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Gli antichi avevano posto la data della nascita della Repubblica a Roma e
quella della democrazia ad Atene nello stesso anno, il 510 a.C.; in effetti è
possibile tracciare molti parallelismi tra la cacciata dei Tarquini e quella dei
Pisistratidi (cosa alquanto sospetta).
Per questo motivo gli studiosi tendono a porre la nascita della Repubblica
qualche decennio più avanti, introno al 470-450 a.C., un momento in cui la
cronologia dimostra un’interruzione dei contatti culturali romano-etruschi.
Esistono però degli argomenti favorevoli alla datazione tradizionale: per
esempio la cerimonia ricordata da Livio, in cui il massimo magistrato della
Repubblica infiggeva un chiodo nel tempio di Giove Capitolino ogni anno
alle idi di Settembre.
Ciò risulta importante in quanto il tempio di Giove nel Campidoglio era stato
inaugurato il primo anno della Repubblica: il numero di chiodi poteva
dunque rappresentare una sorta di cronologia.
Nel 304 a.C. l’edile Cneo Flavio, inaugurando il tempio di Concordia, poté
datare l’evento 204 anni prima della costruzione del tempio Capitolino
(quindi la Repubblica nacque nel 508 a.C.).
Un secondo elemento proviene dalla documentazione archeologica: l’edificio
della Regia, nel Foro romano, presenta nel VI secolo a.C. una pianta tipica di
un edificio templare: in questo momento dunque la Regia sarebbe divenuta la
sede del rex sacrorum.
1.5 I SUPREMI MAGISTRATI DELLA REPUBBLICA, I LORO POTERI
E I LORO LIMITI
1.7 LA DITTATURA
A Roma non è possibile trovare una netta differenza tra cariche politiche e
massime cariche religiose, in quanto una persona poteva rivestire
contemporaneamente cariche politiche e religiose.
Un’eccezione è in questo senso rappresentata, oltre che dal rex sacrorum, dai
flamini, che rappresentavano la personificazione terrena delle tre supreme
divinità della prima Roma repubblicana: Giove, Marte e Quirino
(rappresentati dai flamines: Dialis, Martialis e Quirinalis); dodici flamini minori
erano invece addetti ad altrettante divinità.
Il flaminanto era connesso ad una serie di tabù religiosi, che, pur non
costituendo un ostacolo assoluto, limitarono il diritto dei flamini di rivestire
cariche politiche.
I tre collegi religiosi più importanti erano quello dei pontefici, degli àuguri e
dei duoviris sacris faciundis, che avevano poteri che oltre all’area religiosa si
estendevano anche a quella politica.
Il collegio dei pontefici, che risale ad un’età arcaica, era guidato da un
pontefice massimo, costituiva la massima autorità religiosa dello Stato.
Ai pontefici spettavano diversi ruoli: la nomina dei flamini, il controllo sulla
tradizione e l’interpretazione delle norme giuridiche.
Si diveniva pontefici per cooptazione (scelti dagli altri membri del collegio),
mentre la carica veniva mantenuta a vita.
Il collegio degli àuguri aveva invece il compito di assistere i magistrati nel
loro compito di trarre gli auspici e di interpretare la volontà divina, affinché
un atto pubblico venisse convalidato.
L’azione degli auguri consisteva di fatto nella lettura del volo degli uccelli o
di altri fenomeni naturali: il loro parere era talmente autorevole che un
presagio letto come sfavorevole portava il senato a bloccare ogni
procedimento.
Si devono poi ricordare i duoviri sacris faciundis, incaricati di custodire i
‘’Libri sibillini’’, un’antichissima raccolta di oracoli in greco che nella tarda
età repubblicana si pensavano connessi con la Sibilla di Cuma.
Nel caso in cui si fossero verificati presagi nefasti i Libri venivano consultati al
fine di reperire un rimedio per la situazione.
Spesso la soluzione consisteva nell’introduzione di un culto straniero, su cui
i duoviris mantenevano una sorta di supervisione.
La denominazione del sacerdozio mutò col crescere dei componenti, che
divennero dieci nel 367 a.C. e quindici a fine dell’età repubblicana.
Accanto ai tre collegi sacerdotali si devono poi ricordare gli aruspici, che
come gli àuguri avevano il compito di chiarire la volontà divina tramite la
lettura delle viscere delle vittime sacrificali (una pratica nata in Etruria, da
dove proveniva il maggior numero di haruspices).
In politica avevano funzioni rilevanti i feziali, anch’essi riuniti in un collegio,
che avevano i compito di dichiarare guerra attenendosi ad uno scrupoloso
cerimoniale.
Si tratta della nota espressione di ‘’bellum iustum’’, che ha come significato
quello di ‘’guerra dichiarata per un motivo giusto’’.
I fetiales avevano un ruolo importante anche in ambito diplomatico,
specialmente nelle richieste di riparazioni e nella presentazione di ultimatum.
1.9 IL SENATO
Gli strati più ricchi della plebe erano meno interessati alla crisi economica di
coloro che erano indebitati, tuttavia si servirono della situazione per chiedere
una parificazione dei diritti socio-politici tra i due ordini.
In effetti il patriziato aveva trasformato la carica consolare in un vero e
proprio monopolio; l’altra rivendicazione avanzata dalla plebe riguardava la
necessità di un codice scritto di leggi, che mettesse i cittadini al riparo dalla
volontà dei patrizi riuniti nel collegio dei pontefici.
I problemi politici ed economici non furono però gli unici fattori che
portarono al conflitto, va aggiunta infatti anche la progressiva presa di
coscienza della plebe.
L’esercizio dei diritti civici da parte del singolo nella città antica era connesso
alla capacità di difendere lo Stato con le armi: si può arrivare ad affermare
che la relazione tra diritti politici e doveri militari ha carattere strutturale.
A Roma ciò è molto chiaro nell’ordinamento centuriato: le centurie infatti
rimasero per tutta l’età repubblicana le unità di reclutamento dell’esercito.
Ogni centuria doveva fornire il medesimo numero di reclute (in origine 100):
le centurie delle prime classi di censo, che avevano un numero limitato di
cittadini, sopportavano il peso più consistente delle guerre: 18 centurie degli
equites e 80 della prima classe pagavano il tributo di sangue maggiore, mentre
i cittadini capite censi furono di regola esentati al servizio militare nella prima
e nella seconda età repubblicana.
La presa di coscienza della plebe va dunque letta anche alla luce di un
cambiamento nei ranghi dell’esercito, vista la stretta connessione esistente
tra ordinamento politico e militare.
