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LA CONQUISTA DELL’ITALIA
753-272 a.C.
LA STORIA
L’ETA’ MONARCHICA
La tradizione dei sette re rappresenta l’istituto della monarchia nei primi due secoli di Roma, rispecchiando, in particolare
nell’alternanza di re dalle origini differenti, le strette relazioni con i popoli limitrofi.
1. Romolo: istituzione del senato, divisione del popolo in tribù e curie, comitia curiata, ratto delle sabine.
2. Numa Pompilio: organizzazione religione e culto, invenzione del calendario
3. Tullo Ostilio: re bellicoso, conquista di popoli e terre
4. Anco Marzio: fondatore di Ostia sbocco sul mare
5. Tarquinio Prisco: primo re etrusco Cloaca Maxima, tempio di Giove Capitolino
6. Servio Tullio: riforma istituzionale ordinamento in centurie, basato sul censo: popolazione divisa in 5 classi.
7. Tarquinio il Superbo: terzo re etrusco, la cui cacciata segna la fine della monarchia.
La fine della monarchia è descritta con i toni celebrativi della liberazione dalla tirannide: la cacciata dei Tarquini avrebbe
avuto origine dalla rivolta sorta dopo la violenza arrecata dal figlio di Tarquinio il superbo a Lucrezia, moglie di Collatino,
uno dei nobili romani più in vista. In realtà la fine della monarchia si inquadra nella crisi della potenza Etrusca, di cui
l’aristocrazia romana approfittò per liberarsi di un’istituzione ormai inadatta. Il declino etrusco fu segnato dalla battaglia di
Ariccia (524 a.C.) in cui i Latini, forti dell’alleanza con Cuma, sbaragliarono gli Etruschi a Chiusi. In un tentativo di riscossa,
Porsenna, lucumone di Chiusi cinse d’assedio Roma per riportarvi il dominio dei Tarquini; la città evitò la restaurazione
della monarchia a patto di durissime condizioni di pace.
Inglobato il territorio dei Volsci Roma era venuta a contatto diretto con i Sanniti, con i quali strinse un trattato di pace nel
354, pace che inevitabilmente si ruppe a partire dal 343 a.C. Solo nel 290 i Sanniti, dopo 3 sanguinose battaglie entrarono
a far parte dell’alleanza romana: Roma dominava su tutta l’Italia centrale.
Dopo la vittoria sui Sanniti la città mutò politica estera: nel 282 Roma inviò una flotta di dieci navi nelle acque antistanti il
porto di Taranto, violando gli accordi del trattato stipulato nel 302. I Tarentini chiamarono in Italia Pirro, re dell’Epiro, che
riportò una prima vittoria schiacciante ad Eraclea (280) e una seconda ad Ascoli, ma fu poi sconfitto definitivamente a
Benevento nel 275. Nel 272 Taranto si arrese ai Romani e i territori delle popolazioni passate a Pirro furono confiscate
presidiate da colonie.
LA SOCIETA’ E LA CULTURA
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L’ETA’ ARCAICA E REPUBBLICANA
Il sistema delle cariche statali però era appannaggio esclusivo delle gentes, potenti gruppi familiari che formavano la casta
di governo.
I gruppi sociali esclusi dall’oligarchia gentilizia dettero vita ad un’aspra battaglia per i diritti giuridici e politici. La protesta
assunse la forma delle secessioni sull’Aventino e sul Monte Sacro: la prima, del 494, vide i plebei organizzarsi in assemblea
e nominare come propri rappresentanti due tribuni della plebe. La prima conquista del movimento plebeo fu la
codificazione scritta della legge: nel 451 fu istituito da Appio Claudio un collegio di decemviri che stilarono un codice di
leggi inciso su dieci tavole; il decemvirato fu rinnovato nel 450 con l’introduzione di cinque membri plebei e l’aggiunta di
due tavole.
Nel 367 furono approvate le leggi Licinie-Sestie, che aprirono ai plebei l’accesso al consolato, nel 300 la legge Ogulnia, che
permetteva loro di entrare a far parte dei collegi religiosi e dal 287, con la legge Ortensia, si riconobbe pieno valore legale
alle deliberazioni dei comizi tributi.
LE ORIGINI
I fasti sono calendari pubblici, pubblicati di anno in anno dai pontefici che stabilivano e divulgavano
pubblicamente i giorni fasti e nefasti; questi si arricchirono poi di altre informazioni: liste dei magistrati, trionfi
militari ecc.
La tabula dealbata è invece letteralmente una tavola bianca, che dichiarava, oltre i nomi dei magistrati, anche
avvenimenti di pubblica rilevanza, come date di trattati, dichiarazioni di guerra, fatti prodigiosi o catastrofi
naturali.
Queste informazioni, depositandosi anno per anno danno vita ad una vera e propria memoria collettiva dello
stato romano, gli annales, che non solo costituirono un documento cui attingere informazioni ma gettarono
altresì le basi di un modello storiografico nuovo, proprio esclusivamente del mondo latino.
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L’ETA’ ARCAICA E REPUBBLICANA
Per quanto riguarda invece le forme poetiche più leggere e gaudienti, di stampo nettamente popolare, ricordiamo in
particolare i carmina triumphalia, canti in cui alle lodi del vincitore si mescolavano scherni e derisione e i versi fescennini,
canti improvvisati in occasione di feste rurali e nuziali o diffamazioni caratterizzati da motteggi e lazzi, forse con
l’intenzione di allontanare il malocchio.
Lo sviluppo successivo di una palliata e di una cothurnata di ambientazione romana porta sulle scene la commedia togata,
in cui la toga si sostituiva al pallio e la tragedia praetexta, che deve l’appellativo all’abbigliamento tipico dei magistrati.
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L’ETA’ ARCAICA E REPUBBLICANA
Gli oneri finanziari della messa in scena erano a carico dello stato, rappresentato da magistrati organizzatori, che
dovevano trattare con il dominus gregis, o capo-comico, che dirigeva la compagnia e ne era l’impresario.
Inizialmente le strutture erano temporanee, probabilmente di legno: il primo teatro di pietra fu edificato infatti soltanto
nel 55 a.C.
L’azione si svolgeva sempre in esterni, di fronte a due o tre case, collocate in una strada che portava per convenzione da
un lato al centro della città e dall’altro fuori dallo spazio urbano.
Un aspetto fondamentale della messa in scena era costituito dal ricorso a maschere, uso attestato a partire dalla metà del
II secolo a.C.. Le maschere, fisse per determinati tipi di personaggi erano funzionali alla rappresentazione sia perché
permettevano all’autore di lavorare solo su tipi piscologici stereotipati e generici, rivolgendo tutta l’attenzione alla
comicità verbale, sia perché il pubblico più facilmente riusciva a concentrarsi sulla scena, sia perché era in questo modo
possibile eseguire scene in cui contemporaneamente dialogavano più personaggi con un numero minore di attori, che
cambiavano maschera all’evenienza.
Gli attori non erano mai uomini nati liberi, per questo la professione recava il marchio di infamia; nemmeno gli autori
erano considerati poeti o scrittori a pieno titolo, ma semplicemente scrivani. Un passo importante verso il riconoscimento
di entrambe le professioni fu la nascita nel 207 a.C. della confraternita degli autori e degli attori, il collegium scribarum
histrionumque.
I committenti delle opere teatrali si identificano con le autorità: la natura della committenza spiega, nel caso della tragedia
di argomento storico, la scelta di determinati argomenti, volti spesso ad esaltare imprese eroiche alludenti ad importanti
nobili romani, nel caso della commedia la scelta di non fare riferimento all’attualità politica.
La palliata è la forma scenica di cui abbiamo più informazioni, grazie soprattutto alle commedie pervenuteci di Plauto e in
misura minore di Terenzio. Sappiamo perciò che le commedie erano divise in atti e composte di parti cantate, recitative e
recitate, costituite da una grande varietà di metri.
La cothurnata latina, rispetto al modello presenta come più importante elemento di differenziazione la soppressione del
coro, che nel teatro greco aveva funzione di commento all’azione drammatica. La tragedia latina è caratterizzata da uno
stile uniforme, nettamente opposto alla lingua quotidiana e da una composizione metrica particolarmente ricca.
L’atellana è un genere teatrale popolare accostato all’attuale Commedia dell’Arte; il nome viene dalla città di Atella, nella
zona della Campania di cultura osca. Questi spettacoli non richiedevano né autori né attori professionisti e si basavano su
canovacci rudimentali, che comportavano maschere fisse ricorrenti.
LIVIO ANDRONICO
La vita
Livio Andronico era un greco originario della colonia di Taranto che giunse a Roma nel 272 a.C., alla fine della guerra tra
Roma e Taranto, probabilmente al seguito di Livio Salinatore, dal quale assunse il prenomen. A Roma esercitò la
professione di grammatico e nonostante sia per lo più ricordato per aver scritto e messo in scena la prima opera teatrale
latina, la sua opera principale fu sicuramente l’Odusia, traduzione in saturni dell’Odissea.
L’autore era conosciuto ed apprezzato dai contemporanei al punto che gli venne commissionata la stesura di un partenio
in onore di Giunone, destinato all’esecuzione in pubblico nel corso di cerimonie religiose.
Oltre ad essere l’iniziatore della palliata latina si dedica anche alla composizione di diverse tragedie legate al ciclo troiano,
delle quali però abbiamo solo pochi frammenti.
Le opere: Odusia
L’operazione di traduzione di Livio ebbe finalità letterarie ma soprattutto più genericamente culturali; sebbene l’élite
aristocratica romana fosse ben in grado di leggere Omero l’Odusia ebbe infatti successo come testo scolastico.
Nella traduzione l’autore affrontò diversi problemi di stile e di forma, principalmente per non limitare il suo lavoro e
costruire un testo che stesse accanto all’originale, fruibile come opera autonoma ma anche di qualità artistica. Dovette
così creare una nuova lingua letteraria, adatta a recepire il linguaggio e lo stile dell’epica greca, e trasformò il testo di
partenza ogni qual volta un concetto apparisse inaccettabile alla mentalità dei romani del suo tempo.
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L’ETA’ ARCAICA E REPUBBLICANA
L’opera è composta attraverso l’espediente del saturnio, verso tipico dei primi poemi epici latini, la cui origine ad oggi è
ancora dubbia. Si è pensato che fosse un verso autoctono, tipicamente latino, per la stessa etimologia del termine, che fa
pensare a qualcosa di indigeno e puramente italico, come lo stesso Dio Saturno; ad oggi non si esclude una probabile
penetrazione greca.
GNEO NEVIO
La vita
Cittadino romano di origine campana, Nevio visse nel terzo secolo a.C., combatté la prima guerra punica (264-241 a.C.)
probabilmente negli ultimi anni del conflitto e morì in esilio ad Utica nel 204 o nel 201 a.C.
Non era un aristocratico ma anzi ebbe aspri scontri con la nobiltà, in particolare con la famiglia dei Metelli, che gli
costarono l’incarcerazione; fu il solo letterato dell’epoca ad occuparsi anche di politica.
Scrisse per il teatro, sia commedie che tragedie di ambientazione romana; la sua opera principale è però di genere
storiografico, il Bellum Poenicum.
Il Bellum Poenicum
L’opera tratta in poesia la prima guerra punica, vissuta in prima persona dall’autore, che con un salto cronologicamente
arditissimo si lascia andare ad un ampio excursus sulla fondazione di Roma a partire dal viaggio del mitico fondatore Enea,
narrandone anche un incontro con la regina Didone, causa della guerra tra romani e cartaginesi.
E’ giusto insistere sull’ispirazione nazionale del poema e sull’originalità della struttura, ma non conviene staccare troppo
Nevio dalla tradizione letteraria greca, quasi a farne un contraltare del traduttore Andronico.
L’autore spesso supera la ricchezza lessicale e formulare della tradizione omerica, creando composti e combinazioni
sintattiche nuove.
Nel complesso il testo appare caratterizzato da un forte sperimentalismo, in cui talvolta convivono diverse componenti
stilistiche non in equilibrio.
