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1) LA NASCITA DELLA REPUBBLICA

1.1 LA TRADIZIONE STORIOGRAFICA SULLA NASCITA DELLA


REPUBBLICA

La storiografia sulla nascita della Repubblica, sostanzialmente le opere di


Livio e Dionigi di Alicarnasso, presentano una situazione chiara: Sesto
Tarquinio, figlio dell’ultimo re di Roma, avrebbe violentato la giovane
Lucrezia, che prima di suicidarsi raccontò tutto al padre Spurio Lucrezio, al
marito Lucio Tarquinio Collatino e ai loro amici Lucio Giunio Bruto e
Publio Valerio Publicola, i quali diedero inizio ad una rivolta.
Il Superbo in quel momento (siamo al 510 a.C.) era impegnato militarmente
ad Ardea, quindi non fu in grado di intervenire.
L’anno successivo, il 509 a.C., venne proclamata la Repubblica e vennero eletti
i primi due consoli, tra cui Bruto; successivamente l’eroismo dei Romani
impedì a Porsenna, lucumone di Chiusi, di prendere la città per restaurare il
potere di Tarquinio.
Il fatto che su questo tratto della storia arcaica vi fossero numerose incertezze
era ammesso dagli stessi autori antichi, motivo per cui gli storici hanno
guardato alle fonti in modo critico.
Gli studiosi si sono concentrati soprattutto su alcuni aspetti di questa vicenda:
le ragioni della caduta della monarchia, il passaggio tra le due forme di
governo, la datazione dell’evento e la natura dei supremi magistrati del
nuovo Stato.
I più importanti rifornimenti archeologico forniscono pochi elementi di
riscontro, dunque la ricerca storiografica si è dunque concentrata sulla critica
dei dati interni alla narrazione degli antichi, cercando di distinguere gli
elementi autentici e l’abbellimento retorico.
Senza dubbio ci si deve soffermare sulle liste dei supremi magistrati della
Repubblica.
1.2 I FASTI

I Fasti erano liste di magistrati eponimi della Repubblica, dunque vi erano


riportati i nomi di quei magistrati che davano nome all’anno.
Essi ci sono giunti attraverso la storiografia (ancora Livio e Dionigi) e anche
attraverso la documentazione epigrafica (la fonte principale è rappresentata
dai Fasti Capitolini).
Nei Fasti Capitolini era presente anche una cronologia, forse il riflesso di
quella presente nell’opera del già citato Varrone: la cronologia ‘’varroniana’’,
che pone al 509 a.C. la nascita della Repubblica, ma presenta anche delle
sfasature per gli eventi di V e IV secolo a.C.
Nell’opera di Polibio per esempio è presente un sincronismo tra le vicende
greche e quelle romane: per esempio tra il sacco gallo di Roma e la ‘’pace di
Antalcida’’, poste da Polibio nel 386 a.C. (Varrone invece colloca il sacco al 390
a.C.).
Nonostante queste piccole discrepanze ancora oggi la cronologia di Varrone
è quella più utilizzata a livello storico, in quanto più pratica.
Tra le varie versioni dei Fasti vi sono numerose incongruenze, cosa che ha
fatto emergere sull’attendibilità delle liste di magistrati (specie per i consoli
del V secolo a.C.); nessun elemento però ci permette di rinunciare ad essi.
Per spiegare queste incongruenze sono state date due spiegazioni: la prima è
la presenza di gentes omonime, oppure il fatto che il titolo consolare nella
prima fase della Repubblica appartenesse ad un ramo patrizio poi estintosi.
Altri studiosi sostengono che nella prima fase repubblicana i confini tra
patriziato e plebe non fossero ancora netti, altri ancora sostengono che il
patriziato avrebbe ottenuto il monopolio sulla magistratura solo a metà del V
secolo a.C.

1.3 LA FINE DELLA MONARCHIA E LA CREAZIONE DELLA


REPUBBLICA: EVENTO TRAUMATICO O PASSAGGIO GRADUALE

La storia della violenza su Lucrezia contiene sicuramente degli spunti ripresi


dalla tradizione legata alla caduta delle tirannidi greche, cosa che mina la sua
credibilità di fondo.
Essa, vera o falsa, non spiega comunque perché la monarchia sia caduta:
sicuramente nella cacciata del Superbo ebbe un ruolo decisivo il patriziato,
stufo della natura sempre più autocratica del potere regio.
Questo può essere dimostrato guardando all’odio che il patriziato dimostra
durante l’età repubblicana per l’istituto monarchico, cosa che ci porta a
credere che il cambiamento sia avvenuto in maniera violenta.
Ovviamente questo non significa che alla caduta dei Tarquini si sia stabilita
subito la Repubblica: risulta più probabile ritenere che al governo del
Superbo sia seguita una fase di confusione in cui Roma è in balia di re e
condottieri stranieri, come i fratelli Vibienna o Porsenna.
La sconfitta che i Latini, uniti ad Aristodemo di Cuma, inflissero ad Arrunte
(figlio di Porsenna) presso la città latina di Aricia, rappresentò un duro colpo
all’influenza etrusca nel Lazio e forse anche a vicenda che permise a Roma di
sviluppare le sue istituzioni repubblicane.

1.4 LA DATA DELLA CREAZIONE DELLA REPUBBLICA

Gli antichi avevano posto la data della nascita della Repubblica a Roma e
quella della democrazia ad Atene nello stesso anno, il 510 a.C.; in effetti è
possibile tracciare molti parallelismi tra la cacciata dei Tarquini e quella dei
Pisistratidi (cosa alquanto sospetta).
Per questo motivo gli studiosi tendono a porre la nascita della Repubblica
qualche decennio più avanti, introno al 470-450 a.C., un momento in cui la
cronologia dimostra un’interruzione dei contatti culturali romano-etruschi.
Esistono però degli argomenti favorevoli alla datazione tradizionale: per
esempio la cerimonia ricordata da Livio, in cui il massimo magistrato della
Repubblica infiggeva un chiodo nel tempio di Giove Capitolino ogni anno
alle idi di Settembre.
Ciò risulta importante in quanto il tempio di Giove nel Campidoglio era stato
inaugurato il primo anno della Repubblica: il numero di chiodi poteva
dunque rappresentare una sorta di cronologia.
Nel 304 a.C. l’edile Cneo Flavio, inaugurando il tempio di Concordia, poté
datare l’evento 204 anni prima della costruzione del tempio Capitolino
(quindi la Repubblica nacque nel 508 a.C.).
Un secondo elemento proviene dalla documentazione archeologica: l’edificio
della Regia, nel Foro romano, presenta nel VI secolo a.C. una pianta tipica di
un edificio templare: in questo momento dunque la Regia sarebbe divenuta la
sede del rex sacrorum.
1.5 I SUPREMI MAGISTRATI DELLA REPUBBLICA, I LORO POTERI
E I LORO LIMITI

La tradizione storiografica antica concorda nell’affermare che i poteri un


tempo del re sarebbero passati a due consules, o meglio praetores, come si
sarebbero chiamati in origine secondo Livio.
I consoli erano eletti dai comizi centuriati: essi avevano il comando
dell’esercito, dovano mantenere l’ordine in città ed esercitavano la
giurisdizione civile e criminale.
Potevano inoltre convocare il senato e le assemblee popolari, e avevano
anche il compito di curare il censimento e la compilazione delle liste dei
senatori; a ciò va aggiunta la funzione eponima.
Le competenze religiose erano invece trasferite solo in parte ai consoli,
mentre nella figura del rex sacrorum si conservò il ricordo dell’istituto
monarchico (solo nella sua valenza religiosa).
Al rex sacrorum si affiancarono successivamente altri sacerdozi di maggior
peso politico come pontefici e àuguri; erano però i consoli a controllare gli
auspici, quindi di interpretare la volontà degli dei.
I poteri dei consoli erano però sottoposti a dei limiti: la loro durata era
limitata temporalmente ad un anno, inoltre ciascuno dei due consoli poteva
opporsi all’azione del collega, in caso fosse ritenuta dannosa per lo Stato
(collegialità).
Il potere consolare erano inoltre limitato dalla provocatio ad populum,
istituita con la lex Valeria di Publio Valerio Publicola, che prevedeva la
possibilità per ogni cittadino di appellarsi al giudizio dell’assemblea popolare
contro le condanne inflitte dal console.
La legge venne probabilmente promulgata nel 300 a.C., anno in cui venne
promulgata un’altra lex Valeria sulla provocatio, un diritto che tra l’altro non
ebbe valore fino all’età tardorepubblicana.
Alcuni storici mettono in dubbio la versione tradizionale sulla magistratura
consolare, portando avanti la tesi secondo cui i poteri del re vennero in
origine trasferiti ad un solo magistrato, affiancato forse da alcuni assistenti.
Solo dopo il Decemvirato del 450 a.C., o forse solo con le leggi Licinie Sestie
del 367 a.C., sarebbe nata la magistratura collegiale del consolato.
Ad avvalorare questa tesi vi è ancora una volta la cerimonia dell’infissione
del chiodo nel tempio Capitolino ad opera del praetor maximus, un termine
che presuppone l’esistenza di almeno tre praetores (oppure è stato usato il
singolare al posto del plurale).
Dunque l’espressione potrebbe indicare due magistrati superiori dotati di
eguali poteri: si deve ricordare che per Livio il termine praetores era in origine
usato per indicare il consul.

1.6 LE ALTRE MAGISTRATURE

Le crescenti esigenze dello Stato portarono alla nascita di nuove magistrature,


caratterizzate tutte dai principi dell’annualità e della collegialità.
Al periodo regio risalgono i questori: in origine essi erano due e assistevano i
consoli in attività finanziarie; è possibile che in principio essi fossero
designati dai consoli stessi, poi la carica divenne elettiva.
I quaestores parricidii erano in qualche modo in rapporto con i questori
finanziari, tuttavia, stando a quanto dicono le leggi delle XII tavole, essi erano
incaricati di istituire i casi per i delitti di sangue contro i parenti; il reato di
tradimento era invece competenza dei duoviris perduellionis.
Nel 443 a.C. il compito di tenere il censimento era stato sottratto ai consoli e
affidato a due nuovi magistrati, i censori, a cui venne poi affidato il compito
di redigere le liste dei membri del senato (IV-III secolo a.C.).
Da questa competenza derivò il compito di supervisionare sulla condotta
morale dei cittadini, la cura morum, che conferiva ampi poteri di intervento
nella vita pubblica e privata.
I censori erano eletti ogni 5 anni e la loro carica aveva una durata complessiva
di diciotto mesi.

1.7 LA DITTATURA

In caso di necessità, soprattutto legate ad una difficile situazione militare, i


supremi poteri della Repubblica potevano essere affidati ad un dictator,
nominato a propria discrezione da un console/pretore/interrex su istruzione
del senato.
Il dittatore non era affiancato dai colleghi, ma era noto col nome di ‘’magister
populi’’, dove il termine ‘’populus’’ si riferisce al popolo in armi.
Le decisioni prese dal dittatore erano assolute, contro di lui non era possibile
la provocatio o l’opposizione dei tribuni della plebe; questi straordinari poteri
avevano però una durata di soli sei mesi, anche se ci si aspettava che il
dittatore si dimettesse appena superata la situazione d’emergenza.
Il titolo originario di magister populi, ‘’comandante dell’esercito’’, non è
casuale: il fatto che durante le grandi battaglie della prima età repubblicana
l’esercito fosse comandato da un dictator dimostra come la carica avesse
soprattutto compiti militari.
L’inappellabilità delle decisioni del dictator resero la carica un utile
strumento nelle mani del patriziato, che se ne serviva per tenere sotto
controllo le aspirazioni della plebe.

1.8 I SACERDOZI E LA SFERA RELIGIOSA

A Roma non è possibile trovare una netta differenza tra cariche politiche e
massime cariche religiose, in quanto una persona poteva rivestire
contemporaneamente cariche politiche e religiose.
Un’eccezione è in questo senso rappresentata, oltre che dal rex sacrorum, dai
flamini, che rappresentavano la personificazione terrena delle tre supreme
divinità della prima Roma repubblicana: Giove, Marte e Quirino
(rappresentati dai flamines: Dialis, Martialis e Quirinalis); dodici flamini minori
erano invece addetti ad altrettante divinità.
Il flaminanto era connesso ad una serie di tabù religiosi, che, pur non
costituendo un ostacolo assoluto, limitarono il diritto dei flamini di rivestire
cariche politiche.
I tre collegi religiosi più importanti erano quello dei pontefici, degli àuguri e
dei duoviris sacris faciundis, che avevano poteri che oltre all’area religiosa si
estendevano anche a quella politica.
Il collegio dei pontefici, che risale ad un’età arcaica, era guidato da un
pontefice massimo, costituiva la massima autorità religiosa dello Stato.
Ai pontefici spettavano diversi ruoli: la nomina dei flamini, il controllo sulla
tradizione e l’interpretazione delle norme giuridiche.
Si diveniva pontefici per cooptazione (scelti dagli altri membri del collegio),
mentre la carica veniva mantenuta a vita.
Il collegio degli àuguri aveva invece il compito di assistere i magistrati nel
loro compito di trarre gli auspici e di interpretare la volontà divina, affinché
un atto pubblico venisse convalidato.
L’azione degli auguri consisteva di fatto nella lettura del volo degli uccelli o
di altri fenomeni naturali: il loro parere era talmente autorevole che un
presagio letto come sfavorevole portava il senato a bloccare ogni
procedimento.
Si devono poi ricordare i duoviri sacris faciundis, incaricati di custodire i
‘’Libri sibillini’’, un’antichissima raccolta di oracoli in greco che nella tarda
età repubblicana si pensavano connessi con la Sibilla di Cuma.
Nel caso in cui si fossero verificati presagi nefasti i Libri venivano consultati al
fine di reperire un rimedio per la situazione.
Spesso la soluzione consisteva nell’introduzione di un culto straniero, su cui
i duoviris mantenevano una sorta di supervisione.
La denominazione del sacerdozio mutò col crescere dei componenti, che
divennero dieci nel 367 a.C. e quindici a fine dell’età repubblicana.
Accanto ai tre collegi sacerdotali si devono poi ricordare gli aruspici, che
come gli àuguri avevano il compito di chiarire la volontà divina tramite la
lettura delle viscere delle vittime sacrificali (una pratica nata in Etruria, da
dove proveniva il maggior numero di haruspices).
In politica avevano funzioni rilevanti i feziali, anch’essi riuniti in un collegio,
che avevano i compito di dichiarare guerra attenendosi ad uno scrupoloso
cerimoniale.
Si tratta della nota espressione di ‘’bellum iustum’’, che ha come significato
quello di ‘’guerra dichiarata per un motivo giusto’’.
I fetiales avevano un ruolo importante anche in ambito diplomatico,
specialmente nelle richieste di riparazioni e nella presentazione di ultimatum.

