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ETÀ TARDO ANTICA (III-VI SECC.

I: L’IMPERO

§ 1. La struttura amministrativa

Il nostro itinerario si dipana a partire dal Medioevo. A dire la verità, è difficile


stabilire con precisione dove inizi e dove finisca il Medioevo. Questo termine, più che
indicare un momento temporale, o una realtà oggettiva, indica un concetto, un’idea,
un’invenzione della mente, la cui definizione non può che essere soggettiva. Furono gli
umanisti, travolti dall’entusiasmo per la luminosa cultura antica che credevano uccisa
dalle barbarie e che essi pretendevano di risuscitare, a coniare l’espressione; essi
cominciarono a guardare con disprezzo ad un’epoca considerata nulla più che un
intermezzo buio racchiuso tra due luci: quella dell’antichità, che stavano riportando ai
fasti gloriosi, e quella del rinascimento, che essi andavano plasmando. Si trattava di una
media aetas per l’appunto.
Il concetto di Medioevo non sembra dunque nascere sotto una buona stella. Per
lungo tempo l’espressione sarà affiancata ad aggettivi dalla netta valenza negativa: il buio
medioevo, il medioevo oscurantista ecc. Eppure non fu così. Nel Medioevo è un
brulicare di vita, di pensiero, di cultura; qui si seminano le fondamenta della nostra civiltà
e identità (culturale, politica, spirituale e giuridica). E solo conoscendolo potremo capire
anche la nostra storia, ma soprattutto il nostro diritto, che molti debiti ha contratto con
quel periodo. Alcuni dei concetti giuridici che noi oggi studiamo, apprendiamo, o
assorbiamo acriticamente, ritenendoli, quasi in modo scontato, patrimonio del nostro
sapere, si sono forgiati proprio lì.
Nel frazionamento delle grandi ere storiche, siamo soliti distinguere tra alto e
basso medioevo, il primo convenzionalmente racchiuso tra l’avvento dei barbari in suolo
imperiale e l’XI secolo, il secondo tra l’XI e il XV secolo, quando si porranno le basi per
l’avvio dell’età moderna. Come ogni schematizzazione, anche questa è vittima di
eccessiva semplificazione, ma risulta utile per connotare e delimitare l’arco temporale
oggetto dei nostri discorsi.
Non possiamo però comprendere le origini del medioevo se non facciamo un
breve accenno ai prodromi dello stesso e non ci caliamo nell’età tardo-antica, fatta di un
Impero ormai al tramonto, dove soffiano ormai sulla monarchia venti bizantini, e di un
uomo che legò il proprio nome ad un diritto che segnerà profondamente i secoli a
venire, un uomo che, inconsapevolmente, tracciò il destino di un diritto destinato a
plasmare le sorti dell’Europa intera. L’uomo era Giustiniano, il diritto quello romano.
Tradizionalmente si fa coincidere la fine dell’età antica e quindi l’inizio di quelle
medievale con la deposizione dell’imperatore Flavio Romolo Augusto (detto Augustolo)
avvenuta nel 476 ad opera di Odoacre, re degli Eruli, una popolazione barbarica di
stanza si presume nella regione scandinava. La data segna la fine dell’Impero romano in
Occidente, ma l’evento presenta alcuni tratti di ambiguità (come vedremo riproporsi
nelle vicende che accompagnarono le invasioni barbariche) dal momento che Odoacre
inviò le insegne imperiali a Costantinopoli, riconoscendo con questo gesto una deferenza
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formale verso l’impero d’Oriente e Zenone, allora imperatore d’Oriente, per gratitudine,
attribuì a Odoacre il titolo di patritius. Risulta già evidente da questo episodio che mentre
l’Occidente cade sotto i colpi delle invasioni barbariche, l’Oriente continua a pulsare
attorno alla sua capitale e divenire l’unico detentore del vero potere imperiale, erede delle
vestigie e della gloria che un tempo furono di Roma.
L’attenzione si rivolge quindi al mondo orientale, mentre l’occidente vive un
inarrestabile declino da cui si scuoterà secoli dopo e, paradossalmente, grazie proprio a
un altro popolo barbaro.
La nostra storia quindi non può che prendere le mosse dal primo protagonista ad
occupare la scena: l’Impero. Diviso nelle due parti, Orientale e Occidentale, ognuna delle
quali è a sua volta divisa 2 prefetture (Italia e Gallia per l’Occidente e Illirico e Oriente
per la parte orientale), ripartite ciascuna in 6 diocesi e ogni diocesi in 57 province (114 in
tutto), l’Impero conosce a partire da Diocleziano in poi tratti che lo fanno assomigliare
ad una forma di assolutismo. Ed in effetti la concentrazione di potere nelle mani
dell’imperatore è notevole.
L’imperatore, coadiuvato dal prefetto del pretorio, è a capo del potere esecutivo: i
funzionari dell’apparato burocratico sono nominati da lui e da lui dipendono
gerarchicamente.
É a capo del potere giudiziario, essendo giudice in ultima istanza, controlla anche
il potere finanziario, comanda l’esercito, dichiara guerra e conclude la pace. Infine,
interviene anche negli affari religiosi, com’è logico proclamandosi egli di natura divina,
sacro e oggetto di venerazione. L’adorazione dell’imperatore, introdotta da Diocleziano,
(284-305) porta con sé anche tutta una serie di cerimoniali e di riti di stampo orientale:
mantello di porpora trapunto di pietre preziose, vita ritirata nel palazzo, bacio dell’anello,
genuflessione, proschínesi (chinarsi a terra).
Tutti questi poteri trovano il loro fondamento solo nell’imperatore, considerato
come un Dio. Le cose non cambieranno con il riconoscimento del cristianesimo:
l’imperatore diverrà il rappresentante di Dio in terra.
La successione al trono era basata dapprima sul principio della tetrarchia,
introdotto da Diocleziano all’indomani della sua acclamazione come imperatore nel 284:
l’impero era governato, nelle rispettive parti di Oriente ed Occidente, da due imperatori
(Augusti), Diocleziano e Massimiano, e da due Cesari (Costanzo Cloro e Galerio), ai
quali i due Augusti avevano dato in moglie le loro figlie, adottandoli. Alla morte di un
Augusto avrebbe dovuto succedergli il rispettivo Cesare. Fu Costantino ad abolire
questo sistema, nominando Cesari i suoi figli e quindi imponendo in sostanza una
monarchia di tipo dinastico.
La persona dell’imperatore è al vertice della gerarchia; egli è considerato la fonte di
ogni potere ed esaltato secondo forme che si richiamano ad antichi modelli orientali, che
in una qualche misura influenzano il mondo politico di Roma da cui, fino a quel
momento, erano rimasti estranei.
Anche il potere legislativo discende direttamente dall’imperatore: pur se in molte
fonti si ricorda la lex regia de imperio, che aveva trasferito ogni diritto ed ogni potere del
popolo romano all’imperatore, ciò non consente in realtà di parlare di una derivazione
del potere normativo dal basso, dalla volontà popolare.

