille. Dispose anche una importante colonizzazione delle terre divenute pubbliche a seguito
delle proscrizioni e delle multe imposte alle comunità e ai popoli filomariani.
Stragi, confische, deduzioni coloniarie e assegnazioni di terre furono ordinate da Silla secondo un programma che aveva
molteplici scopi: punire gli avversari anche economicamente; favorire i propri partigiani; ripagare i propri soldati,
legandoli ancor di più a sé con nuovi vincoli clientelari; stabilire soprattutto in punti strategici per il proprio governo
stanziamenti paramilitari con funzioni di polizia cui poter ricorrere in caso di bisogno. Fu estraneo al suo programma il
fine preminente della tradizionale politica agraria e coloniaria romana di intonazione graccana: il ridimensionamento
del latifondo. Anzi, la colonizzazione sillana provocò spesso proletarizzazione dei contadini italici, scacciati dalle terre
che coltivavano. Inoltre, il latifondismo trovò il clima adatto a prosperare ancor più grazie alla tendenza di molti
assegnatari, incapaci o impossibilitati a radicarsi convenientemente nella loro nuova condizione, a disfarsi, talvolta per
pochi soldi, delle terre ricevute, che si vennero concentrando così nelle mani di antichi o nuovi latifondisti.
Inaspettatamente, verso la fine dell'80, Silla abdicò alla dittatura. Rifiutò la rielezione ad un terzo consolato e rinunciò
al governo proconsolare della Gallia Cisalpina, ritirandosi nei suoi possedimenti in Campania. Forse egli ritenne
esaurito il suo ruolo di nuovo Romolo o, al contrario, fu spinto a quel passo dalle difficoltà insormontabili che vedeva
frapposte alla realizzazione di quel suo programma a causa del montare dell'opposizione.
Silla morì pochi mesi dopo, nel 78, nelle sue terre, dopo aver subito una grande sconfitta politica: l'elezione a console
per il 78 di un suo dichiarato avversario, Marco Emilio Lepido, destinato a divenire il leader dei popolari. Questi, dopo
esser stato seguace di Silla, l'aveva abbandonato e proprio in funzione antisillana era stato sostenuto nella contesa
elettorale dalla frazione dominante degli ottimati, che si imperniava ormai Pompeo e su prestigiose famiglie dell'antica
nobiltà. Quella sconfitta qualche mese soltanto dopo il suo abbandono della gestione diretta del potere fu la prova del
fallimento pieno del disegno politico intorno al quale Silla aveva forse lavorato per tutta la vita, dell’ambizione di
assumere nello stato, da privato, una posizione di permanente supremazia, fondata non su una magistratura straordinaria
come la dittatura, ma sulla fedeltà dell'esercito e sul prestigio personale.
La giurisprudenza nell'età tardo-repubblicana: da Q. Mucio a Trebazio Testa — Dalla fine del II secolo a.C. agli
albori del principato augusteo si determinano nel diritto privato romano mutamenti profondi, ai quali la giurisprudenza
partecipa come protagonista. Anche in seguito all’emersione del processo formulare e del diritto onorario, i pareri dei
giuristi continuano ad essere indispensabili alla prassi, poiché anche le formule si caratterizzano per il loro elevato
tecnicismo. Essi d'altra parte contribuiscono, attraverso l'attività definitoria, a stabilire quale sia la portata dei concetti

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giuridici, quali le pretese tutelate e l'ambito di accertamento dei giudicanti.
Durante tutto il I secolo le forme di intervento dei giuristi nella prassi sono sostanzialmente le stesse che da Sesto Elio a
Publio Mucio Scevola, ma assume un valore sempre maggiore la consulenza offerta ai magistrati. I responsi tendono ad
essere concisi, talvolta privi di motivazione, e recano spesso un richiamo all'autorità di giuristi precedenti.
Raccolti negli archivi familiari del respondente, trascritti e riproposti in altre occasioni dai suoi auditores ed allievi, i
responsi sono il materiale più importante per la conoscenza del diritto. Le opere letterarie sono in massima parte
composte da responsi, da cui i giuristi cercano di ricavare dei concetti non immediatamente legati alla casistica. Questi
concetti, dai quali l'interpretazione dovrà poi ridiscendere fino ai casi concreti per disciplinarli, vengono studiati con
diligenza ed accuratamente distinti. Sia la divisione tra i concetti, sia la loro articolazione interna, dal generale al
particolare, dai livelli più alti di astrazione fino alle singole fattispecie disciplinate mediante responsi, esigono un
metodo classificatorio, che distingue un concetto dall'altro o ne include uno in un altro. La tecnica divisoria, che
costituisce i concetti e fonda le classificazioni, diventa dagli inizi del I secolo a.C. un patrimonio comune a tutti i
prudentes. Essa ha come precedenti e modelli le teorie di Platone, di Aristotele e degli stoici, ma sembra che la
giurisprudenza usi tecniche di identica funzione, ma molto più semplici e meno rigorose nella struttura.
Quinto Mucio Scevola, figlio ed allievo di Publio Mucio, è l'ultimo giurista che unisce le attività ormai pienamente
laiche del cavere, agere e rispondere alla funzione religiosa di pontefice massimo. Egli scrive infatti l’opera Iuris civilis
libri XVIII ed il Liber singularis horon, raccolta di regole che sarà utilizzata direttamente dai compilatori giustinianei e
che corrisponde all'esigenza, diffusa nella tarda repubblica, di dominare la casistica e le complesse forme giuridiche
derivanti dall'estendersi dei traffici e dall'attività creativa del pretore. Non sembra invece che i compilatori giustinianei
abbiano avuto tra le mani la prima opera, di cui numerosi brani si ritrovano attraverso la citazione di giuristi posteriori.
Essa viene infatti usata fino al III secolo d.C. e Gaio e Pomponio scrivono commentari su di essa. Pomponio, nel Liber
singularis enchiridii, afferma che Quinto Mucio per primo trattò il diritto civile secondo classificazioni sistematiche.
Alcuni storici, sulla base di questo giudizio, hanno sostenuto che l'opera muciana abbia posto le basi della
giurisprudenza europea e con essa dell'idea di sistema. In realtà Pomponio usa l'avverbio generatim per indicare uno
stile, un metodo, ma non definisce il rapporto tra l'andamento classificatorio che per primo Q. Mucio avrebbe seguito
nel rappresentare lo ius e l'impianto complessivo dei libri iuris civilis. Q. Mucio fa un uso molto frequente della tecnica
divisoria in senso ampio, ma nulla induce a credere che i Libri iuris civilis seguissero nella distribuzione degli
argomenti un ordine sistematico, dalla definizione di pochi genera, segnati da un altissimo livello di astrazione,
all'articolazione delle species, fino alla trattazione dei casi. Anzi, per quanto riguarda l'ordine esterno e la sistematica
generale delle opere, la tecnica divisoria non viene sostanzialmente impiegata.
Per Quinto Mucio l'attività politica era ancora strettamente connessa a quella giurisprudenziale; in realtà, il legame dei
giuristi con il ceto politico dirigente, scontato nel II secolo diviene, tra gli inizi del I secolo e l'età di Augusto, più
problematico e complesso. La società romana diventa una società in movimento, attraversata da profonde e ripetute crisi
politiche. Nel campo della giurisprudenza a ciò corrisponde l'affermarsi, in un sistema aperto, del ius controversum,
fondato sull'interpretatio prudentium, rispetto alla quale le XII Tavole sono ormai un lontano antecedente storico.
La provenienza sociale dei prudentes nel I secolo, è assai più eterogenea che in passato: alcuni appartengono all'ordo
equestre, altri sembrano di umili origini. Tuttavia, nel loro lavoro intellettuale, vi è una omogeneità di fondo: alla
precarietà degli ordinamenti politici essi tendono ad opporre, talora con un marcato disimpegno o con il rifiuto delle
maggiori cariche, la fiducia nella propria dottrina. Nella prima metà del I secolo a.C., il più famoso di tutti, agli occhi
dei contemporanei, per i responsi e per l'attività di insegnamento, è Servio Sulpicio Rufo, che fu uditore di Quinto
Mucio, che lo avrebbe esortato agli studi giuridici, e completò la sua formazione studiando retorica a Rodi insieme a
Cicerone. Al suo ritorno a Roma, scelse di dedicarsi attivamente alla giurisprudenza e intraprese il cursus honorum.
Nelle sue opere, per quanto sappiamo, dominano i responsi e si ripropone più volte un atteggiamento polemico nei
confronti di Quinto Mucio, che pure era stato il primo ad avviarlo alla giurisprudenza. I responsi serviani costituiscono
inoltre il contenuto fondamentale dei Digesta di Alfeno Varo (il suo allievo più importante), giunti fino ai compilatori
giustinianei attraverso 2 epitomi.
Trebazio Testa, amico di Cicerone, fa parte del consilium di Giulio Cesare; Augusto lo promuove al rango equestre e gli
offre il consolato, ma egli rifiuta, per dare responsi e insegnare. I suoi scritti sono noti, ma poco usati, nel II secolo d.C.
La lotta politica dopo Silla. I populares - La storia del consolato di Marco Emilio Lepido e Quinto Lutezio Catulo, si
può riassumere nel tentativo del primo di abrogare l'ordine nuovo instaurato da Silla e nell’opposizione di Catulo. Lo
schema interpretativo a lungo dominante della lotta politica a Roma durante la repubblica si ripropone: i popolari contro
gli ottimati, i democratici (masse proletarie incapaci di esprimere una propria autonoma direzione politica capeggiate da
aristocratici pronti strumentalizzarne le rivendicazioni) contro i conservatori del partito senatorio.
Lo scenario era naturalmente meno lineare e più complesso, ma la realtà politica operante condusse di fatto nel 78/77 ad
uno schieramento delle forze in gioco su due fronti: da un lato, l'arroccarsi dell’oligarchia senatoria ed equestre a difesa
del sistema che comunque ne privilegiava il ruolo e il potere; dall'altro, il tentativo della parte popolare di attaccare quel
sistema per recuperare un ruolo politico mortificato dalla costituzione sillana.
Gradualmente abbandonato da Pompeo e dai suoi alleati e comunque mirando ad affrancarsi dall’influenza dei gruppi
che lo avevano sostenuto solo in funzione antisillana, Lepido sollecitò nuove alleanze e cercò consensi negli ambienti
popolari e tra gli Italici che erano stati perseguitati da Silla e dai suoi per la loro inclinazione mariana. Così, oltre al
ripristino delle frumentazioni, egli propose il richiamo a Roma dei proscritti superstiti e la restituzione a loro ed ai loro
figli dei diritti e dei patrimoni confiscati; la riconsegna delle terre espropriate da Silla; il riconoscimento della

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cittadinanza a coloro che ne erano stati privati; il ripristino dei poteri dei tribuni.
Di fronte al pericolo di vedere messi a repentaglio i rapporti di potere reale esistenti, tutti i gruppi della nobiltà
senatoria, compresi Pompeo e gli antisillani, fecero quadrato nel contrastare il programma sovversivo di Lepido e
conservare il proprio monopolio della gestione del potere. Il senato ricorse a tutti i mezzi a sua disposizione per
sconfiggere l'avversario, dichiarato nemico della patria con senatusconsultum ultimum. Si fronteggiarono 2 eserciti,
comandati uno da Lepido e uno da Catulo, che si avvalse con successo anche dell'aiuto di truppe arruolate da Pompeo.
Sconfitto sul campo, ma ancor prima sul piano politico, Lepido si rifugiò in Sardegna dove, braccato, morì.
Intanto, si svolgeva in Spagna la guerra, capeggiata da Sertorio, e Mitridate era sceso di nuovo in campo. Alle guerre in
corso oltremare si aggiunse una rivolta di gladiatori e schiavi nell'Italia meridionale, capeggiati dal gladiatore trace
Spartaco, che riuscì a sconfiggere 2 eserciti consolari ma fu poi sopraffatto, con grande spiegamento di forze, da Marco
Licinio Grasso. I superstiti, diretti a nord, furono sorpresi e annientati da Pompeo che tornava dalla Spagna.
Benché l'episodio avesse fatto sorgere fra loro una certa rivalità, Crasso e Pompeo conclusero un accordo elettorale e
ottennero il consolato per il 70. L'intesa fu di breve durata, ma ebbe conseguenze importanti. Già qualche anno prima
era stata abolita la norma sillana che vietava agli ex-tribuni della plebe di aspirare alle magistrature curuli; ora furono
restituiti al tribunato tutti i suoi antichi poteri. Inoltre, per la prima volta dopo 15 anni, vennero eletti i censori (due
amici dì Pompeo) e per la prima volta si tenne realmente conto degli ex-alleati. Infine il pretore Lucio Aurelio Cotta
varò un'importante legge giudiziaria che assegnò i posti di giudice delle quaestiones in parti uguali a senatori, equites
equo publico e tribuni aerarii. La riforma fu abolita da Cesare.
Il programma attuato da Pompeo e Crasso non era tanto radicale quanto potrebbe sembrare. La restaurazione dei poteri
tribunici non era sgradita alla nobilitas, che da tempo sapeva come usare il tribunato per i propri fini; inoltre essi erano
appoggiati dai cavalieri, per cui un rafforzamento dell'ordine equestre era per ambedue un concreto vantaggio.
In generale, dal 70 in poi, si osserva una progressiva decadenza da sillani. In questo periodo si afferma nel linguaggio
politico il termine popularis. A dire il vero, tra le fonti contemporanee, l'unico a servirsene è Cicerone, che però lo usa
in modo tale da far comprendere che il concetto è familiare al pubblico. Tra i vari significati di popularis vi è ha quello
di amico del popolo, per cui molti lo hanno tradotto come democratico; in realtà il termine è usato soprattutto nel senso
spregiativo di demagogico, a designare chi mobilita la folla per sostenere i propri interessi. La tradizione democratica,
che a Roma si identifica con quella graccana, vive solo in un ambiente ristretto, nel quale il termine si usa poco o niente.
Il decennio successivo al 70 è caratterizzato dall'ascesa di Pompeo, che ebbe 2 comandi con poteri straordinari: prima
per la lotta contro il flagello della pirateria, poi, in sostituzione di Lucullo, per la guerra mitridatica. Egli fu avversato
dalla nobilitas, non per motivi di principio, ma perché restia a concentrare troppa autorità nelle mani di personaggi
capaci e ambiziosi, mentre ebbe l'appoggio dei mercanti, i cui traffici erano disturbati dalla pirateria e dalla guerra, e dei
pubblicani, i cui abusi a danno dei provinciali erano stati severamente repressi da Lucullo. In pochi mesi Pompeo
eliminò i pirati, e in 2 anni sgominò le forze di Mitridate. Poi passò di propria iniziativa in Siria, depose il re e affermò
l'autorità romana su gran parte del territorio, ordinando i territori occupati (fino alla ratifica del senato) in 2 province.
All'inizio del 63, mentre Pompeo era ancora in Asia e Cicerone assumeva il consolato, il tribuno Publio Servilio Rullo
tentò di varare una legge agraria. È opinione diffusa ch'egli agisse in nome di Cesare e Crasso; infatti il progetto ha
qualcosa in comune con quello realizzato poi da Cesare. Tra l’altro, si prevedeva la distribuzione dell'agro pubblico
campano e l'acquisto, a prezzo di mercato, di altri terreni da distribuire. Ma molti senatori sostenevano che i redditi
dell'agro campano erano indispensabili per le finanze della repubblica e Cicerone si oppose alla proposta affermando
che essa era diretta contro l'assente Pompeo e riuscì a farla cadere, perché Pompeo era allora al culmine della popolarità.
Pochi mesi dopo, alcuni nobili ex-sillani progettarono un colpo di stato; i loro capi erano 2 patrizi, Catilina e Lentulo.
Cesare e Crasso furono sospettati di complicità; il sospetto sembra infondato, ma è un sintomo della tensione esistente a
Roma. Cicerone fece arrestare Lentulo e altri congiurati, che furono messi a morte senza processo e senza provocatio,
per deliberazione del senato; Catilina fuggì in Etruria. In seguito, egli e i suoi seguaci furono attaccati dall'esercito e
caddero tutti combattendo.
Cesare e Pompeo - Cicerone pensava di aver salvato repubblica, soprattutto perché i cavalieri si erano schierati col
senato contro Catilina, e in ciò egli vedeva la realizzazione del suo programma: la concordia ordinum. Ma l'atmosfera di
riconciliazione era destinata a venir meno al primo contrasto; d’altra parte non erano i catilinari il vero pericolo per le
istituzioni, bensì Pompeo, contro cui Cicerone era disarmato, ostinandosi a credere nella sua lealtà verso la repubblica.
Altri temevano che Pompeo, al suo ritorno, volesse imitare Silla, ma egli congedò le sue truppe, confidando nel proprio
presigio. Invece la maggioranza della nobilitas si schierò contro di lui, che, nonostante l'appoggio di Cicerone, non
riuscì a ottenere né la ratifica dell'ordinamento alle nuove province né una legge agraria a favore dei sua iveterani.
Più tardi anche Grasso si trovò in difficoltà, perché alcuni pubblicani suoi amici, che avevano in appalto il tributo della
provincia d'Asia, a causa del accorsero margine di utile troppo basso e chiesero una revisione del contratto. Essi erano
sostenuti da Crasso e Cicerone, ma Catone e i suoi amici riuscirono a impedire una decisione favorevole.
Pornpeo e Crasso, sentendosi isolati, furono indotti ad allearsi di nuovo, grazie anche alla mediazione di Cesare, che,
nonostante il suo antico lignaggio patrizio, era molto meno forte e meno ricco di loro, e aveva tutto da guadagnare in
una coalizione. Riferendosi all'intesa privata fra i 3 uomini si usa parlare di primo triumvirato, in un senso del tutto
diverso da quello che avrà il secondo, magistratura costituita con apposita legge nel 43 a.C..
Cesare fu eletto console per il 59 grazie all'appoggio dei suoi alleati, che ripagò ottenendo che l'ordinamento provinciale
di Pompeo fosse ratificato e concedendo agli amici appaltatori di Crasso una riduzione dei loro impegni. Presentò anche
2 leggi agrarie, che possono considerarsi un tutto unico. Alcune clausole si collegavano al progetto di Servilio Rullo

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(l'acquisto sul mercato di parte delle terre da distribuire e la distribuzione dell'agro campano). Gli si opposero senatori,
tribuni, e il suo collega nel consolato; ma egli li ridusse al silenzio con la forza e ottenne il voto comiziale. Cesare non
limitò le assegnazioni ai soli veterani di Pompeo, avendo l’obiettivo di ripopolare le regioni agricole abbandonate;
inoltre previde l'inalienabilità dei lotti assegnati e la precedenza dei padri di famiglia con almeno 3 figli.
In compenso dei servigi resi ai suoi alleati, ottenne, per un quinquennio, il governo di due province: la Gallia Cisalpina
e la Gallia Narbonese. Sia l’estensione che la durata dell'incarico erano eccezionali, ma nel 59 i triumviri dominavano
sia il concilium plebis (che voto sulla prima provincia) che il senato, che su proposta di Pompeo aggiunse la seconda.
Cicerone cadde in disgrazia perché, nonostante la sua amicizia per Pompeo, non aveva voluto accettare le offerte di
collaborazione fatte dal gruppo al potere. Perciò Cesare favorì il passaggio alla plebe del patrizio Publio Claudio Pulcro
(Clodio), da tempo nemico dell'oratore, che avrebbe sicuramente contrastato una volta eletto tribuno.
Sotto questo profilo, Clodio non deluse le attese di Cesare, ma non per questo può dirsi un cesariano. La sua azione
politica, infatti, non coincise con quella di nessuno dei gruppi in lotta per il predominio nella repubblica. Sfruttando
tutte le occasioni capaci di procurargli alleanze utili e non rifuggendo dalla demagogia, riuscì a promuovere misure
capaci di andare incontro ai bisogni reali delle masse emarginate, dei diseredati, addirittura degli schiavi. Ciò spiega il
suo successo e le paure dei suoi avversari, la reazione decisa dei conservatori, che servendosi degli stessi mezzi violenti
che egli aveva largamente utilizzato, riuscirono alfine ad eliminarlo.
I suoi primi atti furono rivolti contro esponenti oligarchici e anticesariani (o almeno antitriumvirali): oltre Cicerone,
anche Marco Porcio Catone, della cui ingombrante presenza riuscì a disfarsi promuovendone l'invio a Cipro, con
l'incarico di organizzare la provincia insulare, proprio per ciò fatta creare. In altre occasioni assunse atteggiamenti ed
intraprese iniziative di stampo anticesariano o contrarie agli interessi di Crasso o di Pompeo. Egli costituì addirittura
delle bande armate, pronte a sostenerlo con la violenza e disposte ad imporre con ogni mezzo l'accoglimento delle sue
proposte legislative. Di queste, molte sembrano coerenti con la tradizione popolare. Così è ad esempio per la sua legge
frumentaria, che disponeva distribuzioni di grano gratuite alla plebe romana; un elemento di novità è la creazione di uno
strumento burocratico-amministrativo (un curator annonae, con il compito di procedere alla redazione dell'elenco degli
aventi diritto alle distribuzioni gratuite), predisposto in teoria solo per garantire un'efficace gestione del provvedimento,
ma per controllare politicamente l'inserzione nella lista degli aventi diritto e di usare questo potere amministrativo a fini
clientelari (il tribuno infatti fece in modo che l'incarico venisse affidato ad un suo uomo).
In altre occasioni le leggi di Clodio erano dirette a soddisfare le esigenze organizzative del suo movimento. È il caso
della lex de collegiis, con cui, liberalizzando il diritto di associazione, favorì la nascita di circoli dei suoi seguaci, che
così diventavano ancor più facilmente mobilitabili in caso di necessità.
Altre leggi da lui promosse erano volte a riaffermare le libertà popolari e ribadire (o ripristinare) i diritti costituzionali
dei cittadini; ad esempio, con una legge furono rimossi i limiti di ordine religioso che impacciavano le procedure
comiziali e che venivano spesso utilizzati per alterarne il normale funzionamento. Sempre in questo gruppo di leggi si
collocano i provvedimenti che egli fece votare, all'inizio del suo tribunato, contro Cicerone. Un primo plebiscito sancì la
pena dell'esilio per quei magistrati che, anche a seguito di un senatusconsultum ultimum, avessero ordinato l'uccisione
di un cittadino non condannato in un regolare processo (il riferimento alla uccisione dei catilinari era evidente). Un
secondo plebiscito dispose esplicitamente l'esilio di Cicerone per aver ordinato l'uccisione di cittadini romani senza
processo. I suoi beni vennero confiscati, la sua casa distrutta, furono dichiarati fuori legge coloro che l'avessero
ospitato.
L'esilio di Cicerone durò circa un anno e mezzo: nel 57 Pompeo, diffidente verso Cesare, Grasso e Clodio, decise di
avvicinarsi ai repubblicani e di consentire il ritorno del suo antico seguace, che poteva essergli ancora utile. Cicerone,
oltre ad aver perso la sua fiducia in Pompeo, non sperava più nemmeno nella possibilità della concordia ordinum, e
proponeva il consensus bonorum omnium. Con una rara larghezza di vedute, egli sosteneva che la difesa del sistema
repubblicano non dipendeva più solo dai 2 ordini privilegiati, ma anche dai piccoli proprietari, commercianti e liberti.
L'iniziativa fallì perché il programma era troppo generico e perché le classi medie non avevano nulla da guadagnare
dalla sopravvivenza della repubblica aristocratica, così com'era.
Nel 56, Pompeo si riavvicinò a Cesare e a Crasso. I 3 conclusero un nuovo patto, che prevedeva: un secondo consolato
(nel 55) per Pompeo e Crasso; per Pompeo, il governo delle 2 province iberiche con la facoltà di rimanere a Roma e
governare la Spagna per mezzo di legati; per Crasso, il governo della Siria; per Cesare, un altro quinquennio di
proconsolato in Gallia, che gli avrebbe permesso di portare a termine la conquista dell'intera regione. Le vittorie
galliche gli assicurarono, oltre alla formazione di un esercito agguerrito e devoto, notevoli mezzi finanziari con cui egli
riuscì a influire da lontano sull'attività politica in Roma e a comprare molti autorevoli senatori.
Nel 53 Crasso fu sconfitto e ucciso nella guerra contro i Parti, mentre a Roma raggiunsero il culmine e non fu possibile
procedere alle elezioni. L'anno 52 cominciò con una serie di interreges. In gennaio Clodio venne ucciso in uno scontro
fra bande e, di fronte alle violenze dei clodiani, la maggioranza del senato, compresi i repubblicani come Catone,
giudicò indispensabile affidarsi a un uomo forte e chiese l’intervento di Pompeo. I suoi partigiani avrebbero voluto
offrirgli la dittatura, ma, per evitare questo termine che da Silla in poi suonava sinistro, si fece in modo che egli fosse
eletto consul sine conlega e che cumulasse la titolarità di questa magistratura con quella dell'imperium proconsulare.
Pompeo, atteggiandosi a custode della legalità, restaurò l'ordine servendosi di truppe regolari e verso la fine del 52
ostentò un ritorno alla tradizione facendo eleggere un altro console (ma scelse il suocero Scipione Nasica). Con una
condotta ambigua, fece approvare provvedimenti volti a mettere in difficoltà i suo antagonista ed altri che, invece, gli
garantivano condizioni di privilegio: prima consentì l'approvazione di un plebiscito che autorizzava Cesare a presentare

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la candidatura al consolato prima di rientrare a Roma, ma poi fece approvare una lex che riconfermava in linea generale
l'obbligo per i candidati alle magistrature di essere presenti in città (e alla proteste di Cesare, fece inserire nel testo del
provvedimento che era stato già approvato e depositato nell'erario una ormai inutile clausola di dispensa per i rivale).
Per recarsi a Roma a porre la candidatura, Cesare avrebbe dovuto deporre l'imperium proconsulare, separarsi dal suo
esercito e tornare nella condizione di privato cittadino; così i suoi nemici avrebbero potuto metterlo sotto processo, se
non altro per le irregolarità che avevano accompagnato l'elezione del 59 e per i vari atti compiuti contro gli auspici e i
veti dei magistrati durante il primo consolato. Sino ad allora era sfuggito alle accuse solo perché dal 58 era stato sempre
proconsole; perciò, la sua unica possibilità era di candidarsi ed essere eletto mentre gestiva ancora il proconsolato e
assumere il nuovo consolato immediatamente dopo la scadenza del governo in Gallia.
Le contraddizioni fra le varie disposizioni fatte approvare da Pompeo provocarono negli anni seguenti discussioni
sempre più aspre. Nel 50, il senato dispose che Cesare e Pompeo deponessero insieme l'imperium proconsulare,
affinché nessuno dei due fosse in vantaggio rispetto all'altro, ma Pompeo non accettò ed, anzi, ottenne l'incarico
(illegale) di difendere la repubblica. Alla fine di dicembre Cesare comunicò al senato di essere pronto a deporre
l'imperium purché il rivale facesse altrettanto in ottemperanza della delibera dei patres; in caso contrario, avrebbe
provveduto lui stesso a liberare Roma dall'illegalità. Ma i senatori ritirarono la precedente decisione e deliberarono che
Pompeo conservasse l’imperium e Cesare congedasse il suo esercito. Fallito un ultimo tentativo di conciliazione da
parte di Cesare, nonostante il veto dei tribuni della plebe, fu approvato il senatusconsultum ultimum. Cesare, il 10
gennaio passò il Rubicone e scese verso Roma con una legione e Pompeo si ritirò con le sue truppe nella penisola
balcanica, fidando nell'appoggio che avrebbero potuto dargli città e principi orientali legati a lui da vincoli clientelari.
Buona parte del senato restò neutrale, incoraggiata da Cesare; gli altri senatori si divisero fra i due antagonisti. Forse
leggermente più numerosi furono quelli che seguirono Pompeo, ma si trattava in generale non di pompeiani, bensì di
repubblicani che non avevano nessuna fiducia nel loro capo. Anche Cicerone raggiunse Pompeo solo perché si sentiva
obbligato dagli antichi vincoli di amicizia.
Dopo aver fatto convocare il senato fuori del pomerio per poter partecipare alla seduta senza deporre l'imperium di
proconsole ed aver conferito (illegalmente) l'imperium pro praetore al tribuno della plebe Marco Antonio e ad altri suoi
ufficiali, Cesare, padrone dell'Italia, si recò in Spagna per combattere contro i luogotenenti di Pompeo, che costrinse
alla resa presso la città di Lerida. Poi si recò in Epiro nel 48 e strinse d'assedio Pompeo e le sue truppe a Durazzo, ma la
flotta pompeiana aveva il dominio dei mari ed impediva che gli giungessero i necessari rifornimenti. Si diresse allora
verso la Tessaglia. Pompeo lo seguì, senza però saper sfruttare il momentaneo vantaggio. Lo scontro avvenne a Farsalo.
La vittoria di Cesare (9 agosto 48) decise le sorti del conflitto. Dopo Farsalo alcuni dei repubblicani, come Cicerone,
Cassio Longino e Marco Giunio Bruto si arresero a Cesare, che ancora una volta diede prova di clemenza; i più decisi
resistettero per alcuni anni in Africa e in Spagna e molti caddero combattendo; altri, come Catone, si suicidarono.
Pompeo fuggì in Egitto, dove regnavano insieme, ma in contrasto fra loro, Tolemeo XIII e la sorella maggiore e moglie
Cleopatra, figli del sovrano a cui nel 55 aveva fatto restituire il regno perduto per un'insurrezione degli Alessandrini.
Sperava che per questo i due sovrani gli fossero amici e gli accordassero rifugio, ma i cortigiani del re lo fecero
assassinare. Cesare non poteva tollerare che un senatore romano, pur suo avversario, fosse impunemente ucciso in un
regno vassallo, né rinunciare a confermare la sua fama di vincitore clemente; perciò, quando sbarcò ad Alessandria, si
schierò con la regina contro Tolemeo XIII ed i suoi, che riuscì a sconfiggere nel 47. Con la relazione con Cleopatra,
Cesare mirava ad assicurarsi uno stabile controllo personale delle risorse di uno fra i territori più ricchi e appetibili del
nascente impero, mentre la regina ambiva ad accrescere il suo regno ed a porlo in una condizione, se non di
indipendenza, almeno diversa da quella degli altri stati vassalli di Roma.
La prima dittatura fu conferita a Cesare nel 49: in assenza dei consoli, fu il pretore Marco Emilio Lepido a procedere
alla dictio, ottenendone esplicita autorizzazione dai comizi. Assunta al suo arrivo in città la carica, Cesare non nominò il
magister equitum, ma indisse le elezioni dei magistrati ordinari, e si fece eleggere dai comizi console per il 48,
cumulando la carica con quella di dittatore. Rinnovata per 4 volte negli anni seguenti, la dittatura gli fu confermata a
vita agli inizi del 44. Tale carica, che formalmente fu sempre alla base del suo potere, venne accompagnata, anno per
anno, da magistrature o specifiche potestà od attribuzioni assunte anche indipendentemente dalle cariche di cui
originariamente erano espressione. Nella sua persona si accentrarono ben presto poteri enormi: oltre al comando
militare, a lui fu data così, intera, la direzione politica ed amministrativa della repubblica.
Le riforme di Cesare - Nell'ampia e non lineare legislazione cesariana, prescindendo dai provvedimenti congiunturali,
sono da ricordare, in riferimento allo scontro politico in atto, le leges de molestate e (forse) de vi (che prevedevano
probabilmente una persecuzione severa, ma che ammetteva ancora la provocatio) e la lex lulia iudiciaria del 46, che,
modificando il regime introdotto nel 70 dalla legge Aurelia, escluse dalle corti giudicanti i tribuni aerarii e stabilì che
l'albo dei giudici delle quaestiones fosse formato solo (in parti eguali) da senatori e da cavalieri con censo di almeno
quattrocentomila sesterzi.
I provvedimenti che incisero più direttamente sulle istituzioni della repubblica si inserivano in un filone già percorso da
Silla, ma miravano, oltre ad una maggiore razionalizzazione del sistema, all’ampliamento della classe politica romana e
all’integrazione strutturale e politica fra Roma, Italia e province. In quest’ottica va vista la scelta di portare a 900 i seggi
del senato e di chiamare esponenti di gruppi sociali diversi a ricoprire i nuovi posti e quelli che si erano resi vacanti a
causa della guerra civile. Entrarono così in senato: figli di proscritti sillani, riammessi a partecipare alla vita politica
dopo 30 anni di emarginazione; esponenti del ceto equestre; membri delle aristocrazie municipali; capi di civitates
celtiche della Gallia Transalpina, ai quali Cesare aveva donato individualmente la cittadinanza per la loro fedeltà alla

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repubblica. In questa direzione vanno anche la lex lulìa de provinciis, che vietò ai governatori di conservare l'ufficio per
più di 1 anno se ex-pretori, e per più di 2 se ex-consoli; le leges de magistratibus, che portarono gradualmente il
numero dei pretori a 16, quello dei questori a 40 e accrebbero il numero dei tresviri capitales e monetales.
Tra le sue leggi più spiccatamente sociali, quella agraria e quella de re pecuaria confermano l'abnorme estensione
dell'agricoltura latifondistica, le tensioni in essa esistenti, la rilevanza in essa della presenza servile.
La contrastata legge sui debiti e quella sulla remissione dei canoni mostrano come il partito cesariano dovette fare i
conti con gli interessi contrastanti dei vari strati sociali; ciò è evidenziato anche dal riordinamento delle frumentationes
e dalla revisione delle liste degli aventi diritto, che avviano l'istituzionalizzazione della beneficenza pubblica.
Anticipano temi che saranno poi cari alla restaurazione augustea, le disposizioni contro il lusso e quelle che vietavano ai
figli dei senatori lasciare la penisola, se non nello stato maggiore dei generali o al seguito di un magistrato e impedivano
a tutti i cittadini tra i 20 ed i 40 anni di restare lontano dall'Italia per più di 3 anni di seguito.
Oltre alla legislazione, per la comprensione del rapporto politica cesariana-diritto, non bisogna trascurare l'influenza che
egli personalmente esercitò su chi amministrava la giustizia, l'attività incisiva dei giuristi amici di Cesare e la notizia
secondo cui Cesare avrebbe avuto in animo di compiere una sistemazione del ius.
Accanto alla scelta degli strumenti con cui esercitare il potere effettivo, era importante per Cesare anche quella di forme
esteriori e simboli che attestassero la sua posizione di primato. Egli si ispirò in parte alla tradizione dei regni ellenistici,
in alcuni dei quali il sovrano era considerato un dio vivente: fece coniare monete con la sua effige e mutare il nome del
settimo mese dell'anno (quintilis) in cui era nato nel 100, in lulius.
Era possibile anche un collegamento con la monarchia romana primitiva, poiché Cesare teneva a ribadire l'origine
divina della gens Iulia, che attraverso Iulo si collegava ad Enea (capostipite dei re di Alba Longa e di Romolo), quindi
alla dea Venere: egli fece infatti collocare una sua statua vicino a quella degli antichi re, ma sarebbe stata follia
assumere il titolo di rex, che ormai a Roma era sinonimo di tiranno. D'altra parte, un'aureola carismatica circondava già
il dittatore a causa delle sue vittorie; pertanto, l'abitudine di portare gli abiti e i calzari tradizionalmente attribuiti ai re
antichi può spiegarsi anche col fatto che il costume regale coincideva con quello del vincitore nel giorno del trionfo.
Cesare fu il primo a rendere permanente il titolo di imperator, che i generali fino allora avevano portato dal giorno della
vittoria a quello del trionfo. Durante il corteo trionfale, il vincitore era assimilato a Giove: conservando il titolo e l'abito,
Cesare si trasferiva definitivamente in una sfera sovrumana.
L'organizzazione dell'Italia dopo la guerra sociale — L’organizzazione dell'Italia dopo la guerra sociale si basò
sull’uso dei municipia come strumento di amministrazione locale. Al contrario di quanto avvenuto in precedenza, in si
registra una tendenza verso l'unificazione del tipo delle strutture cittadine; il mutamento è dovuto ai cambiamenti del
quadro politico generale, alle diverse dimensioni assunte dal fenomeno e al fatto che spesso bisognava sovrapporre le
strutture formali della civitas a realtà sociali e materiali non ancora completamente evolute in tal senso.
Si discute in dottrina sull’esistenza e la portata di una lex lulia municipalis, che avrebbe segnato un'importante tappa nel
processo di unificazione delle strutture dell'autonomia locale. Una lex municipalis di portata generale è conosciuta dai
giuristi tardoclassici e non può collocarsi in un periodo posteriore ad Augusto; le fonti sembrano attribuirla a Cesare,
alla cui visione accentratrice essa si adatta. Per quanto riguarda la portata, in relazione sia allo specifico oggetto che a i
rapporti con gli statuti delle singole comunità cittadine, in mancanza di fonti, il problema non può esser affrontato.
Municipia e coloniae rimasero diversificati quanto a presupposti di impiego, ma emerge la tendenza all’unificazione dal
punto di vista della disciplina giuridica. I primi sono adoperati per i territori italici ammessi nella civitas dopo la guerra
sociale e, perdendosi la distinzione fra civitates di municipes optimo iure e di cives sine suffragio, tutti i municipia
sono, nella prima metà del I secolo, comunità di cittadini di pieno diritto. Le seconde continuano a svolgere la funzione
di promozione dell'insediamento in un territorio di nuovi abitanti, quali cittadini di pieno diritto, con la creazione di una
città, non più solo in Italia, ma anche nelle province, soprattutto occidentali.. Ha luogo in questo periodo la progressiva
municipalizzazione degli altri tipi di circoscrizioni territoriali conosciuti in età repubblicana, formalmente trasformati in
municipia o, in una fase di transizione, sostanzialmente trattati come tali, pur conservando le vecchie denominazioni.
Anche per la tipologia della magistrature locali, nel periodo anteriore alla guerra sociale molto variata, nel I secolo a.C.
si nota una tendenza verso l'unificazione formale e sostanziale. Dal punto di vista formale, si hanno 2 modelli alternativi
per le magistrature superiori, entrambi presupponenti una distinzione funzionale fra attività giurisdizionale e di governo
e attività amministrativa e di polizia. Nel I modello si ha un collegio unitario di 4 magistrati, all'interno del quale si
individuano 2 coppie: i quattuorviri iure dicundo, di dignità superiore, che si occupano della giurisdizione e dell'attività
di governo della città; i quattuorviri aediles, di dignità inferiore, che si occupano dell'amministrazione e della polizia.
Nel II modello, ferma restando la sostanza e il numero di magistrati, si hanno 2 collegi indipendenti l'uno dall'altro: i
duoviri iure dicundo e gli aediles. Dal punto di vista sostanziale, non risulta che tali distinzioni comportassero una
differente disciplina dei poteri attribuiti ai magistrati. In dottrina si è spesso cercato di spiegazione di questa alternativa;
si è attribuito il modello quattuorvirale ai municipi e quello duovirale alle colonie; ma, nonostante ciò corrisponda a
quanto si presenta nelle fonti con una certa regolarità, le eccezioni sono molte e non tutte razionalmente spiegabili.
La tendenza all'unificazione, già rilevabile dall'emanazione di un'unitaria lex municipalis, è attestata anche dalla
disciplina cui erano sottoposte le comunità locali. L’estensione della materia trattata da tale legge e i suoi più precisi
rapporti con gli statuti locali sfuggono ad una più concreta determinazione, allo stato della dottrina.
Dalle Idi di marzo alla battaglia di Azio. La fine della repubblica - Progetti per l'eliminazione di Cesare erano già
stati più volte formulati, ma un successo nella guerra contro i Parti avrebbe consolidato il suo regime personale, per cui,
pochi giorni prima della partenza per la guerra partica, il 15 marzo del 44, mentre si accingeva a presiedere una seduta

