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I: L’IMPERO
§ 1. La struttura amministrativa
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§ 2: Le fonti normative
Se dalla struttura politica si passa ad esaminare il dato normativo, ciò che emerge è
che ci troviamo di fronte alla distinzione tra due tipologie normative: le leges e gli iura. E’
venuta meno la varietà di fonti normative dell’età classica (editto del pretore, senatus
consulta, responsa prudentium) ed hanno perso importanza anche decreta (sentenze) e mandata
(istruzioni). Al tutto si è sostituito il binomio leges-iura.
Leges: erano l’espressione della volontà imperiale e si sostanziavano nelle
costituzioni di provenienza regia e nei rescritti, testi brevi con i quali gli ufficiali centrali,
a nome dell’imperatore, risolvevano specifiche questioni.
Iura: raccolgono tutte le altre fonti di produzione del diritto, in particolare l’opera
della giurisprudenza. Gli iura non erano leggi, ma principi idonei all’applicazione nella
prassi. Essi erano tolti sia dagli Editti pretori che dalle opere dei giureconsulti. I pareri
dei giuristi, quando il principe li autorizzava ed essi risultavano concordi su una tesi,
avrebbero avuto per i giudici la stessa efficacia della legge. Da Costantino in poi,
malgrado la presenza ingombrante del monarca nella produzione del diritto, gli iura non
si arrestarono, anche se si avvertì la necessità di disciplinarli per adattarne l’uso a tempi
segnati da una profonda decadenza culturale.
Così, in Occidente, nel 426, l’imperatore Valentiniano III, imperatore
d’Occidente, indirizzò da Ravenna al Senato di Roma la cd. Legge delle citazioni, inserita
poi da Teodosio II nel Codice Teodosiano. Con le leggi delle citazioni si stabiliva che le
opinioni di Papiniano, Ulpiano, Modestino, Paolo e Gaio avessero forza vincolante
qualora fossero state concordi; che vincesse la maggioranza se discordi e in caso di parità
numerica prevalesse quella di Papiniano, spettrale presidente di un’ideale corte dei morti.
Gli altri giuristi potevano essere allegati solo se citati da questi cinque grandi e solo
esibendo il testo originale. Si coglie dalla disposizione che nell’uso corrente degli iura
regnava una certa confusione, o circolavano esemplari inaffidabili o addirittura che taluni
avvocati facevano false citazioni giocando sull’ignoranza altrui.
Gli iura tuttavia rappresentano la parte normativa ormai al tramonto, la vecchia
tradizione occidentale, destinata a soccombere da quando il centro dell’Impero si era
spostato in Oriente e l’asse portante dell’ordinamento erano divenute le leges, ossia i
comandi dell’imperatore.
L’età tardo antica vede prevalere le costituzioni imperiali, ossia le leges, sugli iura.
Inizia qui, agli albori della storia, un dualismo che connoterà quasi tutta la storia
del diritto: il dualismo è rappresentato dal confronto-scontro tra ius novum-ius vetus. Le
leges rappresentano il ius novum, gli iura il ius vetus e la dialettica tra ius novum e ius vetus
all’interno del medesimo sistema consegue al principio che il nuovo debba impiantarsi
sul vecchio senza rinnegarlo. É una dialettica che continuerà per tutto il medioevo e
costituirà l’anima dei diversi sistemi normativi: il ius vetus è da salvaguardare sempre,
secondo la visione conservatrice dell’antichità; il ius novum ne va via via predisponendo i
necessari aggiornamenti.
Sia le leges che gli iura che i rescritti confluiranno in grandi raccolte.
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§ 3: Dal Codice Teodosiano alla compilazione giustinianea
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É soprattutto il primo progetto ad interessarci. L’obiettivo di Giustiniano era di
giungere a una sistematizzazione tanto delle leges quanto degli iura
Il 13 febbraio del 527 egli nominò una commissione di 9 membri presieduta da
Triboniano con il compito di rielaborare i testi esistenti, primo fra tutti il codice
Teodosiano, e sfrondarli, ammodernarli, adattarli alla nuova realtà. Il prodotto fu pronto
già nel 529, ma questo Codex che raccoglieva le sole leges e i rescritti, non era destinato ad
avere vita lunga. Già cinque anni dopo, nel 534, venne soppiantato definitivamente da
una nuova versione che riuniva in 12 libri, a loro volta ripartiti in titoli, migliaia di
rescritti e costituzioni imperiali a partire del II secolo fino agli anni di Giustiniano. Il
Codice disciplinava un’ampia varietà di materie: il diritto privato, il penale, il pubblico,
l’amministrativo, il fiscale.