Il teatro
Sono di Nevio le prime tragedie latine di argomento storico, le praetextae; di queste ci sono giunte il Romulus, il
Clastidium e il Lycurgus.
La produzione comica è di gran lunga più cospicua; il teatro di Nevio doveva essere più politicamente impegnato di quello
del secolo successivo: le sue opere contenevano spesso attacchi personali e diretti contro avversari politici e scandivano a
più riprese l’amore per la libertà. L’aggressione satirica dell’avversario politico ha precedenti greci in Aristofane, ma non
trova altri continuatori latini.
PLAUTO
La palliata, commedia romana d’ambientazione greca, ha come modello di riferimento la Commedia Nuova greca, iniziata
da Menandro, nel IV secolo a.C. Ebbe un enorme successo di pubblico e alimentò un vivace dibattito letterario intorno ai
problemi della traduzione artistica e alla creazione di un teatro romano dotato di caratteri originali.
Dei molti autori che scrissero palliate ci restano integre soltanto le opere di Plauto e Terenzio, il successo dei quali fu t
nettamente diverso: Plauto ebbe gloria immediata, per poi essere trascurato e quasi dimenticato sino ai tempi
dell’umanesimo, Terenzio invece, rivolgendosi soprattutto ad un’élite aristocratica non godette di fama in vita ma fu
maggiormente apprezzato dagli studiosi successivi.
La vita
Plauto non era di origine romana e non apparteneva ad un’area culturale fortemente grecizzata: era un cittadino libero
nativo di Sarsìna, in Romagna vissuto a cavallo tra il III e il II secolo a.C.
La data di morte, 184 a.C. è sicura, quella di nascita (255-250 a.C.) invece si evince da una notizia di Cicerone secondo cui
Plauto avrebbe scritto lo Pseudolus (rappresentato nel 191 a.C.) da senex, fase della vita che per i romani iniziava a
sessant’anni.
Lo stesso nome dell’autore è uno dei tanti dati incerti: nei documenti fino all’Ottocento l’autore figura come M. Accius
Plautus, forma sospetta per il fatto che si usava attribuire i tria nomina esclusivamente ai cittadini romani.
Il Palinsesto Ambrosiano, rinvenuto nei primi dell’Ottocento, riporta invece il nome completo in una forma più
attendibile: Titus Maccius Plautus. Maccius (semplificato in M. Accius) non è un nome gentilizio ma rimanda a Maccus,
personaggio tipico dell’atellana. E’ verosimile che l’umbro Titus Plotus, si fosse dotato a Roma di un nome di battaglia che
alludeva al mondo della scena comica, conservando all’interno dei tria nomina una traccia della sua professione di
commediante.
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L’ETA’ ARCAICA E REPUBBLICANA
La produzione
Plauto fu autore di grande prolificità e di grande successo, spesso oggetto di imitazione e di plagio. Sembra che nel corso
del II secolo a.C. fossero diffuse circa centotrenta commedie legate al suo nome, redatte secondo i criteri della filologia
alessandrina.
Verso la fine dell’età repubblicana Marco Terenzio Varrone, nel De comoediis Plautinis ne raccolse 21, generalmente
considerate autentiche e le dispose in ordine alfabetico:
Dell’ultima, la Vidularia, proprio a causa della posizione a fine manoscritto, abbiamo pochi frammenti.
La cronologia delle commedie è piuttosto dubbia, sappiamo con certezza che lo Stichus risale al 200, lo Pseudolus al 191 e
la Casina al 186 a.C.
Ogni commedia è aperta da un prologo espositivo che fornisce tutte le informazioni essenziali; i personaggi sono fissi e si
possono ridurre ad un numero limitato di tipi, l’intreccio è costituito da uno schema costante e prevedibile: la vicenda si
apre con la lotta fra due antagonisti (un giovane e un vecchio) per il possesso di un bene, generalmente una donna o una
somma di denaro, che si conclude con il successo del giovane.
All’interno di questo semplice schema l’autore pianifica poi l’intreccio con diversi espedienti, tesi a soddisfare le
aspettative del pubblico, che rimandano o alla commedia del servo oppure alla commedia del riconoscimento.
La commedia del servo segue questo schema: l’azione di conquista del bene messo in gioco è delegata dal giovane ad un
servo ingegnoso, artista della frode, a volte un parassita, altre un giovane innamorato. La scansione temporale prevede tre
fasi distinte: il servo medita l’inganno, agisce e infine trionfa. Lo scatto irrazionale della trama è costituito dalla presenza
della tyche, la fortuna, allo stesso tempo alleata e antagonista del protagonista.
La commedia del riconoscimento si sviluppa invece nello svelarsi progressivo di un’identità inizialmente nascosta. Questo
genere di intreccio può snodarsi in una serie di errori e confusioni di persona, oppure il problema dell’identità salta fuori
solo nel finale. Tutte le commedie con questo schema hanno in comune lo scatto fortunoso dell’agnizione finale,
riconoscimento che scioglie ogni difficoltà, uno schiavo furbo che si occupa del lavoro sporco, con fini di per sé accettabili
e l’azione conclusiva della Fortuna, che rivela la realtà più autentica.
Rispetto ai modelli greci Plauto non si preoccupa di comunicare il nome, ed eventualmente la paternità della commedia
cui si ispira; non presenta una marcata preferenza per un autore e spesso ricorre anche a poeti non di primo piano.
Opera una ristrutturazione metrica e cancella la divisione in atti, introduce un gran numero di nomi di persona non
attestati sulla scena greca, costruisce uno stile personale, coerente, vario e polifonico, in linea generale propone un suo
autonomo “stato civile”: trasforma i modelli greci distruggendone le caratteristiche fondamentali. Non subisce la forza
della tradizione.
La struttura tipica degli intrecci è l’aspetto in cui l’autore è più legato alle sue fonti ed è lo strumento attraverso il quale
dialoga con il suo pubblico invitandolo a riflettere sugli aspetti più significativi della società contemporanea.
Nella prima fase dell’intreccio le commedie minacciano una sovversione di tutto ciò che il pubblico accetta come normale
e naturale, lo scioglimento tipico consiste nel rimettere a posto le cose. Lo spettatore trova in questo movimento dal
disordine all’ordine un particolare piacere, perché è in grado di riconoscersi nella commedia rappresentata.
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L’ETA’ ARCAICA E REPUBBLICANA
L’ambientazione greca garantisce al contempo realismo e straniamento e consente solo occasionali e vivaci puntate
anacronistiche alla realtà romana. Plauto non ha fini morali, lo dimostra il protagonismo dello schiavo, che pur non
costituendo un elemento di sovversione arriva con la sua irriverenza a sospendere la normalità della vita quotidiana
garantendo all’autore un sapiente ed originale equilibrio tra conformismo e anticonformismo.
Originalità e lingua
La prima innovazione di forte impatto rispetto ai modelli è rappresentata dai numeri innumeri, gli infiniti metri che Plauto
utilizza nel vertere scene dal codice piano e prosaico nelle fantasiose armonie dei cantica.
In secondo luogo l’autore sacrifica la coerenza drammatica e la psicologia dei personaggi a favore di una migliore resa
comica.
Proprio la costruzione dei personaggi deve essere letta come una scelta precisa; tra tutti preferisce il servo astuto, che
regge le fila dell’intreccio e più degli altri gioca con le parole, reso quasi un alter ego del poeta drammatico.
La lingua cui l’autore ricorre nello scrivere le sue commedie è il latino parlato dal romano colto medio, tipicamente
espressa attraverso dialoghi.
La struttura sintattica è semplificata con prevalenza della paratassi sull’ipotassi e con una spiccata tendenza alla
giustapposizione.
I testi presentano abbondanti grecismi e arcaismi caratteristici della tipica ricchezza lessicale plautina, detta ubertas
sermonis Plautinis.
LA STORIA
LA SOCIETA’ E LA CULTURA
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L’ETA’ ARCAICA E REPUBBLICANA
Il processo di ellenizzazione della società romana, intensificatosi con la conquista dell’Oriente greco, incontra
l’opposizione dell’aristocrazia conservatrice, tenacemente attaccata dall’ideologia tradizionale.
In realtà nemmeno Catone il Censore, protagonista di memorabili battaglie in difesa del mos maiorum è ostile alla cultura
greca in blocco; ne combatte tuttavia alcuni aspetti, soprattutto quelli che gli sembrano mettere in discussione i valori
fondanti della società romana, come le filosofie materialistiche, l’ideologia del protagonismo, l’esaltazione del singolo.
Il suo atteggiamento è ormai lontano dalla mentalità delle classi colte: interprete dei nuovi tempi è Scipione Emiliano, il
distruttore di Cartagine, attorno al quale si raccoglie l’élite intellettuale aperta ai temi della cultura greca, chiamato in
seguito Circolo degli Scipioni, anche se, con tutta probabilità fu solo una certa comunanza di interessi a legare i vari
letterati e non una precisa ideologia politica.
ENNIO
La vita
Nato nel 239 a.C. a Rudiae, proviene da un’area di cultura italica fortemente grecizzata e giunge a Roma nel 204 a.C. al
seguito di Catone. Qui svolge la professione di insegnante e si afferma presto come autore di opere teatrali.
Tra il 189 e il 187 segue Marco Fulvio Nobiliore in Grecia, con l’incarico di celebrarne la campagna militare ad Ambracia; in
seguito diventa uno dei protetti della casata degli Scipioni.
All’ultima fase della sua vita risale la stesura degli Annales; muore a Roma nel 169 a.C.
Il teatro
Gli inizi poetici di Ennio si pongono nel segno del teatro: in questo campo fu un poeta fecondo, sia per quanto riguarda le
tragedie, tipicamente legate al ciclo troiano, sia per quanto riguarda le commedie.
Le tragedie di certo gli garantirono nell’immediato grande affermazione letteraria, a motivo della sua capacità di
sviluppare una poesia tragica collocabile quasi al pari di quella greca. Il carattere innovativo della tragedia enniana è il
gusto per l’effetto grandioso, l’insistenza sui sentimenti più oscuri dell’animo umano e la grande commozione.
Gli Annales
L’opera che gli diede immensa celebrità sono tuttavia gli Annales, primo poema latino in esametri. L’argomento
affrontato è la celebrazione della storia di Roma; l’età ellenistica aveva visto un formidabile sviluppo della poesia di corte,
presso le regge dei dinasti greci d’Asia infatti risiedevano poeti che celebravano le gesta dei sovrani: poesia ed encomio
erano così strettamente collegati.
Ennio doveva vedere la sua poesia come celebrazione di gesta eroiche: si rifaceva da un lato a Omero, dall’altro alla
recente tradizione dell’epica ellenistica, di argomento storico e contenuto celebrativo. Riuscì a superare con gli Annales gli
stessi modelli, presentando un’opera molto più vasta per ampiezza e concezione.
Il periodo è trattato in ordine cronologico progressivo, ma non tutti i periodi sono trattati con lo stesso ritmo e la stessa
ampiezza: ampio spazio è lasciato a leggende epiche e temi bellici (in guerra si mostra la virtù), minore alla politica interna.
Il titolo rimanda alle raccolte degli annales maximi.
L’opera è divisa in libri, che in origine dovevano essere 15, diventati poi 18 per motivi non del tutto chiari, probabilmente
con l’intento di aggiornare il poema con la celebrazione di altre, più recenti, imprese romane; due sono i proemi, in cui il
poeta stesso prende parola, uno al libro I, in cui racconta della sua investitura poetica e l’altro al libro VII.
Lo stile
Data la frammentarietà con cui ci è giunta l’opera di Ennio è difficile avere un’idea chiara del suo stile; le fonti che lo citano
infatti sono per lo più firmate da grammatici e filosofi tardo-antichi, interessati alle particolarità linguistiche e alle forme
desuete.
Certo è che accolse nel testo epico parole greche traslitterate e adottò dalla lingua greca caratteristiche sintattiche e
desinenze, figure di suono e onomatopee.