1.9 IL SENATO

Il vecchio consiglio regio, formato dai capi delle principali famiglie,


sopravvisse alla caduta della monarchia e divenne il perno della nuova
Repubblica a guida patrizia.
Nel corso dell’età repubblicana la composizione del consiglio era decisa dai
consoli, dai censori poi, che ne completavano i ranghi attingendo tra gli ex
magistrati.
Il principale strumento istituzionale del senato era senza dubbio l’auctoritas
patrum, il diritto di sanzione che i senatori avrebbero posseduto, secondo
Livio, già in età regia; tuttavia le vere ragioni della potenza del senato vanno
però ricercate nella durata della carica, che era vitalizia a differenza delle
altre: è evidente dunque che il senato potesse, a differenza degli altri
magistrati, portare avanti una linea politica a lungo termine.
I senatori erano in sostanza ex magistrati, dunque tutti politici esperti e dotati
della leadership propria dell’èlite sociale ed economica di Roma.
1.10 LA CITTADINANZA E LE ASSEMBLEE POPOLARI

Il terzo pilastro su cui si basava la Repubblica romana erano le assemblee


popolari, a cui non poteva partecipare tutta la popolazione dello Stato
romano, ma solo i cittadini maschi adulti di libera condizione.
Si era cittadini romani sostanzialmente per diritto di nascita, tuttavia Roma
fin dalle proprie origini mostrò una notevole apertura in ambito di
concessione della cittadinanza, a differenza delle πολεις greche.
L’accoglienza nel corpo civico di gente proveniente dal centro Italia o dalle
città latine era un fatto non eccezionale: si pensi alla migrazione dalla Sabinia
del clan dei Caudi (tra il regno di Romolo e il 505 a.C.), guidati dal notabile
sabino Appio Claudio, o Attio Clauso, che guidò a Roma 5000 suoi familiari/
clienti.
Anche gli schiavi liberati, i cosiddetti liberti, già nei primi anni della
Repubblica potevano ricevere la pienezza dei diritti civici, mentre ad Atene
gli ex-schiavi erano erano assimilati alla condizione degli stranieri residenti.
La più antica assemblea di Roma erano come già detto i comizi curiati, che
durante l’età repubblicana persero progressivamente importanza.
La loro funzione più importante era quella di conferire ufficialmente i poteri
ai magistrati, una pratica che si ridusse via via ad una pura formalità: già la
lex de imperio non venne più votata dalle 30 curie, ma dai 30 littori che le
rappresentavano.
L’assemblea romana più importante era quella dei comizi centuriati, , fondati
sulla ripartizione della città in classi di censo (le centurie), che venivano fatte
risalire al tempo di Servio Tullio.
Il meccanismo dei comizi centuriati prevedeva che le risoluzioni fossero prese
non a maggioranza individuale, ma a maggioranza di unità di voto costituite
dalle centurie.
Queste non avevano un eguale numero di componenti, visto che le persone
dotate di censo più alto e iscritte nelle classi di età tra 46 e 60 anni (i seniores)
erano molto minori rispetto ai cittadini meno ricchi e iscritti alle classi di età
tra i 17 e i 45 anni (gli iuniores).
Se dunque le 18 centurie dei cavalieri e le 80 centurie della prima classe
avessero votato compatte, avrebbero ottenuto sempre la maggioranza nei
comizi (98 su 193/194).
La funzione elettiva era quella più importante: spettava infatti ai comizi
centuriati il compito di eleggere i consoli e gli altri magistrati superiori;
abbiamo anche testimonianze di un’attività legislativa del popolo riunito in
centurie (forse limitata però solo a materie di diritto internazionale).
Sui comizi tributi, ricordati per la prima volta nel 447 a.C. (venne affidata
loro l’elezione dei questori), si hanno notizie sicure solo a partire dal IV secolo
a.C.
In quest’assemblea il popolo votava per tribù, ovvero in base all’iscrizione in
una delle tribù territoriali istituite da Servio Tullio.
Il meccanismo dei comizi tributi può sembrare in apparenza il più
democratico, tuttavia anche in esso vi era una forma di diseguaglianza: il
numero delle tribù urbane (4) era inferiore a quello delle tribù rustiche (16 in
età regia e 31 al 241 a.C.).
I comizi tributi avevano una funzione elettorale, visto che essi sceglievano i
magistrati minori, ma anche una legislativa, tranne nelle poche materie ad
appannaggio dei comizi centuriati.
Anche i poteri delle assemblee popolari erano posti sotto controllo: essi
infatti non potevano riunirsi da soli, non potevano stabilire l’ordine del
giorno, i consoli potevano (in caso di cattivi presagi) fermare la loro attività,
inoltre ogni loro decisione, prima di divenire vincolante, doveva avere
l’approvazione del senato.
2) IL CONFLITTO TRA PATRIZI E PLEBEI

Nelle fonti a nostra disposizione il periodo tra la fondazione della Repubblica


e il 287 a.C. è caratterizzato dal confronto tra patrizi e plebei, da cui
nacquero le istituzioni ricordate in precedenza.
Le vicende del conflitto tra le due parti della cittadinanza romana risultano
decisive per lo sviluppo dello Stato romano: dunque nella storia di Roma
avvenimenti interni ed esteri erano profondamente legate.
Risulta necessario fare alcune precisazioni riguardo l’origine della plebe: il
termine di per se’ in fatti va definito in senso negativo di ‘’non-patrizio’’.

2.1 IL PROBLEMA ECONOMICO

La caduta dei Tarquini ed i dei mutamenti internazionali della metà del V


secolo a.C. ebbero delle pesanti conseguenze per Roma: la sconfitta che Ierone
di Siracusa inflisse agli Etruschi a Cuma ne 474 a.C. significò la fine
dell’espansionismo etrusco in Campania, cosa di cui traeva svantaggio anche
Roma, principale snodo commerciale tra le due aree.
La vendita del sale conobbe un periodo di crisi a causa delle ostilità con i
Sabini, che controllavano la via Salaria; a ciò va aggiunta la continua
devastazione dei campi dovuta alla situazione di guerra permanente in cui si
trovava Roma.
A questo quadro fanno anche riscontro le crescenti difficoltà interne: annate
di cattivo raccolto in primo luogo, ricordate anche dalla storiografia come
cause di carestie, a cui seguirono numerose epidemie.
La documentazione archeologica conferma questa situazione di crisi
economica: il numero di ceramiche greche d’importazione crolla
vertiginosamente nella prima metà del V secolo a.C.
Il problema economico è evidente nella tradizione letteraria, visto che la crisi
acuisce i conflitti tra patrizi e plebei, soprattutto visto che la maggior parte
dei cittadini si è dovuta indebitare.
I più colpiti da questa situazione furono senza dubbio i piccoli agricoltori, che
erano costretti, per incapacità di pagare i debiti, a porsi sotto il servizio dei
grandi proprietari terrieri.
La sorte peggiore per un debitore insolvente era la caduta in schiavitù,
potenzialmente vendibile anche in una terra straniera.

2.2 IL PROBLEMA POLITICO

Gli strati più ricchi della plebe erano meno interessati alla crisi economica di
coloro che erano indebitati, tuttavia si servirono della situazione per chiedere
una parificazione dei diritti socio-politici tra i due ordini.
In effetti il patriziato aveva trasformato la carica consolare in un vero e
proprio monopolio; l’altra rivendicazione avanzata dalla plebe riguardava la
necessità di un codice scritto di leggi, che mettesse i cittadini al riparo dalla
volontà dei patrizi riuniti nel collegio dei pontefici.

2.3 LE STRUTTURE MILITARI E LA CONOSCENZA DELLA PLEBE

I problemi politici ed economici non furono però gli unici fattori che
portarono al conflitto, va aggiunta infatti anche la progressiva presa di
coscienza della plebe.
L’esercizio dei diritti civici da parte del singolo nella città antica era connesso
alla capacità di difendere lo Stato con le armi: si può arrivare ad affermare
che la relazione tra diritti politici e doveri militari ha carattere strutturale.
A Roma ciò è molto chiaro nell’ordinamento centuriato: le centurie infatti
rimasero per tutta l’età repubblicana le unità di reclutamento dell’esercito.
Ogni centuria doveva fornire il medesimo numero di reclute (in origine 100):
le centurie delle prime classi di censo, che avevano un numero limitato di
cittadini, sopportavano il peso più consistente delle guerre: 18 centurie degli
equites e 80 della prima classe pagavano il tributo di sangue maggiore, mentre
i cittadini capite censi furono di regola esentati al servizio militare nella prima
e nella seconda età repubblicana.
La presa di coscienza della plebe va dunque letta anche alla luce di un
cambiamento nei ranghi dell’esercito, vista la stretta connessione esistente
tra ordinamento politico e militare.
Nel V secolo a.C. si afferma un nuovo modello tattico, quello della falange
oplitica, che Roma eredita dal mondo greco attraverso la mediazione etrusca;
la falange porta al superamento del modo di combattere aristocratico, basato
sulla cavalleria.
Il cuore dell’esercito romano diviene la fanteria pesante, reclutata tra le classi
di censo che potevano permettersi di mantenere l’armamento oplitico.
L’antichissimo esercito repubblicano era composto da fanteria pesante
reclutata tra gli iuniores delle prime classi di censo: in totale erano 60 centurie,
40 di iuniores/10 di iuniores della seconda classe/10 di iuniores della terza
classe.
Il totale raggiungeva i 6000 uomini, ovvero due legioni composte da 3000
opliti ciascuno, a cui si aggiungeva la cavalleria reclutata nelle 18 centurie di
equites e da soldati armati alla leggera provenienti dalla IV e dalla V classe.
La legione era dunque reclutata su base censitaria, cosa che nel corso del V e
del IV secolo a.C. fece emergere la convinzione che uomini decisivi sul campo
di battaglia (plebei) non potessero essere dei comprimari nella vita dello
Stato.

2.4 LA PRIMA SECESSIONE E IL TRIBUNATO DELLA PLEBE

Il conflitto fra i due ordine scoppiò nel 494 a.C., quando la plebe, esasperata
dalla crisi economica, organizza una sorta di sciopero che lascia la città priva
della forza lavoro e soprattutto indifesa contro gli aggressori.
La prima secessione della plebe porta alla formazione di due organismi
nuovi: un’assemblea generale, articolata prima in curie e dal 471 a.C. in tribù,
nota come concilia plebis tributa.
Il meccanismo di voto dell’assemblea premiava i proprietari terrieri iscritti
nelle tribù rustiche.
I concilia plebis emanavano dei provvedimenti, detti plebiscita, che non
avevano valore vincolante per lo Stato, ma per la plebe; per arrivare
all’assimilazione dei plebiscita allo Stato si dovrà aspettare il 287 a.C., con la
lex Ortensia.
Vennero poi scelti dei rappresentanti ed esecutori dell’assemblea i tribuni
della plebe, inizialmente due, poi divenuti dieci (il nome derivava da quello
dei tribuni militari, che comandavano i reparti della legione).
Ai tribuni la plebe riconobbe alcuni poteri fondamentali: il diritto di venire
soccorsi contro l’azione di un magistrato (lo ius auxili), e il diretto sviluppo di
questo, lo ius intercessionis, con cui era possibile porre il veto contro
qualsiasi provvedimento di un magistrato.
La plebe accordò loro anche l’inviolabilità personale, la sacrosanctitas, per
cui chi avesse osato fare del male contro i rappresentanti della plebe sarebbe
divenuto sacer, ovvero ‘’sacrificabile’’ alla divinità, inoltre gli sarebbero stati
confiscati i beni a favore del tempio di Cerere, Libero e Libera sull’Aventino.
Un provvedimento così duro non venne mai preso, anche se si ha notizia di
alcuni procedimenti per reati che possono rientrare nella categoria di ‘’offesa
alla plebe’’.
I tribuni avevano infine anche il potere di convocare e presiedere l’assemblea
della plebe, e di sottoporre ad essa le proprie proposte (ius agendi cum plebe).
Nel corso della prima secessione vennero create anche altri due
rappresentanti della plebe, gli edili plebei, incaricati di organizzare i giochi e
di controllare strade/templi/edifici pubblici (edile deriva da ‘’aedes’’, casa).
La prima secessione approdò ad un risultato in primo luogo politico, anche se
il problema dei debiti rimase insoluto, anche se si deve presumere che i
tribuni della plebe, grazie allo ius auxili, siano intervenuti in aiuto dei
debitori.
Nel 486 a.C. il console Spurio Cassio propose una legge per la
redistribuzione delle terre, una proposta che sembra precedere quella dei
Gracchi; altri due demagoghi della età repubblicana furono Spurio Melio e
Manlio Capitolino, che hanno dei tratti graccani (per quanto riguarda Cassio
egli venne accusato di aspirare alla tirannide ed eliminato).
La prima secessione plebea e la vicenda di Spurio Cassio mettono in luce due
tratti tipici del confronto tra patrizi e plebei: la protesta in primo luogo, usata
come strategia politica per raggiungere determinati obiettivi politico-
economici.
Il disagio economico della plebe povera dunque veniva strumentalizzato
dalla plebe ricca, che non era in alcun modo interessata ad una rivoluzione
sociale, ma aspirava piuttosto ad una riforma interna all’ordinamento
vigente.