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§ 2: Le fonti normative

Se dalla struttura politica si passa ad esaminare il dato normativo, ciò che emerge è
che ci troviamo di fronte alla distinzione tra due tipologie normative: le leges e gli iura. E’
venuta meno la varietà di fonti normative dell’età classica (editto del pretore, senatus
consulta, responsa prudentium) ed hanno perso importanza anche decreta (sentenze) e mandata
(istruzioni). Al tutto si è sostituito il binomio leges-iura.
Leges: erano l’espressione della volontà imperiale e si sostanziavano nelle
costituzioni di provenienza regia e nei rescritti, testi brevi con i quali gli ufficiali centrali,
a nome dell’imperatore, risolvevano specifiche questioni.
Iura: raccolgono tutte le altre fonti di produzione del diritto, in particolare l’opera
della giurisprudenza. Gli iura non erano leggi, ma principi idonei all’applicazione nella
prassi. Essi erano tolti sia dagli Editti pretori che dalle opere dei giureconsulti. I pareri
dei giuristi, quando il principe li autorizzava ed essi risultavano concordi su una tesi,
avrebbero avuto per i giudici la stessa efficacia della legge. Da Costantino in poi,
malgrado la presenza ingombrante del monarca nella produzione del diritto, gli iura non
si arrestarono, anche se si avvertì la necessità di disciplinarli per adattarne l’uso a tempi
segnati da una profonda decadenza culturale.
Così, in Occidente, nel 426, l’imperatore Valentiniano III, imperatore
d’Occidente, indirizzò da Ravenna al Senato di Roma la cd. Legge delle citazioni, inserita
poi da Teodosio II nel Codice Teodosiano. Con le leggi delle citazioni si stabiliva che le
opinioni di Papiniano, Ulpiano, Modestino, Paolo e Gaio avessero forza vincolante
qualora fossero state concordi; che vincesse la maggioranza se discordi e in caso di parità
numerica prevalesse quella di Papiniano, spettrale presidente di un’ideale corte dei morti.
Gli altri giuristi potevano essere allegati solo se citati da questi cinque grandi e solo
esibendo il testo originale. Si coglie dalla disposizione che nell’uso corrente degli iura
regnava una certa confusione, o circolavano esemplari inaffidabili o addirittura che taluni
avvocati facevano false citazioni giocando sull’ignoranza altrui.
Gli iura tuttavia rappresentano la parte normativa ormai al tramonto, la vecchia
tradizione occidentale, destinata a soccombere da quando il centro dell’Impero si era
spostato in Oriente e l’asse portante dell’ordinamento erano divenute le leges, ossia i
comandi dell’imperatore.
L’età tardo antica vede prevalere le costituzioni imperiali, ossia le leges, sugli iura.
Inizia qui, agli albori della storia, un dualismo che connoterà quasi tutta la storia
del diritto: il dualismo è rappresentato dal confronto-scontro tra ius novum-ius vetus. Le
leges rappresentano il ius novum, gli iura il ius vetus e la dialettica tra ius novum e ius vetus
all’interno del medesimo sistema consegue al principio che il nuovo debba impiantarsi
sul vecchio senza rinnegarlo. É una dialettica che continuerà per tutto il medioevo e
costituirà l’anima dei diversi sistemi normativi: il ius vetus è da salvaguardare sempre,
secondo la visione conservatrice dell’antichità; il ius novum ne va via via predisponendo i
necessari aggiornamenti.
Sia le leges che gli iura che i rescritti confluiranno in grandi raccolte.