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del senato, Cesare fu ucciso. Alla congiura presero parte sia repubblicani che avevano combattuto nella guerra civile ed
erano stati graziati (come Marco Giunio Bruto), sia cesariani, come Decimo Bruto.
I motivi dei 2 gruppi erano più vicini di quanto si potrebbe credere: i repubblicani avevano ceduto allo scoraggiamento
dopo le sconfitte sul campo, ma molti di essi si giustificavano con la speranza che Cesare avrebbe restaurato la legalità;
speranza che appariva ormai assurda. Anche fra i cesariani v'erano personaggi legati agli schemi tradizionali della
politica aristocratica, che erano scesi in campo per la vittoria della propria fazione e sì accorgevano in ritardo di essersi
battuti per un solo uomo. È possibile che abbiano partecipato anche quanti avevano creduto in Cesare come rinnovatore
e riformatore della società romana, salvo poi convincersi che i suoi atteggiamenti democratici fossero solo strumentali.
La posizione dei repubblicani era debole, perché nessuno di loro (nemmeno Cicerone, che i congiurati, pur avendo agito
senza di lui, consideravano loro guida) aveva importanti clientele fra la plebe urbana. I cesariani avevano in mano le
leve del potere (Marco Antonio era console e Lepido, come magister equitum, controllava le truppe presenti nei dintorni
di Roma), ma erano disorientati e discordi poiché pochi erano disposti a riconoscere il primato di Antonio o di Lepido.
La situazione favoriva un compromesso; il console s'impegnò a non perseguire i cesaricidi, ottenendone che tutta la
legislazione emanata durante la dittatura restasse in vigore. In primo tempo il console guadagnò terreno: si ebbero
dimostrazioni ostili contro Bruto e Cassio, che furono costretti a lasciare Roma. Per tenerli lontani egli affidò loro il
compito di curare i rifornimenti di grano inviati dalla Sicilia e dall'Asia. Ma il testamento di Cesare, che nominava
erede il pronipote Gaio Ottavio e lo adottava come figlio, mutò l'equilibrio delle forze. Ottavio, secondo l'uso, assunse il
nome di Gaio Giulio Cesare Ottaviano; fra i contemporanei solo i suoi avversari lo designavano con il cognome, per
sottolineare che il ramo della gens Ottavia da cui egli discendeva non apparteneva alla nobilitas.
Secondo gli acta Caesaris, ratificati dal senato, all'inizio del 43 Antonio avrebbe dovuto assumere il governo della
Macedonia, ma egli, non volendo lasciare l'Italia e ricordando quanto importanti erano state le Gallie come base per
Cesare, fece votare dal comizio tributo una legge che gli assegnava per 5 anni la Gallia Transalpina e la Cisalpina. Il
proconsole della Cisalpina, Decimo Bruto, uno dei cesaricidi, non volle cedere, e difese con le armi il suo territorio.
Apparentemente Antonio era dalla parte della legalità, ma Cicerone sostenne l’invalidità della legge perché estorta con
la violenza e non promulgata e convinse il senato che il destino della repubblica si sarebbe deciso in questo conflitto.
I consoli del 43 furono incaricati di raccogliere truppe e di muovere in soccorso di Decimo Bruto, assediato da Antonio
a Modena. Ottaviano fece professione di fedeltà alla repubblica e seguì i consoli con 2 legioni di veterani che si erano
messe ai suoi ordini, disertando da Antonio. Cicerone, pur con qualche diffidenza, ritenne indispensabile valersi del suo
appoggio, e, per legittimare il suo comando, gli fece conferire l'imperium pro praetore da privato. Antonio fu battuto,
ma salvò parte dei suoi uomini e si ritirò nella Gallia Narbonese, ove si unì a Lepido.
In seguito alla morte di uno dei 2 consoli vittoriosi, Ottaviano assunse il comando dell'intero esercito, marciò su Roma e
occupò la città. Quindi, per dare una parvenza di legalità al suo agire, con formale rispetto per la tradizione, uscì dal
pomerio e si fece eleggere consul suffectus dai comizi convocati da improvvisati promagistrati. Tra i suoi primi atti,
fece ratificare con lex curiata la sua adozione da parte di Cesare e approvare una legge proposta dall'altro console, che,
annullando l'amnistia dell'anno precedente, istituiva una quaestio straordinaria per la persecuzione dei cesaricidi,
prevedendo aquae et igni interdictio e confisca dei beni per i congiurati e premi per i delatori.
Console e padrone di Roma, Ottaviano poteva ormai trattare da una posizione di forza con Antonio e Lepido. Nel 43 un
plebiscito proposto dal tribuno Publio Tizio conferì loro il titolo di tresviri reipublicae constituendae. La lex Titia,
votata senza rispettare il trinundinum, mirava a dare forma legale ai poteri assoluti che i 3 avevano deciso di assumere
durante un incontro svoltosi nei pressi di Bologna, ove era stato sigillato e sottoscritto un trattato in cui veniva
riaffermato l'impegno di una lotta ad oltranza nei confronti degli uccisori di Cesare e si spartivano i comandi, le legioni,
i territori accordati reciprocamente ad ognuno. Ad Antonio fu conservato il governo della Gallia Cisalpina e Comata; a
Lepido quello della Narbonese e della Spagna; ad Ottaviano fu attribuito il comando sull'Italia, sulle due province
d'Africa, sulla Sicilia e sulla Sardegna (queste ultime di fatto controllate da Sesto Pompeo).
A differenza di quello costituito nel 60 da Pompeo, Cesare e Crasso, un mero accordo politico di natura privata, questo
secondo triumvirato assunse la forma di una vera e propria magistratura. Una magistratura straordinaria collegiale, di
durata quinquennale, con potere costituente come quello attribuito a Silla dittatore. Un potere illimitato e che gestivano
come tale, mentre ogni altra autorità era in pratica paralizzata; alle normali magistrature, rese tutte subordinate,
venivano elette solo persone da loro designate; nel senato erano immessi in gran numero loro partigiani.
Il giorno dopo l'approvazione della legge Tizia venne affissa in Roma una prima lista di proscritti. Le proscrizioni erano
motivate non solo dal fine dei triumviri di sbarazzarsi della classe dirigente avversaria, ma anche dall'enorme bisogno di
denaro che li spingeva ad impadronirsi del maggior numero possibile di ricchi patrimoni da mettere all'incanto per far
fronte alle spese necessarie per il mantenimento degli eserciti e per soddisfare le richieste dei soldati e dei veterani.
Uno dei primi ad essere ucciso fu Cicerone, abbandonato da Ottaviano alla vendetta di Antonio.
I cesaricidi superstiti si erano assicurati il controllo delle province orientali e non intendevano fare atto di sottomissione.
Nel 42 Antonio e Ottaviano affrontarono i repubblicani in Macedonia, e dopo alterne vicende ebbero la meglio: il
suicidio di Bruto e Cassio suggellò la fine della libera res publica. Terminata la campagna, Antonio si trasferì nelle
province orientali, sia per raccogliere fondi a spese delle città che avevano sostenuto la causa perdente, sia per risolvere
il problema dei Parti, che, dal tempo di Crasso in poi, si erano sempre considerati in guerra con Roma e costituivano
una perpetua minaccia per la Siria. A Lepido furono affidate le province africane, chiaro preludio alla sua
emarginazione. Ottaviano tornò in Italia col compito di congedare i veterani e di assegnar loro le terre che da tempo
aspettavano, ma si trovò in una posizione difficilissima. L'agro pubblico era esaurito e mancavano i mezzi per

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provvedere all'acquisto di terre da distribuire, ma i legionari italiani pretendevano di restare in Italia. Fu dunque
necessario procedere ad una vasta serie di confische, che colpirono soprattutto la media e la piccola proprietà. Inoltre, in
Italia, sebbene i ceti medi fossero in teoria repubblicani, non c'era stato alcun movimento a favore di Bruto e Cassio, per
cui non esistevano nemici dichiarati da punire con la confisca dei beni, e le vittime furono scelte a caso.
Uno dei consoli del 41, Lucio Antonio, fratello di Marco, si mise alla testa degli scontenti, proclamando fra l'altro che il
triumvirato non aveva più ragion d'essere e che occorreva restaurare l'ordinamento repubblicano tradizionale. Dopo vani
tentativi di accordo, esplose una nuova guerra civile. Ottaviano era sull'orlo della completa rovina, ma fu salvato dal
fatto che gli amici di Marco Antonio presenti in Italia con le loro legioni, non comprendendo e non apprezzando la
politica del console, restarono neutrali. Lucio fu costretto a rinchiudersi in Perugia, e si arrese dopo un lungo assedio:
egli fu risparmiato, in omaggio al fratello, ma Ottaviano infierì contro la città e i suoi abitanti.
Gli anni seguenti furono impiegati da Ottaviano nel tentativo di consolidare la sua posizione e conquistare popolarità.
Il problema più grave per l'Italia era rappresentato da Sesto Pompeo, figlio di Pompeo Magno, che disponeva di una
potente flotta con cui aveva conquistato la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, e dominava il Mediterraneo occidentale
mettendo in crisi i rifornimenti di grano destinati a Roma. Nel 36 Ottaviano, grazie soprattutto alla collaborazione di
Agrippa, riuscì a battere Pompeo (che si rifugiò in oriente, ove fu sopraffatto e ucciso dalle truppe di Antonio). Così
poté vantarsi di aver posto fine alla carestia e si atteggiò a pacificatore, sottolineando tale funzione distruggendo i
documenti mediante i quali si sarebbero potuti individuare e incriminare coloro che avevano parteggiato per Pompeo. Il
rapido miglioramento della situazione economica permise ad Agrippa di iniziare una vasta serie di lavori pubblici,
destinata ad abbellire la capitale e ad assorbire in parte la mano d'opera disoccupata. Infine Ottaviano, al quale un
plebiscito del 36 aveva riconosciuto a vita uno ius tribunicium comportante una sacrosanctitas simile a quella dei tribuni
della plebe, cominciò a ostentare grande rispetto per le prerogative dei magistrati ordinari, astenendosi dall'interferire
nelle loro attività, come avrebbe potuto grazie ai poteri triumvirali.
Il triumvirato, d'altronde, sebbene rinnovato per un secondo quinquennio (37-33) nel 37 con un plebiscito, era ormai un
vuoto nome, poiché nel 36 Lepido, che aveva tentato invano di occupare e tenere per sé la Sicilia dopo la fuga di Sesto
Pompeo, era stato del tutto esautorato e conservava solo la carica sacerdotale di pontefice massimo.
Antonio riteneva suo compito ristabilire in oriente il prestigio delle armi romane e sperava che una grande vittoria sui
Parti gli avrebbe assicurato la supremazia sul collega e rivale Ottaviano. Ma, mentre le campagne in difesa della Siria
condotte dai suoi ufficiali erano state coronate dal successo, quando egli assunse personalmente il comando e invase il
territorio partico subì una dura sconfitta, insufficientemente mascherata dalla conquista dell’Armenia.
La relazione con Cleopatra, iniziata fin dal momento del suo arrivo in oriente, gli era utile dal punto di vista finanziario,
ma fu disastrosa sul piano politico, poiché permise a Ottaviano di presentarlo come succubo di una regina straniera e
dimentico dei suoi doveri di cittadino e magistrato romano. È lecito supporre che, almeno nei primi anni, Antonio fosse
convinto di agire nel rispetto della tradizione, ma quando egli distribuì l'Armenia e altri territori fra Cleopatra, i 3 figli
avuti da lei e quello di Cleopatra e di Cesare, conferendo a questi ultimi il titolo di re o di regina, apparve chiaro che
stava seguendo una sua politica di carattere dinastico; tanto più che accettava di essere venerato come il nuovo dioniso.
Nel 32, Ottaviano e Antonio, che oramai imperavano su due parti nettamente distinte del dominio romano, si sentirono
pronti per lo scontro decisivo. I consoli dell'anno, partigiani di Antonio, appena assunta la carica attaccarono in senato
Ottaviano, che si era allontanato da Roma, accusandolo di non aver abdicato alla magistratura triumvirale alla scadenza
del termine e annunciando una proposta di revoca dei suoi poteri. L'iniziativa fu bloccata dal veto di un tribuno amico di
Ottaviano, ma fornì a quest'ultimo, tornato in città con gran seguito di partigiani, di sferrare una violenza controffensiva
in una successiva riunione del senato che egli stesso convocò ed alla quale partecipò, sedendo ostentatamente in mezzo
ai consoli sulla sella curule, secondo le prerogative dei triumviri. Difese le ragioni del suo comportamento e dichiarò di
esser disposto a tornare privato cittadino solo a condizione che Antonio facesse 1o stesso venendo a Roma dall'Oriente.
Scoraggiati dalla mancanza di reazione del senato e intimoriti dalla possibilità che Ottaviano aveva lasciato intravedere
di servirsi contro di loro della forza in base ai poteri che rivendicava e che in ogni caso era in grado di utilizzare, i
consoli abbandonarono la città insieme a 300 senatori della loro parte per riparare in Oriente.
Ancora una volta Ottaviano restava padrone assoluto di Roma, non più da triumviro, ma in virtù della forza militare di
cui disponeva, da semplice cittadino investito solo della inviolabilità tribunizia riconosciutagli nel 36. La partita ormai
si giocava tutta sul piano politico e militare e Ottaviano sapeva che per affrontare con successo la nuova guerra civile
che si profilava aveva bisogno di un consenso sociale che permettesse alla sperata vittoria di legittimare il suo dominio
di fatto sulla repubblica. A ciò egli si dedicò ricorrendo ad ogni mezzo per screditare Antonio. Appreso che egli aveva
affidato il suo testamento alla custodia delle Vestali, se ne impadronì, lo ruppe e osò divulgarne il contenuto. Fra le
disposizioni vi erano il riconoscimento dei figli avuti da Cleopatra (che aveva sposato dopo aver ripudiato Ottavia,
sorella di Ottaviano) e la volontà di essere sepolto ad Alessandria accanto alla moglie. Lo scandalo suscitato dalla
sottrazione del testamento alle sacerdotesse e dall'averle aperto mentre il testatore era ancora vivo non valse ad
attenuare l'effetto disastroso per Antonio.
Verso la fine dell'autunno, tutto l'Occidente si unì in un solenne giuramento di obbedienza ad Ottaviano e gli chiese di
assumere il comando di quella che era diventata una crociata contro le minacce provenienti da Oriente. Fu una
legittimazione politica, non avendo alcun valore giuridico-costituzionale, che non poteva supplire al consenso del
popolo prestato nelle debite forme al magistrato. Ma quel plebiscitario giuramento di fedeltà, che Ottaviano trasformò
nel fondamento legale del suo agire, realizzò la mobilitazione di cui aveva bisogno per intraprendere l'ultima guerra
contro Antonio, che gli avrebbe consentito di impossessarsi per generale consenso della totalità del potere.

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Come sacerdote feziale, egli compì il rituale che accompagnava la dichiarazione di un bellum iustum, non ad Antonio,
ma a Cleopatra. La mossa impressiono anche gli antoniani più autorevoli, che durante la campagna esortarono il loro
capo ad allontanare Cleopatra per non confondere la sua causa con quella della regina, ma invano. Alcuni senatori, che
dapprima avevano sostenuto Antonio, si schierano con Ottaviano e lo stesso stato d'animo si diffuse fra i legionari.
Nell'estate del 31 a.C., ad Azio, Antonio si era lasciato attirare in una posizione sfavorevole e la sua flotta era bloccata
da quella di Agrippa; inoltre, egli non poteva più aver fiducia nell'esercito; perciò decise di abbandonare le sue truppe e
di raggiungere l'Egitto; ma nel corso di questa manovra perse oltre metà delle sue navi, e con esse ogni speranza di
poter continuare guerra. Nel 30 a.C. Ottaviano arrivò ad Alessandria; Antonio e Cleopatra, ormai completamente isolati,
si uccisero, e l'Egitto divenne una provincia romana.

IL PRINCIPATO
Optimi status auctor: il principato di Augusto - Dalla guerra aziaca Ottaviano usciva con un enorme potere, cui però
doveva dare una veste legale, creando i presupposti costituzionali per il suo esercizio, di fatto monarchico, conservando
nello stesso tempo il quadro istituzionale repubblicano per il quale aveva lottato. Si trattava di creare un regime. Da ciò
il procedere caratteristico della politica di Augusto tra il 31 e il 27 a.C., con una peculiare tendenza al compromesso, nel
senso che tale politica fu estremamente prudente e sempre incline a mediare tra i contrastami interessi di classe,
favorendo la creazione di un nuovo equilibrio sociale e tentando di contemperare le esigenze dei ceti vittoriosi con
quelle dell'ordo uscito sconfitto dalle lotte civili.
Finita la grande paura con l'instaurazione della pace, ad Ottaviano, forte di un larghissimo consenso sociale spettava ora
ii compito della restaurazione della normalità nei vari settori della vita sociale e politica. Questa normalizzazione,
condotta in modo lento e prudente, consistette nel calare, in forme ideali repubblicane, la realtà di un potere personale
assoluto. Che il problema non fosse facile è indicato dalla gradualità con cui esso venne affrontato e dalla riluttanza di
Ottaviano ad abbandonare una reale posizione di potere finché non fosse pronta una soluzione alternativa validamente
gestibile. Così egli fino al 27 mantenne una posizione difficilmente sostenibile su un piano strettamente costituzionale,
giustificandola sulla base di una nozione di origine extragiuridica e di natura politico-ideologica quale era il consensus.
Nel 32, scaduti i poteri straordinari conferiti dalla lex Titia ai triumviri nel 43 e rinnovati per il quinquennio 38-33, egli
poteva contare sul giuramento dell'Italia e delle province occidentali e sulla sacrosanctitas e sul ius auxilii spettanti ai
tribuni della plebe e conferitigli nel 36. Inoltre, dal 31, assunse ogni anno il consolato, con evidente incostituzionalità e
nel 30, dopo la morte di Antonio, in 3 successivi senatoconsulti si fece conferire altre potestà tribunizie.
La sistemazione dell'Egitto è un esempio della strategia con cui Ottaviano si mosse nella progressiva costruzione del
nuovo ordinamento. L'Egitto presentava caratteri sociali e culturali abbastanza singolari; in esso convivevano 2 culture,
l'egizia e l'ellenistica, talora fuse ma più spesso solo giustapposte, ed a cui ora veniva ad aggiungersene una terza.
Ottaviano aggiunse l'Egitto all'impero del popolo romano, dotandolo di un'amministrazione direttamente ordinata
dall'imperatore che le aveva aggiunto a quell'impero; il suo governo venne affidato attraverso una lex data ad un
funzionario di rango equestre, il praefectus Alexandreae et Aegypti. Ai senatori fu invece addirittura vietato l'accesso
all'Egitto. Erano in tal modo soddisfatte fondamentali esigenze di opportunità e di sicurezza: da un lato si concedeva
agli Egiziani qualcosa che li compensava della perdita del loro re-dio, con il rappresentante diretto dell'imperatore
romano; dall'altro si evitavano, escludendo un funzionario di rango senatorio, ambizioni pericolose per la pace in quel
momento conquistata. In questo senso appare istruttiva la vicenda politica di Cornelio Gallo, primo prefetto d'Egitto,
con la sua ascesa fulminea e con la sua rapida fine. Tra gli altri provvedimenti, l'autorità della casta sacerdotale fu
ridimensionata, il sistema fiscale fu riordinato e orientato per il mantenimento della plebe romana e furono modificati
anche l'ordinamento tributario e le strutture amministrative. La creazione della prefettura egiziana fu la prima breccia
nell'ordinamento repubblicano e il primo passo per la costruzione del novus status.
Il rapporto con il senato fu uno dei punti cruciali della politica di Ottaviano, specie in questa prima fase del principato.
L'interdizione ai senatori di entrare nel territorio egiziano rifletteva i sentimenti di diffidenza e di sospetto che provava
Ottaviano nei suoi confronti e l’acquiescenza del massimo organo dello stato nei confronti del nuovo signore. Subito
dopo la morte di Antonio, il senato emanò 3 senatoconsulti, ratificati poi da plebisciti, conferendo ad Ottaviano il ius
auxilii esteso oltre il pomerium sino al primo miliario, il potere di giudicare sugli appelli proposti contro atti di
magistrati ed il calculus Minervae, il potere di integrare con un suo atto di grazia il voto mancante per l'assoluzione.
L'umiliazione cui era sottoposto il senato e la rinuncia alle sue prerogative non riuscì a conciliargli la benevolenza di
Augusto che, per epurarlo dai suoi avversari, nel 29 fece una prima lectio senatus. Non fu quella grande opera di
moralizzazione che la sua propaganda andavano divulgando: tra dimissioni ed espulsioni, non furono più di 190 quelli
che abbandonarono l'assemblea, dei più di 1000 che allora la componevano. Ma Ottaviano raggiunse l’obiettivo che si
era prefisso, quello di avere un corpo più omogeneo, malleabile e disponibile agli ulteriori sviluppi della sua politica.
Da questo corpo egli si fece proclamare princeps, richiamandosi ad un titolo che era stato illustrato dalla tradizione
repubblicana. Con lo stesso spirito, assunse stabilmente il praenomen di Imperator; così facendo, Ottaviano compì un
passo decisivo nella demolizione del vecchio ordinamento. Per esso, i cives Romani erano come assimilati ai soldati;
svaniva così la distinzione fondamentale tra imperium domi ed imperium militiae; e soprattutto, con la trasmissibilità
del praenomen al figlio primogenito, si creava un presupposto determinante per un mutamento della forma istituzionale,

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introducendo abilmente un principio fondamentale della concezione monarchica, l'aspettazione cioè della successione.
Le forme costituzionali del principato - Il problema fondamentale di Augusto era quello di tradurre forme
costituzionali il suo formidabile potere. Il biennio 28-27 a.C fu dedicato a tale scopo. Con ogni probabilità già nel corso
del 28 cominciò il processo di normalizzazione: Ottaviano divise i fasci consolari con l'altro collega, restituì
all'amministrazione senatoria la provincia d'Asia, abolì le norme triumvirali eccezionali ripristinando la legislazione
ordinaria, propose provvedimenti riguardanti l'amministrazione finanziaria, la giurisdizione, il divieto di culti stranieri.
Nelle sedute senatorie del 13 e del 16 gennaio del 27 venne ufficialmente adottata la nuova sistemazione costituzionale.
Nella seduta del 13 Ottaviano dichiarò al senato di voler restituire la res publica, ma più o meno spontanee profferte
convinsero Ottaviano, dopo la debita riluttanza, a recedere dalla sua decisione. Conservando il consolato, egli assunse
un imperio speciale sulle province non pacatae, mentre i proconsoli avrebbero governato le altre province come prima,
rispondendone direttamente al senato. Il popolo, il senato, le magistrature avrebbero ripreso l'esercizio legittimo delle
loro funzioni. Il 16 gennaio il senato tornò a riunirsi, per ringraziare Ottaviano del gesto e per conferirgli onori adeguati:
gli fu decretata la corona di alloro, dedicato in senato uno scudo aureo con iscritte le sue virtù e conferito il titolo di
Augustus, cioè lo stesso titolo dell'augustum augurium con cui era stata fondata Roma, quasi a conferma della sua
ambizione di nuovo Romolo ed a riconoscimento della sua posizione eccezionale nel quadro del nuovo ordinamento
costituzionale. Veniva così fondato lo stato dell'auctoritas.
Come non bisogna sopravvalutare il riordinamento costituzionale del 27, così neppure si deve sottovalutarlo. Nella
sostanza, Augusto prese solo quanto poteva effettivamente servirgli: il consolato ed un gruppo di province con gli
eserciti ivi stanziati. Quanto all'aspetto ideologico, l'auctoritcìs costituiva l'asse sul quale poteva reggersi un equilibrio
non precario fra il potere monarchico di Augusto e la costituzione formalmente repubblicana. Auctoritas era un arcaico
concetto giuridico e sacrale, richiamato in vita da Ottaviano, che serviva ad esprimere la particolare posizione del nuovo
princeps dentro lo stato romano e gli consentiva di aprirsi nuovi spazi nei suoi interventi nella vita politica e culturale.
Proprio su presupposti ideologico-sacrali impliciti nell'auctoritas si fonda l’utilizzazione di una vecchia struttura, il
respondere, nuovo nella forma in cui lo utilizzerà Augusto, il ius publice respondendi. Attraverso tale iniziativa,
Augusto legava alle sorti del principato la giurisprudenza romana, il cui prestigio, seppure scosso durante gli anni delle
rivoluzioni, era rimasto elevato. All'interno di questo ambiente, Augusto introduceva nuovo strumento d'intervento
giuridico-politico, quando, nel farsene garante, rafforzava l’auctoritas del giurista e concorreva ad attribuire forza
vincolante ai responsa, emessi ex auctoritate sua. Sulle stesse basi giuridico-sacrali, all’auctoritas si connette il concetto
di maiestas: con una lex lulia, nell'8 a.C., anche al princeps si estende la tutela relativa al crimen maiestatis.
Non potendosi parlare di una restaurazione della repubblica, senza restituirne almeno le forme, Augusto ripristinò i
comizi e le elezioni per le magistrature; tuttavia, l’uso di espedienti tecnici con i quali interveniva direttamente nei
comizi assicurava il controllo delle elezioni magistratuali e le svuotava di sostanziale significato. Per rispondere a nuove
esigenze, anche degli ambienti tradizionalisti, nel 26 istituì la praefectura urbis, nominando alla carica un senatore.
Quale che sia l'interpretazione da dare all'immediata rinuncia di Valerio Messalla Corvino, va riconosciuto che Augusto
non aveva scelto l'uomo più docile ed accomodante per la gestione della nuova carica.
Augusto non cessa di tributare omaggi formali al senato, ma tenta di vanificarne i poteri effettivi, creando nel 27 il
consilium principis, una commissione preposta all'esame ed alla discussione di quanto avrebbe costituito oggetto dei
lavori del senato, che così veniva chiamato solo a ratificare le deliberazioni prese nel più ristetto consesso egemonizzato
dal princeps. Bisognava tener sempre conto dell’inquietudine e delle resistenze della nobilitas, che tra il 25 ed il 24 si
espresse in congiure; furono anche gli anni della dura e spieiata guerra di Spagna, conclusasi solo nel 10, ad opera di
Agrippa, nei quali Augusto vide la salute vacillare.
Augusto riprese immediatamente in pugno la situazione. Il nuovo assetto costituzionale del 23 può considerarsi la vera
data di inizio del principato. Augusto procedette in maniera esemplare, eliminando il superfluo e conservando, anzi
rafforzando, l'essenziale: depose il consolato, che aveva mantenuto ininterrottamente sin dal 32, ed assunse l'imperium
proconsulare maius ed infinitum su tutto l'impero: esso non era delimitato da determinazioni spaziali ed era superiore a
quello degli altri proconsoli nelle province, che erano ridotti, di fatto se non di nome, alla funzione di legati di Augusto.
Dal 1° luglio del 23 assunse la tribunicia potestas a vita e nella sua piena estensione, aggiungendone la denominazione
alla sua titolatura. L’iniziativa determinava in senso dichiaratamente monarchico il novus status instaurato nel 27: in
effetti, fin dal 36 Augusto godeva della sacrosanctitas tribunizia e nel 30 aveva ottenuto alcuni poteri di legiferare, che
peraltro non sembrano esser stati mai utilizzati. Ora Augusto pensa di esercitare la tribunicia potestas come parziale
contropartita del consolato e per potere disporre delle funzioni di una magistratura straordinaria. Non tribuno della
plebe, egli aveva tutta la potestas dei tribuni; come loro, poteva far votare plebisciti con vigore di legge convocare il
senato, usare il diritto di veto. In più, aveva l'auctoritas, che rafforzava i poteri delle singole magistrature.
Augusto non aveva bisogno di altri poteri: egli rifiuterà sempre la dittatura, assumerà solo in casi eccezionali il
consolato, solo nel 2 a.C. accetterà, dopo varie esitazioni, il titolo di pater patriae. Se l'imperium proconsulare maius et
infinitum costituirà la base militare del suo potere nelle province, la tribunicia potestas ne rappresenterà quella
costituzionale, in cui la forma repubblicana era conservata, la base monarchica assicurata. Sulla base della tribunicia
potestas si computeranno gli anni di regno dei singoli imperatori.
I rapporti con il senato - II fatto fondamentale del principato é, dal punto di vista costituzionale, il sovrapporsi di un
potere egemone ai poteri tradizionali dello stato repubblicano, il popolo e il senato. Augusto, se come imperator aveva
assunto la rappresentanza diretta del populus, doveva cercare di definire i rapporti con il senato, compito reso ancor più
complicato dalla natura stessa del senato, un corpo dalle caratteristiche poco definite, e quindi difficili da limitare, ma

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che nello stesso tempo costituiva il baluardo ideologico di una nobilitas gelosa delle proprie prerogative e legata al
vecchio ordinamento per ragioni sia di carattere ideologico che materiale. Augusto riuscì perché seppe tenere conto di
queste esigenze ed ebbe la forza di non stravincere: conservò al senato funzioni e prerogative che, se non intaccavano la
sostanza del suo potere, giustificavano l'esistenza dell'ordo.
Certe tendenze della spesso filosenatoria storiografia antica, certe espressioni di Augusto nelle Res Gestae e l'autorità di
Mommsen sulla storia costituzionale romana hanno fatto accettare la tesi di una diarchia tra senato ed imperatore.
Questo era quello che voleva far credere Augusto, nell'instaurare il nuovo ordine, ma sarebbe fuorviante parlare di una
divisione eguale dei poteri. In realtà ineguale, il senato conservò l'investitura, cioè il potere di designare il princeps, ma
in realtà di ratificare legalmente la scelta; infatti furono assai rari i casi, anche durante il principato, in cui il senato
intervenne nella scelta del principe (se ne può parlare solo per Nerva). In linea di principio, l'investitura stava nel
conferimento dell'imperium e della tribunicia potestas, ma il senato si contentava di conferirli al personaggio che si
imponeva o che gli si imponeva. Essa assunse un significato sempre più formale: per Vespasiano l'inizio ufficiale del
regno fu il giorno della sua proclamazione da parte dell'esercito; da Diocleziano addirittura non fu più richiesta.
Indubbiamente, il ruolo del senato, come corpo, fu tutt'altro che irrilevante nel principato. In linea di principio, il
princeps presta al senato il rispetto dovuto al massimo consesso dello stato e questo collabora con lui nella gestione
quotidiana dello stato ed approva formalmente gli atti del principe. In linea di fatto, molto dipende dalla buona volontà
del principe, che sostanzialmente determina il grado di partecipazione del senato. Per il princeps, il problema non stava
nel diminuire i poteri del senato, ma nel controllarlo e volgere i suoi poteri ai fini della propria politica.
Bisogna tener conto del ruolo che poteva svolgere, in questo rapporto, un organo come ii consilium principis. Si
potrebbe dire che, se nel principato 2 sono le fonti essenziali del potere, il giucco politico reale si svolge fra 3 soggetti,
il princeps, il senato ed il consilium, quale organo in grado di mediare, per la sua composizione e funzione, tra i primi 2.
Non a caso esso aumentò di prestigio e di potere, finchè, nel dominato, di fatto esautorò il senato.
Durante il principato, il senato vede aumentare i propri poteri legislativi attraverso l'adozione di un efficace strumento
legislativo, il senatoconsulto; tuttavia non bisogna ritenere che l'attività legislativa del senato fosse autonoma ed
indipendente rispetto al potere imperiale. Nella prassi concreta, i senatoconsulti si ridussero a mere ratifiche formali di
provvedimenti preparati dal principe e dal suo consilium e comunicati al senato con l’oratio principis.
Anche nell’ambito dell'attività giudiziaria si venne consolidando ed estendendo il potere di fatto che il senato aveva già
esercitato in epoca repubblicana, sebbene in via straordinaria e solo per i fatti di rilievo politico, senza perciò esentarne
gli organi legittimi, le quaestiones. Era per i senatori indubbiamente improduttiva l'istruzione dei processi relativi ai
crimina maiestatis e repetundarum contro colleghi dello stesso ordo: condannare significava creare degli odi all'interno
della nobilitas, assolvere poteva essere scandaloso e squalificante. Perciò il senatoconsultum Calvisianum creò, per i
casi di concussione in cui non era prevista la pena capitale, una procedura accelerata. Certamente, la funzione del senato
in questo ambito risultava subordinata alla volontà politica del princeps, ma non si può negare che, nel tempo, la
competenza del senato non fu limitata solo delitti politici o ai processi nei quali erano accusati membri dell’ordine
senatorio; essa divenne sempre più ampia, specie nelle materie che non erano disciplinate dall'ordo iudiciorum.
Comunque non si trattò di una reale autonomia del senato: la sua subordinazione sarà stata più forte nel caso dei
processi politici, meno rigida nelle altre occasioni. Solo con i Severi la giurisdizione senatoria andò sempre più
declinando, sostituita dalla cognitio dei funzionari imperiali (cognitio extra ordinem).
La creazione di una vera e propria amministrazione è opera del principato, per cui essa venne sostanzialmente gestita
dall'ordine equestre; tuttavia, anche in materia amministrativa il senato conservò, specie in Italia, un ruolo effettivo,
seppur modesto e perciò poco conosciuto: a Roma mantenne il diritto alla coniazione della moneta enea, la moneta dei
commerci; dal suo ambito erano estratti i magistrati che amministravano il tesoro dello stato, l'aerarium populi Romani
che aveva sede presso il tempio di Saturno; nella stessa sede era anche affidato alla responsabilità dei senatori l'aerarium
militare, la cassa speciale creata da Augusto per distribuire i premi ai veterani al loro congedo. E soprattutto erano
affidate al senato le province appunto senatorie, in genere ricche e di antica cultura, ma di relativa importanza strategica
e militare ed il cui numero non era destinato ad accrescersi. Le rendite di queste province sono destinate solo in parte
all'aerarium ed il principe può intervenire, in virtù del suo imperium maius. Tuttavia, è in relazione a queste province
che il senato esplicava in tutta la sua pienezza il controllo delle funzioni giurisdizionali ed amministrative.
Sarebbe errato ritenere che Augusto abbia avuto l'intenzione di deprimere il senato di contrapporsi ad esso. Al contrario,
egli mirò a restaurarne la dignità ed a conferirgli una parte importante nell'amministrazione dell'impero, riconoscendogli
una posizione molto elevata, anche se in concreto era la volontà del princeps a predominare. Più che il senato, sono i
senatori a partecipare al governo dello stato, attraverso le commissioni ristrette, scelte dall'alto, e i singoli posti
individuali nelle magistrature, tradizionali o meno, e nelle altre cariche nell'ambito dell'amministrazione imperiale.
Nei fatti, il senato era inevitabilmente condizionato: in primo luogo, le guerre civili avevano distrutto buona parte della
vecchia nobilitas repubblicana, il cui orgoglio di casta e la cui base economica potevano garantire autonomia nei
confronti dì una personalità dominante. Inoltre, soprattutto in questa fase iniziale del regime, i senatori individualmente
dipendono troppo dall'imperatore per trascurarne i favori o svolgere una politica antagonistica: da lui dipende l'ingresso
in senato e lo svolgimento del cursus. Infine, il senato non era organizzato per condurre un'opposizione efficace e
continuata principe, in quanto mancavano di una struttura organizzativa stabile al loro corpo. Esso si fondava ancora su
una struttura assembleare di tipo spontaneistico; non c'era personale subalterno o di servizio, non schiavi né liberti alle
dipendenze, niente uffici o archivi, tranne gli acta ufficiali, non c'era insomma una tradizione amministrativa; non molti
mezzi finanziari a disposizione, nessuna forza armata o di polizia, nessuna struttura di servizio a disposizione.