2.5 IL DECEMVIRATO E LE LEGGI DELLE XII TAVOLE

Dopo la prima secessione la plebe cominciò a pressare affinché fosse redatto


un codice scritto di leggi: così nel 451 a.C. venne nominata una commissione
di dieci uomini (il Decemvirato), scelti esclusivamente tra il patriziato,
incaricati proprio di redigere un codice scritto.
Il nuovo collegio avrebbe poi assunto il controllo completo dello Stato: infatti
le tradizionali magistrature vennero sospese al fine di agevolare l’azione dei
decemviri, contro i quali non vi era il diritto d’appello.
Durante il primo anno venne pubblicato un complesso di norme che vennero
pubblicate su dieci tavole di legno esposte nel Foro.
Alcuni punti rimasero però in sospeso, motivo per cui venne eletta una
seconda commissione nel 450 a.C., rappresentata secondo le fonti anche dalla
plebe.
Vennero redatte altre due tavole di leggi, portando il totale a dodici: cosa che
spiega il nome di leggi delle XII tavole, nome con cui è ricordato il primo
complesso di leggi di Roma.
Una questione molto particolare è legata alla legge che proibiva matrimoni
tra patrizi e plebei.
La commissione, guidata da Appio Claudio Cieco, cercò di prolungare il
proprio potere, tuttavia questa richiesta venne respinta dalla plebe e dal
patriziato moderato, rappresentati da Marco Orazio e Lucio Valerio.
A far sì che la situazione muti è ancora una volta una violenza contro una
giovane: le insidie portate da Appio Claudio a Virginia, figlia di un valoroso
centurione distintosi nelle guerre contro Equi e Volsci, provocarono una
seconda secessione e anche lo scioglimento del decemvirato.
Nel 499 a.C. viene ripristinato il consolato, e ad essere nominati sono proprio
Marco Orazio e Lucio Valerio, che fanno approvare un pacchetto di leggi in
cui venivano riconosciuti: l’apporto dato dalla plebe alla lotto contro i
Decemviri, l’inappellabilità della plebe, l’impossibilita di creare magistrature
contro cui non esistesse il diritto d’appello e la natura vincolante dei
plebisciti.
Per quanto riguarda i matrimoni misti, essi vennero resi legali nel 445 a.C.,
grazie ad un plebiscito Canuleio che assunse valore di legge.
La veridicità di queste vicende appare in qualche modo dubbia, soprattutto
alla luce del fatto che le leggi Valerie Orazie del 449 a.C. sembrano delle
anticipazioni di provvedimenti più tardi.
L’azione dei Decemviri va letta invece soprattutto alla luce di quanto traspare
nelle XII tavole, il cui originale è andato perduto, il cui testo ci è noto grazie a
delle citazioni di autori posteri (molti frammenti trattano la sfera delle
relazioni individuali).
Il codice legislativo elaborato dai Decemviri voleva in sostanza dare una
regolamentazione complessiva, ispirata indubbiamente al diritto greco (le
fonti ricordano che nel 454 a.C. un’ambasceria venne inviata ad Atene a
studiare la legge di Solone).
Molto probabile dunque che alcuni elementi del contenuto delle XII tavole
provengano da codici giuridici elaborati nelle città greche del Meridione e
della Sicilia.

2.6 TRIBUNI MILITARI CON POTERI CONSOLARI

Il plebiscito fatto votare da Marco Canuleio, quello sulla legittimità dei


matrimoni misti, ebbe come conseguenza il far venire meno la principale
giustificazione del monopolio patrizio sul consolato: solo i patrizi erano in
grado di comprendere il volere degli dei.
Con i matrimoni misti però, anche i plebei potevano avere del ‘’sangue
patrizio’’, dunque diveniva difficile escluderli dalla magistratura.
Il patriziato, sentendosi minacciato da questa possibilità, ricorse ad un
espediente: nel 444 a.C. il senato decise che alla testa dello Stato vi sarebbero
stati due consoli, di sangue patrizio e incaricati di prendere gli auspici,
affiancati da tribuni militari con poteri consolari (tribuni militum consulari
potestate), inizialmente di numero tre, poi arrivati a sei, che potevano essere
anche plebei (non potevano trarre gli auspici).
L’ordinamento, rimasto in vigore fino al 367 a.C., lasciava insoddisfatta la
plebe, che di fatto si vedeva precluso l’accesso alla massima magistratura; a
ciò si deve aggiungere che non si riesce a capire perché, nonostante le
pressioni della plebe, il primo tribuno consolare venne eletto solo nel 400 a.C.
Le spiegazioni possibili sono tre: o nel periodo tra 444-367 a.C. i consoli non
vennero sostituiti, ma affiancati dai tribuni consolari.
In poche parole il consolato e il diritto agli auspicia sarebbe rimasto in mano ai
patrizi, che venivano assistiti nei loro compiti dai tribuni consolari, che erano
invece comandanti dei reparti delle legioni dotati in delle occasioni di poteri
simili a quelli dei consoli.
Nessuna istituzione poneva però rimedio alla plebe povera, come dimostrato
dall’episodio di Spurio Melio, un ricco plebeo che nel 440 a.C. distribuì a
proprie spese un grosso quantitativo di grano alla popolazione colpita
dall’epidemia.
Questo gesto venne interpretato come una mossa demagogica finalizzata a
raggiungere la tirannide: per questo motivo Spurio Melio venne giustiziato
sommariamente.
2.7 LE LEGGI LICINIE SESTIE

La promulgazione del primo codice scritto di leggi teneva aperti i due nodi su
cui si basava il conflitto tra plebe e patriziato: quello politico e quello
economico.
Dopo il saccheggio gallico la crisi economica si fece più pesante, motivo per
cui il territorio di Veio e di Capaena (conquistato pochi anni prima) venne
diviso in appezzamenti e distribuito ai cittadini romani; vennero così create
quattro nuove tribù territoriali.
Ciò però non fu sufficiente: solo pochi anni dopo il patrizio Marco Manlio
Capitolino, l’eroe della resistenza contro i Galli, venne liquidato in quanto
propose la totale cancellazione dei debiti ed una nuova legge agraria (376
a.C.).
La sua mossa riunì in un unico fronte plebe e patriziato, che si scagliarono
contro il potenziale tiranno; era dunque evidente che l’unico modo accettabile
di risolvere i problemi di Roma era da trovare non in un mutamento di
regime, ma in una riforma interna all’ordinamento repubblicano.
Dopo la fine di Capitolino, l’iniziativa passò nelle mani dei tribuni della plebe
Caio Licinio Stolone e Lucio Sestio Laterano, che erano appoggiati dal
patriziato più moderato (Stolone era marito della figlia del patrizio Marco
Fabio Ambusto, che godeva di grande prestigio e peso politico).
Licinio e Sestio presentarono una serie di proposte volte a risolvere il
problema dei debiti, andando in primo luogo a distribuire terre di proprietà
dello Stato e a concedere ai plebei l’accesso al patriziato.
I patrizi si opposero a lungo a queste iniziative, andando anche ad ottenere
l’appoggio di alcuni tribuni della plebe; allo stesso modo Licinio e Sestio non
furono da meno.
Venne per questo motivo nominato dittatore Marco Furio Camillo, vincitore
dei Galli e conquistatore di Veio.
Il dittatore accolse le proposte dei due tribuni della plebe, divenute poi leggi
attraverso le stesse modalità del plebiscito Canuleio, come ricorda Livio.
Le leges Licianae Sextiae prevedevano anche che i debitori fossero detratti
dal capitale dovuto, e che il debito residuo divenisse estinguibile in tre rate
annuali.
Veniva stabilita anche la massima superficie di proprietà statale occupabile da
un privato: 500 iugeri, circa 125 ettari; venne infine abolito il tribunato
militare con potestà consolare, a cui seguiva la completa reintegrazione dei
consoli alla testa dello Stato.
Veniva infine stabilito che almeno uno dei due consoli dovesse essere plebeo,
anche se più probabilmente la legge consentiva che uno dei due fosse
plebeo, quindi non escludeva che tutti e due potessero essere patrizi.
Questo compromesso permise anche una riorganizzazione delle
magistrature: nel 366 a.C. vennero create due nuove cariche ad esclusivo
appannaggio del patriziato (delle compensazione per la perdita del
monopolio sul consolato): il pretore, che amministrava la giustizia tra i
cittadini (nel 242 a.C. al praetor urbanus si affiancò il praetror peregrinus, che
si occupava delle controversie tra cittadini romani e stranieri).
Il pretore era dotato di imperium, quindi egli poteva anche comandare
l’esercito, anche se i suoi poteri erano subordinati a quelli del console.
Nello stesso anno vennero anche creati gli edili curili, dalla sella curilis, lo
scranno su cui sedevano i magistrati patrizi, che li distingueva dagli edili
plebei; essi erano incaricati di organizzare i Ludi maximi.

2.8 VERSO UN NUOVO EQUILIBRIO

Le leggi Licinie Sestie del 367 a.C. segnarono la fase più acuta della
contrapposizione tra patrizi e plebei.
Il periodo successivo portò al faticoso raggiungimento di un nuovo
equilibrio interno, quello che contraddistinguerà le conquiste di Roma in
Italia e nel Mediterraneo.
Nel 366 a.C. l’ex tribuno della plebe Sestio Laterano si avvalse della legge che
lui stesso aveva proposto e divenne il primo console plebeo; nel 342 a.C. un
plebiscito, ricordato da Livio, fece sì che entrambi i consoli potessero essere
plebei.
Dal 342 a.C. nei Fasti cominciano a comparire sempre un console patrizio e
uno plebeo; mentre nel 172 a.C. per la prima volta entrambi i consoli furono
plebei.
Con le leggi Licinie Sestie era stata aperta la strada che avrebbe portato
all’apertura alla plebe di tutte le strade per accedere alle altre magistrature:
nel 366 a.C. si decise che gli edili curili sarebbero stati scelti ad anni alterni tra
patrizi e plebei, nel 356 a.C. venne eletto il primo dittatore plebeo (Caio
Marcio Rutilio), nel 351 a.C. lo stesso Rutilio divenne il primo plebeo censore,
nel 339 a.C. il plebeo Quinto Publilio Filone fece ratificare un provvedimento
legislativo con cui di fatto veniva tolto al senato il suo diritto di veto.
Filone fu anche , nel 310 a.C., il primo plebeo ad essere pretore; nel 300 a.C.
invece un plebiscito Ogulnio consentì ai plebei l’ingresso nelle massime
cariche sacerdotali (pontefici e àuguri).
Nel 326 a.C. per Livio, ma nel 313 a.C. secondo Varrone, una legge Petelia
abolì la servitù per debiti; la vera risposta ai bisogni della plebe arrivò però
dalle conquiste, che misero a disposizione vaste estensioni di terre, che
vennero divise e assegnate individualmente, oppure sfruttate per la creazione
di colonie.

2.9 LA CENSURA DI APPIO CLAUDIO CIECO

Un tentativo di accelerare il processo di riforma arrivò quando fu censore


Appio Claudio Cieco, nel 312-311 a.C.
Egli infatti, compilando la lista dei senatori, escluse alcuni personaggi
abbienti che non avevano rivestito alcuna magistratura; successivamente si
interessò delle tribù, con lo scopo di favorire l’elemento della plebe urbana
(che di fatto rappresentava la maggioranza).
Appio Claudio permise ai membri della plebe urbana di iscriversi ad ognuna
delle unità esistenti, mentre in precedenza essi erano obbligati a registrarsi
solo nelle quattro tribù urbane.
Entrambe le riforme caddero nel vuoto, inoltre la lista dei senatori di Appio
Claudio non venne riconosciuta dai consoli del 311 a.C.
Nel 304 a.C. infine i nuovi censori confinarono la plebe di Roma nelle quattro
tribù urbane.
Un provvedimento fondamentale arrivò nel medesimo periodo: infatti si
smise di calcolare il censo dei cittadini in base ai terreni, ma si cominciò a
calcolarlo in base al capitale mobile in metallo prezioso.
Ciò permise a chi non svolgeva le tradizionali attività agricole di veder
riconosciuta la propria reale ricchezza.
All’enturage di Appio Claudio apparteneva l’edile Cneo Flavio (ricopre
questa magistratura nel 304 a.C.), che era suo cliente e che decise di
cominciare a pubblicare le formule giuridiche da impiegare nei processi.
Al cosiddetto Ius civile flavianum si accompagnò poi la decisione, sempre ad
opera di Cneo Flavio, di pubblicare il calendario coi giorni ‘’fasti’’ (in cui era
possibile l’attività giudiziaria) e quelli ‘’nefasti’’ (in cui essa non era
possibile).
Si tratta di una decisione rivoluzionaria: fino ad allora infatti, procedimenti e
calendario erano stati gelosamente custoditi dai pontefici, che avevano così
esercitato a lungo un monopolio sulla giustizia.
Ad Appio Claudio e all’anno della sua censura vanno attribuite anche due
opere pubbliche importantissime per Roma: la costruzione del primo
acquedotto e quella della via che collegava Roma a Capua, la cosiddetta via
Appia, di importanza decisiva al tempo della seconda guerra sannitica.

2.10 LA LEGGE ORTENSIA

Già gli antichi consideravano il 287 a.C. come il punto di arrivo della lunga
lotta tra patrizi e plebei, infatti è l’anno in cui venne approvata una lex
Hortensia, giunta dopo l’ultima secessione della plebe, che stabilì il valore
vincolante per tutta la cittadinanza dei plebisciti.
Nonostante alcuni provvedimenti del genere siano rievocati già nel 449 e nel
339 a.C., gli studiosi concordano nell’affermare che solo con questa legge i
plebisciti vennero equiparati alle decisioni dei comizi centuriati/tributi.
A partire dal 287 a.C. i comizi tributi e l’assemblea della plebe dunque,
venivano accomunati da un uguale sistema di voto per tribù e da uguali
poteri, con l’unica differenza che ai concilia plebis i patrizi non potessero
partecipare (le due assemblee, dei concilia tributa e dei concilia plebis, più volte
sono confuse nelle fonti).
Le due assemblee rimanevano comunque distinte dai magistrati che avevano
il diritto di convocarle: consoli e pretori convocavano i comizi tributi; tribuni
o edili della plebe convocavano i concilia plebis.