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§ 3: Dal Codice Teodosiano alla compilazione giustinianea

Le due grandi raccolte di costituzioni imperiale (e quindi di leges) sono il Codice


Teodosiano del 438 e il Codice di Giustiniano del 534. Il primo raccoglie le costituzioni
da Costantino a Teodosio II, ossia dal 312 al 438; il secondo da Teodosio (438) a
Giustiniano (534).
Il Codice Teodosiano parte da un progetto ambizioso: nel 429, tre anni dopo la
legge delle citazioni, Teodosio II, imperatore d’Oriente, lancia il progetto di una
raccolta di testi normativi per realizzare due codici, l’uno destinato a raccogliere le
costituzioni generali da Costantino in poi, vigenti e non, e destinato alla scuola; l’altro
destinato a fornire un quadro preciso e puntuale del diritto vigente, e quindi formato
dalle sole costituzioni in vigore, integrate dagli iura, destinato alla prassi forense. Nel 435
il progetto viene abbandonato e alla prima commissione formata da 8 membri se ne
sostituisce una seconda di 16, incaricata di compilare una sola raccolta di costituzioni
imperiali da Costantino in poi, anche non in vigore. Il codice fu promulgato nel 438 ed
entrò in vigore l’anno successivo. Era diviso in 16 libri, ripartiti in titoli, dove le leges
erano ordinate cronologicamente e disciplinavano tutto l’ordinamento giuridico.
Dall’Oriente fu esteso all’Occidente, per volere di Valentiniano III, genero di Teodosio,
che lo accolse per ‘affezione filiale’ e per una strana ironia della sorte sarà proprio
l’Occidente a conservarne la memoria storica. La tradizione scritta del codice teodosiano
è infatti tutta occidentale, perché qui si manterrà di più che in Oriente, dove sarà
abrogato nel 529 da Giustiniano.
La contrapposizione tra leges e iura non è solo confronto o dialettica tra due tipi di
fonti normative, ma è anche contrapposizione tra due modi di sviluppo del diritto nelle
due parti dell’impero. Si assiste ad una sorta di radicalizzazione di autonomia legislativa e
di tipizzazione di fonti tra le due parti dell’Impero. Dopo Costantino (morto nel 337) e
dopo la morte di Teodosio I nel 395 (gli succedono i figli Arcadio, imperatore d’Oriente,
e Onorio, di Occidente), l’impero viene definitivamente diviso in due parti anche sotto il
profilo della legislazione: ogni costituzione si applicava solo in quella parte dell’impero in
cui era stata introdotta. Poco passerà in occidente dall’Oriente, nulla dall’Occidente a
Bisanzio. Anzi, è proprio Teodosio II a formalizzare la regola dell’invio mediante
pragmatica sanctio (ossia una specifica costituzione imperiale), affinché una costituzione
emanata in una delle due parti dell’impero potesse avere vigore anche nell’altra.
Quello che non era riuscito a Teodosio, riuscirà qualche anno più tardi a
Giustiniano. Nato nel 482 in Illiria, non lontano dall’attuale Skopje in Macedonia, dotato
di un’educazione e di una cultura raffinata, salito al trono nel 527, egli realizzò una
politica imbastita lungo tre direttrici:
a) impegno per una ‘codificazione’ attenta al nuovo e fedele all’antico (ius novum-
ius vetus) che assicurasse certezza al diritto;
b) ampio programma di restaurazione con le armi dell’effettivo potere di
Costantinopoli;
c) iniziative dirette all’unificazione della Chiesa cristiana, lacerata dall’arianesimo,
quest’ultimo destinato al fallimento.