A Triboniano, vera anima dell’impresa, fu affidato anche il compito di selezionare
gli iura e dopo soli tre anni l’opera fu pronta. Nel 533 vide la luce il Digesto, ripartito in
50 libri in cui furono raccolti circa 10.000 frammenti selezionati fra 40 giuristi:
un’impresa maestosa. Larga parte è occupata dal diritto privato (famiglia, successioni,
proprietà, obbligazioni, contratti), mentre i libri 47 e 48 sono dedicati al penale e sono
definiti libri terribiles proprio per il tema trattato. Il Digesto è al tempo stesso l’opera più
ambiziosa e più importante in quanto raccoglie e ha consentito di tramandare fino a noi
la sapienza giuridica romana.
Il termine Digesto deriva dal latino digestus, participio perfetto del verbo digerere,
ossia disporre classificando gli argomenti in modo ordinato; i 5° libri sono anche detti
Pandette, dal greco πανδέκται, ossia onnicomprensivi, riguardanti qualsiasi materia, per
indicare la completezza delle norme della raccolta.
Sempre al 533 risalgono le Istituzioni, redatte, ancora una volta sotto il vigile
controllo di Triboniano, da due maestri, Teofilo e Doroteo, che racchiusero le nozioni
giuridiche elementari da impartire al primo anno di insegnamento, divise in quattro libri,
a imitazione di un’analoga opera didattica redatta da Gaio. Giustiniano, infatti, gran
propagatore di cultura, aveva pensato ad un manuale di diritto per la scuola, riformata
nel frattempo con la costituzione Omnem, che prevedeva uno studio quinquennale: un
primo anno di introduzione e principi generali, dal secondo al quarto lo studio del
Digesto e al quinto il Codice. La costruzione degli studi riflette la piramide normativa,
dove il Digesto costituiva l’ossatura portante, ma era il codice, posto al vertice, a
legittimare tutto l’ordinamento, poiché rappresentava l’espressione del potere legislativo
del monarca. Proprio per agevolare questa riforma Giustiniano provvide a dar vita alle
Istituzioni, che divennero un manuale scolastico con forza di legge.
Ma l’opera non era conclusa. Dopo il 534, anno della seconda edizione del
Codice, la produzione legislativa non si arrestò e le costituzioni imperiali emanate fra il
534 e il 565, anno della morte di Giustiniano, e denominate Novelle (ossia le ‘cose
nuove’), vennero raccolte in due collezioni, l’Epitome Iuliani e l’Authenticum.
La compilazione, che nel tempo prenderà il nome di Corpus Iuris Civilis, aveva
carattere esclusivo e sostituiva integralmente ogni altra fonte del diritto, a cui non era più
possibile attingere. Si vietò quindi di allegare in giudizio o altrove altre fonti tratte da altri
libri e si impose un’interpretazione letterale delle norme.
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La compilazione fu estesa alla sola Italia con la pragmatica sanctio del 554 che
l’imepratore bizantino dichiarò di aver promulgato pro petitione Vigilii, ossia su richiesta di
Vigilio, vescovo di Roma del tempo. Attraverso questo atto l’Italia diventò formalmente
terra di diritto giustinianeo, a differenza del resto d’Europa che conservò le leggi romano
barbariche e quindi il diritto teodosiano.
Va precisato e anticipato che con la guerra greco-gotica che Giustiniano intraprese
nel 535 e terminò nel 553 per strappare l’Italia dalle mani degli Ostrogoti, l’Italia era stata
riconnessa all’impero d’Oriente.
L’estensione ai soli territori italici della compilazione giustinianea determinò il
destino di quella realtà e quel diritto. Come un fuoco covato a lungo sotto la cenere, il
diritto giustinianeo non sprigionò la propria forza nell’immediato, ma quando esplose
infiammò l’Europa intera. Una riforma calata dall’alto, in un paese devastato e che di lì a
pochi anni sarebbe caduto in mani Longobarde non diede immediatamente i suoi frutti.
Ma attecchì, rimase nell’ombra, attendendo che i grandi cambiamenti socio-politici ed
economici che avrebbero attraversato l’Europa intera, e l’Italia in particolare, tra l’XI e il
XII secc. determinassero l’esigenza di un ‘nuovo’ diritto: un diritto ‘nuovo’ dal sapore
antico. E il Rinascimento giuridico farà del diritto giustinianeo la propria forza e il
proprio limite. Sarà questo diritto, attraverso l’interpretazione dottrinale dei giuristi, a
rappresentare il trade d’union dell’Europa tutta.
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II: LA CHIESA
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diritto divino, composto dal Vecchio e Nuovo Testamento). Un insegnamento che i
giuristi dell’età medievale appresero e applicarono con profondità e tenacia.
La Chiesa finisce per assumere una funzione di guida spirituale anche nei
confronti dell’Imperatore. Rimane la distinzione istituzionale, ma certi problemi, come
l’eresia, sono sentiti come comuni.
Ci sono episodi celebri che illustrano questo fenomeno: nel 390, il vescovo di Milano
(che era allora capitale dell’Impero), Ambrogio, rivendicò il diritto di intervenire anche
nei confronti dell’imperatore, in occasione di una rappresaglia ingiustamente ordinata da
Teodosio I a Tessalonica.