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I nuovi senatori del principato recepirono molto della mentalità e delle convinzioni proprie della nobilitas repubblicana.
Spesso guardarono all'istituzione del principato dal punto di vista di una libertas che era quella propria della classe cui
appartenevano, ma che non poteva avere nel nuovo ordinamento le stesse caratteristiche di prima. Così, l'azione del
princeps fu vista troppo spesso nella prospettiva di questa libertas. La tradizione letteraria nata negli ambienti senatori
valuta ogni regno in funzione del comportamento del princeps rispetto a questo criterio, e determina in questo modo i
cattivi e buoni imperatori. Così, furono considerati cattivi imperatori tanto Caligola e Nerone, folli o tiranni, quanto
Claudio e Adriano, le cui capacita amministrative e militari e la cui dedizione allo stato non possono discutersi.
Di contro, imperatori buoni possono essere personalità di indubbio spicco come Traiano o Marco Aurelio, ma anche
sostanzialmente modeste come Antonino Pio, e addirittura insussistenti, come Gordiano, il cui merito consistette nella
sostanziale adozione dei parametri interpretativi della classe senatoria e nell'aver rinunciato ad un'azione autonoma.
L'ordinamento del senato - Augusto stesso, nelle Res gestae, dichiara di aver operato 3 lectiones del senato. La prima
di esse si ebbe negli anni 29-28 a.C. e comportò la rimozione di un non trascurabile numero di senatori. Non risulta,
invece, che i due censori eletti nel 22 a.C. siano riusciti ad effettuare la lectio senatus ed è probabile che la successiva
revisione augustea, effettuata nel 18 a.C., sia maturata anche sulla base del loro insuccesso. In tale occasione, Augusto
scelse i primi 30 membri dell'assemblea nella nuova composizione e stabilì che il numero complessivo dei componenti
di essa (da lui fissato in quello di 600, dopo un iniziale orientamento che ne prevedeva solo 300) si dovesse integrare
attraverso operazioni miste di cooptazione e di sorteggio. Ognuno dei senatori da prescelti avrebbe dovuto scegliere a
sua volta 5 nominativi e dai 150 nominativi così raccolti ne sarebbero stati sorteggiati solo 30. Attraverso analoghe
operazioni si sarebbe raggiunto il numero complessivo di 600 senatori. In pratica, nella stessa fase della cooptazione e
del sorteggio si ebbe l'intervento diretto di Augusto, sia per ovviare ad omissioni oggettivamente ingiustificate, sia per
modificare alcune scelte. Il fatto che le revisioni del senato effettuate da Augusto costituissero il mezzo più efficace per
l'eliminazione di awersari politici non determinò eccessi, come dimostrano la scelta di Labeone e quella, da quest'ultimo
effettuata, dal triumviro Lepido. La III revisione cui fa riferimento Augusto deve essere quella compiuta negli anni 13-
11 a.C., in quanto quella effettuata nel 4 d.C. è stata espletata, almeno formalmente, da un collegio di 3 senatori.
A parte l'esigenza di un certo censo, il titolo per far parte del senato continuò ad essere rappresentato, in via normale,
dal fatto di aver rivestito una magistratura, il che comportava la fissazione dell'età minima a 25 anni. Continuava,
tuttavia, ad essere ammessa e praticata anche l'adlectio, cioè la scelta di un cittadino indipendentemente dal fatto che
avesse rivestito una magistratura. Tuttavia, l'esigenza di attribuire all'adlectus una posizione determinata nell'assemblea
senatoria implicava quella il riferimento ad una magistratura. Nel I secolo dell'impero non risulta praticata l’adlectio
inter consulares; le ipotesi che ricorrono di più sono l'adlectio inter praetorios e inter tribunicios o inter aedilicios.
Infine, per i congiunti dell'imperatore si è talvolta proceduto ad una cooptazione che, a seconda dei casi, implicava la
sola legittimazione a partecipare alle riunioni dell'assemblea o anche quella ad esprimere la propria opinione e/o il voto.
La decadenza politica del senato determinò l'indifferenza dei singoli all'esercizio concreto della funzione, nonostante il
regolamento predisposto da Augusto. Si è ipotizzato che esso risalga al 9 a.C., ma il numero legale per la validità delle
deliberazioni risulta già ridotto a meno di 400 nell'11 a.C. e la comminazione di multe agli assenti ingiustificati, già nel
17 a.C., può essere considerata indicativa di una precedente riorganizzazione dell'assemblea.
A parte le sedute straordinarie, erano previste 2 sedute ordinarie al mese e, per quelle di settembre e di ottobre, si
provvedeva all'estrazione a sorte dei senatori che avrebbero dovuto prendervi parte. Inoltre, ogni 6 mesi si costituiva,
mediante estrazione a sorte, un consiglio di senatori che avrebbe dovuto istruire le questioni da sottoporre all'assemblea.
I senatusconsulta nell'età del principato - Lo sviluppo dei senatusconsulta culmina in epoca imperiale; Gaio afferma
che essi avevano forza di legge, ricordando contemporaneamente come ciò fosse stato oggetto di dispute.
Sino alla fine della repubblica, gli interventi normativi del senato furono scarsi, soprattutto sul piano del diritto privato,
e, superata la fase in cui erano state relativamente frequenti le quaestiones extraordinarìae, non si danno più interventi al
livello della repressione criminale, a prescindere dal senatusconsultum ultimum. Se per i provvedimenti di carattere
concreto e quelli di natura amministrativa la competenza del senato tende ad affievolirsi, nel corso del I secolo d.C. si
manifesta, in entrambi i campi accennati, un profondo cambiamento di tendenza. Nel I e nel II secolo d.C. il
senatoconsulto resta per eccellenza lo strumento normativo volto a porre, sia pure con efficacia ed operatività diverse,
norme di carattere generale ed astratto. Esso prende il posto, e poi l'efficacia, della lex, che esaurisce il suo ruolo col
principato di Augusto come strumento normativo; inoltre, soprattutto nella prima parte di questo periodo, l'imperatore si
serve dei senatusconsulta per indirizzare l'attività giusdicente e normativa del pretore.
A questa accresciuta rilevanza del senato come organo che crea il diritto si deve l'insorgere della disputa sulla forza di
legge del senatoconsulto, svoltasi nel corso del I secolo d.C.. Per quanto concerne il diritto privato, è indubbio che, per
tutto il I secolo, i più importanti senatusconsulta vengono attuati dal pretore, come in epoca repubblicana, mediante
l'esercizio de suo imperium e della sua iurisdictio, e trovano, dunque, efficacia sul piano del diritto onorario.
Già nel corso del I secolo d.C., però, cominciano a comparire senatusconsulta che sembrano avere una diretta efficacia
sul piano del ius civile; in un primo momento si tratta di provvedimenti relativi allo status personarum, ai quali, da parte
di giuristi generalmente più tardi, si riconosce una efficacia civilistica. Infatti, i romani sembrano aver ammesso solo
eccezionalmente l'operatività del ius honorarium per la disciplina della condizione personale dei soggetti e della loro
posizione nella civitas e nella familia.
II senatoconsulto con effetti civili diviene l'unico tipo praticato nel corso del II secolo d.C., il che si ricollega al sopirsi
delle discussioni sul valore formale di questi provvedimenti. È in questo periodo che ricorrono i provvedimenti che
vengono più vistosamente ad incidere sul ius civile, come i senatusconsulta Tertullianum e Orfiziano, che creano nuove

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figure di successibili civili ab intestato, ammettendo all'eredità del figlio la madre e della madre il figlio: ma, verso la
fine del secolo, la forma del senatoconsulto cede a quella dell'oratio principis in senatu habita.
Con riguardo alla repressione criminale, nel I secolo d.C, mentre la cognitio extra ordinem criminale si viene
organizzando sulla base dell'attività normativa imperiale, l'attività del senato è intensa nell'ambito degli sviluppi
dell’ordo iudiciorum publicorum. I senatusconsulta non individuano nuove figure criminose da aggiungere a quelle già
sanzionate dalle varie quaestiones, né istituiscono nuovi tribunali permanenti, ma allargano e ridisegnano i contorni
delle fattispecie, estendendo le competenze delle singole quaestiones. Il prevalere, nel II secolo, delle forme della
repressione straordinaria, spiega il venir meno dei senatoconsulti in questa materia.
Sappiamo che nel II secolo d.C. la disputa sulla forza di legge era superata, ma non conosciamo i termini tecnico-
giuridici in cui la questione fu prima posta e poi risolta. Dal punto di vista politico, è evidente, nell'affermarsi del legis
vicem optinere dei senatusconsulta, l'influsso della volontà del princeps, che stava alla base di ogni provvedimento
normativo del senato: direttamente, quando la proposta veniva dall'imperatore stesso; indirettamente, poiché egli
controllava qualsiasi decisione presa dall'assemblea.
L'importanza dei senatusconsulta in questo periodo si accresce in quanto esso fu , nel I e II secolo d.C., l'unico mezzo
adoperato dall'imperatore per intervenire in via generar ed astratta sulle materie che protette nelle forme dell'ordo
iudiciorum privatorum e publicorum, dato che egli asteneva dall'adoperare gli edicta, cui era pur riconosciuta, a partire
dalla fine del I secolo d.C., la forza di legge.
Il coinvolgimento della volontà imperiale nel procedimento di formazione del senatoconsulto portò al suo superamento,
con l'emersione dell'orario princìpis in senatu habita; già a partire dal I secolo è sempre più attestata la prassi che
l'imperatore prendesse l'iniziativa di proporre il senatusconsultum mediante una sua oratio, comunicata per iscritto e
letta all'assemblea da un questore a ciò delegato, o più raramente pronunciata personalmente dal princeps in seduta.
Rafforzandosi sempre di più il potere dell'imperatore, divenne raro che l'assemblea apportasse delle modifiche alla
proposta di deliberazione, onde i giuristi iniziarono a riferirsi più all'orario principis che alla successiva delibera come al
vero e proprio provvedimento normativo.
Si ammette in dottrina che almeno verso la fine del II secolo l’oratio principis valesse di per sé e che la presentazione in
senato fungesse soltanto come una sorta di pubblicità o di pubblicazione del provvedimento legislativo, che trovava
nella volontà dell'imperatore il fondamento della sua efficacia civilistica: il che, fra l'altro, andrebbe ricollegato alla
convinzione che qualsiasi statuizione del princeps conseguisse, in funzione della volontà imperiale ivi manifestata, la
forza di legge. In quest'ottica, una deliberazione del senato sull'oratio sarebbe stata priva di senso, ma che si sia davvero
pervenuti ad una formale abrogazione della votazione non è sufficientemente attestato dalle fonti.
Tra la fine del II e gli inizi del III secolo d.C., l’oratio principis appare lo strumento più adoperato dall'imperatore per
gli interventi in materia di diritto privato, volti a porre norme generali ed astratte sul piano del ius civile.
l problema della successione - II principato era un'abile sintesi di forme repubblicane e di sostanza monarchica.
Costituzionalmente, Augusto era un magistrato, il primo dei magistrati, anche se cumulava più magistrature e più poteri
di quanto mai avesse fatto altri prima di lui: poteri e facoltà che per Augusto furono l'effetto di attribuzioni successive,
ma che ai successori furono invece concessi nel loro complesso con una formula approvata prima dal senato e poi dal
popolo che conosciamo, non integralmente, per l'epoca di Vespasiano attraverso il testo della lex de imperio Vespasiani.
Solo un elemento indefinibile nella sua reale natura, l'auctoritas, poneva Augusto al disopra degli altri magistrati dello
stato romano da un punto di vista strettamente costituzionale. Il problema era passare da un carisma personale ad un
carisma istituzionale; qui stava il paradosso del principato come istituto politico: pur essendo una monarchia di fatto,
non poteva fare affidamento, per la dismissione del potere, al principio della successione dinastica.
La successione era il punto debole del principato: l'idea dinastica non ebbe difficoltà ad impiantarsi, ma non poté mai
ergersi a principio giuridico. Per il modo stesso del conferimento (l'investitura costituzionale dal senato e dal popolo),
egli non derivava i suoi poteri da ipredecessori. E tuttavia l'accesso al trono di più della metà degli imperatori del
principato si svolge all'interno di un quadro dinastico, sul presupposto di una eredità naturale o fittizia. Solo gli
imperatori del 69 e Nerva pervennero al principato senza una base familiare: si trattò, nel primo caso, della prima vera
crisi del sistema creato da Augusto, nel secondo di una scelta tra coloro che avevano ucciso il tiranno Domiziano, con il
segreto accordo del senato. Quindi, nella prassi, il principio dinastico era determinante nella scelta del futuro
imperatore, ma, dal punto di vista politico, era necessaria una giustificazione teorica alla prassi; l'ideologia dell'adozione
si rivelò adatta allo scopo.
Già sotto la repubblica l'adozione era stata uno strumento assai importante della lotta politica: nelle grandi famiglie
della nobilitas, con tale strumento si trasmetteva in eredità potenza economica e politica. Dal punto di vista del diritto
privato, la filiazione dinastica assicura una trasmissione patrimoniale; dal punto di vista politico, essa, pur non
realizzando immediatamente la devoluzione del principato, che esige formalmente una investitura da parte del senato e
del popolo, trasmette la vocazione che richiama tale investitura. Se distinguiamo tra i 2 momenti fondamentali della
creazione del principe, designazione ed investitura, l'adozione costituiva una mossa fondamentale per la designazione
del principe. In questo senso venne certamente intesa da Augusto nel caso di Tiberio, la cui adozione fu un atto doppio,
consistendo da una parte nel rituale della adrogatio, dall'altra in una dichiarazione (renuntiatio), secondo la quale
l'arrogato era l'erede del potere. In questo dualismo di privato e di pubblico si poteva trovare una giustificazione
costituzionale all’atto, il presupposto essendo che l'uomo migliore, il princeps, scegliesse per virtù del suo carisma
personale l'uomo migliore ed a lui trasferisse quella somma di poteri e di virtù costituzionali ed extracostituzionali in
cui consisteva il potere imperiale.

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Si trattava comunque solo di un'idea portante della ideologia aristocratica propria alla nobilitas senatoria dell'impero,
non idonea a sciogliere il nodo della successione imperiale, cioè il fatto che, alla morte del prìnceps, tutto ritornava, in
linea di principio, alla respublica, e che nessuna legge prevedeva la continuità del principato e ne organizzava la
successione. Il dilemma stava nella costruzione del principato, non nella sua sostanza, che era monarchica. Poiché il
principato richiedeva l'ereditarietà, si scelse, già con Augusto, di moltiplicare al massimo i segni della designazione al
potere: l'adozione in primo luogo, ma anche i titoli, gli onori e privilegi particolari, i poteri reali e la designazione
autonoma del successore e la divisione del potere.
Vespasiano inaugura già un nuovo sistema: dichiara apertamente che solo i suoi figli gli succederanno e designa il figlio
ufficialmente, conferendogli il praenomen Imperatoris. Il principato ne esce trasformato. Con Adriano, il titolo di
Caesar sarà adoperato per indicare ufficialmente il successore. Marco Aurelio, nell'associarsi il successore, duplica nei
fatti il principato. Fianco a fianco, i due Augusti regnano congiuntamente: i loro nomi sono posti, allo stesso titolo, in
testa alle loro costituzioni, sono di diritto eguali; e se l'uno, pervenuto al trono per designazione dell'altro, gli è
subordinato, è in base ad una regola non scritta che costituisce lo spirito implicito di questa sistemazione costituzionale.
L'attività normativa del princeps. Edicta e mandata - Mentre la legge comiziale cade rapidamente in disuso, più che
i senatusconsulta, sono le costituzioni imperiali a rappresentare, sul piano normativo, la novità saliente del principato.
Già i giuristi romani distinguevano diversi tipi di costituzioni imperiali: nel principato l'elenco si venne definitivamente
fissando in 5 tipi: decretum, rescriptum, epistula, edictum e mandatum. La funzionalità intrinseca, il fondamento, la
portata di questi provvedimenti varia dall'uno all'altro di essi: una prima distinzione si ha fra i provvedimenti a carattere
generale ed astratto (edicta e mandata) e quelli a carattere particolare, che risolvono un singolo caso concreto (decreta,
rescrìpta e epistulae) e per i quali si pone la questione del loro valore al di là del caso cui immediatamente si riferiscono.
Il primo problema è quello del fondamento di legittimità e di validità delle constitutiones imperiali nel loro complesso e
del singolo tipo di costituzione. È indubbio che i giuristi tardo-classici tendessero ad una ricostruzione unitaria della
forza vincolante delle costituzioni e che riconoscessero ad esse il legis vicem optinere, cioè la forza di legge, il che
comporta l'idoneità dei provvedimenti normativi dell'imperatore a creare diritto civile. Il fondamento di ciò sta, per
Gaio, nel fatto che l'imperatore assume il potere (l'imperium) per legem; l'allusione alla lex de imperio in Ulpiano è
esplicita, ed il contenuto di quella che egli chiama lex regia de imperio viene individuato nel fatto che il popolo deleghi
all'imperatore tutto il suo potere. È indubbio che la giurisprudenza tardo-classica cercasse di ritrovare negli schemi della
costituzione repubblicana il fondamento del potere legislativo del prìnceps.
È probabile che, agli inizi del principato ed almeno fino alla metà del I secolo, il fondamento e gli effetti dei vari tipi di
costituzione imperiale variassero. Solo all'inizio del II secolo, prende il sopravvento la considerazione per cui l'efficacia
di tutte le constitutiones si basa sui poteri conferiti al princeps con la lex de imperio, e che in funzione di ciò tutte le
costituzioni imperiali abbiano forza di legge.
Per quanto riguarda gli edicta, già la loro denominazione ha fatto pensare che essi si fondassero sul ius edicendi del
princeps, che, a sua volta, si basava sull'imperium proconsulare maius et infinitum di Augusto e dei suoi successori. Gli
edicta degli imperatori regolano direttamente l’attività dei soggetti dell’ordinamento (eteroregolamentazione), mentre
quelli dei pretori costituivano un’autoregolamentazione dell’attività del pretore stesso; hanno validità territoriale
potenzialmente illimitata; la loro efficacia non cessa alla morte del princeps (quelli dei pretori hanno efficacia solo per il
loro anno di carica). Comunque, non è da escludere che, per i contemporanei, gli edicta dell'imperatore trovassero
fondamento nell’imperìum proconsulare maius et infinitum. Le differenze fra gli edicta principis e magistratuum sono il
riflesso della differente situazione in cui l'imperatore esercita quell'imperium, che, nell’deologia ufficiale di Augusto,
altro non è che un imperium promagistratuale, com'era previsto nella costituzione repubblicana.
Dal fatto che, almeno agli inizi, gli edicta traggano la loro validità dall'imperium attribuito all'imperatore sorgono alcuni
problemi. Il ius edicendi, fondato sull'imperium, non consentiva ai magistrati repubblicani di porre norme dotate di legis
vicem optinere, per cui ci si è chiesti se anche agli edicta principis non avessero, almeno per gli inizi, un'efficacia solo
sul piano del diritto onorario. Ciò non significa che gli editti dell'imperatore dovessero trovar efficacia sul piano del
diritto pretorio, ma che, sulla base di essi, si formasse un'ulteriore branca del diritto onorario.
Nel corso del I secolo d.C., i pochi istituti privatistici che, come i fedecommessi, conseguirono una protezione giuridica
attraverso l'esercizio dell'attività normativa dell'imperatore non assunsero tale rilevanza né sul piano del diritto civile né
attraverso l'ordo ìudiciorum privatorum, ma vennero tutelati nelle forme della cognitio extra ordinem e in base al ius
extraordinarium. Vi sono inoltre casi in cui la normativa posta dagli editti dell'imperatore trova la sua sanzione sul
piano dell'editto pretorio, come avviene nell'edictum de pactis.
Maggiori difficoltà s'incontrano per quei casi in cui gli edicta principis sortirebbero effetti sul piano del diritto civile,
come per l'acquisto della cittadinanza, che non poteva trovare regolamentazione sul piano del diritto onorario. È tuttavia
possibile che al princeps sia stata riconosciuta una particolare competenza al riguardo.
Per quanto riguarda la repressione criminale, in base agli edicta e ai mandata dell’imperatore si veniva organizzando la
cognitio extra ordinem anche sul piano del processo penale pubblico: si ha qui un altro aspetto del ius extraordinarium,
in cui sia l'aspetto sostanziale che quello processuale della repressione si potevano fondare sull'imperium proconsulare
maius et finitum dell'imperatore, rispetto al quale, anche per il declino sempre più rapido delle competenze dei comitia,
non si poneva più il problema del ius provocationis come limite per le condanne capitali.
Difficoltà si possono avere, invece, per il sistema delle quaestiones, che si fondano su leges comiziali, per cui la loro
disciplina, in linea di principio, poteva esser modificata solo in base ad altre leges. Tuttavia, gli edita imperiali non
creano nuove figure di reato e non istituiscono nuove quaestiones, ma si limitano ad allargare la portata di crìmina già

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previsti. Ai nostri occhi, tale attività, rappresentando un’innovazione, richiederebbe la forza di legge dei provvedimenti
mediante i quali essa si attua, ma è possibile che nel I secolo d.C. si sottolineasse l'aspetto interpretativo.
Problemi non si ponevano in relazione all'organizzazione amministrativa e finanziaria, ove l'operatività degli edicta
fondati sull'imperìum proconsulare maius et infinitum non trovava ostacolo, non essendovi al riguardo riserva di legge.
Costituzioni di carattere generale sono anche i mandata, dapprima istruzioni personalizzate date al singolo funzionario.
Nel tempo si venne formando un insieme di istruzioni stereotipe, un corpus mandatorum, non di carattere generale per
tutti i possibili destinatari dei mandata stessi, ma articolato in relazione alle singole cariche. E difficile stabilire se questi
corpora mandatorum avessero vigore di per sé o se ad essi si facesse riferimento nello specificare i compiti del singolo
funzionario che di volta in volta veniva a ricoprire la carica stessa.
È stato sostenuto che i mandata non potrebbero esser considerati delle vere e proprie constitutiones, soprattutto perché
non conterrebbero norme a carattere innovativo, dando solo istruzioni per l'applicazione della normativa esistente; ma,
se nella dottrina attuale la novità costituisce uno dei caratteri essenziali della legge in senso sostanziale, non è certo che,
nell'esperienza giuridica romana, fosse lo stesso. Anche se nelle varie elencazioni delle costituzioni imperiali proposte
dai giuristi romani i mandata mancano, i prudentes riportano una serie di normazioni ad essi come alla loro fonte, il che
mostra anche come essi non considerassero questo tipo di costituzione come meramente ripetitivo di altre normazioni.
Il fondamento del carattere vincolante dei mandata deve esser trovato nell'imperium proconsulare maius et infinitum,
almeno finché la giurisprudenza non elaborò una giustificazione unitaria per la forza di legge di tutte le costituzioni.
Sull'operatività dei mandata si hanno, nelle fonti, tracce diverse. Nell’epistula in cui chiede a Traiano direttive sul modo
di comportarsi nei confronti dei cristiani, Plinio si riferisce ad un proprio editto emanato sulla base dei mandata; in
questo caso, la costituzione riceve attuazione attraverso l’imperium del destinatario, per cui le norme in essa contenute
non sembrano esser sentite come immediatamente vincolanti nei confronti dei soggetti dell'ordinamento. In un altro
caso, il proconsul Asiae pubblicò i mandata attraverso un proprio editto, usandolo solo quale mezzo di pubblicità delle
costituzioni, cui si veniva a riconoscere un'efficacia direttamente vincolante nei confronti dei soggetti dell'ordinamento.
Questa efficacia direttamente vincolante non da luogo a problemi quando tutte le costituzioni imperiali assumono forza
di legge. Nel I secolo, non vi sono problemi quando i mandata si limitino a dare istruzioni sul piano della cognitio extra
ordinem criminale o dell'amministrazione pubblica. Per quanto concerne, invece, il diritto privato, sorgono problemi
quando ai mandata debbono ricondursi effetti sul piano del diritto civile, come per il testamentum militis e per una serie
di divieti che colpiscono funzionari e militari (divieto di matrimonio, divieto di ricevere donazioni, ecc.).
La dottrina si è interrogata sull'eventuale cessazione dell’efficacia dei mandata alla morte dell'imperatore, soprattutto
per il presunto carattere privatistico dei rapporti tra il princeps ed i propri funzionari, onde si sarebbe applicata la regola
usata per il contratto di mandato fra privati. Tuttavia, non vi sono prove nel senso che i mandata perdano efficacia alla
morte dell'imperatore che li aveva impartiti e l'analogia fra istituto privatistico e pubblicistico appare dubbia.
Rescripta, epistulae, decreta - Gli altri tipi di costituzione imperiale sono tutti rivolti alla decisione di casi concreti.
Il termine decretum ha un significato generico, che è adoperato sia per il princeps che per i magistrati repubblicani; in
senso tecnico, però, i decreta principis sono le sentenze emanate dall'imperatore nell'esercizio della sua giurisdizione,
sia in grado d'appello che in primo grado, sia in materia civile che in materia criminale, sia in forma solenne che con
procedimento sommario. Non v'è dubbio sul carattere vincolante delle pronunce dell'imperatore rispetto al caso deciso e
sull’inoppugnabilità delle sue sentenze.
Ad una diversa funzione adempiono i rescripta e le epistulae in quanto provvedimenti diretti ad incidere sulla decisione
di singole controversie. L'epistula e il rescriptum erano usate anche per altre funzioni: l’epistula era una missiva
dell'imperatore che poteva esser adoperata per qualsiasi scopo per cui si scrive una lettera; il rescriptum, che presuppone
necessariamente un'istanza del privato, poteva esser utilizzato anche per sbrigare affari di carattere amministrativo.
Rescripta ed epistulae s'inseriscono in un processo in corso o, i primi, possono esser richiesti ed emanati in previsione di
un futuro ed eventuale processo: loro scopo comune era quello di risolvere una questione di diritto in via vincolante per
gli organi competenti alla decisione di un determinato processo.
L'epistula è una normale comunicazione scritta, preparata dall'ufficio ab epistulis, con cui l'imperatore risponde ad
un'altra epistula inviatagli da un funzionario imperiale o da un magistrato. Questi gli sottoponevano una questione di
diritto controversa e decisiva per risolvere una causa pendente; nell'epistula di risposta l'imperatore risolveva la
questione ed il funzionario od il magistrato procedeva nell'esercizio delle sue funzioni, adeguandosi alla soluzione
prospettata dall'imperatore. Si trattava, normalmente, di casi discussi nelle forme della cognitio extraordinem, ma non è
da escludere che magistrati competenti per processi da risolvere nelle forme dell'ordo iudiciorum privatorum e
publicomm si rivolgessero all'imperatore per la soluzione di questioni controverse.
Il rescriptum è la risposta dell'imperatore alla richiesta di un privato in relazione ad un processo in corso o futuro: non
sembra che il privato potesse rivolgersi all’imperatore in forma diversa da quella dei libelli, che dovevano essere
presentati, normalmente in un giorno d'udienza, dalla parte personalmente o da un suo procuratore. Il rescriptum ha una
struttura diversa dall'epistula, che dipende dal differente modo in cui il privato si è rivolto all'imperatore stesso. La
decisione, preparata dalla cancelleria a libellis, veniva stesa in calce all'istanza, e ad essa l'imperatore apponeva la sua
subscriptio: libelli e rescriptum venivano, poi, affissi in luogo pubblico, nella località in cui si trovava l'imperatore. Per
poter disporre del testo del rescritto il richiedente doveva farne eseguire copia mentre lo stesso restava affisso. Ciò
costituiva un notevole aggravio dal punto di vista pratico, ma non è sicuro che si inviasse sempre copia dell'istanza e
della risposta perché venisse affissa nella capitale della provincia di residenza del richiedente. Comunque, le difficoltà
non sembrano aver influito sulla diffusione di tale strumento per la risoluzione delle controversie sul punto di diritto in

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un caso concreto. Il rescritto poteva esser richiesto per qualsiasi tipo di processo ed in qualsiasi stadio del procedimento.
Per epistulae e rescripta si pone anzitutto il problema dell'efficacia che avevano sul caso specificamente deciso e su
quale fondamento essa si basasse. Che il magistrato, il funzionario ed il iudex privatus fossero astretti a seguire
l'opinione espressa dall'imperatore, è fuor di dubbio.
L'imperatore decideva la sola questione di diritto sulla base dell'esposizione dei fatti fornita dall'istante, dal magistrato,
o dal funzionario che l'aveva interpellato: tale esposizione non costituiva un accertamento definitivo dei dati di fatto
eventualmente controversi. Questa circostanza costituiva un primo limite all'efficacia di questi tipi di costituzione: ed
era lo stesso imperatore che lo evidenziava nei rescripta, dove viene spesso ribadito che la validità della soluzione
prospettata dall'imperatore dipende dalla circostanza che i fatti esposti corrispondano alla verità.
Il fondamento del carattere vincolante dei rescripta e delle epistulae è stato trovato nell'auctoritas del prìnceps; tale
fondamento sarebbe l'unico al quale pensare per il periodo iniziale del principato, ma, come strumento normativo,
epistulae e rescripta si affermano decisamente nel II secolo, allorché si era consolidato un modulo di operatività delle
costituzioni imperiali che attribuiva loro la forza di legge, il che potrebbe far apparire superfluo il ricorso al profilo
dell'auctoritas per giustificare il carattere vincolante di questi tipi di costituzione.
Comunque, per quanto concerne il caso concreto, la forza di legge non ha alcuna funzione; il problema che si pone per
epistulae, rescripta e decreta è quello del valore della decisione emanata dall'imperatore per un certo caso concreto nei
successivi casi identici od analoghi. Infatti, se la costituzione introducesse una norma generale ed astratta che, in base al
legis vicem optinere, esplicasse i suoi effetti sul piano del ius civile, ogni intervento imperiale in materie regolate dal ius
honorarium o extraordinarìum produrrebbe la civilizzazione parziale dell'istituto.
Ulpiano afferma che è legge tutto ciò il principe ha stabilito mediante un'epistula, una subscriptio, un decretum o un
editto e identifica l'operatività delle costituzioni di natura particolare come quella di un autorevole precedente.
La soluzione prospettata dall'imperatore per il singolo caso concreto entra, dunque, munita di tutta l'auctoritas del
princeps nel ius controversum, come anche i responsa prudentium, che avevano la stessa struttura e funzione. D'altra
parte, nell'esperienza giuridica romana sarebbe stato sorprendente se a decisioni rientranti nell'elaborazione casistica del
diritto fosse stato riconosciuto un valore diverso che al restante materiale prodotto in base a detta metodologia. È ovvio
che l’auctoritas che accompagna le sententiae principis rendeva impossibile un dissenso radicale ed aperto: ma è questa
auctorìtas, non un'astratta forza di legge a far prevalere, nel ius controversum, le opinioni dell'imperatore.
Ciò spiega la relativa libertà con cui i giuristi utilizzano il materiale normativo proveniente da rescripta, epistulae e
decreta: poiché essi erano trattati come le altre sententiae rilevanti dal ius controversum, era possibile che i giuristi li
trattassero come gli altri principi discussi nell'ambito del sistema aperto rappresentato dal ius controversum, ossia come
soluzioni di massima che, con più o meno sottili distinguo, permettevano soluzioni diverse.
L'operatività di rescripta, epistulae e decreta si articolava diversamente in base alla branca del diritto su cui incidevano:
sul piano del ius extraordinario l'imperatore aveva piena libertà di innovare, dato che esso si fondava sugli interventi
normativi del princeps stesso. Sul piano del diritto onorario, le cose si atteggiavano sostanzialme in modo analogo: il
principio che l'imperatore fissava era vincolante per i titolari della iurìsdictio, che dovevano attenersi alle direttive così
formulate. Non a caso, soprattutto in materia patrimoniale, le innovazioni introdotte attraverso le costituzioni particolari
trovarono attuazione principalmente nel diritto onorario. Il fondamento sostanziale dell'innovazione era la constitutio
imperiale, ma essa si produceva formalmente in base all'esercizio dell'imperium del magistrato. Sul piano del diritto
civile è più difficile trovare tracce di innovazioni radicali introdotte mediante l'attività normativa esercitata nel caso
concreto dal princeps.
Le costituzioni imperiali nel sistema normativo del principato. Il ius extraordinarìum e la cognitio extra ordinem
Se nel princeps tende ad accentrarsi l'attività normativa a partire già dall'inizio del principato, in una valutazione del
sistema delle fonti del diritto in questo periodo tale considerazione va approfondita: in primo luogo, contrapponendo
l'aspetto sostanziale a quello formale; in secondo luogo, tenendo conto del fatto che, nel corso dei 3 primi secoli d.C.,
conservano la loro efficacia norme originate da fonti del diritto prima in via d'esaurimento e poi non più attive.
Ancora fra il II ed il III secolo, i giuristi davano una descrizione statica del sistema delle fonti, rifacendosi a quei fatti di
produzione normativa che avevano prodotto le normazioni vigenti nell'ordinamento romano indipendentemente dalla
circostanza che ad esse si riconoscesse tuttora un'efficacia nomogenetica. Pur con le particolarità dei singoli autori cui
risalgono, queste classificazioni individuano tutte le stesse fonti del diritto: le leges rogatae (leges comitiales in senso
stretto e plebiscita), i senatusconsulta, gli edicta magistratuum, le constitutiones principum, i responsa prudentium. Nei
3 secoli del principato, tutte queste fonti hanno ancora avuto una loro rilevanza nomogenetica, ma la tendenza era di
accentrare nel princeps (e nelle sue constitutiones) l'idoneità a produrre nuovo diritto, ferma restando la validità delle
precedenti norme. Ciò avviene in tempi e con modalità diverse. Le leges non vengono più utilizzate, come strumento
normativo, a partire dalla metà del I secolo; l'ultima grande stagione delle stesse si ha sotto il principato augusteo, ma
esse non rappresentano il frutto di un'autonoma iniziativa politica della classe, come in epoca repubblicana: esse sono
leges luliae, spesso di nome e sempre di fatto, rappresentando lo strumento di cui si serviva Augusto per perseguire i
suoi scopi di riforma e di restaurazione. Questo spiega perché, a partire da Tiberio, gli imperatori si servono soprattutto
del senatusconsultum, che diverrà poi l'oratio principis in senatu habita, per incidere con normazioni generali ed astratte
sul complesso dell'ordinamento romano, sebbene essi ricevessero attuazione solo sul piano del diritto onorario.
Una profonda modificazione formale si ebbe per quanto riguarda l'editto pretorio durante il regno di Adriano, quando si
procedette alla codificazione dell'editto. Nonostante si sia negata credibilità alle scarse fonti da noi possedute in materia,
la dottrina dominante continua a ritenere che tale codificazione sia avvenuta ad opera di Salvio Giuliano, al quale era

