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Corso di Pandette, altro nome del digesto di Giustiniano. Questo perché è un corso in cui si studiano
approfonditamente argomenti specifici su testi ricavati dal Digesto di Giustiniano.
Tematiche: la caccia e il tesoro.
11 dicembre parziale scritto riguardo la seconda parte del corso
Le soluzioni che vengono proposte dal diritto romano sono state accettate o rifiutate, è una storia di
continuità e discontinuità. È un andamento che si riscontra in molte tematiche.
La compilazione Giustinianea
Giustiniano è l’imperatore che chiude l’esperienza giuridica romana, è l’Imperatore d’Oriente.
L’Impero romano d’Occidente cade nel 476 d.C., mentre quello d’Oriente si trasforma nell’impero
bizantino e vive fino al 1453 d.C. Giustiniano fu l’imperatore dell’Impero romano d’oriente dal 527
al 565 d.C. Ha portato avanti e promosso un’opera di riorganizzazione delle fonti giuridiche
romane. Nel suo complesso quest’opera di riorganizzazione è stata chiamata nei secoli successivi
Corpus Iuris Civilis. Questa denominazione, che comprende tutta l’opera codificatoria di
Giustiniano è stata attribuita a Giustiniano nel Medioevo.
Perché conosciamo questa opera di Giustiniano? Grazie alla Scuola di Bologna dell’undicesimo
secolo avviene una riscoperta della compilazione giustinianea. Il diritto romano diventa la base del
diritto comune, ma si tratta del diritto romano filtrato attraverso la compilazione giustinianea. Ad
eccezione di alcune opere che ci sono pervenute al di fuori della compilazione noi moderni
conosciamo il diritto romano grazie alla compilazione di Giustiniano. Giustiniano ha tolto dalle
leggi il troppo ed il vano, ha interpolato i testi, noi non possediamo i testi originali ma quelli
modificati. Giustiniano ha realizzato la compilazione per fare ordine nel diritto dell’epoca, teneva
presente i bisogni della sua epoca, non ha voluto fare un monumento al passato o raccogliere i testi
dei giuristi precedenti per salvaguardarne l’esistenza, ma li ha utilizzati per il suo scopo di fare
ordine nel diritto per superare il problema della certezza del diritto. Giustiniano fa ordine e nel fare
ordine modifica, anche nel Codex quando leggiamo qualcosa di un giurista precedente non è detto
he sia davvero lui a parlare. Ha tagliato quello che a noi oggi servirebbe per fare uno studio
filologicamente corretto dei brani classici, così come erano stati originariamente redatti.
Come dobbiamo porci nei confronti dei testi della compilazione giustinianea:
non è possibile riconoscere con assoluta sicurezza un’interpolazione, una modifica giustinianea in
un testo. Gli studiosi moderni si pongono in maniera diversa a seconda dell’indirizzo che seguono.
Qualche decennio fa gli studiosi erano inclini, in genere, ad un atteggiamento quasi distruttivo dei
testi, vedevano interpolazioni dappertutto. Di fronte ad un testo del Digesto tendevano a segnalare
modifiche giustinianee ovunque e negavano la possibilità di ricostruire il diritto classico espresso
nel testo. Nei decenni più vicini a noi gli studiosi moderni invece sono più inclini ad un
atteggiamento più benevolo e in genere considerano autentici i testi. Non partono quindi dal
presupposto che siano stati interamente modificati, ma dal presupposto contrario. Questo perché
negli ultimi anni gli studiosi moderni credono che in Giustiniano fosse troppo forte il rispetto verso
l’antico, verso la vetta raggiunta dai giuristi classici per permettersi di cambiare tutto.
26.09.23
LA CACCIA
Per quanto riguarda il diritto romano siamo informati dell’istituto della caccia da fonti giustinianee,
con tutti i problemi che abbiamo visto. Ci sono anche però informazioni importanti pervenute da
fonti diverse dalla compilazione giustinianea. Giuristi come Gaio, giurista del II sec. d.C.;
Fiorentino, Paulus, Pomponius e Ulpiano (Nb: pandette = giuristi; Codex = legislazione).
Prenderemo testi sia dal Codex, che dalle Pandette. Sui passi tratti dal digesto e dal Codex pende
sempre la spada di Damocle dell’autenticità. Attualmente gli storici ritengono che i testi siano tutto
sommato autentici. Forse sono un po’ troppo ottimistici nel ritenere che i frammenti parlino
effettivamente della loro epoca e non di quella giustinianea. Noi dobbiamo sempre avere presente il
problema dell’autenticità, ma facciamo un atto di fede che ciò che leggiamo sono davvero le parole
dei giuristi classici. Quando incontreremo interpolazioni irrevocabili lo faremo notare, altrimenti li
consideriamo documenti affidabili.
In questo quadro di incertezza fa eccezione un testo certamente classico, un’opera che non è passata
attraverso la commissione. Si tratta delle Istituzioni di Gaio, già citate perché abbiamo visto che
sono state il modello delle Istituzioni di Giustiniano. Entrambi sono dei manuali destinati agli
studenti del primo anno, contengono molte informazioni ma molto essenziali, non entrano nel
dettaglio, danno un’infarinatura generale. Le istituzioni di Gaio sono state scoperte nel 1816 nella
Biblioteca Capitolare di Verona. Si è scoperto che una pergamena aveva una caratteristica
particolare: Codex è una parola latina che significa libro (liber invece è rotolo, il passaggio da liber
a codex si ha nel IV sec. d.C.). la pergamena era particolare perché era un palinsesto, ossia un
manoscritto con due livelli di scrittura. Questo perché è stato redatto in un’epoca in cui c’era una
carenza di pergamena; quindi, si è presa una pergamena già scritta e ci si è scritto sopra. Il testo più
recente è un’opera di San Girolamo, ma si è notato che sotto c’era un’altra scrittura. Visto che
l’opera di San Girolamo era già conosciuta è stata cancellata per far affiorare l’opera sottostante, ed
è apparsa un’opera che fino al 1816 era sconosciuta, si sapeva della sua esistenza ma nessuno
l’aveva mai letta. Questa scoperta ha rivoluzionato lo studio del diritto romano, l’opera divenne
subito oggetto di studio. È un manoscritto pre-giustinianeo, molto antico ed è quindi molto
importante, perché ci informa di un diritto romano dell’epoca di Gaio, dell’età classica e che non è
stata modificata dai commissari giustinianei e contiene quindi informazioni attribuibili all’età
classica. Purtroppo, nel 1800 i reagenti per cancellare il testo che stava sopra non erano adatti e
alcune parti sono andate perse.
Oltre alle istituzioni di Gaio c’è anche un’operetta anonima pervenuta al di furi della compilazione
giustinianea, la cosiddetta “Collazione”. Questa operetta è pre-giustinianea, ma sicuramente
postclassica. Anche in questo caso ci possono essere problemi di autenticità, i testi potrebbero
essere stata modificati per adeguarli all’epoca postclassica.
Non esiste in diritto romano un istituto specifico per la caccia, come ad esempio lo conosce per
l’usufrutto, né nelle istituzioni di Gaio né in quelle di Giustiniano si parla dell’istituto della caccia,
non c’è una sedes materiae. Quindi siamo costretti a condurre un discorso trasversale, ad analizzare
norme dislocate in luoghi e testi diversi. Un ambito in cui si parla in maniera organica della caccia è
l’ambito dei modi di acquisto della proprietà.
Il testo di Gaio è pieno di istituti classici e ci da informazioni anche sull’età preclassica. Ci sono
delle lacune perché sono un manuale e quindi non entrano nei dettagli.
Dispensa, pagina 3 punto 1: Gaio inizia ad affrontare il tema dei modi di acquisto a titolo naturale.
Nonostante la lacuna ricostruiamo semplicemente il pensiero di Gaio: il concetto è che c’è una
differenza tra i modi di acquisto a titolo naturale e civile. Tra i modi di acquisto a titolo naturale non
esiste solo la consegna (traditio), è un gesto che risponde a una ragione naturale e si impone presso
tutti i popoli. Non esiste solo la traditio, si diventa proprietari anche per occupazione. Gaio fa
un’esemplificazione dei modi di acquisto a titolo naturale. L’occupatio si attua con una presa di
possesso del bene, si possono occupare le cose che non avevano un precedente proprietario. Gaio fa
l’esempio degli animali che vengono presi in terra, mare e cielo, ed è la prima informazione che ci
perviene in materia di caccia. C’è la tendenza a tripartire l’oggetto della caccia in relazione allo
spazio di provenienza:
- Terra: si parla di fera bestia, bestia selvaggia
- Aria: si parla di avis o volucer, uccelli
- Acqua: si parla di piscis, pesci
Il termine che invece descrive l’atto della caccia è il verbo capio, prendere. Gli animali vivono
quindi in terra, aria e acqua e diventano proprietà dell’uomo per occupazione, perché prima sono
cose di nessuno. Questo discorso si trova espresso in modo più completo in altri testi.
Pagina 4 della dispensa Gaio delle Res Cottidianae
Le regole del Gaio Veronese sono confermate nell’opera giustinianea, quindi Gaio non ha cambiato
idea e Giustiniano non ha modificato il suo pensiero. Si acquista la proprietà di alcune cose con il
diritto delle genti, e di altre attraverso quello dei cittadini. Il diritto delle genti è più antico, perché
vale per tutti i popoli, e quindi va considerato per primo.
Il frammento contiene anche un paragrafo primo, che dice che gli animali che si prendono
diventano di colui che li prende: viene indicato l’atto, il capio (prendere).
02.10.23
Quali animali poteva essere oggetto di caccia e quali invece no?
Le Istituzioni di Gaio presentano lacune, anche perché sono Istituzioni, è un testo nato per gli
studenti, per informarli a livello basilare sulle questioni principali attenenti il diritto. Nonostante la
sintesi ci facciamo un’idea chiara: nell’ambito degli animali selvatici, di natura fiera (fera,
selvaggia) bisogna distinguere: c’è una categoria di fiere che non si possono cacciare. Si tratta di
quegli animali selvatici che per abitudine abbiano la consuetudine di andare e tornare (animus
revertendi). Sono animali selvatici, ma possono essere mansuefatti, quindi abituati ad andare e
tornare. Per questa tipologia di animali selvatici c’è una disciplina speciale, non possono essere
cacciati liberamente. Trovando un cervo era possibile occuparlo, farlo proprio, prendendolo
materialmente solo se non presentava mansuefazione. Se invece ha già un padrone non era possibile
farlo proprio, si sarebbe commesso un furto. Ma come si faceva a capire se l’animale era selvatico,
se si trattava o meno di una res nullius? A volte c’era l’abitudine di mettere qualcosa al collo
dell’animale, in modo da far capire che l’animale era stato mansuefatto. Però anche le api e i
colombi hanno l’animus revertendi, possono essere abituati ad andare e tornare. Chiaramente questa
era una situazione che provocava conflitti a livello sociale. Questi animali potevano diventare di
proprietà di un’altra persona una volta perso l’animus revertendi, e quindi quando tornavano ad
essere animali selvatici.
Paragrafo 3: si apre una questione diversa, ci limitiamo a sottolineare che se il dominus del fondo
non ha ancora fatto occupatio delle api che hanno fatto l’alveare nel fondo chiunque può prendere i
favi delle api senza commettere furto. Se non si sono occupate le api queste non ci appartengono e
nemmeno il loro prodotto. C’è la possibilità per il proprietario di proibire l’ingresso nel fondo, ma
quello è un altro discorso. Se qualcuno entra nel fondo violando un divieto subirà delle
conseguenze, ma diventa comunque proprietario degli animali non ancora occupati.
Paragrafo 4: nel passo del testo si fa un’ipotesi diversa, il discorso si sposta sulla custodia
dell’animale occupato. Facendo occupatio di un animale questo diventa di proprietà dell’occupante,
ma si considera suo fino a quando questo non lo perde di vista e diventa impossibile seguirlo. La
questione è quindi fino a quando e con quali modalità dura il diritto di proprietà su un animale vivo
fatto proprio da un cacciatore.
Paragrafo 5: qui compaiono i pavoni, altro animale di natura selvaggia che si aggiunge ai cervi e
alle api di cui Gaio ha parlato nelle istituzioni. In questo paragrafo vengono ripetute le stesse parole
delle Istituzioni: un animale selvaggio può essere mansuefatto. Se sono mansuefatti hanno un
proprietario da cui tornano ogni sera, e sono cacciabili quando perdono l’animus revertendi.
Paragrafo 6: Gaio introduce una terza tipologia di animali, quelli domestici, mansueti (non
mansuefatti). Galline e oche non sono di natura selvaggia, e se vengono perse o sfuggono alla
custodia del padrone questo non perde la proprietà su di loro. Se un animale mansueto abbandona il
luogo di riferimento il dominus non perde il diritto di proprietà. L’assenza di una natura fiera
preserva dalla possibilità di essere occupati.
Abbiamo detto che l’animale selvatico si caccia attraverso l’occupatio, il fatto di prendere un
animale che non è di nessuno. Se ne diventa proprietario con un modo di acquisto a titolo
originario. Questo si attua con il capere, prendere. Non basta fermarlo, questo prendere va inteso in
senso materialistico.
Abbiamo parlato di custodia, per capire cos’è torniamo alle Istituzioni di Gaio.
Pagina 3, paragrafo 67: un animale si intende nostro finchè è bloccato nella nostra custodia.
Abbiamo preso un animale selvatico e lo abbiamo nella nostra custodia. Spesso gli antichi
cacciavano con le reti, quindi intendevano cacciare animali vivi. Il problema si pone nel momento
in cui l’animale scappa, qui entra in gioco la differenza tra libertà naturale e custodia. Se l’animale è
nella nostra custodia perché l’abbiamo catturato, allora è nostro. Ma se l’animale si sottrae alla
custodia torna alla sua naturale libertà. Il primo che ne fa occupatio diventa quindi proprietario.
Quando si perde la custodia su un animale di cui si è fatta occupatio? Gaio spiega che la custodia si
perde in due casi:
- Quando l’animale sfugge alla vista;
- Quando non sfugge alla vista ma è impossibile inseguirlo.
Pagina 4, Gaio Res Cottidianae, 41,1,3,2; Pagina 5, Gaio Res Cottidianae, 41,1,5
Il Gaio delle Istituzioni è un testimone affidabile del diritto dell’età classica, e gli stessi concetti
sono ripetuti dal Gaio delle Res Cottidianae, per cui le stesse regole che valevano nell’età classica
valevano anche nell’età Giustinianea, e questo possiamo dirlo grazie al confronto tra i testi.
Pagina 7, Istituzioni di Giustiniano, p. 12: sono gli stessi concetti già letti nelle istituzioni di Gaio e
nel Gaio delle Res Cottidianae. Si perde la custodia quando non si vede più l’animale o se è
impossibile inseguirlo.
Riguardo la custodia ci sono testi extra vacanti, collocati al di fuori delle Istituzioni di Giustiniano e
Gaio e fuori dal Digesto.
Pagina 8, punto 4: il passo non riguarda lo sciame di qualcuno che ne perde la custodia, ma uno
sciame selvatico che si trova sul fondo di un soggetto. Fintanto lo sciame non è stato occupato il
fatto che si trova sul mio albero non ha importanza, se qualcuno le prende non è colpevole di furto.
La proprietà del fondo non si estende agli animali che vi entrano. La bestia selvatica può essere
occupata dovunque essa sia.
Il diritto di caccia è inteso dai romani come un diritto naturale, un diritto delle genti, ed è molto
importante. Questo diritto non deve trovare ostacoli nella proprietà privata, è un diritto che la natura
ha concesso a tutti gli uomini. Le regole fondamentali si presentano identiche dall’età classica a
quella giustinianea, si tratta di concezioni che derivano da epoche in cui il diritto di cacciare si è
formato attraverso la consuetudine. Queste consuetudini sono poi state elaborate dai giuristi e hanno
assunto carattere scientifico.
La proprietà sugli animali selvatici è diversa dalla normale proprietà, perché dura finchè dura il
possesso. Nel momento in cui si perde il possesso, se ne perde anche alla proprietà; infatti, abbiamo
fatto riferimento non al solo al Digesto 41, 1,1 riguardante la proprietà, ma anche il 41, 1,2
riguardante il possesso.
Pagina 9, punto 6: si parla di pavone mansueto, ma si intende mansuefatto, perché per i romani il
pavone ha natura selvaggia ma può essere mansuefatto. Se io lo includo e lui scappa diventa una res
nullius, può essere preso dal primo occupante. Il caso prospettato da Pomponio è di un pavone
mansuefatto che si allontana, e viene inseguito da qualcuno che lo fa perdere. Il pavone perde
quindi l’animus revertendi, ma non per colpa sua. Se un altro soggetto lo trova e ne fa occupazione
ne diventa proprietario e non commette furto. Chi invece ha fatto sì che il pavone si perdesse, chi
l’ha inseguito per fargli perdere l’orientamento è colpevole di furto. Risponde di furto chi causa al
pavone la perdita dell’animus revertendi, mentre chi lo occupa no.
03.10.23
La proprietà degli animali cacciati coincide col possesso. Con la perdita del possesso si perde la
proprietà.
12,7,10. Celso nella sua opera dice: le “mie” api (=mansuefatte) sono finite da te e sono state
cacciate (qualcuno ha cacciato le mie api). Alcuni giuristi negano il sistema di diritto ad agire in
base all’azione Aquiliana (ambito delitto, Lex Aquilia tutela chi ha subito un danno, stabilendo che
può ottenere una somma di denaro come risarcimento della pena. Il diritto di accedere alla somma
di denaro spetta al proprietario della cosa), tra cui Proculo, come se le api non fossero di “mio”
dominio e dunque non esiste un diritto ad agire. L'atteggiamento di questi giuristi è sbagliato,
perché le api sono solite tornare (hanno la consuetudo revertendi). Proculo obietta che non erano né
manusefatte né chiuse : c’è un equivoco sottostante che fa sì che Proculo stia parlando di due casi
diversi (qui pro quo tra C e P). Celso ha in mente api “sue” per l’abitudine di tornare, mansuefatte;
al contrario Proculo si riferisce ad api che non erano mansuefatte, né chiuse, di conseguenza per
Celso esiste un diritto ad agire ex Lex Aquilia, secondo Proculo no. Le api sono tendenzialmente
selvatiche ma possono acquisire l’abitudine a tornare.
DIGESTO (p. 9)
3,1,1, p.6 (Commenti di Ulpiano all’editto del pretore) Che cosa fare per il leone o altre ferae
dentate?
Da tutti questi passaggi / frammenti emerge una concezione favorevole alla caccia, che trova
fondamento in un’epoca molto remota (tempi in cui la caccia era il primo mezzo di sostentamento
per l’uomo), come diritto naturale comune a tutti gli uomini, di cui nessuno può essere privato.
Qualche studioso moderno ha addirittura avanzato l’ipotesi / è giunto a sostenere che persino gli
schiavi sarebbero stati autorizzati a cacciare e che l’animale cacciato fosse di proprietà dello stesso
(idea non provata ma ricavata sulla base del fatto che questo diritto è antecedente alla distinzione tra
liberi e servi).
Tipico esempio di ius controversum (diritto controverso). Sul tema abbiamo essenzialmente due
testi: il Digesto (41,1,5, p.1) e le Istituzioni di Giustiniano (2,1,13).
DIGESTO (p. 5)
Gaio (cose Quotidiane) ci prospetta una c.d. Quaestio = una questione controversa. In ambito
scolastico, poteva accadere che un maestro di diritto ponesse agli allievi un problema per saggiarne
la capacità critica di risoluzione giuridica dei problemi.