Per quanto riguarda l’introduzione dell’esametro l’innovazione fu frutto di un intenso lavoro volto ad adattare la lingua
latina al metro e il metro alla lingua latina; sicuramente elaborò regole precise per la collocazione delle parole nel verso e
per l’uso delle cesure.
La lezione di Ennio tragico venne sviluppata e ripresa dai due maggiori tragici del II secolo a.C.: Accio (Pesaro 170 a.C. -
Roma 90-80 a.C.) e Pacuvio (Brindisi 220 a.C. - Roma 130 a.C.).
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L’ETA’ ARCAICA E REPUBBLICANA
Tra le tragedie di Pacuvio ricordiamo l’Iliona, i Niptra e il Dulorestes. Di Accio si conoscono alcune opere didascaliche e più
di quaranta titoli di coturnate, molte delle quali ispirate agli episodi della guerra di Troia; fra i titoli ricorrono anche due
preteste: il Brutus e il Decius.
La conseguenza più importante delle carriere di questi due poeti fu che la tragedia salì di classe e di tono, diventando
un’occupazione di prestigio.
I tratti più caratteristici del teatro di Pacuvio e Accio, come il gusto del patetico e la ricerca di affetti grandiosi, risalgono al
teatro ellenistico del IV-III secolo a.C. E’ possibile che i tragici latini abbiano caricato i toni degli originali, aggiungendo
molti tratti romanzeschi e avventurosi, che contribuivano a fare della tragedia un genere apprezzato e popolare.
Allo stesso tempo questi poeti sottopongono i drammi greci ad una consapevole opera di attualizzazione: toccano così
argomenti e problemi sentiti nella società romana contemporanea, ricca di contrasti, fermenti ideologici e culturali, come
il rinnovato interesse per il tema della tirannide.
I frammenti che abbiamo esibiscono un gusto particolare per l’orrido e il macabro; sul piano dello stile, la tragedia arcaica
è stata spesso oggetto di critiche perché considerata impura, piena di costruzioni forzate, calchi dal greco, audaci
neologismi e difficili composti. Tali caratteristiche sono frutto di uno sperimentalismo che continua la tradizione di Ennio.
La prima grande opera storica romana in prosa è scritta da un protagonista importante della repubblica, Catone il
Censore, che si distinse per il rigido conservatorismo etico e la fiera opposizione alla politica degli Scipioni.
Le Origines di Catone tornano polemicamente al latino degli annales pontificum, le registrazioni ufficiali dei fatti
memorabili per la collettività romana.
La vita
Marco Porcio Catone nacque nel 234 a.C. a Tuscolo, l’odierna Frascati, da una famiglia non nobile di ricchi proprietari
terrieri; riguardo la sua vita siamo ben informati perché ebbe nell’antichità vari biografi, tra i quali lo stesso Cicerone ( Cato
Maior de senectute).
Da giovane combatté nella guerra contro Annibale, percorse tutte le tappe del cursus honorum fino ad essere eletto
console per l’anno 195.
A partire dal 190 fu impegnato contro gli Scipioni e le tendenze filelleniche dilaganti; eletto censore nel 184 varò un vasto
programma di edilizia pubblica ponendosi come campione delle virtù antiche romane e promotore della ricchezza e della
potenza dello stato.
Il suo atteggiamento gli procuro diverse inimicizie: quando nel 155 Atene inviò a Roma un’ambasceria di tre filosofi ne
richiese e ottenne l’espulsione. La sua ultima battaglia fu per la distruzione di Cartagine “Carthago delenda est”.
Morì nel 149 a.C.
Le Origines
Le Origines sono la prima opera storica in latino, composta dall’autore in vecchiaia in 7 libri, tesa a diffondere i principi
della sua azione politica.
Catone è anche il primo uomo politico a dedicarsi alla storiografia, che così riceve un vigoroso impegno in questo senso:
nelle Origines avevano largo spazio le preoccupazioni di Catone per la dilagante corruzione dei costumi e la rievocazione
delle battaglie che lui stesso aveva condotto in nome della saldezza dello stato contro l’emergere di singoli personaggi di
prestigio, non si limitava a lasciar filtrare nell’opera echi delle proprie polemiche ma vi riportava addirittura alcune delle
sue orazioni politiche.
Privilegiava la storia contemporanea alla quale ha dedicato 3 libri su 7 e la narrazione si fa più dettagliata avvicinandosi
all’epoca dell’autore.
Catone elaborò una concezione originale della storia romana, non celebrativa del singolo (non nomina per nome capi o
condottieri né romani né stranieri), che insisteva sulla lenta formazione dello stato e delle sue istituzioni attraverso i secoli
e le generazioni: la creazione della res publica era vista come l’opera collettiva del populus Romanus stretto intorno alla
classe dirigente senatoria.
Si interessò ad aspetti tendenzialmente dimenticati dalla storiografia classica, come la storia delle popolazioni italiche, i
popoli stranieri, i costumi di certe popolazioni africane e spagnole.
Lo stile è molto lontano dal fluido latino di Cicerone, ma è piuttosto caratterizzato da arcaismi lessicali e morfologici,
paratassi, anacoluti e asimmetrie.
Il De agri cultura
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L’ETA’ ARCAICA E REPUBBLICANA
Il De agri cultura è il testo di prosa latina più antico che ci sia giunto per intero. L’opera, formata da una predazione e 170
capitoli, consiste in una serie di precetti sul comportamento ideale del proprietario terriero che non lasciano spazio a
riflessioni filosofiche.
L’agricoltore, nelle vesti di pater familias deve dedicarsi all’agricoltura come all’attività più sicura e onesta, la più adatta a
formare buoni cittadini e buoni soldati.
Il tipo di proprietà che Catone descrive è il latifondo e in alcuni passi dell’opera appare la brutalità dello sfruttamento degli
schiavi ad esso legati.
E’ facile cogliere qui i tratti salienti dell’etica catoniana, in cui la virtù si intende come parsimonia, duritia e industria; non
si tratta però della tipica saggezza contadina, quanto più del risvolto ideologico di un’esigenza genuinamente pragmatica.
Lo stile è scarno ma colorito di espressioni di saggezza popolare e campagnola che si esprimono in formulazioni
proverbiali.
TERENZIO
Terenzio è stato, insieme a Plauto, il commediografo più significativo della letteratura latina, espressione degli ideali
coltivati dalle nuove élites intellettuali di Roma, indispensabile per comprendere la letteratura latina del II secolo a.C. e il
suo sviluppo nei secoli successivi. Il suo debutto teatrale si colloca due anni dopo la vittoria romana sui Macedoni nella
battaglia di Pidna (168 a.C.).
La vita
Il riferimento principale della biografia terenziana è la Vita Terentis contenuta nel De viris illustribus di Svetonio, tuttavia le
notizie sono incerte.
Potrebbe essere nato nel 185-184 a.C. anche se la data, in concomitanza con quella della morte di Plauto, potrebbe essere
legata ad un tentativo di dare continuum storico a due esponenti dello stesso genere; più probabilmente nacque dieci anni
prima. Tutte le fonti antiche testimoniano stretti rapporti con Scipione Emiliano e Lelio, che furono sicuramente suoi
protettori.
Secondo Svetonio morì nel 159 nel corso di un viaggio in Grecia, probabilmente annegato come il commediografo
Menandro, ma anche questo pare un accostamento poco credibile.
Tra le varie notizie - dubbie - pervenuteci una in particolare riporta l’esposizione della sua prima opera, l’Andria, a Cecilio
Stazio, un liberto proveniente da Milano probabilmente giunto a Roma dopo la battaglia di Clastidium, poeta e
commediografo, che per la sua collocazione storica tra il III e il II secolo è definito come una sorta di intermediario tra
Plauto e Terenzio.
La produzione
Di Terenzio ci restano sei commedie tramandate per intero, la cui estensione ammette complessivamente circa 6.000
versi, la cui cronologia è attestata con sufficiente precisione:
- 166 a.C. Andria
- 165 a.C. Hècyra
- 163 a.C. Heautontimorumenos
- 161 a.C. Eunuchus
- 161 a.C. Phormio
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L’ETA’ ARCAICA E REPUBBLICANA
- 160 a.C. Adelphoe
I modelli greci adottati e dichiarati nei prologhi appartengono tutti alla tradizione della Commedia Nuova: Menandro,
Difilo e Apollodoro di Caristo.
La novità non si fonda solo su un profondo ripensamento della tecnica teatrale rispetto ai modelli della tradizione, ma si fa
portavoce delle istanze culturali dell’élite colta dell’aristocrazia scipionica, spesso a scapito delle aspettative del grande
pubblico.
A differenza di Plauto, l’interesse di Terenzio non era nel gioco verbale da cui scaturiva l’effetto comico, ma era rivolto ai
significati, alla sostanza umana messa in gioco dagli intrecci della commedia; comunica sensibilità e interessi nuovi,
maturati in un ambito sociale e culturale nuovo: a questo si devono le grandi difficoltà incontrate nel rapporto con il
pubblico.
Le vicende delle commedie terenziane sono sintomatiche del declino del teatro popolare latino e del progressivo
divaricarsi dei gusti del pubblico di massa e dell’élite colta, nutrita di raffinata cultura greca. L’attenzione si sposta
soprattutto verso l’approfondimento psicologico dei personaggi, che restano allo stesso tempo tipi umani e non individui,
tuttavia fortemente anticonvenzionali.
In Terenzio i rapporti familiari diventano autentici rapporti umani, sentiti con grande serietà problematica.
Questo approfondimento riflette la sincera adesione al modello di Menandro e la circolazione di ideali umanistici di
matrice greca; si spiega così l’introduzione di un concetto chiave come quello dell’humanitas, mutuata dalla philantropia
greca, secondo cui è fondamentale rispettare l’uomo in ogni uomo.
L’unica commedia in cui Terenzio mette in mostra la sua vis comica è l’Eunuchus, ed è proprio questa quella che avrà
maggior successo di pubblico.
Il rapporto con i modelli
E’ sbagliato pensare a Terenzio come ad un maestro o ad un educatore: il suo interesse per i contenuti morali e culturali
non va mai a discapito della tecnica drammaturgica. E’ uno dei letterati latini più consapevoli degli aspetti tecnici del
proprio lavoro e la preferenza per Menandro mostra bene la coesistenza di questi due aspetti.
Terenzio, come Menandro, cura la coerenza dell’illusione scenica, che non viene mai incrinata: lo sviluppo dell’azione non
prevede esiti meta-teatrali e non ci sono battute che non abbiano una diretta motivazione interna allo svolgimento
drammatico. Tutte le riflessioni sulla natura teatrale stessa vengono concentrate nel prologo.
L’importanza data al prologo come luogo deputato alla riflessione letteraria e poetica è la principale innovazione tecnica di
Terenzio rispetto al teatro plautino. Il poeta non usa i prologhi in funzione informativa ma per esprimere personali prese di
posizione, caratteristica che lo avvicina a figure come Ennio, Accio e Lucilio e all’ideale alessandrino di poeta-filologo.
Una delle caratteristiche peculiari delle opere di questo periodo è la rielaborazione di testi greci, la cosiddetta
contaminatio.
Lo stile
Lo stile di Terenzio è sicuramente distante e misurato rispetto a quello di Plauto; la materia linguistica sembra selezionata,
a volte censurata. Acquistano spazio le parole astratte, il linguaggio dell’analisi psicologica: la restrizione del linguaggio
serve ad assicurare il predominio di certi contenuti. Lo stile è medio e pacato e i dialoghi sono costruiti con la lingua tipica
delle classi colte.
L’opera di Lucilio si radica nello stesso ambiente culturale di Terenzio, ma per la posizione sociale di uomo d’alto rango il
primo, potendo non vivere di poesia, può permettersi scelte ardite, indipendenza di giudizio, verve polemica e interesse
curioso per la vita contemporanea e per la politica.
La vita
Originario di Suessa Aurunca è il primo letterato in condizione agiata a condurre vita da scrittore; secondo Girolamo
sarebbe nato nel 148 a.C. ma probabilmente la sua nascita è da anteporre di una ventina d’anni. Morì sicuramente nel 102
a.C.