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stata affidata da Adriano stesso. Già precedentemente, però, i pretori urbano e peregrino avevano perso qualsiasi libertà
d'iniziativa per quanto riguarda le riforme che andassero al di là semplici modificazioni di carattere tecnico-giuridico
relative a clausole e mezzi edittali già entrati nell'uso. È impensabile che i pretori procedessero a riforme di qualche
rilevanza senza aver prima sentito il parere dell'imperatore; inoltre, spesso era il princeps stesso che, personalmente o
tramite senatusconsulta, interveniva ad indicare al pretore quali fossero le modificazioni da introdurre nell'editto. Infine,
la concessione di mezzi processuali non previsti nell'editto da parte dei magistrati giusdicenti avveniva, se non sotto il
controllo diretto del princeps, in base ai suggerimenti e sotto la supervisione della giurisprudenza.
Dopo la codificazione adrianea, i pretori che si succedevano nella carica erano tenuti a proporre l'editto nella redazione
codificata, che era stata sancita mediante un senatoconsulto e che poteva quindi esser modificata solo in base ad un
ulteriore senatoconsulto od ad una costituzione imperiale. Il pretore restava poi libero di concedere azioni decretali e di
denegare mezzi edittali, spesso su precisa indicazione dell'imperatore, contenuta in un'epistula od in un rescriptum, ed
in ogni caso sotto il controllo della giurisprudenza, sostanzialmente integrata nel sistema di governo.
Ancora nel tardo principato, i giuristi individuano una fonte del diritto nei responsa prudentium. La giurisprudenza
costituisce la fonte mediante la quale si viene a conoscenza di quella parte del ius civile che si fondava, alla lontana,
sulle XII Tavole, ma che, già alla fine della repubblica, trovava la sua fonte effettiva nell'interpretatio prudentium, dato
che il codice decemvirale non poteva considerarsi di per se stesso in vigore ed era efficace e vincolante solo in funzione
di quell'interpretatio. Ed ancora nel principato tale interpretatio costituiva l'unico mezzo con cui il proprìum ius civile,
fondato ultimativamente sulle XII Tavole, poteva svilupparsi in coerenza coi principi essenziali che lo governavano.
Un'analoga funzione svolgeva 1''interpretatio rispetto a quegli istituti del ius civile che non potevano esser riportati alle
XII Tavole, in quanto entrati nel sistema civilistico indipendentemente da qualsiasi statuizione normativa, mediante il
tramite dell'interpretatio prudentium.
Comunque, l'opera dei giuristi investe tutto l'ordinamento giuridico: infatti, essa si riferisce anche a quelle parti del ius
civile che si fondano direttamente su un atto normativo (lex o senatusconsultum), al ius honorarium ed al ius novum od
extraordinarium: e, d'altro canto, era la giurisprudenza che perveniva ad una considerazione unitaria dell’ordinarnento,
senza la quale ne sarebbe stato più difficile il pratico funzionamento. In questi settori dell'ordinamento, a differenza che
nel proprìum ius civile, i giuristi si confrontavano con un dato normativo che sentivano come incondizionatamente in
vigore e come eteronomo rispetto alla loro interpretatio (il che non avveniva per i principi del ius civile sanciti nelle XII
Tavole): ciò può aver, senza dubbio, influito sul metodo con cui essi elaboravano la materia giuridica.
Se, al di fuori del proprìum ius civile, l'interpretatio prudentium non rappresentava l'unico tramite di conoscenza e la
sola forma di sviluppo della disciplina giuridica, non per questo si deve ritenere impropria la qualifica di fonte del
diritto data ai responsa e all'auctoritas prudentium. A qualsiasi branca dell'ordinamento si riferiscano, le sententiae dei
prudentes entrano a far parte del ius controversum, in quanto l'esperienza giuridica romana è caratterizzata dall'assenza
di una giurisprudenza in senso moderno.
Il termine giurisprudenza, riferito all'esperienza giuridica romana, indica quella che oggi è la dottrina, cioè l'insieme
delle opinioni proposte da coloro che studiano professionalmente e scientificamente il diritto; riferito alla nostra attuale
esperienza, indica la dottrina delle corti ricavata dalle loro decisioni, e che, nei sistemi continentali, ha un'importanza
più o meno grande come precedente per i futuri giudizi.
L'assenza in Roma di una giurisprudenza in senso moderno è dovuta al fatto che, nei processi delle legis actiones e
formulare, il giudice è un laico ed un privato, al cui parere sono le parti ed il magistrato ad attribuire valore decisivo, e
all'assenza di una motivazione della decisione, elemento essenziale per la formazione di una giurisprudenza in senso
moderno. Solo nella cognitìo extra ordinem si afferma il principio della motivazione.
In questa situazione, i pareri dei giuristi erano sentiti vincolanti per il giudice privato, in quanto laico, e per i magistrati
e funzionari che non fossero cultori di diritto. Il giudice non si sentiva autorizzato a disattendere il parere di un giurista,
che, esibito da una delle parti, fosse il solo versato agli atti: egli poteva riacquistare libertà d'azione, solo quando i pareri
fossero più d'uno e discordanti, ma la scelta avveniva all'interno dei pareri prodotti.
In ciò giocava anche l'influsso del modello offerto dall'interpretatio dei pontifices, il cui carattere vincolante per i privati
e per i magistrati non era mai stato posto in dubbio, e che rispetto all'interpretatio prudentium si presentava unitaria. Il
ius controversum nasce proprio quando, sostituitisi i prudentes ai pontifices, l'unitarietà dell'interpretatio lasciò il campo
alla pluralità delle opinioni: per l'auctoritas che veniva riconosciuta anche ai giuristi laici, ogni sententia emessa dai
singoli prudentes era sentita, in sé, come vincolante, col limite del concorso delle altre diversamente orientate. Tutte
costituivano astrattamente diritto, perché tutte potevano esser scelte dal giudice per l’applicazione: ma, nel caso in cui vi
fossero più sententiae divergenti applicabili, nessuna di esse era, più delle altre, legittimata ad esser considerata come il
diritto vigente. Nel caso di specie, tale diritto era rappresentato dalla sententia che il giudice ritenesse di accogliere.
La giurisprudenza continua così ad assolvere una funzione al tempo stesso rivolta all'applicazione dell'ordinamento
vigente ed allo sviluppo dello stesso: ciò che, in termini moderni, può caratterizzarsi dicendo che i prudentes trattano il
sistema giuridico romano come un sistema aperto e non chiuso.
Un sistema chiuso è quello in cui le scelte di politica legislativa ed i giudizi di valore che le sottendono avvengono
mediante appositi procedimenti cui non partecipa il giurista, che deve limitarsi, nell'attività d'interpretazione e di
ricostruzione del sistema, a riconoscere tali scelte e tali valori, ricorrendo eventualmente all'analogia. Un sistema aperto,
invece, permette al giurista l'integrazione dei valori racchiusi nell'ordinamento, in limiti che possono variare di volta in
volta. Nell'ambito della giurisprudenza romana, questa integrazione avveniva essenzialmente in 2 modi: o perché la
stessa fattispecie veniva riconsiderata nel suo insieme, dando peso ad aspetti che erano stati valutati come irrilevanti

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nella precedente considerazione; o perché si procedeva adoperando l'argumentum a specie, cioè, dinanzi ad un caso che
sarebbe rientrato in una valutazione normativa precedente, ma che presentava aspetti particolari, la regolamentazione
giuridica veniva modificata proprio in funzione di tali aspetti. Il sistema aperto è il naturale modo d'essere dei diritti
giudiziari o giurisprudenziali, in cui lo sviluppo dell'ordinamento è, in parte più o meno ampia, lasciato alle decisioni
dei giudici od all'elaborazione della dottrina.
Il ruolo che la giurisprudenza continuava ad assolvere nel principato sta alla base del fatto che, neppure in quest'epoca,
la consuetudine riesca a trovar ingresso nei cataloghi delle fonti del diritto. La relativa problematica non rimase estranea
ai giuristi; da quanto risulta nel Digesto, è soprattutto Giuliano che se ne interessa, arrivando a formulare una teoria
generale della consuetudo, con particolare riguardo al fondamento della stessa, ma né lui né i giuristi successivi
sembrano attribuire all'istituto un'efficacia operativa al di là degli usi regionali, del mos regionis. Giuliano fonda
l'equiparazione fra lex e consuetudo sul ruolo svolto in entrambe dalla voluntas populi, esplicita nella prima, e
manifestantesi nella seconda in un contegno concludente, l’uniformità dei comportamenti.
Questa attività della giurisprudenza viene, però, a confrontarsi, sotto molteplici aspetti, con la nuova realtà istituzionale
del principato, e con lo strumento normativo tipico di essa, e cioè le constitutiones principis.
Per quanto concerne l'ordinamento privatistico, nel primo secolo del principato, l'imperatore procede attraverso gli
strumenti giuridici della costituzione repubblicana: l'epoca delle grandi riforme è quella del principato augusteo. In
questo momento, anche per le caratteristiche dei settori presi di mira, lo strumento adoperato è quello della legge
comiziale. Successivamente, viene prevalentemente adoperato il senatuseonsultum per imporre determinate prese di
posizione al magistrato nel potere formalmente discrezionale che egli ha nel configurare l'editto giurisdizionale.
Le costituzioni a carattere generale non vengono adoperate sul piano del diritto privato solo in casi molto circoscritti,
probabilmente anche a causa dell'incertezza sulla qualifica dei loro effetti fino al riconoscimento, agli inizi del II secolo,
della loro forza di legge. Le costituzioni generali servono per l'organizzazione dell'attività amministrativa e, soprattutto,
delle province. L'exemplum delle costituzioni particolari si limita ai decreta, mentre si registra un'assenza pressoché
totale dei rescripta. È così lasciato alla giurisprudenza di far progredire l'ordinamento attraverso il metodo casistico,
come essa aveva sempre fatto a partire dal II secolo a.C. La svolta si produce con Adriano e si accentua fino ai Severi,
allorché l'esaurirsi dell'attività letteraria dei giuristi lascia il campo alla cancelleria imperiale nello sviluppo
dell'ordinamento sul piano dell'elaborazione casistica. Il numero dei rescripta cresce, ma ciò non fa venir meno l'attività
rispondente dei giuristi, che si mantengono attivi in tale campo fino al termine della letteratura giuridica classica.
Oltre al controllo, più o meno indiretto sui giuristi, l'imperatore esercita, così, direttamente l'iniziativa nell'ambito
dell'individuazione della massima di decisione in relazione a controversie potenziali od in atto. La coincidenza
dell'inizio di questa attività col regno di Adriano non è casuale, data la forte personalità del princeps, la sua opera di
profonda riorganizzazione dello stato, la sua tendenza all'accentramento; comunque, la via da lui scelta ed alla quale i
suoi successori rimarranno fedeli sino a Diocleziano, si manifesta del tutto omologa, nell'innovazione, alla caratteristica
dell'esperienza romana del diritto giurisprudenziale, in cui l'ordinamento progredisce attraverso le decisioni sui casi
concreti. Alla svolta iniziata da Adriano sul piano dell'attività di consulenza pratica per cui la cancelleria imperiale si
mette in concorrenza con i responsa dei giuristi non corrisponde un aumento della normazione di carattere generale ed
astratto, che avrà una portata del tutto marginale fino agli inizi del dominato. In questa ridotta attività di normazione
generale ed astratta, non vengono utilizzati gli edicta, ma senatusconsulta e orationes prìncipis in senatu habitae.
Non bisogna accentuare eccessivamente la contrapposizione fra cancelleria imperiale e giurisprudenza. I singoli giuristi
erano integrati, sempre a partire da Adriano, nel consilium prìncipis e, d'altro canto, la valorizzazione dei principi posti
in decreta, rescrìpta ed epistulae era lasciata alla giurisprudenza che li introduceva nel contesto del ius controversum.
Nell'ambito delle costituzioni relative all'ordinamento privato, un problema è posto dal ius novum o extraordinarìum. I
principi fissati nelle costituzioni particolari rilevavano, attraverso l'interpretazione giurisprudenziale, sul piano del
diritto civile o del diritto onorario, a seconda del contesto su cui andavano ad incidere. Tuttavia, sul piano processuale,
sulla base del potere giurisdizìonale del princeps nasce una nuova forma di processo, la cognitio extra ordinem, che
rappresenta sul piano della tutela civile dei diritti il corrispondente della cognitio criminale; inoltre, si configurano, al
livello sostanziale, situazioni giuridiche soggettive che trovano nella cognitio la loro esclusiva protezione.
La cognitio extra ordinem sorge solo in epoca imperiale per effetto degli interventi dell'imperatore; alle origini esistono
tante cognitiones quanti casi di applicazione, ma vi sono alcuni tratti che rappresentano le caratteristiche essenziali ed
unificanti di questo nuovo tipo di processo.
Scompare la distinzione tra fase in iure e fase apud iudicem. Nella cognitio, il magistrato od il funzionario presso il
quale s'introduce la causa è competente per l'intero processo; magistrati e funzionari competenti nella cognitio sono
quindi detti iudices, adoperando il termine usato nell'ordo per il privato chiamato a decidere della controversia.
Era possibile che il giudice competente delegasse altri a compiere determinati atti ed eventualmente anche a decidere: si
ha così la figura del iudex datus, che è però diversa da quella del iudex prìvatus, in quanto il primo è un delegato
dall'organo pubblico competente, svolge la sua attività sotto il diretto controllo del delegante e non è mai persona di
fiducia delle parti, da queste liberamente scelto quando fossero d'accordo su un nominativo.
Il processo cognitorio è un procedimento fondato sulla pubblica autorità e non sulla volontà delle parti. Ciò si manifesta
anche in altri punti: nel processo formulare la possibilità di arrivare all'accertamento della situazione controversa
dipendeva dalla buona volontà del convenuto, che doveva aderire alla litis contestatio, momento terminale della fase in
iure; nel caso non acconsentisse al processo, il convenuto era esposto alle sanzioni previste per l’indefensio, ma non si
arrivava alla sentenza che accertasse la questione controversa, alla res iudicata. Nella cognitio, invece, si poteva

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giungere alla condanna in contumacia del convenuto che non avesse ottemperato all'obbligo di comparizione in
giudizio: obbligo che era qui configurabile, proprio perché la citazione del convenuto avveniva direttamente ad opera
dell'autorità giudiziaria adita, sollecitata dall'attore, od era stata da questa autorizzata.
La cognitio è, dunque, rispetto all'ordo iudiciorum privatorum un processo marcatamente pubblicistico. Per la prima
volta nell'ambito del processo privato si riconosce che la funzione di procedere all'accertamento della situazioni
controverse appartiene allo stato e presuppone un'autorità pubblica del giudicante, anche nel momento della decisione.
Questa caratteristica della cognitio extra ordinem la predestinava ad affermarsi come il processo connaturale alle
strutture del tardo principato ed come il modello per il processo ordinario del dominato.
Già dalle origini la cognitio assunse, dal punto di vista processuale, quella duplice funzione che ne rimarrà una delle
caratteristiche per tutto il principato: 1.garantire la tutela giudiziaria alle situazioni giuridiche soggettive che, non
disciplinate né dal ius civile né dal ius honorarium, erano regolate dall'attività normativa del prìnceps; 2. offrire una
nuova forma di tutela processuale ai diritti soggettivi rilevanti dai 2 grandi sistemi giuridici della tarda repubblica e del
principato. In quest'ultima applicazione, l'affermarsi, soprattutto nelle province, della cognitio in luogo delle forme
dell'ordo iudiciorum privatorum rappresentò uno dei fattori che hanno più contribuito al declino di quest'ultimo. Sotto il
primo aspetto, invece, la tematica della cognitio extra ordinem coincide con quella del ius novum o extraordinarium.
Seppur in forme diverse, si ripete un fenomeno verificatosi già nell'emersione del diritto onorario: il nuovo sistema è
strettamente collegato con l'apparire di nuove forme processuali e le nuove forme processuali vennero estese a tutelare
anche le situazioni soggettive rilevanti dai sistemi precedenti.
L'importanza del ius extraordinarium è, però, molto marginale rispetto al sistema civilistico ed a quello pretorio. Gli
istituti che rilevano soltanto da esso sono pochi, anche se talora importati, come i fedecommessi e gli alimenti dovuti fra
i parenti più stretti. In altri casi, la protezione attraverso la cognitio può aver avuto un'influenza anche sul regime
sostanziale, ma si tratta di istituti che trovavano un aggancio normativo in altre branche del diritto.
Potere imperiale e giurisprudenza - Si ha l'impressione che i giuristi contemporanei di Augusto non si rendano conto
di quanto il mutamento delle istituzioni sia destinato ad influire sui modi di creazione e di interpretazione del diritto
privato. Quanto sappiamo dei giuristi augustei mostra una tendenza alla separazione tra la politica e la giurisprudenza.
II primo vistoso esempio di sovrapposizione di politica e giurisprudenza, l'istituto del ius respondendi, non sembra
incidere in modo diretto sui contenuti del lavoro interpretativo. Piuttosto, è uno strumento di alleanze per Augusto e in
qualche misura tende a limitare la libertà di valutazione dei giudici rispetto al materiale giurisprudenziale.
La storia dei giuristi nei primi anni dell'impero si apre con la contrapposizione politica tra Labeone e Capitone, che però
rimane esterna al lavoro giurisprudenziale. Il dichiararsi a favore di Augusto, come Capitone, o l'essergli ostile, come
Labeone, non significa l'adozione di un indirizzo giurisprudenziale piuttosto che di un altro, anche perché ai loro occhi
Augusto non è portatore di un nuovo ordine giuridico. Egli rappresenta una potenza politica che sovrasta le istituzioni e
si impone alle magistrature tradizionali, ed è per questo che un conservatore come Labeone gli è avverso. Sembra che in
questa ostilità sia coinvolta anche la dimensione stessa del potere, l'idea che il giurista possa accrescere il suo prestigio
ricoprendo le magistrature somme. Labeone segue e rafforza una consuetudine presente tra i giuristi della fine della
repubblica, che alla crisi politica avevano risposto coltivando il rigore e sviluppando le potenzialità creative della
propria scienza, e sceglie il disimpegno: preferisce dedicarsi allo studium iuris, piuttosto che condividere responsabilità
politiche, all'ombra di un vincitore che aborrisce. Fu senatore e pretore, ma rifiutò il consolato, al contrario di Capitone.
Appare attendibile il giudizio di Pomponio, che considera Labeone un giurista innovatore, guardando al contenuto della
sua opera. Più di una volta egli affronta il problema dell'arricchimento e della definizione rigorosa del lessico su cui
lavora l'interprete, anche con proposte di uso giuridico della lingua greca. È frequente l'uso delle categorie genus e
species, l'esplicita enunciazione di definitiones e la ricerca di differenze tra figure simili o contigue. Anche se Labeone
non evidenzia novità metodologiche essenziali rispetto ai giuristi tardo-repubblicani, si coglie la tendenza a sviluppare
certe caratteristiche già emerse nell'attività giurisprudenziale: la ricerca di un rigoroso impianto logico del discorso e la
preminenza di valutazioni equitative sulla mera registrazione delle norme, prese nel loro significato tradizionale.
Capitone scrive almeno di 7 libri De iure pontificio, probabilmente dopo che Augusto diviene pontefice massimo. Pare
che egli segua nel lavoro giurisprudenziale un orientamento più conservatore di quello di Labeone, ma è il confronto è
difficile poiché, mentre abbiamo molte citazioni di Labeone, ci sono pervenuti solo 3 frammenti di Capitone in materia
privatistica. Dobbiamo immaginare che egli abbia contribuito al diritto privato attraverso i responsa, visto che non
abbiamo notizia di scritti relativi allo ius civile e che la sua posizione filoaugustea fa pensare che abbia ricevuto il ius
respondendi. Forse in materia privatistica egli è più conservatore di Labeone, ma le sue opere più importanti ed
apprezzate dai posteri sono quelle che riguardano il ius publicum. Anche qui non risultano particolari innovazioni.
Augusto cerca di stabilire rapporti di amicizia con i giuristi più celebrati ed attivi nei primi anni del principato, offrendo
loro cariche e, soprattutto, una particolare prerogativa, il ius respondendi ex auctoritate principis, cioè il diritto di dare
responsi speciali, non alla pari con quelli di tutti gli altri, ma rafforzati dall'autorità imperiale.
L'attività dei giuristi respondenti continua ad essere libera, ma l'autorità che il principe attribuisce ad alcuni giuristi non
tarda a farsi sentire. Pur non essendo formalizzata, essa orienta le decisioni dei giudici e condiziona la stessa attività
magistratuale, introducendo gradualmente una subordinazione del giudicante ai responsi privilegiati dall'auctoritas
principis, che verrà fissata una volta per tutte in un rescritto imperiale di Adriano, ove si attribuirà ad essi forza di legge.
Proprio con Adriano, però, il sistema delle concessioni di ius respondendi tende a cadere in desuetudine. Il problema
che si pone a questo imperatore è apparentemente lo stesso già affrontato da Augusto: stringere un'alleanza con i
giuristi, o almeno con una parte di essi. Adriano lo risolve non più attraverso la promozione individuale di alcuni, ma

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potenziando il consilium principis, che. composto di funzionari e non più di prudentes, è posto al vertice dell'apparato
imperiale. Collabora alla stesura delle constitutiones, assiste il principe nei giudizi dei quali egli ha conoscenza diretta e
che si concludono con decreta non impugnabili.
L'alleanza si realizza nel modo più pieno e semplice, in quanto si viene a creare un ceto di giuristi che sono anche
funzionari imperiali. L’appartenenza alla burocrazia diventa la condizione professionale che consente di partecipare
all'elaborazione del diritto e di portare in essa la continuità della giurisprudenza.
I giuristi del I secolo e le scuole di diritto - Durante il I secolo dell'impero, l'insegnamento del diritto e più in generale
l'attività intellettuale che si esprime attraverso la soluzione di problemi giuridici della pratica o di quaestiones teoriche
si organizzano in scholae o sectae, forse ispirandosi all'antico modello delle scuole filosofiche greche.
Secondo Pomponio, la prima divisione in scuole giuridiche sarebbe nata dal contrasto politico fra Labeone e Capitone.
Pomponio sottolinea la presenza in Labeone di spunti innovativi che non si trovano nel suo avversario, ma questo
giudizio, riferito probabilmente alle opere di diritto privato, nelle quali il giurista antiaugusteo da i suoi contributi più
originali, non può essere esteso a tutta la scuola che Pomponio fa iniziare dall'insegnamento labeoniano, che sarebbe
stato ripreso da Cocceio Nerva e Proculo, che da il nome alla setta (proculiani). I successori di Capitone sarebbero
invece Sabino e Cassio Longino, da cui derivano i due nomi di questa seconda scuola: sabiniana o cassiana.
Più volte si è ricercato un fondamento culturale alla contrapposizione, da alcuni rinvenuto nella maggiore attenzione dei
Sabiniani al ius gentium e dei Proculiani per il ius civile, da altri in un riflesso di quella delle scuole dei grammatici,
divisi tra analogisti (come i sabiniani, più preoccupati della costanza delle regole) ed anomalisti (i proculiani, sensibili
alle peculiarità dei singoli casi). In realtà non è possibile trovare un comune denominatore ideale o metodologico che
unisca rispettivamente i Proculiani ed i Sabiniani. Qualcuno anzi ritiene che che il collegamento tra i vari giuristi sia
nato dall'attrazione e dalla novità che l'insegnamento labeoniano porta con sé nei primi anni del principato. Sarebbe
sorta spontaneamente una scuola, ma gli ambienti filoaugustei ne avrebbero subito creata un'altra, contrapposta.
Tuttavia, le radici politiche del contrasto possono spiegare solo l'origine delle sectae. Esse hanno soprattutto un compito
formativo, oltre ad essere circoli intellettuali, e sono guidate da un caposcuola che, se di solito rispetta e sviluppa le
soluzioni giuridiche dei suoi predecessori, può distaccarsi da essi nelle convinzioni ideali e nel metodo scientifico. Alle
dipendenze del caposcuola stanno probabilmente alcuni giuristi minori, stipendiati, cui spetta l'insegnamento.
Significativamente, la divisione delle scuole scompare quando, con la nuova disciplina adrianea del consilium principis,
i giuristi tendono ad identificarsi con l'apparato imperiale. Ciò non toglie che continuino a funzionare speciali centri
formativi per l'educazione giuridica, ma questa attività è ormai staccata dall'esercizio pratico della giurisprudenza.
Sabino, allievo di Capitone, respondente e maestro di diritto, lontano dalla politica, è il primo giurista non appartenente
al rango senatorio che si vede attribuito da Tiberio il ius respondendi. La sua opera più famosa è data dai Libri tres iuris
civilis, una trattazione forse a carattere manualistico, molto conosciuta e commentata dalla giurisprudenza posteriore.
L'opera ripercorre nelle linee generali lo schema dei Libri iuris civilis di Quinto Mucio e non comprende la materia
dello ius honorarium. Essa dedica ai contratti consensuali e reali una trattazione lacunosa, il che può spiegarsi con le
vicende del testo, composto su appunti parziali delle sue lezioni, pubblicati forse dai discepoli dopo la morte dell'autore.
Cassio Longino, a differenza del suo maestro Sabino, è ricco e ricopre alte cariche nell'amministrazione dell'impero.
Scrive anch'egli dei Libri iuris cìvilis, seguendo non pedissequamente il modello di Sabino. La trattazione è più ampia
di quella del maestro e nella materia contrattuale si sofferma su argomenti che quello non aveva toccato.
Cocceio Nerva padre è allievo di Labeone e per certi aspetti ne riprende le convinzioni politiche. Si uccide nel 33,
disperato per la fine della libertà e dell'antica repubblica. Gli succede a dirigere la scuola Proculo, che compone raccolte
di Epistulae e di Responsa. Al pari di Sabino, sembra che egli si tenga lontano dalle cariche politiche.
Intorno alla fine del I secolo la presenza dei giuristi negli apparati politico-amministrativi diviene un fenomeno più
frequente. Intensa è la carriera pubblica di Giavoleno; allievo di Cassio, dirige la scuola sabiniana, dà anche responsi in
pubblico ed interviene per risolvere problemi connessi all'attività magistratuale. È evidente che la sua autorevolezza
deriva dalla posizione politica di primo piano che egli occupa e che deve anche avergli fruttato la concessione del ius
respondendi da parte dell'imperatore. Giavoleno scrive dieci Libri ex. posterioribus Labeonis. Lo studio attento di un
giurista che è il fondatore della scuola avversa a quella di cui fa parte, pur perfettamente comprensibile, mostra la libertà
di giudizio di Giavoleno.
I giuristi del II e del III secolo - Salvio Giuliano è allievo di Giavoleno e membro del consilium di Adriano e dei suoi
successori. L'imperatore col quale stringe legami più stretti è certo Adriano, che gli affida tra il 134 e il 138 l'incarico di
redigere un testo definitivo ed unico dell'editto perpetuo. Giuliano scrive 90 libri di Digesta, trattando la materia edittale
e una serie di leggi e senatoconsulti; l’opera è stata più volte ripubblicata anche dopo la sua morte con note di altri
giuristi. Oltre ad essa la tradizione attribuisce a Giuliano scritti di minore portata. Si interessò particolarmente alla
consuetudine e in genere alla problematica delle fonti del diritto, ed a questo proposito vede nell'interpretatìo e nelle
costituzioni imperiali gli strumenti adatti per lo sviluppo dell'ordinamento.
Pomponio sembra essersi dedicato soprattutto all'insegnamento; scrive numerose opere, tra le quali il Liber singularis
enchiridii, sulla cui autenticità si è molto discusso, in quanto esso rivela segni di manipolazione postclassica. Inoltre, nel
Digesto figurano frammenti la cui inscriptio si riferisce ora al Liber singularis enchiridii, ora da un'opera intitolata Libri
duo enchiridii. Quello che conta è stabilire se nei testi, così come ci sono giunti, si esprima un pensiero riferibile alla
cultura giuridica del II secolo, e la risposta sembra affermativa. Pomponio scrive anche 150 Libri ad edictum (l’opera
più vasta della giurisprudena romana), e altre opere in materia onoraria e civilistica.
Sappiamo molto poco della vita e della personalità di Gaio, che non svolge alcuna attività politica e si occupa solo di

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insegnamento. Il fatto che egli sia noto con il semplice praenomen ha suggerito l'ipotesi che vivesse in una provincia,
probabilmente ellenistica. Comunque Gaio sembra sensibile alle tradizioni proprie del diritto romano e, tra Sabiniani e
Proculiani, si schiera decisamente con i primi. Il manuale che lo ha reso celebre nel tardo-antico e presso di noi, le
Institutiones, risponde all’esigenza di una istruzione giuridica chiara ed accessibile, che contribuisca ad educare i nuovi
giuristi funzionari. Limportanza delle Institutiones presso di noi è data dal fatto che è l'unica opera della giurisprudenza
classica che ci sia pervenuta oltre alla compilazione giustinianea. Il testo delle Institutiones è stato pubblicato, agli inizi
del secolo scorso, dopo essere stato ritrovato in un manoscritto, probabilmente del V secolo, nella Biblioteca capitolare
di Verona. In particolare, il libro IV ha permesso alla dottrina romanistica di avere, per la prima volta, una conoscenza
sufficientemente approfondita dei meccanismi del processo formulare. Il testo dell’opera è probabilmente ricavato dalle
lezioni ed illustra gli aspetti fondamentali del diritto privato romano, secondo un ordine di esposizione nuovo. Nel I
libro viene trattato il diritto che concerne le persone; nel II e nel III è trattato il diritto delle res, compresa la disciplina
dell'eredità, dei iura in re aliena ed delle obbligazioni, in quanto Gaio muove da una nozione assai comprensiva di res,
in cui rientrano sia le cose corporali, oggetti definiti e tangibili dei rapporti di appartenenza imperniati sulla detenziòne
materiale, sia le cose incorporali, che trovano un fondamento ed una definizione solo nel diritto. Il IV libro tratta la
materia del processo civile. Le Institutiones gaiane, scarsamente considerate dai giuristi dell'età classica, avranno
fortuna tra il IV e il V secolo, fino ad esser prese da Giustiniano come modello per le sue Istituzioni. La dote maggiore
di Gaio è la semplicità, raggiunta attraverso un'esposizione sistematica e piana, nella quale si cerca sempre di connettere
i singoli problemi entro schemi generali che adempiono ad una funzione classificatoria. Nella compilazione giustinianea
si trovano estratti di un altro manuale istituzionale attribuito a Gaio, le Res cottidianae, che presentano in vari punti
innovazioni rispetto allo schema ed alle dottrine contenute nelle Institutiones.
Papiniano, di origine provinciale, svolge un’intensa carriera pubblica, ma la sua fortuna si arresta con la morte di
Settimio Severo. Infatti Caracalla gli sottrae la carica di praefectus praetorio e poi lo fa uccidere. Papiniano scrive 37
Libri quaestionum, che saranno poi accompagnati da note di Paolo. L'ordine seguito è quello tipico dei Digesta: i primi
28 libri seguono l'editto, poi si passa alle XII Tavole e ad altre leggi. Ma, in questa ultima parte della trattazione, è più
frequente l'analisi di costituzioni imperiali, che vengono poste sullo stesso piano delle leges di origine repubblicana. La
equiparazione, già proposta da Gaio, determina una connessione di argomenti, in cui il riferimento alla normazione
imperiale non è occasionale né rimane in secondo piano.
Allievo di Cervidio Scevola e adsessor di Papiniano quando questi era praefectus praetorio, Paolo proviene da una
famiglia di origine italica; appartiene al consilium di Settimio Severo e a quello di Caracalla. Scrive numerose opere,
molte delle quali volte a commentare gli scritti di giuristi anteriori. Vi è in questi scritti un grande lavoro di rilettura e di
sistemazione della giurisprudenza precedente, che Paolo tratta, come Ulpiano, senza alcuna consapevolezza storica. Egli
scrive anche 80 Libri ad edictum, utilizzando in modo massiccio tutta la tradizione giurisprudenziale, oltre a libri di
Institutiones, Regulae e Responsa. Alcuni responsi appaiono identici a costituzioni imperiali contemporanee
pervenuteci attraverso il Codice giustinianeo.
Ulpiano è di origine siriana e la sua attività letteraria si svolge probabilmente prima della fase di impegno più intenso ai
vertici dell'apparato imperiale. Scrive 81 Libri ad edictum praetoris, seguiti da 2 libri che commentano l'editto degli
edili curuli. Compone inoltre 51 Libri ad Sabinum: un'opera che sembra interrotta, e che forse l'autore ha dovuto
tralasciare negli anni in cui ha abbandonato la letteratura giuridica per volgersi all'attività di funzionario imperiale. Le
monografie dedicate agli officia dei magistrati imperiali raccoglievano norme sparse e definivano i doveri incombenti
alle varie figure che dovevano costituire l'estesa e complessa burocrazia del tardo principato. Da un lato, rispondevano
ad un'esigenza di certezza nell'esercizio del potere; d'altro lato, fissavano uno statuto professionale, una serie di regole
di comportamento, cui avrebbe dovuto uniformarsi il nuovo personale dirigente delle istituzioni imperiali.
Di qualche anno successivi alle opere di Ulpiano sono gli scritti di Marciano, fra cui 16 libri di Institutiones. Dopo una
breve introduzione, il giurista sembra voler seguire la sistematica gaiana.
Modestino, allievo di Ulpiano e ultimo giurista dell'età Severiana, fu maestro di diritto del figlio dell'imperatore
Massimino. Scrive libri di Regulae e Responsa e 6 Libri de excusationibus, l'unica opera della giurisprudenza romana
redatta in greco.
La lex lulia e l’ordo iudiciorum publicorum - II sistema delle quaestiones perpetuae trovò definitiva ed organica
sistemazione nella lex lulia iudiciorum publicorum, fatta votare da Augusto nel 17 a.C. insieme alla lex lulia iudiciorum
privatorum, riordinatrice del processo privato. Del vasto complesso legislativo ci sono pervenute solo frammentarie
testimonianze, che però mostrano con sufficiente chiarezza le linee e la portata del disegno augusteo. Tutti i punti più
importanti del procedimento avanti alle giurie costituirono oggetto di dettagliata regolamentazione: le condizioni della
capacità di giudicare, le dispense dall'ufficio di giurato, il numero dei patroni, le limitazioni del diritto d'accusa, il
divieto di prestare testimonianza, ecc. Furono anche introdotte alcune importanti innovazioni. L'album iudicum, in base
alla lex Aurelia composto di 3 decurie di senatori, di cavalieri e di tribuni aerarii, secondo la lex lulia si compose di 3
decurie di equites, alle quali fu successivamente aggiunta una IV decuria, formata di membri di un censo inferiore, per
giudicare delle cause civili di più lieve entità. Una V decuria fu istituita da Caligola. È probabile che i senatori siano
stati inclusi nelle 3 decurie di cavalieri, entro le quali tuttavia dovevano costituire una piccola minoranza, visto che ogni
decuria si componeva di circa 1000 membri, nominati a vita dall'imperatore. L'età minima richiesta per i giudici fu
abbassata dai 30 ai 25 anni: e poiché molti tentavano di sottrarsi a quest'ufficio, si permise che ogni decuria godesse a
turno di un anno di dispensa dal servizio e che l'attività giudiziaria restasse sospesa a novembre e di dicembre.
Non sembra che la legislazione giulia abbia attribuito all'imperatore il potere di giudicare in grado d'appello contro la

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sentenza pronunciata da una quaestio; comunque, in caso di condanna per un solo voto di maggioranza, Augusto potè
avvalersi del calculus Minervae, conferitogli nel 30 a.C..
A tale importante corpo di disposizioni si accompagnarono altre leggi, intese a disciplinare in modo diverso o più
dettagliato alcune figure di reato, già regolate dalla precedente legislazione criminale: la lex de ambitu, che mitigò le
severissime norme tardo-repubblicane in materia di corruzione elettorale; la lex de vi publica et privata, che provvide ad
una dettagliata elencazione delle fattispecie di violenza a danno delle pubbliche istituzioni o di privati cittadini; la lex de
peculatu, che dettò nuove norme contro la sottrazione e l'uso indebito di denaro o beni pubblici, il furto di cose sacre o
religiose e l'indebita ritenzione di somme o beni ricevuti dall'erario per il compimento di un pubblico ufficio; la lex de
maiestate, che operò una minuta elencazione delle varie specie di offesa alla maestà del popolo romano.
Ad Augusto risale anche l'istituzione di 2 nuovi tribunali permanenti, per i reati di adulterio e per crimini annonari.
Fondamentale, sulla prima categoria di delitti, è la lex lulia de adulteriis coercendis, in forza della quale l'adulterio fu
per la prima volta attratto nell'ambito dei crimini pubblici. La legge puniva l'unione sessuale con donna maritata
(adulterio in senso stretto) o meno (stuprum) e lo sfruttamento e il favoreggiamento di tali crimini (lenocinium). Non
contemplava invece, a quanto ci è dato sapere, come figura autonoma di reato anche l'unione sessuale tra parenti o affini
(incestum), che era punita solo nel caso di concorso con l'adulterio o con lo stupro. L'accusa era esercitabile, in ordine
di preferenza, dal marito e dal padre dell'adultera: ma il marito non poteva, come in passato, perdonare la donna a
mettere a tacere il fatto, perché, se dopo essere venuto a conoscenza dell'adulterio non scioglieva il matrimonio, era
ritenuto colpevole di lenocinio, e se non intentava l'accusa entro 60 giorni dal divorzio, essa poteva essere sperimentata
da qualsiasi cittadino entro 4 mesi. Quanto ai crimini annonari, le norme fondamentali in materia furono dettate dalla
lex lulia de annona, che preseguiva ogni forma di accaparramento e di speculazione intesa ad un artificioso rincaro dei
prezzi delle derrate alimentari. Ma, a differenza della quaestio de adulteriis, questa corte non ebbe lunga vita, e fu ben
presto soppiantata dai tribunali straordinari dei funzionari imperiali.
La cognitio extra ordinem in materia criminale - II sistema delle quaestiones perpetuae fissato dalle leggi giulie, fin
dai primi anni del principato subì la concorrenza di un nuovo tipo di procedimento criminale, più conforme al nuovo
assetto politico-costituzionale dello stato. Le corti di giustizia permanenti non potevano incontrare il favore del nuovo
regime: il compito di giudicare era attribuito a privati cittadini e le liste erano troppo ampie per consentire una decisiva
interferenza del princeps nella loro composizione. Anche dal punto di vista tecnico i difetti erano numerosi: il privato
che voleva rendersi accusatore per un fatto nuovo, che appariva meritevole di repressione, non poteva sperimentare
l'accusa dinanzi ad una quaestio, perché ogni tribunale era competente solo per le fattispecie previste dalle singole leggi
istitutive. Notevoli inconvenienti derivavano anche dall'impossibilità di sottoporre al giudizio di una stessa corte i casi
di concorso di persone o di reati e di graduare la pena in rapporto alle circostanze soggettive ed oggettive del caso.
Ciò portò al declino dei tribunali ordinari, mentre l'affermarsi al di sopra degli antichi organi repubblicani della figura
del princeps apriva la strada alla sua sempre maggiore ingerenza nella sfera della repressione criminale. Pur essendo
ancora testimoniate per tutto il II secolo, le quaestiones permanenti vennero così progressivamente cedendo il campo ad
un nuovo procedimento, senza partecipazione di giurati, in cui l'intera questione era affidata all'imperatore o ad un suo
delegato, investito del giudizio dall’introduzione alla decisione. Tale procedimento, detto cognitio extra ordinem perché
sorge e si sviluppa al di fuori del sistema processuale e criminale dell'ordo iudiciorum, venne in un primo tempo ad
affiancarsi, poi a sostituirsi al procedimento delle quaestiones.
Tale sviluppo si profila a cominciare da Augusto, con l'entrata in funzione di 2 nuove corti criminali, una costituita
dall'imperatore con l'assistenza del suo consilium, l'altra dal senato sotto la presidenza dei consoli.
Il fondamento giuridico della competenza giurisdizionale del prìnceps è controverso. Una parte cospicua della dottrina
la ricollega alla notizia di Dione Cassio secondo cui, nel 30 a.C., un plebiscito avrebbe attribuito ad Ottaviano il diritto
di giudicare su richiesta. A dubbi da luogo l'altra ipotesi per cui la potestà giurisdizionale del principe troverebbe la sua
base legale in uno dei poteri magistratuali già previsti dalla costituzione repubblicana o nella clausola discrezionale
della lex de imperio. Sembrerebbe comunque preferibile l'opinione che individua il fondamento e la giustificazione
costituzionale della giurisdizione del principe nell'auctoritas imperiale.
L'esercizio di tale potere di repressione criminale riveste 3 aspetti fondamentali: l'avocazione, l'appello e la delega di
giurisdizione. Il princeps può avocare al proprio tribunale sia la cognizione di ipotesi delittuose non previste dalle leges
publicae, che quella di crimini sottoposto ad una specifica quaestio, che vengono in tal modo sottratti alla competenza
del giudice ordinario. Casi di cognitio personale dell'imperatore sono documentati nelle fonti sin dall'età di Augusto, ma
è solo sotto Claudio che il fenomeno si generalizza e si pongono le basi per l’affermazione del tribunale del principe
quale supremo tribunale dell'impero.
Oltre alla giurisdizione di prima istanza, il principe ha il potere di giudicare in grado d'appello sulle decisioni emanate
da magistrati o funzionari da lui dipendenti, contro cui sia stato fatto ricorso alla sua autorità (appellatio ad Caesarem).
Il fondamento di tale potere è da ricercarsi nell'auctoritas imperiale, il che induce ad escludere una sua derivazione
diretta dalla provocatio ad populum, anche se in seguito il nuovo istituto rimpiazzerà, quanto agli effetti pratici, l'antico
ricorso alle assemblee popolari.
Ma più che per cognizione diretta o in seguito ad un appello, l'imperatore esercita la sua giurisdizione per delegazione,
cioè attribuendo in via generale e permanente la cognizione di determinate materie a propri funzionari o rimettendo la
decisione di singoli casi a speciali commissari di volta in volta nominati. La competenza giudiziaria del praefectus urbi
viene estesa ad ogni reato commesso in Roma e nel raggio di 100 miglia da Roma, soppiantando la giustizia ordinaria
delle quaestiones. Nel restante territorio della penisola, l'esercizio della repressione è affidato ai prefetti del pretorio, a