“Si è posta la questione”, ma non ci dice da chi. Se una bestia selvaggia viene ferita in modo da
poterla prendere, è nostra subito oppure no? E’ possibile cioè anticipare il momento dell’acquisto
della proprietà (subito), o è sempre necessario prendere l’animale? Non basta ferirla? Se sì, la
conseguenza è che se qualcuno poi prende materialmente l’animale ferito da altri, commette furto. Il
problema non è da poco. La ferita deve essere tale per cui l’animale possa essere preso.
La questione potrebbe essere stata posta da Trebazio, il giurista che cerca di risolverla, o da una
scuola di retorica, che andavano di pari passo con quelle giuridiche (molti giuristi amavano
frequentare anche queste scuole; qui i maestri usavano la quaestio, si allenava a dissuadere / a
convincere, si assisteva a un travaso di argomenti sia da una parte che dall’altra).
Trebazio vive a cavallo tra l’età di Cesare e l’età di Augusto (non ci sono pervenute opere complete
su di lui, ma lo conosciamo soprattutto grazie a una satira di Orazio, la prima del secondo libro, sul
principato, che lo vede come protagonista: fa la figura del burlone che prende atto del cambiamento
costituzionale - avvento di Augusto - giocando un po’ la parte del convivente, che sta con due piedi
in una staffa. E’ stato il maestro di Labeone.
Trebazio risponde positivamente al quesito, possiamo diventare sì proprietari ma secondo certe
condizioni: non basta ferirla, bisogna inseguirla. La proprietà si acquista subito, ma si mantiene solo
fintanto che si insegue l’animale. Sottesa vi è l’idea che la proprietà si costituisca solo se alla fine
l’animale viene catturato proprio dal punto di vista materiale e questa non sarebbe che una proprietà
temporanea. Questa si consolida solo con la captatio. Sembra che Trebazio fosse il primo ad aver
elaborato una risposta degna di essere tramandata / sufficientemente organica, ma non il primo ad
essersi posta la questione. Questo frammento permette di ricostruire l’opinio di Trebazio
(portavoce dei proculiani), della maggior parte dei giuristi e di Gaio stesso (Sabiniani,
aderisce alla seconda tesi, quella dei molti giuristi in contrapposizione con Trebazio).
Qual è l’origine della disputa? 3 diverse ipotesi tra gli studiosi moderni.
Sabiniani e Proculiani, le due scuole che hanno dominato la scena per tutto il primo sec. d.C. Un
altro nome dei Proculiani (o Proculeani) è Labeoniani (dal nome del fondatore, Labeone, mentre per
i Sabiniani fu Capitone). Tra i Sabiniani affiliati troviamo anche Gaio e Cassio Longino. Tra i
Proculiani, Trebazio e Nerazio. Trebazio è un po’ il capostipite, perché è stato il maestro di
Labeone.
2,1,13
Quaesitum est = di nuovo indeterminato. Alcuni ritengono che sia “tuo” subito = al momento della
ferita; altri solo quando lo prendi. Quest’altro filone testuale ci tramanda lo stesso problema ma in
maniera più sintetica rispetto al Digesto (non coinvolge tutti i giuristi di prima). Alcuni... altri... =
Sabiniani e Proculiani. Secondo i sostenitori di questa tesi, era in corso una disputa in termini di
possesso. Il possesso si compone di un elemento corporale (è la disposizione materiale della cosa) e
di un elemento spirituale (animus possidendi). Alcuni Proculiani non sono d’accordo sul fatto che
l’elemento corporale sia fondamentale. Alcuni, tra cui Proculo, Nerazio e probatio sembrano
sostenere che possiamo possedere un bene anche soltanto con l’intenzione, indipendentemente
dall'elemento corporale. Nell’ambito della caccia, questa idea si traduce nella possibilità di fare
nostro l’animale anche se non lo prendiamo subito.
Sembra che Nerazio e Proculo siano della generale idea che sia fondamentale il corpus. Però
ammettono un'eccezione a questo principio in alcuni casi. Si potrebbe ricavare che il capostipite
condividesse all’inizio, in parte, le idee dei Sabiniani. Un altro elemento a sostegno dell’esistenza
della disputa, è che Sabino direbbe in questo brano che si può avere possesso solo con la presa
corporale (tesoro). Ciò che ricaviamo da questo passaggio è che non c’è omogeneità tra le due
scuole sugli elementi necessari per l’acquisto del possesso.
Tuttavia, potrebbe anche essere stato Trebazio stesso a proporre la questione, anche se presenta il
quesito come indeterminato. Il punto debole che rende inaccettabile la tesi vista finora è che questo
testo però è collocato in 41,1, nel Titolo sulla proprietà, e non nel Titolo sul possesso (41,2): la
tesi sulla disputa sul possesso non può essere accettata! La questione sottostante non può essere
relativa al possesso, deve riguardare altro.
2. Secondo altri studiosi, la questione sottostante alla disputa sarebbe stata quella sulla natura
dell’animale. Secondo Trebazio, l'animale perderebbe la sua naturale libertà al momento del
ferimento. Viceversa, per Gaio, anche se ferito l’animale manterrebbe la sua naturale libertà.
Trebazio è favorevole alla caccia: vuole concedere il diritto alla caccia dal primo momento
possibile, vuole favorire i cacciatori. Gli altri giuristi (tra cui Gaio), invece, sono più
“ambientalisti”: mettono più bastoni tra le ruote, imponendogli di attendere il momento della presa
vera e propria.
3. Una terza proposta di spiegazione al testo proviene da Gaio: questa questione sarebbe nata in
ambiente retorico e sarebbe poi tramutata in questione giuridica. Trebazio aveva risposto sì
alla questione, mentre gli altri giuristi favoriscono il momento della presa, perché tra la presa e il
ferimento possono accadere molte cose che non ci permettono di prenderlo. Questa non è una
considerazione che si dirige direttamente contro l’opinione di Trebazio; la maggior parte dei giuristi
non vanno a discutere i termini della questione proposti da Trebazio, ma respingono il presupposto
dato per vero da Trebazio, cioè che esistano delle ferite tali da poter assicurare la cattura / la presa
degli animali. Criticano, contestanto cioè il quesito sul piano logico della sua formulazione. E’ una
questione molto retorica: porta in sé una premessa non vera che viene presa erroneamente per vera.
Qual è la regola in materia in età Giustinianea? La seconda opinione viene convalidata, perché
anch’egli ammette che sono solite accadere molte cose tra il ferimento e la presa. Anche G.
condivide la linea di pensiero della maggior parte dei giuristi e si colloca dunque contro la
posizione occupata da Trebazio. E la sua opinione, naturalmente, è legge.
09.10.23
Dalle fonti che abbiamo considerato emerge una considerazione della caccia del diritto romano
molto positiva, è visto come un diritto dell’uomo.
Un tema controverso è l’acquisto dell’animale ferito, e abbiamo visto il 41,1,5,1 con l’opinione di
Trebazio, di altri giuristi e di Gaio. Anche Giustiniano, come Gaio, da torto a Trebazio.
Esiste anche un’altra fonte da annoverare tra quelle che si occupano del tema del ferimento, ed è
una fonte particolare, perché è sempre istituzionale e si trova nella cd Parafrasi di Teofilo (punto 9,
pag. 9 dispensa): Teofilo era un filosofo di età giustinianea, che ha tradotto in greco le opere di
Giustiniano. Non si tratta di una traduzione letterale, a volte aggiunge o toglie alcune cose, quindi è
una fonte interessante da leggere accanto a quello di Giustiniano. Nelle tre tesi presentate da Teofilo
la prima, che prevede che la bestia è mia da subito, è nuova, ma non ne conosciamo l’origine. Forse
un’opinione del genere esisteva già in età classica, ma non lo sappiamo.
Teofilo, per quanto riguarda la seconda tesi, che prevede che si diventa proprietari dell’animale
dopo averlo ferito, apporta dei correttivi: parla di grandissima ferita, in alcune traduzioni si legge
mortale. Non è quindi sufficiente una ferita normale, deve essere grave.
Teofilo riporta anche la terza opinione, quella fatta propria anche da Giustiniano, cioè dato che
possono accadere molte cose che impediscono di prendere la fiera, la bestia diventa mia solo
quando c’è la presa corporale.
I giuristi si sono quindi interrogati sulla possibilità di anticipare l’acquisto della proprietà
dell’animale al momento dell'inseguimento: Trebazio ammette l’anticipo finchè l’animale viene
inseguito, ma questa tesi viene rifiutata. L’opinione maggioritaria è quella opposta, per cui è
comunque necessaria la presa corporale, anche per troncare sul nascere una possibile disputa tra
cacciatori. Secondo Manfredini l’origine di questa disputa andrebbe rintracciata nell’ambiente
retorico: è una questio che ha una premessa fallace, perché non c’è alcuna ferita che porta
necessariamente alla presa dell’animale, bisogna basarsi su ciò che accade normalmente.
Punto 1: il contenuto dello ius prohibendi. Pagina 11, punto 13 dispensa, D. 41,1,3,1.
Gaio presenta prima l’istituto di base, per cui un cacciatore può cacciare sul fondo proprio e altrui.
Poi introduce la possibilità che un proprietario provveda ad impedire l’ingresso nel proprio fondo da
parte dei cacciatori. Prima introduce quindi il principio generale, e poi un limite. Come se fosse
basilare il principio generale, e solo dopo fossero stati posti dei limiti. Quindi, una storicizzazione di
questo passo è possibile.
Nella seconda frase Gaio dice che il proprietario può impedire che si entri nel suo fondo, ma non
dice che può impedire che si cacci nel suo fondo. Quindi se una persona caccia nel suo fondo sarà
punita per la violazione, ma la cacciagione rimane sua. Il divieto riguarda quindi solo l’entrata.
Il passo nella traduzione dice “se vi abbia provveduto” (si is providerit), in altre traduzioni invece si
legge “se vi abbia preveduto”, il senso è sempre che il proprietario si deve attivate prima che
avvenga la caccia, questo significa che è presunta la libertà dell’ingresso, mentre la proibizione
deve essere manifestata. Questo passo di Gaio ci restituisce quindi l’immagine di un diritto di caccia
ancora pieno, a cui si aggiunge l’elemento di proibizione che sembra venire meno, e che non
riguarda comunque la caccia ma la possibilità di entrare nel fondo.
Deve essere accaduto qualcosa nel conflitto tra cacciatori e proprietari con grave imbarazzo dei
giuristi: il conflitto è sempre stato latente nella società e ad un certo punto deve essere esploso e
aver richiamato l’attenzione del diritto. Questo ius prohibendi, seppur debole, è comunque una
vittoria per proprietari. Non solo il proprietario, ma anche l’usufruttuario ha lo ius prohibendi. La
proibizione può avere luogo solo anticipatamente, solo se il proprietario ha provveduto con un gesto
proibitivo anticipatamente all’ingresso nel fondo da parte del cacciatore.
Ci sono studiosi che sostengono che lo ius proibendi si sarebbe affermato in età Giustinianea, ma
questi testi mostrano ce un conflitto sociale tra proprietari e cacciatori c’era già molto prima
dell’epoca di Giustiniano. Se il diritto fosse stato protetto l’imperatore non si sarebbe espresso in
termini di raccomandazioni, ma l’ago della bilancia si sposta leggermente verso i proprietari.
Terzo punto: si poteva proibire l’ingresso in modo coercitivo? C’erano rimedi a livello processuale
per il proprietario?
Il diritto romano concepisce sempre il diritto in termini di azioni, di che rimedi poteva godere un
proprietario? Gli studiosi si sono sbizzarriti in ipotesi di tutela, che però non sono molto
convincenti.
Secondo alcuni studiosi, tra fine 800 e inizio 900, il rimedio disposizione del proprietario poteva
essere l’actio iniuriarium: questa tesi è del tutto illogica, perché il passo di Ulpiano dice esattamente
il contrario. Il passo dice che è il prohibitus che può agire con l’actio iniuriarium contro chi
proibisce. Per sostenere le loro ragioni gli studiosi hanno capovolto la lettera del testo, hanno
sostenuto che il proprietario poteva agire contro il cacciatore. È un’interpretazione, questa,
completamente rovesciata. L’utilizzo che fanno del passo è del tutto superficiale, una corretta
lettura fa capire che è il prohibitus a poter agire, vengono tutelati i cacciatori e non i proprietari.
10.10.23
Ci sono altri due possibili rimedi che gli studiosi hanno voluto intravedere per il proprietario:
- L’azione discendente dalla legge Cornelia
- L’interdetto
Questi erano comportamenti da punire con emergenza, perché si era in una guerra civile. Questi tre
comportamenti sono casi speciali di iniuria, un’iniuria fatta con la mano. Pare quindi che ogni
iniuria fatta con la mano rientri nella legge Cornelia, sia quella a mani nude, sia quella con delle
armi. Ulpiano discute poi il concetto di Domus ai fini della legge Cornelia. Chiaramente capiamo
che Ulpiano sta facendo un’interpretazione estensiva della parola domus, perché vi
ricomprende non solo la casa di proprietà, ma anche il domicilio inteso come dimora abituale.
L’azione della legge Cornelia si può quindi intentare anche contro colui che fa irruzione violenta in
una casa abitata da qualcuno che non ne è il proprietario. Può esercitarla anche chi è semplicemente
ospite di qualcuno, contro chi fa irruzione in quella domus. Nel paragrafo terzo si discute di cosa
accade quando qualcuno abita in campagna, anche queste sono comprese.
Nel paragrafo 4 alcuni studiosi hanno trovato un elemento che è stato identificato come lo spunto
per l’azione del proprietario che aveva posto un divieto di entrare nel proprio fondo che è stato
violato. Ulpiano parla di un fondo locato in cui viene fatta irruzione e si chiede se ad agire è il
proprietario o il colono, e indica il secondo. Gli studiosi si aggrappano alle parole “se si è fatta
irruzione in un fondo”: questo potrebbe essere interpretato come l’irruzione di un cacciatore in
un fondo per cacciare, queste parole potrebbero essere la spia che la tutela processuale per lo
ius prohibendi possa essere individuata nell’azione discendente dalla lex Cornelia. Ciò NON è
corretto, perché bisogna collocare le parole all’interno del testo per capire il ragionamento di
Ulpiano. Questa tesi estrapola alcune parole da un discorso che ha il filo conduttore nel concetto di
domus. Nel paragrafo quarto Ulpiano parla di un fondo, che riferisce non solo a un appezzamento di
terreno, ma anche all’edificio collocato sul terreno. Ulpiano sta quindi parlando di abitazioni, parla
del concetto di domus rispetto al divieto posto dalla legge di irrompere nell’abitazione di qualcuno.
Quindi, quando parla di fondo, non parla di terreno ma dell’abitazione che c’è sul fondo.
L’abitazione è sempre sottesa nel ragionamento di Ulpiano, non si parla di fondo nel senso inteso
dagli studiosi. Va quindi tenuto in considerazione tutto il passo e non considerarne solo una parte
per far dire al frammento ciò che non dice.
Non è quindi vero che il proprietario del fondo, in caso di violazione dello ius prohibendi, potesse
agire contro il cacciatore con la lex Cornelia.
L’interdetto
Secondo altri studiosi un proprietario che avesse posto uno ius prohibendi disatteso da un cacciatore
poteva utilizzare un interdetto (interdetto quod vi aut clam). Gli interdetti erano rimedi pretori
distinti dalle azioni, degli ordini del pretore emanati causa incognita e trovavano grade
applicazione, perché era facile avvalersi della forza dell’interdetto. Era sufficiente andare dal
pretore e spiegare che qualcuno aveva fatto irruzione e aveva manomesso qualcosa. Il pretore
poteva ordinare al soggetto di rimediare al danno o risarcire il soggetto. Se il destinatario
dell’ordine si fosse sostenuto innocente si sarebbe aperto il contenzioso. La differenza tra interdetto
e azione è quindi nella rapidità dell’interdetto e ce ne erano di diversa natura (es. restitutori,
esibitori).
L’interdetto quod vi aut clam veniva concesso a qualcuno quando qualcun altro, contro la sua
proibizione, fosse entrato in un fondo rustico e avesse manomesso lo stato dei luoghi. Colui contro
cui è esercitato l’interdetto deve quindi ripristinare. Alcuni studiosi hanno detto che il proprietario
del fondo che ha esercitato lo ius prohibendi contro un cacciatore che è comunque entrato, poteva
richiedere l’interdetto quod vi aut clam.
Punto 24 Dispute di Trifonino: Oggetto di usufrutto è un fondo molto grande, in cui l’usufruttuario
può cacciare. Il fondo è un vivaio, un fondo chiuso che contiene animali inclusi. L’usufruttuario fa
suoi i frutti di questo fondo. Quindi quando i cervi inclusi o i cinghiali inclusi si riproducono i
nuovi nati sono acquistati dall’usufruttuario per il diritto di usufrutto, perché l’usufruttuario
acquista la proprietà dei frutti attraverso la perceptio. Trifonino dice che ciò accade per diritto
di usufrutto o per diritto delle genti: diritto delle genti perché se c’erano degli animali che ancora
vagavano in libertà nel fondo e che non erano stati inclusi dal proprietario, se l’usufruttuario li
prende li fa propri per diritto delle genti, ossia per occupazione. Quindi l’usufruttuario fa propri i
frutti del fondo oppure, se incappa in qualche animale non incluso dal proprietario lo fa proprio per
diritto delle genti. Questa spiegazione non contrasta con i principi letti negli altri passi, è quella
corretta. Non si può dire che questo passo afferma che il proprietario del fondo è proprietario anche
della selvaggina, perché non si tiene conto del fenomeno dell’inclusione.
Punto 25: anche qui il concetto implicito che spiega il passo è sempre il fenomeno dell’inclusione.
Sabino nega che le fiere siano frutto del fondo, dice che le fiere non sono frutto del fondo, sono di
tutti. Si può dire che le fiere sono frutto del fondo quando il fondo è un vivaio, in quei casi
particolari in cui un appezzamento di terreno è stato trasformato in un fondo per l’inclusione (es.
una voliera o una peschiera). È l’unico modo di spiegare questo testo in modo sensato.
Punto 26, Ulpiano: Ulpiano riporta l’opinione di Cassius. Il proprietario può dare in usufrutto il
fondo, e l’usufruttuario fa suoi i frutti del fondo, e alla fine restituisce solo ciò che c’era all’inizio,
mentre tutto quello che è venuto al mondo dopo la costituzione dell’usufrutto diventa suo.
Punto 27: in questo passo Paolo si interroga sul concetto di frutti del fondo, e si chiede se
l’accessione per alluvione spetti all’usufruttuario o al proprietario. È il caso in cui a monte si
stacca una porzione di terreno che arriva a valle e va ad incrementare un altro fondo. Questo
incremento a vantaggio di chi va? Va a vantaggio del dominus, perché non è un frutto del fondo,
mentre i redditi della caccia appartengono al fondo dato in usufrutto, quindi diventano di
proprietà dell’usufruttuario. Il frutto di un fondo in cui è stata fatta inclusione di animali spetta
quindi all’usufruttuario. Anche il passo di Paolo è coerente con quanto abbiamo visto fino ad ora.
Si può parlare di frutti del fondo solo se si intende il fondo come vivaio, che possono essere fatti
propri dall’usufruttuario. Solo in questo senso si può parlare di frutti del fondo, non di fondi in
generale.
16.10.23
IUS PONENDI (=diritto di porre)
Consiste nel diritto di porre delle trappole. Per affacciarci all’argomento dobbiamo ripensare
all’argomento del ferimento: abbiamo visto che si diventa proprietari della selvaggina con la presa
corporale, non si può veramente dire che un animale sia nostro fino a che non lo abbiamo preso
materialmente. Abbiamo già osservato che il vantaggio pratico è il troncare sul nascere eventuali
contrasti tra cacciatori. Abbiamo visto però che Trebazio ha avanzato una personale opinione sul
punto, e ha provato ad anticipare il momento dell’acquisto della proprietà al momento del
ferimento, purchè si continui ad inseguire l’animale.