Nel V secolo a.C. si afferma un nuovo modello tattico, quello della falange
oplitica, che Roma eredita dal mondo greco attraverso la mediazione etrusca;
la falange porta al superamento del modo di combattere aristocratico, basato
sulla cavalleria.
Il cuore dell’esercito romano diviene la fanteria pesante, reclutata tra le classi
di censo che potevano permettersi di mantenere l’armamento oplitico.
L’antichissimo esercito repubblicano era composto da fanteria pesante
reclutata tra gli iuniores delle prime classi di censo: in totale erano 60 centurie,
40 di iuniores/10 di iuniores della seconda classe/10 di iuniores della terza
classe.
Il totale raggiungeva i 6000 uomini, ovvero due legioni composte da 3000
opliti ciascuno, a cui si aggiungeva la cavalleria reclutata nelle 18 centurie di
equites e da soldati armati alla leggera provenienti dalla IV e dalla V classe.
La legione era dunque reclutata su base censitaria, cosa che nel corso del V e
del IV secolo a.C. fece emergere la convinzione che uomini decisivi sul campo
di battaglia (plebei) non potessero essere dei comprimari nella vita dello
Stato.
Il conflitto fra i due ordine scoppiò nel 494 a.C., quando la plebe, esasperata
dalla crisi economica, organizza una sorta di sciopero che lascia la città priva
della forza lavoro e soprattutto indifesa contro gli aggressori.
La prima secessione della plebe porta alla formazione di due organismi
nuovi: un’assemblea generale, articolata prima in curie e dal 471 a.C. in tribù,
nota come concilia plebis tributa.
Il meccanismo di voto dell’assemblea premiava i proprietari terrieri iscritti
nelle tribù rustiche.
I concilia plebis emanavano dei provvedimenti, detti plebiscita, che non
avevano valore vincolante per lo Stato, ma per la plebe; per arrivare
all’assimilazione dei plebiscita allo Stato si dovrà aspettare il 287 a.C., con la
lex Ortensia.
Vennero poi scelti dei rappresentanti ed esecutori dell’assemblea i tribuni
della plebe, inizialmente due, poi divenuti dieci (il nome derivava da quello
dei tribuni militari, che comandavano i reparti della legione).
Ai tribuni la plebe riconobbe alcuni poteri fondamentali: il diritto di venire
soccorsi contro l’azione di un magistrato (lo ius auxili), e il diretto sviluppo di
questo, lo ius intercessionis, con cui era possibile porre il veto contro
qualsiasi provvedimento di un magistrato.
La plebe accordò loro anche l’inviolabilità personale, la sacrosanctitas, per
cui chi avesse osato fare del male contro i rappresentanti della plebe sarebbe
divenuto sacer, ovvero ‘’sacrificabile’’ alla divinità, inoltre gli sarebbero stati
confiscati i beni a favore del tempio di Cerere, Libero e Libera sull’Aventino.
Un provvedimento così duro non venne mai preso, anche se si ha notizia di
alcuni procedimenti per reati che possono rientrare nella categoria di ‘’offesa
alla plebe’’.
I tribuni avevano infine anche il potere di convocare e presiedere l’assemblea
della plebe, e di sottoporre ad essa le proprie proposte (ius agendi cum plebe).
Nel corso della prima secessione vennero create anche altri due
rappresentanti della plebe, gli edili plebei, incaricati di organizzare i giochi e
di controllare strade/templi/edifici pubblici (edile deriva da ‘’aedes’’, casa).
La prima secessione approdò ad un risultato in primo luogo politico, anche se
il problema dei debiti rimase insoluto, anche se si deve presumere che i
tribuni della plebe, grazie allo ius auxili, siano intervenuti in aiuto dei
debitori.
Nel 486 a.C. il console Spurio Cassio propose una legge per la
redistribuzione delle terre, una proposta che sembra precedere quella dei
Gracchi; altri due demagoghi della età repubblicana furono Spurio Melio e
Manlio Capitolino, che hanno dei tratti graccani (per quanto riguarda Cassio
egli venne accusato di aspirare alla tirannide ed eliminato).
La prima secessione plebea e la vicenda di Spurio Cassio mettono in luce due
tratti tipici del confronto tra patrizi e plebei: la protesta in primo luogo, usata
come strategia politica per raggiungere determinati obiettivi politico-
economici.
Il disagio economico della plebe povera dunque veniva strumentalizzato
dalla plebe ricca, che non era in alcun modo interessata ad una rivoluzione
sociale, ma aspirava piuttosto ad una riforma interna all’ordinamento
vigente.
La promulgazione del primo codice scritto di leggi teneva aperti i due nodi su
cui si basava il conflitto tra plebe e patriziato: quello politico e quello
economico.
Dopo il saccheggio gallico la crisi economica si fece più pesante, motivo per
cui il territorio di Veio e di Capaena (conquistato pochi anni prima) venne
diviso in appezzamenti e distribuito ai cittadini romani; vennero così create
quattro nuove tribù territoriali.
Ciò però non fu sufficiente: solo pochi anni dopo il patrizio Marco Manlio
Capitolino, l’eroe della resistenza contro i Galli, venne liquidato in quanto
propose la totale cancellazione dei debiti ed una nuova legge agraria (376
a.C.).
La sua mossa riunì in un unico fronte plebe e patriziato, che si scagliarono
contro il potenziale tiranno; era dunque evidente che l’unico modo accettabile
di risolvere i problemi di Roma era da trovare non in un mutamento di
regime, ma in una riforma interna all’ordinamento repubblicano.
Dopo la fine di Capitolino, l’iniziativa passò nelle mani dei tribuni della plebe
Caio Licinio Stolone e Lucio Sestio Laterano, che erano appoggiati dal
patriziato più moderato (Stolone era marito della figlia del patrizio Marco
Fabio Ambusto, che godeva di grande prestigio e peso politico).
Licinio e Sestio presentarono una serie di proposte volte a risolvere il
problema dei debiti, andando in primo luogo a distribuire terre di proprietà
dello Stato e a concedere ai plebei l’accesso al patriziato.
I patrizi si opposero a lungo a queste iniziative, andando anche ad ottenere
l’appoggio di alcuni tribuni della plebe; allo stesso modo Licinio e Sestio non
furono da meno.
Venne per questo motivo nominato dittatore Marco Furio Camillo, vincitore
dei Galli e conquistatore di Veio.