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partire dall'età dei Severi investiti anche del compito di giudicare in grado d'appello, vice sacra, delle accuse criminali
provenienti da tutte le parti dell'impero. Ai praefecti annonae e vigilum è attribuito il potere di procedere giudizialmente
nei confronti dei responsabili di atti delittuosi rientranti nell'ambito delle loro competenze amministrative, salvo che si
tratti di persone tanto scellerate e infami da dover essere rimesse al praefectus urbi.
Agli inizi del principato i poteri repressivi dei governatori provinciali variavano a seconda che il reo fosse un peregrino
o un cittadino romano. Nel primo caso, 1'animadversio del governatore poteva esplicarsi liberamente, anche se spesso si
preferiva esercitarla secondo forme e discipline analoghe a quelle delle quaestiones cittadine. Nel secondo caso, se il
reato era punibile con pena capitale, i governatori erano limitati nei loro poteri dalle guarentigie riconosciute ai cives, e
quindi, ove ne fossero stati richiesti, erano tenuti ad inviare l'accusato a Roma perché vi fosse sottoposto al giudizio di
una quaestio perpetua o del tribunale imperiale o senatorio. Tale regime era destinato a subire profonde trasformazioni
nel corso del principato. Già nel I secolo gli imperatori avevano iniziato a delegare il ius gladii, cioè l'alta giurisdizione
capitale ad essi spettante sui cives, a taluni governatori di provincie imperiali, che così acquistavano il diritto di
condannare a morte un soldato, cittadino romano, senza che questi potesse chiedere la devoluzione del processo ai
tribunali dell'Urbe. In seguito, le frequenti concessioni della cittadinanza romana, e quindi della facoltà di avvalersi del
ius provocationis, agli abitanti delle civitates provinciali, portò gli imperatori a delegare sempre più spesso il ius gladii,
anche al di là del ristretto ambito militare. Agli inizi del III secolo questa prerogativa risulta accordata in linea generale
a tutti i governatori provinciali.
I cittadini romani furono così privati dell'antica guarentigia della provocatio. Essi potevano far ricorso al principe con
l'appello, ma si trattava di un rimedio che si prestava a facili abusi. Inoltre, i funzionari del principe potevano rifiutarsi
di ricevere gli appelli: effettuati solo per procrastinare l'esecuzione della sentenza; che avevano ad oggetto decisioni
fondate sulla confessione del reo; proposti da condannati che per motivi di pubblica sicurezza dovevano essere puniti
immediatamente; che per l'infondatezza dei motivi addotti non avevano possibilità di essere accolti in sede superiore.
Per ciò che concerne l'origine e il fondamento della competenza giurisdizionale del senato, la dottrina meno recente
individuava come antecedenti storici gli interventi repressivi posti in essere da esso durante le lotte politiche dell'ultimo
secolo della repubblica, ma più approfondite ricerche hanno evidenziato che tali interventi non configuravano un diretto
esercizio di attività giurisdizionale paragonabile a quella che il senato esplicherà nel corso dell'età imperiale, ma fossero
provvedimenti di natura politica, mediante i quali l'alto consesso, in casi di particolare gravità, conferiva ai consoli
poteri straordinari di repressione nei riguardi dei cittadini. L'opinione oggi più diffusa individua il fondamento giuridico
della competenza criminale del senato in una delega dell’imperatore, espressa o tacita. Tale delega costitutiva di certo
una misura politica per compensare il senato per la riduzione della sua attività di governo, ma è possibile che fosse volta
anche ad ovviare alla rigidità dell'ordo iudiciorum publicorum. Il principe poteva intervenire in maniera determinante in
ogni fase della cognitio senatoria, sia impedendo l'ammissione dell'accusa o l'emanazione della sentenza in forza della
tribunicia potestas, sia condizionando la decisione dei patres col dare per primo il suo voto come princeps senatus.
L'intervento del senato in materia criminale sembra essersi limitato, per tutta l'età augustea, al crimen maiestatis ed al
crimen repetundarum; a quest'ultimo reato attiene il senatusconsultum Calvisianum, con cui il senato fu investito della
competenza a giudicare, per mezzo di una commissione di 5 senatori, di alcune ipotesi di concussione (non concretanti
un crimine capitale), precedentemente rimesse alla competenza della quaestio repetundarum. Ma già al tempo di Tiberio
risulta attratta all'assemblea la cognizione di reati d'ogni genere. La giurisdizione del senato continua ad esercitarsi, con
alterne vicende, sino agli ultimi decenni del II secolo: poi cede progressivamente il campo alla giurisdizione imperiale.
Il procedimento senatorio, pur configurando una cognitio in senso tecnico, risente in ampia misura l'influenza del
sistema accusatorio delle quaestiones e ricalca per vari aspetti la procedura seguita dinanzi alle giurie. Il principe può
influenzare tutte le fasi del processo. L'accusa è presentata ai consoli, che, se l'accettano, rimettono la causa
all'assemblea. Non di rado, peraltro, è l'intero senato a deliberare sull'ammissibilità della domanda. All'accusato è
assegnato un termine per comparire; nel frattempo egli non è sottoposto a misure restrittive della libertà personale. Il
giorno stabilito per la discussione, il reus deve presentarsi in senato, e la sua presenza può essere assicurata anche con
mezzi coercitivi. Il dibattimento inizia con la relazione introduttiva del magistrato presidente, alla quale fanno seguito le
orationes dell'accusatore e dell'accusato (o dei loro patroni), intervallate dall'audizione dei testimoni a carico e a
discarico. Terminato il dibattimento, i senatori sono invitati ad esprimere il loro parere, ma, mentre i giurati delle
quaestiones si pronunciano unicamente sulla colpevolezza o sulla innocenza dell'accusato, essi possono manifestare il
proprio avviso anche in merito alla pena da applicare. Il magistrato presidente mette quindi ai voti le proposte che
appaiono degne d'approvazione e i senatori manifestano il loro volere. La decisione finale ha la forma di un
senatoconsulto, ma l'efficacia di un provvedimento giudiziario. Essa è redatta per iscritto e depositata all'aerarium
Saturni, dopodiché può essere immediatamente eseguita. Tuttavia, per consentire all'imperatore di controllare le
sentenze capitali, un senatusconsultum fatto votare da Tiberio stabilì che esse non potessero essere depositate prima di
10 giorni dalla loro emanazione. Ove poi la condanna importi restituzioni pecuniarie a terzi, la determinazione delle
somme dovute è affidata a un ristretto collegio di recuperatores. Tale procedura sostituisce, verosimilmente a partire
dall'età dei Claudi, il procedimento introdotto nel 4 a.C. dal Sc.um Calvisianun. La sentenza senatoria divenuta
irrevocabile può essere resa inoperante da un provvedimento di clemenza emanato dal principe o dallo stesso senato;
assai dubbio è invece se la decisione dell'assemblea possa formare oggetto di appello ad Caesarem.
L'amministrazione imperiale e le magistrature repubblicane – Anche nell'amministrazione il principato realizzò un
compromesso tra le forme di governo repubblicane e la sostanza monarchica del nuovo regime. Si trattò però di un
compromesso più squilibrato che in altri ambiti: prevalsero nei fatti le esigenze inderogabili del nuovo regime. Augusto

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può considerarsi il vero creatore del sistema dell'amministrazione imperiale, innovando in questo campo più che in ogni
altro. Ciò perché: 1.in epoca repubblicana l'amministrazione era quasi inesistente, con l'Italia amministrata dai magi-
strati e dal senato, le province dai governatori assistiti dai questori, l'amministrazione finanziaria e fiscale sottratta allo
stato e gestita da società private di appaltatori; 2.Augusto sapeva che l'amministrazione significava il controllo reale del
nuovo stato. La sua politica amministrativa si fonderà su 2 principi: I.depotenziamento delle magistrature repubblicane
e creazione di un'amministrazione parallela affidata ai cavalieri; II.centralizzazione, rispetto alla molteplicità di poteri e
di centri decisionali esistenti sotto la repubblica, con le relative autonomie di ordine amministrativo.
Per quanto riguarda il depotenziamento delle magistrature repubblicane, i magistrati, privi di ogni rilevanza politica e
scelti da un senato in cui l'interferenza del princeps era massima, svolgevano ormai funzioni amministrative di facciata.
In realtà, ormai le magistrature servono solo per accedere alle funzioni imperiali questorie, pretorie e consolari, riservate
agli ex-questori, ex-pretori, ex-consoli, ed ai posti di governo nelle province senatorie.
I consoli mantengono l’imperium domi, la funzione di supremi rappresentanti dello stato in mancanza del principe e
hanno il potere di convocare e presiedere il senato e le assemblee popolari, ma in concreto, tali poteri sono limitati
dall'attribuzione al principe di poteri analoghi. Tale quadro è tuttavia temperato dalla tendenza ad un ripristino della
dignità formale della funzione, che si nota soprattutto nel ritorno all'annualità dell'ufficio e nella conservazione del
diritto all'indicazione col proprio nome dell'anno della carica. In seguito, tuttavia, in aggiunta ai consoli che sarebbero
dovuti entrare in carica all'inizio dell'anno (ordinarii), furono creati, in numero sempre maggiore, altri consoli chiamati
a subentrare agli ordinari (suffecti). Comunque, la rilevanza della funzione era pur sempre assicurata dal rango in senato
di coloro che l'avevano rivestita, e dal fatto che i governatori delle province, sia senatorie che imperiali, e i funzionari
elevati erano tratti dai consulares.
La tecnicità delle funzioni svolte dai pretori ha fatto sì che la relativa magistratura fosse suscettibile di mantenere la
propria rilevanza costituzionale. Anzi, le leggi giudiziarie augustee hanno riconosciuto la funzione esplicata dai pretori
urbano e peregrino e da quelli cui era affidata la presidenza delle quaestiones. Tuttavia, la stessa specifica attribuzione
ad altri pretori di determinate competenze giurisdizionali non solo veniva a limitare in concreto la sfera in cui avrebbero
potuto operare il pretore urbano ed il pretore peregrino, ma contribuiva a togliere a tali funzioni le possibilità di impulso
innovativo che le aveva caratterizzate nell'epoca repubblicana.
Sia durante il principato augusteo che sotto i suoi successori, il numero dei pretori ha subito oscillazioni, da 10 a 16, sia
per l'esigenza di attribuire specifiche funzioni, sia per ragioni di carattere contingente. L'attribuzione delle competenze
agli eletti era, in linea di massima, determinata dalla sorte, ma, per la pretura urbana, si ha testimonianza di precise
designazioni da parte di Augusto.
La censura fu ripristinata da Augusto nel 22 a.C., con la elezione di Lucio Munazio Fianco e di Paolo Emilio Lepido,
sia in relazione al programma di restaurazione delle istituzioni repubblicane, che per risolvere esigenze concrete sempre
nell'ambito di questo. Per un complesso di ragioni, l'aspetto sostanziale dell'ipotetico programma di Augusto non fu
realizzato. È perciò comprensibile il lungo intervallo che separa questo tentativo di ripristino dalla riproposizione della
funzione ad opera di Claudio. La magistratura cessa, comunque, di avere rilevanza autonoma con esercizio delle
funzioni proprie di essa da parte di Domiziano nella qualità di censor perpetuus.
Sia pure svuotato della importanza politica che lo caratterizzava, soprattutto per l'assunzione da parte del princeps della
tribunicia potestas, il tribunato è stato mantenuto da Augusto, senza modificarne i poteri e le prerogative formali e
lasciando inalterato il numero di 10 tribuni. Ai tribuni compete ancora l'intercessio (non però nei confronti degli atti del
princeps), il ius auxilii, il potere di coercizione, la multae dictio, il potere di convocare e dirigere le adunanze della
plebe, quello di convocare il senato, l'inviolabilità.
Anche l'edilità viene mantenuta, ma le sue competenze sono circoscritte in modo rilevante dall'attribuzione a funzionari
imperiali dei servizi dell'annona e della prevenzione degli incendi e dall’affidamento della cura dei giochi pubblici alla
pretura. Fra le competenze residue emergono perciò nel I secolo quella giurisdizionale inerente al controllo dei mercati
e la cura delle strade di Roma, dei monumenti e delle opere pubbliche.
La questura non ha risentito, se non in maniera relativa, del nuovo assetto costituzionale, a parte la sostanziale riforma
rappresentata dall'affidamento dell'amministrazione dell'erario a 2 pretori, anziché questori. Il numero complessivo di
questori fu peraltro ridotto da Augusto da 40 a 20, di cui 12 operavano nelle province alle dipendenze dei proconsoli; 2
ra quelli che svolgevano la propria funzione a Roma erano alle dipendenze del principe.
I magistrati minori, da 26 furono ridotti a 20, tra cui: i tresviri monetales, addetti alla monetazione senatoria; i decemviri
litibus iudicandis, che presiedono le 4 corti in cui si suddivide il tribunale dei centumviri; i tresviri capitales, le cui
attribuzioni sono progressivamente ridotte dall’affermarsi delle competenze di polizia dei funzionari imperiali.
La burocrazia imperiale ed il consilium principis - La creazione di un'amministrazione parallela fu la fondamentale
intuizione di Augusto per la stabilità della struttura sociale dell'impero. La concorrenza tra i 2 ordini, una delle costanti
negative della storia repubblicana, non ebbe più ragione di sussistere, in quanto entrambi erano posti al servizio dello
stato. La concordia ordinum si realizzava sul piano realistico dell'amministrazione. Si trattò di un'opera lunga e
complessa, che non poteva esser realizzata da uno solo; infatti, anche in questo ambito, si rivelò la reale sostanza di
statista di ogni imperatore. Augusto fu l'iniziatore, organizzando in modo rivoluzionario l'amministrazione delle sue
province: per rispetto al senato non toccò l'Italia, ma introdusse le grandi prefetture. In realtà, però, i posti medi ed
inferiori dell’amministrazione furono affidati a schiavi e liberti della sua domus, senza che fossero ben distinti gli affari
privati da quelli dello stato. Si trattava di un residuo di quella mentalità della nobilitas repubblicana cui Augusto restò
sempre legato e che rimase sempre viva tra i Giulio-Claudi. Dopo di lui, Claudio riorganizzò gli uffici della burocrazia

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centrale, affidata a liberti che furono anche delle personalità di primissimo ordine. È, tuttavia, a partire da Vespasiano,
che la burocrazia si specializza e si tecnicizza; con il figlio Domiziano, i liberti cominciarono ad essere rimpiazzati dai
cavalieri; questo processo continuò regolarmente fino alla sistemazione di Adriano e poi sotto Commodo, con il quale la
struttura della carriera equestre sembra abbia trovato la sua sistemazione definitiva.
Il principato era il vero governo di uno solo. Tra il principe ed i suoi amministratori non c'era una struttura intermedia:
non si ebbe mai il concetto di un governo, di un consiglio dei ministri, con responsabilità e ruoli precisamente definiti. Il
principe gestiva il potere in assoluta indipendenza, circondato e assistito dalle persone che gli erano più gradite, senza
condizionamenti di procedure o obblighi di pubblicità. Nei fatti, l'impero era governato dal princeps e dai suoi amici,
riuniti in un organismo informale che solo alla fine del II secolo si denominò ufficialmente consilium principis. Esso
traeva origine dall'antica consuetudine per cui i magistrati romani, nel prendere decisioni o sedendo in giudizio, si
circondava di consiglieri a cui chiedeva l'opinione, in piena autonomia decisionale e senza essere legati ai loro pareri. In
ogni caso, il carattere essenziale della prassi del consilium era l'assenza di formalità: l'imperatore era libero di
consultare chi riteneva opportuno e di bandire chi non gradiva, pur essendovi una certa tendenza a conservare gli stessi
consiglieri e a consultare sempre i titolari di certe cariche, come i prefetti del pretorio; e, soprattutto, i consigli degli
amici nonerano per lui vincolanti.
Il consilium indica, nella sua natura e struttura, come Augusto, pur instaurando un governo monarchico, rimanesse
ancora legato a certi schemi del ceto di governo senatorio-equestre repubblicano e come fossero ambigui i suoi rapporti
con il senato. Anche qui egli rispettò formalmente il senato, creando delle commissioni di senatori per discutere delle
questioni attinenti alla gestione degli affari costituzionali ed amministrativi, anche se non sappiamo quasi niente della
loro effettiva funzionalità. Gli altri imperatori seguirono l'esempio di Augusto, ma con problemi sempre più complessi.
Il fatto è che organismi di questo genere tendono quasi sempre ad istituzionalizzarsi. Claudio fu il primo a richiedere dei
pareri giuridici ai suoi amici, ma fu con Adriano che per la prima volta vennero invitati al consilium dei veri giuristi. Da
Adriano data anche l'introduzione di cavalieri a titolo permanente; ciò sembra indicare una funzionalizzazione del
consilium, ma la sua istituzionalizzazione definitiva si ebbe solo con il consistorium del dominato.
L'amministrazione centrale e dell'Urbs - In epoca repubblicana esistevano solo embrionali strutture amministrative e
non esisteva qualcosa che assomigliasse al nostro moderno concetto di governo. Il costituirsi del principato come stabile
regime costituzionale comportò anche la necessità di uffici amministrativi della corte imperiale, che assunsero col
tempo un ruolo molto rilevante nella gerarchia burocratica. Gli imperatori attinsero all'ordine equestre, che si affiancò a
quello senatorio per diventare la spina dorsale dell'impalcatura burocratico-amministrativa dello stato romano. Ma,
almeno all’inizio, si preferì servirsi di elementi appartenenti alla propria domus, schiavi e liberti, anche per posti della
massima importanza. Solo con Domiziano si ebbe un ridimensionamento del loro ruolo ai vertici dell'amministrazione.
Dal punto di vista del prestigio, la prefettura del pretorio rappresentava, insieme alla prefettura dell'Egitto, il culmine
della carriera equestre; in più essa costituiva anche un centro formidabile di reale potere. Augusto aveva tentato, al
momento dell'istituzione, di conciliare innovazioni e tradizione, la novità di un corpo diverso dalle legioni, la tradizione
di discendenza da un istituto dell'esercito repubblicano. Dalla cohors praetoria repubblicana, guardia personale del
comandante, Augusto infatti creò un corpo di soldati particolarmente vicini alla persona imperiale, ordinato in 9 coorti,
al comando di un praefectus praetorio estratto dall'ordine equestre: erano salve così le esigenze di sicurezza personale
ed erano anche gratificate le aspettative dell'ordo equestre. Non si trattava di una guardia del corpo, ma quello che ora si
direbbe un corpo speciale e ne aveva tutte le caratteristiche, dai privilegi di trattamento e di carriera allo spirito di corpo.
L'ufficio del prefetto al pretorio (il primo sembra essere stato Mecenate) fu talora duplice, e quasi certamente collegiale:
il caso tuttavia più frequente sembra essere stato quello di un solo prefetto.
Il prefetto al pretorio è spesso vicino all'imperatore, il che gli conferisce una grande influenza; fa parte del consilium,
riceve onori che poco a poco lo equiparano ai senatori, può intervenire personalmente in molti casi. Nel tempo, per la
sua posizione militare, diventa una specie di capo di stato maggiore, che conduce delle campagne. Anche in tempo di
pace egli è potentissimo: a partire da Nerone gli viene affidato l'approvvigionamento dell'esercito, ciò che comportava
l'esazione della annona militaris, una tassa in natura, che poteva essere anche aderata con meccanismi che consentivano
ampi margini di speculazione. Inoltre, nel corso del tempo, egli divenne l'organo più elevato, dopo l'imperatore, per
l'amministrazione della giustizia, sia per l'ampliarsi delle loro funzioni di polizia e di disciplina sui miliari (il prefetto al
pretorio aveva il ius gladii), sia per il fatto che essi furono sempre a strettissimo contatto con gli imperatori. In Italia essi
esercitavano la giurisdizione criminale in prima istanza oltre il centesimo miliario da Roma (circa 160 km.). Il principio
della inappellabilità delle sentenze del praefectus praetorio deve essere stato affermato in seguito. Inoltre, al praefectus
praetorio era riconosciuta, anche in materia civile, la competenza a giudicare in appello vice sacra da tutte le province
dell'impero. Una costituzione di Alessandro Severo ha riconosciuto il valore vincolante delle norme formulate dai
praefecti praetorio, purché non contrastanti con leges o constitutiones.
L'imperatore, come magistrato e come princeps, doveva far fronte a compiti quali: la corrispondenza, la classificazione
e redazione di atti ufficiali, la preparazione e formulazione di interventi giudiziari, la cura delle finanze e della
contabilità. Poiché mancavano sia una tradizione che le strutture di una burocrazia, si dovette progressivamente crearle.
Bisogna distinguere tra la politica dei Giulio-Claudi e quella delle altre dinastie: Augusto, più fedele alla mentalità della
nobilitas repubblicana, tentò di risolvere il problema utilizzando gli schiavi ed i liberti della sua domus e quindi con una
prospettiva privatistica; Claudio provvide all'organizzazione di veri servizi specialistici, a capo dei quali furono posti i
grandi liberti del suo regno, Narcisso e Pallante. Fu così riorganizzato l'ufficio delle finanze, che divenne il centro di
gestione delle finanze del principe. Risale quasi sicuramente ad Augusto l'ufficio ab epistulis, che si occupava della

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corrispondenza amministrativa del principe e che in epoca più tarda fu sdoppiato in quello per la corrispondenza latina e
scritta in greco. Claudio creò l'ufficio a cognitionibus, che si istruiva il materiale per le cause in appello trattate presso
l'imperatore, e lo scrinium a studiis, che forniva la documentazione necessaria per le dichiarazioni pubbliche del
principe, per le risposte ufficiali, per le relationes; sotto Adriano, esso fu duplicato con l’a memoria, che costituiva
l'ufficio per la documentazione necessaria agli atti pubblici. È ad Adriano che si deve la più importante riforma della
burocrazia centrale; il processo era già iniziato con Domiziano e Traiano, ma fu Adriano che riservò tutti gli uffici ai
membri dell'ordine equestre. La sostituzione di schiavi e liberti con cavalieri fu una delle linee di tendenza nello
sviluppo dell'amministrazione centrale; un'altra fu quella di creare dei posti di procuratori residenti a Roma, sia per
sostituire i senatori incaricati di servizi pubblici, sia per creare nuove funzioni: tra questi, i più importanti furono i
procuratori delle biblioteche, delle vie, delle acque ed i procuratori finanziari, tutti creati nel corso del II secolo.
A Roma l'amministrazione aveva caratteri particolari; qui più che altrove bisognava stare molto attenti a quell'equilibrio
tra i 2 ordini su cui si fondava il nuovo ordinamento sociale del principato. Augusto, richiamandosi ad una prassi già
adottata in epoca repubblicana, creò il praefectus urbi, formalmente un suo rappresentante nel governo della città,
affidandola ad un senatore scelto tra gli ex-consoli. Si trattava di un gesto importante nei confronti dell'ordine senatorio:
formalmente, esso affidava all'orgoglioso ordine la preminenza nella cura e nella tutela della città, ma, nel concreto, le
cose non stavano esattamente cos.! Nonostante una difficile partenza, l'ufficio funzionò come un importante perno nel
delicato sistema di equilibri sul quale si reggeva l'amministrazione di Roma.
La praefectura urbi costituisce una carica nuova, sia rispetto all'omonima magistratura dell'età regia e repubblicana, sia
rispetto ai praefecti dell'età cesariana e di quella triumvirale. Può essere considerato sintomatico in tal senso, il fatto
che, nel 26 a.C., il primo praefectus urbi, Messalla Corvino, rinunziò alla carica pochi giorni dopo il conferimento. La
motivazione della decisione, che faceva riferimento alla contrarietà della funzione all'assetto costituzionale, ha suscitato
perplessità per la sua esplicitezza. È possibile che Corvino non abbia compreso il significato della funzione. Augusto
lasciò passare un decennio prima di riproporre la carica; la stabilità della funzione può, d'altra parte, ritenersi acquisita
con la nomina di Calpurnio Pisone da parte di Augusto e con la conferma di questo da parte di Tiberio, se si tiene conto
della ventennale ed ininterrotta durata in carica di tale prefetto.
Le perplessità di carattere costituzionale suscitate dalla nuova carica sono state, verosimilmente, rappresentate dal fatto
che, a differenza di quanto avveniva per l'omonima magistratura, il praefectus urbi esplicava la propria funzione
indipendentemente dall'assenza dei consoli da Roma. Inoltre, gli competeva il comando delle coorti urbane. La
resistenza che la funzione può aver suscitato ed il suo legame terminologico con l'omonima magistratura repubblicana
possono essere risultate determinanti in relazione al fatto che il praefectus urbi, a differenza di quanto si riscontra per gli
altri prefetti, era tratto non solo dagli appartenenti all'ordine senatorio, ma, nell'ambito di questi, fra i consulares. Il che
non toglie che si tratti pur sempre di un funzionario, non un magistrato in senso tecnico, in quanto era nominato dal
principe, la durata della carica non era prefissata ed i suoi poteri derivavano da una rappresentanza del principe.
In quanto custode della città, il praefectus urbi ha poteri di polizia; egli aveva compiti di vigilanza sulla tranquillità della
popolazione, sorveglianza dei luoghi pubblici più affollati, controllo dei cambiavalute e delle associazioni in genere.
Il riconoscimento al praefectus urbi di una funzione giurisdizionale è da porre in relazione con il potere di polizia che
gli spetta. In materia penale, la sua competenza si estese a qualsiasi reato ed a tutta l'Italia, pur essendo il suo potere
esercitabile soltanto nella città, al di là della quale la competenza è attribuita al praefectus praetorio.
In materia civile, la competenza del praefectus urbi non ha una precisa delimitazione. Il praefectus urbi ha il potere di
condannare alla relegatio ed alla deportatio in insulam, e di condannare in metallum. Contro le sentenze del praefectus
urbi è ammesso l'appello al principe.
Accanto al prefetto urbano, nel settore dell'ordine pubblico stava anche il praefectus vigilum, di estrazione equestre, di
rango inferiore a quello urbano e con una sfera d’azione più limitata, ma comunque dotato di un notevole potere.
Lo sviluppo in Roma di vaste costruzioni a più piani, di relativa solidità e separate da strade spesso anguste, facilitava la
propagazione degli incendi ed accentuava i pericoli che potevano derivare dai frequenti crolli. La mancanza di
illuminazione notturna imponeva un'attività di sorveglianza che consentisse la possibilità di circolare e prevenisse la
commissione di reati. Le misure adottate da Augusto con la creazione di un corpo di vigili alle dipendenze degli edili
risultarono, in progresso di tempo, inadeguate. Tuttavia, soltanto nel 6 d.C., Augusto, ricollegandosi alla suddivisione
dell'Urbe in 14 regioni, istituì un corpo di vigili ed una nuova funzione, la praefectura vigilum. Furono, infatti, create 7
coorti di vigili, ciascuna delle quali comprendeva 1000 uomini al comando di un tribuno. La funzione esplicata dal
prefetto dei vigili, a parte le specifiche competenze in materia di prevenzione degli incendi e di intervento in relazione
ad essi, si può caratterizzare come di polizia, per cui ha punti di contatto con quella del praefectus urbi. Il problema
determinato da tale interferenza è stato risolto con il riconoscimento al praefectus urbi della competenza in ordine ai
casi più gravi. Compete, infatti, al praefectus vigilum la prevenzione e la repressione non solo degli incendi, ma anche
dei furti, degli scassi, delle rapine, delle ricettazioni.
A Roma operava anche il praefectus annonae, che apparteneva all'ordine equestre. Il suo compito era uno dei più
delicati: doveva provvedere all'approvvigionamento e alla conservazione del grano e di altri generi di prima necessità,
impedire la speculazione e sorvegliare i prezzi, sorvegliare sulla qualità dei generi, etc. Come al prefetto dei vigili,
anche a quello dell'annona spettarono progressivamente competenze giudiziarie connesse alla sua attività. Con il tempo
i compiti del prefetto dell'annona e dei vigili si fecero sempre più gravosi, tanto da esser loro affiancati dei subpraefecti.
Durante il principato la burocrazia ebbe ritmi di sviluppo sorprendentemente bassi, specie se confrontati con quelli di
burocrazie moderne. Quel che va rilevato è il carattere politico di questa crescita: si ha l’impressione di un deliberato

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progressivo affiancamento, e poi sostituzione, delle magistrature con uffici burocratici.
La constitutio Antoniniana - Sotto Antonino Caracalla, nel 212 d.C., fu emanata la constitutio Antoniniana, che
conclude, sotto il profilo della regolamentazione dello status civitatis, la storia dell'assetto istituzionale dell'impero. Con
tale provvedimento l'imperatore concesse a tutti gli abitanti dell'impero che ne fossero precedentemente sprovvisti la
cittadinanza romana: le eccezioni a tale concessione furono sostanzialmente insignificanti. Il valore del provvedimento
è fuori discussione, ma una serie di questioni sulla sua effettiva portata è stata oggetto di discussioni in letteratura.
Una questione controversa in passato, ma ormai sopita, riguarda i limiti soggettivi del provvedimento. Già Mommsen
aveva fatto prevalere l'opinione che dalla concessione fossero stati esclusi i peregrini nullius civitatis, abitanti dei
territori amministrati direttamente dalle autorità romane, e che non godevano, nanche di fatto, di un'autonomia cittadina.
Non esistono prove che nell'applicazione della constitutio vi siano state discriminazioni a danno dei sudditi dell'impero
che non fossero cittadini di una qualche città. Dalla documentazione proveniente dall'Egitto, abbiamo, invece, una
prova sicura del contrario: dopo il 212 d.C., anche gli abitanti della chóra egiziana assumono, almeno parzialmente, il
sistema onomastico romano, adottando il gentilizio di Aurelio.
Ancora nel principato, il nome del civis Romanus era determinato in base al sistema dei tria nomina: il praenomen (il
nostro nome di battesimo), il nomen, o gentilicium, che indicava l'appartenenza ad una gens, ed il cognomen, introdotto
per la necessità di meglio identificare le persone, a causa della scarsità di praenomina (maschili) usati in epoca
repubblicana. Coloro che, per qualsiasi motivo, acquistavano la cittadinanza romana, dovevano assumere un nomen,
ma, non appartenendo ad alcuna gens, assumevano il gentilicium di colui che aveva fatto acquistare loro la cittadinanza.
I novi cives in base alla constitutio Antoniniana assunsero quindi il gentilicium di Aurelio.
Comunque vi furono eccezioni: mentre è discusso se la concessione si estendesse anche alle popolazioni barbariche da
poco inserite nei confini dell'impero stesso, è sicuro che la cittadinanza non venne concessa ai soggetti che avessero
perso lo status civitatis in seguito a condanna penale, ed alle persone che appartenevano a quelle categorie di soggetti
per cui l'attribuzione di un particolare status civitatis esprimeva una condizione diversa sul piano dello status libertatis.
Fra questi ultimi, le categorie più importanti sono quelle dei Latini luniani e dei dediticii Aeliani, schiavi manomessi
che non potevano conseguire la cittadinanza romana per aver subito pene infamanti durante la schiavitù.
I problemi che sollevano ancora le maggiori perplessità sono quelli degli effetti dell'acquisto della cittadinanza romana
in ordine alle organizzazioni territoriali in cui si venivano a trovare i novi cives ed al diritto che andava loro applicato.
Per quanto concerne il primo aspetto, l'editto di Caracalla non conteneva alcuna previsione al riguardo, e neppure in
seguito risultano emanati provvedimenti di carattere generale su questo punto. La constitutio non ha comportato, quindi,
mutamenti nell'ambito dell'autonomia cittadina ed dell'amministrazione diretta da parte del governatore provinciale.
Una modificazione si è, invece, avuta nello status delle autonomie locali. Le civitates Latinae o peregrinae diventano
città romane, anche se, almeno inizialmente, mantengono la vecchia tipologia istituzionale ed amministrativa e le even-
tuali situazioni di privilegio pregresse. In ordine alla giurisdizione, l'uniformazione del regime per le nuove città romane
sembra essere stata attuata con gradualità.
Per quanto riguarda il diritto da applicare ai novi cives, in passato, partendo dal presupposto, tipico dell'ideologia della
città-stato, che gli appartenenti ad una determinata civitas debbono, necessariamente, condividerne il diritto oggettivo,
si è concluso che ai nuovi cittadini si applicasse il diritto romano. In senso inverso, si era osservata la persistenza degli
ordinamenti vigenti nell'impero prima del 212 d.C, soprattutto al livello della prassi negoziale; persistenza sottolineata
da Mitteis. Nella sua opera, però, in base all’idea allora dominante, per cui i novi cives non avrebbero potuto usufruire
di un ordinamento diverso da quello romano, si era sostenuto che tali sopravvivenze fossero un fenomeno verificatosi
solo sul piano di fatto e non su quello di diritto.
Verso gli anni ‘20 si fece sempre più viva la preoccupazione per la singolarità di un avvenimento in base al quale
larghissimi strati di popolazione si sarebbero visti cambiare improvvisamente l'ordinamento in base al quale vivevano e
si cominciarono a cercare punti di vista in base ai quali i diritti locali sarebbero rimasti formalmente in vigore,
nonostante la constitutio Antoniana. Da questo punto di vista, è stata a lungo seguita l'opinione che l'acquisto della
cittadinanza romana non avrebbe fatto venir meno, in base al regime della doppia cittadinanza, quella originaria dei
novi cives, che avrebbero perciò potuto continuare ad usare, di diritto, il loro antico ordinamento. Più di recente si è
diffusa l'opinione in base alla quale i diritti locali avrebbero continuato ad aver formale vigore come consuetudini
vigenti nell'ambito dell'impero e nei limiti offerti dalla supremazia del diritto romano, il che si sarebbe tradotto nel fatto
che queste consuetudini locali non avrebbero potuto derogare alle norme d'ordine pubblico dell'ordinamento romano.
Sotto altri aspetti, meno direttamente rilevanti per il problema dell'individuazione del diritto da applicare ai novi cives,
si è sottolineato come la romanizzazione giuridica conseguente all'editto di Caracalla, rendesse i termini del problema
meno drammatici di quelli da cui partivano le discussioni, perché larghe zone dell'impero èrano già state romanizzate,
almeno a livello delle classi acculturate; mentre, sotto un profilo diverso, si sosteneva che l'applicazione del diritto
romano richiedeva un ceto addestrato di esperti del diritto e che quindi, molto spesso, il esso non veniva applicato in
quanto mancavano, nei soggetti coinvolti in tale applicazione, le conoscenze necessarie per farlo.
Soprattutto nella dottrina meno recente, il problema in questione è stato, generalmente, affrontato ricercando quella che,
da un punto di vista astratto, sarebbe dovuta essere l'esatta soluzione giuridica del caso. Se, invece, si fosse cercato di
comprendere come i contemporanei intendessero la portata del provvedimento, si sarebbe giunti alla conseguenza che i
modi in cui ciò avveniva potevano variare di caso in caso, di ambiente in ambiente. Fra i vari punti di vista prospettati
in dottrina, 2 possono aspirare ad una portata generale: quello della doppia cittadinanza e quello dei diritti locali valutati
come consuetudini soggette alla supremazia del diritto romano. Il primo attualmente riscuote scarso credito. Infatti,

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proprio a seguito della constitutio Antoniniana, non esistono più civitates peregrinae nell'impero; inoltre, esso non
avrebbe potuto comunque spiegare la sopravvivenza dei diritti nazionali delle popolazioni dei territori direttamente
amministrati dal governo romano.
Quanto al secondo, esso non è una novità, visto che esso era stato sostenuto anche dal Mitteis. Inoltre, anche le notizie
che si possono ricavare dalle fonti circa la sopravvivenza, di fatto o di diritto, degli ordinamenti locali sono nel senso
che, nel III secolo d.C., anche nelle province ellenizzate dell'Oriente, fosse diffusa la consapevolezza che il diritto
romano fosse divenuto l'ordinamento secondo il quale dovevano esser valutati i comportanti giuridicamente rilevanti dei
novi cives. È senza dubbio eccessiva la posizione di coloro che collocavano la sopravvivenza su un piano di fatto, ma è
da ribadire, nel contempo, che, secondo le notizie che si possono ricavare dalle fonti, non sembra che i contemporanei
individuassero altri ordinamenti vigenti nell'impero all'infuori di quello romano.
Il vero problema è quello dei limiti in cui, nella prassi, si applicassero le norme inderogabili del diritto romano. Ciò
avveniva rigorosamente da parte della cancelleria imperiale, ma non è assicurato che lo stesso accadesse anche a livello
della prassi provinciale.
Un altro profilo di rilievo è quello relativo alla della brutalità con cui sarebbe stata compiuta l'operazione dell'estensione
dell'ordinamento romano. Qui va collocato senz'altro l'aspetto della romanizzazione, che è stato sottolineato in dottrina,
ma senza le dovute differenziazioni. Non v'è dubbio che problemi non si ponevano per quasi tutto l'Occidente (e, in
buona parte, per l'Africa), dove l'acculturazione era avvenuta, sotto tutti i profili (ivi compreso quello giuridico),
assumendo ad unico modello il mondo romano.
Nell'Oriente, la cultura greca era sulla strada di vincere, sotto molti aspetti, la secolare sfida con quella romana: parlare
qui, indiscriminatamente, di romanizzazione significa falsare i termini del problema. Qui si era svolto, invece, un
fenomeno di omologazione degli interessi delle élites politiche delle civitates peregrinae con quelli del governo romano,
che era passato anche attraverso la concessione ai membri di queste classi di governo della civitas Romana: non risulta
chiaro quanto queste élites che godevano della doppia cittadinanza si rifacessero al diritto romano nella soluzione delle
controversie private che potevano sorgere al loro interno. Nei limiti, però, in cui l'omologazione sul piano socio-politico
fosse andata effettivamente avanti, ciò rendeva meno difficile, per le classi di governo, l'accettazione dell'abrogazione
degli ordinamene locali conseguente alla concessione generalizzata della cittadinanza romana.
Al livello delle classi subalterne i problemi erano forse minori, perché la condizione socio-economica in cui versavano
rendeva meno rilevante il problema di quale fosse il diritto da applicare. D'altro canto, all'interno delle città straniere, gli
strati meno elevati della popolazione potevano vedere una maggiore imparzialità negli organi dell'amministrazione
romana che in quelli delle autonomie cittadine, dominate dalle aristocrazie locali.
L'attuazione della constitutio Antoniniana si deve esser quindi svolta in forma meno traumatica di quanto non si pensi,
anche se la formalizzazione giuridica ha precorso i tempi nella tendenza dell'impero verso l'unità e l'ha favorita. Dal
punto di vista dell'ordinamento giuridico, nel IV secolo non vi sarebbe stato dubbio che il diritto in vigore era solo
quello romano, e che la consuetudine svolgesse, nei confronti dei iura e delle leges, un ruolo secondario.
Accanto a ciò, a partire dall'epoca costantiniana, si nota l'ingresso nella legislazione imperiale di normazioni ispirate a
concezioni analoghe a quelle vigenti nei diritti locali anteriormente alla constitutio Antoniniana soprattutto della pars
Orientis dell'impero, con innovazioni che incidono su norme precedentemente considerate come indisponibili. È dubbio
fin dove ciò debba considerarsi come il portato della recezione delle concezioni provinciali, o in quale misura si tratti
dell'influsso del regresso socio-economico e del fenomeno del diritto volgare che riguarda, invece, l'aspetto della cultura
giuridica. Ad ogni modo, manca qualsiasi spunto che indichi che il sistema conoscesse un'ampia diffusione di regole
consuetudinarie dentro un quadro di supremazia tendenzialmente labile dell'ordinamento romano.