Su questa stessa linea di un acquisto della proprietà svincolato dalla corporalità si mette anche un
altro giurista, ossia Proculo che parla della trappola. La trappola consente ad un cacciatore di
acchiappare una fera bestia senza che la prenda materialmente. La trappola era uno strumento,
all’epoca dei romani, molto utilizzato. Secondo i principi generali il cacciatore per diventare
proprietario della preda doveva impossessarsi dell’animale in trappola, fino a quel momento non
poteva acquistarne la proprietà. L’idea di Proculo cerca di forzare un po’ questo principio generale.
Il suo testo è molto ambiguo, e nella tradizione successiva è stato utilizzato per fargli dire quello
che l’interprete voleva che dicesse.
Punto 32. Titolo 41, 1, 55, Digesto pag. 17 (titolo sull’acquisto della proprietà)
Ci sono due personaggi, Io e Tu, chi siano è oggetto di disputa tra gli studiosi. Il fatto è che Tu ha
messo una trappola e Io ha sciolto la trappola e l’ha portato via. Poi ci sono una serie di domande
che complicano il quadro:
1. Io ha portato via un animale di proprietà di Tu? Quindi, Tu è diventato proprietario con la
semplice presa in trappola dell’animale? La trappola è uno strumento di acquisto
anticipato della proprietà?
2. Anche se l’animale era di Tu, se Io lo ha sciolto, facendogli riacquistare la sua libertà,
l’animale resta di Tu? Secondo i principi generali, quando l’animale riacquista la proprietà
torna ad essere una res nullius
3. Sempre se fosse stato di Tu, che azione avrebbe Tu contro Io, che l’ha sciolto? È necessaria
un’azione in factum (= quando manca un’azione generale per il caso concreto il pretore può
comunque prevederne una per quel caso). Quindi la domanda è che azione eventualmente si
applica, un’azione in fatto o un principio generale?
Chi è questo Io che fa le domande? Ci sono diverse opinioni: Proculo è un giurista famoso per
essere stato il fondatore della scuola dei Proculiani, era un insegnate di diritto. Quindi, secondo
alcuni studiosi, l’Io potrebbe essere uno studente che fa domande al suo professore, e quindi il Tu
sarebbe Proculo. Secondo altri studiosi, invece, potrebbe trattarsi di un responso che Proculo ha
dato come giurista. L’Io potrebbe essere un cacciatore, che va da Proculo per avere un’opinione su
un caso che lo ha interessato personalmente. Nel primo orientamento abbiamo quindi un contesto
scolastico, teorico, mentre la seconda ipotesi riguarda un problema concreto. Quello che risulta
abbastanza chiaro è che il Tu è sicuramente un giurista, ed è sicuramente Proculo. Quel
“respondit/rispose” ha come soggetto sottinteso Proculo, il giurista.
Il danno patrimoniale rientra nell’ambito della legge Aquilia, ma quello dato con il corpo al corpo,
un danno causato con la forza muscolare sulla struttura materiale del bene. Piano piano la
giurisprudenza ne ha esteso l’ambito di applicazione anche a casi di danno non diretto. Se si slega
uno schiavo altrui e questo scappa, è chiaro che il suo dominus ha un danno patrimoniale, ma non
c’è un danno dato con il corpo al corpo, non si è causato un mutamento alla struttura fisica della res.
La giurisprudenza piano piano ammette la possibilità di agire con l’azione aquiliana anche a chi
provoca un danno non diretto, ma non può essere un’azione in ius concepta; quindi, il pretore e i
giusti ammettono che si agisca, ma con un’azione in factum o ad exemplum legis Aquiliae. Per
questo l’Io del passo si chiede se l’azione debba essere data in fatto, nel caso in cui ci sia, perché il
danno è per forza indiretto.
Risposte:
1. “vediamo che non interessi”: vediamo se è utile o meno considerare alcuni elementi al fine
di rispondere. Vediamo se è importante che il laccio sia stato posto in un luogo pubblico o
privato, e se è in un luogo privato, vediamo se è importante che sia sul fondo proprio o
altrui, e se si tratta di un fondo altrui vediamo se è rilevante che ci sia o meno il consenso
del proprietario. Queste sono delle specie di condizioni da tenere in considerazione per dare
una risposta. Un’altra condizione è la possibilità per l‘animale di liberarsi dalla trappola.
Proculo inizia la sua risposta introducendo tutta una serie di condizioni. Poi Proculo, anziché
dire se questi elementi importano o no, dice una frase molto ambigua “tuttavia, questa
ritengo essere al conclusione: se il cinghiale è venuto in mio potere è diventato mio”. La
frase non risponde alla domanda, non è coerente con quanto detto prima. Ci sono state
diverse interpretazioni per dare un senso logico a questa risposta:
a. Primo orientamento risalente ai glossatori: la scuola dei glossatori nasce nel 1100 ed
opera a Bologna, è a scuola che fa risorgere il diritto romano dopo secoli di oblio.
Secondo i glossatori Proculo penserebbe che il laccio non fa acquistare la proprietà,
secondo i glossatori Proculo non intende scostarsi dal principio generale della presa
corporale, non ci sarebbe nessuna nuova frontiera. Quindi, tutte quelle condizioni
poste in realtà non interessano, infatti il brano sarebbe da collocare in ambito
scolastico, in cui il maestro vuole far apparire il discorso più complicato di quanto
non sia. Secondo i glossatori il vero pensiero di Proculo starebbe tutto nella frase “se
è venuto in mio potere è mio”.
b. L’idea dei glossatori è stata criticata da altri studiosi, quelli che dicono che si può
acquistare la proprietà dell’animale con una trappola: in questo fronte del sì ci sono
posizioni variegate, chi ritiene che fosse necessaria una determinata condizione, chi
di altre. Manfredini (autore del testo) parte da un’osservazione lessicale, è andato a
vedere altri testi giuridici e non in cui c’è l’espressione “vediamo se non interessi”,
espressione che sembra introdurre delle condizioni. In questi altri testi l’espressione
introduce condizioni che effettivamente interessano e influiscono sulla risposta, non
sono presenti solo per fare scena. Il problema è capire quali interessano e quali no,
quali condizioni influiscono sulla soluzione del caso e quali no, ma in definitiva ci
deve essere almeno una situazione in cui Proculo ammette che si possa acquistare la
proprietà anche con la cattura. Quindi ad alcune condizioni chi ha posto la trappola
diventa proprietario dell’animale, indipendentemente dalla presa corporale. Diciamo
che ci deve essere almeno una condizione a cui Proculo ammette che si possa
acquistare la proprietà in base a due prove:
i. Prova testuale: c’è un punto nel testo in cui si dice “se tu poi avessi lasciato
andare il mio cinghiale” quel “mio”, lasciato anche dai giustinianei, è un
segnale importante, perché segnala il pensiero di Proculo. Proculo sarebbe
convinto che quel cinghiale è diventato di chi lo ha catturato.
ii. Prova sistematica: il frammento è collocato nel Titolo del Digesto dedicato
all’acquisto della proprietà (41,1), quindi se i compilatori giustinianei hanno
inserito questo frammento in questo titolo, significa che si introduce
un’eccezione al principio generale della corporalità. Questo messaggio i
giustinianei lo trasmettono attraverso le parole di Proculo, quindi dal punto di
vista della sistemazione dei frammenti capiamo che per i giustinianei c’è un
modo di acquistare la proprietà dell’animale in un modo diverso dal possesso.
Probabilmente questa regola non è che fosse sorta come diritto solo con i
giustinianei, era probabilmente un diritto già esistente in età classica, ma già
con la prova testuale capiamo che l’eccezione al principio di corporalità era
probabilmente presente già in età classica.
Proculo, quindi, sembra dire che è possibile diventare proprietari per mezzo della trappola, ma è un
sì a certe condizioni, solo in presenza delle quali si può acquistare la proprietà dell’animale:
- Trappola posta in pubblico o in privato: il suolo è di tutti, se si mette una trappola su suolo
pubblico e ci finisce dentro un animale è logico pensare che chi ha messo la trappola non
acquista nulla perché è su suolo pubblico. La regola è che serve la presa corporale, non è
pensabile che non valga in luogo pubblico. Non c’è una ragione logica convincente per dire
che una trappola posta sul fondo privato possa far acquistare la proprietà dell’animale, ma se
c’è l’esigenza di superare il principio della corporalità ha senso che venga superato riguardo
a una trappola posta sul fondo che appartiene a chi ha posto la trappola. Rispetto alla
trappola in luogo privato altrui, la risposta sembra affermativa se c’è il consenso del
proprietario del fondo. Siamo quindi sicuri che NON si acquista la proprietà
dell’animale tramite la trappola su un fondo pubblico, e su un fondo privato altrui
senza il consenso del proprietario. In questi due casi valgono i principi generali, ci vuole
la presa corporale. Nella volontà di superare il principio generale e ammettere l’acquisto
tramite la trappola, ciò sembra possibile quando la trappola è posta sul proprio fondo, o sul
fondo altrui con il consenso del proprietario in questi casi si può acquistare la proprietà
dell’animale con la trappola, anche senza presa corporale. Anzi, se qualcun altro commette
la presa corporale commette furto. Per Manfredini, Proculo ammette l’acquisto della
proprietà con la presa corporale e con le trappole.
- Interessa che l’animale sia talmente preso da non potersi liberare: si esige, per l’acquisto
della proprietà, che l’animale non abbia alcuna possibilità di scappare. Questo per evitare
tutti i contrasti che potevano sorgere nel caso di una proprietà su un animale che può
scappare, e che quindi può essere preso da qualcun altro. Condizione posta per evitare di
creare conflitto tra il cacciatore, stessa esigenza che ha portato una parte dei giuristi a dare
torto a Trebazio.
Con questo passo si vuole affermare, in generale, il principio per cui si acquista la proprietà di un
animale con la trappola solo in presenza di condizioni particolari:
- Che l’animale non possa più liberarsi
- Che la trappola sia stata posta sul proprio fondo, o sul fondo altrui con il consenso del
proprietario.
Nella prospettiva giustinianea questo è un passo avanti verso la smaterializzazione, verso l’idea che
si possa acquistare la proprietà anche senza la presa corporale. È comunque un passo molto cauto e
circospetto, ed è l’unico dove si può intravedere un passo in avanti.
17.10.23
Ultima frase del passo: c’erano tutte le condizioni affinché il cinghiale diventasse di proprietà di chi
aveva messo la trappola, ma qualcun altro lo libera. Chi ha causato il danno, secondo Proculo deve
dare un’azione in fatto, in quanto causa un danno indiretto.
LE FIERE CACCIATRICI
La fiera cacciatrice è un animale selvatico, come un lupo o una gazza, che caccia un nostro bene. I
romani si sono interrogati sulla sorte di questo bene, e non hanno dato una linea interpretativa
chiara. Quello che possiamo cogliere è l’approccio al problema, come se lo sono posti.
Il colono del fondo vicino nell’esempio sembra quindi avere acquistato la proprietà dei porci,
perché dopo che abbiamo perso la proprietà se qualcuno occupa l’animale selvatico diventa suo.
Questo discorso rientra nel concetto di custodia, per cui un animale cacciato resta nostro finché ne
abbiamo la custodia. Pomponio non dice però che i porci diventano di proprietà del colono, la
proprietà della cosa strappata si perde quando non si è più in grado di recuperarla. Questo è
ambiguo, non è semplice capire cosa avesse in mente Pomponio.
Esempio del naufragio: questo paragone di Pomponio non ci illumina sul criterio seguito.
Certamente è meglio dire che ciò che è portato via dal lupo non cessa di essere nostro finché è
possibile recuperare la cosa sottratta commento di Ulpiano a Pomponio. Ulpiano condivide
l’opinione di Pomponio ed esprime il suo assenso sul fatto che serva una condizione restrittiva. È
necessario un criterio per capire quando si perde il diritto di proprietà, ripete un po’ ciò che ha detto
Ulpiano. L’ultimo capoverso è tutto di Ulpiano e ribadisce il concetto di Pomponio: si conserva la
proprietà per il tempo in cui è possibile recuperare i porci. Il colono deve restituire i porci e se non
lo fa è passibile di furto e si può agire con l’actio ad exhibendum.
Rimane l’ambiguità della frase “finchè possono essere recuperate”: l’incertezza del dominio è causa
di conflitti, serve certezza. Un’interpretazione logica è offerta da Manfredini. Caliamo il discorso
nel caso presentato all’inizio: secondo i principi della custodia in materia di caccia l’animale cessa
di essere nostro quando sfugge, oppure se continuiamo a vederlo ma non possiamo più
raggiungerlo. Applichiamo la frase “finchè possono essere recuperate” al caso di specie e vediamo
che si perde la proprietà dei porci nell’istante in cui, pur vedendoli, non riusciamo più a
prenderli. Nel caso in esame invece siamo in una situazione in cui continuo a vederli e vedo
qualcun altro che li prende per me. A differenza di quello che accade con i principi della custodia
qui abbiamo una situazione in cui posso recuperare i porci, ma nel momento successivo. Quindi non
si perde la proprietà.
Lo spostamento dai principi della custodia a questo caso è minimo, perché il proprietario non
riesce a prendere i porci, ma vede qualcun altro farlo al suo posto, quindi se questo si fosse
svolto fuori dalla sua vista avrebbe perso la proprietà. Non sembra possibile recuperare la
proprietà dell’animale in un secondo momento se il recupero non è avvenuto sotto i nostri occhi, ma
se lo si vede non si perde la proprietà. Questo è il limite proposto da Pomponio e accettato da
Ulpiano.
Il momento in cui si perde la proprietà del bene strappato dalla fiera è ambiguo
C’è un altro luogo in cui si parla di questo problema: Basilici, 50,1,43 monumentale opera del
nono secolo dopo Cristo, impero bizantino. Opera voluta dall’Imperatore bizantino Basilio I il
Macedone. Lo scopo era fare una sintesi di tre parti della compilazione giustinianea: il codice, il
digesto e le novelle, ma a volte ci sono delle modifiche.
I Basilici dicono che rimane di proprietà il capo del gregge sottratta dal lupo e recuperata dai
pastori. Il modello è il frammento di Ulpiano, il capo del gregge rimane di proprietà finchè sotto
lo sguardo del proprietario c’è una possibilità di recupero. Nella seconda parte del frammento
c’è un caso nuovo, quello di un rapace che porta via qualcosa da un fondo e lo getta in un altro
luogo. Il bene diventa in questo caso dell’occupante. Sembra che il bene diventi subito
dell’occupante quando la bestia porta il bene da qualche altra parte, non è indicato nessun
criterio per capire fino a quando si è proprietari del bene. È un caso molto simile ai precedenti, ma
la cui soluzione è incerta, non è indicato nessun criterio, non c’è un “finchè”. Il problema delle fiere
cacciatrici è stato affrontato dai romani, ma un criterio uniforme manca, addirittura Pomponio
presenta due criteri diversi.
LA CACCIA AI LEONI
Un argomento trattato non in scritti della giurisprudenza, ma in leggi degli imperatori, leggiamo
quindi costituzioni imperiali. L’argomento si trova nel codice di Giustiniano (di cui abbiamo la
seconda edizione) e dal codice Teodosiano, di Teodosio II (dal punto di vista cronologico precede il
codice di Giustiniano, promulgato nel 438 d.C., ed è una raccolta di costituzioni imperiali emanate
da Costantino fino a Teodosio II).
Tema della caccia ai leoni: testi interessanti anche per i secoli successivi, queste leggi sono state
considerate e manipolate pretestuosamente nei secoli del diritto intermedio, perché il diritto romano
è stato sempre usato come strumento di legittimazione nel presente, per affermare una tesi.
Le leggi che vediamo sono state usate per vietare la caccia da Federico Barbarossa in poi. Vedremo
come a metà del 1200 Federico barbarossa emanò una legge sulla caccia epocale, con la quale vietò
la caccia ai rustici, ossia i non nobili. I rustici potevano cacciare solo aniamli come lupi o cinghiali.
Le leggi che vediamo sono state usate per legittimare questa legge.
Punto 36, C. (codex di Giustiniano), libro 11, titolo 45, costituzione 1 (costituzioni in ordine
cronologico, dalla più vecchia alla più recente). Abbiamo due elementi testuali che incorniciano il
testo della legge: ci sono i nomi degli imperatori e del funzionario che emana la legge è
l’inscriptio. Poi c’è il testo fra virgolette e poi la frase finale, la subscriptio, dove troviamo la data,
gli anni erano identificati dai nomi dei consoli (in questo caso 414 d.C.).
23.10.23
C. 11,45 De venatione ferarum (pag. 19, punto 36): Teodosio e Onorio dicono a Mauriano che
concedono a tutti la licenza di uccidere i leoni, quindi capiamo che prima del provvedimento c’era
un divieto di cacciare i leoni. Si dice anche che le città in cui le fiere vengono spedite non possono
essere trattenute più di sette giorni (duci dei confini: funzionari che fanno parte della milizia armata
e controllavano le regioni di confine dell’Impero). Si desume che argomentando a contrariis
permettono qualcosa che prima era vietato, ma il testo è oscuro, si parla di bestie che vengono
spedite e non possono fermarsi più di sette giorni. Se non avessimo anche altri testi, da questa
Costituzione del codice di Giustiniano capiremmo molto poco. Abbiamo però due testi, punti 37 e
38, che provengono dal codice di Teodosiano.
37) CTh. 15, 11 De venatione ferarum (NB: stessa rubrica del codice di Giustiniano) Il titolo di
Teodosiano contiene due testi, due costituzioni imperiali di Onorio e Teodosio secondo. Qui ci sono
die testi, mentre in quello di Giustiniano uno solo, questo è un esempio di interpolazione, è stato
creato un testo a partire da due.
CTh. 15,11,1: questo testo rivela lo scopo di uccidere, la ratio, ossia è lecito uccidere i leoni per
motivi di sicurezza dei cittadini. Perché si parla di leoni? Gli studiosi dicono che si parla di leoni nel
testo, ma con un’interpretazione estensiva si ritiene che si parli di bestie feroci in generale.
Esisteva un divieto di uccidere a questi animali, perché servivano per il divertimento
dell’Imperatore. Queste fiere, erano catturate nelle regioni più remote dell’Impero romano ed erano
trasportate negli anfiteatri per il divertimento del principe, per essere impiegate nei giochi
gladiatori, oppure venivano impiegate nell’ambito delle condanne a morte (damnatio ad bestias) che
consistevano nell’invio del condannato a morte nella pista dell’anfiteatro in mezzo a bestie feroci. A
partire dal I sec. d.C. c’è stata una battagliai intesa da parte degli Imperatori cristiani per limitare
questi spettacoli, ma un’abolizione vera e propria di questo fenomeno non si è avuta, perché erano
spettacoli molto amato dal grande pubblico. Abbiamo anche un testo epigrafico (scolpito su pietra)
da Augusto, pervenuto dalla Turchia. Augusto aveva fatto incidere le sue imprese (res gestae), in
cui Augusto si vanta di aver steso lui stesso 3000 fiere in un anfiteatro. Traiano addirittura dice che
in una parata militare erano stati utilizzati16.000 animali feroci. C’era quindi il divieto di ucciderli
perché servivano a questo scopo, e il trasporto era affidato ai duci dei confini. Gli animali non
potevano sostare durante il viaggio in una singola città per più di sette giorni. Prima della legge,
c’era il divieto totale di uccidere questi animali, non potevano essere uccisi nemmeno per legittima
difesa. Questa costituzione prevede invece la possibilità di uccidere le bestie feroci per legittima
difesa, ma solo per difesa. Dice infatti il testo, che si è data licenza solo di uccidere le fiere, e non di
cacciarle o venderle, gli animali restano destinati al circo. Alcuni aspetti rimasti oscuri nel testo
giustinianeo sono quindi chiariti in questa Costituzione
CTh. 15,11,2: anche questa costituzione è stata emanata da Onorio e Teodosio II. Questo testo fa
capire che è stato emanato sull’onda di uno scandalo, un convoglio che trasportava bestie feroci
invece che fermarsi sette giorni in una città (Hieropolis) si è fermato 3 o 4 mesi. Servivano nuove
gabbie e sono state chieste alla cittadinanza, che ha sollevato il caso presso l’imperatore, che
sull’impulso dato da questo fatto ha emanato la norma per cui le soste non possono durare più di
sette giorni. In caso di infrazione la sanzione era una somma aurea altissima. I giustinianei, come
capiamo da questo esempio, sintetizzavano più testi in poche righe, a volte sacrificando il senso.