Il dittatore accolse le proposte dei due tribuni della plebe, divenute poi leggi
attraverso le stesse modalità del plebiscito Canuleio, come ricorda Livio.
Le leges Licianae Sextiae prevedevano anche che i debitori fossero detratti
dal capitale dovuto, e che il debito residuo divenisse estinguibile in tre rate
annuali.
Veniva stabilita anche la massima superficie di proprietà statale occupabile da
un privato: 500 iugeri, circa 125 ettari; venne infine abolito il tribunato
militare con potestà consolare, a cui seguiva la completa reintegrazione dei
consoli alla testa dello Stato.
Veniva infine stabilito che almeno uno dei due consoli dovesse essere plebeo,
anche se più probabilmente la legge consentiva che uno dei due fosse
plebeo, quindi non escludeva che tutti e due potessero essere patrizi.
Questo compromesso permise anche una riorganizzazione delle
magistrature: nel 366 a.C. vennero create due nuove cariche ad esclusivo
appannaggio del patriziato (delle compensazione per la perdita del
monopolio sul consolato): il pretore, che amministrava la giustizia tra i
cittadini (nel 242 a.C. al praetor urbanus si affiancò il praetror peregrinus, che
si occupava delle controversie tra cittadini romani e stranieri).
Il pretore era dotato di imperium, quindi egli poteva anche comandare
l’esercito, anche se i suoi poteri erano subordinati a quelli del console.
Nello stesso anno vennero anche creati gli edili curili, dalla sella curilis, lo
scranno su cui sedevano i magistrati patrizi, che li distingueva dagli edili
plebei; essi erano incaricati di organizzare i Ludi maximi.
Le leggi Licinie Sestie del 367 a.C. segnarono la fase più acuta della
contrapposizione tra patrizi e plebei.
Il periodo successivo portò al faticoso raggiungimento di un nuovo
equilibrio interno, quello che contraddistinguerà le conquiste di Roma in
Italia e nel Mediterraneo.
Nel 366 a.C. l’ex tribuno della plebe Sestio Laterano si avvalse della legge che
lui stesso aveva proposto e divenne il primo console plebeo; nel 342 a.C. un
plebiscito, ricordato da Livio, fece sì che entrambi i consoli potessero essere
plebei.
Dal 342 a.C. nei Fasti cominciano a comparire sempre un console patrizio e
uno plebeo; mentre nel 172 a.C. per la prima volta entrambi i consoli furono
plebei.
Con le leggi Licinie Sestie era stata aperta la strada che avrebbe portato
all’apertura alla plebe di tutte le strade per accedere alle altre magistrature:
nel 366 a.C. si decise che gli edili curili sarebbero stati scelti ad anni alterni tra
patrizi e plebei, nel 356 a.C. venne eletto il primo dittatore plebeo (Caio
Marcio Rutilio), nel 351 a.C. lo stesso Rutilio divenne il primo plebeo censore,
nel 339 a.C. il plebeo Quinto Publilio Filone fece ratificare un provvedimento
legislativo con cui di fatto veniva tolto al senato il suo diritto di veto.
Filone fu anche , nel 310 a.C., il primo plebeo ad essere pretore; nel 300 a.C.
invece un plebiscito Ogulnio consentì ai plebei l’ingresso nelle massime
cariche sacerdotali (pontefici e àuguri).
Nel 326 a.C. per Livio, ma nel 313 a.C. secondo Varrone, una legge Petelia
abolì la servitù per debiti; la vera risposta ai bisogni della plebe arrivò però
dalle conquiste, che misero a disposizione vaste estensioni di terre, che
vennero divise e assegnate individualmente, oppure sfruttate per la creazione
di colonie.
Già gli antichi consideravano il 287 a.C. come il punto di arrivo della lunga
lotta tra patrizi e plebei, infatti è l’anno in cui venne approvata una lex
Hortensia, giunta dopo l’ultima secessione della plebe, che stabilì il valore
vincolante per tutta la cittadinanza dei plebisciti.
Nonostante alcuni provvedimenti del genere siano rievocati già nel 449 e nel
339 a.C., gli studiosi concordano nell’affermare che solo con questa legge i
plebisciti vennero equiparati alle decisioni dei comizi centuriati/tributi.
A partire dal 287 a.C. i comizi tributi e l’assemblea della plebe dunque,
venivano accomunati da un uguale sistema di voto per tribù e da uguali
poteri, con l’unica differenza che ai concilia plebis i patrizi non potessero
partecipare (le due assemblee, dei concilia tributa e dei concilia plebis, più volte
sono confuse nelle fonti).
Le due assemblee rimanevano comunque distinte dai magistrati che avevano
il diritto di convocarle: consoli e pretori convocavano i comizi tributi; tribuni
o edili della plebe convocavano i concilia plebis.
Le leggi Licinie Sestie e le grandi conquiste del IV-III secolo a.C. conclusero
l’età del dominio dei patrizi sullo Stato.
Al posto del patriziato emerse una nuova aristocrazia, formata dalle famiglie
plebee più ricche e influenti e dalle famiglie patrizie che avevano saputo
adattarsi al meglio alla situazione.
A questo nuovo gruppo viene dato il nome di ‘’nobilitas patrizio-plebea’’:
‘’nobilitas’’ proveniva da ‘’nobilis’’, che aveva il valore di ‘’illustre, noto’’.
Il manifesto degli ideali della nobilitas è contenuto nell’elogio funebre di
Quinto Cecilio Metello, grande politico del III secolo a.C., pronunciato dal
figlio e ricordato da Plinio il Vecchio (I secolo d.C.).
Metello era stato un buon generale e un buon soldato, aveva ricoperto alte
magistrature, era stato un eccellente oratore e aveva acquisito ricchezze e
prestigio in modo onorevole.
La nobiltà patrizio-plebea si dimostrò gelosa del proprio potere tanto quanto
l’antico patriziato: di fatto l’accesso alle magistrature superiori era possibile
solo ai membri di poche famiglie.
La nobilitas divenne una componente talmente esclusiva che i pochi
personaggi capaci di raggiungere il vertice dello stato non avendo antenati
nobili vennero definiti homines novi, che comunque dovevano provenire da
famiglie facoltose.
Prima di intraprendere la carriera politica era necessario servire almeno dieci
anni nella cavalleria, reclutata nelle 18 centurie, alle quali si apparteneva con
un censo di 100.000 assi (il limite venne poi alzato a 1.000.000).