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É soprattutto il primo progetto ad interessarci. L’obiettivo di Giustiniano era di
giungere a una sistematizzazione tanto delle leges quanto degli iura
Il 13 febbraio del 527 egli nominò una commissione di 9 membri presieduta da
Triboniano con il compito di rielaborare i testi esistenti, primo fra tutti il codice
Teodosiano, e sfrondarli, ammodernarli, adattarli alla nuova realtà. Il prodotto fu pronto
già nel 529, ma questo Codex che raccoglieva le sole leges e i rescritti, non era destinato ad
avere vita lunga. Già cinque anni dopo, nel 534, venne soppiantato definitivamente da
una nuova versione che riuniva in 12 libri, a loro volta ripartiti in titoli, migliaia di
rescritti e costituzioni imperiali a partire del II secolo fino agli anni di Giustiniano. Il
Codice disciplinava un’ampia varietà di materie: il diritto privato, il penale, il pubblico,
l’amministrativo, il fiscale.
A Triboniano, vera anima dell’impresa, fu affidato anche il compito di selezionare
gli iura e dopo soli tre anni l’opera fu pronta. Nel 533 vide la luce il Digesto, ripartito in
50 libri in cui furono raccolti circa 10.000 frammenti selezionati fra 40 giuristi:
un’impresa maestosa. Larga parte è occupata dal diritto privato (famiglia, successioni,
proprietà, obbligazioni, contratti), mentre i libri 47 e 48 sono dedicati al penale e sono
definiti libri terribiles proprio per il tema trattato. Il Digesto è al tempo stesso l’opera più
ambiziosa e più importante in quanto raccoglie e ha consentito di tramandare fino a noi
la sapienza giuridica romana.
Il termine Digesto deriva dal latino digestus, participio perfetto del verbo digerere,
ossia disporre classificando gli argomenti in modo ordinato; i 5° libri sono anche detti
Pandette, dal greco πανδέκται, ossia onnicomprensivi, riguardanti qualsiasi materia, per
indicare la completezza delle norme della raccolta.
Sempre al 533 risalgono le Istituzioni, redatte, ancora una volta sotto il vigile
controllo di Triboniano, da due maestri, Teofilo e Doroteo, che racchiusero le nozioni
giuridiche elementari da impartire al primo anno di insegnamento, divise in quattro libri,
a imitazione di un’analoga opera didattica redatta da Gaio. Giustiniano, infatti, gran
propagatore di cultura, aveva pensato ad un manuale di diritto per la scuola, riformata
nel frattempo con la costituzione Omnem, che prevedeva uno studio quinquennale: un
primo anno di introduzione e principi generali, dal secondo al quarto lo studio del
Digesto e al quinto il Codice. La costruzione degli studi riflette la piramide normativa,
dove il Digesto costituiva l’ossatura portante, ma era il codice, posto al vertice, a
legittimare tutto l’ordinamento, poiché rappresentava l’espressione del potere legislativo
del monarca. Proprio per agevolare questa riforma Giustiniano provvide a dar vita alle
Istituzioni, che divennero un manuale scolastico con forza di legge.
Ma l’opera non era conclusa. Dopo il 534, anno della seconda edizione del
Codice, la produzione legislativa non si arrestò e le costituzioni imperiali emanate fra il
534 e il 565, anno della morte di Giustiniano, e denominate Novelle (ossia le ‘cose
nuove’), vennero raccolte in due collezioni, l’Epitome Iuliani e l’Authenticum.
La compilazione, che nel tempo prenderà il nome di Corpus Iuris Civilis, aveva
carattere esclusivo e sostituiva integralmente ogni altra fonte del diritto, a cui non era più
possibile attingere. Si vietò quindi di allegare in giudizio o altrove altre fonti tratte da altri
libri e si impose un’interpretazione letterale delle norme.