Questi testi sono stati usati ne secoli successivi per alimentare nuove regole e dare a queste nuove
regole l’autorità del diritto romano. L’argomento della tradizione è molto forte, e i testi della
tradizione del diritto romano sono stati utilizzati a volte in modo improprio per sostenere tesi anche
opposte, perché servivano per l’autorità che emanavano, per ammantare di antico un principio
nuovo. Queste leggi sulla caccia ai leoni sono state rispolverate dopo molti secoli, quando Federico
Barbarossa ha imposto un divieto di caccia ai rustici, ossia a coloro che non erano nobili. C’era
quindi il divieto per i rustici di cacciare, salvo che per legittima difesa “come facevano i romani”. In
realtà vediamo che non era così, questa legge, che riguarda solo particolari condizioni e animali,
andrebbe spiegata e contestualizzata, ma la si è invece utilizzata in modo strumentale.
Con questa parte lasciamo Roma e ci affacciamo al Medioevo. Il diritto della caccia romano si
scontra nel Medioevo con altre culture. Il diritto romano non finisce con Giustiniano, ma a partire
dai glossatori vive una seconda vita e influenza il diritto in modo importante.
L’Impero Romano D’Occidente nel 476 d.C. cade sotto i colpi dei Barbari, che non sono l’unico
elemento che ha portato allo sfacelo dell’Impero, ma a data della caduta è tradizionalmente questa,
quando viene deposto l’ultimo Imperatore Romolo Augusto. Inizia il tempo dei Barbari (Goti,
Longobardi etc.). Ci si può chiedere se il Medioevo dal pdv del diritto è stato germanico: si può dire
che in Occidente, nei primi secoli dopo la caduta dell’Impero si sia affermato un diritto nuovo, del
tutto indipendente e refrattario dal diritto romano? In generale la risposta è no, ma per quanto
riguarda la caccia è un po’ vero che il Medioevo è germanico. Questo perché non solo nei primi
secoli del Medioevo ma anche oltre assistiamo all’affermarsi di fenomeni venatori che in nessun
modo si imparentano con i principi che abbiamo visto, tipici del diritto romano classico (es. diritto
di stabilire delle riserve, luoghi in cui la caccia è proibita). Si sviluppano le leggi barbariche,
emanate prevalentemente tra il Ve il VI secolo d.C. e sono il fondamento del diritto di una
determinata regione. Un fondamento unitario di tutte le leggi barbariche è il principio della
personalità del diritto, le leggi si applicavano a chi apparteneva a quel determinato popolo. Questo
principio è opposto al principio della territorialità del diritto, per cui in un determinato luogo vale
un determinato diritto per tutti coloro che ci vivono. Ci sono anche le leggi romano-barbariche,
come la lex romana visigotorum, rivolta a disciplinare i rapporti tra romani nei territori visigoti,
oppure tra romani e visigoti. Per la componente visigota non si applicava la lex romana
visigotorum, ma la lex visigotorum.
Se ci concentriamo sul diritto di caccia nelle leggi barbariche si trovano molte norme di dettaglio,
particolari. Sono talmente tanto che si rimane senza risposta sicura su alcuni principi fondamentali.
Ad esempio, non siamo sicuri di come dobbiamo rispondere a una domanda semplice come tra i
secoli V, VI, VII all’interno delle società che si specchiano in queste leggi, chi poteva cacciare e
dove? Le norme sono talmente diverse e di dettaglio che non si riesce ad arrivare a una risposta
sicura sui principi fondamentali.
Possiamo dire che presso le popolazioni germaniche, in generale, l’animale selvatico non è una
res nullius, ma in generale appartiene al proprietario del fondo. Non si deve assolutizzare,
perché presso tutte le popolazioni germaniche esistevano delle foreste pubbliche, dove tutti
potevano cacciare.
Nelle leggi barbariche, che riguardavano la componente barbarica di un territorio, la caccia era un
tema molto presente, quelli che traspare è proprio uno scenario medievale, ma noi ci occupiamo
solo di alcuni profili. I primi testi provengono dall’editto di Rotari, 643 d.C., importante re
Lombardo. I lombardi sbaragliano i Bizantini e occupano grandi aree dall’Italia, entrando
dall’Isonzo, e mettono la loro reggia a Pavia (VII sec.). gli altri testi sono dei Franchi, che nel 774
sostituiscono i Longobardi, vengono dalla lex Salica, perché originariamente i Franchi si dividevano
in rituali e salici.
Longobardi: un profilo degno di nota è quello dei danni provocati dalle fiere braccate. Se una
fiera è ferita, inseguita, braccata e questo animale impazzito provoca dei danni il cacciatore ne è
responsabile, fino al momento in cui lui o i cani inseguono l’animale. Allo stesso modo anche chi
ha posato una trappola è responsabile dei danni causati in una fiera che si è ferita, è scappata e ha
provocato dei danni.
Punto 39, p. 20: per i romani la relazione di appartenenza tra cacciatore e fiera si attuava attraverso
la presa corporale, l’occupazione. Secondo il diritto germanico si vede che se il cacciatore insegue e
ferisce diventa proprietario. Si parla poi di composizione, uno dei tratti caratteristici dei diritti
germanici, ossia il pagamento di un’indennità da parte dell’offensore all’offeso. Si è responsabili
anche con l’inseguimento dei soli cani. Sembra che solo il desistere dall’inseguimento faccia
cessare la responsabilità del cacciatore.
In queste norme gli studiosi hanno voluto scorgere una concezione particolare del diritto germanico:
dicono che non è come per i romani la cattura che rende di proprietà una fiera, ma bensì atti di
caccia diversi, come il plagare (ferire) con qualsiasi mezzo, oppure l’incitare (=inseguire). Per
questo vanno risarciti i danni provocati dall’animale durante l’inseguimento. Però in questi testi non
si dice espressamente che il cacciatore è diventato proprietario, forse resta implicito, ma non è detto
espressamente.
Punto 41:caso in cui un soggetto nasconde per sé una bestia uccisa da un altro. Chi trova quindi una
bestia colpita da un altro deve dare una somma di denaro a chi l’ha colpita, che quindi è
implicitamente il proprietario, anche se non l’ha presa. Secondo gli studiosi queta norma nel
contesto dell’editto di Rotari è la norma generale a tutela del cacciatore che cerca di raggiungere la
preda colpita e nel cui atto di caccia si inseriscono altri che prendono l’animale. Anche qui non si
dice che il cacciatore che ha colpito la bestia è il proprietario, è come se fosse dato per scontato.
Punto 42: riguarda la fiera sagittata, l’animale colpito da una freccia. Se qualcuno ha ferito una
fiera, l’animale è di chi ha lanciato la freccia. La fiera ferita però scappa, qualcun altro potrebbe
occuparla. La legge dice che la proprietà con il semplice lancio del dardo dura 24 ore. Quindi se si
trovava un animale ferito o morto colpito da una freccia lanciata da un altro bisognava aspettare 24
ore prima di prenderlo. Quindi il ferimento fa acquistare la proprietà della bestia. Anche Trebazio
era dell’opinione che la proprietà iniziava già con l’inseguimento, ma cessava anche con il cessare
dell’inseguimento. Mentre, per i Longobardi, sembra che la proprietà persista per 24 ore. Cosa
significasse in pratica non si capisce bene. La concezione per cui la preda spetta al cacciatore prima
di prenderla è un prodotto originale del diritto germanico, i romani non sono arrivati a questa
conclusione.
I SALICI
Punto 43, legge Salica: sembra che il semplice scovamento della bestia da parte dei cani faccia
acquistare la proprietà.
Punto 44: qualcuno uccide o ruba un cinghiale morso da cani di altri, il soggetto deve pagare un
prezzo al proprietario dei cani. Circolano principi diversi da quello del diritto romano, anche il cane
è considerato come il cacciatore. L’atto con cui la fiera viene fatta propria in questo passo è il solo
fatto di essere stata stanata dai cani, messa in movimento. La dottrina francese ha voluto vedere in
queste disposizioni il cd diritto di inseguimento, le cui conseguenze sono:
- Diritto all’inseguimento: Acquisizione della proprietà della selvaggina dal momento in cui
viene scovata, anche solo dai cani
Il diritto consuetudinari tedesco dell’inizio del XIII sec.: specchio sassone e specchio svevo,
raccolte di diritto consuetudinario tedesco.
Specchio Sassone: nel libro II si parla di caccia, c’è una prefazione in cui si dice che Dio ha dato
agli uomini la padronanza sugli animali ed esistono luoghi (bandite) in cui tutti gli animali devono
avere pace ad eccezione di quelli nocivi. Chi caccia in quei luoghi deve pagare una pena.
Punto 45: Se un uomo caccia una fiera fuori della foresta e i cani la seguono nella foresta, anche lui
può inseguire purché non suoni il corno né li istighi, e non compia nessun illecito, prendendo in
realtà della selvaggina. Egli può chiamare indietro i suoi cani»
Specchio Svevo: le norme dedicate alla caccia sono molto numerose, anche qui c’è il discorso che
Do ha concesso il dominio sugli animali, ma nelle bandite non si può cacciare.
Punto 46: Sembra di essere di fronte a norme di comportamento tra cacciatori, lo sfondo sono le
foreste signorili esclusive, ci sono dei signori che hanno la possibilità di escludere gli altri cacciatori
dalla foresta. Il punto chiave è l’appartenenza della selvaggina al titolare della foresta. Bisogna
distinguere tra il cacciatore proprietario e non proprietario e c’è una differenza tra i due specchi:
- Specchio sassone: sembra imposto l’inseguimento da parte dei soli cani, con il divieto di
qualsiasi attitudine di caccia nei confronti della bestia che sconfina. Se poi il cacciatore a
trova non si capisce cosa succede
- Svevo: il proprietario insegue la sua bestia ferita nella sua foresta. È concesso
l’inseguimento, è possibile portare via l’animale solo se lo si trova morto, perché se è ancora
vivo in virtù dello sconfinamento è diventato di proprietà altrui.
Siamo di fronte a una concezione dell’acquisto della preda molto lontana dal diritto romano, ma
ance dalle idee di Trebazio e Proculo, siamo ancora più smaterializzati. È lecito chiedersi se queste
norme valessero per tutto il popolo o solo per il signore.
24.10.23
FEDERICO BARBAROSSA
Vediamo un regolamento disciplinare rivolto ai soldati e ai loro servitori nei momenti in cui non
sono impegnati in attività militari.
Punto 47, Conventus Brixiae (1158): anche in queste norme, nella caccia all’inseguimento la bestia
inseguita è considerata del cacciatore, e qui siamo di fronte a una causa di acquisto immateriale che
ha il suo precedente nella legge salica. Nella caccia con i cani da lepre, invece, non basta lo
scovamento ma bisogna prendere l’animale. Le restanti norme riferiscono all’animale ucciso che
cade lontano, e l’uccidere equivale a occupare la preda.
Punto 48, Costituzione de pace tenenda et eius violatoribus: norma che proibisce la caccia,
contenuta in una Costituzione. La datazione è incerta, probabilmente è del 1152. “se qualche
rustico” siamo di fronte a un divieto volto ai non nobili di portare armi. Ovviamente, lo si
intuisce subito, il motivo ispiratore è mantenere la pace sociale, quindi non devono circolare armi
non regolate. La sola eccezione sono i commercianti, perché è una misura di sicurezza personale in
quanto si devono spostare e quindi devono potersi difendere dai predoni. Non possono comunque
portare armi in mano, ma solo legate alla sella o al veicolo. Inoltre, anche i soldati non possono
portare armi al palazzo del signore. Questa legge proibisce in parte la caccia in maniera implicita,
ma si coglie l’occasione anche per estendere il divieto alla caccia con reti e trappole “nessuno tenda
reti, lacci o altri simili strumenti”, che normalmente non sono strumenti utilizzati per aggredire
qualcuno. Gli studiosi si sono chiesti se l’espressione “e altri simili strumenti” riferisca anche ai
cani. Il motivo di questo divieto era forse una percezione della caccia come problema della pace
sociale, ma l’elemento più significativo è il “nessuno” della frase “nessuno tenda reti” riguarda
tutti o solo i rustici? Secondo gli studiosi quel nessuno significa nessuno dei rustici. In questa luce,
la vera ragione del divieto di caccia va individuato nella volontà di evitare conflitti venatori tra
nobili e rustici. Questo perché grandi estensioni di terreno erano di proprietà dei signori e i rustici
cacciavano per mangiare. Gli unici animali cacciabili anche dai rustici erano gli animali nocivi, ad
esempio l’orso e il lupo, come era previsto anche dalla legge tardo romana sui leoni.
Punto 49, Operetta Exceptiones Petri, 3, 43 opera posteriore all’XI secolo, è interessante perché è
un documento di sincretismo giuridico, perché nel testo si trovano diritto romano e diritto
germanico insieme. Sulla disciplina romana si innestano consuetudini germaniche: i principi romani
dell’occupazione sembrano rispettati in pieno, è un caso di scovamento seguito da inseguimento.
Per il diritto romano questi atti non integrano un’occupazione, quindi la fiera sarà di chi la occupa
per primo, e Pietro infatti non discute su questo punto. Quando è avvenuta l’occupazione da parte
del secondo cacciatore, ma il primo stava ancora inseguendo, chi occupa, occupa validamente ma
deve dare al primo cacciatore o una parte della fiera o una somma di denaro. Pietro cerca anche di
giustificare la norma alla luce del diritto romano, e dice che l’occupante ha ricevuto un utile come
lo riceve un negotiorum gestium (quasi-contratto, rivedi istituzioni). Quindi il negotiurum gestor va
rimborsato delle spese, si fanno salti mortali per giustificare la vigenza di norme barbariche alla
luce del diritto romano, c’è una vera e propria forzatura e adattamento del diritto romano.
Punto 50, Il cinghiale di Proculo e la dissensio dominorum, ovvero la controversia dei glossatori: i
glossatori si esprimono in modi diversi, c’è una disputa tra domini (=maestri).
Nel testo ci sono le opinioni di glossatori di seconda generazione, detti i Quattro Gigli: Ugo,
Bulgaro, Martino, Iacopo, tutti discepoli di Irnerio.
Anzitutto vediamo l’opinione di Bulgaro, per cui l’animale non è di proprietà prima della presa
corporale, quindi si attiene al diritto romano. Poi concede che l’animale caduto nel laccio diventa di
proprietà quando lo si ha sotto gli occhi e lo si sta per prendere, quindi c’è un piccolo allargamento.
Così pure la pensa pure Rogerio, discepolo di Bulgaro, di cui c’è un frammento al punto 53, in cui
Rogerio dice che il cinghiale diventa di proprietà se si ha la disposizione di prendere l’animale
corporalmente. Ugo, invece, è schierato co quelli del sì, dice che il cinghiale è da intendere di
proprietà dal momento in cui cade nella trappola e non riesce a liberarsi.
Cosa notiamo nell’opinione di Ugo: non dice nulla sul dove sia posta la trappola, come se fosse del
tutto ininfluente. Da altri manoscritti si ricava che l’opinione di Ugo era condivisa anche da Irnerio.
Punto 51: sono riportate le opinioni di Alberico e Giovanni Bassiano. Di questa terza opinione
(prima Bulgaro, secondo Ugo), per Alberico l’animale cessa di essere nostro quando lo perdiamo di
vista, anche se si è ancora sul luogo della caccia.
Punto 52: Odofredo racconta un aneddoto molto interessate. Odofredo è un glossatore del XIII
secolo, di terza generazione e racconta molti aneddoti dei predecessori. In questo aneddoto Bulgaro
va a cavallo con un allievo, non è chiaro dove stanno andando, e passano in una zona con molti
cinghiali selvatici e ne trovano uno impigliato in un laccio. Lo studente propone di prenderlo come
primo occupante, perché si ricorda quello che Bulgaro ha spiegato in materia di acquisto della
prorpietà (punto 50, il cinghiale diventa di proprietà di chi lo prende). Bulgaro però dice allo
studente di non farlo, lasciando l’allievo spiazzato. Bulgaro risponde che non ha cambiato opinione,
pensa ancora che il cinghiale sia una res nullius, ma Bulgaro sa che si sta affermando una regola
consuetudinaria diversa, che vuole che la proprietà dell’animale caduto in trappola sia di chi ha
messo la trappola. Bulgaro ha quindi capito che si sta formando una consuetudine. Quindi, in teoria
Bulgaro professa che l’animale è una res nullius, ma un conto è il diritto in teoria e un altro sono le
consuetudini. Probabilmente la trappola era posta su un luogo privato, e i contadini avrebbero
potuto accorrere e inseguirlo. Nascono quindi consuetudini che più o meno apertamente si
allontanano dal diritto romano.
Ugo professa un’opinione contraria a quella di Bulgaro, al punto 50 dice che il cinghiale è di
proprietà nel momento in cui cade nella trappola, quindi ammette l’acquisto della preda anche senza
la materiale occupazione, la condizione è l’impossibilità per l’animale di liberarsi, questo è il
requisito grazie al quale chi ha posto la trappola ne diventa proprietario. Anche Proculo la pensava
così, ma aveva circoscritto questa possibilità alla trappola posta sul fondo proprio o altrui con
l’accordo del proprietario. Al contrario, i glossatori tendono a un’interpretazione assolutizzante del
passo, alcuni sostengono che l’acquisto si ha solo con l’apprensione materiale o almeno visiva, altri
come Ugo credono invece che l’acquisto si possa attuare anche in modo smaterializzato.
Punto 54, da Quaestiones dominorum Boniniensium (casi dei glossatori bolognesi): casi inventati
per gli studenti, più o meno verosimili. Tizio fa una buca nel suo fondo per catturare cinghiali e
dopo che uno ci cade da un legato a Sempronio perché lo conduca a casa. Tizio ha preso
materialmente il cinghiale, quindi non c’è dubbio che sia suo. Mentre Sempronio lo stava portando
a casa il cinghiale fugge, riacquista la libertà, e poi finisce in una buca fatta da Sempronio. La
questione è se la proprietà sia di Tizio o di Sempronio, e se Sempronio sia tenuto con l’azione di
mandato. Martino risponde che il cinghiale spetta a Tizio, perché Sempronio perseguendo il
cinghiale lo ha perseguito a nome di Tizio, non a suo nome. Se quindi Sempronio non adempie
all’obbligo di restituire il cinghiale Tizio può agire con l’actio mandatari. L’idea di Martino vuole
essere rispettosa del diritto romano ma anche superarlo, volendo proteggere Tizio si allontana dal
diritto romano descrivendo il rapporto di mandato come un rapporto di rappresentanza diretta,
Sempronio agisce per nome e per conto di Tizio, è come se stesse agendo con la mano di Tizio. C’è
un macroscopico errore di diritto romano in tema di mandato: il mandato in diritto romano è un
rapporto di rappresentanza indiretta, mentre qui è palesemente diretta. Di norma il mandatario
dovrebbe trasferire gli effetti in capo al mandante, ma in questo caso no. L’acquisto corporale
iniziale di Tizio viene quindi mantenuto dal mandatario, perché c’è un rapporto di rappresentanza
diretta. Dalla società dell’epoca poteva essere una soluzione giusta dal punto di vista sostanziale,
ma per il diritto romano stretto è una disciplina scorretta. I glossatori non osano andare apertamente
contro al diritto romano, ma utilizzano i suoi mattoncini per creare figure diverse.