IL DOMINATO
La riforma di Diocleziano - Nel 284 d.C. viene acclamato imperatore dall'esercito l'illirico Diocleziano, che chiama
ben presto al suo fianco come collega un fedele generale, Massimiano, cui affida il governo delle province occidentali
dell'impero, mentre egli conserva l'amministrazione di quelle orientali. Entrambi gli imperatori hanno il titolo di
Augustus, ma Diocleziano si riserva i supremi poteri di direzione politica e di comando (egli assume infatti l'appellativo
di lovius, mentre a Massimiano va quello di Herculius). Repressi alcuni tentativi di usurpazione, Diocleziano procede a
un'ulteriore suddivisione nel governo dell'impero nominando due Cesari, Galerio e Costanze Cloro, il primo assegnato a
se stesso e l'altro a Massimiano. A ogni Cesare spetta il governo di alcune province tra quelle attribuite al rispettivo
Augusto, sicché l'amministrazione dell'impero risulta conferita a 4 persone, unite sia da legami di lealtà che da vincoli
di parentela (i Cesari sposano infatti le figlie dei rispettivi Augusti e vengono da questi adottati). Il sistema tetrarchico
ha lo scopo sia di assicurare all'impero un'amministrazione più vigile ed efficace, che di regolare anticipatamente la
successione al trono: viene infatti stabilito che, alla morte di un Augusto, gli subentri automaticamente il proprio
Cesare, il quale, divenuto a sua volta Augusto, provvederà a nominare un nuovo Cesare.
Comunque non si trattò di una divisione dell'impero in 4 regni, né di una separazione fra Oriente e Occidente: l'impero è
sempre formalmente e di fatto uno solo, conservando Diocleziano una posizione di supremazia politica e di controllo
sugli altri tetrarchi, sicché le riforme introdotte nel suo periodo di regno possono essere attribuite alla sua volontà.
Mentre il sistema tetrarchico si risolverà in un fallimento, le altre riforme di Diocleziano sulla struttura dello stato e

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sull'amministrazione sopravvivono alla sua morte, sicché egli si può definire il padre dello stato assoluto, o meglio di
quella forma di stato assoluto che l'impero romano conserverà per secoli. Diocleziano è il primo imperatore che
inaugura fasto e dispotismo di marca orientale: evita di farsi vedere in pubblico e il consilium assume la denominazione
di consistorium perché i suoi membri, in presenza dell'imperatore, debbono stare in piedi. La constitutio principis è
ormai lex anche da un punto di vista formale ed è ornai dimenticata la finzione giuridica della lex de imperio, per cui
all'epoca del principato il supremo reggitore dello stato romano, almeno formalmente, appariva investito dei suoi poteri
in conseguenza di un'acclamazione popolare, o quanto meno dalla nomina del senato; l'imperatore è ora un autocrate,
cioè trae da se stesso il suo potere, ed è fatto oggetto dell'adoratio, ancorché in vita, alla stregua di una divinità.
La più importante riforma legata al nome di Diocleziano riguarda l'amministrazione periferica: per rendere le province
più facilmente governabili, la maggior parte di esse viene suddivisa in 2 o più parti, così da ottenere delle circoscrizioni
amministrative più ridotte in ampiezza e in numero praticamente doppio rispetto a quello originario. Inoltre, le province
vengono riunite entro circoscrizioni amministrative più ampie, dette diocesi, rette da un vicario, a sua volta soggetto al
controllo del prefetto del pretorio. Solo Roma e il suo territorio conservano l’indipendenza dal vicarius Italiae (chiamato
a reggere le province dell'Italia settentrionale), continuando essa a essere soggetta al praefectus urbi.
Inoltre, molti governatori vengono privati dei poteri militari, che sono conferiti a ufficiali di carriera (duces); verranno
così a costituirsi 2 distinte gerarchie indipendenti, quella civile e quella militare, entrambe facenti capo all'imperatore.
Per quanto concerne l'amministrazione centrale, il funzionario di grado più elevato è il prefetto del pretorio, che
conserva ancora gli originari poteri militari, tanto che può definirsi una sorta di capo di stato maggiore dell'imperatore.
Amplissimi sono anche i suoi poteri civili: egli è in sostanza responsabile dell'intera amministrazione. Grande è la sua
autorità pure in materia finanziaria; in questo campo egli è coadiuvato da due ministri, il rationalis summae rei,
responsabile dell'emissione delle monete e della riscossione delle tasse in denaro, e il magister rei privatae, che riscuote
le rendite dei beni dell'imperatore.
L'istituzione della tetrarchia, la riforma dell'amministrazione periferica e il potenziamento dell'esercito contribuiscono a
ridare almeno temporaneamente stabilità all'impero, ma causano il proliferare di una burocrazia pletorica e onerosa.
Con Diocleziano la costituzione repubblicana non è che un ricordo; formalmente alcune delle antiche magistrature
sopravvivono, ma hanno per di più un contenuto meramente simbolico: il consolato è ambito solo in quanto il console
da ancora il nome all’anno in corso, la funzione della pretura è ormai quella di organizzare pubblici spettacoli. Né
maggiori poteri ha il senato, le cui attribuzioni consultive sono già da tempo assorbite dal consilium imperiale.
Pur non potendosi attribuire la rovina delle istituzioni repubblicane (già in atto da qualche secolo) all'assolutismo
dioclezianeo, è in questo periodo che inizia la decadenza di Roma e dell'Italia come centro politico dell’impero. Infatti,
l'Urbe perde la sua qualifica di sede imperiale: Diocleziano preferisce province orientali e Massimiano elegge Milano a
sua capitale. Inoltre, con la riforma amministrativa, l’Italia non è pia città-stato, territorio privilegiato, ma viene diviso
in vicariati e province come il resto dell'impero; i fondi italici vengono gravati d'imposta, sicché la originaria posizione
di privilegio dei loro domini rispetto ai possessores di fondi provinciali viene meno definitivamente.
Per creare una situazione di stabilità ai confini Diocleziano rafforza l'esercito: il grosso delle truppe (i limitanei) è
stanziato stabilmente a difesi dei confini, mentre un piccolo esercito mobile, il comitatus, è posto sotto il diretto
comando dell'imperatore e lo segue nei suoi spostamenti. Anche se in età dioclezianea il grosso dell'esercito è ancora
formato da cittadini romani, di esso fanno parte anche barbari, sia prigionieri che volontari e sembra che già in
quest'epoca fosse invalso l'uso di concedere a dei barbari di insediarsi stabilmente entro i confini dell'impero, su terre
loro assegnate, a condizione che essi e i loro discendenti prestassero servizio militare.
Per cercare di risanare l’economia dello stato, Diocleziano dapprima aveva tentato di arginare l'inflazione e di rendere
stabili i prezzi attuando una riforma monetaria, emettendo nuove monete d'oro e d'argento e attribuendo un valore
fiduciario, cioè superiore alla quantità di metallo in esse contenuto, alle monete di rame. Tuttavia, per carenza di metalli
preziosi, le monete pregiate non poterono venire emesse in quantità sufficiente, per cui ebbero scarsa circolazione; al
contrario, svolgendosi la maggior parte delle operazioni di mercato per mezzo delle monete di rame, queste vennero
coniate in grande quantità con il risultato di perdere ben presto di valore. Così l’inflazione si accentua, inducendo
l'imperatore a emanare, nel 301, l’edictum de pretiis rerum venalium, un vero e proprio calmiere con il quale venivano
fissati autoritativamente i prezzi massimi delle varie merci e delle prestazioni. Nonostante le severissime pene stabilite
per i contravventori, anche l’edictum fu un fallimento.
Molto più efficace per il risanamento della situazione finanziaria dell'impero fu invece la riforma tributaria, che, tra
l’altro, comportò anche per i proprietari di fondi italici l’obbligo di pagare l'imposta fondiaria (annona); questa viene
stabilita nel modo seguente: il territorio dell'Impero viene diviso in unità fiscali (iuga), di uguale valore ma di diversa
estensione, a seconda del tipo di coltivazione. L'imposta grava non solo sui terreni, ma anche sulla popolazione rurale e
sul bestiame che vi sono stanziati: vengono così censiti gli schiavi, i coloni e gli animali utilizzati per la coltivazione. Il
calcolo delle forze di lavoro avviene sulla base di unità lavorative (capita). Ogni caput corrisponde alla forza lavoro di
un uomo valido (una donna vale mezzo caput; gli animali sono valutati in frazioni di caput). Ai proprietari terrieri, cui
incombe l'obbligo di dichiarare periodicamente l’estensione delle loro terre, il tipo di coltivazione e il numero di uomini
e animali impiegati, verrà computata un'imposta proporzionale al numero delle unità fiscali accertate; è concesso loro,
in luogo del pagamento di consegnare allo Stato un numero corrispondente di coloni destinati a rafforzare i ranghi
dell'esercito. I non proprietari di fondi non pagano l'annona, ma un'imposta personale pagabile in denaro.
Lo stato determina preventivamente la somma di cui ha bisogno, che viene poi suddivisa per il numero complessivo
delle unità fiscali e così ripartita fra le varie diocesi e province dell'impero. Prima di Diocleziano le imposizioni

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tributarie venivano compiute in modo saltuario, ma egli dispone che vengano effettuate periodicamente, con regolarità.
Il nuovo sistema presenta il vantaggio di assicurare alle casse statali un gettito regolare e una distribuzione del carico
fiscale attuato in modo uniforme in tutto l'impero, ma la determinazione della somma complessiva da esigere si basa
sulle necessità dello Stato e non sulle possibilità effettive dei contribuenti. Perciò la tassazione risulta spesso eccessiva,
causando gravi danni all'economia e incoraggiando il fenomeno dell'evasione, per evitare gli effetti negativi della quale
lo stato si premunisce rendendo i decurioni (componenti dei consigli municipali) personalmente garanti del pagamento
totale dell'imposta complessiva gravante singola comunità. Così l'appartenenza alle curie divenne una carica tutt'altro
che appetibile, ma lo stato intervenne vincolando i decurioni e i loro discendenti alla carica per tutta la vita. La politica
di Diocleziano porta a legare alle rispettive professioni anche altre categorie di cittadini, come i militari, i coloni e tutti
coloro che svolgono un'attività legata all'approvvigionamento delle città o al rifornimento dell'esercito.
Dove la politica di Diocleziano fallisce nel modo più evidente è in campo religioso, allorché l'imperatore si prefigge di
debellare il cristianesimo. Dopo un iniziale periodo di tolleranza, Diocleziano pubblica a Nicomedia, nel 303, un editto
in cui si ordinano la chiusura delle chiese e la distruzione di tutti i testi sacri; fanno successivamente seguito altri 3
editti, con i quali la persecuzione viene aggravata nel senso che la semplice professione di fede cristiana è considerata
un crimine gravissimo, meritevole di morte, anche se è sempre offerta all'accusato la possibilità di evitare la condanna
per il mezzo dell'abiura, attuata attraverso un sacrificio agli dei. È questa la più grave persecuzione che il cristianesimo
deve subire sotto l'impero pagano, la più prolungata nel tempo e la più sistematica, anche se sembra che il numero dei
martiri non sia stato eccessivo: certamente essi furono più numerosi in Oriente e in Africa, dove la nuova religione s'era
diffusa in profondità. In ogni caso gli editti dioclezianei non tennero applicati in tutto l'impero con pari severità: in
Occidente le persecuzioni furono condotte in forma più blanda, in particolare in Gallia e in Britannia, governate da
Costanzo Cloro, favorevole ai cristiani. Inoltre, in Occidente ogni provvedimento anticristiano viene meno nel 305 con
l'abdicazione di Massimiano, mentre in Oriente il nuovo Augusto Galerio e il suo Cesare Massimino continuano la
politica repressiva di Diocleziano, finché lo stesso Galerio, in punto di morte, emette il primo editto di tolleranza (311).
Le ragioni del fallimento della politica anticristiana di Diocleziano sono: la diffusione del cristianesimo; il fatto che la
repressione, per quanto severa, si arrestasse di fronte all'abiura; l’impressione favorevole sugli agnostici dei casi di
martirio sopportato con eroica rassegnazione.
La tradizione assegna a Diocleziano il ruolo di conservatore e di ultimo difensore del mondo classico e della romanità (e
a Costantino quello di innovatore e di colui che ha spalancato la porta alle influenze orientali); ma, se si considera
l'importanza della riforma dioclezianea dello stato romano, egli ci appare invece come un ardito innovatore. Invece,
Costantino conserva e perfeziona le innovazioni del suo predecessore. Tuttavia, nonostante l’attività riformatrice, 1a
politica di Diocleziano è tutta ispirata a un ideale conservatore: la restaurazione di uno stato che egli vuole romano e
pagano. Dalle monarchie orientali accetta infatti solo il fasto e il cerimoniale esteriore, ma non il principio dinastico.
Particolarmente significativa e inoltre la sua incapacità di comprendere il problema posto dal cristianesimo.
Un sommario bilancio del governo di Diocleziano presenta all'attivo un lungo periodo di stabilità politica, di buona
amministrazione e di sicurezza dei confini; ma le riforme attraverso le quali si sono potuti raggiungere questi risultati si
riveleranno fonti di instabilità politica e persino di disgregazione non appena al vertice dell'impero non vi sarà più un
uomo di tale personalità, come lo fu Diocleziano, da saper conservare in mani ben salde le redini dello stato. Altri
aspetti negativi che caratterizzano il dominato dioclezianeo, e cioè la perdurante crisi economica, la tendenza alla
trasformazione della società romana in un regime di caste chiuse, l'inizio dell'imbarbarimento dell'esercito, sono tutti
segni premonitori dell'inarrestabile decadenza dell'impero.
Le innovazioni di Costantino - Nel 305 Diocleziano decide di abdicare e virtualmente costringe Massimiano a fare
altrettanto: Galerio e Costanzo Cloro diventano Augusti e nominano Cesari rispettivamente Massimino Daia e Valerio
Severo, ma l'equilibrio costituzionale si rompe appena dopo un anno. Nel 306, morto Costanzo Cloro, il suo esercito
acclama Augusto il figlio Costantino, mentre il figlio di Massimiano, Massenzio, si fa acclamare in Roma Augusto per
l'Occidente e sconfigge e uccide Severo e Massimiano, d’accordo col figlio, riassume il titolo di Augusto. Si addiviene
a un temporaneo compromesso a seguito dell'intervento di Galerio e Diocleziano: Galerio nomina Licinio Augusto per
l'Occidente, riconosce la qualifica di Cesare per l’Occidente a Costantino e conferma lo stesso titolo per l'Oriente a
Massimino Daia. In seguito alla morte di Massimiano e Galerio, in Oriente si fronteggiano Licinio e Massimino, in
Occidente Costantino e Massenzio. Costantino sconfigge Massenzio nel 312 a Ponte Milvio, mentre nel 313 Massimino
viene sconfitto ed eliminato da Licinio. Si instaura un periodo di correggenza fra Costantino e Licinio, rispettivamente
preposti all'amministrazione dell'Occidente e dell'Oriente. Il più importante atto compiuto congiuntamente dai 2 è
l'editto di Milano del 313, con il quale il cristianesimo viene riconosciuto religione lecita come le altre religioni
autorizzate dallo stato e viene sancita la restituzione dei beni già confiscati ai cristiani.
Tuttavia ben presto Licinio riprende le persecuzioni, mentre Costantino persegue una politica sempre più apertamente
filocristiana. Questa e altre divergenze sfociano in breve in un'aperta rottura, culminata nel 324 nella sconfitta e
nell'uccisione di Licinio, per cui Costantino diviene unico imperatore.
Il dominato costantiniano ha in comune con quello dioclezianeo la concezione assolutistica del potere imperiale, mentre
se ne discosta per il fatto che Costantino, abolendo il sistema tetrarchico, rimane da solo al vertice dell'impero e instaura
una monarchia di tipo dinastico, nominando Cesari i propri figli.
Costantino non sovverte le fondamentali riforme del suo predecessore sull'amministrazione dello stato, ma spesso le
perfeziona. Viene resa più netta e definitiva la separazione fra poteri civili e militari: perdono ogni residuo di poteri
militari e di influenza sull'esercito i prefetti del pretorio, che non presiedono più il consistorium imperiale né fanno più

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parte del seguito dell'imperatore, ma vengono preposti all'amministrazione di determinate regioni dell'impero, che in
seguito diverranno vere e proprie circoscrizioni amministrative comprendenti più diocesi e province. Così il prefetto del
pretorio si trasforma gradualmente in un funzionario periferico, dotato comunque di vastissimi poteri di controllo, sia
amministrativo che giurisdizionale, sulle province comprese nell'area di sua competenza.
Tra le riforme di Costantino nell'amministrazione centrale vi è l’istituzione delle cariche del quaestor sacri palatii (sorta
di ministro della giustizia, che presiede il consistorium ed è incaricato della redazione delle costituzioni imperiali) e del
magister officiorum, posto a capo dei vari officia, cioè delle segreterie imperiali, mentre il rationalis rei summae
assumerà il titolo di comes sacrarum largitionum e il magister rei privatae quello di comes rerum privatarum.
Costantino rafforza il comitatus, facendovi affluire i migliori elementi, molti dei quali reclutati fra i barbari, che
ricevono un soldo più elevato e maggiori privilegi degli altri militari. Essi sono sottoposti a 2 nuovi ufficiali, il magister
peditum, comandante della fanteria, e il magister equitum, comandante della cavalleria; le legioni periferiche rimangono
invece sotto il comando dei rispettivi duces.
La situazione economica è aggravata dal crescente aumento della spesa pubblica, per cui l'imperatore introduce 2 nuove
tasse: il follis senatorius (o collatio glebalis), concernente esclusivamente i senatori, e la collatio lustralis, imposta
quinquennale gravante su tutte le attività commerciali e artigianali. Costantino crea una nuova moneta aurea (il solidus),
il cui valore è destinato a rimanere stabile per tutto il tardo impero. Rinunciando a dare alle monete di rame un corso
fiduciario, egli causa un loro ulteriore deprezzamento e un nuovo aumento dei prezzi.
Costantino elegge Bisanzio, denominata poi Costantinopoli, a nuova capitale: vi fissa la sua residenza, la ingrandisce,
incoraggia l'afflusso di immigranti, la dota di un senato a somiglianza di quello romano (anche se ai suoi componenti
spetta il titolo di clari, mentre i senatori romani sono definiti clarissimì). Costanzo, figlio di Costantino, porrà la città
sotto il governo di un praefectus urbi, dotato di poteri analoghi a quelli spettanti a quello di Roma. Sulla decisione di
Costantino probabilmente influirono considerazioni di natura strategica (lo spostamento a Oriente della sede imperiale
permetteva un controllo più ravvicinato delle frontiere danubiane e la nuova capitale era situata in una posizione molto
più difendibile rispetto a Roma). Comunque le conseguenze politiche furono di enorme rilevanza, in quanto Roma e
l'Italia perdettero definitivamente ogni possibilità di riconquistare il primato politico.
Dove Costantino si differenzia nel modo più appariscente rispetto alla politica del suo predecessore è in campo
religioso. Egli non si limita alla concessione della libertà di culto ai cristiani, ma mira all'instaurazione di un controllo
statale del cristianesimo, che sarà mantenuto dai suoi successori, in ispecie da quando, con Teodosio I, l'impero romano
diverrà uno stato confessionale. Sembra che Costantino abbia abbracciato tardi la fede cristiana (secondo la tradizione
egli fu battezzato solo in punto di morte), ma il suo atteggiamento dopo l'Editto è apertamente filocristiano. Egli
concede generosi donativi alle varie comunità cristiane, favorisce la costruzione di chiese, riconosce la giurisdizione dei
vescovi. D'altra parte, parallelamente alla concessione di vari benefici, attua nei confronti della chiesa una sempre più
esplicita politica di interferenza, facendo valere la sua autorità anche in materia di fede e di dogmi.
Durante il regno di Costantino il cristianesimo non diviene la religione ufficiale dello stato, ma tende sempre più a
diventarlo in quanto è apertamente favorito dalla politica e dalla legislazione imperiali, mentre il paganesimo e le sette
ereticali conoscono le prime persecuzioni. Tuttavia nemmeno di fronte alla religione l'imperatore rinuncia alla
concezione assolutistica alla base del potere imperiale; anzi egli si attribuisce un potere di controllo sulla religione,
avocando a sé l'autorità di convocare i concili al fine di discutere questioni di fede. L'aperta posizione in favore del
cristianesimo non gli impedisce di considerare la sua persona come sacra; del resto, né lui né i suoi successori fino a
Graziano deporranno il titolo di pontifex maximus. Questa concezione dell'impero nei rapporti con la chiesa, chiamata
cesaropapismo, riconosce al solo imperatore la qualità di intermediario fra la divinità e i sudditi, attribuendogli poteri in
materia religiosa, e pone la chiesa in una posizione di subordinazione rispetto allo stato.
Per quanto concerne la figura di Costantino legislatore, la dottrina tradizionale ritiene che, in netta divergenza rispetto al
suo predecessore Diocleziano, egli abbia aperto la strada a un radicale rinnovamento del diritto. A partire da Costantino,
e proprio in conseguenza della sua politica filocristiana e filoorientale, il diritto romano sarebbe stato permeato di
influssi cristiani e dei diritti provinciali, per lo più greci, che ne avrebbero profondamente alterato le norme e gli istituti.
Da Costantino in poi si sarebbe dunque formato un diritto nuovo, che è stato definito in dottrina diritto romano-cristiano
e diritto romano-ellenico.
Queste diverse opinioni sull'evoluzione subita dal diritto romano in età postclassica contengono ciascuna un fondo di
verità, ma peccano per eccesso, rischiando di dare una visione solo unilaterale del quadro, vario e complesso, dei
molteplici fattori che hanno contribuito a rinnovare il diritto classico nel corso del basso impero. Va ricordata, a questo
proposito, la tesi secondo la quale il diritto romano, più che per l'influenza di fattori esterni, si sarebbe modificato in età
postclassica in conseguenza di uno sviluppo interno autonomo e spontaneo attraverso la prassi.
Un'importante innovazione di Costantino riguarda il modo stesso di legiferare da parte dell'autorità imperiale: mentre,
fino a Diocleziano, gli imperatori si erano serviti prevalentemente del rescritto, Costantino (e i suoi successori)
preferisce statuire attraverso edicta o leges generales; il mutamento di tecnica legislativa si spiega con il nuovo valore
attribuito nel Dominato alla constitutio principis, ormai anche formalmente equiparata alla lex.
Per quanto attiene l'ordinamento dello stato, e cioè in campo amministrativo, militare e fiscale, Costantino può essere
considerato un continuatore delle riforme dioclezianee, che però vengono lui portate avanti con uno spirito nuovo, ostile
al perpetuarsi della tradizione classica e pagana, e aperto invece alle esigenze dei nuovi tempi. Il realismo e il grande
senso politico di Costantino è mostrato soprattutto dal suo atteggiamento nei confronti del cristianesimo: egli mira,
come Diocleziano, a salvaguardare l'autorità dello stato, nei confronti del quale il cristianesimo poteva apparire come

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una forza disgregatrice. Ma, al contrario di Diocleziano, egli preferisce una politica di alleanza, che induca i cristiani a
riconciliarsi con lo stato, ma al tempo stesso a sottomettervisi.
L'imperatore - All'epoca dell'istituzione della tetrarchia i poteri dell'imperatore sono ormai praticamente illimitati. Egli
detiene il potere legislativo: le sue constitutiones sono l'unica fonte ufficiale di diritto, essendo venuta meno da tempo
l'attività normativa degli altri organi dello stato, e di esse non si dice più, come durante il principato, che legis vicem
obtinent, ma vengono definite semplicemente leges. Il termine lex, che in età classica designava le sole deliberazioni
comiziali, diviene così sinonimo di constitutio principis (gli iura sono invece chiamate le opere dei giuristi classici).
Le costituzioni vincolano obbligatoriamente tutti i sudditi dell'impero, ma non lo stesso imperatore, dato che questi può
modificarle o abrogarle a suo piacimento. La massima princeps legibus solutus est, contenuta in un passo di Ulpiano
conservato nel Digesto ed intesa originariamente nel senso che il princeps era dispensato dall'osservanza di talune leggi,
va ora interpretata nel senso che l'imperatore è al di sopra di tutte le leggi. Egli può modificare in ogni momento il
sistema legislativo, abrogando leggi in vigore o introducendone di nuove, il che riduce la portata dell'affermazione che
il principe deve dichiararsi sottomesso alle leggi, enunciata da una costituzione di Valentiniano III.
L'imperatore è a capo del potere esecutivo: tutti i funzionari dello stato dipendono da lui in via gerarchica ed è lui a
nominare le più importanti cariche di governo. In campo giurisdizionale, è giudice in ultima istanza nelle controversie
sia civili che penali. In campo finanziario, può imporre e revocare tributi. Ha il comando dell'esercito, il potere di
dichiarare la guerra e concludere la pace e la suprema direzione degli affari religiosi.
Questa ampia concentrazione di poteri in una sola persona non trova alcun fondamento nella volontà popolare. Neppure
il senato ha, nel basso impero, un effettivo peso nel conferimento dei poteri imperiali, limitandosi nella maggioranza dei
casi ad acclamare il nuovo imperatore. Di norma, l'ascesa al trono è conseguenza di un'espressa designazione da parte
del precedente Augusto mentre è ancora in carica.
Comunque, l’imperatore non poteva governare esclusivamente in base al suo arbitrio: a parte che normalmente gli
Augusti in carica erano più d'uno, il limite principale stava nella forza della burocrazia. Una grandissima influenza sulla
vita dello stato e sulla formazione della sua politica fu esplicata dai funzionari imperiali, particolarmente da quelli
preposti all'amministrazione centrale, in quanto più vicini all'imperatore. Notevole fu anche il peso politico dell'esercito,
del clero e dei proprietari terrieri.
Costantino tende a introdurre nella successione il principio dinastico, che però non sarà mai proclamato formalmente e
ufficialmente nell'impero romano. È vero che la maggior parte degli imperatori aspirerà ad avere a successori i propri
figli, ma, non essendo stata mai ammessa un'automatica successione del figlio al trono paterno, era necessaria una
designazione fatta dall'Augusto in carica prima della morte. Ciò poteva avvenire o conferendo subito al designato il
titolo di Augusto, con ciò attribuendogli pari dignità, anche se, talvolta, un minor grado di autorità in campo politico, o
conferendogli il titolo di Cesare, cioè dignità e poteri inferiori, ma con il diritto di divenire automaticamente Augusto
alla morte del predecessore.
L'avvicendamento al trono imperiale non sempre ebbe luogo rispettando fedelmente questo sistema. Nei casi in cui
l'Augusto sia morto senza aver provveduto a nominare il suo successore, è solitamente l'esercito che provvede a
eleggere il nuovo imperatore. Nelle vicende della successione l'esercito ha un peso politico notevole; non è raro il caso
che esso intervenga rovesciando l'ordine costituzionale per imporre un usurpatore. L'esempio più famoso di usurpazione
si ha con la nomina di Costantino da parte dei soldati legati alla memoria del padre Costanzo Cloro.
Inoltre, nella successione al trono sono spesso determinanti l’atteggiamento e la volontà dell'Augusto regnante sull'altra
pars imperii. Talvolta è addirittura questi a nominare il collega; altre volte uno dei due Augusti difende anche con le
armi i diritti costituzionali dell'altro contro gli usurpatori.
L'attribuzione di poteri formalmente illimitati e l'assenza di una qualsivoglia partecipazione popolare alla nomina
favoriscono la divinizzazione della persona dell'imperatore: per giustificare il suo potere assoluto, Diocleziano da ad
esso un fondamento teocratico, proclamandosi dominus et deus. La scelta politica di Costantino in favore del
cristianesimo, invece, gli impedisce di identificarsi con una divinità; tuttavia egli si presenterà come l'uomo inviato
dalla divina provvidenza, come un interprete della volontà di Dio, sicché i suoi poteri mantengono pur sempre un
fondamento divino; anzi, in base a tale fondamento vengono a rafforzarsi. Gli altri imperatori cristiani seguiranno
questa strada: tutto ciò che concerne la persona dell'imperatore è pertanto definito sacro (e sacre le sue costituzioni);
qualsiasi offesa nei suoi confronti costituisce sacrilegium.
Gli organi dell'amministrazione centrale - Organo consultivo per eccellenza è il consistorium principis, derivazione
dell'antico consilium. Esso assiste e consiglia l'imperatore, che lo presiede, sulle questioni politiche e legislative. Inoltre
serve da alta corte di giustizia e in esso vengono lette le sentenze imperiali. Salvo quest'ultima funzione, tutte le altre
tendono a perdere gradualmente di contenuto, sicché nel V e VI secolo il consistorium diviene in sostanza un'assemblea
di notabili, solo raramente capace di esercitare una qualche influenza sulla politica e sulle decisioni dell'imperatore.
Minore importanza rispetto al consistorium hanno i due senati, che pur mantenendo un grado elevatissimo di dignità,
hanno poteri molto ridotti in campo politico e quasi inesistente influenza in campo legislativo, limitandosi per lo più a
dare pubblicità, mediante letture e successiva acclamazione, alle costituzioni imperiali. A volte essi vengono incaricati
dall'imperatore di procedere, assieme al consistorium, alla trattazione di taluni processi.
L'imperatore è al vertice di una complessa burocrazia, sia centrale che periferica. Gli uffici dell'amministrazione
centrale costituiscono il comitatus, così chiamato in quanto i suoi membri seguivano l'imperatore nei suoi spostamenti;
di norma, tuttavia, esso risiede presso la residenza imperiale di ciascuna delle due partes imperii.
Del comitatus fanno innanzitutto parte i 4 principali ministri civili. Fra questi emerge in modo particolare il magister