Le opere
Lucilio scrisse 30 libri di satire, divisi in ordine di metrica: nei libri 1-21 si trovano le satire in esametri dattilici, nei libri 22-
25 quelle in distici elegiaci, nei libri 26-30 satire in metri vari.
Il titolo, Saturae forse non risale a Lucilio, che chiama le sue composizioni poemata o ludus ac sermones.
11
L’ETA’ ARCAICA E REPUBBLICANA
Il poeta in quest’opera affrontò un grande numero di argomenti: concili di dei, viaggi, cibo, amore, ampie disquisizioni su
problemi letterari. Soprattutto, nelle Satire si avvertiva quel forte spirito moralistico che era destinato ad affermarsi come
caratteristica dominante della successiva tradizione satirica.
Lo stile
La poesia di Lucilio rifiuta un unico livello di stile e si apre in tutte le direzioni; amalgama il linguaggio elevato dell’epica e li
linguaggi specialistici estranei alla letteratura: questo lo rende quanto di più vicino al realismo moderno offra la letteratura
latina
LE ORIGINI DEL GENERE CHE I ROMANI CHIAMANO SATURA SONO PIUTTOSTO INCERTE. IL GRAMMATICO DIOMEDE PROPONEVA 4 POSSIBILI
ETIMOLOGIE:
1. DAL GRECO satyros: ANIMALE MITOLOGICO ASSOCIATO AL GENERE DEL DRAMMA SATIRESCO
2. DA satura lanx: PIATTO MISTO DI PRIMIZIE OFFERTO AGLI DEI
3. DA satura: INSALATA MISTA
4. DA lex per saturam: UNICO PROVVEDIMENTO LEGISLATIVO CHE RIUNIVA STRALCI DI VARI ARGOMENTI
I ROMANI ERANO CONSAPEVOLI DELL’ORIGINALITA’ DI QUESTO GENERE, CHE ESPRIME LA VOCE PERSONALE DEL POETA E RACCONTA
MOMENTI DELLA SUA VITA. FU ENNIO AD INTRODURRE LA SATIRA NEL PANORAMA LETTERARIO ROMANO, MA FU LUCILIO AD ESSERNE
RITENUTO IL PADRE, DATO CHE SI CONCENTRO’ ESCLUSIVAMENTE SU QUESTO GENERE, RIDUSSE LA VARIETA’ METRICA E INTRODUSSE LA
TEMATICA MORALE E L’AGGRESSIVITA’ POLEMICA, CREANDO COSI’ UN NUOVO PUBBLICO.
LA STORIA
ABBONDANZA
DI TERRITORIO
PUBBLICO
LEGGE
AGRARIA DI
TIBERIO
GRACCO
Mentre le tensioni tra senato e cavalieri si acuivano si affermò
Gaio Mario, homo novus, distintosi nella guerra contro Giugurta e
OPPOSIZIONE
DELL'ARISTOCRAZIA nelle battaglie contro Cimbri e Teutoni.
SENATORIA
Mario rinnovò l’esercito e rese il mestiere di soldato una vera e propria
professione, creando un profondo legame tra il comandante e il suo
TIBERIO esercito.
GRACCO
ASSASSINATO
Tra il 91 e l’88 a.C. scoppia la prima guerra sociale, tra Mario e Silla, vinta
da Mario che muore poco dopo.
GAIO GRACCO DIVENTA TRIBUNO E RIPRENDE
IL PROGRAMMA DEL FRATELLO Nell’82 Silla si proclama dittatore e redige le liste di proscrizione.
PERDE IL
CONSENSO
POPOLARE
QUANDO
CHIEDE DI
ALLARGARE LA
CITTADINANZA
.
12
L’ETA’ ARCAICA E REPUBBLICANA
ORATORIA E POLITICA
Negli anni di forte crisi politica, acquistano importanza l’oratoria, le scuole di retorica e la trattatistica.
L’eloquenza è un’arma potente, ma la scuola era pericolosa: era infatti di tendenza popolare, dato che agli uditori non era
richiesta la conoscenza del greco e le rette non erano elevate. Per questo motivo nel 92 a.C. vennero chiuse importanti
scuole come quella di Plozio Gallo.
L’autore più antico di cui abbiamo intere orazioni è Cicerone, che da modo nelle sue opere al lettore di conoscere sia i
nomi di vari oratori sia i numerosi dibattiti sviluppatisi riguardo lingua e stile.
Già nella generazione precedente alla sua si delineò un preciso conflitto di gusti tra due correnti stilistiche: asianesimo e
atticismo.
L’asianesimo fiorisce nelle scuole di Pergamo, in Asia Minore, nel III secolo a.C.: ricerca soprattutto pathos e musicalità e
si affida ad uno stile ridondante, pieno di metafore e vocaboli coloriti; a Roma il maggior esponente della corrente asiana
era Ortensio Ortalo. E’ sostenitrice della teoria anomalista.
L’atticismo, proveniente dalla scuola di Alessandria, prendeva a modello la semplice sobrietà dell’oratore attico Lisia,
prevedeva una lingua semplice e un uso regolare dei costrutti sintattici. Sostiene la teoria analogista, purista e
conservatrice.
Nella seconda metà del II secolo a.C. si afferma a Roma anche la filologia.
SISENNA E LA STORIOGRAFIA
Nell’età dei Gracchi la storiografia diventa un mezzo di analisi politica, a volte di contrapposizione feroce. A differenza
dell’oratoria non è praticata da personaggi di primissimo piano. Il fatto notevole rispetto alla storiografia arcaica è
l’adozione di un metodo razionalistico, influenzato dalla pratica di Polibio, a scapito della tradizione annalistica.
L’autore più interessante in questo contesto è Sisenna, uomo politico di tendenze aristocratiche, convinto fautore di Silla,
che scrisse le Historiae, trattando esclusivamente le vicende a lui contemporanee in un’atmosfera romanzesca e favolosa
secondo il gusto della storiografia tragica.
La vena di narratore in Sisenna veniva allo scoperto nelle sue Fabulae Milesiae, racconti di carattere licenzioso, detti così
dal nome dell’iniziatore, Aristide di Mileto.
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L’ETA’ ARCAICA E REPUBBLICANA
L’ETA’ DI CESARE
78-44 a.C.
LA STORIA
L’ASCESA DI CESARE
LA SOCIETA’ E LA CULTURA
CICERONE
Cicerone fu uno dei massimi protagonisti delle vicende politiche e culturali della Roma del I secolo a.C., simbolo di tutti gli
ideali e i principi su cui si fondava la tradizione etico-politca dell’uomo romano.
La vita
Marco Tullio Cicerone nasce nel 106 a.C. ad Arpino, da agiata famiglia equestre, compie ottimi studi di filosofia e di
retorica a Roma e frequenta il foro sotto la guida di Lucio Licinio Crasso e i due Scevola. Nell’89 presta servizio militare
nella guerra sociale agli ordini di Pompeo Strabone, all’81 risale il suo primo debutto come avvocato; nell’80 difende la
causa di Roscio, entrando in conflitto con il regime sillano. Tra il 79 e il 77 compie un viaggio in Grecia dove approfondisce
le sue conoscenze filosofiche. Al ritorno, nel 75, sposa Terenzia, dalla quale avrà due figli e diventa questore. Nel 69 viene
nominato edile, nel 66 pretore, nel 63, come console, reprime la congiura di Catilina; l’uccisione dei complici di
quest’ultimo gli costerà l’esilio nel 58. Tornato a Roma guarda con sospetto all’accordo tra Cesare Pompeo e Crasso. Tra il
56 e il 51 compone il De Oratore, il De repubblica e il De legibus, cercando di collaborare con i triumviri. Nel 51 diventa gli
viene affidato il governo della Cilicia; allo scoppio della guerra civile sostiene Pompeo ma non partecipa alla battaglia di
Farsalo.
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L’ETA’ ARCAICA E REPUBBLICANA
Dopo la vittoria di Cesare si allontana dalla vita politica, cui ritornerà solo dopo la sua morte; dal 46 al 44, colpito dal lutto
per la morte della figlia, dopo aver divorziato dalla prima moglie e aver tentato un matrimonio poco duraturo con Publilia
si dedica alla stesura di opere filosofiche.
Sostiene Ottaviano nella guerra contro Marco Antonio, come dimostrano le sue Filippiche, ma questa scelta comunque gli
costerà la vita: il nome di Cicerone viene inserito nelle liste di proscrizione dallo stesso Augusto. Viene ucciso dai sicari di
Antonio il 7 dicembre del 43 a.C.
La produzione forense
Le Verrine
Rientrato a Roma dopo la morte di Silla, Cicerone ricoprì la questura in Sicilia nel 75 e si accaparrò il favore dei siciliani al
punto che gli fu chiesto di sostenere l’accusa nel processo da loro intentato contro l’ex governatore Verre, che aveva
sfruttato la provincia con incredibile rapacità.
Cicerone raccolse le prove in tempi brevissimi, al processo pronunciò soltanto la prima delle due accuse: dopo pochi giorni
Verre fu costretto a fuggire e venne condannato in contumacia.
L’autore pubblico in seguito l’Actio secunda in Verrem, divisa in 5 libri. Quello di Verre era un caso limite, ma l’avidità dello
sfruttamento delle province era comunque la regola.
La vittoria su Ortensio, difensore di Verre fu anche una vittoria in campo letterario: di fronte alla naturalezza con cui il
giovane Cicerone padroneggiava tutte le sfumature della lingua, l’asianesimo esasperato di Ortalo dovette risultare
alquanto stucchevole.
Lo stile delle verrine infatti è già pienamente maturo: la gamma dei registri è dominata con piena sicurezza, dalla
narrazione semplice e piana al racconto ricco di colore, dall’ironia arguta al pathos tragico. Qui l’avvocato si rivela maestro
nell’arte del ritratto.
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L’ETA’ ARCAICA E REPUBBLICANA
contemporaneamente, a prevaricare l’autorità del senato. In realtà erano gli equites ad avere maggiori interessi sulle
province e proprio del loro appoggio avevano bisogno sia Cicerone sia Pompeo.
Per la prima volta, in questa situazione, l’autore scorge la via d’uscita dalla crisi che minacciava la repubblica: la concordia
ordinum, ossia l’accordo tra ceti abbienti, senatori e cavalieri.
Le opere retoriche
Cicerone scrisse quasi tutte le sue opere retoriche a partire dal 55 a.C., spinto dal bisogno di dare sistemazione teorica a
conoscenze ed esperienze ma soprattutto dalla necessità di trovare una risposta culturale e politica alla profonda crisi dei
suoi tempi.
Il problema, a lungo dibattuto anche in Grecia, riguardava la formazione dell’oratore in favore di una sintesi tra eloquenza
e sapienza ritenuta necessaria alla formazione della coscienza morale
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L’ETA’ ARCAICA E REPUBBLICANA
La tesi principale dell’opera consiste nell’affermare che il talento, la tecnica della parola e del gesto e la conoscenza delle
regole retoriche non possono ritenersi sufficienti per la formazione dell’oratore: è indispensabile una vasta cultura. La
capacità dell’oratore di sostenere in maniera persuasiva il pro e il contro su qualsiasi argomento, possono costituire un
pericolo qualora non vengano controbilanciate dal correttivo di virtù che le mantengano ancorate al sistema di valori
tradizionali.
Probitas e prudentia devono essere saldamente radicate nell’animo di chi dovrà apprendere l’arte della parola.
La formazione dell’oratore viene così a coincidere con quella dell’uomo politico: egli dovrà servirsi della sua abilità non per
blandire il popolo con proposte demagogiche ma per piegarlo alla volontà dei boni.
Le tematiche del De Oratore sono prese in un trattato più esile, l’Orator, dedicato a Marco Bruto in cui disegnando il
ritratto dell’oratore ideale Cicerone sottolinea i tre fini ai quali la sua arte deve indirizzarsi: probare, delectare, flectere.