30.10.23
274-279 manuale x prossima settimana
Cinghiale di Proculo da sapere bene
XIII-XIV secolo: Accursio, circa a metà del XIII sec. (1230-1240) realizza la cd Magna Glossa o
Glossa Accursiana. Ha selezionato le glosse migliori tra tutte quelle accumulate in un secolo e
mezzo di studio e insegnamento da parte dei maestri glossatori. Raccoglie 96.000 glosse, quelle che
secondo lui erano degne di essere tramandate, e le ha sistemate in modo armonico e ordinato
mettendole a fianco del pezzo del CIC a cui si riferivano. Da quel momento, il testo del CIC e la
glossa accursiana viaggiano insieme, nella circolazione presso gli studi, le università a qualsiasi
titolo il testo del CIC è sempre affiancato dalla Glossa Accursiana. La Glossa Accursiana oltre ad
essere il vertice della scuola dei glossatori ne è anche la caduta, dopo la sua glossa la scuola dei
glossatori inizia a decadere. Molte delle glosse raccolte da Accursio sono state scritte proprio da lui,
altrimenti è indicato il nome del glossatore.
Punto 55, pag. 25: Gloss. Quod verus est la glossa è un commento a queste tre parole di un passo
del Digesto, inserite nel frammento 41,1,5,1 (analizzato nelle prime lezioni, pag. 5).
Accursio prende il frammento di Gaio e fa una glossa alle ultime tre parole “e ciò è più vero”.
Glossa: «Anche se la trappola era altrui...Ma secondo la legge longobarda si attenda per
ventiquattro ore colui che ha ferito; poi sia dell’occupante. Ma si conserva, per consuetudine,
l’opinione di Trebazio».
si collega al frammento di Gaio (che riferisce l’opinione di Trebazio) nel punto in cui dice che ci
sono molte cose che non permettono di prendere la belva, e Accursio indica come motivo il fatto
che la trappola era altrui. Non è indicato il nome del glossatore, quindi è stata scritta di Accursio.
Notiamo che Accursio in linea di massima aderisce all’idea che la proprietà della selvaggina si
acquisti con la materiale apprensione, con l‘occupazione materiale. Al tempo stessi però fa
riferimento all’esistenza di una consuetudine che consiste nell’applicazione della regola di
Trebazio, ossia che l’acquisto della fiera si ha già solo con il ferimento e il successivo
inseguimento.
Punto 56: Summa institutionum di Azone (esposizione sistematica delle Istituzioni di Giustiniano).
In questa Summa Azone fa un commento sulla presa corporale dell’animale ferito e del cinghiale
preso al laccio. Azone spiega il principio della corporalità, ma aggiunge che c’è una consuetudine
che si sta affermando nella pratica e che va in senso contrario al principio della corporalità romano.
Altra testimonianza dell’esistenza di un dualismo in materia di acquisto dell’animale cacciato,
dualismo tra teoria e pratica, tra diritto enunciato, insegnato e applicato.
Bartolo da Sassoferrato (XIV sec., scuola non dei glossatori ma dei commentatori)
Bartolo è stato venerato come giurista, era considerato il migliore a livello europeo ed era chiamato
“oracolo di Apollo” e “Specchio del diritto”. Originario delle Marche, muore a Perugia dopo aver
insegnato a Padova e Bologna e aver volto l’attività di avvocato, lasciandoci molti pareri scritti. Ha
commentato tutto il diritto giustinianeo ad eccezione delle istituzioni e ha scritto dei trattati. Anche i
suoi pareri pratici di avvocato sono stati raccolti e tramandandoti e vengono chiamati Consilia.
Altri giuristi celebri della scuola dei commentatori: Gino da Pistoia, Baldo degli Ubaldi.
Il commento seguiva un metodo diverso dalla glossa, segue il cd metodo scolastico-dialettico, cioè
il testo è analizzato seguendo la stessa metodologia che S. Tommaso usava per studiare i testi sacri,
metodologia costruita tutta sul pro e contro. Ci si pone davanti ad un testo mettendone in luce gli
argomenti favorevoli da una determinata interpretazione, poi gli argomenti contrari e poi le
conclusioni. Anche questo metodo, che ha superato quello dei glossatori, sarà superato dagli
umanisti che criticheranno questo metodo. I giuristi dell’umanesimo vorranno avvicinarsi a testo
originario i più possibile, vorranno tentare di ricostruire il contesto originario dove il testo è stato
concepito e applicare un metodo filologicamente corretto. Gli umanisti accusano i commentatori e i
glossatori di aver forzato il dato delle fonti per attualizzarlo, vorranno leggere i testi antichi nel loro
spirito originario.
Punto 57, Commentaria di Bartolo da Sassoferrato dedicata alle Res Cottidianae di Gaio: Bartolo in
questo testo si dichiara un sostenitore dell’acquisto corporale (dove dice il nostro diritto riferisce al
diritto ormano). Respinge l’opinione di Trebazio, favorevole a riconoscere la proprietà con
ferimento + inseguimento, ma tiene per il diritto romano, e non alla consuetudine di Trebazio.
Punto 58: Bartolo sostanzialmente si ripete, dice che ciò che cade nel laccio non è mio finchè non lo
prendo manualmente. Non è quindi ammesso l’acquisto della preda se non con l’apprensione
materiale.
In questi passi emerge un Bartolo molto devoto ai principi fondamentali del diritto romano, ma non
è così in tutti i suoi scritti.
Tractatus de Falcone, nato come parer in veste di avvocato e poi ha assunto lo stile della
trattazione scientifica, Bartolo parte da un caso visto come avvocato e lo approfondisce (breve, un
paio di pagine). Contesto: nel Medioevo si sviluppa la caccia tramite rapaci, che diventa parte
essenziale della caccia. La legge di Federico Barbarossa ha contribuito a fare della caccia un rituale
per i nobili, e la caccia con il falcone in particolare a una grande importanza sociale. I falconi sono
fortemente tutelati dal diritto.
Nel trattato c’è un conte che va a caccia con il suo falcone, che ad un certo punto perde nonostante i
sonagli che aveva addosso. Un contadino lo trova, lo porta a casa e gli dà da mangiare. Il falcone
muore e il conte vuole agire contro il contadino.
Si vedono prima gli argomenti in malam partem (= contrari) per il contadino, e poi in bonam partem
(a favore del rustico e contro il conte). Il rustico ha provocato la morte del falcone, ha offerto la
causa di morte al falcone, si tratta di un danno che non rientra nella tutela diretta della legge Aquilia
perché non è un danno con il corpo ha il corpo, era concepibile quindi solo un’azione in factum.
Malam partem (contro rustico, pro conte) Bonam partem (pro rustico, contro conte)
È giusto utilizzare un’actio in factum perché si Il rustico dovrebbe essere assolto, e anzi
tratta di un danno indiretto, il contadino ha rimborsato delle spese sostenute. Bartolo
offerto la causa della morte al falcone richiama situazioni del diritto romano in cui
causandogli un danno patrimoniale anche se si è cercato di proteggere la cosa altrui
questa è ugualmente perita, e in questi casi si
può chiedere il risarcimento. Il rustico si è dato
da fare, ha dato cibo e attenzioni e può quindi
chiedere il rimborso delle spese, come lo può
fare chi ha curato lo schiavo ugualmente morto
Il falcone ha natura fiera, ma aveva i La semplicità e l’ignoranza del rustico: è un
sonagli; quindi, il rustico dovrebbe essere principio del diritto romano che la rusticità e il
condannato anche per furto. Si introduce una vivere lontani dalla società civile giustificasse
novità assoluta, oi conosciamo il principio per l’ignoranza del diritto.
cui un animale selvatico che si perde torna ad
essere una res nullius e quindi diventa di chi lo
occupa. Ma nel periodo di Bartolo in certi casi
c’era la tendenza a marchiarli, nel senso di
mettergli addosso dei segni distintivi in modo
da capovolgere i principi generali in materia di
acquisto. Il rustico, quindi, oltre che sul piano
civile è responsabile sul piano penale perché si
è impossessato di un bene su cui c’era un segno
identitario. Il rustico avrebbe dovuto capire che
il falcone non era una res nullius. Viene fatto
un parallelismo con il servo fuggitivo, perché i
servi a Roma erano spesso marcati, e se
fuggivano non diventavano res nullius.
Chiunque abbia in custodia l’animale di un Il rustico pensò che il falcone avesse
altro lo deve alimentare bene e conservare, riacquistato la naturale libertà e non essendo
cosa che il rustico non ha fatto. seguito da nessuno ha pensato di averlo
occupato secondo i principi insegnati da Gaio e
Giustiniano (argomento principale): secondo
principio de diritto romano l’anima aveva
persona l’animus revertendi, quindi
indipendentemente dai sonagli era tornato ad
essere res nullius, occupabile da chi lo trovava
per primo
Siccome i rustici potevano cacciare solo Il rustico si è comportato con la diligenza
animali nocivi non avrebbe dovuto prendere il quam in suis (=che mette nella cura delle
falcone, ha agito anche contro il dettato della proprie cose), alimentando il falcone come egli
legge alimenta se stesso.
Nella legge Aquilia basta la colpa lievissima
per rispondere, ma il rustico era in colpa lata
(=grave), perché dare delle carni avariata
all’animale è considerato come dolo, come se
avesse voluto farlo morire.
Il giudice De Bonacuro alla fine ha dato ragione al conte, e ha condannato il rustico al risarcimento
dei danni. Questo dimostra che i principi del diritto romano erano già in crisi, se fossero stati
limpidi il giudice non avrebbe dovuto avere dubbi circa la ragione del rustico. Se si fosse applicato
il diritto romano si sarebbe risolto il caso in maniera opposta, sotto l’influsso delle consuetudini.
Sempre in tema di caccia al falcone abbiamo al punto 60 un riscontro legislativo, una costituzione
imperiale di Federico III di Aragona, re di Sicilia.
Quadro di riferimento: la legge si inserisce in un clima di rivalità tra nobili per questioni venatorie.
Cani, falconi, animali simili, venivano spesso rubati, soprattutto prima dei tornei. Così i nobili
commissionavano furti a danno di altri nobili. Federico III emana una legge per bloccare questi
episodi di micro-criminalità.
Prima ipotesi: sottrazione che può compiere sia un non-nobile sia i nobili e i valletti (servitori,
coloro che normalmente ponevano in atto i furti). Per le varie figure erano previste pene diverse, i
non nobili erano puniti meno severamente perché erano i nobili che commissionavano i furti,
burgesi e valletti li eseguivano.
Seconda ipotesi: il volatile si perde e torna all’originale libertà. Però, prima che torni nell’originaria
libertà qualcuno lo chiama e l’animale risponde al richiamo, quindi ha ancora l’animus revertendi, è
un animale non ancora diventato libero e quindi impossessandosene si commette furto e soggiace
alla pena prevista per la prima ipotesi.
Terza ipotesi: può accadere che si catturi una bestia che ha volato a lungo avanti e indietro,
perdendo del tutto la consuetudine del ritorno. Il volatile perde quindi l’animus revertendi, torna alla
sua natura fiera e viene catturato con reti o colla. Per il diritto romano l’animale è del primo
occupante, e questo non è negato dall’imperatore perché dice “ci allontaniamo dal diritto comune
(=diritto romano)quando affermiamo che bisogna consegnarlo”. Però quando si apprende che
qualcuno ha perso il falcone chi lo trova deve portarlo dal giudice, deve autodenunciarsi, e se non lo
si riconsegna si soggiace alla pena prevista passo distante dai principi romanistici, ma Federico
III ne è cosciente.
31.10.23
Umanisti opinione di Cuiacio utilizzata in modo non onesto per sostenere una determinata tesi.
La lettura data al suo testo è interessante perché nell’800 si assiste ad un acutizzarsi nella società del
millenario contrasto tra proprietari e cacciatori: i proprietari si barricano dietro al principio del ius
prohibendi, ma vorrebbero anche far dire al diritto romano che quello che il cacciatore occupa nel
fondo altrui non è suo, vorrebbero che il proprietario del fondo fosse proprietario anche delle fiere
che si trovano sul fondo.
Questa idea non scompare, circolava già ed esplode nell’800. Parecchi giuristi stavano dalla parte
dei proprietari e li sostenevano grazie al diritto romano, nonostante le testimonianze antiche non
vanno in questo senso. I giuristi che stavano a fianco dei proprietari nell’800 scovano un testo di
Cuiacio che sembra fare al caso loro. Il testo sembrerebbe sostenere che il proprietario del fondo è
proprietario anche dell’animale selvatico su quel fondo. Si tratta di un utilizzo distorto del diritto
romano e anche del pensiero di un grande giurista. Questi passi si inseriscono in interpretazioni
pretestuose, letture forzate delle fonti.
Cuiacio si colloca nell’ambito di studio denominato giurisprudenza culta, i giuristi culti erano gli
umanisti. È una scuola che si afferma nel corso del ‘500 sulla scia dell’umanesimo, movimento
culturale più ampio che nel diritto assume la forma della giurisprudenza culta. Questa scuola è
improntata allo studio filologico dei testi classici, tende a togliere tutte le incrostazioni della
tradizione che tendeva a confondere testo antico e glossa. Questo approccio è detto anche mos
gallibus (=costume della Francia, perché la scuola è nata in Francia – contrapposto al mos italicus,
che era l’uso italiano di attualizzare i testi antichi), ossia la volontà di riportare i testi antichi al loro
originario contenuto.
Gli adepti di questa scuola prediligono un uso antiquario del testo, vogliono recuperare il testo
antico nella sua genuinità, libero da interpolazioni e interpretazioni successivi attraverso gli
strumenti della filologia. È questo il periodo in cui si realizzano le prime edizioni critiche delle
fonti, ossia un’edizione in cui l’autore ha visionato tutti i manoscritti medievali che hanno
tramandato il testo classico, li ha confrontati e ha scelto le lezioni più corrette.
Cuiacio nasce il 1522 e muore nel 1590. Ha lasciato ampi commenti di quasi tutte le fonti giuridiche
romane. È stato un umanista e ha goduto già in vita di grande fama. Nei secoli è stato utilizzato
come strumento di legittimazione per sostenere o per affossare determinati interessi.
Strumentalizzazione che va oltre il passo antico e coinvolge anche l’interprete.
Scenario retrostante all’utilizzo scorretto del pensiero di Cuiacio: polemica tra 800 e 900 che divide
cacciatori e proprietari, che considerano gli animali selvatici che entrano nel loro fondo come di
loro proprietà. I proprietari sono forti dell’angolatura che il diritto ha preso con la Rivoluzione
francese. Anche i cacciatori utilizzavano argomentazioni del diritto romano per sostenere la loro
tesi, volevano essere liberi di entrare nel fondo altrui per cacciare. Eventualmente ammettono che
possa esserci il diritto di proibire l’accesso ma senza proibizione espressa si presume che si possa
cacciare nel fondo altrui. A livello dottrinale la diatriba si gioca tra giuristi che si schierano da una o
dall’altra parte.
Cosa ne hanno fatto di questo passo i giuristi che stavano dalla parte dei proprietari: hanno dato
massimo risalto a una frase, escludendo il resto. Il punto isolato è “Invero, colui il quale abbia fatto
una di queste cose in alieno non con il permesso, ritengo che per sé non acquisti niente”. Questo è
un utilizzo del passo scorretto, perché si è estrapolata una frase decontestualizzandola, siamo di
fronte a una vera e propria falsificazione del pensiero di Cuiacio. Per sfruttare al massimo quella
parte del testo che interessava si silenzia tutto il resto, che potrebbe portare in un’altra direzione
nel frammento Cuiacio essenzialmente ricorda il passo sulle selve chiuse, se si chiude un bosco non
per questo si acquista la proprietà delle fiere che vi circolano, è necessaria l’occupazione. È opposta
alla prospettiva dei vivai. Cuiacio ricorda anche quanto diceva Ulpiano che parlava della possibilità
di impedire al pescatore di pescare davanti alla propria abitazione, diceva che chi è scacciato ha a
disposizione l’actio iniuriarium. Ulpiano ammetteva che si fossero delle consuetudini che
ammettevano la proibizione di pescare, ma le riteneva consuetudini contro il diritto.
Oltre al passo di Ulpiano viene nominato anche il testo del cinghiale di Proculo, e si vuol far dire a
Cuiacio che chi caccia sul fondo altrui non fa sua la preda. Cuciacio esprime la sua opinione sul
Digesto 41,1,55: dice che secondo questo passo se si caccia in un fondo altrui non si fa propria la
preda. Il passo secondo Cuiacio è da interpretare nel senso che il cinghiale non ancora occupato
diventa mio nel caso in cui abbia messo il laccio sul mio fondo, sul fondo altrui con il permesso e a
condizione che la bestia si sia impigliata nel laccio senza possibilità di liberarsi. Esclude
esplicitamente che si possa diventare proprietari di animali selvatici mettendo trappole sul fondo
altrui senza permesso. Questo passo è stato molto utilizzo dai giuristi schierati a favore dei
proprietari per sottolineare il fatto che la selvaggina è di proprietà del proprietario del fondo, ma è
una lettura forzata, come dimostra anche un passo di un’altra opera di Cuiacio.
62) Da Cuiacio, Notae et scholia in librum II. Institutionum D. Iustiniani (Commento a I. 2,1,12
si is providerit)
Cuiacio dice che il proprietario che aveva proibito poteva esercitare l’azione negatoria o di ingiurie
(sbaglia è il probitus che può agire contro il prohibens e non viveversa). Le parole più
interessanti sono quelle riportate in corsivo: chi entra nel fondo altrui nonostante la proibizione,
benché le fiere catturate per il diritto delle genti diventino sue subirà le conseguenze il cacciatore
che entra nonostante la proibizione caccia bene, fa sue le prede. Come fosse forzata e manipolatoria
la lettura data dai giuristi che sostenevano il fronte dei proprietari lo dimostra anche quello che
Cuiacio dice nel testo.
Giovanni Brunemanno: giurista tedesco del 1600, tra le sue opere c’è un commentario sulle opere di
Giustiniano. Ci interessa soprattutto ciò che dice riguardo la costituzione sulla caccia ai leoni, è un
esempio di lettura attualizzante, anche gli umanisti cascano a volte in questo tipo di letture.
Siamo nel pieno regime di caccia nobiliare e Brunemanno commenta la Costituzione di Teodosio e
Onorio e fa prima un sommario e poi una spiegazione del testo.
Già nel sommario Brunemanno dice che a tutti era concesso di prendere le fiere nocive e ucciderle
non è vero, era possibile uccidere solo i leoni e solo in caso di pericolo per la persona
umana, non si parla di prendere e nemmeno di fiere nocive. Nocive è invece l’idea sottesa nel
divieto di Federico Barbarossa. Brunemanno non sta ricostruendo l’opera di Giustiniano, ma sta
commentando la sua stessa epoca.
Fiere non possono essere trattenute più di sette giorni: la ritroviamo anche in Giustiniano. Parlando
di battaglie si capisce che Brunemanno pensa al presente, alle caccia dei nobili e non all’epoca
romana.