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La compilazione fu estesa alla sola Italia con la pragmatica sanctio del 554 che
l’imepratore bizantino dichiarò di aver promulgato pro petitione Vigilii, ossia su richiesta di
Vigilio, vescovo di Roma del tempo. Attraverso questo atto l’Italia diventò formalmente
terra di diritto giustinianeo, a differenza del resto d’Europa che conservò le leggi romano
barbariche e quindi il diritto teodosiano.
Va precisato e anticipato che con la guerra greco-gotica che Giustiniano intraprese
nel 535 e terminò nel 553 per strappare l’Italia dalle mani degli Ostrogoti, l’Italia era stata
riconnessa all’impero d’Oriente.
L’estensione ai soli territori italici della compilazione giustinianea determinò il
destino di quella realtà e quel diritto. Come un fuoco covato a lungo sotto la cenere, il
diritto giustinianeo non sprigionò la propria forza nell’immediato, ma quando esplose
infiammò l’Europa intera. Una riforma calata dall’alto, in un paese devastato e che di lì a
pochi anni sarebbe caduto in mani Longobarde non diede immediatamente i suoi frutti.
Ma attecchì, rimase nell’ombra, attendendo che i grandi cambiamenti socio-politici ed
economici che avrebbero attraversato l’Europa intera, e l’Italia in particolare, tra l’XI e il
XII secc. determinassero l’esigenza di un ‘nuovo’ diritto: un diritto ‘nuovo’ dal sapore
antico. E il Rinascimento giuridico farà del diritto giustinianeo la propria forza e il
proprio limite. Sarà questo diritto, attraverso l’interpretazione dottrinale dei giuristi, a
rappresentare il trade d’union dell’Europa tutta.

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II: LA CHIESA

§ 1: L’affermazione del cristianesimo e gli interventi di Costantino

L’altra grande protagonista dell’età tardo antica, universale quanto l’Impero, è la