La rivendicazione della capacità di muovere gli affetti come sommo compito dell’oratore nasceva dalla polemica nei
confronti dell’oratoria atticista, i cui sostenitori rimproveravano a Cicerone uno stile ridondante e ancora eccessivamente
asiano.
Nel Brutus, dedicato anch’esso a Marco Bruto, Cicerone disegna la storia dell’eloquenza greca e romana, dimostrando
notevoli doti di storico della cultura e fi fine critico letterario. Dato il carattere autoapologetico dell’opera, si comprende
come la storia dell’eloquenza culmini in una rievocazione delle tappe della carriera oratoria dello stesso Cicerone.
L’ottica in cui guarda al passato rispecchia quella secondo cui situazioni ed esigenze diverse richiedono il ricorso
all’alternanza di registri diversi, il successo dell’oratore di fronte all’uditorio è il criterio in base al quale valutare la sua
riuscita stilistica.
Le opere politiche
Il De re publica
Nel De re publica, composto tra il 54 e il 51, Cicerone riprende sia nella forma sia nei temi l’omino dialogo di Platone,
identificando nella costituzione romana del tempo degli Scipioni la forma statuale più compiuta.
La struttura del dialogo, che si svolge nel 129 nella villa suburbana di Scipione Emiliano, è di incerta ricostruzione.
La teoria del regime misto, esposta da Scipione nel libro I, risaliva attraverso Polibio a Dicearco e ad Aristotele; Scipione
guarda all’elemento democratico con antipatia.
Nei libri IV e V, Cicerone introduceva la figura del princeps, uomo politico eminente, che non trasformi la repubblica in un
principato ma che coaguli il consenso politico intorno a sé, la cui autorità non sia alternativa a quella del senato ma ne sia
sostegno.
Una sorta di dominatore-asceta, dedito al servizio verso lo stato e al disprezzo verso le passioni umane.
Il De legibus
Ispirandosi ancora all’esempio di Platone, Cicerone completa il De re publica con il De legibus, opera in forma dialogica in
cui si discute dei fondamenti del diritto e delle leggi dello stato.
Del De legibus sono conservati i primi tre libri e frammenti del IV e del V; l’azione è collocata nel presente, ambientata
nella villa di Cicerone ad Arpino e nei boschi e nelle campagne circostanti. I personaggi sono caratterizzati con naturalezza
e realismo.
Le opere filosofiche
Cicerone inizia a scrivere di filosofia in tarda età, probabilmente solo a partire dal 46. L’avvio di questa fase risale
all’Hortensius, un testo quasi interamente perduto ma molto fortunato nell’antichità, che esortava allo studio della
filosofia sul modello del Protreptikos di Aristotele.
L’approccio ciceroniano pone sempre al centro istanze di rinnovamento morale: l’autore intende offrire un punto di
riferimento etico-culturale alla classe dirigente romana, nella prospettiva di ristabilirne l’egemonia sulla società; non
guarda soltanto al presente, ma affronta questioni riguardanti la crisi della repubblica, nel tentativo di escogitare soluzioni
di lungo periodo.
L’obiettivo è quello di ricucire le membra lacerate del pensiero ellenistico, per trarne una struttura ideologica efficace
nell’ambito della società romana.
L’ideologia dell’humanitas, presupponeva un atteggiamento intellettuale di aperta tolleranza, fatto di confronto e verifica.
L’ecletticismo ciceroniano mostra chiusura solo nei confronti di una corrente filosofica: l’epicureismo. I motivi di tale
avversione sono due, l’epicureismo infatti esclude gli uomini dall’attività politica e nega la funzione provvidenziale della
divinità, indebolendo i legami con la religione tradizionale, che per Cicerone è la base dell’etica.
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L’ETA’ ARCAICA E REPUBBLICANA
Proprio per quanto riguarda la ricerca e lo studio in campo etico, Cicerone orientò sempre la sua riflessione su un doppio
livello: da una parte cercò di raccogliere e organizzare la vasta tradizione filosofica greca per renderla fruibile a un
pubblico romano, dall’altro puntò alla costruzione di un sistema di valori adeguato alla società contemporanea.
Il De finibus e le Tuscolanae
Il centro della ricerca morale ciceroniana è costituito dalla volontà di determinare il sommo bene, il fondamento della
felicità.
Il De finibus bonorum et malorum, è considerato il capolavoro del Cicerone filosofo: l’opera, divisa in 5 libri, tratta il
problema annunciato nel titolo vagliando le posizioni di epicurei, stoici e accademico-peripatetici. Nel nuovo clima socio-
culturale della Roma contemporanea, l’eccletticismo ciceroniano punta, sulla base del probabilismo accademico, alla
conciliazione tra il rigore e la solidità delle posizioni stoiche e l’apertura ad un piacere moderato di quelle peripatetiche. In
quest’ottica il sommo bene viene identificato con il bene dell’anima, che coincide con la virtù.
Il quadro teorico costruito nel De finibus, cerca un’applicazione pratica nelle Tuscolanae disputationes; qui la virtù dovrà
provare la sua capacità di sostenere e orientare l’anima nel concreto rapporto con i turbamenti della realtà. L’opera in 5
libri è dedicata a Bruto, ambientata a Tuscolo e costruita nella forma del dialogo tra Cicerone e un interlocutore
imprecisato, la cui evanescente figura trasforma il dialogo in un monologo.
Si tratta di una summa dell’etica antica, in cui i libri rappresentano una trattazione organica che si presenta come una
terapia per liberare l’animo dalle sue afflizioni.
Il De officiis
La stesura del De officiis occupa Cicerone nell’autunno del 44 ed è una sorta di testamento spirituale dell’autore.
Scritto in forma di lettera al figlio Marcus, e non in forma di dialogo come avvenuto per molti suoi scritti, il titolo del
trattato è carico di valenze politiche: risponde alla volontà di indicare l'azione adeguata a un determinato ruolo e fa
riferimento in generale agli atteggiamenti della vita pratica. L'officium di Cicerone, pur avendo un fondamento filosofico, è
un concetto prettamente politico.
L'opera è divisa in tre libri: il primo tratta il concetto dell'honestum (bene morale) in relazione al quale si stabiliscono i
doveri, ossia i comportamenti moralmente validi e che si sviluppa in quattro virtù fondamentali (sapienza, giustizia,
fortezza e temperanza); il secondo tratta l'utile, dove i doveri stabiliti in base a questo criterio sono gli stessi del
precedente libro; infine il terzo ed ultimo libro tratta del conflitto tra utile ed onesto.
Il fine del ragionamento ciceroniano consiste nel dimostrare come tra honestum e utile non ci sia contraddizione.
L’epistolario
L’epistolario ciceroniano si compone di circa novecento lettere divise in quattro gruppi in base al destinatario; i testi
abbracciano gli anni tra il 68 e il 43 e furono pubblicati successivamente alla morte dell’autore. La ricca raccolta vanta una
grande varietà di contenuti e di toni e mostra un Cicerone vero, non ufficiale, che a volte nel provato rivela i retroscena
poco edificanti del suo agire politico.
Il carattere privato ha i suoi riflessi anche nello stile, impregnato del linguaggio tipico del sermo cotidianus. Grazie a queste
lettere inoltre l’epoca in cui egli visse è quella che ci è meglio nota della storia antica.
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L’ETA’ ARCAICA E REPUBBLICANA
La lingua
Cicerone gettò le basi del lessico astratto patrimonio della tradizione culturale europea, scegliendo di evitare grecismi e
creando veri e propri neologismi, soprattutto per parlare di filosofia. Il contributo più notevole di Cicerone all’evoluzione
della prosa europea fu la creazione di un tipo di periodo complesso e armonioso, fondato su perfetto equilibrio e
corrispondenza delle parti. Colpiscono poi la varietà dei toni e dei registri: ogni gradazione di stile, cui corrisponde un
particolare numerus, viene impiegata a seconda delle esigenze discorsive corrispondenti. La sede specializzata per effetti
ritmici pregnanti è la fine del periodo, che costituisce la clausola ciceroniana.
La vita
Marco Terenzio Varrone nato a Rieti nel 116 a.C, fu uomo di cultura e politico di rilievo; combatte con Pompeo in Spagna e
fu questore, tribuno della plebe e pretore. Sebbene avesse parteggiato per Pompeo, fu perdonato da Cesare, che gli affidò
l’incarico di allestire una grande biblioteca a Roma. Morì di vecchiaia nel 27 a.C.
La produzione
Tra le opere antiquarie particolarmente importanti erano le Antiquitates, divise in due parti: una di Res humanae e una di
Res divinae; Varrone distingueva tre tipi di teologia: una favolosa, una naturale e una civile, concependo la religione come
creazione degli uomini.
Affiancò gli studi antiquari alla filologia; furono particolarmente importanti i suoi studi su Plauto, attraverso i quali stabilì
quali commedie fossero autentiche e il De lingua latina, trattazione sistematica che muoveva dai problemi di origine della
lingua e di etimologia per affrontare sintassi e stilistica.
Si dedicò inoltre alla biografia: nelle Imagines raccolse settecento ritratti figurativi di uomini famosi di ogni categoria, sia
romani sia greci, accompagnando ciascuna immagine con un epigramma che caratterizzava il personaggio.
Con le Saturae Menippeae si inserì nella tradizione della satira latina, per noi rappresentata soprattutto da Lucilio, ma con
significative novità, caratterizzate da varietà di soggetti, registri e linguaggi.
L’unica opera che si è conservata completa è il De re rustica, composta nel 37 a.C. in tre libri di forma dialogica che parlano
rispettivamente di agricoltura, allevamento di bestiame e allevamento di animali da cortile. Il proposito dell’opera p dare
una soddisfacente immagine di sé al signorotto di campagna, desideroso più di vedere realizzato un modello di vita
dignitoso e comodo che di imparare le tecniche minute di coltivazione e allenamento.
Tito Pomponio Attico fu studioso e organizzatore di cultura; nato nel 110 a.C. visse a lungo ad Atene, la sua casa di Roma,
sul Quirinale, fu luogo di incontro dei principali rappresentanti della cultura del tempo. Scrisse alcune opere perdute,
come il Liber Annalis, sunto della storia di Roma anno per anno dal 49 a.C.
Cornelio Nepote, nato nella Gallia Cisalpina intorno al 100 a.C., si stabilì a Roma, dove fu amico di Attico, Cicerone e
Catullo, che gli dedicò il suo libro di poesia; morì probabilmente poco dopo il 27 a.C.
La sua opera principale fu il De viris illustribus, in almeno 16 libri di cui ci rimangono quello sui generali stranieri e le vite di
Attico e di Catone.
L’opera era composta con l’intento di operare un confronto sistematico fra la civiltà greca e romana attraverso il genere
della biografia. Il maggiore merito di Nepote fu di non dare peso a pregiudizi nazionalistici: così perfino la figura di
Annibale viene presentata in luce complessivamente positiva.
La più originale e riuscita è sicuramente quella che dedicò al suo amico e protettore Attico, in cui l’autore vede una tanto
felice quanto difficile conciliazione tra virtù arcaiche e valori modernizzanti, fra fedeltà alla tradizione e ricerca della
tranquillità personale.
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L’ETA’ ARCAICA E REPUBBLICANA
CESARE
Cesare, oltre ad essere stato uno dei più importanti uomini politici e comandanti militari della storia di Roma, fu anche un
autore di notevole importanza sul piano letterario: il suo nome è legato in particolare a due opere di carattere storico: i
Commentarii de bello gallico e i Commentarii de bello civili.
La vita
Gaio Giulio Cesare nacque a Roma il 13 luglio del 100 a.C., d una famiglia patrizia di antichissima nobiltà. Venne
perseguitato dai sillani in gioventù perché parente di Mario e Cinna, pertanto decise di lasciare l’Italia e prestare servizio
militare in Asia.