2.11 LA NOBILITAS PATRIZIO-PLEBEA

Le leggi Licinie Sestie e le grandi conquiste del IV-III secolo a.C. conclusero
l’età del dominio dei patrizi sullo Stato.
Al posto del patriziato emerse una nuova aristocrazia, formata dalle famiglie
plebee più ricche e influenti e dalle famiglie patrizie che avevano saputo
adattarsi al meglio alla situazione.
A questo nuovo gruppo viene dato il nome di ‘’nobilitas patrizio-plebea’’:
‘’nobilitas’’ proveniva da ‘’nobilis’’, che aveva il valore di ‘’illustre, noto’’.
Il manifesto degli ideali della nobilitas è contenuto nell’elogio funebre di
Quinto Cecilio Metello, grande politico del III secolo a.C., pronunciato dal
figlio e ricordato da Plinio il Vecchio (I secolo d.C.).
Metello era stato un buon generale e un buon soldato, aveva ricoperto alte
magistrature, era stato un eccellente oratore e aveva acquisito ricchezze e
prestigio in modo onorevole.
La nobiltà patrizio-plebea si dimostrò gelosa del proprio potere tanto quanto
l’antico patriziato: di fatto l’accesso alle magistrature superiori era possibile
solo ai membri di poche famiglie.
La nobilitas divenne una componente talmente esclusiva che i pochi
personaggi capaci di raggiungere il vertice dello stato non avendo antenati
nobili vennero definiti homines novi, che comunque dovevano provenire da
famiglie facoltose.
Prima di intraprendere la carriera politica era necessario servire almeno dieci
anni nella cavalleria, reclutata nelle 18 centurie, alle quali si apparteneva con
un censo di 100.000 assi (il limite venne poi alzato a 1.000.000).
Il denaro però non era sufficiente: i nobili controllavano le assemblee tramite i
loro clienti, quindi si rivelava indispensabile ereditare le clientele paterne,
mentre per gli homines novi risultava decisivo il patronato politico di qualche
uomo di prestigio.
3) LA CONQUISTA DELL’ITALIA

3.1 LA SITUAZIONE DEL LAZIO ALLA CADUTA DELLA MONARCHIA


DI ROMA

Alla caduta della monarchia etrusca, Roma controllava una zona dell’antico
Lazio che andava dal Tevere alla regione Pontina: un’estensione raggiunta
grazie alle conquiste e alle politiche matrimoniali dei Tarquini.
Questo dato ci viene confermato già dal trattato romano-cartaginese, che
secondo Polibio risale al 509 a.C., primo anno della Repubblica.
Tra la fine del VI secolo e l’inizio del V secolo a.C. la situazione era però in
bilico: buona parte delle città latine infatti approfittarono della debolezza
momentanea di Roma per affrancarsi dalla sua egemonia.
Le città latine si riunirono nella Lega latina, i cui membri godevano di alcuni
diritti comuni (forse in ricordo di un’antica unicità etnica del mondo latino):
lo ius connubii, il diritto di contrarre matrimonio con cittadini/e di altre
comunità; lo ius commercii, il diritto di siglare contratti con valore legale
anche con cittadini di comunità diverse; lo ius migrationis, il diritto di godere
dei pieni diritti civici in una comunità diversa dalla propria.

3.2 LA BATTAGLIA DEL LAGO REGILLO E IL FOEDUS CASSIANUM

La Lega latina si impegnò subito in alcune operazioni militari: assieme ad


Aristodemo di Cuma sconfisse Arrunte (figlio di Porsenna) nella battaglia di
Arica.
Successivamente attaccò anche Roma: la guerra sarebbe scoppiata a causa di
Ottaviano Mamilio di Tusculo, che sperava di restaurare la monarchia del
Superbo (suo cognato).
Nel 496 a.C. venne combattuta la leggendaria battaglia del lago Regillo, in
cui i Romani riuscirono a sconfiggere la Lega, e dopo la quale Tarquinio si
fece definitivamente da parte: egli morì a Cuma.
La guerra si concluse con la firma di un trattato di pace e alleanza tra Roma e
la Lega nel 493 a.C., il foedus Cassianum (da Spurio Cassio, console in carica
quell’anno).
Il trattato era di fatto un accordo bilaterale: le due parti avrebbero mantenuto
la pace e avrebbero risolto amichevolmente dispute commerciali, si sarebbero
prestate aiuto in caso di attacco, si sarebbero spartite il bottino di eventuali
saccheggi, venivano riconosciuti anche ai Romani lo ius connubii/commercii/
migrationis.
Uno degli strumenti più utili tramite i quali gli alleati riuscirono a consolidare
le proprie vittorie fu la fondazione di colonie sul territorio strappato ai
nemici.
I cittadini dei nuovi centri provenivano sia da Roma, sia dalle altre comunità
latine; spesso venivano anche inglobati anche i membri delle comunità latine.
Le fonti pervenute sopravvalutano però il ruolo avuto da Roma in queste
fondazioni: si deve infatti più che altro parlare di colonie latine, dal
momento che le nuove città entravano a far parte della Lega latina.
Nel 486 a.C. Roma completò il suo sistema di alleanze stringendo un accordo
con gli Ernici, un popolo che abitava la valle del fiume Sacco, in un territorio
incuneato tra quello degli Equi e dei Volsci.
Il patto con gli Ernici prevedeva di fatto le stesse condizioni del foedus
Cassianum.

3.3 I CONFLITTI CON SABINI, EQUI E VOLSCI

L’alleanza stretta da Roma con la Lega latina e gli Ernici si rivelò decisiva per
fronteggiare l’arrivo di popolazioni provenienti dagli Appennini: i Sabini, gli
Equi e i Volsci.
La migrazione di questi popoli faceva parte di un quadro di movimenti più
ampio, che coinvolse tutta l’Italia centro-meridionale tra fine VI e inizi V
secolo a.C.
Le sedi originali di queste popolazioni non erano in grado di assicurare la
sopravvivenza di queste popolazioni, che stavano conoscendo una grossa
crescita demografica.
La soluzione a questo problema venne trovata nella migrazione sotto forma
di cammino religioso: la già ricordata ‘’primavera sacra’’, per la quale i bambini
nati in quell’anno avrebbero dovuto migrare una volta raggiunta la maggiore
età seguendo le indicazioni di un animale.
I Piceni per esempio sarebbero giunti alla costa adriatica seguendo un picchio
(‘’picus’’); altre popolazioni come i Lucani, i Bruzi (o Brettii come li
chiamavano i Greci) e gli Apuli occuparono le regioni della Puglia, della
Basilicata e della Calabria.
I Sanniti invece riuscirono ad occupare quasi tutte le vecchie città in mano
agli Etruschi o ai Greci della Campania: nacque così il popolo dei Campani.
Nel V secolo a.C. Roma, stando alle fonti, dovette confrontarsi più volte con
le popolazioni provenienti dalle montagne: in particolar modo con gli Equi e
con i Volsci.
L’esito fu spesso favorevole a Roma e ai suoi alleati, ma mai giunse ad una
svolta definitiva.
Il popolo dei Volsci giunse partendo da meridione verso la fine del VI secolo
a.C.: questa popolazione occupò tutta la pianura pontina e varie città latine
(Terracina, Circei, Anzio, Cora e Velletri: di fatto Roma perdeva il controllo
del Lazio meridionale, occupato ancora da Tarquinio il Superbo).
Nell’area dei colli Albani si inseriscono invece gli Equi, che si saldarono con i
Volsci, che dalla sponda occidentale del lago del Fucino si mossero verso le
città latine di Tivoli e Prenestene.
Gli alleati dei Romani (Latini ed Ernici) riuscirono a bloccare gli Equi ai colli
Albani, dove gli eserciti alleati ottennero una grande vittoria contro Equi e
Volsci nel 431 a.C.
Più a Nord i Sabini minacciarono direttamente Roma: si trattava di una
popolazione a cui gli stessi antichi riconobbero un ruolo importante in età
arcaica.
Il processo di integrazione fu talvolta pacifico, talvolta violento: esistevano
anche delle gens sabine, come quella dei Claudi; un Sabino, Appio Erdonio,
minacciò Roma da vicino nel 460 a.C., che si salvò solo grazie ad un esercito
di Tusculo.

3.4 IL CONFLITTO CON VEIO

Per bloccare l’avanzata delle popolazioni montanare, Roma si servì anche


degli alleati Latini ed Ernici, tuttavia essa dovette anche confrontarsi con la
potente città etrusca di Veio, posta 15km a Nord di Roma.
Il contrasto tra le due città si prolungò per tutto il V secolo a.C., durante il
quale vennero combattute tre guerre: la prima (483-474 a.C.), in cui Veio
riuscì ad occupare Fidene, sulla sponda latina del Tevere.
Roma reagì inviando un esercito di 300 uomini guidato dalla gens Fabia, che
però venne spazzato via sul fiume Cremera: un episodio chiaramente
modellato su quello dei 300 Spartani alle Termopili.
L’episodio portò all’abbandono del modo di combattere aristocratico basato
sulla cavalleria, sostituito dallo schieramento oplitico, impiegato già durante
la seconda guerra contro Veio (437-426 a.C.), in cui i Romani di Aulo
Cornelio Cosso uccisero il tiranno di Veio, Lars Tolimnio (Fidene venne
invece presa e distrutta dai Romani).
Durante la terza guerra (405-396 a.C.) il teatro fu la città di Veio, assediata dai
Romani per dieci anni: gli episodi narrati dalle fonti riguardo questo assedio
ricordano molto la vicenda troiana (l’episodio del furto della divinità di Veio,
Giunone, ricorda quello del Palladio), di cui la figura del conquistatore Marco
Furio Camillo eredita la fatalità.
Alla caduta di Veio contribuì senza dubbio il particolarismo delle città
etrusche, come Cere, che si schierarono con Roma; solo Capena e Falerii
aiutarono gli assediati.
La presa di Veio portò ad una svolta nell’espansione romana: il lungo assedio
aveva tenuto gli uomini lontani per anni dalle campagne, motivo per cui
venne introdotto uno stipendium per i soldati e un tributum per pagare le
spese di guerra; va comunque ricordato che la conquista di Veio significò
l’acquisizione di un territorio ricco e fertile.
La tassa gravava sulle diverse classi dell’ordinamento censitario a seconda
delle loro proprietà: ogni centuria doveva versare la medesima somma, una
modalità che colpiva in primo luogo i più facoltosi.
Sempre di più ormai a poteri politici corrispondevano maggiori obblighi
militari e fiscali.

3.5 L’INVASIONE GALLLICA

I risultati raggiunti dopo la conquista di Veio furono messi in pericolo dalla


calata dei Galli Senoni in Italia, che avrebbero poi occupato parte della
Romagna e delle Marche (il cosiddetto ager Gallicus).
Secondo Varrone (ma sulla vicenda persistono ancora molti dubbi) i Senoni
giunsero nel 390 a.C. in cerca di nuove terre: inizialmente saccheggiarono
Chiusi, ed in seguito giunsero a Roma dopo aver messo in rotta l’esercito
romano sul fiume Allia.
Roma, presa e saccheggiata, si liberò dei Galli solo tramite il pagamento di un
ingente riscatto al capo di questi (ricordato nelle fonti col nome di Brenno),
che scomparvero rapidamente.
Le fonti ricordano in effetti che dopo il sacco di Roma il tiranno di Siracusa
Dionisio il Vecchio reclutò i Galli per combattere i Cartaginesi.
La tradizione storiografica tentò di salvare l’onore di Roma tramite la vicenda
di Manlio Capitolino, che avrebbe resistito nella rocca del Campidoglio fino
all’arrivo di un esercito in soccorso guidato da Furio Camillo.
Sull’assedio poche notizie sono certe (gli archeologi non hanno trovato traccia
delle devastazioni operate dai Galli), così come sulla rotta dell’Allia, che più
probabilmente si tradusse in una rotta generale.

3.6 LA RIPRESA

Il disastro gallico fu un evento traumatico, ma con conseguenze meno gravi


di quanto riportano le fonti classiche, infatti Roma riprese fin dal 390 a.C. la
propria politica di espansione.
Sul lungo periodo gli effetti della conquista dei terreni di Veio si fece sentire,
nel 387 a.C. esso vennero create quattro nuove tribù; nel frattempo a Roma
venivano costruite, o rafforzate, le mura serviane sfruttando il tufo delle cave
di Grotta Oscura, sempre presso Veio.
La cinta muraria si rivelò decisiva in più occasioni, per esempio al tempo
della guerra contro Pirro e poi anche in quella contro Annibale.
Al di là di queste azioni di chiara natura strategica, l’atteggiamento di Roma
rimase offensivo: gli Equi vennero annientati, i Volsci piegati dopo una lunga
campagna, complicata soprattutto dal tradimento degli Ernici.
Nel 381 a.C. la città latina di Tusculo venne occupata da Roma: essa conservò
il proprio governo e i suoi abitanti ottennero i medesimi diritti e doveri di
quelli romani; Tusculo fu dunque il primo municipium di Roma.
Nel 358 a.C. i Volsci cedettero Pontina, gli Ernici parte del loro territori nella
valle del fiume Sacco: in entrambe le zone furono insediati cittadini romani,
creando così due nuove tribù.
Nel 354 a.C. cedettero anche Tivoli e Preneste, negli stessi anni gli Etruschi di
Tarquinia e Cere (dopo la caduta di Veio) vennero a patti con Roma, e lo
stesso fece il centro falisco di Falerii.
3.7 IL PRIMO CONFRONTO CON I SANNITI

La posizione di potere raggiunta da Roma nel Lazio meridionale trovò


espressione nel trattato concluso con i Sanniti nel 354 a.C., con cui venivano
distinti le zone di egemonia e il confine fissato al fiume Liri.
I Sanniti controllavano un’area più ampia di quella occupata dai Romani, ma
immensamente più povera: il cosiddetto territorio del Sannio si trovava
lungo la catena appenninica centro-meridionale, tra i fiumi Sangro e Ofanto.
Si trattava di un’area prevalentemente montuosa, abbastanza povera e
incapace di sostenere una forte crescita demografica.
Il Sannio era organizzato in pagi (cantoni), in cui si trovavano uno o più vici
(villaggi), che erano governati da un magistrato elettivo detto meddiss.
Più pagi formavano una tribù, detta touto, alla testa della quale si trovava un
meddiss toutiks; le quattro tribù dei Carrichi, dei Pentri, dei Caudini e degli
Irpini formavano la Lega sannitica.
La Lega era una sorta di organizzazione federale, che poteva, in caso di
guerra, nominare un comandante supremo.
Come già ricordato, nel corso del V secolo a.C. alcune popolazioni staccatesi
dai Sanniti occuparono la Campania: qui essi, influenzati da Greci ed
Etruschi, adottarono l’organizzazione politica della città-Stato.
Alcune di queste si riunirono nel IV secolo a.C. nella Lega campana, che
aveva come città principale Capua; i rapporti tra Campani e Sanniti,
nonostante l’origine comune, si fecero sempre più tesi.
Si arrivò alla guerra aperta nel 343 a.C., quando i Sanniti occuparono Teano in
Campania settentrionale, area occupata dalla popolazione osco-sabellica dei
Sidicini.
Questi si rivolsero alla Lega campana e soprattutto a Capua, che a sua volta
chiese l’aiuto di Roma, che decise di intervenire contro i Sanniti, ma solo di
fronte alla disperazione di Capua, che si consegnò a Roma tramite formale
deditio.
La prima guerra sannitica (343-341 a.C.) si risolse con la vittoria dei Romani,
che sconfissero i Sanniti a Capua, ottenendo così la più fertile area dell’Italia.
Il conflitto si fermò in quanto Roma non era in grado di portare la guerra nel
Sannio, cosa che spinse ad accettare la proposta di pace dei Sanniti, con cui
veniva rinnovato il trattato del 354 a.C. e venivano confermate le conquiste:
quella romana della Campania e quella sannita di Teano.
3.8 LA GRANDE GUERRA LATINA