Chiesa, che spiegherà una grande influenza nel campo della giustizia e della legislazione
per il suo sistema di valori e per le tecniche di ragionamento e di analisi da applicare ai
testi normativi.
La religione cattolica, da perseguitata divenne dapprima tollerata, con l’editto di
Galerio del 311 (era il nuovo Augusto in Oriente dopo l’abdicazione di Diocleziano), che
fece sospendere le persecuzioni. Fu poi riconosciuta lecita all’inizio del IV secolo, con
l’editto di Milano del febbraio del 313 (tradizionalmente attribuito a Costantino e Licinio,
anche se una parte della storiografia mostra qualche perplessità sul punto, ritenendo che
il testo che noi possediamo sembra essere quello emanato due anni prima da Galerio,
ossia l’editto di Nicomedia). Il fatidico 313 segna una svolta nella vita dei cristiani, con la
restituzione dei beni confiscati dall’imperatore in Africa e in Calabria e un primo
riconoscimento di privilegi ad una chiesa già qualificata come cattolica (ossia universale e
da proteggere), vessata da altri cristiani definiti come fazioni eretiche. Una prima
conseguenza fu che le chiese poterono divenire titolari di beni come universitates, in
quanto collegia licita: fu la porta che aprì agli enti ecclesiastici la strada verso
l’arricchimento e la potenza.
Tra il 318 e il 321 vedranno la luce una serie di provvedimenti destinati ad incidere
sulla vita della Chiesa. La costituzione di Costantino del 321 riconobbe alla Chiesa il
diritto di essere istituita erede; per la verità non era la Chiesa nella sua universalità a
vedersi riconosciuta tale prerogativa, ma le singole chiese furono elevate a specifiche
destinatarie della norma.
La disposizione più significativa, risalente probabilmente al 318, è il
riconoscimento dell’efficacia anche ‘civile’ delle sentenze emanate dai vescovi
nell’episcopalis audientia, quando anche una sola delle parti ed in seguito entrambe le parti
di comune accordo vi si fossero sottoposte. Così la sentenza pronunciata dei vescovi
riceveva lo stesso valore della decisione presa dai giudici imperiali: era definitiva,
inappellabile ed i giudici secolari dovevano assicurarne l’esecuzione. Era una
giurisdizione vera e propria, concorrente e speciale, valida per il solo ambito civile ed
esclusa per quello penale, a cui taluni studiosi ricollegano la nascita di quel foro
ecclesiastico destinato a segnare in modo irrevocabile le relazioni tra potere temporale e
spirituale, mentre altri vi vedono una sorta di tipo di arbitrato che i reiterati
sconfinamenti resi possibili dalla noncuranza e dall’indifferenza dell’apparato pubblico
trasformò in vero e proprio giudizio.
E ancora: la giurisdizione vescovile, in materia ecclesiastica, era esclusiva. E
Giustiniano la rese esclusiva per i chierici anche in materia civile (privilegio di essere
convenuti solo dinnanzi al vescovo: c.d. privilegio del foro), in deroga alla giurisdizione
ordinaria. Il vescovo giudicava applicando il diritto romano, le consuetudini locali da
esso ammesse, la lex christiana.
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Il culmine di questa ascesa si toccò quando la religione cattolica fu proclamata
esclusiva da Teodosio I nel 380, con l’editto di Tessalonica: tutti i popoli sottoposti
all’impero dovevano seguire la religione professata dai vescovi di Roma e di Alessandria.
Il cattolicesimo niceno-apostolico veniva così elevato al rango di religione di Stato.
Benché riconosciuta ufficialmente dall’Impero, la religione cristiana era portatrice
di valori in contrasto con la cultura giuridica romana. Basti pensare al principio di
indissolubilità del matrimonio, la gratuità del prestito e la condanna dell’usura,
l’esaltazione del valore della persona come tale, il ripudio della guerra.
Tuttavia, questi valori furono a poco a poco assorbiti della legislazione imperiale,
da Teodosio II a Giustiniano e questo non solo modificò sensibilmente la normativa via
via emanata dagli Imperatori (ma vedremo nel tempo poi emanati dagli organismi del
potere temporale) ma fece sì che l’Impero riconoscesse alcuni privilegi alla Chiesa e ai
suoi uomini.
Il privilegium fori, ossia la possibilità per gli ecclesiastici di essere giudicati dai loro
vescovi e non dai giudici ordinali, e l’episcopalis audentia cui si è fatto cenno, garantiva agli
uomini di Chiesa un potere particolare; attribuiva loro in qualche modo un ruolo di
supplenza nelle città imperiali, spesso sguarnite di rappresentanti del potere centrale. I
vescovi e gli ecclesiastici in genere erano ovviamente guide spirituali per la comunità, ma
finirono per assumere ruoli civili.

§ 2 L’organizzazione gerarchica della Chiesa

La Chiesa assunse da subito un’organizzazione gerarchica, allo scopo di creare un


organismo solido e compatto. L’ordinamento si precisava intorno al vescovo, che aveva
sede in una città ed era responsabile della città, sua sede, e del territorio circostante,
designato diocesi. Anche tra i vescovi vi era un ordine gerarchico che si fondava sulla
maggior o minor importanza della città in cui risiedevano. I metropoliti erano i vescovi
delle città più importanti: il metropolita era il massimo vescovo della provincia; i
metropoliti avevano il coordinamento dei vescovi della regione, detti suffraganei. Il
vescovo era designato dal clero locale, con l’acclamazione del popolo, tranne eccezioni
(come avvenne nel caso di Ambrogio, governatore provinciale) e la consacrazione da
parte degli altri vescovi della provincia ecclesiastica e del metropolita. Il vescovo aveva
una specie di ‘matrimonio mistico’ con la sua città: non la abbandonava se in casi estremi
ed eccezionali; era figura presente e di riferimento e per questo finì per assumere quasi
un ruolo giudiziale con l’episcopalis audientia.
Con il Concilio di Costantinopoli del 381 si attribuì al vescovo di Roma un
primato sugli altri vescovi e la sede di Roma venne collocata al primo posto tra le varie
sedi vescovili, davanti a Costantinopoli, malgrado affermazioni contrarie (nel 451 il
concilio di Calcedonia attribuì al patriarca di Costantinopoli gli stessi privilegi del
vescovo di Roma). Fu soprattutto con l’opera di Leone Magno (440-461) che si valorizzò
il ruolo del vescovo di Roma, successore di Pietro, rifacendosi al primato di Pietro sugli
altri apostoli e alla antichità della prima sede vescovile. Questa affermazione,
all’apparenza banale, è invece significativa per comprendere il tipo di approccio della
Chiesa alle fonti: ogni affermazione doveva trovare appoggio e appiglio nei testi sacri (il