Dopo la morte di Silla ritornò a Roma e incominciò la carriera politica e forense percorrendo le diverse tappe del cursus
honorum: fu questore nel 68, edile nel 65, pontefice massimo ne 63, pretore nel 62, propretore della Spagna Ulteriore nel
61. Nel 60 stipulò con Pompeo e Crasso il primo triumvirato, rinnovato nel 55 con gli accordi di Lucca, attraverso il quale
in segreto i tre si spartivano il potere e l’Oriente. Nel 59 ricoprì per la prima volta il consolato, affiancato da Calpurnio
Bibulo.
Nel 58 ottenne il proconsolato nell’Illiria, nella Gallia Cisalpina e nella Gallia Narbonense e avviò una campagna di
conquista dell’intero mondo celtico. La conquista della gallia si protrasse per 7 anni e con essa si procurò la base di un
vastissimo potere personale.
Invase l’Italia alla testa delle sue legioni nel 49, dando inizio alla guerra civile. Nell’agosto del 48 sconfisse i Pompeiani a
Farsalo e soffocò altri focolai di resistenza in Africa e in Spagna. Morì, vittima di una congiura, il 15 marzo del 44, poco
dopo la sua proclamazione a dittatore a vita.
La produzione
Oltre i due famosi Commentarii, sono andate perdute diverse orazioni, vari componimenti poetici giovanili, un trattato su
problemi di lingua e stile (De analogia), un poema sulla spedizione in Spagna e un pamphlet in due libri contro la memoria
di Catone l’Uticense.
Vi sono poi diverse opere spurie, tra cui le ultime tre del Corpus Cearianum: il Bellum Alexandrinum, il Bellum Hispaniense
e il Bellum Africum.
Il De bello Gallico
Il titolo originale dell’opera, in 7 libri che coprono il periodo dal 58 al 52, in cui Cesare procedette alla sistematica
sottomissione della Gallia, doveva essere C. Iulii Caesaris commentarii rerum gestarum.
Sui tempi di composizione manca un accordo unanime tra gli studiosi: secondo alcuni sarebbe stato scritto di getto
nell’inverno del 52-51, secondo altri invece anno per anno; questa seconda ipotesi spiegherebbe alcune contraddizioni.
Porta a pensare ad una stesura dilatata nel tempo anche una sensibile evoluzione stilistica che si può riscontrare tra i libri
iniziali, che si presentano nella veste scarna e disadorna del commentarius vero e proprio e i finali, che invece presentano
una progressiva apertura agli ornamenti retorici tipici della storiografia.
L’ultimo libro, l’VIII, è composto da Aulo Irzio, suo luogotenente, che nel proemio fa un esplicito riferimento alla rapidità
con cui Cesare avesse composto la sua opera, probabilmente riferendosi ad una veloce fase di redazione di resoconti più o
meno abbozzati delle varie campagne.
Il De bello civili
Il De bello civili si divide in tre libri: i primi due narrano le vicende del 49, il terzo quelle del 48. I tempi di composizione e
pubblicazione sono ancora più incerti di quelli del De bello gallico, i più pensano che sia stato scritto tra il 47 e il 46 e
pubblicato nel 46.
Dall’opera affiorano le tendenze politiche di Cesare, che non si lascia sfuggire le occasioni per colpire la vecchia classe
dirigente, rappresentata come una consorteria di corrotti. L’autore ricorre all’arma della satira sobria per svelare le basse
ambizioni e i meschini intrighi dei suoi avversari; il suo bersaglio più ovvio è Pompeo, ma non rinuncia a tratteggiare un
quadro negativo di tutta la classe dirigente romana, di cui il ceto senatorio è l’espressione politica.
Viene così messa in evidenza l’ipocrisia di uomini come Catone e Lentulo, i quali agiscono per meri rancori personali o per
avidità di guadagno. La rappresentazione satirica culmina nel campo di Farsalo: sicuri della prossima disfatta di Cesare gli
avversari stabiliscono le pene da infliggere ai nemici, si aggiudicano i loro beni, quasi litigando, prima ancora della
battaglia.
20
L’ETA’ ARCAICA E REPUBBLICANA
Il De bello civili non contiene tuttavia un programma di rinnovamento dello stato romano: Cesare mira soprattutto a
liberarsi dell’immagine di rivoluzionario, continuatore dei Gracchi o di Catilina. Vuole dimostrare di essersi sempre
mantenuto nell’ambito delle leggi e di averle difese contro gli arbitri dei suoi nemici.
Ciò spiega la tendenza a rassicurare i ceti possidenti in merito a problematiche come la questione dei debiti; trova inoltre
modo di insistere sulla sua volontà di pace, rafforzata dalla famosa politica della clementia caesaris.
Nella sua opera infine l’autore tramanda i nomi di soldati e veterani, per consegnare ai posteri la gloria delle loro imprese,
forse per favorire un processo di promozione sociale che portò all’ammissione degli Homines novi, di provenienza militare
nei ranghi del senato.
Lingua e stile
Lo stile scarno dei commentarii rende il tono della narrazione oggettivo e impassibile, sotto questa impassibilità la critica
moderna ha scoperto interpretazioni tendenziose e deformazioni di avvenimenti al fine di propaganda politica. Non si
tratta mai di falsificazioni vistose, ma di omissioni più o meno rilevanti.
In entrambe le opere Cesare tende ad evidenziare le proprie capacità militari e politiche e non lascia spazio ad interventi
divini.
Il corpus cesariano
Il corpus cesariano comprende, oltre alle opere autentiche, anche diversi testi spuri; si tratta di scritti redatti da
luogotenenti di Cesare che intendevano completare la narrazione degli eventi dei commentarii precedenti.
Il luogotenente di Cesare Aulo Irzio espose nel libro VIII del De bello gallico gli avvenimenti degli anni 51-50, per
congiungere la narrazione a quella del De bello civili. A lui è attribuito anche il Bellum Alexandrinum.
Nel corpus figurano anche altre due opere relative alle guerre combattute contro i pompeiani in Africa e in Spagna: il
Bellum Africum e il Bellum Hispaniense.
SALLUSTIO
Sallustio è il primo grande storico della letteratura latina di cui possiamo leggere per intero le opere principali; egli
compose monografie su singoli avvenimenti e testi di più ampio respiro, caratterizzate dal coinvolgimento e dalla vivacità
di analisi proprie di uno scrittore che a lungo prese parte alla vita politica del suo tempo. L’analisi sallustiana è
caratterizzata da un cupo pessimismo che si rispecchia in una visione tragica della storia e che sul piano formale si traduce
in uno stile personalissimo, ricco di arcaismi lessicali e fortemente sperimentale a livello sintattico.
La vita
Gaio Sallustio Crispo nacque ad Amiternum, in Sabina, il 1 ottobre dell’86 a.C. Da una famiglia facoltosa che però non
aveva mai partecipato alla politica dello Stato: era come Catone il Censore, un homo novus. Compì i suoi studi a Roma,
diventò questore nel 55 e inizialmente si legò ai populares, diventando tribuno della plebe nel 52, anno in cui condusse
una campagna accanita contro l’incisore di Clodio e contro Cicerone che lo appoggiava. 50 venne espulso dal Senato per
indegnità morale. Dopo lo scoppio della guerra civile combatte dalla parte di Cesare, con la vittoria di quest’ultimo la sua
carriera ripartita rapida, tanto che nel 46 fu proclamato pretore. Diventò poi governatore della provincia di Africa Nova,
ma dette prova di malgoverno e rapacità tanto che venne colpito da un’accusa di malversazione; per evitare la condanna
si ritirò una volta per tutte dalla vita politica e da questo momento in poi si dedicò alla storiografia. Morì tra il 35 e il 34
lasciando incompiuta la sua opera maggiore.
Le opere
Dopo un’iniziale ed intensa partecipazione alla vita politica, il negotioum, Sallustio si ritirò a vita privata e si dedicò
all’attività letteraria, l’otium. Poichè i romani concepivano l’otium come un’attività potenzialmente negativa, l’autore sentì
il bisogno di giustificare la sua nuova occupazione e lo fece nei due lunghi poemi che anteposero alle monografie. Se per
Cicerone la rivalutazione dell’attività intellettuale è compiuta con orgoglio, Sallustio, che alla storiografia attribuisce un
valore di grande inferiore a quello della politica, intervista della formazione culturale dell’uomo politico.
I pochi cenni autobiografici contenuti nei proemi di Sallustio sono volti a spiegare l’abbandono della vita politica con la
crisi che ha irrimediabilmente corrotto le istituzioni e la società; l’autore denuncia l’avidità di ricchezze di potere come i
mali che avvelenano la vita politica romana e in ciò si fa evidente il contrasto fra la pagina scritta e quanto sappiamo della
sua carriera disonesta di governante.
La cosa più importante è che la stessa storiografia sallustiana tende a configurarsi come indagine sulla crisi.
Così l’impostazione monografica serviva in maniera eccellente a delimitare e a mettere a fuoco il singolo problema storico
sullo sfondo di una visione organica della storia di Roma.
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L’ETA’ ARCAICA E REPUBBLICANA
La Congiura di Catilina
La prima monografia di Sallustio tratta della congiura Catilina, repressa 63 Cicerone, allora console. In questo episodio
l’autore individua una pericolosa novità nella storia di Roma: il tentativo di coalizzare contro il regime senatorio una sorta
di blocco sociale, costituito dal proletariato urbano, dai ceti poveri di alcune zone dell’Italia, dai membri indebitati
dell’aristocrazia, e forse anche da masse più o meno ampie di schiavi.
Sallustio come molti suoi contemporanei, vedeva nel pericolo catilinario uno dei sintomi della ben più grave malattia di cui
soffriva lo Stato: il progressivo sfaldarsi della moralità e della coesione interna della società romana. Per dimostrare
questo lo storico interrompe la narrazione per aprire un excursus sulle fasi precedenti della storia di Roma, si tratta della
cosiddetta archeologia che, sul modello di Tucidide, traccia la rapida storia dell’ascesa e della decadenza di Roma. Il punto
di svolta è individuato nella distruzione di Cartagine, a partire dalla quale l’autore fa incominciare il deterioramento della
moralità romana. Un secondo excursus, collocato al centro dell’opera, denuncia la degenerazione della vita politica
romana nel periodo che va dalla dominazione di Silla alla guerra civile tra Cesare e Pompeo; la condanna coinvolge in pari
modo entrambe le parti in lotta che porta con sé una condanna al regime dei partiti.
Lo storico auspicava probabilmente all’attuazione di una politica autoritaria che sapesse porre fine alla crisi dello Stato
ristabilendo l’ordine e rinsaldando la concordia fra i ceti possidenti.
La simpatia per Cesare è provata dalla negazione dei contatti tra questi e Catilina, che all’interno della monografia
pronuncia un discorso per sconsigliare la condanna a morte facendo largo cappello a considerazioni legalitarie.
Sallustio disegna sapientemente il ritratto di Cesare, soffermandosi da un lato sulla sua liberalità, dall’altro sull’infaticabile
energia che sorregge la sua brama di gloria: lo indica, assieme a Catone, come uno dei più grandi romani dell’epoca.
Ridimensiona invece la figura di Cicerone dipingendolo come un semplice magistrato che fa il suo dovere pur non essendo
un eroe, superando per quanto è possibile inquietudini e debolezze.
Il ritratto più riuscito è di certo quello di Catilina, del quale Sallustio parla a tinte forti e contrastanti, sottolineandone da
un lato l’energia indomabile, dall’altro la consuetudine con ogni forma di depravazione. L’esigenza è prettamente
moralistica: lo giudica coerentemente con il suo moderatismo politico.
Dai discorsi che Caterina pronuncia nella monografia affiorano Piera volta, probabilmente al di la delle stesse intenzioni
dello storico, i motivi profondi della crisi che da tempo travaglia lo stato romano: da una parte pochi potenti che
monopolizzano cariche politiche e ricchezze, dall’altra una massa senza potere, coperta di debiti e priva di vere prospettive
future.