Il denaro però non era sufficiente: i nobili controllavano le assemblee tramite i
loro clienti, quindi si rivelava indispensabile ereditare le clientele paterne,
mentre per gli homines novi risultava decisivo il patronato politico di qualche
uomo di prestigio.
3) LA CONQUISTA DELL’ITALIA
Alla caduta della monarchia etrusca, Roma controllava una zona dell’antico
Lazio che andava dal Tevere alla regione Pontina: un’estensione raggiunta
grazie alle conquiste e alle politiche matrimoniali dei Tarquini.
Questo dato ci viene confermato già dal trattato romano-cartaginese, che
secondo Polibio risale al 509 a.C., primo anno della Repubblica.
Tra la fine del VI secolo e l’inizio del V secolo a.C. la situazione era però in
bilico: buona parte delle città latine infatti approfittarono della debolezza
momentanea di Roma per affrancarsi dalla sua egemonia.
Le città latine si riunirono nella Lega latina, i cui membri godevano di alcuni
diritti comuni (forse in ricordo di un’antica unicità etnica del mondo latino):
lo ius connubii, il diritto di contrarre matrimonio con cittadini/e di altre
comunità; lo ius commercii, il diritto di siglare contratti con valore legale
anche con cittadini di comunità diverse; lo ius migrationis, il diritto di godere
dei pieni diritti civici in una comunità diversa dalla propria.
L’alleanza stretta da Roma con la Lega latina e gli Ernici si rivelò decisiva per
fronteggiare l’arrivo di popolazioni provenienti dagli Appennini: i Sabini, gli
Equi e i Volsci.
La migrazione di questi popoli faceva parte di un quadro di movimenti più
ampio, che coinvolse tutta l’Italia centro-meridionale tra fine VI e inizi V
secolo a.C.
Le sedi originali di queste popolazioni non erano in grado di assicurare la
sopravvivenza di queste popolazioni, che stavano conoscendo una grossa
crescita demografica.
La soluzione a questo problema venne trovata nella migrazione sotto forma
di cammino religioso: la già ricordata ‘’primavera sacra’’, per la quale i bambini
nati in quell’anno avrebbero dovuto migrare una volta raggiunta la maggiore
età seguendo le indicazioni di un animale.
I Piceni per esempio sarebbero giunti alla costa adriatica seguendo un picchio
(‘’picus’’); altre popolazioni come i Lucani, i Bruzi (o Brettii come li
chiamavano i Greci) e gli Apuli occuparono le regioni della Puglia, della
Basilicata e della Calabria.
I Sanniti invece riuscirono ad occupare quasi tutte le vecchie città in mano
agli Etruschi o ai Greci della Campania: nacque così il popolo dei Campani.
Nel V secolo a.C. Roma, stando alle fonti, dovette confrontarsi più volte con
le popolazioni provenienti dalle montagne: in particolar modo con gli Equi e
con i Volsci.
L’esito fu spesso favorevole a Roma e ai suoi alleati, ma mai giunse ad una
svolta definitiva.
Il popolo dei Volsci giunse partendo da meridione verso la fine del VI secolo
a.C.: questa popolazione occupò tutta la pianura pontina e varie città latine
(Terracina, Circei, Anzio, Cora e Velletri: di fatto Roma perdeva il controllo
del Lazio meridionale, occupato ancora da Tarquinio il Superbo).
Nell’area dei colli Albani si inseriscono invece gli Equi, che si saldarono con i
Volsci, che dalla sponda occidentale del lago del Fucino si mossero verso le
città latine di Tivoli e Prenestene.
Gli alleati dei Romani (Latini ed Ernici) riuscirono a bloccare gli Equi ai colli
Albani, dove gli eserciti alleati ottennero una grande vittoria contro Equi e
Volsci nel 431 a.C.
Più a Nord i Sabini minacciarono direttamente Roma: si trattava di una
popolazione a cui gli stessi antichi riconobbero un ruolo importante in età
arcaica.
Il processo di integrazione fu talvolta pacifico, talvolta violento: esistevano
anche delle gens sabine, come quella dei Claudi; un Sabino, Appio Erdonio,
minacciò Roma da vicino nel 460 a.C., che si salvò solo grazie ad un esercito
di Tusculo.
3.6 LA RIPRESA
L’accordo del 341 a.C. portò ad un ribaltamento delle alleanze: Roma con i
nuovi ‘’alleati’’ Sanniti si trovò a fronteggiare Latini/Campani/Sidicini/
Aurunci (posti tra Volsi e Campani) e gli odiati Volsci.
Le motivazioni erano varie: i Latini volevano affrancarsi da Roma, Campani e
Sidicini erano insoddisfatti degli esiti della prima guerra sannitica, i Volsci
volevano invece vendicarsi delle sconfitte passate e gli Aurunci non volevano
essere accerchiati dalla potenza romana.
Il conflitto (341-338 a.C.) prese il nome di grande guerra latina si risolse con
una difficoltosa vittoria dei Romani e con numerose novità territoriali.
La Lega latina venne sciolta: alcune delle sue città vennero inglobate nello
Stato romano, come municipi, mentre altre conservavano la loro autonomia
formale e gli ius tradizionali.
Alle vecchie città latine si aggiunsero delle nuove colonie latine, fondate su
iniziativa di Roma e composte sia da cittadini che da alleati.
Lo status di ‘’Latino’’ perse di fatto la sua connotazione etnica, divenendo una
condizione giuridica in rapporto con la cittadinanza romana.
I Latini vennero obbligati a fornire truppe a Roma in caso di necessità, ma
ottennero anche il diritto di voto nelle assemblee popolari di Roma nel caso in
cui si fossero trovati in città per i comizi (prima volta nel 212 a.C.).
Il nuovo status di latino è chiaramente dimostrata nel caso di Tivoli e
Preneste: nonostante gli abitanti delle due città fossero di etnia latina, essi
vennero privati di tutti gli ius, divenendo semplici socii di Roma.
Tutto ciò veniva sancito con dei trattati con cui venivano lasciate alle
comunità alleate una completa autonomia interna, legandole strettamente alla
potenza egemone in politica estera (furono obbligate anche un contingente in
caso di guerra).
I socii dovevano poi impegnarsi a mantenere a proprie spese i contingenti
delle truppe inviate: in questo modo Roma limitava le sue spese di guerra.
Al di fuori dell’antico Lazio, in particolare nelle città dei Volsci e dei
Campani, Roma arrivò a concedere una forma parziale di cittadinanza, la
cosiddetta ‘’civitas sine suffragio’’.