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diritto divino, composto dal Vecchio e Nuovo Testamento). Un insegnamento che i
giuristi dell’età medievale appresero e applicarono con profondità e tenacia.

§ 3: L’emersione del diritto della Chiesa

Il diritto della Chiesa, consegnato innanzitutto alle Sacre Scritture, si sviluppa


anche attraverso fonti nuove, come la legislazione conciliare, soprattutto orientale,
cioè le delibere (canoni) prese nelle assemblee (concilii) dei vescovi (provinciali, se
riguardano solo i vescovi di una provincia; plenari, se quelli di più province; ecumenici, se
generali). Si può citare il concilio di Nicea del 325, evento grandioso, in cui la chiesa
cattolica si auto affermò ufficialmente di fronte all’eresia, costruendo l’edificio del suo
dogma. Nel concilio di Nicea si proclama che il Figlio è della stessa sostanza divina del
Padre (si afferma il dogma della consubstantia che creerà numerosi grovigli di eresie. Nel
concilio di Costantinopoli, nel 381, si aggiungerà anche lo Spirito Santo, concependo
così la Trinità). In questo modo si prese posizione contro Ario, per il quale solo il padre
aveva natura divina. Peraltro l’arianesimo non uscì sconfitto da questo scontro: crebbe e
si diffuse tra i popoli barbari, come i Goti, i Visigoti, gli Ostrogoti, i Longobardi e lo
stesso Costantino morì ‘eretico’, come lo fu suo figlio Costanzo II che si adoperò per far
trasferire alla Chiesa ariana la patente di ‘cattolica’ e quasi vi riuscì.
Un’altra fonte di somma rilevanza, destinata a divenire la più importante del
diritto canonico nel XII e XIII secolo, viene a profilarsi in quest’epoca: si tratta delle
decretali pontificie, le lettere in cui il vescovo di Roma rispondeva a quesiti giuridici
specifici sollevati da varie autorità (in primo luogo, altri vescovi). Se ne vedrà la grande
fioritura nel medioevo.
Quindi le due grandi fonte normative della Chiesa sono rappresentate ai:
a) canoni conciliari: norme e regole determinate dalle assemblee vescovili e
connotate da un ambito di applicazione diverso a seconda della natura dei concili (ius
vetus);
b) decretali pontificie: risposte su questioni specifiche sottoposte al vescovo di
Roma che finiranno per assumere un ruolo rilevante (ius novum)
Siamo ancora in un’età in cui Chiesa e Impero non sono in contrapposizione:
c’erano molte differenze, ma anche un’idea del potere favorevole all’ideologia imperiale.
L’Impero diventa “una gioiosa macchina per l’affermazione della fede”.

§ 4: Rapporti Chiesa e Impero: la concezione teocratica

La Chiesa finisce per assumere una funzione di guida spirituale anche nei
confronti dell’Imperatore. Rimane la distinzione istituzionale, ma certi problemi, come
l’eresia, sono sentiti come comuni.
Ci sono episodi celebri che illustrano questo fenomeno: nel 390, il vescovo di Milano
(che era allora capitale dell’Impero), Ambrogio, rivendicò il diritto di intervenire anche
nei confronti dell’imperatore, in occasione di una rappresaglia ingiustamente ordinata da
Teodosio I a Tessalonica.