La proibizione di cacciare fatta ai privati ha una giusta causa, ossia per evitare che i sudditi non si
allontanino dal commercio e dall’agricoltura e non si abituino allo spargimento di sangue. Br non
ritiene tuttavia che per la violazione del divieto debba essere prevista la pena di morte.
Nel testo si trova anche l’opinione di Donello, e anche secondo lui sul suolo privato l’animale è
comunque una res nullius e diventa quindi di proprietà del primo occupante (Cap IV). Donello oltre
le condizioni di Proculo ai fini dell’acquisto della proprietà tramite la trappola chiede anche che il
cacciatore sappia che l’animale è caduto nella trappola, perché l’ignorans non acquista. Inoltre, il
fondo deve essere chiuso perché altrimenti chiunque potrebbe entrare e prendere la bestia. Ammette
l’utilizzo dell’actio iniuriarum nel caso in cui il cacciatore entri nel fondo nonostante la proibizione,
anche se leggendo il frammento di Ulpiano abbiamo visto che questa azione era a disposizione del
prohibitus, non del prohibens.
Va saputo che il tema dell’acquisto della proprietà sull’animale caciato è stato trattato anche dai
giusnaturalisti, anche se non li trattiamo. Nel corso del 600 il sovrano quasi ovunque in Europa ha
avocato a sé il diritto di cacciare, lo ha reso esclusivo problema: chi caccia prende una res nullius
o una res privata del principe?
Rivoluzione francese 1789: cancella tutti i diritti feudali e anche il privilegio feudale di caccia.
Si affaccia però un nuovo privilegio con una legge del 30 aprile 1790: la caccia diventa diritto
dei proprietari, è fatto divieto cacciare sul fondo altrui senza permesso. Uno può cacciare solo
se ha una terra su cui farlo, non c’è più un diritto dell’uomo di cacciare e sul suolo pubblico è
proibito farlo. Chi non è proprietario non può quindi cacciare, a meno che il proprietario di un
fondo non gli conceda di cacciare sul proprio fondo allontanamento enorme dal diritto romano,
secondo cui il proprietario aveva solo il ius prohibendi, si poteva cacciare salvo divieto espresso.
In ogni caso nemmeno i francesi arrivano a configurare il proprietario del fondo come proprietario
della selvaggina che sta nel fondo, anche lui deve catturare la fera bestia che resta res nullius fino
alla presa. Sottostante c’è una concezione esclusivistica della proprietà, tipica dell’ideologia
post rivoluzionaria. C’era anche una preoccupazione per le sorti dell’agricoltura, si pensava che se
tutti avessero potuto cacciare liberamente ci sarebbero state delle ripercussioni sui raccolti. Non tutti
erano d’accordo, Robespierre era contro questo divieto e negava che la caccia fosse una facoltà che
discende dal diritto di proprietà, voleva una caccia libera.
Nell’ Italia postunitaria c’è un diritto romano non rispettato ma a cui si fa sempre riferimento.
Quello che diciamo ora vale anche per diversi altri paesi europei.
1861 Unità d’Italia, dal punto di vista venatorio è una sventura perché tutti gli stati preunitari
avevano una propria legge sulla caccia, era conoscenza comune che ci fossero delle bestie in via di
estinzione quindi le leggi stabilivano gli animali che si potevano cacciare e con che mezzi, per
esempio c’era il divieto di utilizzare delle reti molto fini che catturavano indistintamente tutti gli
uccelli. Si trovava anche il calendario venatorio, per esempio era vietato cacciare con la neve. Le
leggi riflettevano le condizioni geografiche di ciascuna regione, quindi le leggi avevano principi
simili ma contenuti anche diversi. Con l’unità c’è il caos e cominciano i conflitti anche tra gruppi di
cacciatori di regioni diverse, anche riguardo il calendario venatorio. Non arriva
un’omogenizzazione perché scoppia un conflitto tra i cacciatori sul principio ispiratore che deve
ispirare la legge. Inoltre, c’è anche il conflitto tra proprietari e cacciatori. I primi si ancorano
all’idea francese che la caccia sia riservata al proprietario del fondo, idea lontana dal diritto romano
che è però prevalsa in Ge e Fr. In Italia la tradizione romanistica è più forte e i cacciatori
sostenevano i principi del diritto romano, mentre i proprietari sostenevano il modello francese.
Il dibattito va avanti per decenni e il Parlamento non riesce a concludere nulla fino al 192. Fino a
questa data la caccia non era veramente disciplinata, era un ambito anarchico, gli unici riferimenti
sicuri c’erano nel cc del 1865 e nel Codice penale.
06.11.23
L’epoca è caratterizzata da uno scontro oramai molto violento tra proprietari e cacciatori. Le idee
sono quindi che la caccia sia sostanzialmente diritto del proprietario, che può concedere o meno
l’accesso ai propri fondi (Rivoluzione francese), o l’dea del diritto romano di un diritto di caccia
molto più libero. Gli unici fondamenti sicuri sono quelli dei codici civile e penale. Sono norme
generali, ma molto poche, quindi la materia continua ad essere disciplinata anche da norme in
contrasto.
Codice civile
Punto 64: va ricordato che, come tutti i codici di questa epoca, il cc del 1865 è influenzato dal Code
napoleon. L’art. 711 cc conferma però i principi del diritto romano in materia di caccia e pesca,
ossia la necessità dell’occupazione. L’occupazione concerne le sole cose di nessuno, tra queste
quelle abbandonate, il tesoro e gli animali selvatici. Da queste espressioni sembrerebbero recepiti i
principi del diritto romano che noi conosciamo, ma non si dice una cosa importante: si omette come
deve avvenire l’occupazione, non si precisa in cosa debba consistere l’occupazione (ferimento?
presa corporale?trappola?). si trova poi nell’art. 712 un elemento che è meno schierato dalla parte
del diritto romano e più vicino alla legislazione francese e tedesca. L’esercizio della caccia e della
pesca è regolato da leggi particolari. Non è tuttavia lecito di introdursi nel fondo altrui per
l’esercizio della caccia contro il divieto del possessore.
Si parla di possessore, ma vale anche per il proprietario non è quindi illecito introdursi nel fondo
altrui per cacciare. Però nello stesso codice si permette al proprietario di chiudere il proprio fondo
impendendo materialmente a chiunque di entrare. Si tratta dell’art. 442 cc ciascuno può chiudere il
suo fondo, salvi i diritti di servitù spettanti ai terzi. Questo elemento ì, il diritto del proprietario di
chiudere il fondo va ad affiancarsi all’art. 712 creando una situazione non molto semplice. O
cacciatori si chiedono, se il fondo non è materialmente recintato si può entrare? È come se il
proprietario concedesse di entrare? I cacciatori sono indirizzati a dire sì, per cui se si trova un fondo
non chiuso i cacciatori pretendono di entrare, enfatizzano il principio secondo il quale la selvaggina
è cosa di nessuno, art. 711, e enfatizzando questo concetto intendono l’art. 712 nel senso che il
proprietario può impedire l’accesso solo se chiude materialmente il suo fondo. I proprietari, specie
di latifondi, si chiedono come è possibile interpretare in questo modo, dato che è impossibile
recintare km e km quando il fondo si estenda su enormi distanze. I proprietari osteggiano
l’interpretazione che sostengono invece i cacciatori.
il punto inespresso è quello della modalità dell’occupazione, il codice non dice nulla quindi non
sappiamo se il legislatore pensasse al diritto romano. Naturalmente i proprietari sono sconfitti su
questo punto, avrebbero desiderato che il cc dicesse come principio che gli animali selvatici sono
una res propria. Anche l’art. 712 è problematico, il primo comma è una dichiarazione di gravi
problemi a livello normativo, L’esercizio della caccia e della pesca è regolato da leggi particolari, il
legislatore sembra auspicare che venga emanata il prima possibile una legge speciale che disciplini
l’ambito venatorio, ma in tempi brevi non si arriva a una conciliazione. Si inizia dunque a leggere
questo prima comma come se fosse riferito alle vecchie leggi preunitarie, come se invece che
limitarsi ad auspicare l’entrata in vigore di una futura legge richiamasse in vita tutte le leggi degli
stati preunitari. Ne consegue un caos interpretativo notevole
712, comma 2: L’articolo sembra recepire il ius prohibendi, ma la disciplina romanistica non
configurava un diritto azionabile, es era solo un diritto a proibire l’ingresso, non la caccia. Si
presumeva che si potesse entrare se non c’era un divieto che doveva essere posto quando l’atto di
caccia non era ancora iniziato. C’è un eco del diritto di proibire, ma molto vago e impreciso, non
dice come va esercitato il divieto e nemmeno se è presunto il divieto o l’accesso. Su queste
parole si innesta una diatriba furibonda, i teorici dei proprietari sostengono un’interpretazione
restrittiva, favorevole alle ragioni dei proprietari rifacendosi alla legislazione francese, mentre i
teorici dei cacciatori insistono su un’interpretazione estensiva, lata, deve essere manifestato il
divieto e non il consenso.
Ulteriore problema: come va manifestato? Abbiamo parlato del legame con l’art. 442, la possibilità
di recintare il fondo va considerato o meno un modo per esprimere il divieto? E nei casi in cui è
materialmente impossibile recintare un intero latifondo come si deve interpretare il combinato
disposto del 712 e 442?
C’è anche un altro punto interessante: oltre al caso della chiusura materiale, riconosciuta anche dai
cacciatori come divieto presunto, accettavano anche che fosse una manifestazione di divieto anche
il fatto che ci fossero delle colture in atto. Problema: se ci sono colture in corso, ma il grano è già
stato mietuto/l’uva è già stata raccolta? Ovviamente i cacciatori ritengono che si possa entrare
liberamente in un fondo che presenta in una coltura ma che sia in uno stato tale per cui il raccolto è
già stato avvenuto e l’ingresso non causa danni alla coltivazione, i proprietari invece sostengono il
contrario, ritengono che per esprimere il divieto di ingresso possa bastare un cartello che sia posto
ogni tot km. I cacciatori ribattono che non è possibile sapere che non si può entrare se sono in un
punto diverso rispetto al cartello. Si susseguono diversi progetti di legge unitaria sulla caccia, tutti
falliti.
Punto 66: Prima proposta di legge unitaria presentato al Senato nella tornata del 18 novembre 1862
Alcuni postulati perdurano, si ritrovano anche qui. Per alcuni aspetti si trova la soluzione romana
(non si può entrare control il divieto) si riconosce la facoltà di vietare. Dalle legislazioni
preunitarie si introduce la distinzione tra divieto manifestato e presunto, un divieto presunto è la
presenza di terreni seminati. Questo progetto si manifestava favorevole ai proprietari, il divieto
poteva essere espresso anche a manifesti da affiggersi all’albo pretorio dei comuni.
Dal pdv sanzionatorio ci spostiamo a considerare il regime previsto dal codice penale: il cp Sabaudo
del 1859 prevedeva che l’ingresso nel fondo altrui costituiva una contravvenzione punto 65
dispensa (delle contravvenzioni contro la proprietà). Il comportamento era sanzionato come previsto
nell’art. 35 e 50, ammenda, arresto e ammonizione.
Questo articolo da una grande mano ai proprietari, si vieta che si vada a cacciare nel fondo altrui
senza permesso, diventa un delitto di caccia. I proprietari sono contenti e i cacciatori affranti. I
proprietari vedono nell’art. 428 un completamento dell’art. 712 del cc. Il contrasto va avanti, non si
conclude mai nulla, non si arriva ad una legge unica in materia di caccia in tempi brevi, la forza dei
proprietari in alcuni momenti sembra cedere ai cacciatori, che riescono a portare in Parlamento
rappresentanze a loro favorevoli ma alla fine nulla va in porto. La dottrina civilistica lavora, ma sui
principi, si preoccupa soprattutto di questioni teoriche, come il problema dell’occupazione,
proponendo letture specifiche dal pdv dei principi generali. La giurisprudenza, nel frattempo, si
confronta con casi concreti e produce sentenze contrastanti, cosa che non sorprende data la
situazione.
Si arriva al 1918 anno in cui viene emanato un decreto luogotenenziale in tema di riserve, punto
68 dispensa: normativa molto puntuale e precisa per un caso speciale, quello delle riserve la
disciplina delle riserve viene accolta in modo non troppo negativo, non turbano eccessivamente i
cacciatori, forse perché speravano che ce ne sarebbero state molto poche.
Si arriva al 1923, anno in cui per la prima volta si approva una vera e propria legge unitaria in
materia di caccia. In questa legge sono disciplinati tutti gli aspetti più significativi della materia,
capitale venatorio, specie cacciabili e non etc.
Art. 21 l. 24 giugno 1923, punto 69 dispensa: salvo alcune eccezioni precisamente individuate la
caccia è ammessa sugli altri fondi. Sorgono immediatamente problemi di coordinamento con l’art.
712 cc e parallelamente sorgono problemi di coordinamento con il dettato dell’art. 428 cp (delitto di
caccia abusiva). Sotto la vigenza di questa legge c’era un forte contrasto tra norme diverse del
codice penale e civile.
Ci spostiamo a parlare della legge che subentra a questa, nel 1931 viene emanata una nuova legge in
materia di caccia, la cd legge Acerbo, un regio decreto 117/1931, e dopo otto anni viene emanato
un testo unico in materia di caccia, nel 1939 n. 1016 T. U. delle norme per la protezione della
selvaggina e per l’esercizio della caccia (punto 70). Il Testo Unico è l’unico tra i provvedimenti
legislativi a presentare un minimo di stabilità. Queste leggi sono progressivamente sempre più
favorevoli ai cacciatori, piano piano l’ago della bilancia si sposta dalla loro parte. Le ragioni dei
cacciatori iniziano ad emergere e prevalere su quelle dei proprietari
Intanto l’art. 711 del cc resta sempre in vigore, deve ancora essere emanato il nuovo cc. Come si
debba attuare l’occupazione ancora non è chiaro, ma il riferimento civilistico è questo. Nel
frattempo nel 1931 è stato emanato un nuovo Codice penale, il Codice Rocco in vigore ancora oggi.
Nel codice penale Rocco scompare la fattispecie di delitto di caccia abusiva.
Punto 72: art. 637 cp si trova disciplinato solo l’ingresso abusivo nel fondo altrui. Scompare quindi
la fattispecie dell’art. 438 del Codice Zanardelli. Scompare anche l’idea che un qualsiasi segnale
possa essere bastevole per esprimere il divieto del proprietario. Torna con tuttala sua ambiguità il
ius prohibendi della tradizione. Perduto l’aggancio alla disciplina penalistica ritorna
sostanzialmente ad espandersi il ius prohibendi della tradizione con tutta la sua ambiguità e i
problemi che lo hanno afflitto. I cacciatori si riprendono le loro istanze e si affermano sempre di
più. un’affermazione delle ragioni dei cacciatori si riscontra in tutte le leggi 23, 31, 39 perché viene
disciplinato in maniera precisa quali sono i luoghi in cui non si può cacciare, e tutte le leggi
prevedono gli stessi luoghi in tal senso. Ma queste leggi affermano che in tutti i luoghi salvo quelli
esclusi specificamente si può cacciare liberamente (stazioni, giardini pubblici, postazioni militari
ect.). il codice Rocco elimina dall’ordinamento il diritto di caccia, si mantiene solo la sanzione
penale per l’entrata abusiva nel fondo. Ma è una norma generale per proteggere la proprietà, non
c’entra la caccia. DETTAGLI SUL MANUALE
Problema acquisto della preda: la disciplina codicistica del cc del 1865 esprimeva il principio per
cui la proprietà della res nullius si acquista per occupazione. Come si attua l’occupazione non è
però indicato. Il T.U. de 1939 si esprime sulla questione, e precisa le modalità di occupazione.
Punto 70 dispensa, pag. 30: sottratta al proprietario la possibilità di vietare la caccia si dice che la
selvaggina appartiene a chi la uccide o cattura. Inoltre, appartiene anche a chi l’ha scovata, finché
non ne abbandona l’inseguimento. Appartiene al feritore la bestia palesemente ferita. In questa
seconda frase si ha un tentativo di disciplinare la materia dell’occupazione in termini più consoni a
una concezione smaterializzata della presa, accanto ad uccisione e cattura si hanno le possibilità
dello scovamento + inseguimento e il ferimento palese. Questa norma diventa un vespaio, perché le
situazioni problematiche nella realtà concreta dei fatti possono essere infinite, soprattutto il
ferimento da molti problemi sul piano pratico quando è che un ferimento è palese?
L’inseguimento, che nel testo della legge è associato allo scovamento, va inteso che il feritore che
ha palesemente ferito debba poi anche inseguire? E se si caccia in gruppo e tutti fanno partire un
colpo come si fa a capire chi ha sparato il colpo che ha ferito palesemente? E se si mette una
trappola in che fattispecie si rientra? La formulazione dell’articolo non riesce ad imbrigliare le
fattispecie concrete. L’articolo voleva rispondere a problemi pratici, ma non li risolve.
Uno dei pochi casi di conflitti venatori avvenuti sotto l’impero del TU del 1939 è quello che ha dato
luogo alla sentenza Grossi v. Cappato del 1960.
Promulgato in vigenza del TU del 1939. Testo unico che benché sia un testo equilibrato presenta
problemi notevoli, perché nell’art. 2 si sbilancia troppo. Il cc del 1942 va visto in relazione con il
TU del 1939 e dei principi ispiratori (animale come res nullius, caccia ovunque, occupazione nei
vari modi).
Il cc del 1942 ha molte norme sulla proprietà, ad esempio l’art. 840 sul sottosuolo e spazio
sovrastante. Articolo interessante perché riflette una concezione del diritto di proprietà tipico di
questa epoca: molto ampio, ma ci sono i limiti dell’ordinamento fa capolino la funzione sociale
della proprietà, idea che si afferma nel fascismo. Concezione esclusivista della proprietà ma
corretta secondo i dettagli dell’ideologia dominante.
Art 922 modi di acquisto della proprietà: nei modi di acquisto a titolo originario emerge il diritto
romano, ma ci sono differenze palesi il contratto è indicato come modo di acquisto della
proprietà, mentre in diritto romano non esistono contratti ad effetti reali. C’è il segno del Code
Napoleon e del principio consensualistico.
Art. 923 cose suscettibili di occupazione: tutto uguale al cc 1865, concezione romana caccia e
pesca hann ad oggetto cose di nessuno.
Nessuno dei due codici parla dell’attuazione e delle modalità dell’occupazione degli animali, ma si
nota una differenza con l’art. 712 adi fuori dei posti in cui è esplicitamente vietato cacciare la
caccia è libera, a meno che il proprietario non chiuda il fondo in uno dei modi previsti dalla legge
(artt. 841-842). Un fondo può essere chiuso (841), ma l’842 codifica il libero accesso del fondo
privato quando non sia chiuso e quando non ci sia una coltivazione in atto passibile di essere
danneggiata. La legge sulla caccia a cui fa riferimento il’842 è un articolo del TU del 1939, a cui va
quindi ancora fatto riferimento. L’art. 29 TU (non è sulla dispensa) prevedeva che caccia e
uccellagione sono vietati nei punti chiusi da muro o rete metallica di altezza non inferiore a 1.8m o
da corsi o specchi d’acqua perenni il cui letto sia largo almeno 1.5 m e profondo almeno 3m.
Fatti: Grossi va a caccia con un gruppo di 7 cacciatori di Curenna, spara e ferisce un cinghiale, ma
l’animale scappa. I can vanno all’inseguimento e Grossi insegue i cani. Non si sa dove sia finito il
cinghiale e dopo molte ore si viene a sapere che in un paese vicino, Garlenda, è stato ucciso un
cinghiale da Cappato. Grossi contesta la proprietà del cinghiale a Cappato, che offre metà animale a
Grossi in forza di una consuetudine venatoria del Savonese. Proposta rifiutata, Grossi cita in
giudizio Cappato contestando la proprietà dell’animale. Il pretore in primo grado decide in modo
sfavorevole a Grossi, che appella, e un anno dopo il Tribunale di Savona gli da ragione.