I titolari erano tenuti agli stessi obblighi dei cittadini romani, tuttavia non
avevano il diritto di partecipare alle assemblee popolari (conservavano
comunque ampia autonomia interna).
Ad Anzio venne invece creata una piccola colonia i cui abitanti conservarono
la piena cittadinanza romana; negli anni seguenti sorsero altre colonie come
Anzio (composte da 300 coloni), tutte destinate a sorvegliare la costa.
Alla fine della guerra dunque Roma si era impossessata di tutti i territori che
andavano dalla sponda sinistra del Tevere a Nord, fino al golfo di Napoli a
Sud, al Tirreno ad Ovest e ai territori appenninici controllati dai Sanniti ad
Est.
La sconfitta del 304 a.C. non aveva piegato definitivamente i Sanniti, che nel
298 a.C. riaprirono le ostilità attaccando i Lucani alleati di Roma.
Soccorsi i Lucani, i Romani si concentrarono nel Nord, dove il comandante
supremo dei Sanniti Gellio Ignazio, aveva riportato l’esercito dopo una
marcia di centinaia di chilometri.
Egli riuscì a costituire un’immensa coalizione antiromana, all’interno della
quale vi erano anche Etruschi, Galli e Umbri (popolazione minacciata da
Roma durante le sue campagne del 311-308 a.C.).
Lo scontro decisivo fu la battaglia di Sentino (295 a.C.), nei pressi
dell’odierna Sassoferrato, dove i Romani (sostenuti da un esercito di alleati, a
riprova dell’efficacia del sistema egemonico costruito dopo la grande guerra
latina) riuscirono a sconfiggere il nemico, che non aveva potuto contare sui
contingenti umbro-etruschi.
I Sanniti vennero battuti di nuovo nella battaglia di Aquilonia (293 a.C.),
dopo la quale l’esercito romano riuscì a penetrare a fondo nel Sannio, che
venne devastato: di fronte a questo disastro i Sanniti chiesero una tregua nel
290 a.C.
A Nord i Romani sconfissero Galli ed Etruschi, che cercavano di occupare
nuovamente l’Italia centrale, nella battaglia del lago Vadimone (vicino
Bomarzo nel Lazio settentrionale) del 283 a.C.
I Romani colpirono dapprima gli Etruschi di Volsinii e Vulci (ex-alleata di
Cere), raggiungendo poi l’Etruria settentrionale e la vicina Umbria: si tratta di
operazioni militari poco note, e questo a causa della perdita della narrazione
di Livio (egli si arresta al 293 a.C.) e di Diodoro Siculo (scrive solo 302 a.C.).
Nella marcia verso l’Adriatico, già nel 290 a.C., vennero sconfitti Sabini e
Petruzzi (popolazione dell’Abruzzo settentrionale).
Nel territorio di questi venne costruita la colonia di Handria (l’odierna Atri);
agli abitanti dell’ager Praettuttiorum venne concessa la cittadinanza senza
diritto di voto, come ai Sabini.
Nell’Adriatico venne annesso anche il territorio una volta dei Senoni, il
cosiddetto ager Gallicus, dove venne fondata nel 268 a.C. la colonia latina di
Rimini, con cui Roma si affacciava sulla pianura Padana.
I Piceni, circondati per intero dai Romani, tentarono di ribaltare la situazione
con una guerra nel 269 a.C., venendo però costretti alla resa dopo pochi anni:
parte della popolazione picena venne deportata a Salerno.
La città greca di Ancona e il centro piceno di Ascoli mantennero la loro
autonomia; nella zona venne comunque creata la colonia di Fermo nel 264
a.C.
In circa trent’anni dalla battaglia di Sentino i Romani erano riusciti a
espandersi anche a settentrione, portando il confine alla linea che univa
l’Arno a Rimini.
Nel 264 a.C. Roma era di fatto in possesso di quasi tutta la penisola italiana,
fino allo stretto di Messina.
Furono proprio gli interessi romani in quest’area a causare il conflitto con
l’antica alleata Cartagine.
Il tutto ebbe inizio alla morte di Agatocle, il quale aveva reclutato alcuni
mercenari italici: i Mamertini (da Mamers, nome con cui era indicato in lingua
osca il dio Marte), che alla morte del re di Siracusa si erano impadroniti di
Messina.
I Siracusani, guidati da un generale di nome Ierone, marciarono contro i
Mamertini, che vennero sconfitti e costretti a rinchiudersi a Messina.
Essi quasi casualmente si imbatterono in una flotta punica, che prestò loro
soccorso; in seguito i Cartaginesi installarono una guarnigione a Messina e
obbligarono Ierone a tornare a Siracusa, dove venne proclamato re.
Successivamente però i Mamertini si stufarono dell’ingerenza dei Cartaginesi:
si decisero così a chiedere l’intervento di Roma, dove si aprì un dibattito
sulla scelta da prendere.
Sostenere i Mamertini cozzava con la scelta di alcuni anni prima di
combattere quei mercenari campani che avevano tentato di occupare Reggio,
inoltre ciò avrebbe sicuramente portato alla guerra con i Punici.
Cartagine era un nemico molto potente: era a capo di un impero commerciale
e territoriale che andava dall’Africa alla Spagna, era ricchissima e aveva delle
potenti milizie mercenarie al suo solo, ma soprattutto aveva potenti flotte.
Non sappiamo con sicurezza se intervenendo a Messina Roma abbia infranto
una clausola dell’accordo con Cartagine: secondo lo storico greco Filino
(filocartaginese) esisteva una clausola con cui Roma si impegnava a non
entrare in Sicilia, mentre Polibio sostiene che questa clausola non esista.
Anche se Polibio rappresenta una fonte autorevole per noi, è molto probabile
che esistesse una sorta di accordo sulla distinzione di due sfere d’influenza;
la stessa Roma protestò quando delle navi cartaginesi si affacciarono nel 272
a.C. davanti a Taranto.
Roma decise infine di intervenire, come ricorda Polibio, in quanto non volle
perdere l’opportunità di impossessarsi della ricchissima Sicilia: venne così
inviato un esercito in soccorso dei Mamertini.
La Prima Guerra Punica (264-241 a.C.) si aprì con alcuni successi romani, che
riuscirono subito a liberare Messina e a costringere Ierone (inizialmente
alleato di Cartagine) a ritirarsi dal conflitto (263 a.C.).
I Romani nel 262 a.C. riuscirono anche a conquistare l’importante posizione
di Agrigento, occupata anche grazie all’aiuto di Ierone, che permise alle navi
romane di sostenere l’esercito.