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officiorum: istituito da Costantino, egli ha un complesso di funzioni disparate, che si estendono con il tempo. Il nome
deriva dal fatto che egli venne chiamato a presiedere i più importanti officia imperiali , ciascuno retto da un magister:
l'officium memoriae, incaricato della redazione delle adnotationes (sorta di rescritti), l'officium epistolarum, incaricato
della corrispondenza imperiale, l'officium libellorum, che ha il compito di istruire le cause portate dinanzi alla cognitio
imperiale e l'officium admissionum, avente la funzione di regolare le udienze concesse dall'imperatore. Il magister
officiorum ha inoltre la direzione delle scholae palatinae, corpi speciali posti a difesa della corte, e della schola degli
agentes in rebus, sorta di ispettori di polizia, incaricati della sorveglianza del servizio di posta imperiale e di un generale
controllo su tutta l'amministrazione sia centrale che periferica. Il magister officiorum dispiega la sua influenza sia nel
campo della politica estera che in materia amministrativa e gli vengono conferiti poteri di controllo anche in campo
militare. Non fa meraviglia che questo alto fuzionario, in origine appartenente alla categoria degli spectabiles, sia stato
accolto, già verso la fine del IV secolo, fra gli illustres, il rango più elevato fra i componenti la classe senatoria.
Notevole autorità ha pure il quaestor sacri palatii, istituito da Costantino, che è il principale consulente dell'imperatore
in materia giuridica, redige le costituzioni imperiali e le risposte alle preces indirizzate al sovrano e può quindi essere
considerato una sorta di ministro della giustizia. In alcuni casi può essergli deferita con delega imperiale la giurisdizione
su taluni processi. Il quaestor non ha un proprio officium, per cui si serve dell'opera degli impiegati degli officia
memoriae, epistolarum e libellorum posti sotto le dipendenze del magister officiorum. Anche il quaestor sacri palatii, in
origine annoverato fra gli spectabiles, nella seconda metà del IV secolo viene accolto fra gli illustres.
Sul punto se un maggior grado di autorità spettasse al quaestor o al magister officiorum, le fonti sono oscillanti.
Minore autorità per rango e per competenza, hanno i 2 ministri finanziari, il comes sacrarum largitionum e il comes
rerum privatarum. Il primo, sostituito al rationalis summae rei, controlla l'esazione dei tributi in denaro (per quelli in
natura è competente invece la prefettura del pretorio) tramite l'attività di funzionari da lui dipendenti che operano nelle
varie diocesi ed ha anche la giurisdizione in materia fiscale: alla fine del IV secolo ha l'autorità di giudicare in questo
campo vice sacra, senza possibilità di appello all'imperatore. Egli ha inoltre l'amministrazione del fiscus, ormai divenuto
la cassa dello stato (il termine aerarium in età tarda indica la cassa della sola città di Roma), e provvede alle spese
pubbliche, cioè al pagamento degli stipendi ai militari e agli impiegati civili. Controlla l'attività delle zecche, delle
miniere e delle manifatture di stato, servendosi della collaborazione di numerosi funzionari. Alla fine del IV secolo è
anch'egli accolto fra gli illustres.
Il comes rerum privatarum, del pari appartenente agli illustres, si sostituisce al magister rei prìvatae. Ha il compito di
amministrare, con l'ausilio di collaboratori distaccati nelle varie diocesi e province, le grandi proprietà terriere che
costituiscono il patrimonio della corona. Oltre a sovrintendere alla riscossione degli affitti relativamente a tali terre, egli
provvede anche a incamerare i beni dei condannati, quelli rimasti vacanti per mancanza di eredi e quelli sottratti agli
eredi in caso di indegnità. Agli inizi, il comes rerum privatarum non ha poteri giurisdizionali, ma questi gli verranno
conferiti già nel corso del IV secolo, naturalmente in materia fiscale.
Partecipano inoltre al comitatus il prefetto del pretorio che ha sede presso la corte e i magistri peditum e equitum che si
trovano permanentemente presso la residenza imperiale. Si tratta di alti ufficiali, aventi le funzioni di capi di stato
maggiore delle rispettive armi, il cui rango è molto elevato: appartengono alla categoria degli illustres, come il prefetto
del pretorio, e nell'ordine delle precedenze di corte vengono immediatamente dopo di lui.
Fra i componenti il comitatus va ricordato il più elevato funzionario di corte, il praepositus sacri cubiculi: sorta di
ciambellano posto a capo di numerosi gruppi di dipendenti addetti alla persona del sovrano e alla sua dimora. Il
praepositus sacri cubiculi, in origine un personaggio di basso rango, data la relativa limitatezza delle sue attribuzioni in
campo formale, è destinato ad acquistare sempre maggiore importanza e potere politico in virtù dei suoi contatti diretti e
frequenti con l’imperatore; con Teodosio II egli verrà addirittura parificato, quanto al rango, ai prefetti del pretorio, al
praefectus urbi e ai magistri militum.
Le leggi imperiali - Le costituzioni imperiali possono definirsi l’unica fonte autoritativa del diritto del basso impero (a
parte l’ordinanza del prefetto del pretorio). Già lo erano divenute di fatto alla fine del principato, con il venir meno delle
altre fonti di produzione normativa: spentasi sin dal I secolo dell'impero l'attività legislativa comizi, codificato l'editto
pretorio nel secolo successivo, senato e giurisprudenza esauriscono ogni attività creativa nel corso del III secolo d.C.
La maggior parte delle statuizioni già emesse in precedenza ad opera di tali fonti conserva ancora vigore nel basso
impero, ma l'autorità di creare diritto nuovo è ormai attribuita ufficialmente al solo imperatore, che a ciò provvede
tramite le sue costituzioni. L'equivalenza di esse alle leges si realizza anche sul piano formale: le costituzioni non sono
più definite come provvedimenti che legis vicem optinent, ma puramente e semplicemente leges.
Anche nel basso impero si distinguono vari tipi di costituzioni imperiali, ma la tipologia appare diversa rispetto all'età
classica. A partire da Costantino, gli imperatori preferiscono legiferare attraverso edicta o leges generales, statuizioni
contenenti norme di carattere generale e astratto, i cui progetti vengono redatti dal quaestor sacri palatii e discussi nel
consistorium. Perdono invece d'importanza le statuizioni a carattere particolare (leges speciales), residuo della mentalità
casistica dominante in età classica. In particolare, i rescripta (e le epistulae), cioè le risposte date dall'imperatore a
problemi concreti di carattere giuridico, esposti in preces o libelli inviati da privati o da funzionari, perdono in gran
parte la loro originaria efficacia a partire da Costantino, il quale vieta che essi possano avere validità generale allorché
contengano principi contra ius. Viene inoltre ribadito più volte il principio che, affinché il rescritto sia valido, occorre
verificare che le affermazioni del richiedente siano conformi a verità: Zenone statuisce che l'accertamento deve essere
compiuto, oltreché dal giudice dinanzi al quale il rescritto viene prodotto, dalla stessa cancelleria imperiale prima di
emettere il provvedimento. Inoltre, tra il IV secolo e il V secolo diverse costituzioni imperiali statuiscono che i rescritti

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debbano avere sempre un'efficacia non generale, ma limitata alla soluzione del caso concreto.
Tutte queste limitazioni sottraggono a tale tipo di constitutio principìs gran parte dell'originaria importanza, in quanto
impediscono che, attraverso i rescritti, possano essere introdotti nell'ordinamento nuovi principi giuridici.
Perdono parimenti d'importanza i decreta e i mandata: i primi, cioè le sentenze imperiali, diventano sempre più rari,
dato che l'imperatore preferisce affidare la soluzione delle controversie a funzionari da lui delegati; i mandata vengono
meno in quanto le istruzioni ai funzionari vengono ormai impartite tramite leges generales.
Nel basso impero vengono usati 2 nuovi tipi di costituzione, le cui caratteristiche non risultano perfettamente chiare alla
dottrina: le adnotationes e le pragmaticae sanctiones. Le prime si possono accostare ai rescritti, benché il divario rispetto
a questi ultimi non sia accertabile con sicurezza, data l'incertezza delle fonti: stando ad una costituzione di Costantino,
l'adnotatio precede l'emissione del rescritto, consistendo nella soluzione del caso concreto da parte del'imperatore prima
di essere stata rivestita della forma del rescritto; in altre fonti, invece, adnotatio e rescriptum appaiono come 2
provvedimenti distinti, benché le differenze fra essi sembrino essere meramente formali.
Le pragmaticae sanctiones appaiono come una via di mezzo fra i rescritti e le leges generales: dirette a risolvere singoli
casi, talvolta hanno avuto valore ed efficacia che va oltre il caso concreto. A partire da Zenone, esse sono assoggettate
alla stessa regola dei rescritti; inoltre, una costituzione di Anastasio decretò l'inefficacia delle pragmaticae sanctiones
che fossero in contrasto con le leges generales. Le pragmaticae potevano avere un contenuto vario, ma per lo più
riguardavano la materia amministrativa; venivano emesse sia su iniziativa imperiale che dietro richiesta di funzionari o
di privati. Per mezzo di pragmaticae gli imperatori inviavano le loro costituzioni al collega regnante sull'altra pars: fu
con pragmatica sanctio che Giustiniano, su richiesta di papa Vigilio, estese la validità della sua compilazione all'Italia.
L’impero romano perde la sua unità politico-amministrativa allorché, morto Costantino nel 337, viene spartito fra i suoi
figli: Costantino II, Costanzo e Costante. Dalla morte di Costantino II alla caduta dell'impero d'Occidente (476), lo stato
romano (salvo un breve periodo di ritorno all'unità dopo la morte di Costante) rimarrà diviso in 2 circoscrizioni
amministrative, la pars Orientis e la pars Occidentis, ciascuna soggetta al dominio di un proprio Augusto. Si pone
quindi il problema se una costituzione emessa in una delle due parti avesse efficacia ipso iure anche nell'altra, cioè se
l'impero romano abbia o no conservata la propria unità legislativa.
Questo interrogativo riguarda esclusivamente gli edicta e le altre leges generales, non le statuizioni imperiali aventi per
natura un'efficacia limitata né quelle emesse nel periodo in cui lo stato romano si trovò ad essere retto nuovamente da
un solo imperatore (il regno di Costanzo dopo la morte di Costante e quello dei successori Giuliano e Gioviano).
Indubbia è l'efficacia generale delle costituzioni emesse da entrambi gli imperatori in carica congiuntamente: è il caso,
ad esempio, delle leggi emanate nei primi mesi di regno di Valentiniano e di Valente. Il problema sorge invece quando
la costituzione è emessa da uno soltanto degli imperatori attualmente in carica.
A favore del'ipotesi dell’unità legislativa dell’impero sembra deporre il fatto che ogni imperatore, anche se unico autore
di una costituzione, indica sempre nelle inscriptiones, oltre al proprio nome, anche quello dell'altro o degli altri Augusti
in carica (l'inscriptio, che precede il testo di ogni costituzione, indica anche il destinatario e, se questi è un funzionario,
ne precisa di solito la carica ricoperta). Comunque sia, la presenza nelle inscriptiones dei nomi di tutti gli Augusti in
carica potrebbe indurre a ritenere che le costituzioni avessero in ogni caso efficacia in tutto l’impero.
L’ipotesi dell'unità legislativa è stata tuttavia smentita dai risultati cui è pervenuta la dottrina più recente. Un'attenta
indagine sulle costituzioni emesse nel periodo che va dall'assunzione al trono di Valentiniano e di Valente alla morte di
Teodosio I ha mostrato l’esistenza di divergenze in campo legislativo fra Occidente e Oriente e che, a volte, l'imperatore
regnante su di una pars imperii mostra di conoscere una legge emessa nell'altra pars, ma le nega validità, confermando
invece la validità di una legge anteriore, dovuta a un imperatore della sua stessa pars.
Quindi sembra che, già verso la metà del IV secolo, fra le 2 partes imperii non vi fosse unità, ma dualismo legislativo.
Esso non sembra venir meno nemmeno quando Teodosio I ripristina l'unità politica dell'impero ponendo l'Occidente
sotto la sua tutela. Inoltre, 2 costituzioni emesse da Teodosio a breve distanza di tempo econtenenti lo stesso divieto,
sono indirizzate l'una all'Occidente e l’altra all’Oriente: l'intenzione dell'imperatore di stabilire un divieto con efficacia
generale sembra evidente, e il ricorso a 2 distinte costituzioni fa presumere che l'emissione di una sola costituzione,
diretta a una sola pars, non avrebbe raggiunto lo scopo di estendere l'efficacia del divieto a tutto l'impero.
Un'altra ricerca avente a oggetto il problema del dualismo legislativo nel basso impero è stata compiuta esaminando il
complesso delle inscriptiones e delle subscriptiones delle costituzioni imperiali emesse dopo la morte di Costantino fino
al 468 d.C. (la subscriptio, che segue il testo della costituzione, contiene la data e il luogo ove questa è stata emessa o
ricevuta o pubblicata dal destinatario): si è notato che, nella stragrande maggioranza dei casi, una costituzione emessa in
una data pars imperii veniva indirizzata a un funzionario della stessa pars.
Quindi, il separatismo burocratico instauratosi fra le due partes imperii sin dall'epoca dell'ascesa al trono dei figli di
Costantino crea, quale necessaria conseguenza, una situazione di dualismo legislativo fra l'Oriente e l'Occidente. I pochi
esempi di invii di costituzioni dalla cancelleria di una pars a un funzionario dell'altra non sembrano sufficienti a
smentire questo assunto; e, del resto, di tali invii non si ha più traccia dopo il 395, anno in cui il solco fra le 2 parti
sembra accentuarsi. La menzione di tutti gli Augusti in carica nell’inscriptio si può spiegare considerando che, ancora
nel V secolo, l'impero viene definito formalmente unico, ma si tratta di un'unità prevalentemente formale, il che non
contrasta con l'autonomia esistente fra le 2 partes in campo sia amministrativo che legislativo.
Con Teodosio II l’autonomia legislativa viene riconosciuta in modo formale, in quanto egli statuisce che le leggi emesse
da uno degli Augusti non avranno efficacia nell'altra pars se non saranno inviate all'altro Augusto per mezzo di una
pragmatica sanctio, e se questi non vorrà accettarle con un proprio atto di volontà sovrana.

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Peraltro, alla proclamazione dell'autonomia legislativa si contrappone ben presto un tentativo di ritorno sostanziale
all'unità. Allorché Teodosio II fa pubblicare il Codice Teodosiano, il suo collega Valentiniano III sollecita e ottiene
l'invio della stessa anche in Occidente; nel 439 il Codice entra così in vigore in tutto l'impero, realizzando in pratica
l'unità legislativa fra le due partes imperii, in quanto tutte le costituzioni comprese nel Codice, anche se in origine
vigenti in una soltanto delle due partes, valgono ora per entrambe (mentre le non comprese s'intendono abrogate).
Tuttavia, successivamente alla pubblicazione del Teodosiano, gli imperatori continueranno a legiferare per loro conto e
solo in alcuni casi provvederanno a inviare le loro costituzioni al collega dell'altra pars, affinché conferisca loro vigore
anche in quest'ultima. Quindi, a partire dal 438 d.C., data di pubblicazione del Teodosiano, i due sistemi legislativi,
dell'Occidente e dell'Oriente, vennero nuovamente a divergere fra loro.
La consuetudine e la prassi - Le costituzioni imperiali dell'età del basso impero, pur essendo in pratica la sola fonte di
diritto ufficiale, non sono in assoluto l'unica fonte atta a produrre innovazioni nell'ordinamento giuridico romano: si
deve infatti tener conto anche dell'influenza esercitata dalle consuetudini (specie di quelle orientali, di origine greca) e
dalla prassi (negoziale e dei tribunali).
L'editto di Caracalla del 212 d.C. non ebbe l'effetto di cancellare dall'uso i diritti locali, che continuarono a essere
impiegati nelle province, resistendo all'applicazione del diritto romano; ciò particolarmente nelle regioni orientali
dell'impero, di lingua e cultura greca. Questi diritti locali, che dal punto di vista del diritto ufficiale (espresso attraverso
le costituzioni) vengono considerati come consuetudini, sono ancora ben vivi in età postclassica.
Per quanto riguarda il loro rapporto con la legislazione imperiale, la dottrina ha sottolineato il diverso atteggiamento di
Diocleziano e di Costantino e i suoi successori nei confronti delle consuetudini orientali: mentre il primo si era
dimostrato apertamente ostile e deciso a imporre ai provinciali il predominio del diritto romano, a partire da Costantino
il diritto romano avrebbe subito un profondo influsso da parte dei diritti provinciali, soprattutto greci. L'epoca
postclassica è stata per l'appunto definita da una parte della dottrina periodo romano-ellenico, anche se tale definizione
appare eccessive, perché vi sono altri fattori che hanno contribuito al rinnovamento del diritto romano nei secoli IV e V,
tra cui il fattore politico e quello economico-sociale, che incide particolarmente nella sfera del diritto pubblico, ma
dispiega la sua influenza anche sul diritto privato: basti pensare al venir meno della distinzione fra proprietà sui fondi
italici e proprietà provinciale. Un altro fattore che ha contribuito alla formazione del diritto romano postclassico è il
cristianesimo (anche se appare eccessivo definire il diritto postclassico come un diritto romano-cristiano): le istanze
morali espresse dalla nuova religione esercitano, a partire già da Costantino, un'influenza profonda su taluni settori del
diritto pubblicoe privato: istituti come il matrimonio e il divorzio subiscono così radicali modifiche.
Per quanto concerne l'atteggiamento favorevole che Costantino avrebbe avuto nei confronti delle consuetudini orientali,
va tenuto presente che il pensiero di questo imperatore (e dei suoi successori) sull'assolutismo imperiale non si discosta
da quello dioclezianeo, per cui anche per Costantino la volontà del sovrano, espressa nella forma della costituzione
imperiale, deve prevalere su qualsiasi altra fonte di diritto. Risale proprio a questo imperatore l'enunciazione del
principio secondo il quale l'autorità della consuetudine è importante, ma non tale da poter contrastare con la legge. È
comunque innegabile che nel basso impero, accanto al diritto ufficiale, coesiste nelle province, soprattutto orientali, un
complesso di consuetudini locali, che non solo sopravvivono alla legislazione ufficiale, ma talvolta sono in grado di
influenzarla. Istituti tipicamente greci Orientali, come ad esempio le arrhae sponsaliciae o la donatio propter nuptias,
penetrano così nell'ordinamento giuridico del basso impero quanto vengono recepiti dalla stessa legislazione imperiale.
Una parte della dottrina ha sostenuto che le profonde modificazioni introdotte nell'ordinamento giuridico nel basso
impero non sarebbero tanto da attribuirsi agli apporti dei diritti provinciali, ma a uno sviluppo interno, che si sarebbe
verificato in modo spontaneo (per opera della prassi) e autonomo (senza subire l'influenza di diritti non romani).
La prassi, che può definirsi l'applicazione quotidiana del diritto nella vita pratica, ha indubbiamente esercitato un ruolo
importante nell'evoluzione del diritto romano nel basso impero, portando innovazioni nel campo sia dei negozi giuridici
(ad esempio, il particolare rilievo dato al documento come forma negoziale) che del processo. In particolare, l'esistenza
di una prassi dei tribunali e la sua capacità di creare nuove norme di diritto vengono attestate dalle stesse costituzioni
imperiali, nei casi in cui esse fanno riferimento a un mos iudiciorum per confermarlo o apportarvi modifiche.
Il diritto nato dalla prassi, sia negoziale che giudiziale, viene definito in dottrina diritto volgare (si parla anche di
volgarizzazione del diritto o di volgarismo giuridico). È un diritto che corrisponde alla necessità e ai bisogni della vita
pratica, e che diverge dal diritto classico, in parte non più attuale rispetto alle mutate esigenze. L'adeguamento del
diritto viene attuato direttamente dalla prassi, senza l'opera di rielaborazione della giurisprudenza, attraverso un
processo di semplificazione del diritto classico, i cui principi sovente non sono più compresi, a causa della decadenza
della cultura giuridica nei secoli IV e V. Nasce così un diritto che è più popolare ma meno tecnico del diritto classico; le
sottili e spesso complicate distinzioni giuridiche, frutto dell'attività di rielaborazione scientifica della giurisprudenza del
principato, vengono abbandonate e sostituite da concezioni più semplici (viene meno, ad esempio, la distinzione fra
compravendita, contratto obbligatorio, e atto traslativo della proprietà, per cui la prima diviene anche atto traslativo).
Anche a voler prescindere dalla questione se le trasformazioni profonde che il diritto romano ha subito nel corso del
basso impero siano da attribuirsi in una misura maggiore all’influenza delle consuetudini locali o della prassi, è un fatto
che l'incapacità della legislazione imperiale, spesso caotica e frammentaria, di sostenere il ruolo di fonte unica del
diritto favorisca l'incidenza di entrambe sull'evoluzione del diritto in questo periodo: non sono ascrivibili all'opera del
legislatore alcune delle più importanti innovazioni introdotte in età tarda, come l'unificazione processuale, attraverso la
quale la cognitio extra ordinem diviene cognitio ordinaria e la fusione dei vari ordinamenti giuridici (ius civile,
honorarium, novum o extraordinarium) in età classica formalmente ancora distinti.

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L'attività della giurisprudenza - Nel tardo impero romano, la giurisprudenza non può essere considerata una fonte di
produzione del diritto come quella dell'età classica; inoltre si tratta di una giurisprudenza anonima, che non è autrice di
opere originali. Si possono citare i nomi di 2 soli giuristi, entrambi vissuti in età dioclezianeo-costantiniana, di cui si
conoscono i titoli di alcune opere, alcuni frammenti delle quali ci sono pervenuti attraverso il Digesto di Giustiniano:
Ermogeniano (forse lo stesso compilatore del Codice omonimo) e Aurelio Arcadio Carisio; sembra comunque che si
trattasse di giureconsulti di scarsa personalità.
La giurisprudenza postclassica, pur non potendosi definire creativa, non ebbe un ruolo insignificante nella storia del
diritto di quest'epoca: i giuristi del basso impero, non essendo in grado di creare opere originali, studiano e fanno
oggetto di raccolte sia le opere della grande giurisprudenza del passato (chiamate in quest'epoca iura), particolarmente
quelle dei giuristi vissuti alla fine dell'età classica, sotto i Severi, sia le costituzioni imperiali, dette ora anche leges.
Secondo la più recente dottrina, già alla fine del III secolo la giurisprudenza postclassica ebbe a curare nuove edizioni
delle opere dei giuristi classici, i cui testi vennero alterati, con la soppressione di termini o periodi, l'inserzione di
termini e talvolta di interi periodi nuovi. Altre alterazioni vennero apportate ai testi in epoche successive ad opera di
annotatori; a questo riguardo si parla più propriamente di glosse (o glossemi) quando l'intento dell'annotatore è quello di
spiegare il significato di un istituto o di un principio giuridico. Le glosse sono per lo più opera di scuola; apposte da
docenti o da allievi ai margini o fra le righe dell'opera che è oggetto di studio, vengono in seguito incorporate nel testo
dai copisti autori delle edizioni successive.
Spesso invece l'anonimo giurista postclassico è mosso dall'intento di aggiornare il testo che ha sotto mano,
modificandolo nella sostanza. Queste modifiche, note con il termine di interpolazioni, possono consistere sia in
aggiunte di parole o di frasi estranei al testo originario, sia in semplici soppressioni di parole o di frasi dell'originale.
Questa attività di aggiornamento dei testi classici è l'apporto più originale della giurisprudenza del impero. Il materiale
giurisprudenziale lasciato in eredità dal mondo classico, oltreché complesso, era anche quantitativamente immenso; per
ridurre drasticamente il numero dei testi atti a essere prodotti nei tribunali e disciplinarne l'uso, una costituzione emessa
in Occidente da Valentiniano III nel 426 (e accolta db Teodosio II nel suo Codice), che la moderna dottrina conosce
come legge delle citazioni, stabilisce che soltanto le opere di 5 giureconsulti (Papiniano, Paolo, Ulpiano, Gaio e
Modestino) possono essere utilizzate nella prassi dei tribunali. In caso di contrasto di opinioni sul medesimo punto di
diritto, dovrà essere seguita l'opinione della maggioranza; in caso di parità dovrà prevalere il responso di Papiniano, e
soltanto nel caso in cui quest'ultimo giurista non si fosse pronunziato, il giudice sarà libero di decidere secondo la
propria discrezione. Gli altri giureconsulti possono essere citati solo se a loro volta citati dai 5 giuristi.
Si è sostenuto in dottrina che Valentiniano III avrebbe limitato la possibilità di utilizzare i testi della giurisprudenza
classica alle opere dei soli 5 giuristi sopra citati, mentre Teodosio II avrebbe ampliato il campo dei iura consultabili
estendendolo mediante quest'ultima disposizione. Questa tesi, se fondata, confermerebbe che nel V secolo la decadenza
della cultura giuridica era più accentuata in Occidente.
La scelta dei 5 giuristi non è dovuta all'arbitrio del legislatore, ma corrisponde a un criterio già da tempo adottato nella
pratica: i Vaticana Fragmenta e la Collatio, raccolte composte prima della legge delle citazioni, contengono infatti
frammenti di iura escerpiti esclusivamente dalle loro opere.
Tuttavia, nonostante la restrizione del campo delle opere della giurisprudenza classica consultabili, queste, nel loro testo
integrale, dovevano apparire troppo complesse e talvolta di difficile comprensione; l’esigenza di semplificazione del
diritto avvertita dagli interpreti è mostrata dall’elaborazione di brevi raccolte di passi scelti della giurisprudenza
classica, che a volte vanno sotto il nome di un singolo giureconsulto, come le Pauli Sententiae e i Tituli ex corpore
Ulpiani (pur essendo composte da passi tratti da opere di più autori), altre palesano la loro natura di antologie attraverso
l’indicazione della fonte di ciascuno dei brani che le compongono, come i Vaticana Fragmenta, la Collatio, la
Consultatio; in queste compilazioni i frammenti tratti dalle opere dei giuristi classici sono mescolati a costituzioni
imperiali (da cui la definizione di raccolte miste di leges e iura).
Raccolte di sole costituzioni imperiali sono invece: i Codici Gregoriano ed Ermogeniano, entrambi aventi carattere
privato, non ufficiale; il Codice Teodosiano, che è invece una vera e propria codificazione ufficiale.
La necessità di spiegare i testi classici e di semplificare il diritto inducono i giuristi a compilarne parafrasi, rifacimenti
con parole proprie dell'anonimo rielaboratore (come i Fragmenta Augustodunensia) ed epitomi, riassunti di opere
classiche (come l'Epitome Gai). Di questa attività non è facile determinare la vastità e i limiti: mentre la natura di
riassunto dell'Epitome Gai risulta sia dal titolo che dal confronto con le Gai Institutiones, non sempre è possibile
appurare se una determinata opera della giurisprudenza classica ci sia giunta nella sua stesura originaria o attraverso
un'epitome redatta in età tarda, in quanto manca la possibilità di ricorrere a un confronto con il testo originale.
Un altro problema affrontato in dottrina riguarda la genuinità o meno delle raccolte pregiustinianee: sino alla fine del
secolo scorso essa le giudicava del tutto immuni da quelle alterazioni che invece riconosceva esistenti nei testi della
codificazione giustinianea e particolarmente nel Digesto. Negli ultimi decenni invece si sono avanzati seri dubbi sulla
genuinità dei testi contenuti nelle compilazioni postclassiche, in quanto si è riconosciuto che molti di essi avevano
subito da parte di anonimi commentatori svariate manipolazioni, effettuate ai fini di ridurre in estensione i testi, di
renderli più comprensibili e di aggiornarli in accordo con l'evoluzione giuridica. La presenza di siffatte alterazioni viene
notata non solo in testi giurisprudenziali, ma anche nelle costituzioni imperiali contenute nelle raccolte. È noto, infatti,
che Teodosio II diede facoltà ai suoi commissari di operare rimaneggiamenti sulle costituzioni comprese nel Codice.
Non si può però concludere che le compilazioni pregiustinianee siano tutte infarcite di interpolazioni. Anzi, l'odierna
dottrina tende a valutare con molta prudenza l'effettiva entità delle alterazioni apportate ai testi in età postclassica. Nelle

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raccolte di quest'epoca moltissimi sono i testi genuini o che hanno subito manipolazioni solo da un punto di vista
formale, conservando, quanto al contenuto, l'originaria sostanza classica.
Secondo il criterio dei confronti testuali, giudicato da molti studiosi il più sicuro al fine di individuare le interpolazioni
inserite dai compilatori nei testi del Corpus lurìs, se dello stesso passo abbiamo 2 distinte redazioni, l'una contenuta in
una fonte pregiustinianea e l'altra nel Digesto, e se esse redazioni non coincidono perfettamente, le alterazioni sono
opera dei commissari di Giustiniano. In realtà, questa ipotesi, se talora può rivelarsi esatta, non è l'unica teoricamente
possibile. Infatti, è possibile che sia alterata la versione riferita dalla fonte pregiustinianea e genuina invece quella del
Digesto o che entrambe le redazioni abbiano subito alterazioni ad opera di diverse mani.
Per converso, il fatto che le 2 redazioni coincidano perfettamente non costituisce una prova sicura della genuinità del
testo: potrebbe infatti darsi il caso che entrambe le versioni derivino da una fonte comune, già alterata in precedenza.
È opportuno sottolineare la differenza esistente fra giurisprudenza occidentale e orientale.
In Occidente, la giurisprudenza è più attiva nel campo della produzione di opere: sono infatti di provenienza occidentale
la maggioranza delle compilazioni pregiustinianee di cui abbiamo conoscenza. Esse, pur avendo spesso come base
materiale giuridico appartenente all'epoca del principato, riflettono in molti punti le innovazioni introdotte in età tarda,
attraverso l'intervento della legislazione imperiale o della prassi. I giuristi occidentali si preoccupano di aggiornare il
materiale giurisprudenziale e legislativo oggetto delle raccolte e di semplificarlo, al fine di renderlo aderente alla realtà
del loro tempo. Talune opere, come le Pauli Sententiae, sono state fatte oggetto a questo fine di successive stesure. Le
scuole di diritto dell'Occidente, invece, famose ancora nel IV secolo, decadono nel secolo successivo.
In definitiva, la giurisprudenza postclassica occidentale, pur povera di cultura e incapace di attuare quell'opera di
elaborazione scientifica del diritto che fu vanto della giurisprudenza del principato, può essere considerata, per la sua
concretezza e il suo senso pratico, come la continuatrice della tradizione giuridica romana.
Nella giurisprudenza orientale, invece, fu piuttosto povera la produzione di opere antologiche, di indirizzo sia pratico
che scolastico. Mentre anche in Oriente la prassi tende alla volgarizzazione del diritto, classicheggiante è l'indirizzo
delle scuole, assurte a grande fama nel corso del V secolo (particolare importanza ebbe la scuola di Berito). In tale
ambito si svolge una feconda attività sui testi classici, che vengono studiati e riveduti, attraverso l'introduzione di
numerosi glossemi. Peraltro i maestri orientali, di lingua e di cultura greca, dimostrano, rispetto ai loro colleghi
dell'Occidente, una maggiore tendenza all'astrazione, che si traduce in una spiccata preferenza per le definizioni, le
classificazioni, la formulazione di teorie. Queste modifiche portano quindi a introdurre nelle opere dei classici uno
spirito nuovo, astrattizzante, estraneo alla concretezza e al senso pratico tipici dei giuristi romani. Tuttavia, indiscutibile
merito dei maestri orientali è l'aver saputo riprendere lo studio diretto delle opere dei classici, mentre in Occidente, per
difetto di cultura giuridica, esse tendevano a essere sostituite da antologie o da brevi epitomi. Sarà proprio questa
rinnovata tradizione di studio sui testi classici che permetterà ai commissari di Giustiniano la compilazione del Digesto.
Le raccolte di costituzioni imperiali. I Codici - Nel del III secolo furono redatte in Oriente 2 raccolte private,
contenenti solo costituzioni imperiali: i Codici Gregoriano ed Ermogeniano. Il primo compilato sotto il regno di
Diocleziano, nel 292-293 d.C, è opera di un Gregorio o Gregoriano non meglio identificato. Esso non ci è pervenuto,
ma un certo numero di costituzioni in esso contenute ci sono state tramandate dalle leggi romano-barbariche e dalle
raccolte miste di leges e iura e sappiamo che venne largamente utilizzato dai compilatori giustinianei per la redazione
del loro Codice. Esso comprendeva almeno 14 libri suddivisi in titoli, di cui si conoscono alcune rubriche: le
costituzioni (in particolare rescritti) erano distribuite fra i titoli in ordine sistematico; entro ogni titolo, riguardante un
determinato argomento, le costituzioni erano invece riportate in ordine cronologico.
Il testo di ogni costituzione era preceduto da un'inscriptio, recante il nome dell'imperatore emittente e del destinatario, e
seguito da una subscriptio, recante la data di emissione (o di ricezione o di pubblicazione) della costituzione. Lo stesso
sistema verrà adottato nelle successive raccolte di leges e nelle raccolte miste di leges e di iura.
La più antica costituzione che con certezza risulta essere stata compresa nel Gregoriano è emessa da Settimio Severo,
ma, visto che i compilatori del Codice giustinianeo attinsero dal Gregoriano e che il primo comprende costituzioni da
Adriano in poi, risulta indirettamente che il Gregoriano comprendeva costituzioni risalenti sino all'età di Adriano.
Qualche anno dopo il 293 viene pubblicato il Codice Ermogeniano, di cui alcuni frammenti si ritrovano nel Digesto.
Neppure questo Codice è giunto fino a noi, ma se ne ritrovano frammenti nelle leggi romano-barbariche e nelle raccolte
miste di leges e di iura; inoltre, anch’esso è stato utilizzato dai compilatori del Codice giustinianeo.
Il Codice Ermogeniano non è diviso in libri ma solo in titoli, entro i quali le costituzioni vengono riportate in ordine
cronologico. La raccolta comprende in buona parte rescritti di Diocleziano emessi negli anni 293-294, sicché sembra
molto probabile che essa sia stata compilata al fine di integrare il Codice Gregoriano. Sia il Codice Gregoriano che
l'Ermogeniano risultano aver subito aggiunte da parte di anonimi annotatori, in quanto vi appaiono inserite alcune
costituzioni di età posteriore all'epoca di pubblicazione delle stesse: la più recente di tali costituzioni aggiunte, inclusa
nel Codice Ermogeniano, appartiene a Valentiniano I.
Entrambi i Codici ottengono notevole diffusione, sopravvivono a lungo (in Oriente saranno ufficialmente abrogati
soltanto con l'introduzione del Codice di Giustiniano) e vengono largamente utilizzati sia dalla prassi che nella scuola.
La ragione di questo successo è evidente: servendosi dei Codici, il lettore ha sotto mano il testo delle più importanti
costituzioni, che altrimenti dovrebbe consultare presso gli archivi imperiali (pressoché inaccessibili); inoltre, la
distribuzione sistematica delle costituzioni rende la loro consultazione più rapida e agevole.
Un’altra raccolta privata di costituzioni imperiali è nota sotto il nome di Constitutiones Sirmondianae, dal nome del
religioso francese Sirmond che la pubblicò nel 1631: si tratta di 16 costituzioni relative ai rapporti fra stato e chiesa, che

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abbracciano il periodo dal 333 al 425 d.C. Alcune delle Constitutiones Sirmondianae sono contenute anche nel
Teodosiano, ma, mentre in quest'ultimo esse sono riportate in una versione abbreviata, nella raccolta di Sirmond hanno
una redazione molto più ampia e completa e presumibilmente più vicina a quella originale.
Nel 439 viene emesso in Oriente, su iniziativa dell'imperatore Teodosio II, il Codice Teodosiano, la prima raccolta
ufficiale di costituzioni imperiali. Il progetto originario di Teodosio II era stato molto più ambizioso: nel 429 egli aveva
infatti nominato una commissione di 8 membri incaricata di redigere 2 distinte raccolte: la prima, avente a oggetto tutte
le costituzioni a carattere generale emesse da Costantino in poi, ordinate secondo il sistema dei 2 precedenti Codici,
essendo destinata soprattutto alla scienza, avrebbe dovuto comprendere anche le costituzioni non più in vigore. La
seconda, avendo invece carattere pratico, doveva raccogliere dai 2 precedenti Codici e dal III appena compilato le sole
costituzioni in vigore e passi scelti tratti dalle opere della giurisprudenza classica.
Le difficoltà incontrare dalla commissione costrinsero l'imperatore a rivedere il progetto iniziale e ad accontentarsi di un
risultato relativamente più modesto: nel 435, egli nomina una nuova commissione di 16 membri, cui dà l'incarico di
compilare una raccolta delle costituzioni imperiali di Costantino in poi, ad integrazione dei 2 precedenti Codici. Essa,
destinata sia alla pratica che alla scienza, doveva comprendere sia le costituzioni attualmente in vigore sia quelle
abrogate. Mentre nel 429 l'Imperatore aveva statuito che le costituzioni venissero riportate fedelmente nel testo
originale, con il nuovo progetto fu data ai commissari ampia facoltà di alterare i testi.
Il Codice Teodosiano non ci è giunto integro, ma attraverso diversi incompleti manoscritti, per cui la sua ricostruzione è
forzatamente lacunosa; esso è diviso in 16 libri e ogni libro in titoli. Come nei codici Gregoriano e Ermogeniano, le
costituzioni sono situate sotto le varie rubriche a seconda della materia trattata; entro ogni titolo vengono riportate in
ordine cronologico. L'opera, pubblicata nel 438, viene inviata in Occidente su richiesta di Valentiniano III, che la
presenta per l'approvazione formale al senato di Roma, ed entra in vigore nel 439. L'entrata in vigore del Teodosiano
non toglie validità ai 2 precedenti Codici, che anzi ricevono dalla legislazione teodosiana riconoscimento ufficiale. Il
primo, del resto, palesa il suo carattere integrativo rispetto al Gregoriano e all'Ermogeniano non solo per l'epoca cui
appartengono le costituzioni ivi raccolte, ma anche per il loro contenuto: mentre le costituzioni ricomprese nei 2
precedenti Codici concernono quasi esclusivamente diritto privato, nel Teodosiano sono di gran lunga di più quelle
relative a materie di diritto pubblico. Un'altra rimarchevole differenza è che i Codici Gregoriano ed Ermogeniano
raccolgono rescripta ed epistulae, mentre il Teodosiano contiene quasi esclusivamente leges generales.
Risulta che i compilatori abbiano fatto largo uso della facoltà di apportare modifiche al testo delle costituzioni: molte
leggi, relative a diversi argomenti, vennero smembrate in più parti, distribuite sotto diversi titoli, numerose furono le
interpolazioni compiute per aggiornare i testi in armonia con l'evoluzione del diritto. Inoltre, le costituzioni non sono
state inserite nel Codice nella loro versione originale, ma in forma sunteggiata e ridotta (come è accaduto nei 2 codici
precedenti e nelle raccolte miste di iura e leges).
Nel valutare l'opera nel suo complesso, la dottrina ha sottolineato gli errori e le inesattezze commessi dai commissari di
Teodosio II; tuttavia, va tenuto presente che essi dovettero trovarsi di fronte a gravi difficoltà nel raccogliere e sistemare
la gran mole di costituzioni emesse in quel periodo e che, mentre il materiale legislativo concernente il diritto privato
era già in parte raccolto e ordinato nei 2 precedenti Codici, per quello concernente il diritto pubblico la codificazione
teodosiana non aveva precedenti.
In Oriente il Codice rimarrà in vigore sino alla pubblicazione del primo Codice di Giustiniano, che peraltro attinge dal
Teodosiano e dai 2 precedenti Codici. In Occidente, il Teodosiano sopravviverà alla caduta dell'impero romano
occidentale, in quanto gran parte delle costituzioni in esso contenute verranno trasfuse nelle leggi romano-barbariche. In
Italia, l'estensione della compilazione giustinianea non comporta un'abrogazione definitiva del Teodosiano.
Dopo la pubblicazione del Codice Teodosiano, nuove costituzioni vengono emanate sia da parte degli stessi Teodosio II
e Valentiniano III, sia da parte dei loro successori: queste novellae leges (chiamate anche Novellae posttheodosianae)
non furono oggetto di codificazione, ma vennero incluse in raccolte non ufficiali.