Questi conflitti venatori riportano fatti difficilmente provabili, come inseguimento e ferimento, per i
quali trovare una prova che convinca il giudice è complesso.
Primo grado: pretore conserva il principio per cui la selvaggina si acquista per occupazione, e dice
che Grossi non ha né ucciso né catturato il cinghiale, non si è posto nemmeno in una condizione
spiritualizzata dell’occupazione. Dice che il Grossi ha scovato il cinghiale, ma l’hanno inseguito i
cani, lui ha inseguito i cani e poi abbandonato l’inseguimento. Si ritiene che per “inseguimento” in
termini venatori debba intedersi la corsa o la marcia del cacciatore e dei cani o solo del cacciatore,
dietro la preda che fugge, in modo da essere sempre in grado di sapere in che direzione sta
fuggendo la selvaggina. Del Grossi può dire solo che è andato alla ricerca del cinghiale, quindi il
suo comportamento non rientra nelle previsioni stabilite dalla legge (uccisione/cattura/scovamento
+ inseguimento/palese ferimento). Quindi Grossi non può vantare alcun diritto sull’animale ucciso d
Cappato, inoltre il giudice considera anche una testimonianza secondo cui il cinghiale ucciso da
Cappato non era quello ferito da Grossi, perché il cinghiale non presentava alcuna ferita. In più il
macellaio che ha ispezionato l’animale ha stabilito che aveva lo stomaco pieno, quindi era ancora in
forze
Secondo grado: Tribunale di Savona dice che l’animale era lo stesso e secondo il giudice di Appello
Grossi avrebbe palesemente ferito il cinghiale. Il giudice ricava la palesità della ferita da vari indizi,
perché si è spinto vicino a un centro abitato, Cappato è riuscito a sparargli da una distanza
ravvicinata. Cappato cerca di dimostrare che la legge applicabile era solo il 923 cc, che avrebbe
abrogato l’art. 2 della legge 1939, ma il giudice considera le due norme compatibili, e stabilisce che
la proprietà si può acquistare:
l’art. 2 della legge pone l’accento soprattutto sullo scovamento, in seguito al quale l’animale non è
più completamente res nullius ma viene a trovarsi nella sfera di apprensione del cacciatore. Il
Grossi, oltre ad avere scovato il cinghiale lo aveva anche ferito e i suoi cani lo avevano inseguito, e
per il giudice di secondo grado non rileva il fatto che Grossi aveva perso il contatto con i cani,
considera l’inseguimento ugualmente valido divergenza tra i due giudici sul concetto di
inseguimento (solo cacciatore o cacciatore + cani vs anche solo cani). Altra divergenza: per il
giudice di primo grado un animale che si avvicina al centro abitato è pimpante e aveva lo stomaco
pieno, era in salute, per quello di secondo grado lo stesso comportamento del cinghiale è invece
indice di gravi menomazioni.Il cinghiale quindi era di Grossi.
Una norma che avesse riconosciuto la proprietà solo a chi materialmente prende l’animale avrebbe
risolto alla radice tutti questi conflitti (come previsto da Gaio e Giustiniano), soprattutto se corretta
da norme di galateo venatorio come quella che voleva applicare Cappato.
Arriviamo alla legge 27 dicembre 1977, n. 968 poi sostituita dalla legge 157/1992, attualmente in
vigore. Sono due leggi quadro che hanno attuato il principio costituzionale dell’art. 117
Costituzione secondo il quale la materia della caccia è materia riservata alle regioni. Dietro
queste due leggi c’è un’ideologia cambiata. Sullo sfondo c’è l’emersione di movimenti
ambientalisti, di un sentire sociale anti-venatorio. Emerge una concezione protezionistica della
selvaggina, da tempo erano state emanate direttive volte alla protezione degli animali selvatici, con
elenchi di animali da proteggere.
Art. 1, legge 157/92: stabilisce un principio rivoluzionario, la fauna selvatica diventa patrimonio
indisponibile dello Stato, non è più una res nullius. C’è un’antinomia con il TU del 1939, perché la
selvaggina diventa dello Stato, quindi non si può acquistare la sua proprietà per occupazione.
Questo cambia tutto, almeno sul piano teorico. È ancora possibile cacciare, ma non si acquista la
proprietà dell’animale a titolo originario, bensì derivativo perché il precedente proprietario è lo
Stato.
Conseguenze: oltre che essere proprietario lo Stato è possessore della selvaggina; quindi, quando il
bracconiere prende l’animale in luoghi o con modalità vietate commette furto. Nel 1977 la
possibilità che il bracconiere fosse passibile di furto non era prevista. Si è poi stabilito che non va
applicata la disciplina del furto e sono state previste sanzioni specifiche.
L’enunciazione dell’art. 1 ha creato il caos su piano dei principi generali perché in contraddizione
con l’art. 923 cc 1942. Alcuni sostengono che il legislatore non si sia accorto dell’antinomia che si
stava creando, e secondo questi studiosi l’art. 1 sarebbe solo un enunciato politico e non un
principio giuridico. Altra parte della dottrina sostiene che c’è un’abrogazione tacita degli articoli del
cc non in linea con quanto disposto.
14.11.23
Punto 75: legge regionale del Molise si ripropone integralmente la prima parte dell’art. 12,
comma 6, mentre nella seconda parte si protegge anche lo scovamento, o più in generale il recupero
dell’animale scovato e ferito. Il cacciatore non deve subire interferenze, si da per acquisita la
proprietà a condizione che non abbandoni l’inseguimento o il recupero.
Di scovamento – ferimento si parla anche nella Legge Regionale delle Marche, punto 76: La fauna
selvatica abbattuta durante l’esercizio venatorio appartiene a colui che l’abbatte, ovvero a colui che
l’abbia ferita o scovata, se non abbia abbandonato l’inseguimento. Molise e Marche si collocano su
una linea di protezione anche dello scovamento-ferimento.
In Sardegna invece serve la ferita palese, punto 78: la fauna selvatica appartiene a chi
legittimamente la uccide e quella palesemente ferita al feritore.
In Toscana abbiamo a che fare con lo scovamento: la fauna appartiene a chi la uccide o cattura, ma
si aggiunge lo scovamento a condizione che si prosegua nell’inseguimento dell’animale.
In Liguria e Emilia Romagna si normano anche i conflitti tra cacciatori per alcune tipologie di
caccia.
Punto 80, legge regionale della Liguria n. 29, 1 luglio 1994: si le spoglie dell’animale in caso di
conflitto sono di proprietà del feritore, il ferimento è il momento di acquisto della proprietà. La
legge ligure sembra aver copiato la legge emiliano-romagnola emanata nel febbraio dello stesso
anno. Questa dispone he le spoglie sono di proprietà del cacciatore che lo ha ferito.
Queste sono leggi regionali che specificano il momento in cui si acquista la proprietà dell’animale e
specificano con più o meno dettagli. Ci sono poi leggi regionali che non specificano ulteriormente
la legge, e rimandano solo alla legge quadro. Lo scenario è quindi diverso regione per regione.
Abbiamo parlato di caccia e dell’acquisto della proprietà della selvaggina, ma si può parlare di accia
sotto tanti profili diversi, ad esempio la nostra società oggi è molto sensibile alla cd questione
animale. Il diritto se ne sta occupando in molti modi. Nel 2004 è stato modificato il cp per inserirvi
il titolo IX-bis.
Punto 82 dispensa: dei delitti contro il sentimento per gli animali. Sono stati previsti gli artt. 544-bis
e ter sull’uccisione e maltrattamento di animali.
Come coesistono nel nostro ordinamento norme che consentono l’uccisione di un animale da
parte di un cacciatore con una tutela penalistica di questo genere? La risposta sta nell’art. 19-
ter delle disposizioni di coordinamento e transitorie del c.p.: Le disposizioni del titolo IX-bis del
libro II del codice penale non si applicano ai casi previsti dalle leggi speciali in materia di caccia,
di pesca, di allevamento, di trasporto, di macellazione degli animali, di sperimentazione scientifica
sugli stessi, di attività circense, di giardini zoologici, nonché dalle altre leggi speciali in materia di
animali.
Non sono quindi punibili le condotte tenute conformemente alle disposizioni previste in leggi
speciali. Va ricordato anche l’art 51 c.p., che prevede che l’esercizio di un diritto esclude la
punibilità se esiste un diritto di cacciare è esclusa la punibilità per il fatto.
IL TESORO
Antichità archeologiche e reperti li consideriamo insieme, sono due ambiti che a prima vista
appaiono distanti, nell’immaginario collettivo pensando a un’antichità archeologica si pensa a una
statua, un quadro, se si pensa a un tesoro invece viene mente un baule con dell’oro. Ci sono però
elementi in comune: si trovano nel sottosuolo, si recuperano mediante uno scavo, sono dimenticati
da tempo immemore e hanno in comune il problema dell’appartenenza, dell’acquisto della
proprietà, con discussioni eterne tra proprietari del fondo, scopritori, rinvenitori o inventori, lo Stato
e il fisco. Nel corso della storia del diritto, da Roma ad oggi solo nell’800 e per un periodo di tempo
non troppo lungo tesori e antichità archeologiche sono stati considerati insieme. Per quell’epoca il
tesoro aveva cessato di configurarsi solo come un deposito di monete per diventare una qualunque
cosa di pregio senza padrone, di solito trovata per caso. Ma questa unificazione tra tesori e statue è
durata poco: dopo mezzo secolo i reperti archeologici sono andati incontro a un destino luminoso,
perché è stata attribuita loro la natura di beni pubblici nelle leggi del primo 900 in tema di beni
culturali. Mentre il tesoro, così antico come concetto piano piano ha mostrato il suo carattere
anacronistico e rimane legato sia nel cc del 1865 sia in quello del 1942 alle sue origini romane, e
anche agli stessi problemi che aveva mostrato nella sua costruzione dogmatica già in epoca romana.
Partiamo da Roma e dal diritto romano e poi consideriamo la disciplina giuridica di questi temi
nella Roma dei papi, poi con l’avvento di Napoleone e poi dei Codici, fino ai giorni nostri (pag. 18-
20 manuale introduzione).
Cos’è un tesoro? La parola tesoro assume significati diversi a seconda che la intendiamo in senso
comune, economico-finanziario, o in senso giuridico. Sul concetto di tesoro, in generale,
nell’antichità classica greca e romana capitolo 1 manuale anche riflessione della mentalità
classica sull’idea del tesoro. Noi non la possiamo capire perché troppo lontana dalla nostra, ma la
ritroviamo nelle forme giuridiche. L’idea del tesoro soprattutto come dono della fortuna o di una
divinità questa idea, che ha avuto una persistenza pressochè continua nell’antichità classica ha
un riflesso giuridico molto preciso nel fatto che il tesoro giuridicamente è il prodotto di una scoperta
fortuita. Le fonti letterarie sono utili anche perché quanto ci è pervenuto, ci è stato tramandato, della
disciplina giuridica del tesoro è molto poco e non basta da solo a spiegarne definizioni, storia,
elementi essenziali, fondamento. Gli studiosi moderni discutono anche su quale sia il titolo con cui
si diventa proprietari di un tesoro: occupazione/invenzione/accessione/usucapio pro erede/un titolo
a se stante? Gli studiosi hanno opinioni diverse perché le fonti non ci dicono nulla, non sono chiare
come per la caccia, non si pongono il problema allo stesso modo. Gli studiosi, quindi, hanno
avanzato varie ipotesi, ma non c’è uniformità. Per Marrone, ad esempio, il rinvenimento del tesoro
si ha per occupazione, mentre per altri studiosi è un titolo a sé stante. Non c’è però modo di
discutere sui testi di questo problema, resta misterioso. Le poche informazioni concernenti il tesoro
sono state utilizzate da studiosi moderni per costruire impalcature dogmatiche utili per sostenere
una tesi piuttosto che un’altra.
Definizione del Giurista Paolo, Digesto, pag. 35 punto 1: il titolo di acquisto della proprietà del
tesoro non è chiaro, Paolo da una definizione non particolarmente limpida. Primo punto: cosa rende
un deposito monetario un tesoro? Gli studiosi hanno cercato di individuare l’elemento che secondo
Paolo (o secondo i giustinianei che hanno interpolato il testo) trasformerebbe un deposito di monete
in un tesoro e hanno proposto tesi diverse.
- Primo indirizzo: per studiosi come Pampaloni (fine 800) secondo Paolo l’elementi che
renderebbe tale un tesoro sarebbe il tempo, il fatto che si sia persa la memoria, che il
deposito di monete sia così antico da potersi dire immemoriale.
- Secondo indirizzo: la maggior parte degli studiosi afferma che non è il tempo l’elemento che
rende un deposito di monete un tesoro, ma considerano centrale l’irreperibilità del
proprietario.
- Terzo indirizzo: per altri studiosi, come Pietro Bonfante, non è tanto l’irreperibilità de
proprietario ad essere il nocciolo della questione, ma l’inesistenza del proprietario solo
questa assicurerebbe allo scopritore l’acquisto del tesoro come res nullius. Si deve
interpretare quella parte del testo che dice “e così ciò che non è di un altro diviene del
rinvenitore”. Il problema è che è non è affermabile con facilità che non esista un
proprietario, magari è proprietario inconsapevole ma lo è. È vero che se rileggiamo il testo
Paolo dice proprio “e quindi non ha un proprietario”, come se la successione universale non
esistesse. Sembra proprio che Paolo o chi ha interpolato il testo commetta un errore e
sembra non ricordare che in caso di successione senza successori i beni dell’eredità vacante
sono assegnati alle casse dello Stato.
Che interpretazione va favorita? Ragionando in modo logico e non contraddittorio da quello che si
capisce dobbiamo dire che deve esserci una certezza negativa che il proprietario sia irreperibile e
deve risultare subito dalle circostanze dell’atto al momento della scoperta del tesoro (quindi il
secondo indirizzo). Se l’elemento dell’irreperibilità del proprietario manca non si è di fronte a un
tesoro, ma ad una cosa perduta, su cui il proprietario o i suoi successori mantengono il diritto di
proprietà. Come debba risultare la certezza negativa il testo non lo dice.
Altro punto interessante è l’oggetto del tesoro: secondo questa definizione di Paolo l’oggetto è un
vecchio deposito di monete, quindi denaro contante (pecunia), monete d’oro e d’argento.
Paolo parla di depositio, vecchio deposito di monete. In questo contesto significa che le monete
non devono essere sparse ma raccolte, chiuse in un contenitore di qualsiasi forma. Gli studiosi si
sono meravigliati che in un’epoca come quella classica in cui vive Paolo il giurista si sia limitato ad
identificare il bene tesaurizzato o tesaurizzabile nella sua pecunia. Le famiglie più abbienti avevano
gioielli, preziosi suppellettili, stoviglie e argenteria. Quindi forse quella di Paolo era una definizione
anacronistica già all’epoca, alcuni studiosi hanno proposto di adattarla in via analogica anche per i
depositi di gioielli e il vasellame di pregio, ma non certo ai rinvenimenti archeologici come
sculture. Con depositi poi si intendevano solo depositi volontari o anche quelli formatisi per eventi
causali (es. crolla una casa in seguito a un terremoto e dopo centinaia di anni dotto i detriti vengono
scoperte delle monete è un tesoro?). Il tesoro bisogna scoprirlo o basta vederlo per diventare
proprietari? Sono aspetti che restano in ombra in questa definizione.
hhhPaolo dice che il tesoro giuridico è un antico deposito di monete di cui non resta memoria e che
non ha un proprietario e che l’inventore fa suo. Altrimenti, se qualcuno avesse nascosto sottoterra
qualcosa o a scopo di guadagno o per paura non si tratta di un tesoro e se qualcuno se ne appropria
commette furto.
Abbiamo una definizione un po’ oscura di tesoro improprio: la differenza con il tesoro in senso
tecnico è discussa.
- Per la causa del sotterramento: il tesoro improprio avrebbe come causa lo scopo di
guadagno, la pura, la custodia. Però questa tesi è inaccettabile, perché anche un tesoro in
senso tecnico può essere stato nascosto per le stesse ragioni, è una nozione comune che si
nasconde qualcosa per proteggerla.
- Per il fatto di essere o non essere antico, immemorabile, semplicemente per il fatto di essere
o non essere senza padrone: nel caso del cd tesoro improprio il deposito ha un padrone, un
proprietario conosciuto o conoscibile, reperibile, quindi la proprietà è certa e ad
impossessarsene si commette furto, perché l’appartenenza è certa.
20.11.23
Seconda definizione di tesoro, punto 2 dispensa, pag.35
Codice Teodosiano, raccolta di Costituzioni imperiali, Titolo XVIII, libro X. È una Costituzione del
380, si desume che nonostante la Costituzione sia intitolata a tutti i giuristi scritti è da attribuire a
Teodosio I. inserita nel titolo “dei tesori”, apre una nuova definizione di tesoro. Ai tesori si
affiancano i monili, i gioielli. In questa Costituzione l’elemento che si aggiunge alla definizione di
tesoro in senso proprio riguarda l’oggetto: non solo pecunia come indica Paolo, ma anche monilia,
gioielli.
Punto 3 dispensa, terza definizione di tesoro, Costituzione degli imperatori Leone e Zenone
Costituzione del 474. Non si trova nel codice Teodosiano ma in quello Giustinianeo (La C. sta per
Codex), e viene dal titolo XV del Libro X. Il Titolo è omonimo a quello precedente “De Tesauris”.
Il testo echeggia quello di Teodosio, ma si sostituisce la parola monilia (= gioielli) con mobilia (=
cose mobili).
Cosa vuol dire mobilia? Tutte le cose mobili sono dei tesori? Sarebbe un’esagerazione concludere
che tutte le cose mobili sono tesori per Leone e Zenone. Sembra preferibile ritenere che il
significato corretto da attribuire al sintagma è che i tesori sono delle cose mobili, ma non tutte le
cose mobili sono tesori. Quindi, le cose immobili non possono essere tesori. Con il termine mobilia
si vuole designare non tanto l’oggetto in sé del tesoro, ma una qualità dell’oggetto che rappresenta
un tesoro. Questa qualità essenziale è di essere una cosa mobile. Come a dire che il tesoro è
qualcos’altro rispetto al fondo in cui è stato rinvenuto, una res diversa rispetto all’immobile. Altra
conseguenza di questo concetto è che nel testo l’autorità imperiale vuole forse respingere l’idea che
una miniera d’oro potesse essere considerata un tesoro. Evidentemente si erano avanzati dubbi in
proposito, e l’autorità imperiale chiarisce che una miniera d’oro, essendo una cosa immobile non
può costituire un tesoro, quindi apparteneva sempre al proprietario del fondo.
Testo n. 5 testo dell’Eneide, non è un testo giuridico ma i giuristi estrapolano le definizioni anche
da altri tipi di testo, il concetto è comunque chiaro.
Come è stato regolato in diritto romano il momento della scoperta del tesoro e che
conseguenze giuridiche ha
Ci sono tracce nel CIC e nel codice teodosiano, grazie ad alcuni testi siamo in grado di ricostruire in
dettaglio la disciplina che è stata in vigore approssimativamente dall’età dell’Imperatore
Adriano, che regna dal 117 al 138 d.C., fino a Giustiniano. Prima di descrivere questa disciplina
va sottolineata una concezione antica, vigente a Roma in tutta la sua storia: la scoperta di un tesoro
in un fondo altrui scoperta del tesoro in alieno. Questo concetto riguarda un punto specifico, che
è: chi scopre un tesoro su un fondo altrui, che sia di un altro privato cittadino, un fondo sacro,
religioso, fiscale, imperiale etc. lo acquista soltanto se la scoperta è stata casuale. Non acquista
niente se gli è stata commissionata una ricerca, non acquista niente se si è messo a fare degli scavi
estesi in un fondo altrui apposta per vedere se c’erano dei tesori. Chi scava in un fondo altrui e trova
un tesoro lo deve fare per puro caso. Il tesoro è visto come un dono della fortuna, del caso. Questo
principio si trova enunciato nel testo n. 3, nella Costituzione di Leone e Zenone al paragrafo 3:
questo concetto persiste fino a questa epoca, vicina all’età di Giustiniano.