Cartagine rimaneva però superiore nettamente sul mare, cosa che le
permetteva di continuare ad appoggiare i suoi eserciti: per questo motivo
Roma, aiutata dai socii navales (le città greche del Meridione, che fornirono
uomini e la maggior parte dei comandanti), costruì una flotta di
quinquireme.
Nel 260 a.C. i Romani, guidati dal console Caio Duilio, colsero una grande
vittoria sulla flotta punica nella battaglia di Milazzo.
Dopo questa vittoria i Romani pensarono di riuscire ad assestare un colpo
mortale a Cartagine: venne infatti deciso di inviare un esercito in Africa.
La spedizione iniziò nel migliore dei modi: i Romani ottennero una vittoria
navale a capo Ecnomo (ad est di Agrigento), permettendo così all’esercito di
sbarcare con facilità in Africa.
Inizialmente il console Attilio Regolo ottenne alcuni successi, ma non riuscì a
provocare la ribellione delle popolazioni africane sottomesse ai Punici né fece
accettare a queste le dure condizioni di pace che gli aveva presentato.
Regolo venne successivamente sconfitto nel 255 a.C. da un esercito guidato
dal mercenario spartano Santippo; la flotta romana venne invece distrutta
quasi per intero sulla via del ritorno.
I Cartaginesi riuscirono a mantenere le loro imprendibili posizioni di Lilibeo
e Trapani (qui tra l’altro i Punici colsero una grande vittoria nel 249 a.C.).
Nessuna delle due contendenti per qualche anno riuscì a compiere delle
mosse decisive: Roma stava riorganizzando la sua flotta, Cartagine era ormai
priva del denaro per sostenere un conflitto di questa portata.
In questo momento di relativo stallo si distinsero le efficaci azioni di disturbo
condotte da Amilcare Barca.
Roma mise infine in campo una nuova flotta di 200 quinquireme: questa, al
comando del console Caio Lutazio Catulo, ottenne la vittoria decisiva nella
battaglia delle isole Egadi (241 a.C.).
Cartagine decise infine di arrendersi e di accettare le dure condizioni di pace
presentate dai Romani (che tra l’altro avevano pagato la nuova flotta grazie
ad un prestito dei cittadini più ricchi; i soldi sarebbero stati restituiti in caso
di vittoria): sgombero della Sicilia e delle isole tra Italia e Sicilia (Lipari e le
Egadi) ed il pagamento di un indennizzo di guerra.
Dopo la prima guerra punica Roma per la prima volta entrò in possesso di un
territorio al di là della penisola italiana: la Sicilia e le isole a lei circostanti,
che vennero integrate a livello istituzionale tramite un nuovo sistema.
Se nella penisola città e popolazioni erano direttamente incorporate nello
Stato romano o legate ad esso dall’obbligo di inviare truppe, in Sicilia alle
comunità soggette a Cartagine venne imposto il pagamento di un tributo
annuale (raccolta di cerali soprattutto, la Sicilia divenne il granaio di Roma).
Agli inizi del I secolo a.C. il tributo siciliano consisteva già nel versamento di
un decimo della produzione, uno schema forse ripreso dal mondo siracusano.
L’amministrazione della giustizia, il mantenimento dell’ordine interno e la
difesa vennero affidati ad un magistrato inviato annualmente nell’isola
(forse nei primi anni era uno dei quattro questori della flotta, creati nel 267
a.C.).
Dal 227 a.C. vennero eletti due nuovi pretori, affrancati da quelli urbanus e
peregrinus: uno venne inviato in Sicilia, l’altro in Sardegna e Corsica.
Da questo momento il termine ‘’provincia’’, che in origine indicava la sfera di
competenza di un magistrato, assunse il significato di territorio soggetto
all’autorità di uno Stato romano.
In Sicilia rimasero comunque in vita degli Stati indipendenti: il regno di
Ierone e la città alleata di Messina.
Il periodo tra la fine della Prima Guerra Punica (241 a.C.) e lo scoppio della
Seconda (218 a.C.) vide il consolidamento delle due potenze; anche se in
realtà gli anni immediatamente successivi alla guerra furono duri per
Cartagine.
La città punica infatti non riusciva più a pagare i suoi mercenari, che si
ribellarono coinvolgendo anche alcune popolazioni africane soggette a
Cartagine.
La rivolta (241-237 a.C.) venne sedata grazie alle abilità di Amilcare Barca,
tuttavia l’intervento per recuperare Corsica e Sardegna non andò a buon fine,
in quanto i mercenari si rivolsero a Roma.
A quel punto i Cartaginesi accettarono di pagare un indennizzo pur di evitare
la guerra, mentre i Romani entravano in possesso della loro seconda
provincia: quella formata da Sardegna e Corsica (237 a.C.).
Successivamente Roma venne coinvolta più da vicino anche nelle vicende
dell’Adriatico: infatti essi intervennero contro Teuta regina degli Illiri (che
voleva rafforzare il proprio potere nella zona dopo che l’Epiro si era
indebolito alla morte di Pirro), che tormentava le città greche dell’Adriatico
(che chiesero l’aiuto di Roma).
La prima guerra illirica (229 a.C.) si risolse velocemente con la vittoria di
Roma: Teuta fu costretta ad abbandonare la reggenza in nome del figlio
minorenne, inoltre era imposto agli Illiri il divieto di navigare con più di due
navi sotto Lissus (l’odierna Lezhe nell’Albania del Nord).
Demetrio di Faro, ex collaboratore di Teuta e sostenitore dei Romani durante
la guerra, venne ricompensato con la concessione di possedimenti intorno
alla sua madrepatria.
Qualche anno dopo però Roma dovette intervenire nuovamente nella zona
proprio per combattere contro Demtrio, sostenuto dal re di Macedonia
Filippo V.
Anche la seconda guerra illirica (219 a.C.) fu un conflitto molto veloce:
Demetrio venne sconfitto (si rifugiò presso Filippo V, ponendo le basi per il
conflitto romano-macedone), mentre Faro divenne protettorato romano.
Più complessa l’acquisizione dell’Italia settentrionale, conclusasi solo nel
corso del II secolo a.C.
Roma cominciò ad interessarsi di quest’area a causa della minaccia gallica:
infatti ancora una volta un esercito gallico condusse una spedizione in
territorio romano, arrestandosi solo nel 236 a.C. alle porte di Rimini.