L’accordo del 341 a.C. portò ad un ribaltamento delle alleanze: Roma con i
nuovi ‘’alleati’’ Sanniti si trovò a fronteggiare Latini/Campani/Sidicini/
Aurunci (posti tra Volsi e Campani) e gli odiati Volsci.
Le motivazioni erano varie: i Latini volevano affrancarsi da Roma, Campani e
Sidicini erano insoddisfatti degli esiti della prima guerra sannitica, i Volsci
volevano invece vendicarsi delle sconfitte passate e gli Aurunci non volevano
essere accerchiati dalla potenza romana.
Il conflitto (341-338 a.C.) prese il nome di grande guerra latina si risolse con
una difficoltosa vittoria dei Romani e con numerose novità territoriali.
La Lega latina venne sciolta: alcune delle sue città vennero inglobate nello
Stato romano, come municipi, mentre altre conservavano la loro autonomia
formale e gli ius tradizionali.
Alle vecchie città latine si aggiunsero delle nuove colonie latine, fondate su
iniziativa di Roma e composte sia da cittadini che da alleati.
Lo status di ‘’Latino’’ perse di fatto la sua connotazione etnica, divenendo una
condizione giuridica in rapporto con la cittadinanza romana.
I Latini vennero obbligati a fornire truppe a Roma in caso di necessità, ma
ottennero anche il diritto di voto nelle assemblee popolari di Roma nel caso in
cui si fossero trovati in città per i comizi (prima volta nel 212 a.C.).
Il nuovo status di latino è chiaramente dimostrata nel caso di Tivoli e
Preneste: nonostante gli abitanti delle due città fossero di etnia latina, essi
vennero privati di tutti gli ius, divenendo semplici socii di Roma.
Tutto ciò veniva sancito con dei trattati con cui venivano lasciate alle
comunità alleate una completa autonomia interna, legandole strettamente alla
potenza egemone in politica estera (furono obbligate anche un contingente in
caso di guerra).
I socii dovevano poi impegnarsi a mantenere a proprie spese i contingenti
delle truppe inviate: in questo modo Roma limitava le sue spese di guerra.
Al di fuori dell’antico Lazio, in particolare nelle città dei Volsci e dei
Campani, Roma arrivò a concedere una forma parziale di cittadinanza, la
cosiddetta ‘’civitas sine suffragio’’.
I titolari erano tenuti agli stessi obblighi dei cittadini romani, tuttavia non
avevano il diritto di partecipare alle assemblee popolari (conservavano
comunque ampia autonomia interna).
Ad Anzio venne invece creata una piccola colonia i cui abitanti conservarono
la piena cittadinanza romana; negli anni seguenti sorsero altre colonie come
Anzio (composte da 300 coloni), tutte destinate a sorvegliare la costa.
Alla fine della guerra dunque Roma si era impossessata di tutti i territori che
andavano dalla sponda sinistra del Tevere a Nord, fino al golfo di Napoli a
Sud, al Tirreno ad Ovest e ai territori appenninici controllati dai Sanniti ad
Est.

3.9 LA SECONDA GUERRA SANNITICA

La fondazione di colonie di diritto latino a Cales e poi a Fregelle, nel territorio


sottratto agli Aurunci (quello sulla sponda orientale del fiume Sacco), provocò
una nuova crisi coi Sanniti.
La seconda guerra sannitica (326-304 a.C.) scpppiò a causa delle divisioni
interne a Napoli, l’ultima città campana ancora libera: qui il partito
filopopolare sostenevano infatti i Sanniti, mentre quello aristocratico i
Romani (una situazione che si ripresenterà più volte anche in altre vicende).
I Romani, una volta sconfitta la guarnigione che i Sanniti avevano posto a
Napoli, tentarono di penetrare nel Sannio: nel 321 a.C. però, l’esercito romano
venne circondato al passo delle Forche Caudine, venendo costretto alla resa.
Dopo questa vicenda le operazioni militari si interruppero per qualche anno,
cosa che diede tempo ai Romani di riorganizzarsi per la perdita di Fregelle e
Cales (prese dopo il disastro del 321 a.C.).
Per avvantaggiarsi nella guerra Roma rafforzò le proprie strutture in
Campania, dove vennero create due nuove tribù, e andò poi a stringere
alleanze con le comunità dell’Apulia e della Lucania (circondando il
Sannio).
Le ostilità si riaccesero nel 316 a.C., tuttavia i Romani vennero nuovamente
sconfitti nella battaglia di Lautulae, dopo la quale i Sanniti riuscirono ad
interrompere momentaneamente le comunicazioni tra Lazio e Campania.
I Romani però continuarono in questo conflitto, una situazione a lungo
termine che la Lega sannitica non era organizzata per reggere: nel 315 a.C.
Saticula e Fregelle vennero riprese, venne ricostruita la comunicazione tra
Lazio e Campania (fu eretto anche il primo pezzo della via Appia) e venne
costruita nel 312 a.C. la colonia di Luceria nell’Apulia settentrionale: una
mossa che dava inizio all’assedio del Sannio.
I Romani procedettero poi a riorganizzare l’esercito per combattere in un
territorio montuoso: la legione venne divisa in 30 reparti detti manipoli,
ovvero l’unione di due centurie, che ora comprendevano 60 uomini (quindi
un manipolo constava di 120 uomini).
La legione era organizzata su tre linee, composte da 10 manipoli: i primi ad
affrontare il nemico erano i principes, dopo i quali vi erano hastati e triarii.
Si tratta di uno schieramento che garantì all’esercito romano maggiore
flessibilità rispetto a quello oplitico, di cui si abbandonò anche
l’equipaggiamento: vennero adottati lo scudo rettangolare e il giavellotto in
uso presso i Sanniti.
Grazie a questo nuovo inquadramento Roma riuscì a fronteggiare pericoli su
due fronti: in primo luogo a Nord dove si era formata una coalizione di Stati
etruschi, costretti alla resa già nel 308 a.C.
Successivamente i Romani invasero il Sannio, riuscendo a conquistare
Boviano e costringendo il nemico alla pace, siglata nel 304 a.C., con cui
venivano rinnovate le condizioni del 354 a.C.
Roma si concentrò poi nella zona appenninica, dove: venne occupato il
territorio degli Ernici (accusati di ribellione), vennero sterminati gli Equi
(nel loro territorio venne installata una nuova tribù di cittadini romani).
Le popolazioni minori di etnia osco-sabellica, Marsi/Peligni/Frentani/Vestini/
Marrucini (odierno Abruzzo), furono costrette a stipulare trattati di alleanza
con Roma.

3.10 LA TERZA GUERRA SANNITICA

La sconfitta del 304 a.C. non aveva piegato definitivamente i Sanniti, che nel
298 a.C. riaprirono le ostilità attaccando i Lucani alleati di Roma.
Soccorsi i Lucani, i Romani si concentrarono nel Nord, dove il comandante
supremo dei Sanniti Gellio Ignazio, aveva riportato l’esercito dopo una
marcia di centinaia di chilometri.
Egli riuscì a costituire un’immensa coalizione antiromana, all’interno della
quale vi erano anche Etruschi, Galli e Umbri (popolazione minacciata da
Roma durante le sue campagne del 311-308 a.C.).
Lo scontro decisivo fu la battaglia di Sentino (295 a.C.), nei pressi
dell’odierna Sassoferrato, dove i Romani (sostenuti da un esercito di alleati, a
riprova dell’efficacia del sistema egemonico costruito dopo la grande guerra
latina) riuscirono a sconfiggere il nemico, che non aveva potuto contare sui
contingenti umbro-etruschi.
I Sanniti vennero battuti di nuovo nella battaglia di Aquilonia (293 a.C.),
dopo la quale l’esercito romano riuscì a penetrare a fondo nel Sannio, che
venne devastato: di fronte a questo disastro i Sanniti chiesero una tregua nel
290 a.C.
A Nord i Romani sconfissero Galli ed Etruschi, che cercavano di occupare
nuovamente l’Italia centrale, nella battaglia del lago Vadimone (vicino
Bomarzo nel Lazio settentrionale) del 283 a.C.
I Romani colpirono dapprima gli Etruschi di Volsinii e Vulci (ex-alleata di
Cere), raggiungendo poi l’Etruria settentrionale e la vicina Umbria: si tratta di
operazioni militari poco note, e questo a causa della perdita della narrazione
di Livio (egli si arresta al 293 a.C.) e di Diodoro Siculo (scrive solo 302 a.C.).
Nella marcia verso l’Adriatico, già nel 290 a.C., vennero sconfitti Sabini e
Petruzzi (popolazione dell’Abruzzo settentrionale).
Nel territorio di questi venne costruita la colonia di Handria (l’odierna Atri);
agli abitanti dell’ager Praettuttiorum venne concessa la cittadinanza senza
diritto di voto, come ai Sabini.
Nell’Adriatico venne annesso anche il territorio una volta dei Senoni, il
cosiddetto ager Gallicus, dove venne fondata nel 268 a.C. la colonia latina di
Rimini, con cui Roma si affacciava sulla pianura Padana.
I Piceni, circondati per intero dai Romani, tentarono di ribaltare la situazione
con una guerra nel 269 a.C., venendo però costretti alla resa dopo pochi anni:
parte della popolazione picena venne deportata a Salerno.
La città greca di Ancona e il centro piceno di Ascoli mantennero la loro
autonomia; nella zona venne comunque creata la colonia di Fermo nel 264
a.C.
In circa trent’anni dalla battaglia di Sentino i Romani erano riusciti a
espandersi anche a settentrione, portando il confine alla linea che univa
l’Arno a Rimini.

3.11 LA GUERRA CONTRO TARANTO E PIRRO

La situazione rimaneva più fluida nel Mezzogiorno, dove i Sanniti (sebbene


in difficoltà) non erano certo sconfitti, e dove popolazioni come Lucani e
Brutti conservavano la loro indipendenza.
Vi era poi Taranto, la più potente città greca d’Italia, con cui Roma aveva
stipulato alcuni accordi (ancora oggi poco chiari): in sostanza i Romani non
avevano il diritto di superare capo Lacinio (a Sud di Crotone) ed entrare così
nel golfo di Taranto.
Nel 282 a.C. la città greca di Turi (Calabria) , minacciata dai Lucani, chiese
l’aiuto di Roma, che nelle operazioni militari successive insediò una
guarnigione in città e inviò, forse in gesto di sfida, alcune navi di fronte a
Taranto.
Di fronte a queste azioni a Taranto prevalse la fazione democratica
favorevole alla guerra con Roma: i Tarantini attaccarono dunque le navi
romane, affondandone alcune, e successivamente cacciarono la guarnigione
romana da Turi.
Dopo un deciso intervento romano, Taranto si vide costretta ad utilizzare un
espediente già sperimentato più volte in passato: chiedere soccorso ad un
condottiero della madrepatria.
Si scelse Pirro (318-272 a.C.)re dei Molossi e comandante della lega epiriota,
che diede vita ad una vera e propria propaganda che lo ritraeva come
difensore dei Greci d’Occidente, minacciati dai barbari romani e punici: in
questo modo egli ottenne l’appoggio di tutte le potenze ellenistiche.
Pirro era un generale di grande fama e di grandi ambizioni, oltre che un
grande comunicatore: egli si richiamò alla sua discendenza da Achille, per
giustificare l’attacco contro la ‘’troiana’’ Roma.
Egli era inoltre imparentato con Alessandro Magno (sua madre Olimpiade
era molossa), da cui aveva dunque ereditato il desiderio di conquistare
l’Occidente.
Pirro (scelta ovvia anche a livello geografico, l’Epiro è frontestante alla
Puglia) aveva anche sposato la figlia del re di Siracusa Agatocle, Lanassa.
Agatocle, morto nel 289 a.C., aveva costruito un potente sistema egemonico
nella Sicilia orientale e nell’Italia meridionale, tuttavia alla sua morte questa si
era sfaldata.
Nel 280 a.C. Pirro sbarcò in Italia con un esercito di 22.000 fanti, 3000
cavalieri e 20 elefanti da guerra, a cui si dovevano aggiungere le truppe
inviate da Taranto e dalle popolazioni italiche alleate.
Di fronte a questa minaccia Roma si vede costretta ad arruolare per la prima
volta i capite censi, i nullatenenti esentati fino ad allora dal servizio militare.
I Romani vennero però sconfitti nella battaglia di Eraclea (280 a.C.): oltre alla
straordinaria abilità tattica di Pirro, i Romani subirono sicuramente il
devastante effetto psicologico causato dagli elefanti.
Dopo Eraclea anche i Lucani e i Bruzi si allearono a Pirro, che
successivamente ottenne anche l’appoggio dei Sanniti; non riuscì però al
sovrano dei Molossi di suscitare la ribellione tra gli Etruschi e i Latini.
L’esercito epiriota non era assolutamente in grado di assediare Roma, troppo
grandi e forti le sue mura , motivo che spinse il suo condottiero a intavolare
proposte di pace (venne inviato il tessalo Cinea).
Pirro chiedeva la libertà e l’autonomia per le città greche d’Italia e la
restituzione a Bruzi/Sanniti/Lucani dei territori loro strappati: richieste che
Roma respinse solo grazie all’intervento del vecchio Appio Claudio Cieco.
Pirro mosse allora verso l’Apulia, minacciando le colonie latine di Lucera e
Venosa: il confronto successivo fu la battaglia di Ascoli Satriano (279 a.C.),
vicino al fiume Ofanto.
Ancora una volta fu Pirro a prevalere, tuttavia le sue perdite furono ingenti,
cosa che gli impedì di chiudere il conflitto definitivamente.
La situazione diveniva ancora più grave dal momento che il re dei Molossi
stava perdendo l’appoggio degli alleati in Italia, che ormai tolleravano a mala
pena le sue continue richieste di denaro.
Fu per questo motivo che Pirro decise di accettare le richieste d’aiuto che
provenivano da Siracusa: la città più importante della Sicilia, logorata dai
dissensi interni, non era più in grado di resistere contro i Cartaginesi.
Per Pirro la ricchissima isola, dove si sentiva legittimato di intervenire anche
in virtù del suo legame con Agatocle, era sicuramente una preda migliore.
L’epiriota si presentò in Sicilia portando avanti ancora una volta la sua
personale propaganda che lo voleva difensore della grecità d’Occidente;
tuttavia egli doveva fare ora i conti anche con il trattato d’alleanza difensiva
stipulato tra Romani e Cartaginesi nel 379 a.C.
In Sicilia Pirro sconfisse ripetutamente i Punici, che rimasero in possesso solo
dell’imprendibile fortezza di Lilibeo, che poteva essere rifornita via mare.
Ancora una volta però furono le pesanti richieste economiche, unite alla sua
personalità autoritaria, che misero Pirro nella condizione di dover rinunciare
alla possibilità d’invadere l’Africa (addirittura alcuni alleati passarono dalla
parte di Cartagine).
In Italia la situazione non era migliore: Roma aveva rioccupato le posizioni
perse, costringendo Sanniti/Bruzi/Lucani a richiamare il sovrano molosso.
Pirro, che subì numerose perdite a causa degli attacchi della flotta punica
sulla via del ritorno, non si trovava più in grado di affrontare i Romani, che
infatti lo vinsero (guidati dal console Manio Curio Dentato) nella battaglia di
Maleventum (ribattezzata successivamente Benevento) del 275 a.C.
Dopo la sconfitta Pirro decise di ritornare in patria, lasciando però una
guarnigione a Taranto: egli morì nel 272 a.C. mentre cercava di conquistare
Argo, nel Peloponneso.
Nello stesso anno i Tarantini si arresero ai Romani, divenendo così dei socii
di questi.
4) LA CONQUISTA DEL MEDITERRANEO