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Per reagire all’ingiusto arresto di un auriga del circo, il popolo aveva lapidato il
magister militum dell’Illiria. L’imperatore, in un attacco di collera, ordinò una strage di
cittadini. Ambrogio, da Milano, tentò di far revocare l’ordine, ma invano. Compiuto il
sanguinoso eccidio (agosto 390), in una lettera segreta, Ambrogio invitò Teodosio alla
penitenza. L’imperatore rientrò a Milano in lacrime, nel Natale del 390, invocando
perdono.
Questo evento dà la misura di quanto la Chiesa fosse riuscita a far breccia nella
corazza, fino ad allora impenetrabile, dell’assolutismo imperiale. Fino a quel momento,
infatti, nulla aveva potuto scalfire i poteri dell’imperatore. La legge divina si poneva ora
come un limite all’esercizio di quei poteri: la legge divina doveva essere rispettata anche
dall’imperatore, che si era sempre proclamato legibus solutus, tanto nella legislazione
quanto nelle pratiche di governo.
L’imperatore non era più il sovrano unico, titolare di tutti i poteri compreso quello
religioso; accanto all’impero si trovava la Chiesa. D’altra parte, la tradizione cristiana non
intendeva abbattere lo stato, ma farlo diventare cristiano: in questa nuova prospettiva, il
potere religioso era tutto nelle mani della Chiesa ed era un potere superiore a quello
civile, che restava affidato all’imperatore: con i vocaboli romani, la Chiesa era
un’auctoritas spirituale superiore alla potestas temporale.
La penitenza imposta a Teodosio fu un fatto fondamentale nella storia della civiltà
occidentale; esso confermava l’indipendenza della Chiesa e la competenza del potere
spirituale a giudicare qualsiasi atto del potere temporale che toccasse la fede o la
disciplina. Se Ambrogio fu il primo esempio di un vescovo che richiamava un
imperatore al pentimento e alla riparazione pubblica delle colpe commesse nel governo
dei popoli, Teodosio il Grande fu il primo sovrano che riconobbe di essere soggetto a
leggi superiori, che egli non poteva non rispettare.
Ambrogio intendeva affermare che l’imperatore, non l’Impero, era nella Chiesa,
dentro la Chiesa e non sopra di essa. La persona individuale del monarca, nella sua
qualità di cristiano e di fedele, doveva obbedire a papa e vescovi. Non siamo alla
preconizzazione della visione ierocratica che si affermerà secoli dopo.
Un secolo dopo, nel 494, spetta ad un papa, Gelasio I, chiarire i rapporti tra
Impero e Chiesa, in una lettera all’imperatore Anastasio, il quale interveniva su questioni
teologiche e sconfinava nel cesaropapismo. Nella lettera Gelasio invitava l’imperatore a
ravvedersi e a ristabilire l’unità della Chiesa nel segno cattolico romano. Se l’inizio è
ispirato a una professione di umiltà, vi sono poi parole in forti in cui si ricorda che il
mondo è retto da due dignità somme, l’una chiamata da Cristo a guidare le anime, l’altra
a governare le questioni temporali: Due sono principalmente le autorità che reggono il mondo: la
sacra autorità dei vescovi e il potere regio, ma la prima è superiore perché deve rendere conto a Dio anche
per i re. Il papa vuol dire che impero e chiesa sono due poteri distinti: il potere del
pontefice è un’auctoritas, quella imperiale una potestas. I due termini, che hanno una
specifica accezione nel linguaggio latino (l’auctoritas evoca una fonte carismatica di
legittimità, la potestas è un potere esecutivo) non vogliono creare un rapporto gerarchico
in cui la dignità papale abbia un valore più elevato del potere imperiale. Nelle questioni
temporali è il sacerdote a seguire le leggi dell’imperatore, ma in quelle divine è
l’imperatore ad obbedire al sacerdote. E tuttavia alla Chiesa compete un ruolo più
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importante, di guida spirituale. É quindi una teocrazia, cioè un potere regio, assistito e
guidato dai sacerdoti, teso ad affermare e far trionfare nei fatti le verità cristiane. É anche
una teocrazia romana: infatti Gelasio riprende la tesi teologica (affermata ad es. da S.
Agostino e accolto anche da alcuni imperatori), già sostenuta da Leone Magno (440-461)
che il primato del vescovo di Roma, successore di Pietro, deriva dal primato di Pietro
rispetto agli altri apostoli. Non si tratta ancora di una ierocrazia, cioè dell’affermazione
di un primato della Chiesa esteso anche alla sfera temporale, di “un governo di sacerdoti
assistiti per le cure temporali da un apparato laico al suo servizio”. Le due dignità, quella
regia e quella sacerdotale, benché riunite nella persona di Cristo, sono state poi separate,
per ragioni di convenienza.
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