Nel 232 a.C. il console romano Caio Flaminio propose di distribuire ai singoli
cittadini il territorio dell’ager Gallicus: una mossa di indubbio carattere
politico-sociale, che aveva come fine quello di assicurare meglio l’area
dell’Italia centrale.
La lex Flaminia destò la preoccupazione dei Galli Boi (situati nella zona di
Bologna), che si allearono con gli Insubri (zona di Milano) e con altre tribù
provenienti dalla zona Transalpina; con i Romani si schierarono invece i Galli
Cenomani (situati nel bresciano) e i Veneti.
I Galli penetrarono in Etruria e colsero alcune vittorie, tuttavia nel 225 a.C.
vennero sconfitti nella battaglia di Talamone.
Dopo questa vittoria a Roma si comprese che l’unico modo per allontanare
definitivamente la minaccia gallica sarebbe stata proprio la conquista
dell’area padana.
La vittoria sugli Insubri nella battaglia di Casteggio (222 a.C.), colta da
Claudio Marcello, portò alla conquista del loro centro principale, Mediolanum.
Vennero poi fondate due nuove colonie, Cremona e Piacenza, che avevano
come scopo quello di consolidare la conquista: tuttavia la situazione venne
messa a soqquadro dall’invasione annibalica; solo dopo la fine della Seconda
Guerra Punica Roma consolidò la conquista dell’area padana.
Per il consolidamento del dominio romano si rivelò decisiva la costruzione
delle strade: la via Flaminia, costruita da Caio Flaminio a partire dal 220 a.C.
per collegare Roma a Rimini; la via Emilia, costruita nel 187 a.C. per collegare
Rimini a Piacenza; la via Postumia, costruita nel 148 .C. per collegare Genova
ad Aquileia.
Mentre Roma guadagnava posizioni nell’Adriatico e nell’Italia del Nord,
Cartagine completava la sua ripresa e si espandeva in Spagna a partire dagli
insediamenti fenici a Sud, tra cui Gades (l’odierna Cadice).
La conquista della Spagna potrebbe apparire un affare privato della famiglia
Barca: le operazioni furono infatti condotte esclusivamente da membri di
questa stirpe.
Il primo ad agire fu Amilcare, il secondo suo genero Asdrubale, infine il figlio
del primo Annibale; si deve comunque ricordare che i Barca agirono sempre
con il consenso del governo cartaginese (di natura oligarchica).
L’avanzata dei Barca destò l’allarme della colonia greca di Marsiglia, che
aveva numerosi interessi commerciali in Spagna (dove aveva installato degli
insediamenti commerciali), ma anche quella di Roma (alleata di Marsiglia).
Nel 226 a.C. il senato stipulò coi Punici un accordo che prevedeva, secondo la
narrazione di Polibio, che gli eserciti cartaginesi non potessero oltrepassare il
fiume Ebro (Livio sostiene invece che i Romani si impegnarono a non
superare verso Sud l’Ebro).
Un potenziale motivo di contrasto tra Roma e Cartagine era costituito
dall’alleanza stretta da Roma con la città iberica di Sagunto, posta in effetti a
Sud dell’Ebro.
4.4 LA SECONDA GUERRA PUNICA
Le conquiste giunte con le guerre del III e del II secolo a.C. allargarono gli
orizzonti di Roma, cosa che portò ad un cambiamento dell’assetto politico
interno, come dimostrano alcune vicende.
Una è senza dubbio il ‘’processo degli Scipioni’’, che dimostra quanto la
competizione politica avesse acuito i contrasti nella classe dirigente.
Nel 187 a.C. i tribuni della plebe accusarono Lucio Cornelio Scipione,
vincitore di Antioco III, di aver tenuto per se’ la maggior parte dell’indennità
pagata dal sovrano siriaco.
Nonostante l’intervento dell’Africano, fu solo il veto di un tribuno della plebe
nel 184 a.C. che permise a Lucio di non essere condannato al pagamento di
una pesante multa.
L’attacco venne però rinnovato nel 183 a.C., stavolta però contro l’Africano,
accusato di aver condotto trattative personali con Antioco: il grande generale
si difese ricordando il suo merito, ma successivamente decise di ritirarsi a vita
privata a Literno (Campania del Nord), dove morì l’anno seguente.
Il processo contro l’Africano era stato condotto da una figura politica
emergente, Marco Porcio Catone, che colpendo l’Africano voleva eliminare
l’individualismo che rischiava di mettere in crisi il sistema della gestione
politica collettiva della nobilitas.
Nel 180 a.C. venne poi emanata la lex Villia, che introdusse un obbligo di età
minima per rivestire le diverse magistrature e un intervallo di un biennio tra
una carica e un’altra; un evidente tentativo di regolare la sempre più violenta
competizione politica.
Nei medesimi anni si diffuse in Italia il culto del dio Bacco, originario della
Magna Grecia: un segno di tensione religiosa e sociale (i seguaci di Bacco
provenivano da classi sociali inferiori).
La reazione a questo movimento fu il Senatus consultum de Bacchanalibus
del 186 a.C., con cui si decise di stroncare in ogni modo i Baccanali, anche a
costo di calpestare l’autonomia giurisdizionale.
Per tutta l’Italia si fece pulizia di sacerdoti e adepti al culto di Bacco, visti
come pericolosi non perché praticanti di riti orgiastici e crimini vari, ma
perché membri di sette con un’organizzazione interna: dei potenziali ‘’Stati
nello Stato’’.
Dopo pochi anni divenne chiaro che la sistemazione data alla Grecia non
sarebbe durata a lungo: i rapporti con la Lega Achea erano divenuti gelidi
dopo la morte di Callicrate, la deportazione dei 1000 ostaggi e i tentativi di
Sparta di staccarsi dalla Lega.
A ciò si aggiunse una rivolta in Macedonia: qui un tale Andrisco, forse un
figlio di Perseo, riuscì a sconfiggere le deboli milizie delle repubbliche e a
ricostruire l’unità macedone sotto la bandiera della monarchia.
Andrisco, salito al trono col nome di Filippo VI, venne poi sconfitto nella
battaglia di Cinoscefale (148 a.C.) dal pretore Quinto Cecilio Metello.
Con la fine della quarta guerra macedonica (150-148 a.C.), il senato si decise
ad occuparsi anche della Lega Achea, a cui ordinò di espellere le importanti
città di Argo e Corinto (oltre a Sparta).