4.1 LA PRIMA GUERRA PUNICA

Nel 264 a.C. Roma era di fatto in possesso di quasi tutta la penisola italiana,
fino allo stretto di Messina.
Furono proprio gli interessi romani in quest’area a causare il conflitto con
l’antica alleata Cartagine.
Il tutto ebbe inizio alla morte di Agatocle, il quale aveva reclutato alcuni
mercenari italici: i Mamertini (da Mamers, nome con cui era indicato in lingua
osca il dio Marte), che alla morte del re di Siracusa si erano impadroniti di
Messina.
I Siracusani, guidati da un generale di nome Ierone, marciarono contro i
Mamertini, che vennero sconfitti e costretti a rinchiudersi a Messina.
Essi quasi casualmente si imbatterono in una flotta punica, che prestò loro
soccorso; in seguito i Cartaginesi installarono una guarnigione a Messina e
obbligarono Ierone a tornare a Siracusa, dove venne proclamato re.
Successivamente però i Mamertini si stufarono dell’ingerenza dei Cartaginesi:
si decisero così a chiedere l’intervento di Roma, dove si aprì un dibattito
sulla scelta da prendere.
Sostenere i Mamertini cozzava con la scelta di alcuni anni prima di
combattere quei mercenari campani che avevano tentato di occupare Reggio,
inoltre ciò avrebbe sicuramente portato alla guerra con i Punici.
Cartagine era un nemico molto potente: era a capo di un impero commerciale
e territoriale che andava dall’Africa alla Spagna, era ricchissima e aveva delle
potenti milizie mercenarie al suo solo, ma soprattutto aveva potenti flotte.
Non sappiamo con sicurezza se intervenendo a Messina Roma abbia infranto
una clausola dell’accordo con Cartagine: secondo lo storico greco Filino
(filocartaginese) esisteva una clausola con cui Roma si impegnava a non
entrare in Sicilia, mentre Polibio sostiene che questa clausola non esista.
Anche se Polibio rappresenta una fonte autorevole per noi, è molto probabile
che esistesse una sorta di accordo sulla distinzione di due sfere d’influenza;
la stessa Roma protestò quando delle navi cartaginesi si affacciarono nel 272
a.C. davanti a Taranto.
Roma decise infine di intervenire, come ricorda Polibio, in quanto non volle
perdere l’opportunità di impossessarsi della ricchissima Sicilia: venne così
inviato un esercito in soccorso dei Mamertini.
La Prima Guerra Punica (264-241 a.C.) si aprì con alcuni successi romani, che
riuscirono subito a liberare Messina e a costringere Ierone (inizialmente
alleato di Cartagine) a ritirarsi dal conflitto (263 a.C.).
I Romani nel 262 a.C. riuscirono anche a conquistare l’importante posizione
di Agrigento, occupata anche grazie all’aiuto di Ierone, che permise alle navi
romane di sostenere l’esercito.
Cartagine rimaneva però superiore nettamente sul mare, cosa che le
permetteva di continuare ad appoggiare i suoi eserciti: per questo motivo
Roma, aiutata dai socii navales (le città greche del Meridione, che fornirono
uomini e la maggior parte dei comandanti), costruì una flotta di
quinquireme.
Nel 260 a.C. i Romani, guidati dal console Caio Duilio, colsero una grande
vittoria sulla flotta punica nella battaglia di Milazzo.
Dopo questa vittoria i Romani pensarono di riuscire ad assestare un colpo
mortale a Cartagine: venne infatti deciso di inviare un esercito in Africa.
La spedizione iniziò nel migliore dei modi: i Romani ottennero una vittoria
navale a capo Ecnomo (ad est di Agrigento), permettendo così all’esercito di
sbarcare con facilità in Africa.
Inizialmente il console Attilio Regolo ottenne alcuni successi, ma non riuscì a
provocare la ribellione delle popolazioni africane sottomesse ai Punici né fece
accettare a queste le dure condizioni di pace che gli aveva presentato.
Regolo venne successivamente sconfitto nel 255 a.C. da un esercito guidato
dal mercenario spartano Santippo; la flotta romana venne invece distrutta
quasi per intero sulla via del ritorno.
I Cartaginesi riuscirono a mantenere le loro imprendibili posizioni di Lilibeo
e Trapani (qui tra l’altro i Punici colsero una grande vittoria nel 249 a.C.).
Nessuna delle due contendenti per qualche anno riuscì a compiere delle
mosse decisive: Roma stava riorganizzando la sua flotta, Cartagine era ormai
priva del denaro per sostenere un conflitto di questa portata.
In questo momento di relativo stallo si distinsero le efficaci azioni di disturbo
condotte da Amilcare Barca.
Roma mise infine in campo una nuova flotta di 200 quinquireme: questa, al
comando del console Caio Lutazio Catulo, ottenne la vittoria decisiva nella
battaglia delle isole Egadi (241 a.C.).
Cartagine decise infine di arrendersi e di accettare le dure condizioni di pace
presentate dai Romani (che tra l’altro avevano pagato la nuova flotta grazie
ad un prestito dei cittadini più ricchi; i soldi sarebbero stati restituiti in caso
di vittoria): sgombero della Sicilia e delle isole tra Italia e Sicilia (Lipari e le
Egadi) ed il pagamento di un indennizzo di guerra.

4.2 LA PRIMA PROVINCIA ROMANA

Dopo la prima guerra punica Roma per la prima volta entrò in possesso di un
territorio al di là della penisola italiana: la Sicilia e le isole a lei circostanti,
che vennero integrate a livello istituzionale tramite un nuovo sistema.
Se nella penisola città e popolazioni erano direttamente incorporate nello
Stato romano o legate ad esso dall’obbligo di inviare truppe, in Sicilia alle
comunità soggette a Cartagine venne imposto il pagamento di un tributo
annuale (raccolta di cerali soprattutto, la Sicilia divenne il granaio di Roma).
Agli inizi del I secolo a.C. il tributo siciliano consisteva già nel versamento di
un decimo della produzione, uno schema forse ripreso dal mondo siracusano.
L’amministrazione della giustizia, il mantenimento dell’ordine interno e la
difesa vennero affidati ad un magistrato inviato annualmente nell’isola
(forse nei primi anni era uno dei quattro questori della flotta, creati nel 267
a.C.).
Dal 227 a.C. vennero eletti due nuovi pretori, affrancati da quelli urbanus e
peregrinus: uno venne inviato in Sicilia, l’altro in Sardegna e Corsica.
Da questo momento il termine ‘’provincia’’, che in origine indicava la sfera di
competenza di un magistrato, assunse il significato di territorio soggetto
all’autorità di uno Stato romano.
In Sicilia rimasero comunque in vita degli Stati indipendenti: il regno di
Ierone e la città alleata di Messina.

4.3 TRA LE DUE GUERRE

Il periodo tra la fine della Prima Guerra Punica (241 a.C.) e lo scoppio della
Seconda (218 a.C.) vide il consolidamento delle due potenze; anche se in
realtà gli anni immediatamente successivi alla guerra furono duri per
Cartagine.
La città punica infatti non riusciva più a pagare i suoi mercenari, che si
ribellarono coinvolgendo anche alcune popolazioni africane soggette a
Cartagine.
La rivolta (241-237 a.C.) venne sedata grazie alle abilità di Amilcare Barca,
tuttavia l’intervento per recuperare Corsica e Sardegna non andò a buon fine,
in quanto i mercenari si rivolsero a Roma.
A quel punto i Cartaginesi accettarono di pagare un indennizzo pur di evitare
la guerra, mentre i Romani entravano in possesso della loro seconda
provincia: quella formata da Sardegna e Corsica (237 a.C.).
Successivamente Roma venne coinvolta più da vicino anche nelle vicende
dell’Adriatico: infatti essi intervennero contro Teuta regina degli Illiri (che
voleva rafforzare il proprio potere nella zona dopo che l’Epiro si era
indebolito alla morte di Pirro), che tormentava le città greche dell’Adriatico
(che chiesero l’aiuto di Roma).
La prima guerra illirica (229 a.C.) si risolse velocemente con la vittoria di
Roma: Teuta fu costretta ad abbandonare la reggenza in nome del figlio
minorenne, inoltre era imposto agli Illiri il divieto di navigare con più di due
navi sotto Lissus (l’odierna Lezhe nell’Albania del Nord).
Demetrio di Faro, ex collaboratore di Teuta e sostenitore dei Romani durante
la guerra, venne ricompensato con la concessione di possedimenti intorno
alla sua madrepatria.
Qualche anno dopo però Roma dovette intervenire nuovamente nella zona
proprio per combattere contro Demtrio, sostenuto dal re di Macedonia
Filippo V.
Anche la seconda guerra illirica (219 a.C.) fu un conflitto molto veloce:
Demetrio venne sconfitto (si rifugiò presso Filippo V, ponendo le basi per il
conflitto romano-macedone), mentre Faro divenne protettorato romano.
Più complessa l’acquisizione dell’Italia settentrionale, conclusasi solo nel
corso del II secolo a.C.
Roma cominciò ad interessarsi di quest’area a causa della minaccia gallica:
infatti ancora una volta un esercito gallico condusse una spedizione in
territorio romano, arrestandosi solo nel 236 a.C. alle porte di Rimini.
Nel 232 a.C. il console romano Caio Flaminio propose di distribuire ai singoli
cittadini il territorio dell’ager Gallicus: una mossa di indubbio carattere
politico-sociale, che aveva come fine quello di assicurare meglio l’area
dell’Italia centrale.
La lex Flaminia destò la preoccupazione dei Galli Boi (situati nella zona di
Bologna), che si allearono con gli Insubri (zona di Milano) e con altre tribù
provenienti dalla zona Transalpina; con i Romani si schierarono invece i Galli
Cenomani (situati nel bresciano) e i Veneti.
I Galli penetrarono in Etruria e colsero alcune vittorie, tuttavia nel 225 a.C.
vennero sconfitti nella battaglia di Talamone.
Dopo questa vittoria a Roma si comprese che l’unico modo per allontanare
definitivamente la minaccia gallica sarebbe stata proprio la conquista
dell’area padana.
La vittoria sugli Insubri nella battaglia di Casteggio (222 a.C.), colta da
Claudio Marcello, portò alla conquista del loro centro principale, Mediolanum.
Vennero poi fondate due nuove colonie, Cremona e Piacenza, che avevano
come scopo quello di consolidare la conquista: tuttavia la situazione venne
messa a soqquadro dall’invasione annibalica; solo dopo la fine della Seconda
Guerra Punica Roma consolidò la conquista dell’area padana.
Per il consolidamento del dominio romano si rivelò decisiva la costruzione
delle strade: la via Flaminia, costruita da Caio Flaminio a partire dal 220 a.C.
per collegare Roma a Rimini; la via Emilia, costruita nel 187 a.C. per collegare
Rimini a Piacenza; la via Postumia, costruita nel 148 .C. per collegare Genova
ad Aquileia.
Mentre Roma guadagnava posizioni nell’Adriatico e nell’Italia del Nord,
Cartagine completava la sua ripresa e si espandeva in Spagna a partire dagli
insediamenti fenici a Sud, tra cui Gades (l’odierna Cadice).
La conquista della Spagna potrebbe apparire un affare privato della famiglia
Barca: le operazioni furono infatti condotte esclusivamente da membri di
questa stirpe.
Il primo ad agire fu Amilcare, il secondo suo genero Asdrubale, infine il figlio
del primo Annibale; si deve comunque ricordare che i Barca agirono sempre
con il consenso del governo cartaginese (di natura oligarchica).
L’avanzata dei Barca destò l’allarme della colonia greca di Marsiglia, che
aveva numerosi interessi commerciali in Spagna (dove aveva installato degli
insediamenti commerciali), ma anche quella di Roma (alleata di Marsiglia).
Nel 226 a.C. il senato stipulò coi Punici un accordo che prevedeva, secondo la
narrazione di Polibio, che gli eserciti cartaginesi non potessero oltrepassare il
fiume Ebro (Livio sostiene invece che i Romani si impegnarono a non
superare verso Sud l’Ebro).
Un potenziale motivo di contrasto tra Roma e Cartagine era costituito
dall’alleanza stretta da Roma con la città iberica di Sagunto, posta in effetti a
Sud dell’Ebro.
4.4 LA SECONDA GUERRA PUNICA