Nella narrazione sallustiana, la guerra contro l’usurpatore acquista rilievo sullo sfondo della rappresentazione della
degenerazione della vita politica: l’opposizione avanti nobiliare, cui Sallustio si riallaccia, rivendicava contro la verità
corrotta il merito della politica di espansione nella difesa del prestigio di Roma. Pertanto come nella precedente
monografia, Sallustio introduce al centro dell’opera un excursus che indica il regime dei partiti la causa prima della
lacerazione e della rovina della Repubblica ma la condanna è probabilmente più sfumata e meno equanime che nella
Congiura perché l’accusa di destabilizzare lo Stato in nome dei propri interessi di parte viene rivolta ora solo contro la
nobiltà.
Per certi aspetti il quadro che emerge è piuttosto deformante: al fine di rappresentare la nobiltà come un blocco unico
guidato da un gruppo corrotto, l’autore trascura di parlare dell’ala dell’aristocrazia favorevole a un impegno attivo nella
guerra. Le linee direttive della politica dei populares sono esemplificate nei discorsi tenuti da Memmio e Mario; entrambi
rappresentano i migliori valori etico politici espressi dalla democrazia romana: Memmio invita il popolo alla riscossa contro
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l’arroganza dell’oligarchia dominante, Mario afferma una nuova aristocrazia, l’aristocrazia della Virtus, che si fonda non
sulla nascita ma sui talenti naturali di ciascuno e sul tenace impegno a svilupparli.
Il discorso di Mario esprime soprattutto le aspirazioni dell’élite italica ad una maggiore partecipazione al potere.
Il moderatismo dell’autore emerge dal suo giudizio su Mario infatti pur riconoscendo gli grandi meriti nella lotta
antinobiliare, critica il ricorso alla freccia plebea, considerata un elemento fortemente destabilizzante per le sorti dello
Stato.
Come già per Catilina, Sallustio a tratteggia il ritratto di Giugurta, non nascondendo la propria perplessa ammirazione per
l’energia indomabile, segno di virtus anche se corrotta. Rispetto al ritratto di Catilina la personalità del re barbaro è
rappresentata in evoluzione: la sua natura non è corrotta fin dall’inizio, Marlowe diviene progressivamente. Il seme della
corruzione viene gettato in Giugurta durante l’assedio di Numanzia, da nobili e homines novi romani.
Le Historiae
La maggiore opera storica di Sallustio rimase incompiuta per la morte dell’autore: le Historiae iniziavano con il 78 a. C.,
riallacciandosi alla stazione di Sisenna, ma non sappiamo fino a che punto si promettesse di condurre il racconto.
Alcuni frammenti che ci restano sono particolarmente ampi: si tratta di quattro discorsi e di un paio di lettere delle quali la
più importante è quella che l’autore immagina scritta da Mitridate, in cui affiora chiaramente il motivo principale dello
scontento dei popoli soggiogati e dominati da Roma, ossia la sua inestinguibile sete di ricchezze e di potere.
Lo stile
Sallustio a fissare lo stile della storiografia futura nutrendosi di Tucidide e di Catone, elaborò uno stile fondato
sull’inconcinnitas, sul rifiuto di un discorso ampio e regolare, sull’uso frequente di antitesi, asimmetrie e variazioni di
costrutto.
Ad enfatizzare questa nobile solennità contribuisce una ricca pagina arcaizzante. L’arcaismo, però, non è solo la scelta di
parole desuete, ma anche ricerca di una concatenazione delle frasi di tipo paratattico. I pensieri così si giustappongono
l’uno all’altro come blocchi autonomi di una costruzione; il periodare di Sallustio rinuncia alla subordinazione sintattica
come scelta prevalente ed ugualmente evita le strutture bilanciate e le clausole ritmiche care al discorso oratorio
elaborato.
Sul piano della tecnica narrativa, l’esigenza di sobrietà e di austerità imponeva la rinuncia a tutta una serie di effetti
drammatici tipici della storiografia tragica, incline a suscitare emozioni e perciò ispirata ad uno stile di narrazione vivace e
realistico.
LUCREZIO
Tito Lucrezio Caro , insieme a Catullo, è il più grande poeta delle tattiche Cesare. Il suo lungo poema in sei libri intitolato la
natura È il primo della letteratura latina ad esserci giunto per intero, Espone a filosofia di Epicuro con rigore ma senza
scadere in una pedante esposizione manualistica. Si tratta infatti di una grande opera di poesia dall’ispirazione possente al
servizio della missione divulgativa di cui Lucrezio si fa carico. Nel potere sacrifico della terapia epicurea il poeta trova
l’antidoto ai travagli che si coinvolgono la società romana del primo secolo a. C., lasciando un grandioso monumento al
pensiero scientifico come mezzo di riscatto dell’uomo dalle tenebre dell’ignoranza e della superstizione.
La vita
La notizia biografica più ampia su Lucrezio compare nel Chronicon di San Girolamo, una traduzione dell’opera omonima
del greco Eusebio di Cesarea, integrata con notizie su vari scrittori latini tratte da Svetonio.
Alcuni manoscritti di Girolamo collocano la notizia della nascita nel 96, altri del 94 mentre la data di morte oscillerebbe tra
il 52 e il 50.
Nulla di concreto si può affermare nemmeno sulla provenienza del poeta, che si pensa forse campano. Anche per quanto
riguarda la classe sociale di provenienza l’unico indizio ricavabile dal poema non aiuta molto a chiarire il punto, tanto che
gli interpreti sono divisi tra chi lo considera un cliente di rango equestre, chi un liberto e chi addirittura un nobile.
Ma con ogni probabilità respinta la notizia di Girolamo sulla follia di Lucrezio, un’invenzione che dovrebbe essere nati in
ambiente cristiano nel quarto secolo al fine di screditare la polemica antireligiosa. Alcuni critici contemporanei
interpretano questa follia con la depressione patologica del poeta, per spiegare il pessimismo così contrario alla
prospettiva ottimistica di Epicuro.
Il De rerum natura
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Lucrezio è autore di un poema in esametri, De rerum natura, in sei libri, forse non è finito o comunque mancante
dell’ultima revisione. Il titolo traduce fedelmente quello dell’opera di Epicuro il perduto Perì physeos, in trentasette libri.
Il De rerum natura è dedicato all’aristocratico Memmio, verosimilmente da identificare con il Gaio Memmio che fu amico e
patrono di Catullo. La data di composizione del poema non è sicura, ma è certo che Cicerone nella lettera al fratello quinto
del febbraio del 54 mostra di aver già letto e apprezzato il poema.
Il poema Lucreziano divulga, in lingua latina e in versi, il pensiero di Epicuro. La penetrazione dell’epicureismo a Roma era
stata da sempre ostacolata dalla classe dirigente perché ritenuto destabilizzante per lo Stato e per il mos maiorum.
Anche un autore come Cicerone aveva eretto un argine insormontabile proprio nei confronti dell’epicureismo perché
questa dottrina era considerata pericolosa dato che da un lato, predicando la ricerca del piacere e della tranquillità,
distoglieva cittadini dall’impegno politico, dall’altro, negando l’intervento degli dei degli affari umani, correva quella
migliore ufficiale che la classe dirigente usava come strumento di potere.
Nonostante tali preclusioni ideologiche, nel primo secolo questa dottrina era riuscita a diffondersi anche negli stati elevati
della società romana, meno sappiamo Sulla penetrazione delle dottrine e epicurei nelle classi inferiori.
Il De rerum natura è articolato in tre coppie di libri che illustrano fenomeni di dimensioni progressivamente più ampie:
dagli atomi si passa al mondo umano per arrivare, infine, ai fenomeni cosmici. L’opera non ha probabilmente ricevuto
l’ultima revisione da parte dell’autore come dimostrano alcune ripetizioni diversi e qualche incongruenza.
Per divulgare la dottrina epicurea a Roma Lucrezio si mosse su una strada radicalmente diversa da quella prosastica
seguita dai suoi predecessori, optando per la forma del poema epico didascalico. Questa scelta dovete destare sorpresa,
perché Epicuro aveva condannato la poesia per la sua connessione con il mito e per le belle invenzioni in cui irretiva
pericolosamente i lettori. Nella sua scelta l’autore fu probabilmente guidato dal desiderio di raggiungere gli strati superiori
della società con un messaggio che non avesse niente da invidiare alla bella forma di cui talora si ammantavano gli altri
filosofia.
Diversamente dal suo maestro Epicuro, Lucrezio non solo ostenta ammirazione per Omero, ma riconosce modelli
importanti in tutta la tradizione epico didascalica. L’autore ambisce a descrivere a indagare le cause e a spiegare ogni
aspetto importante della vita del mondo e dell’uomo; inoltre vuole convincere il lettore della validità della dottrina
epicurea attraverso argomentazioni e dimostrazioni serrate, proponendogli una verità sulla quale è obbligato a esprimere
un chiaro giudizio di consenso o di rifiuto.
La consapevolezza dell’importanza della materia trattata determina il tipo di rapporto che l’autore instaura con il lettore-
discepolo, il quale viene continuamente esortato, talora minacciato, affinché segua con diligenza il percorso educativo che
l’autore ripropone.
Il destinatario del messaggio deve reagire agli insegnamenti diventando consapevole della grandezza dell’intelletto; è
questa la radice del sublime, quegli spettacoli anche grandiosi che ricorrono nel poema coinvolgono il lettore spettatore.
Così questi è chiamato a trasformarsi in eroe, ad emozionarsi e a trovare in sé la forza di accettare la dottrina anche
qualora le verità proclamate dal poeta siano terribili e perfino paurose.
Da questo approccio discendono alcune delle caratteristiche essenziali del poema, prima fra tutte la rigorosa struttura
argomentativa. Tra i processi dimostrativi Lucrezio trascura il sillogismo E l’analogia E il libro che più di ogni altro
testimonia la perizia argomentativa del poeta il terzo, dedicato alla confutazione del timore della morte. In ultimo,
carattere interessante dell’opera, è il legame con la letteratura diatribica.
Subito dopo il proemio Lucrezio si rivolge al lettore invitandolo a non considerare empia la dottrina che egli si accinge a
trattare: ben più crudele è la religione tradizionale basata sulla paura degli dei, in grado di opprimere sotto il suo peso la
vita degli uomini, turbando ogni loro gioia con la paura. Lucrezio resta fedele alle teorie di Epicuro descrivendolo fin da
subito come un nuovo Prometeo, un guerriero impegnato in un duello eroico contro la superstizione, colui che insomma
ha liberato gli uomini da enormi sofferenze morali.
Epicuro credeva infatti che gli dei fossero figure dotate di vita eterna, incuranti delle vicende della terra e dell’uomo. Così
la conoscenza delle leggi scientifiche diventa indispensabile per comprendere che qualsiasi fenomeno non è segno di una
punizione divina.
Un’ampia parte dell’opera è dedicata alla storia del mondo, del quale è chiarita sia la natura originaria, causata da
un’aggregazione di atomi sia la natura mortale. In seguito vengono trattate le tappe del progresso umano, positive e
negative, Spesso generate dal fatto che la natura ha mostrato agli uomini come agire.
L’autore infine critica alcuni aspetti di decadenza morale che il progresso ha portato con sé, come il sorgere dei bisogni
innaturali, della guerra, delle ambizioni e cupidigie personali. La sua non è tuttavia una visione sconsolata e pessimistica:
l’epicureismo è in grado di fornire una risposta a questi problemi invitando a riscoprire che la natura del corpo ha bisogno
davvero di poche cose. Il modello di vita suggerito dall’epicureismo è coerente con queste premesse: il saggio deve
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abbandonare le inutili ricchezze e allontanarsi dalle tensioni della vita politica per dedicarsi a coltivare lo studio della
natura con gli amici più fidati, somma ricchezza della vita umana.
La confusione tra figura storica dell’autore e l’immagine del lavoratore che prende la parola all’interno del poema ha
danneggiato la lettura critica De rerum natura. Le due figure non devono essere sovrapposte meccanicamente il narratore
può assumendo molti tratti propri dell’autore non è in realtà che una persona tra le altre, che gioca il suo ruolo all’interno
del sistema di valori e dei tempi del poema.