Le opere che vanno sotto il nome di un giurista classico - Sono falsamente attribuite a 2 giureconsulti classici 2 opere
che la più recente critica ha giudicato rielaborazioni di iura classici compiute dalla giurisprudenza del basso impero:
- i Tituli ex corpore Ulpiani ci sono tramandati attraverso un manoscritto conservato nella Biblioteca Vaticana. L’opera
ha il carattere di una trattazione elementare e ci è giunta incompleta. I passi sono distribuiti entro 29 titoli; alcuni
frammenti si possono leggere anche nella Collatio e nel Digesto, ove vengono riferiti a un'opera ulpianea dal titolo
Liber singularis regularum. Ciò ha fatto sorgere diverse ipotesi sulla vera natura dell'operetta: si è dapprima ritenuto che
i Tituli siano un riassunto del Liber singularis regularum. La dottrina più recente ha affacciato altre ipotesi: che si tratti
di una crestomazia di passi scelti tratti da varie opere di Ulpiano, o di un'epitome delle Istituzioni di Gaio completata da
qualche definizione o classificazione ulpianea, o che le fonti da cui l'opera deriva siano e le Istituzioni gaiane e il Liber
singularis regularum ulpianeo. Il fatto che l'opera venga definita come un complesso di titoli tratti da un corpus Ulpiani
farebbe effettivamente pensare che almeno il nucleo originario di essa sia costituito da una crestomazia di passi
ulpianei. Il termine corpus, usato nel significato di raccolta di passi scelti (o di opere) dello stesso giureconsulto, si
rinviene infatti anche in altre fonti postclassiche.
- le Pauli Sententiae, il cui testo, suddiviso in 5 libri ripartiti in titoli, ci è tramandato in buona parte dalla lex Romana
Visigothorum e da altre fonti di epoca tarda, per cui è stato possibile effettuarne una ricostruzione quasi integrale. Non
si tratta di un'opera originale del giurista Paolo; la dottrina ha accertato che le Pauli Sententiae sono una crestomazia di
passi scelti, tratti per lo più da varie opere pauliane, ma anche da scritti di altri giureconsulti classici. Non tutti i passi

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sono riprodotti fedelmente; anzi, l'opera è stata fatta oggetto di rimaneggiamenti e di successive stesure per aggiornare il
testo originale con le modifiche subite dal diritto romano nei secoli III-V.
In particolare, si è appurato che le Sententiae non sono una crestomazia di soli iura, ma contengono numerose epitomi
di costituzioni imperiali. Probabilmente le Sententiae non hanno subito questo processo di aggiornamento per ragioni
culturali o didattiche (le epitomi sono prive di ogni indicazione circa l'identità dei rispettivi legislatori), ma per esigenze
di ordine pratico: si è ipotizzato che l'opera sia stata utilizzata come prontuario ad uso degli avvocati.
I passi dell'opera rivelanti riflessi di costituzioni imperiali sono contenuti in prevalenza in fonti occidentali piuttosto che
nel Digesto. Ciò ha fatto supporre che in età tarda si siano venute diversificando 2 distinte redazioni dell'opera.
Le Pauli Sententiae offrono una delle testimonianze più significative dell'attività della giurisprudenza pratica dell'età
postclassica, che di rado va oltre a un'interpretazione meramente ricognitiva dei precetti imperiali, ma ha il pregio della
sintesi e della chiarezza: mentre la legislazione postclassica è espressa in uno stile prolisso e talvolta oscuro, i testi delle
Sententiae contenenti epitomi di costituzioni appaiono stringati. L'intento dell'anonimo epitomatore sembra essere
pertanto quello di trarre dalle costituzioni la nuda norma. Lo stile dell'opera risponde dunque pienamente all'esigenza di
semplificazione del materiale giuridico tipica del tempo: una riprova dell'alta considerazione che l'operetta ebbe a
godere nel basso impero è offerta del resto non soltanto dal fatto che varie raccolte di quest'epoca ne riportano ampi
squarci, ma anche dalla testimonianza diretta della cancelleria imperiale d'età tarda: una costituzione di Costantino ne
riafferma la validità dell'uso nei tribunali e tale validità viene confermata dalla legge delle citazioni.
All’opera attingeranno anche i compilatori delle leggi romano-barbariche.
Le opere che rielaborano o commentano testi classici - L'Epitome Gai, una tarda riduzione e rielaborazione delle
Istituzioni gaiane, è scritta in 2 libri, corrispondenti ai primi 3 delle Istituzioni. Tramandataci dalla lex Romana
Visigothorum, era stata ritenuta opera degli stessi compilatori della raccolta, ma oggi si tende a considerarla di origine
previsigotica: in particolare la si è giudicata un'interpretatio delle istituzioni gaiane, redatta sulla base di una precedente
rielaborazione delle Istituzioni fatta a scopi scolastici. L'Epitome Gai ha dunque origine, alla seconda metà del V
secolo, nell'ambiente delle scuole occidentali di diritto, probabilmente della Gallia, ove dovette servire quale libro
elementare di testo. Si notano sovente sostanziali differenze rispetto all'originario testo gaiano, che attestano la profonda
evoluzione subita dal diritto romano nell'ampio lasso di tempo intercorrente fra l'età degli Antonini (quando furono
scritte le Istituzioni) e la seconda metà del secolo V.
I Fragmenta Augustodunensia sono una parafrasi delle Istituzioni di Gaio, rinvenuta solo in parte in un palinsesto della
biblioteca di Autun. L'opera, prolissa e piuttosto mediocre, è un semplice commento delle Istituzioni gaiane e va ascritta
a un ignoto maestro occidentale di diritto che voleva spiegarne il significato ai suoi allievi. Il fatto che anche il libro IV
delle Institutiones (concernente il processo) sia stato fatto oggetto di parafrasi nei Fragmenta Augustodunensia induce a
pensare che essi siano stati scritti in epoca precedente l'Epitome Gai o che all'epoca in cui essi vennero redatti l'Epitome
non aveva ancora sostituito le classiche Institutiones come testo scolastico.
Gli Scholia Sinaitica, così chiamati perché scoperti in un monastero situato sul monte Sinai, sono un complesso di scoli
apposti ai libri 35-38 del commentario ad Sabinum di Ulpiano. Si tratta di brevi commenti, redatti in lingua greca e
provenienti probabilmente dalla scuola di Berito. Lo scoliasta illustra il testo ulpianeo facendo frequenti riferimenti ad
altre opere giurisprudenziali e a costituzioni imperiali tratte dai Codici Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano, per cui
la raccolta dev'essere posteriore al 438. Negli scoli (di carattere meramente interpretativo del testo classico) appaiono
commentati 3 passi ulpianei che si trovano nel Digesto e che la critica ha giudicato interpolati, per cui si è sostenuta la
posteriorità dell’opera rispetto al Digesto; la comune dottrina preferisce tuttavia attribuirla a una data anteriore, anche
perché Giustiniano, dopo aver pubblicato il suo primo Codice, vietò l'uso dei 3 precedenti (citati invece negli Scholia).
Le raccolte miste di materiale legislativo e giurisprudenziale - I Vaticana Fragmenta (così chiamati perché scoperti
in un codice della Biblioteca Vaticana) sono una raccolta di 341 frammenti, parte di un'opera più vasta compilata
probabilmente in Occidente. I giuristi citati sono Papiniano, Paolo e Ulpiano, le costituzioni sono in maggioranza
rescritti di Diocleziano e le più recenti appartengono a Costantino, a parte una costituzione di Valentiniano, Valente e
Graziano. Il compilatore fa uso dei Codici Gregoriano ed Ermogeniano, ma dimostra di ignorare il Teodosiano, in
quanto le costituzioni emesse a partire da Costantino non risultano escerpite da quest'ultimo Codice, in quanto non
appaiono nella versione abbreviata adottata dal Teodosiano, ma in una versione molto più estesa, che verosimilmente
corrisponde a quella originale. Si è sostenuto che la raccolta risalga all'età di Costantino e che l'unica costituzione di
Valentiniano, Valente e Graziano sia stata aggiunta dopo. I frammenti sono raggruppati sotto diverse rubriche relative
ad argomenti di diritto privato, il cui ordine è difficile ricostruire poiché l'opera ci è pervenuta solo in parte.
La Lex Dei è un vero e proprio manuale di diritto comparato romano-mosaico. Scopo dell'ignoto autore sembra fosse la
dimostrazione della derivazione del diritto romano dal mosaico e quindi la superiorità di questo sul primo. Sotto ogni
rubrica, al principio di diritto mosaico fanno seguito le corrispondenti norme di diritto romano. La materia trattata, nella
parte che ci è nota, è in prevalenza diritto criminale, ma vi sono anche titoli relativi al diritto privato. L'opera ci è
pervenuta solo in parte, per cui ci è impossibile arguirne l'originaria estensione (conosciamo solo i primi 16 titoli del
libro I). I frammenti di iura ivi contenuti appartengono ai giuristi Papiniano, Paolo, Ulpiano, Gaio e Modestino; le
costituzioni sono tratte dai Codici Gregoriano ed Ermogeniano. Una costituzione è di epoca più tarda, ma si pensa che
essa sia stata aggiunta in una successiva revisione dell'opera; la dottrina è oggi propensa ad attribuire la redazione della
Collatio all'età di Diocleziano o Costantino. L'attribuzione all'età dioclezianea è più probabile, data l'assoluta mancanza
nell'opera di costituzioni costantiniane.
La Consultatio è una raccolta di pareri su vari argomenti di carattere giuridico, indirizzata da un giurista a un avvocato.

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Si tratta di un'opera di modesto valore, ma riflette il livello della cultura giuridica nel basso impero. Su ogni punto
oggetto di discussione, l'anonimo autore enuncia la propria tesi e riporta, a guisa di dimostrazione, diverse costituzioni
tratte dai 3 Codici e numerosi passi delle Pauli Sententiae. Alcuni studiosi hanno supposto che, nell’opera, vi sia un
nucleo primitivo redatto forse verso la fine del V secolo e un successivo ampliamento compiuto probabilmente dopo
l'emanazione della lex Romana Visigothorum. Comunque, la presenza di citazioni del Codice Teodosiano permette di
attribuire con sicurezza la sua redazione ad epoca posteriore al 438.
Del Libro siro-romano di diritto si possiedono varie versioni ricavate da un originale greco non pervenutoci, che risale
probabilmente al V secolo e che ebbe larga diffusione in Oriente in epoca successiva alla compilazione giustinianea.
Sebbene non immune da influenze orientali, l'opera contiene quasi solo diritto romano, in particolare diritto privato con
preferenza per la materia ereditaria. L’ignoto autore tratta sia dell'antico ius civile, sia del ius novum (diritto di età
imperiale risultante da senatoconsulti e da costituzioni databili fino al 476-477 circa), ma non del ius honorarium.
Sulla questione se l'opera sia stata composta con finalità pratiche o per uso puramente didattico, la critica è discorde.
Le leggi romano-barbarìche – Fra le raccolte di testi giuridici compilate nel basso impero rientrano le leggi romano-
barbariche, compilazioni ufficiali promulgate nel V-VI secolo dai sovrani germanici in Occidente. Esse presuppongono
la caduta della parte occidentale dell'impero romano e il costituirsi nelle sue ex-province di regni germanici. Ad
eccezione dell'Editto di Teodorico, applicabile a tutti i sudditi del regno ostrogoto, le leggi romano-barbariche valevano
esclusivamente per i sudditi romani, in virtù del principio della personalità del diritto vigente presso i Germani; pertanto
questi, anche dopo l'entrata in vigore delle suddette leggi, continueranno a vivere secondo le loro consuetudini, che, per
influenza della civiltà romana, verranno raccolte in compilazioni scritte.
L'Editto di Teodorico venne pubblicato in Italia intorno al 500 d.C. da Teodorico, re degli Ostrogoti. Il sovrano si
considerava formalmente amministratore dell'Italia in nome dell'imperatore d'Oriente Zenone ed è per questo che la
compilazione prende il nome di edictum e non quello di lex (riservato alle statuizioni imperiali). Per lo stesso motivo, le
norme dell'Editto sono applicabili sia ai romani che agli ostrogoti. L'Editto è una codificazione molto modesta, che
consta di soli 154 articoli; per le materie non regolate doveva restare salva l'applicazione delle rispettive leggi personali.
Nel testo manca ogni indicazione delle fonti adoperate, ma esse furono i 3 Codici, le Novelle post-teodosiane e diverse
opere giurisprudenziali, fra cui le Pauli Sententiae, le Istituzioni di Gaio e i Libri de officio proconsulis di Ulpiano.
La lex Romana Burgundionum è emessa agli inizi del VI secolo dal re dei Burgundi Gundobado ed è destinata ai soli
sudditi romani del regno burgundo. Il titolo di lex attribuitole si spiega con il fatto che il sovrano barbaro si considerava,
anche formalmente, indipendente rispetto all'imperatore romano-orientale (lo stesso si può dire per la lex Romana
Visigothorum). La compilazione consta di un complesso di norme di diritto romano, formulate non sempre in modo
preciso, che soltanto in alcuni casi recano l'indicazione delle fonti utilizzate (le stesse dell'Editto). Come nell'Editto,
nella lex Romana Burgundionum le fonti non sono riportate fedelmente, ma liberamente riassunte.
La più importante fra le leggi romano-barbariche è la lex Romana Visigothorum o Breviarìum Alarìcianum. Promulgata
nel 506 da Alarico II, re dei Visigoti, è destinata a servire da codice ai soli romani sudditi del regno visigoto (ma, per
una tesi recente, avrebbe avuto validità territoriale) ed ebbe in Occidente notevole diffusione.
L'opera è formata da estratti escerpiti da diverse fonti giuridiche romane, riportati fedelmente e secondo l'ordine delle
fonti di provenienza, indicate esplicitamente, a differenza che nelle altre 2 leggi romano-barbariche. Il Breviario
contiene buona parte del Teodosiano e delle Novelle post-teodosiane, l'Epitome Gai per intero, la maggior parte delle
Pauli Sententiae, alcune costituzioni dei Codici Gregoriano ed Ermogeniano e uno squarcio dei Responsa di Papiniano.
Nella lex Romana Visigothorum, sia le costituzioni provenienti dal Codice Teodosiano, sia alcune delle Sententiae
pseudopauliane sono seguite da un'interpretatio, che riproduce con altre parole, di solito in maniera più stringata, il testo
commentato per renderlo maggiormente intellegibile. Dapprima si è ritenuto che autori di queste interpretationes
fossero stati gli stessi compilatori della lex Romana Visigothorum, mentre oggi si pensa che i commissari visigoti
abbiano solo raccolto e sistemato un materiale già esistente, costituito da un complesso di glosse e di commenti risalenti
al V secolo, che sarebbero da attribuire all'attività delle scuole occidentali di diritto.
Spesso l’interprete, nello spiegare il testo, ne travisa il significato. Ciò non è sempre imputabile ad errore o ignoranza,
ma al fatto che il principio giuridico contenuto nel testo commentato risulta sovente essere, al tempo in cui l'interprete
scrive, sovvertito o superato in conseguenza di un'evoluzione storica. Queste divergenze fra testo e interpretatio sono
più frequentemente riscontrabili nelle costituzioni più antiche, come quelle di Costantino, mentre diversi testi delle
Pauli Sententiae sono privi di interpretatio, in quanto rifatti in epoca relativamente recente e aggiornati con il nuovo
diritto. Anche l’Epitome Gai è priva di un'interpretatio, il che non sorprende dal momento che l'Epitome può a sua volta
considerarsi un'interpretatio delle Istituzioni gaiane. In definitiva, le interpretationes del Breviarium Alaricianum sono
qualcosa di molto più significativo di una serie di semplici commenti a testi di diritto, legislativi o giurisprudenziali.
Sebbene il linguaggio adottato non sia all'altezza di quello dei giuristi classici, non c'è dubbio che gli anonimi
commentatori abbiano dato spesso la prova di saper cogliere la realtà giuridica del loro tempo.
Le leggi romano-barbariche non hanno in complesso carattere innovativo, in quanto i compilatori si sono per lo più
limitati a recepire, al massimo con lievi ritocchi, parti di opere legislative o giurisprudenziali già diffuse in Occidente
prima della caduta dell'impero. Ciò però non sminuisce la loro importanza come fonti di cognizione, in particolare con
riguardo alla lex Romana Visigothorum, senza la quale non ci sarebbero pervenute le parti più estese del Teodosiano e
delle Pauli Sententiae e l'intera Epitome Gai.
Sul piano del contenuto normativo, la dottrina è nel complesso concorde nel sottolineare la povertà e la rozzezza di tutta
la legislazione romano-barbarica. In particolare, la lex Romana Visigothorum è stata paragonata al Corpus Iuris di

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Giustiniano dal punto di vista strutturale (anche la Lex si articola in 3 parti: una raccolta di leges, una trattazione
elementare ad uso scolastico e un complesso di iura), ma tale accostamento evidenzia i suoi limiti rispetto alla grande
compilazione orientale. Tuttavia essa ha il merito di aver recepito un materiale giuridico perfettamente rispondente alle
esigenze del tempo, ed è questa relativa modernità che spiega la grande e duratura fortuna dell'opera.

L’età Giustinieanea (123-124-125)


Giustiniano, o meglio Flavius Petrus Sabbatius Iustinianus, nasce nel 482 a Tauresium, una regione
periferica dell’impero d’Oriente, ma di lingua latina. Il padre di Giustiniano, era di condizioni molto
modeste; ma suo zio, Giustino, destinato a diventare imperatore, chiamò presto il nipote, figlio di
sua sorella, a Costantinopoli. E’ probabile che Giustiniano abbia ricevuto una buona educazione
scolastica secondo i canoni del tempo. Nel 518 morì l’imperatore Anastasio I e dopo una serie di
contrasti nel luglio dello stesso anno fu scelto come imperatore Giustino lo zio di Giustiniano. La
carriera di Giustiniano fu assai agevolata da questo evento, in effetti Giustiniano ebbe subito la
carica di illustris comes e nel 521 fu console.Giustino I durante il suo impero si dimostrò favorevole
alle dottrine calcedoniane e questo atteggiamento nei confronti del papato determinò anche una
svolta positiva nei rapporti con Teodorico e con il regno Gotico in Italia. Con l’assassinio di
Vitalino, in quel momento console, Giustiniano si sbarazzò del suo più pericoloso rivale.
In torno al 525 Giustiniano sposò Teodora. Il matrimonio però, fu reso possibile solo dopo la morte
di Eufemia, moglie di Giustino, che si era opposta alle nozze, e dopo l’abrogazione di una legge che
vietava i matrimoni degli uomini di rango senatorio con le attrici di teatro, anche dopo il ritiro dalle
scene.
Il matrimonio con Teodora fu uno degli avvenimenti più importanti della vita di Giustiniano, tale
cioè da trascendere la sfera del “privato” per toccare anche quella pubblica. L’aggravarsi delle
condizioni di salute di Giustino impose la nomina di Giustiniano ad Augusto che alla morte di
Giustino divenne imperatore.
Nel lungo regno di Giustiniano I che durò 38 anni sono individuabili diversi cicli.
Sul piano politico ,sia interno che estero, il regno Giustinianeo viene diviso in due grandi fasi: la
prima fase è compresa fra gli inizi del regno ed il 540: in quest’anno si era infatti conclusa, con la
presa di Ravenna ad opera di Belisario, la prima parte della più lunga e significativa guerra
Giustinianea, quella condotta in Italia contro i Goti; la seconda fase è caratterizzata da una minore
spinta espansionistica è da una tendenza al rafforzamento delle posizioni già acquisite. Quanto al
piano interno la situazione tenderà a divenire più precaria, anche a causa della progressiva
scomparsa dei migliori “collaboratori” di Giustiniano.
Per quanto riguarda il campo religioso il problema più importante è quello del monofisismo una
dottrina secondo la quale Cristo aveva solo la natura divina avendo quest’ultima assorbito quella
umana. Nel 536 Giustiniano iniziò le persecuzioni contro i monofisisti, nel 542 però un monaco,
Giacomo Beradeo, porta la chiesa monofisista a grande potenza. In seguito, in più occasioni,
Giustiniano cerca di gettare un ponte di riconciliazione verso i monofisisti, ma i suoi sforzi sono
inutili anzi in molti casi suscitano anche l’ira e dei calcedoniani.
Sotto il profilo dell’attività giuridica, può essere opportuna, in fine, una divisione del regno
giustinianeo in tre periodi: il primo periodo, contrassegnato dalla preparazione e dalla pubblicazione
del Primo Codice, del Digesto, delle Istituzioni, e del Secondo Codice; il secondo periodo è
caratterizzato da una intensa legislazione corrente; durante il terzo periodo l’attività legislativa si fa
sempre più intensa.
La codificazione Giustinianea ( 126 – 132 )
Nel 528 Giustiniano, rivolgendosi al Senato annuncia il suo primo progetto giuridico: si tratta, di
una raccolta di leges, e cioè di costituzioni imperiali il cui scopo è quello di ridurre la lunghezza
delle cause. La base della raccolta sono i tre precedenti codici il Gregoriano, l’Ermogeniano e il
Teodosiano.
La commissione incaricata di redigere il nuovo codice è composta, come risulta dalla const. Haec

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quae necessario, rivolta al senato, da Giovanni, da altri sei eminenti funzionari o ex-funzionari, da
Teofilo e infine da due avvocati patrocinanti presso il tribunale supremo del prefetto del pretorio.
Le istruzioni impartite alla commissione confermano gli scopi della nuova codificazione. Viene
consentita infatti una serie di <<manipolazioni>> dei testi legislativi, cioè l’eliminazione delle
praefationes, delle <<cose>> simili e di quelle <<contrarie>> e infine delle norme cadute in
desuetudine. Alla commissione viene anche consentito di operare aggiunte e riduzioni, di mutare, se
necessario, le stesse parole delle leges, di raccogliere in una sola sanctio le norme disperse in varie
costituzioni, di renderne in fine più chiaro il senso.
L’opera fu portata a termine in poco più di un anno; cossicchè con la const. Summa rei publicae il
nuovo Codice poteva essere pubblicato. Anche la lettura della const. Summa rei publicae offre
spunti interessanti: essa è indirizzata al prefetto del pretorio e si apre con l’affermazione che la
difesa dello stato, è affidata sia alle armi che alle leges, dopo questo si torna al tema della raccolta
delle leges. La nota nuova di questa const. rispetto alla prima , consiste nell’affermazione della
esaustività della nuova codificazione; tale idea era quindi maturata durante i lavori.
Fra il 529 e il530 la cancelleria prosegue la sua attività legislativa. Era diventato intanto ministro
della giustizia Triboniano ed è a lui che si deve l’idea di una raccolta di iura.
I lavori del Digesto prendono l’avvio con la const. Deo autore. In questa importante costituzione,
indirizzata allo stesso Triboniano, vengono indicati gli scopi della raccolta e vengono fissate le
direttive principali per l’attività dei compilatori. Il paragrafo introduttivo propone alcuni motivi di
propaganda imperiale in seguito comincia ad entrare in una tematica specificamente giuridica.
Lo scopo della raccolta di iura è quello di raccogliere e di emanare tutta la normazione romana, e
racchiudere in un solo codice i volumi dispersi in tanti giuristi.
Per la compilazione di quest’opera si fa pieno affidamento sulle capacità di Triboniano, al quale
viene concesso di associarsi i collaboratori preferiti, da scegliere, tra i professori e gli avvocati. Il §
4 è fondamentale per l’indicazione delle fonti della raccolta, si prescrive infatti la lettura dei libri
degli antiqui iurus prudentes. Il racconto continua nel § 5, in cui si parla di una fase successiva dei
lavori, e cioè dell’<<architettura>> da darsi all’opera: ciò in rapporto sia alla divisione dell’opera in
libri (cinquanta), e poi in titoli, sia all’ordinamento interno. Usando questi criteri, l’opera finirà
appunto con il raccogliere tutto il diritto antico. Nel § 6 si trova un’altra affermazione della
massima importanza: i brani giurisprudenziali prescelti per il Digesto vengono assimilati alle
costituzioni imperiali, come voce dello stesso imperatore. Nel § 7 vengono avallati gli interventi
compiuti sulle costituzioni riportate citate dai giuristi: il tutto viene giustificato con un richiamo alla
lex antiqua, quae regia nuncupabatur, in forza della quale, ogni diritto e ogni potere del popolo
romano sono stati sacrificati al potere imperiale. Nel § 10 si indica ai compilatori di omettere le
leggi ormai cadute in desuetudine. In definitiva dice ancora il § 11, tutto l’ordinamento giuridico
riposa ormai su questi due codices; ad essi si potrà aggiungere soltanto un’opera istituzionale. Negli
ultimi paragrafi della const. “Deo autore” sono soprattutto da segnalare il divieto di commentare
l’opera ultimata, onde evitare un nuovo accumularsi di contrastanti interpretazioni; il divieto di
usare sigla, e cioè abbreviazioni, nella stesura dell’opera; e infine l’incitamento ad una sollecita
conclusione dei lavori. L’opera fu pubblicata nel 533 con la costituzione Tanta la quale, richiede un
attenta lettura.
Nel pr. si ricordano innanzitutto i successi diplomatici e bellici ottenuti negli ultimi anni si passa poi
a ricordare anche i progetti giuridici. Nel § 9 si elencano i nomi dei componenti della commissione:
si tratta di Costantino, di Teofilo, di Doroteo, di Anatolio, di Cratino e di undici avvocati, in totale
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con Triboniano, diciassette persone. Nel § 10 si introduce un altro importante argomento: la
reverentia antiquitatis che, ha indotto i compilatori a premettere un inscriptio ai singoli frammenti in
modo tale che il nome del giurista utilizzato non cadi nell’oblio . si tratta di un primo scrupolo di
tipo storico-filologico, subito sminuito dal consenso espressamente prestato ad ogni manipolazione
dei testi classici
Nei paragrafi successivi si torna al tema dell’ordinamento giuridico visto nel suo complesso. A

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formarlo concorrono tre volumi le Istituzioni, il Digesto e le constitutiones; dalla confusio e dalla
infinitas si passa, dunque, alla moderatio e alla legittima veritas. Non ci si dissimula, che nelle
opere così composte potranno trovarsi delle ripetizioni, alcune tuttavia coscienti e volute. Si esclude
invece, l’esistenza di disposizioni contrastanti mentre si giustificano a priori eventuali omissioni,
facendo leva, sulla considerazione che è molto meglio lasciar sfuggire qualcosa di utile che
appesantire i lettori con molte cose inutili. Nel § 17 si enumerano i pregi della raccolta, di iura, e
quindi anche i vantaggi da essa presentati nella concreta utilizzazione giudiziale degli scritti
giurisprudenziali classici. Nel § 20 si ordina di includere all’inizio del Digesto un elenco dei giuristi
e delle opere utilizzate. Di un certo interesse è il § 23, che riguarda il vigore delle Istituzioni e del
Digesto nel tempo: le nuove opere dovranno essere utilizzate in tutte le cause future e in quelle
ancora pendenti in giudizio, e cioè non ancora rivolte con sentenza o con transazione. Il § 24
riguarda, a sua volta, il vigore delle stesse opere nello spazio: si menzionano a questo proposito,
oltre alla capitale, le prefetture d’Oriente, dell’Illirico e dell’Africa.
In conclusione in questa costituzione si vuole sottolineare che con quest’opera lo stato oltre ad
assumersi il compito della produzione delle norme giuridiche si assume anche quello del loro
coordinamento in un ordinato sistema.
Il Bluhme notò che nel Digesto i frammenti si susseguono in un certo ordine. Da qui la congettura
che le opere da spogliare fossero state divise in tre masse, affidate ciascuna ad una
sottocommissione: la massa sabiniana, comprendente le opere attinenti al ius civile; la massa
edittale, comprendente le opere dedicate al ius honorarium; la massa papinianea comprendente
opere di casistica; un ulteriore gruppetto di opere avrebbe invece costituito una quarta massa.
Terminata questa prima fase dei lavori, le tre sottocommissioni avrebbero tenuto una serie di
riunioni congiunte, sistemando sotto le singole rubriche i materiali prescelti, e avendo cura di
eliminare le ripetizioni: in genere nei titoli sono rappresentate le tre masse fondamentali.
Più tardi le tesi di Bluhme vennero sottoposte ad una serie di critiche da parte di altri studiosi:
Secondo l’Honorè, le tre sottocommissioni avrebbero avuto soltanto due commissari stabili
ciascuna: ad esse sarebbero stati poi aggregati, di volta in volta e per compiti specifici, gli undici
avvocati.
Con il termine classicismo una parte della dottrina tende ad attribuire a Giustiniano, il proposito di
rimettere in vigore il diritto classico come sistema normativo, sostituendolo al così detto diritto
volgare, che si era formato nella prassi dei secoli immediatamente precedenti. Altri studiosi, invece,
vedono nel classicismo soltanto una categoria stilistica, che può adattarsi, plasmandolo, a qualsiasi
contenuto. Dato comune alle due tesi è quello di individuare nel classicismo l’atteggiamento di
Giustiniano verso il passato.
Nei secoli della crisi giuridica era maturata, la persuasione che il diritto imperiale rischiava di
essere, senza iura, privo cioè di ogni tessuto cognitivo. La storia giuridica post classica tende così
con l’apparire, almeno sotto certi profili, come un riconoscimento dell’impossibilità di separare il
diritto romano dalla sua storia.
L’atteggiamento di Giustiniano nei confronti dell’antiquitatis,, è bivalente: infatti se l’atteggiamento
predominante è quello della reverentia antiqutatis, non manca tuttavia, in altri casi, la rampogna
verso il passato, talora identificato con il più vieto formalismo.
C’è però da chiedersi se nella vita giuridica concreta, gli iura hanno valore identico a quello delle
leges.; forse è anche lecito domandarsi se lo stesso imperatore credesse, fino in fondo alle sue
affermazioni.
È da notare che il Digesto al contrario del Codice, delle Novelle e delle Istituzioni non appare mai
utilizzato in sede giudiziale.
La compilazione del Digesto doveva già essere ultimata quando Giustiniano, decise di incaricare
una ristretta commissione della redazione di un manuale istituzionale. Si trattò di un ordine
informale dell’imperatore in quanto ci è pervenuta soltanto la costituzione con la quale l’opera fu
pubblicata. Si tratta della const. Imperatoriam del 21 novembre 533, indirizzata alla cupida legum
inventus: dopo un paragrafo preliminare si riscontrano due paragrafi destinati al ricordo delle più

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recenti imprese belliche e giuridiche. Fra queste ultime è anche il Digesto che viene presentato
come già ultimato.
Il proposito di quest’opera è quello di offrire ai giovani uno strumento per apprendere i primi
elementi del diritto evitando le cose erronee e soprattutto cominciando a leggere fin dal primo anno
di corso le costituzioni imperiali: lo studio delle norme imperiali diverrà così l’inizio e il termine
dello studio del diritto.
L’opera fu divisa in quattro libri, nel § 4 e nel § 5 si chiarisce che l’opera espone sia il diritto non
vigente che quello delle costituzioni imperiali. Nel § 6 si indicano le fonti dell’opera, che sono tutti
gli scritti istituzionali antichi, in questo stesso § l’imperatore conferisce alle Istituzioni il valore di
legge.
Anche le istituzioni giustinianee pongono una serie di problemi che riguardano sia i metodi di
compilazione, sia la natura dell’opera, sia infine il suo valore legislativo.
Quanto alla natura delle Istituzioni giustinianee va detto che si tratta di un manuale polivalente, e
cioè non limitato soltanto al diritto privato e al processo civile, ma esteso anche al diritto – e al
processo - penale. A ciò si aggiunge la dichiarata presenza di parti riguardanti esclusivamente il
passato, cossicchè ampi settori dell’opera si trasformano in una serie di manuali di storia del diritto.
Il Digesto è un opera che attraverso la netta scansione delle parti storiche e precettive lascia
trasparire con particolare evidenza i vari intendimenti normativi dell’imperatore.
La pubblicazione e l’entrata in vigore delle Istituzioni e del Digesto non posero fine all’attività
compilatoria. La prima edizione del Codice, infatti, andava sempre più rivelando le sue lacune.
Appare quindi ovvia la decisione di procedere ad un emandatio del Codice e ad una seconda edictio.
Anche in questo caso abbiamo solo la costituzione con la quale l’opera fu pubblicata: si tratta della
const. Cordi del 16 novembre 534, indirizzata al senatus urbis Constantinopolitane.
La const. Cordi indica nel § 1 i gruppi di leggi lasciati esclusi nel primo Codice.
La commissione incaricata di procedere alla revisione, come informa il § 2 era molto ristretta,
comprendendo Triboniano, Doroteo e infine tre avvocati del supremo tribunale costantipolitano,
Mena, Costantino, e Giovanni. Compito della commissione era quello di raccogliere le nuove
costituzioni, dividendole, in capitoli e ponendole nei titoli più opportuni. I compilatori, precisa il §
3, erano stati anche autorizzati ad introdurre le necessarie emandationes; ad eliminare dal
precedente Codice le costituzioni superflue o superate da eccessivi interventi imperiali, e inoltre
quelle che risultassero simili o contrastanti fra di loro. Lo scopo di tutte queste operazioni era non
solo quello di rischiarare e aprire la vita al Digesto e alle Istituzioni ma anche di illuminare le stesse
leges comprese nel Codice: ciò tanto più in quanto la raccolta di leges non era alla prima edizione
ma addirittura alla seconda. Nel § 4 si dà atto che tutti i lavori sono stati condotti secondo le
istruzioni e si conferisce pertanto valore legislativo all’opera, destinata ad entrare in vigore, e quindi
ad essere utilizzata in omnibus iudiciis, a partire dal 29 novembre 534; dalla stessa data perderà
vigore ogni altra costituzione non compresa nel Codice, ad eccezione naturalmente di quelle da
emanarsi per sopravvenute esigenze.nel § 5 si ribadisce il divieto di usare le altre costituzioni
giustinianee, così come lo stesso primo Codice, e si ripete altresì il consueto ordine di non usare
abbreviazioni nella confezione delle copie. Il § 7, l’ultimo, chiarisce, infine, che la const. Cordi è
stata indirizzata al Senato proprio per rendere manifesti le assidue cure dedicate dall’imperatore
anche in campo giuridico.
Il problema più grave ed importante resta però quello dei rapporti tra il primo Codice ed il secondo,
ed in particolare quello delle differenze fra i due Codici. Sappiamo che nel primo Codice era
compresa la legge delle citazioni, poi superata dalla compilazione del Digesto; un’altra differenza
sembra essere, lo spostamento subito dal titolo relativo all’asilo ecclesiastico, che nel primo Codice
doveva trovarsi nel lb. nono dedicato al diritto penale, mentre nel secondo risulta inserito nel lb.
primo e più precisamente in quella parte del libro dedicata al diritto ecclesiastico.
Complessivamente, nei due codici, è ipotizzabile l’esistenza di differenze abbastanza sensibili.
Il Codice è diviso in dodici libri, a loro volta divisi in titoli, ognuno con un apposita rubrica. Nel
primo libro si tratta innanzitutto dei dogmi religiosi, dell’organizzazione ecclesiale, dei movimenti

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ereticali, e dei rapporti tra stato e chiesa; poi delle fonti del diritto. Nei libri che vanno dal secondo
all’ottavo è contenuta la materia privatistica; nel libro nono il diritto penale; nei libri decimo,
undicesimo e dodicesimo il diritto finanziario e il diritto amministrativo. Con il 534 si chiude l’età
delle compilazioni e si apre il lungo periodo della legislazione corrente giustinanea (535-565). Tale
legislazione presenta numerosi motivi di interesse: sul piano formale le Novelle si presentano in un
testo più ampio e stilisticamente più ridondante di quello delle leges raccolte ufficialmente nel
Codice.
Nella maggior parte dei casi il testo delle novelle ci trasmette l’iter attraverso il quale la cancelleria
è giunta alla soluzione del problema. Con terminologia moderna, si potrebbe dire che le Novelle ci
restituiscono anche i lavori di preparazione della norma.
Sul piano dei contenuti , le Novelle lasciano trasparire la centralità del problema dello stato e delle
sue strutture amministrative e burocratiche. Bisogna inoltre sottolineare la presenza di una serie di
Novelle in cui vengono riordinati alcuni settori giuridici.
Almeno un cenno meritano, infine le Novelle in materia ecclesiastica e canonica: da esse emerge la
immagine di un legislatore che nono solo ha particolarmente a cuore i rapporti fra stato e chiesa, ma
che talora vuole intromettersi addirittura nella vita interna della chiesa, regolando con lo strumento
tecnico della costituzione materie quali l’ordinazione dei vescovi, il numero dei clerici per ciascuna
chiesa, lo status monacale. Altre Novelle fissano il trattamento da riservarsi agli eretici, agli ebrei,
ai samaritani e ai pagani, ricorrendo molto spesso a sanzioni privatistiche, quali l’incapacità di
testare e di fare contratti
Scorrendo l’elenco delle Novelle, si nota subito, che gran parte della produzione legislativa di
questo trentennio è concentrata negli anni che vanno dal 535 al 541. Per quanto riguarda la
legislazione pubblicistica questo fenomeno è senza dubbio connesso con il tentativo di riforma dello
stato attuato dal Giovanni di Cappadocia, e più in particolare delle sue articolazioni periferiche.
Negli 535 e 536 vengono emanate su questo tema, una lunga seria di costituzioni. La maggior parte
di esse riguardava la vendita delle cariche pubbliche, la soppressione dei residui vicariati, riforme
dell’amministrazine provinciale.
La produzione legislativa subisce un drastico cali dopo il 541 a causa di vicende personali dei
maggiori collaboratori di Giustiniano. Infatti nel corso del 541, l’imperatore dovette rincunciare a
suoi due principali collaboratori: Giovanni di Cappadocia e Triboniano. Insieme a loro perirono
anche ulteriori progetti amministrativi e giuridici.

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