La sconfitta del 241 a.C. e l’umiliazione subita in Sardegna/Corsica, fecero sì


che fra i Cartaginesi aumentasse il desiderio di rivincita contro i Romani,
specialmente tra i membri della famiglia Barca.
A prendere in mano l’iniziativa fu Annibale (247-183 a.C.), che cominciò a
minacciare Sagunto, che chiese l’intervento dei Romani, che inviarono delle
ambascerie a Cartagine.
La Seconda Guerra Punica (218-201 a.C.) ebbe inizio però solo con la presa di
Sagunto, dopo la quale Annibale decise di colpire Roma da vicino: la Prima
Guerra Punica era stata perduta a causa dell’immenso potenziale umano ed
economico di cui disponeva Roma grazie al dominio sull’Italia.
Essendo ormai i Cartaginesi privi di una flotta capace di opporsi a quella
romana, Annibale prese la decisione di attaccare via terra, in modo tale da
invadere l’Italia da Nord (qui sperava di ottenere l’appoggio delle
popolazioni appena sottomesse ai Romani).
Il generale cartaginese partì nella primavera del 218 a.C. alla guida di un
esercito ben addestrato: dopo aver valicato i Pirenei, Annibale riuscì ad
evitare lo scontro con l’esercito guidato dal console romano Publio Cornelio
Scipione.
Successivamente valicò le Alpi, e giunto nella pianura Padana ottenne subito
l’appoggio di Insubri e Boi: fu in quest’area che si svolse il primo scontro tra i
due eserciti, la battaglia del fiume Ticino (218 a.C.).
Successivamente Annibale sconfisse Publio Cornelio Scipione e il suo collega
Tiberio Sempronio Longo nella battaglia del fiume Trebbia (218 a.C.).
L’anno seguente avvenne invece la battaglia del lago Trasimeno (217 a.C.),
durante la quale perse la vita il console Caio Flaminio (lo stesso che anni
prima aveva distribuito i territori dell’ager Gallicus).
Dopo l’ennesima sconfitta si diffuse tra i Romani l’idea che Annibale fosse
invincibile: a farsi sostenitore di questa posizione fu anche Quinto Fabio
Massimo, che venne eletto dittatore.
Egli portò avanti una strategia di ‘’controllo e disimpegno contro il generale
cartaginese’’, troppo forte da vincere in battaglia e quindi vincibile solo
tramite una strategia di logoramento (non a caso Q. F. Massimo è ricordato
come il ‘’cunctator’’, il ‘’temporeggiatore’’.
La strategia non venne portata avanti in quanto non si voleva assistere inermi
alla devastazione dell’Italia: per questo motivo alla fine dei sei mesi di
dittatura di Q. F. Massimo si decise di passare all’offensiva.
Nel 216 a.C. Annibale riuscì ad ottenere uno straordinario successo nella
battaglia di Canne (presso Canosa in Puglia): lo scontro è ancora oggi
considerato come uno dei più grandi capolavori tattici di sempre, in cui un
esercito molto più piccolo riuscì a vicerne uno molto più grande.
Nello scontro i Romani persero un enorme numero di soldati (entrambi i
consoli, Lucio Emilio Paolo e Caio Terenzio Varrone morirono nello scontro).
Dopo lo straordinario successo Annibale conquistò Capua e ottenne
l’appoggio dei Siracusani, che avevano cambiato partito dopo la morte di
Ierone e la salita al potere di suo nipote Ieronimo (215 a.C.).
Nello stesso anno Roma venne a conoscenza di un’alleanza stipulata da
Cartagine con il Regno di Macedonia di Filippo V (consigliato da Demetrio
di Faro), che voleva eliminare il protettorato romano sulle città greche del
mar Adriatico.
In Italia Roma decise di ritornare alla politica di attesa di Q. F. Massimo, cosa
che le permise alla lunga di riguadagnare numerose posizioni nel
Mezzogiorno.
Nel 212 a.C. Taranto si alleò ai Cartaginesi, tuttavia la guarnigione romana
rimase in possesso del suo porto, cosa che impedì ai Cartaginesi di inviare ad
Annibale dei rinforzi; nel 211 a.C. intanto, i Romani riprendevano Capua.
In Sicilia invece i Romani ottennero numerosi successi: Marco Claudio
Marcello riuscì a conquistare Siracusa nel 212 a.C., mentre l’esercito punico
inviato in soccorso di questa era stato decimato da un’epidemia.
Intanto Roma cercò di gestire anche la situazione nell’Adriatico, dove era
attiva solo una piccola flotta di 50 navi, che non erano abbastanza per
assicurare un reale controllo dell’area.
Temendo una possibile invasione macedone dell’Italia (in realtà poco
probabile), i Romani decisero di creare in Grecia una coalizione
antimacedone, di cui faceva parte anche la Lega Etolica.
La prima guerra macedonica (214-205 a.C.) si concluse con la pace di Fenice
(la località epiriota in cui venne stipulato l’accordo) che lasciava immutato lo
status quo.
La svolta arrivò grazie ai successi in Spagna: dopo la sconfitta sul Trebbia,
Publio Cornelio Scipione si mosse in Spagna assieme al fratello Cneo.
Qui essi cercarono di impedire che giungessero rinforzi ad Annibale; essi
vennero però sconfitti dai Cartaginesi nel 211 a.C.
La svolta arrivò quando a prendere il comando dell’esercito fu il figlio
omonimo di Publio Cornelio Scipione, che in realtà non aveva titolo per
comandare l’esercito (egli era stato solo edile), ma venne scelto per condurre
le operazioni in Spagna da un’assemblea popolare.
Nel 209 a.C. Scipione riuscì ad impadronirsi di Carthago Nova, il principale
centro punico in Spagna; nel 208 a.C. riuscì anche a sconfiggere Asdrubale
(fratello di Annibale) presso Baecula.
Scipione non riuscì ad evitare che Asdrubale raggiungesse l’Italia (replicò lo
stesso percorso di Annibale), tuttavia egli venne sconfitto e ucciso dai consoli
Marco Silvio Salinatore e Caio Claudio Nerone nella battaglia del fiume
Metaponto (207 a.C.).
Mentre Annibale si ritirava nel Bruzio, Scipione sconfisse definitivamente gli
eserciti cartaginesi in Spagna nella battaglia di Ilipa del 206 a.C.
Scipione, eletto console nel 205 a.C., e l’anno successivo sbarcò in Africa
ottenendo subito l’alleanza di Massinissa re dei Massili, una popolazione
soggetta a Cartagine.
Sempre nel 204 a.C. Scipione e Massinissa ottennero un’importante vittoria
nella battaglia dei Campi Magni (pianura a 130km da Cartagine).
Le trattative di pace vennero meno di fronte alla dure richieste di Scipione,
che voleva disfarsi definitivamente della minaccia punica: si arrivò così alla
battaglia di Zama (202 a.C.), dove Scipione e Massinissa riuscirono a
sconfiggere Annibale (rientrato dall’Italia) nonostante quest’ultimo avesse
ancora una volta dato prova del suo genio tattico.
Il trattato di pace del 201 a.C. prevedeva la consegna di tutta la flotta
cartaginese eccetto 10 navi, il pagamento di una fortissima indennità, la
rinuncia a tutti i possedimenti al di fuori dell’Africa (in Spagna in particolare)
e a riconoscere il potere del regno numidico di Massinissa (che diveniva il
braccio armato di Roma in Africa).

4.5 LA SECONDA GUERRA MACEDONICA

Subito dopo il conflitto annibalico, Roma si impegnò in una nuova guerra di


grandi proporzioni contro Filippo V di Macedonia, già sconfitto alcuni anni
prima tramite la formazione di una grande lega antimacedone.
Con la guerra successiva, Roma entrò definitivamente nel complesso mondo
politico dell’Oriente ellenistico.
Si arrivò alla guerra in primo luogo a causa delle frizioni tra Macedoni,
Regno di Pergamo e Rodi: le tensioni portarono alla guerra aperta nel 201 a.C.
Inizialmente la flotta di Rodi ottenne una vittoria in una battaglia vicino a
Chio, tuttavia Filippo V riuscì a sconfiggere i Rodi vicino a Lade.
Dopo aver compreso che da soli non avrebbero mai avuto meglio dei
Macedoni (tra l’altro alleatisi con Antioco III re di Siria), e una volta compreso
che l’Egitto non sarebbe intervenuto in loro soccorso, gli alleati chiesero
l’aiuto di Roma, con cui il re di Pergamo Attalo I aveva buone relazioni.
A Roma si dibatté a lungo sulla possibilità di entrare in guerra, ma alla fine a
prevalere fu la posizione della nobiltà romana, desiderosa di trovare gloria e
ricchezze in Oriente.
La paura di un’invasione macedone era in effetti poco probabile, mentre
molto forte era il risentimento nei confronti di un sovrano che si era alleato
con Annibale nel momento più duro della storia di Roma.
I Romani decisero di inviare un ultimatum a Filippo V, che ovviamente ignorò
le richieste dei Romani, che chiedevano il pagamento delle riparazioni di
guerra e la promessa di non attaccare i Greci: in questo modo Roma si
presentava come protettrice della libertà dei Greci.
Questo modo di agire fornì a Roma diversi alleati, tra cui Atene, che sebbene
disarmata e ininfluente politicamente, restava la città più prestigiosa della
Grecia.
Nel 200 a.C. l’esercito romano sbarcò nella città alleata di Apollonia, dando
inizio alla seconda guerra macedonica (200-197 a.C.): i primi due anni di
guerra trascorsero senza che nessuno dei due schieramenti si impegnasse in
operazioni consistenti; Roma riuscì comunque ad assicurarsi l’alleanza della
Lega Etolica.
Nel 198 a.C. il console Tito Quinzio Flaminino si mosse verso il territorio di
Filippo, costringendolo ad abbandonare le sue fortificazioni sul fiume Aoo,
che avevano sbarrato la strada per la Macedonia fino ad allora.
Flaminino chiese poi a Filippo di liberare la Tessaglia (che era sotto il
dominio macedone dal tempo di Filippo II): una richiesta ovviamente
respinta, ma che procurò ulteriori alleati ai Romani, visti sempre più come
‘’liberatori’’ (anche la Lega Achea, il principale organismo politico del
Peloponneso e tradizionale alleato dei Macedoni, si alleò con Roma).
A Filippo V rimasero solo alcuni presidi: Demetriade in Tessaglia, Calcide,
l’Eubea, l’Acrocorinto (la collina sovrastante Corinto).
Alla fine del 198 a.C. Filippo chiese di intavolare trattative diplomatiche,
interrotte da Flaminino e dai suoi alleati politici in senato (si era infatti saputo
che al console era stato prolungato il comando per il 197 a.C.).
Si arrivò così alla risolutiva battaglia di Cinocefale (197 a.C.), dove l’esercito
di Filippo V venne distrutto.
Il re acconsentì dunque alle condizioni di pace, che prevedevano: il ritiro
delle guarnigioni in Grecia, il pagamento di un’indennità e la consegna della
flotta tranne cinque navi.
Filippo conservò, con sommo dispiacere degli Etoli, il proprio regno; la
Grecia venne infine liberata dall’egemonia macedone.
La posizione di Roma venne chiarita durante i Giochi Istmici del 196 a.C.,
durante i quali Flaminino proclamò l’autonomia e la libertà della Grecia
(nessuna guarnigione veniva lasciata, nessun obbligo imposto).
Roma dunque non voleva prendersi la responsabilità di governo in Grecia,
quindi come annunciato nei Giochi Istimici, l’esercito romano lasciò la Grecia
(194 a.C.).

4.6 LA GUERRA SIRIACA

Negli stessi anni in cui Flaminio otteneva la vittoria su Filippo V, venivano


portate avanti le prime trattative diplomatiche con Antico III il ‘’Grande’’ re
di Siria (241-187 a.C.).
Antioco III, approfittando della sconfitta di Filippo V e delle difficoltà degli
Egiziani, riuscì ad estendere la sua egemonia sulle città greche dell’Asia
Minore, andando poi ad attraversare l’Ellesponto col fine di reclamare per se’
la Tracia, che il fondatore della stirpe ‘’seleucide’’ (Seleuco I ‘’νικατορ’’)
aveva conquistato al tempo delle guerre tra i diadochi di Alessandro Magno.
Le città greche dell’Asia Minore chiesero allora l’aiuto di Roma, che inviò ad
Antioco un’ambasceria col fine di dissuaderlo all’intraprendere qualsiasi
iniziativa in Europa.
Il re di Siria ovviamente rifiutò le richieste del senato, che assicurò comunque
di non avere alcuna intenzione ostile contro Roma.
Nel frattempo in Grecia si era acuita la propaganda antiromana, sostenuta in
primo luogo dai vecchi alleati etoli, che ormai indicavano i Romani come dei
‘’nuovi padroni’’, non dei liberatori.
Nonostante queste premesse (a cui va aggiunto il fatto che Annibale aveva
trovato rifugio presso Antioco), il senato confermò la decisione di Flaminino
di rispettare l’impegno preso durante i Giochi Istimci: l’esercito, che aveva
anche condotto un campagna contro la riottosa Sparta, venne dunque
riportato a casa.
Antioco III, invitato dagli Etoli, entrò infine con un modesto esercito in Greci
nel 192 a.C. (i Romani non avevano ascoltato il consiglio di Scipione
l’Africano, che aveva consigliato di lasciare una guarnigione), dove raccolse
l’appoggio della sola Lega Etolica, ormai nemica dei ‘’falsi liberatori’’ romani.
Passata Demetriade (Tessaglia), Antioco venne subito sconfitto dai Romani
nella battaglia delle Termopili (191 a.C.), dopo la quale fu costretto a ritirarsi
in Asia Minore.
Roma però non si fece scoraggiare dalle distanze: si decise di colpire Antioco
nel suo regno, così fu inviato in Asia il console Lucio Cornelio Scipione,
accompagnato da suo fratello l’Africano.
Potendo contare sull’appoggio degli alleati Pergamo/Rodi e ora anche sul
leale contributo di Filippo V di Macedonia, l’esercito romano riuscì a
sconfiggere quello molto più numeroso di Antioco III nella battaglia di
Magnesia (190 a.C.).
Antico si vide dunque costretto a richiedere la pace, che venne firmata ad
Apamea nel 188 a.C. e che prevedeva delle dure condizioni: distruzione della
flotta eccetto 10 navi, consegna di alcuni nemici di Roma (come Annibale, che
però fuggì e si suicidò qualche anno dopo in Bitinia), pagamento di una
grande indennità e sgombramento dei territori ad Est della catena del Tauro.
I territori sottratti ad Antioco III vennero spartiti tra Eumene II re di
Pergamo, a cui andarono le zone a Nord del fiume Meandro, e tra Rodi, a cui
andarono le zone a Sud del Meandro; le città greche alleate di Roma
ottennero invece l’autonomia.