Il De rerum natura è pervaso da una tensione che essere definita illuministica, volta a convincere razionalmente il lettore e
a trasmettere i precetti di una dottrina in qui l’autore crede profondamente; non è vero che Lucrezio non riesce a
convincere se stesso dell’ottimismo epicureo, anche se spesso non è facile giungere ad una valutazione equilibrata con il
pessimismo interiore del poeta stesso.
Lingua e stile
Il tratto distintivo dello stile lucreziano va individuato nella concretezza dell’espressione che deriva quasi sempre dalla
mancanza nella lingua latina di un linguaggio astratto: la lingua si fa vivida perché, per supplire a questa mancanza, deve
ricorrere a una gamma vastissima di immagini, similitudini ed esempi esplicativi.
Lo stile si piega al fine di persuadere il lettore attraverso un linguaggio che al contempo è colloquiale e sublime; spesso
l’autore si trovò costretto a ricorrere a perifrasi e neologismi.
L’esametro lucreziano si differenzia nettamente da quell’arcaico di Ennio e annulla, soprattutto nelle parti tecniche e
argomentative, la tensione che si crea tra un verso e l’altro, permettendo una più pacata e lineare comprensione del
contenuto e accentuando il senso di accumulazione di fatti e prove convincenti.
CATULLO
Nel I secolo a.C. una nuova generazione di poeti impone un radicale rinnovamento estetico e letterario, segnando una
svolta decisiva nella storia della letteratura latina, sono i neoteroi, o poetae novi, secondo la definizione originariamente
denigratoria di Cicerone, con cui il gruppo è poi passato alla storia, al netto di ogni giudizio negativo.
Il processo di modernizzazione del gusto letterario promosso dai poeti nuovi non è che un aspetto del generale fenomeno
di ellenizzazione dei costumi che caratterizza la società romana nell’età della Repubblica. Questa trasformazione dei modi
di vita è la conseguenza delle grandi conquiste del II secolo a.C., che avevano messo a contatto l’arcaica società romana
con la più raffinata cultura greca del Mediterraneo orientale. Attraverso un lento ma progressivo indebolimento dei valori
e delle forme della tradizione emergono nuove esigenze, dettate dall’affinarsi del gusto e della sensibilità.
I neoteroi prendono dai poeti ellenistici il gusto per la contaminazione tra i generi, l’interesse per la sperimentazione, la
ricerca di un lessico ionosfera sofisticati, il carattere decisamente disimpegnato della poesia.
Il carattere scherzoso di questo tipo di componimenti è implicito nel termine stesso che li designava, nugae, bagatelle, a
indicarne la natura di semplice intrattenimento. Coltivata nella cerchia intellettuale che faceva capo all’aristocratico
Lutazio Catulo, questa poesia è frutto dell’otium, dello spazio sottratto agli impegni civili dedicato alla lettura e alla
conversazione dotta; la rivendicazione delle esigenze individuali accanto agli obblighi sociali si manifesta anche
nell’interesse per i sentimenti privati, e soprattutto la ricerca di elaborazione formale rivela un gusto educato dal contatto
con la cultura e la poesia alessandrina.
L’otium E i suoi piaceri non occupano uno spazio limitato ma sono collocati al centro dell’esistenza, come valori assoluti,
ragioni esclusive. La poesia mio serico senso di una tendenza da tempo sensibile nella cultura latina: da una parte il
crescente disinteresse per la vita attiva spesa al servizio dello Stato, Dall’altra il contemporaneo affermarsi del gusto per il
tempo libero dedicato alle lettere che hai piacere, alla soddisfazione dei bisogni individuali e privati.
Tale rinnovamento letterario ed etico si riflette nella diffusione della Roma tardo repubblicana dell’epicureismo, la
filosofia che sostiene il rifiuto dell’attività politica nel nome di una vita appartata e dedita all’amicizia.
La convergenza fra i principi dell’epicureismo e le tendenze dei poeti materici è evidente, Ma va notata anche una
differenza importante: per gli epicurei, il cui fine è l’atarassia, il piacere senza turbamenti, L’eros è una malattia insidiosa,
Fonte di angoscia e di dolore, mentre per i proteici, L’amore è il sentimento centrale della vita. È proprio l’amore ad essere
il tema privilegiato della loro poesia.
Pur non raggiungendo a formare un avere propria scuola i poeti neoterici condividono affinità di gusto e una comune
provenienza geografica dalla Gallia Cisalpina; ciò si traduce in attività critico filologica che accompagna la pratica poetica
vera e propria: la cura scrupolosa della competizione e il paziente lavoro di lima sono il tratto distintivo primario della
nuova poetica callimachea, sulla scorta della quale i neoteroi, il ridono gli stanchi limitatori di Ennio, i pomposi cultori
dell’etica tradizionale, celebrativa delle glorie nazionali, Estranea ormai al gusto contemporaneo.
La vita
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L’ETA’ ARCAICA E REPUBBLICANA
Gaio Valerio Catullo nasce a Verona, da una famiglia agiata; la data della sua nascita non è certa: Girolamo che si rifà a
Svetonio, la fissa nell’87 a.C. e ne colloca la morte trent’anni dopo, nel 57; ma il poeta era certamente ancora vivo almeno
fino al 55; grosso modo, si è dunque vera la notizia della morte a trent’anni, bisogna abbassare la data di nascita all’84.
Non sappiamo quando giunse a Roma, dove comunque conobbe e frequentò personaggi di spicco dell’ambiente politico
letterario ed ebbe una relazione d’amore con Clodia, quasi certamente sorella del tribuno Clodio e moglie di Metello,
console nel 60.
Probabilmente nel 57 andò in Bitinia, Come membro dell’entourage del governatore premio: In occasione di questo
viaggio visitò la tomba del fratello.
Le notizie biografiche ci vengono soprattutto dai suoi carmi; altre informazioni si deducono dagli scritti di Svetonio e di
Apuleio.
Il Liber
Di Catullo abbiamo 116 carmi, raccolti in un Liber che si suole dividere sommariamente, su base metrica, in tre sezioni:
- 1-60: nugae componimenti brevi e di carattere leggero in metri vari.
- 61-68: carmina docta carmi più lunghi e stilisticamente elaborati in metri vari.
- 69-116: epigrammi carmi generalmente brevi in distici elegiaci.
La questione relativa alla composizione del Liber trattoria è controversa: qualcuno attribuisce al poeta la responsabilità
dell’ordinamento della raccolta ma di più tendono a credere che questo ordinamento sia opera di altri. Alcuni
componimenti pervenutici per tradizione indiretta devono essere rimasti esclusi; questo fa pensare che il libellus dedicato
a Cornelio Nepote costituisse solo una parte dell’intero Liber.
Al progetto di recupero della dimensione intima, dei sentimenti privati, che caratterizza la rivoluzione neoterica risponde
in modo più evidente soltanto la prima parte, quella costituita di polimetri ed epigrammi.
Dall’occasione alta dei temi risulta un’impressione di immediatezza che ha dato luogo all’equivoco di una poesia ingenua e
spontanea, libera dai vincoli della morale e dai filtri della cultura; in realtà questa è un’apparenza ricercata e ottenuta
grazie ad un ricco patrimonio di dottrina, Anche i componimenti che sembrano più occasionali, Hanno i loro precedenti
letterari.
Nel complesso imposto stilistico della poesia catulliana rientrano precise risonanze le rientrano precise risonanze letterarie
dissimulate più o meno sapientemente come se fossero gesti i riflessi di un’emozione.
Non si deve dimenticare che lo sfondo della poesia di Catullo è costituito dall’ambiente letterario e mondano della
capitale, di cui fa parte la cerchia degli amici materici, accomunati dagli stessi gusti: lepos, venustas e urbanitas.
Al centro del mondo poetico catulliano risalta la figura di Lesbia, incarnazione della devastante potenza dell’eros,
protagonista indiscussa, il cui stesso pseudonimo, che rievoca saffico, è sufficiente a crearle attorno un alone idealizzante.
Gioie, sofferenze, tradimenti, Scandiscono le vicende dell’amore vissuto da Catullo come esperienza capitale della propria
vita. Il totale coinvolgimento lo induce a sottrarsi ai doveri civici: Non prende parte così alle travagliate vicende politiche
del suo tempo, Ma si limita ad esprimere tutto il proprio disprezzo nei confronti di avventurieri arroganti corrotti.
Il rapporto con Lebia si configura nelle aspirazioni di Catullo come un tenace vincolo matrimoniale. Le recriminazioni per il
foedus d’amore vincolato sono un motivo insistente sulla bocca del poeta, che conferisce sacralità al concetto interni
allora sui valori della fides e della pietas.
Per questo i ripetuti tradimenti della donna amata infrangono il cuore del poeta, che riesce a consolarsi soltanto
attraverso il piacere del ricordo, soprattutto legato alla consapevolezza in aver mai mancato rispetto al suo patto d’amore.
I due manifesti di poetica sono sicuramente i carmi 1 e 95 in cui l’autore presenta il suo libellus come lepidus, novus,
expolitus; verità eleganza e dottrina sono i calli di un gusto cui Catullo aderisce senza riserve.
Come altri poeti neoterici anche Catullo si cimenta nel nuovo genere epico, l’epillio: il carme 64 ne costituirà quasi il
modello esemplare per la cultura latina. Questo celebre epillio narra il mito delle nozze di Peleo e Teti, ma nella vicenda
principale contiene incastonata mediante la tecnica alessandrina della digressione un'altra storia, che figura ricamata sulla
coperta nuziale, quella dell'abbandono di Arianna a Nasso da parte di Teseo.
L’intreccio delle due vicende d’amore, Istituisce una serie di relazioni che hanno il loro nucleo nel tema della fides, di cui,
gli stessi veri, si facevano garanti e che nella correttezza presente e violate, pesa insieme agli altri valori religiosi immorali.
Il mito così si rende proiezione e simbolo delle aspirazioni del poeta, del suo bisogno perennemente inappagato di
ancorare un amore tanto precario ad un patto duraturo.
I carmi 61 e 62 sono invece epitalami; si tratta di un genere letterario di origine greca, attestato dall’epoca di sasso fino
all’età alessandrina, che Catullo analizza con l’inserimento di una serie di elementi tipicamente italico-romani, sia per
quanto riguarda il rito nuziale sia sul piano etico sociale.
Mentre il 61 fu scritto in occasione delle nozze di due nobili romani, il 62 non fu composto per un’occasione reale.
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L’ETA’ ARCAICA E REPUBBLICANA
Nel ciclo dei carmina docta omaggio a Callimaco: si tratta della traduzione in versi latini del’elegia intitolata La chioma di
Berenice, in cui il poeta greco celebrava inversi la cortigiana esco digitazione di un astronomo della corte di Tolomeo
d’Egitto, che aveva identificato una nuova costellazione con il ricciolo offerto dalla regina Berenice per il ritorno del marito
dalla guerra, ricciolo successivamente scomparso.
Particolarmente problematico è il carme 68: si discute persino se questo testo, si debba in realtà distinguere in due
componimenti; Si tratta di uno scritto rilevante, che riassume i temi principali della poesia dell’autore: amicizia, amore,
attività poetica, dolore per la morte del fratello. È considerato il progenitore della futura elegia soggettiva latina.
Lo stile
La lingua catulliana è il risultato di un originale combinazione di linguaggio letterario e di semo familiaris: il lessico e le
movenze del parlato vengono assorbiti e filtrati da un gusto aristocratico che li raffina e li impreziosisce, senza isterilirne le
capacità espressive.
Il gusto ricercato non produce un’eleganza esangue e lascia spazio, per esempio, alla cruda espressività di certi
volgarissimi che vanno ricondotti allo snobistico compiacimento di un’elite colta chiama esibire il turpiloquio accanto
all’erudizione più raffinata. Le modalità espressive vanno dallo sberleffo irriverente alle morbidezze del linguaggio
amoroso. Le vitalità del linguaggio affettivo non sono assenti nemmeno nei carmina docta.
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