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Per reagire all’ingiusto arresto di un auriga del circo, il popolo aveva lapidato il
magister militum dell’Illiria. L’imperatore, in un attacco di collera, ordinò una strage di
cittadini. Ambrogio, da Milano, tentò di far revocare l’ordine, ma invano. Compiuto il
sanguinoso eccidio (agosto 390), in una lettera segreta, Ambrogio invitò Teodosio alla
penitenza. L’imperatore rientrò a Milano in lacrime, nel Natale del 390, invocando
perdono.
Questo evento dà la misura di quanto la Chiesa fosse riuscita a far breccia nella
corazza, fino ad allora impenetrabile, dell’assolutismo imperiale. Fino a quel momento,
infatti, nulla aveva potuto scalfire i poteri dell’imperatore. La legge divina si poneva ora
come un limite all’esercizio di quei poteri: la legge divina doveva essere rispettata anche
dall’imperatore, che si era sempre proclamato legibus solutus, tanto nella legislazione
quanto nelle pratiche di governo.
L’imperatore non era più il sovrano unico, titolare di tutti i poteri compreso quello
religioso; accanto all’impero si trovava la Chiesa. D’altra parte, la tradizione cristiana non
intendeva abbattere lo stato, ma farlo diventare cristiano: in questa nuova prospettiva, il
potere religioso era tutto nelle mani della Chiesa ed era un potere superiore a quello
civile, che restava affidato all’imperatore: con i vocaboli romani, la Chiesa era
un’auctoritas spirituale superiore alla potestas temporale.
La penitenza imposta a Teodosio fu un fatto fondamentale nella storia della civiltà
occidentale; esso confermava l’indipendenza della Chiesa e la competenza del potere
spirituale a giudicare qualsiasi atto del potere temporale che toccasse la fede o la
disciplina. Se Ambrogio fu il primo esempio di un vescovo che richiamava un
imperatore al pentimento e alla riparazione pubblica delle colpe commesse nel governo
dei popoli, Teodosio il Grande fu il primo sovrano che riconobbe di essere soggetto a
leggi superiori, che egli non poteva non rispettare.
Ambrogio intendeva affermare che l’imperatore, non l’Impero, era nella Chiesa,
dentro la Chiesa e non sopra di essa. La persona individuale del monarca, nella sua
qualità di cristiano e di fedele, doveva obbedire a papa e vescovi. Non siamo alla
preconizzazione della visione ierocratica che si affermerà secoli dopo.
Un secolo dopo, nel 494, spetta ad un papa, Gelasio I, chiarire i rapporti tra
Impero e Chiesa, in una lettera all’imperatore Anastasio, il quale interveniva su questioni
teologiche e sconfinava nel cesaropapismo. Nella lettera Gelasio invitava l’imperatore a
ravvedersi e a ristabilire l’unità della Chiesa nel segno cattolico romano. Se l’inizio è
ispirato a una professione di umiltà, vi sono poi parole in forti in cui si ricorda che il
mondo è retto da due dignità somme, l’una chiamata da Cristo a guidare le anime, l’altra
a governare le questioni temporali: Due sono principalmente le autorità che reggono il mondo: la
sacra autorità dei vescovi e il potere regio, ma la prima è superiore perché deve rendere conto a Dio anche
per i re. Il papa vuol dire che impero e chiesa sono due poteri distinti: il potere del
pontefice è un’auctoritas, quella imperiale una potestas. I due termini, che hanno una
specifica accezione nel linguaggio latino (l’auctoritas evoca una fonte carismatica di
legittimità, la potestas è un potere esecutivo) non vogliono creare un rapporto gerarchico
in cui la dignità papale abbia un valore più elevato del potere imperiale. Nelle questioni
temporali è il sacerdote a seguire le leggi dell’imperatore, ma in quelle divine è
l’imperatore ad obbedire al sacerdote. E tuttavia alla Chiesa compete un ruolo più

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importante, di guida spirituale. É quindi una teocrazia, cioè un potere regio, assistito e
guidato dai sacerdoti, teso ad affermare e far trionfare nei fatti le verità cristiane. É anche
una teocrazia romana: infatti Gelasio riprende la tesi teologica (affermata ad es. da S.
Agostino e accolto anche da alcuni imperatori), già sostenuta da Leone Magno (440-461)
che il primato del vescovo di Roma, successore di Pietro, deriva dal primato di Pietro
rispetto agli altri apostoli. Non si tratta ancora di una ierocrazia, cioè dell’affermazione
di un primato della Chiesa esteso anche alla sfera temporale, di “un governo di sacerdoti
assistiti per le cure temporali da un apparato laico al suo servizio”. Le due dignità, quella
regia e quella sacerdotale, benché riunite nella persona di Cristo, sono state poi separate,
per ragioni di convenienza.

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