4.7 LE TRASFORMAZIONI POLITICHE E SOCIALI

Le conquiste giunte con le guerre del III e del II secolo a.C. allargarono gli
orizzonti di Roma, cosa che portò ad un cambiamento dell’assetto politico
interno, come dimostrano alcune vicende.
Una è senza dubbio il ‘’processo degli Scipioni’’, che dimostra quanto la
competizione politica avesse acuito i contrasti nella classe dirigente.
Nel 187 a.C. i tribuni della plebe accusarono Lucio Cornelio Scipione,
vincitore di Antioco III, di aver tenuto per se’ la maggior parte dell’indennità
pagata dal sovrano siriaco.
Nonostante l’intervento dell’Africano, fu solo il veto di un tribuno della plebe
nel 184 a.C. che permise a Lucio di non essere condannato al pagamento di
una pesante multa.
L’attacco venne però rinnovato nel 183 a.C., stavolta però contro l’Africano,
accusato di aver condotto trattative personali con Antioco: il grande generale
si difese ricordando il suo merito, ma successivamente decise di ritirarsi a vita
privata a Literno (Campania del Nord), dove morì l’anno seguente.
Il processo contro l’Africano era stato condotto da una figura politica
emergente, Marco Porcio Catone, che colpendo l’Africano voleva eliminare
l’individualismo che rischiava di mettere in crisi il sistema della gestione
politica collettiva della nobilitas.
Nel 180 a.C. venne poi emanata la lex Villia, che introdusse un obbligo di età
minima per rivestire le diverse magistrature e un intervallo di un biennio tra
una carica e un’altra; un evidente tentativo di regolare la sempre più violenta
competizione politica.
Nei medesimi anni si diffuse in Italia il culto del dio Bacco, originario della
Magna Grecia: un segno di tensione religiosa e sociale (i seguaci di Bacco
provenivano da classi sociali inferiori).
La reazione a questo movimento fu il Senatus consultum de Bacchanalibus
del 186 a.C., con cui si decise di stroncare in ogni modo i Baccanali, anche a
costo di calpestare l’autonomia giurisdizionale.
Per tutta l’Italia si fece pulizia di sacerdoti e adepti al culto di Bacco, visti
come pericolosi non perché praticanti di riti orgiastici e crimini vari, ma
perché membri di sette con un’organizzazione interna: dei potenziali ‘’Stati
nello Stato’’.

4.8 LA TERZA GUERRA MACEDONICA

La pace di Apamea aveva escluso dallo scacchiere egeo il Regno di Siria, ma


allo stesso tempo aveva frustrato le ambizioni di Filippo V (alleato di Roma
durante la guerra contro Antioco) di espandersi verso le coste della Tracia.
Ad ottenere dei vantaggi fu Eumene II di Pergamo, nemico dei Macedoni e
braccio armato di Roma in Asia Minore; Filippo V fu costretto ad accettare la
beffa, ed inviò a Roma suo figlio Demetrio, orientato su posizioni filoromane.
Negli anni seguenti al 188 a.C. la situazione si fece più complicate: il senato
riceveva continuamente ambascerie dalla principali città greche riguardanti le
varie dispute.
Seguendo il consiglio di un membro influente della Lega Achea, Callicrate,
Roma decise di sostenere i partiti aristocratici delle varie città, alienandosi
così le fazioni democratico-popolari, tra cui crebbero sentimenti nazionalisti e
filomacedoni (di cui avrebbe potuto approfittare Filippo V, che secondo
Polibio meditava vendetta).
Nel 179 a.C. morì Filippo V, a cui succedette il secondogenito Perseo, che si
era sbarazzato del fratello Demetrio: al nuovo re di Macedonia cominciarono
ad appoggiarsi i vari partiti democratico-nazionalisti.
Questa situazione creò ovviamente tensioni con Roma, che ogni giorno
riceveva delle motivazioni (spesso false o inventate) per entrare in guerra
contro Perseo.
Il momento di svolta arrivò nel 172 a.C., quando Eumene II di Pergamo
elencò in senato una serie di accuse (molte inventate) contro Perseo.
Dopo che i tentativi di trovare un accordo fallirono, Roma attivò il proprio
esercito nel 171 a.C.: nei primi anni però i comandanti di Roma si distinsero
più per i saccheggi e le devastazioni che per le vittorie, mentre le fazioni
democratico-nazionaliste esultavano per ogni successo di Perseo, che era
sostenuto dal re d’Illiria Genzio.
Dopo aver velocemente sconfitto Genzio nel 168 a.C., Perseo fu costretto ad
incontrare sul campo di battaglia l’esercito romano guidato dal console Lucio
Emilio Paolo, che distrusse l’esercito macedone nella battaglia di Pidna (168
a.C.), con cui si concludeva la vicenda della terza guerra macedonica (171-168
a.C.).
Perseo venne deportato in Italia, mentre la Macedonia venne divisa in quattro
repubbliche autonome che non potevano intrattenere alcun rapporto tra di
loro: erano proibiti i matrimoni tra due persone di Stati diversi, non era
concesso avere terre/case in due Stati; a ciò si aggiungeva il fatto che solo tre
repubbliche su quattro potessero avere delle modeste forze armate.
Venne imposto un tributo da versare a Roma, venne proibito di sfruttare il
legname per costruire navi e venne impedito lo sfruttamento delle miniere di
oro e argento.
L’Illiria venne invece divisa in tre Stati, anch’essi tributari a Roma; negli altri
Stati greci Roma non diede prova della moderazione usata nelle vicende
passate: la Lega Achea fu costretta a consegnare 1000 personaggi di lealtà
sospetta, che vennero deportati in Italia (tra di esse vi era Polibio, allora
ipparco della Lega).
I Molossi, schieratisi con Perseo, vennero duramente puniti: il loro territorio
fu devastato e decine di migliaia di abitanti subirono la riduzione in
schiavitù.
Rodi, che inizialmente si era schierata con Perseo, venne risparmiata solo
perché infine si schierò con Roma: essa però venne privata della Caria e della
Cilicia (acquisite dopo la guerra contro Antioco III) e il suo dominio
commerciale conobbe la fine dopo l’istituzione da parte di Roma di un porto
franco sull’isola di Delo.
4.9 LA QUARTA GUERRA MACEDONICA E LA GUERRA ACAICA

Dopo pochi anni divenne chiaro che la sistemazione data alla Grecia non
sarebbe durata a lungo: i rapporti con la Lega Achea erano divenuti gelidi
dopo la morte di Callicrate, la deportazione dei 1000 ostaggi e i tentativi di
Sparta di staccarsi dalla Lega.
A ciò si aggiunse una rivolta in Macedonia: qui un tale Andrisco, forse un
figlio di Perseo, riuscì a sconfiggere le deboli milizie delle repubbliche e a
ricostruire l’unità macedone sotto la bandiera della monarchia.
Andrisco, salito al trono col nome di Filippo VI, venne poi sconfitto nella
battaglia di Cinoscefale (148 a.C.) dal pretore Quinto Cecilio Metello.
Con la fine della quarta guerra macedonica (150-148 a.C.), il senato si decise
ad occuparsi anche della Lega Achea, a cui ordinò di espellere le importanti
città di Argo e Corinto (oltre a Sparta).
Di fronte a questa richiesta, che di fatto avrebbe significato il suo
scioglimento, nella Lega prevalse la componente nazionalistica, che decise di
dichiarare guerra a Roma.
Gli eserciti della Lega non riuscirono però ad impedire l’invasione del
Peloponneso da parte di Metello (vincitore di Andrisco); successivamente il
comando passò al console Lucio Mummio, che nel 146 a.C. sconfisse l’ultimo
esercito acheo e distrusse Corinto, la più importante città della Lega.
La Macedonia venne ridotta a provincia romana: il suo governatore sarebbe
potuto intervenire per risolvere le questioni della Grecia, dove vennero sciolte
tutte le leghe e imposti regimi aristocratici fedeli a Roma.

4.10 LA TERZA GUERRA PUNICA

Dopo la fine della guerra annibalica, Cartagine si era ripresa con grande
rapidità dal punto di vista economico: il pagamento dovuto a Roma venne
consegnato prima del previsto e vennero continuamente fornite grande
quantità di grano.
Dal punto di vista politico Cartagine era stato ugualmente impeccabile: nel
196 a.C. Annibale venne eletto sufeta (i sufeti erano la massima magistratura
cartaginese, erano due) e cercò di dotare la città di una costituzione più
democratica.
Roma però inviò a Cartagine un’ambasceria che accusò il grande generale di
preparare un’alleanza con Antioco III; Annibale fu costretto a fuggire verso
Oriente.
Un elemento di disturbo alla ripresa cartaginese era però rappresentato dalle
dispute con la Numidia di Massinissa: il re numida infatti avanzò pretese
sui territori appartenenti ai Punici (metà del II secolo a.C.).
Cartagine chiese l’intervento di Roma, che tuttavia decise di non intervenire
per sedare le dispute; per questo motivo, dopo che il sovrano numida si era
impossessato di alcune delle più ricche terre puniche, Cartagine inviò un
esercito contro di lui (151 a.C.), contravvenendo ad una delle condizioni
della pace (la città poteva dichiarare guerra solo con il consenso di Roma).
L’esercito cartaginese, privo di un reale addestramento, venne distrutto: si
aprì così a Roma una stagione di dibattito sul futuro di Cartagine.
Alla fine prevalse un’implicabile determinazione di distruggere la città, che
però non poteva più rappresentare una minacci (anche se nella decisione
ebbe un ruolo decisivo proprio un’irrazionale paura di Cartagine); inoltre era
chiaro che chiunque avesse conquistato la città avrebbe ottenuto un immenso
bottino e una gloria imperitura (oltre ad un territorio fertilissimo).
Nel 149 a.C. un grande esercito entrò in Africa dando inizio alla Terza Guerra
Punica (149-146 a.C.).
Inizialmente Roma chiese ai Cartaginesi di abbandonare la città e trasferirsi a
10 miglia dalla costa, ma di fronte al rifiuto di questi ebbe inizio un lungo e
complesso assedio.
Alla fine fu Publio Scipione Emiliano, figlio di Lucio Emilio Paolo (vincitore
a Pidna) e membro adottivo della famiglia degli Scipione, ad entrare in città:
Cartagine venne rasa al suolo, la sua popolazione ridotta in schiavitù e il suo
territorio (limitato alla Tunisia Nord-occidentale) venne trasformato nella
provincia d’Africa.

4.11 LA SPAGNA

Polibio conclude la sua opera storica al 146 a.C., quando Roma, una volta
distrutte Corinto e Cartagine, ottenne l’egemonia assoluta nel Mediterraneo.
Pur avendo distrutto i Punici e ridotto all’obbedienza il mondo ellenistico,
Roma non era riuscita a venire a capo della situazione in Spagna (in effetti
la penisola verrà occupata definitivamente solo al tempo di Augusto).
Al termine della Seconda Guerra Punica i Romani avevano sotto il loro
controllo la zona Sud, quella intorno alla città di Gades, e la zona costiera a
Nord dell’Ebro.
Nel 197 a.C. vennero create le due provincie di Spagna Ulteriore e Citeriore,
governate da due nuovi pretori appositamente eletti; le comunità soggette a
Roma furono obbligate al pagamento di uno stipendium e a fornire truppe.
La penetrazione verso l’interno fu lunga e complessa, in primo luogo a causa
della tenace resistenza delle popolazioni celtibere, su tutte quella dei
Lusitani, guidata dall’astuto Viriato, affrontato tra il 149-137 a.C.
La situazione era così complessa che Roma era obbligata a lasciare in Spagna
dei forti eserciti, composti da uomini tra cui però serpeggiava il malcontento
per una guerra ‘’sporca’’ e senza gloria.
Le tensioni portarono addirittura ad una protesta contro la leva, che spinse i
magistrati locali a misure molto severe: per questo motivo venne creato nel
149 a.C. un tribunale incaricato di giudicare il reato di concussione, la
quaestio perpetua de repetundis, che però si occupava anche di casi di abuso
di potere dei governatori provinciali.
La condotta romana in Spagna è esemplificata dal comportamento di due
diversi personaggi: il primo è il grande Marco Porcio Catone, inviato nella
Spagna Citeriore nel 195 a.C.
Egli riuscì a sottomettere le popolazioni della valle dell’Ebro, tuttavia i suoi
successi furono di fatto effimeri, in quanto Roma fu costretta ad inviare
numerose truppe nell’area.
L’altro personaggio è Tiberio Sempronio Gracco, padre del futuro tribuno
della plebe a lui omonimo e governatore della Citeriore tra il 180 e il 178 a.C.
Egli si comportò in maniera conciliante con le popolazioni locali, cercando
di rimuovere i motivi d’astio verso Roma: la sua strategia portò ad alcuni
trattati di pace che permisero a Roma di respirare per qualche anno.
Alla sconfitta di Viriato seguì la guerra contro la città celtibera di Numanzia,
situata a nord di Soria nella Spagna settentrionale.
Nel 137 a.C. il console romano Caio Ostilio Mancino venne sconfitto dai
Numantini, che lo obbligarono a firmare una pace umiliante per Roma, che
ovviamente il senato non riconobbe.
Venne allora inviato in Spagna Scipione Emiliano, console di nuovo nel 134
a.C. grazie ad una deroga: il vincitore di Cartagine riuscì a distruggere
Numanzia nel 133 a.C.
Questa vendetta non cancellò però tra alcuni soldati il ricordo del crollo
dell’esercito romano: uno su tutti Tiberio Sempronio Gracco (figlio del
vecchio governatore della Citeriore), questore di Ostilio Mancino e in seguito
tribuno della plebe.

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