Di fronte a questa richiesta, che di fatto avrebbe significato il suo
scioglimento, nella Lega prevalse la componente nazionalistica, che decise di
dichiarare guerra a Roma.
Gli eserciti della Lega non riuscirono però ad impedire l’invasione del
Peloponneso da parte di Metello (vincitore di Andrisco); successivamente il
comando passò al console Lucio Mummio, che nel 146 a.C. sconfisse l’ultimo
esercito acheo e distrusse Corinto, la più importante città della Lega.
La Macedonia venne ridotta a provincia romana: il suo governatore sarebbe
potuto intervenire per risolvere le questioni della Grecia, dove vennero sciolte
tutte le leghe e imposti regimi aristocratici fedeli a Roma.
Dopo la fine della guerra annibalica, Cartagine si era ripresa con grande
rapidità dal punto di vista economico: il pagamento dovuto a Roma venne
consegnato prima del previsto e vennero continuamente fornite grande
quantità di grano.
Dal punto di vista politico Cartagine era stato ugualmente impeccabile: nel
196 a.C. Annibale venne eletto sufeta (i sufeti erano la massima magistratura
cartaginese, erano due) e cercò di dotare la città di una costituzione più
democratica.
Roma però inviò a Cartagine un’ambasceria che accusò il grande generale di
preparare un’alleanza con Antioco III; Annibale fu costretto a fuggire verso
Oriente.
Un elemento di disturbo alla ripresa cartaginese era però rappresentato dalle
dispute con la Numidia di Massinissa: il re numida infatti avanzò pretese
sui territori appartenenti ai Punici (metà del II secolo a.C.).
Cartagine chiese l’intervento di Roma, che tuttavia decise di non intervenire
per sedare le dispute; per questo motivo, dopo che il sovrano numida si era
impossessato di alcune delle più ricche terre puniche, Cartagine inviò un
esercito contro di lui (151 a.C.), contravvenendo ad una delle condizioni
della pace (la città poteva dichiarare guerra solo con il consenso di Roma).
L’esercito cartaginese, privo di un reale addestramento, venne distrutto: si
aprì così a Roma una stagione di dibattito sul futuro di Cartagine.
Alla fine prevalse un’implicabile determinazione di distruggere la città, che
però non poteva più rappresentare una minacci (anche se nella decisione
ebbe un ruolo decisivo proprio un’irrazionale paura di Cartagine); inoltre era
chiaro che chiunque avesse conquistato la città avrebbe ottenuto un immenso
bottino e una gloria imperitura (oltre ad un territorio fertilissimo).
Nel 149 a.C. un grande esercito entrò in Africa dando inizio alla Terza Guerra
Punica (149-146 a.C.).
Inizialmente Roma chiese ai Cartaginesi di abbandonare la città e trasferirsi a
10 miglia dalla costa, ma di fronte al rifiuto di questi ebbe inizio un lungo e
complesso assedio.
Alla fine fu Publio Scipione Emiliano, figlio di Lucio Emilio Paolo (vincitore
a Pidna) e membro adottivo della famiglia degli Scipione, ad entrare in città:
Cartagine venne rasa al suolo, la sua popolazione ridotta in schiavitù e il suo
territorio (limitato alla Tunisia Nord-occidentale) venne trasformato nella
provincia d’Africa.
4.11 LA SPAGNA
Polibio conclude la sua opera storica al 146 a.C., quando Roma, una volta
distrutte Corinto e Cartagine, ottenne l’egemonia assoluta nel Mediterraneo.
Pur avendo distrutto i Punici e ridotto all’obbedienza il mondo ellenistico,
Roma non era riuscita a venire a capo della situazione in Spagna (in effetti
la penisola verrà occupata definitivamente solo al tempo di Augusto).
Al termine della Seconda Guerra Punica i Romani avevano sotto il loro
controllo la zona Sud, quella intorno alla città di Gades, e la zona costiera a
Nord dell’Ebro.
Nel 197 a.C. vennero create le due provincie di Spagna Ulteriore e Citeriore,
governate da due nuovi pretori appositamente eletti; le comunità soggette a
Roma furono obbligate al pagamento di uno stipendium e a fornire truppe.
La penetrazione verso l’interno fu lunga e complessa, in primo luogo a causa
della tenace resistenza delle popolazioni celtibere, su tutte quella dei
Lusitani, guidata dall’astuto Viriato, affrontato tra il 149-137 a.C.
La situazione era così complessa che Roma era obbligata a lasciare in Spagna
dei forti eserciti, composti da uomini tra cui però serpeggiava il malcontento
per una guerra ‘’sporca’’ e senza gloria.
Le tensioni portarono addirittura ad una protesta contro la leva, che spinse i
magistrati locali a misure molto severe: per questo motivo venne creato nel
149 a.C. un tribunale incaricato di giudicare il reato di concussione, la
quaestio perpetua de repetundis, che però si occupava anche di casi di abuso
di potere dei governatori provinciali.
La condotta romana in Spagna è esemplificata dal comportamento di due
diversi personaggi: il primo è il grande Marco Porcio Catone, inviato nella
Spagna Citeriore nel 195 a.C.
Egli riuscì a sottomettere le popolazioni della valle dell’Ebro, tuttavia i suoi
successi furono di fatto effimeri, in quanto Roma fu costretta ad inviare
numerose truppe nell’area.
L’altro personaggio è Tiberio Sempronio Gracco, padre del futuro tribuno
della plebe a lui omonimo e governatore della Citeriore tra il 180 e il 178 a.C.
Egli si comportò in maniera conciliante con le popolazioni locali, cercando
di rimuovere i motivi d’astio verso Roma: la sua strategia portò ad alcuni
trattati di pace che permisero a Roma di respirare per qualche anno.
Alla sconfitta di Viriato seguì la guerra contro la città celtibera di Numanzia,
situata a nord di Soria nella Spagna settentrionale.
Nel 137 a.C. il console romano Caio Ostilio Mancino venne sconfitto dai
Numantini, che lo obbligarono a firmare una pace umiliante per Roma, che
ovviamente il senato non riconobbe.
Venne allora inviato in Spagna Scipione Emiliano, console di nuovo nel 134
a.C. grazie ad una deroga: il vincitore di Cartagine riuscì a distruggere
Numanzia nel 133 a.C.
Questa vendetta non cancellò però tra alcuni soldati il ricordo del crollo
dell’esercito romano: uno su tutti Tiberio Sempronio Gracco (figlio del
vecchio governatore della Citeriore), questore di Ostilio Mancino e in seguito
tribuno della plebe.