Cosa succedeva se il proprietario dava il suo consenso preventivo? Non lo sappiamo, le fonti non ne
parlano. Non sappiamo in che misura questo divieto così netto potesse essere aggirato attraverso il
consenso preventivo dato dal proprietario. Il divieto era stato posto per impedire violazioni del
diritto di proprietà ed evitare danni alle colture, che sarebbero state rovinate da ricerche condotte in
maniera sistematica.
La satira è un componimento poetico a carattere comico, ma con un intento critico. Orazio dice di
essere felice di aver ricevuto in dono un fondo, e prega gli dei di concedergli buon bestiame, di
mantenergli attivo l’ingegno poetico e prega che la sua richiesta sia esaudita perché si è sempre
comportato bene, non ha mai cercato di aumentare le sue ricchezze attraverso la magia, non ha mai
innalzato preghiere assurde come questa: «Oh, se la sorte mi mostrasse un’urna d’argento, come
fece quel lavoratore salariato che, divenuto ricco col favore di Ercole, arò da padrone lo stesso
campo che aveva comprato con il tesoro da lui scoperto!» Elementi della scena:
C’è un uomo libero, salariato, povero ma capace di acquistare la proprietà, un mercenarius. Operaio
salariato che arando un fondo altrui con l’aratro scopre un contenitore contenente monete, un tesoro.
Con questo tesoro, scoperto per caso, diventa ricco e ara da padrone il fondo che stava arando.
Siamo nel 30-31 a.C., dalle parole di Orazio possiamo ritenere che a quell’epoca l’inventore potesse
prevalere sul proprietario del fondo nell’acquisto del esoro. Tutti i filologi e i commentatori che
hanno studiato questa satira hanno individuato la stessa sequenza logica degli eventi: l’operaio
acquista il tesoro come inventore, non come proprietario, e poi compera il fondo utilizzando il
tesoro trovato. Che sia un rinvenimento fortuito lo dice l’espressione “con il favore di Ercole”. Se a
trovare il tesoro fosse stato il padrone in persona, il tesoro sarebbe stato suo. Se è giusta, come
sembra, questa interpretazione del testo di Orazio, allora in età preclassica sembra essere attestato
un orientamento del diritto favorevole a concedere all’inventore la proprietà del tesoro. Non ne
possiamo essere certi, è un’ipotesi interpretativa, ma è surrogata da un dato letterale. Naturalmente,
se il lavoratore salariato avesse scoperto il tesoro non per caso, ma perché l’aveva cercato su ordine
del padrone, o avesse deliberatamente scavato per trovare il tesoro, in questo caso non avrebbe
acquistato lui la proprietà ma il proprietario del fondo. L’elemento fondamentale è sempre la
casualità della scoperta.
Prima età classica, età del primo principato. Anche per questa epoca non abbiamo certezze, ma
abbiamo un altro poeta.
Punto 7, pag. 37, Tito Calpurnio Siculo vissuto nel I sec. d.C. poeta Bucolico, ha operato durante il
periodo neroniano e ha lasciato molti componimenti nella forma dell’Ecloga, una poesia in forma di
dialogo e di celebrazione della vita agreste.
La quarta Ecloga ci interessa perché sembra fare riferimento ad una riforma attuata da Nerone negli
anni tra il 58-62 d.C. Calpurnio fa pronunciare le parole un Pastore, e sono parole di lode rivolte
all’aratore: dice che non ha più paura, probabilmente celebrano l’abolizione di una disciplina non
favorevole. Sarebbe quindi stata abolita una disciplina in qualche modo ostile all’ acquisto del
tesoro da parte dei privati, perché Aminta dice che prima lo zappatore aveva paura, temeva il
rinvenimento di un tesoro perché non ne avrebbe avuta la proprietà. Ora però non ha più paura, ora
grazie a una recente riforma l’aratore non teme di trovare un tesoro. Dicono i versi che trovato
dell’oro, se la sorte gliel’ha fato (riferimento alla casualità) lo tiene per il suo uso. Quindi, ora
grazie a questa riforma l’aratore, l’inventore tiene per sé l’oro, diventa proprietario del tesoro. Si
tratta probabilmente di un intervento imperiale da parte di un principe o imperatore, in particolare di
Nerone, che avrebbe abolito dei preesistenti diritti del fisco su tesori ritrovati in fondi privati.
Stiamo parlando della riforma di Nerone che ha abolito la disciplina che prevedeva dei diritti fiscali
sul tesoro rinvenuto sul fondo altrui. Abbiamo detto leggendo Orazio che nella sua età non c’era
alcun riferimento al fisco (età precassica), dalle parole di Calpurnio si deduce che Nerone aveva
abolito una disciplina che attribuiva al fisco diritti sui tesori rinvenuti sul fondo altrui. Se ne deduce
che tra l’età di Orazio e di Calpurnio era cambiato qualcosa, al tempo di Orazio il fisco non
avanzava alcuna pretesa. Calpurnio dice che è stata abolito una disciplina favorevole al fisco da
chi era stata introdotta? Non lo sappiamo, ma sappiamo che tra l’epoca di Orazio e di Calpurnio
qualcosa era cambiato (tra Augusto e Claudio). Calpurnio loda Nerone per la sua decisione di
abolire i privilegi del fisco.
Nel passo di Calpurnio Siculo appare chiaramente la concezione del tesoro come dono del caso: ai
proprietari del fondo sembra che non venisse concesso nulla, ai proprietari non inventori dei fondi
in cui fosse avvenuta la scoperta non andava nulla. Importanza di questo aspetto, della scoperta
casuale del tesoro, e anche importanza delle pretese fiscali, dei diritti dello Stato sul tesoro. Nei
secoli successivi sarà tutto un andirivieni tra imperatori favorevoli al fisco e liberali.
Chiarita la possibile disciplina possibile in età preclassica e nella prima età classica arriviamo alla
disciplina introdotta da Adriano.
L’età preclassica e la prima età classica ci costringono ad usare testi letterari per estrarre
informazioni giuridiche, ma questo cambia con Adriano che è autore di una disciplina molto
strutturata e che consociamo abbastanza bene da poter essere sicuri circa le sue linee essenziali. Ne
siamo informati grazie alle istituzioni di Giustiniano. Sono molto più tarde di quelle di Adriano, ma
ne parlano.
Il protagonista del testo è colui he scava e trova causalmente un tesoro, l’inventore. Abbiamo quindi
un protagonista e un antagonista, il proprietario del fondo, che può essere un cittadino privato,
l’imperatore o il fisco. Nel caso di chi trova un tesoro su un fondo proprio, tra gli interessi di queste
due parti l’imperatore Adriano cerca di fare un bilanciamento e analizza quattro casi diversi:
1. L’inventore che trova un tesoro nel proprio fondo: l’inventore acquista l’intero, la
proprietà di tutto il tesoro. Principio conforme all’equità naturale, il principe riconosce allo
scopritore l’acquisto dell’intero tesoro, escludendo qualsiasi pretesa fiscale. si potrebbe
obiettare che non è chiaro se l’espressione conforme all’equità naturale sia da applicarsi solo
in questo caso, o se siano conformi all’equità anche le regole per gli altri casi. Forse è
preferibile pensare che secondo Giustiniano tutte le regole qui esposte sono conformi
all’equità naturale, e non solo questa prima regola.
2. Secondo caso: attenzione, perché c’è un’antinomia nel CIC. Caso dell’inventore che trova
un tesoro in un fondo sacro o religioso (= le cose di diritto divino non potevano fa parte
del patrimonio di nessuno, erano incommerciabili. Le res sacreae erano le cose dedicate agli
dèi dell’Olimpo, agli dei superi, ed erano altari, templi, santuari etc. Invece, le res religiosae
erano le cose dedicate agli dei Inferi, come i sepolcri. Ogni fondo diventava religioso con la
sepoltura di un essere umano, che fosse libero o schiavo non importa.). il caso è quello
dell’inventore che trova un tesoro in un fondo sacro o religioso. Ci si potrebbe chiedere se si
pensa a dei tesori nascosti nei pressi di templi o in un sepolcro o in un cenotafio, in un
terreno circostante? In realtà in molti passi del digesto viene vietato di seppellire pecunia
nelle tombe. Però doveva essere un’abitudine abbastanza consolidata quella di porre dei
preziosi nelle tombe, ance se il diritto la combatteva. Il tesoro estratto da una res religiosa
assumeva anch’esso lo status di res religiosa? No, Marciano in un passo spiega che non è
una cosa di diritto divino. Altro problema è il principio di inviolabilità dei sepolcri, qui
Adriano ammette l’acquisto dei tesori in fondi religiosi o sacri solo fortuitamente, non si
potevano aprire i sepolcri per cercare un tesoro.
3. Terzo caso: scopritore trova il tesoro in un luogo privato, quindi in un luogo che
appartiene o a un altro cittadino, oppure all’imperatore. In questo caso Adriano dispone che
allo scopritore viene concessa una metà del tesoro, e l’altra metà al proprietario.
Naturalmente a condizione che si sia trattato di una scoperta casuale, fortuita. Prima in
questa situazione il padrone del fondo acquistava l’intero, adesso con Adriano solo la metà.
4. Lo scopritore trova il tesoro in un fondo pubblico o fiscale: il testo dice che la soluzione è
la stessa del caso precedente, metà del tesoro va all’inventore, e metà al fisco o alla città. Il
fisco come ente può essere proprietario del fondo.
21.11.23
L’elemento centrale è la figura dello scopritore, tutto si incentra sull’inventio, sulla scoperta del
tesoro. Come fondamento unico dell’acquisto c’è il momento dell’inventio, sia nel caso in cui
l’inventore sia anche il proprietario del fondo, sia nel caso in cui non lo sia. Quindi è inventore non
solo colui che scopre il tesoro in un fondo altrui, ma anche chi lo trova nel proprio fondo. Alla base
la concezione del tesoro come dono della fortuna, quasi come se fosse considerato sostanzialmente
in proprietà del caso e proprio il caso/la fortuna al momento della scoperta a procedere a distribuire
la proprietà del tesoro tra l’inventore e il proprietario. Il tesoro come dono della fortuna è un motivo
popolare, Adriano nel momento di dare una veste legislativa a questa materia doveva essere ben
consapevole di questa idea di base. Quando Giustiniano dice che Adriano si è espirato ai principi
dell’equità naturale potrebbe voler dire che abbia preso spunto dall’idea del tesoro come dono della
fortuna, mitigando questa idea a favore dei proprietari. La fortuna avrebbe concesso il tesoro
all’inventore, ma per mitigare le opposte esigenze Adriano avrebbe cercato un bilanciamento. La
mitigazione è dovuta alle differenze di status sociale degli attori: i più probabili scopritori di tesori
erano dei poveri, i braccianti, avevano loro la zappa in mano o l’aratro da spingere. Era impensabile
che i proprietari se ne stessero zitti quando un operaio salariato rinveniva un tesoro nel loro fondo,
la regola del 50 50 diventa la misura dell’equità naturale. Un criterio escogitato essenzialmente
per mettere d’accordo due esigenze diverse, il desiderio degli inventori di diventare
proprietari grazie al caso e le richieste dei proprietari che si saranno dichiarati proprietari di
quanto si trovava nel loro fondo. Oltre a risolvere i conflitti tra proprietari e inventori le norme di
Adriano avevano anche lo scopo di disincentivare le ricerche clandestine in fondi altrui, la scoperta
deve essere casuale. Forse si voleva anche evitare l’utilizzo di pratiche magiche che spesso erano
usate allo scopo di trovare tesori.
Non solo rispetto a questo passo delle istituzioni, ma a tutte le fonti romane possiamo affermare che
per i romani i reperti archeologici non erano compresi nel concetto di tesoro (capitolo III
manuale). Se la disciplina adrianea sembra avere una sua coerenza interna emerge invece un
contrasto, che appare insanabile, con un frammento inserito nel Digesto, un frammento di
Callistrato che parla del ritrovamento di un tesoro in un fondo sacro. Nelle Istituzioni si affermava
che l’inventore in questo caso acquistava il tesoro per intero, e Giustiniano conferma questa visione,
mentre Callistrato prevede una soluzione opposta.
Callistrato attribuisce agli imperatori fratelli (Lucio Vero161-169 d.C., poi Marco Aurelio da solo
fino al 180) una disposizione diversa da quella di Adriano. La norma che contraddice Adriano è
quella che riguarda i tesori trovati in luogo religioso o sacro. Lucio Vero e Marco Aurelio dicono
che il tesoro trovato in luogo religioso appartiene solo per metà all’inventore, e l’altra metà
spetta al fisco. Qui dobbiamo distinguere: abbiamo detto che gli imperatori fratello regnano dopo
Adriano; quindi, nel momento in cui hanno emanato questa nuova disciplina, siccome la legge più
recente abroga quella precedente, la loro disciplina aveva abrogato sul punto quella di Adriano. Il
problema nasce in età giustinianea, perché Giustiniano inserisce nello stesso corpus queste due
norme opposte. Che son quindi in vigore contemporaneamente. Probabilmente quando gli
imperatori hanno emanato la loro riforma hanno pensato di continuare sulla strada delle parti uguali,
ma di pi non possiamo dire. Il contrasto tra norme nel corpus iuris continua ad essere il problema
principale.
Consideriamo di nuovo la legge di Leone e Zenone del 474 (pag. 36). Il problema è la repressione
penale di alcuni comportamenti illeciti in tema di scoperta del tesoro. La ricerca del tesoro non è
vietata sul fondo proprio, però ciò deve avvenire senza fare ricorso a pratiche magiche,
altrimenti si incorre in una sanzione criminale e nella confisca di quanto ritrovato a titolo di
sanzione. Se la ricerca condotta intenzionalmente su fondo proprio senza pratiche magiche da esito
il proprietario del fondo lo farà completamente suo, sono invece proibite le ricerche sul fondo altrui,
sia che il padrone sia consenziente, sia nei casi in cui non è a conoscenza della ricerca o sia
sfavorevole. Se un tesoro dovesse essere scoperto in un fondo altrui a seguito di una ricerca la
scoperta on avviene per caso, e il tesoro viene acquistato interamente dal proprietario del fondo e lo
scopritore subirà una sanzione per aver violato il divieto (cap. 4 manuale).
In Oriente dopo la compilazione giustinianea l’Impero Romano d’Oriente, che è diventato impero
Bizantino, la disciplina sull’acquisto del tesoro viene riscritta con modifiche nella novella 51
dell’Imperatore Leone il Saggio, salito al potere nel 886 d.C.
Punto 10, pag. 38: discorso moraleggiante. È una riscrittura della disciplina di Adriano, la legge
vale in Oriente fino al XIV secolo, quasi fino alla fine dell’Impero bizantino stesso. L’inventore
deve sempre confessare ciò che ha trovato.
In Occidente abbiamo visto una norma un po’ diversa da quella romana emanata da Cassiodoro, ma
leggiamo prima il testo 11, una Costituzione di Federico Barbarossa, pervenuto nei Libri Feodorum
di Accursio. Nella raccolta dei testi della tradizione bolognese di Accursio c’era una parte detta
Libri Feodorum. Federico Barbarossa dispone che chi trovava un tesoro in un fondo imperiale, o
in un fondo religioso, aveva diritto alla metà. La Costituzione è sulle regalìe, si trova un richiamo
alla legge di Adriano e anche alla legge di Marco Aurelio e Lucio Vero. Mentre Federico
Barbarossa nell’XI secolo ripropone dei principi romani, in parallelo si era diffusa una concezione
diversa da quella romana, che prevede la pretesa sovrana dell’intero tesoro a dispetto dei diritti dei
privati. Abbiamo un primo esempio significativo di questa diversa concezione dell’acquisto del
tesoro proprio con i goti di Teodorico: nel passo delle valli che abbiamo letto (punto 4, pag. 36)
Cassiodoro dice che «i depositi di denaro che per la lunga vetustà hanno perduto i legittimi
proprietari, per la tua [del prefetto] inquisizione finiscono nelle nostre casse, e, come noi lasciamo
godere tutti dei loro beni, così tutti offrono volentieri a noi quelli che non sono loro» abbiamo
l’affermazione di un principio completamente diverso dalla concezione romana, si afferma la
rivendicazione pubblica del tesoro, si dice che depositi di denaro che per l’antichità hanno perduto i
legittimi proprietari (o meglio, i proprietari sono ignoti), sono acquistati dallo Stato. Non si
specifica di chi è il fondo, in questa concezione non importa. Se viene scoperto un tesoro questo è
rivendicato dallo Stato, finisce nelle casse dello Stato.
Anche Federico II emana una legge nel XIII secolo che stabilisce ancora espressamente la
rivendicazione pubblica di tesori e altre cose senza padrone. Questa legge viene richiamata in tutto
il dibattito successivo sull’acquisto del tesoro, dibattito che occupa molti secoli e che vede due
fazioni:
Queste due tesi si scontano per lungo tempo in Germani, Gallia, Danimarca, Spagna. La regola
dell’appartenenza del tesoro al re veniva spesso messa in discussione portando come riferimento il
diritto romano.
Punto13 dispensa, pag. 39. Passo che viene dal Trattato Brachylogus (=breve trattazione), trattato di
diritto civile occidentale, composto probabilmente a Bologna tra l’XI e il XII secolo. Alcuni lo
attribuiscono ad Irnerio. Nel teso sono considerate vigenti le norme di Adriano sull’acquisto del
tesoro, ma ci sono delle divergenze: la struttura dal basso è ricavata dalle istituzioni, ma ci sono
divergenze inserite dall’autore. Sul fondo altrui, dice l’autore, l’inventore che scopre per caso il
tesoro lo fa suo completamente (≠ Adriano diceva che metà andava al proprietario). Si fa invece la
metà solo se è stata commissionata la ricerca. In questo trattato pare del tutto perso il senso
originario della contrapposizione tra caso fortuito e ricerca appositamente commissionata, con
relative conseguenze nell’attribuzione del tesoro. Quindi in Occidente non è vero che resta
completamente salda e indiscussa la disciplina romanistica, adrianea e giustinianea, ci sono regole
diverse presso i popoli cd barbari, ma anche negli scritti dei glossatori stessi. Sono principi romani
rivisti in base a regalìe, consuetudini, è un quadro variegato.
Si para di statue di metallo, di marmo e altri materiali. Sono state per secoli l’elemento più
significativo dell’arredo pubblico e privato, abbellivano piazze ed edifici vari, poi sul finire
dell’Impero nell’epoca delle invasioni barbariche sono diventate parte del sottosuolo. Vandalismo,
furti, devastazioni, trafugamenti, nascondimenti, e nel Medioevo un’incessante attività di
distruzione di quel poco che restava delle antichità di superfice, ossia gli edifici. Oltre a un’opera di
distruzione delle antichità di superficie nel Medioevo prende avvio anche una fremente ricerca e di
scavo. La scoperta dell’antico crea un giro internazionale, di mercanti antiquari, si crea un
commercio delle antichità, e poi c’era chi scavava al solo scopo di fare dei monumenti calcina.
A Roma c’erano molte statue, inizialmente ci sarebbe stato un divieto posto dal Re Numa in età
regia di rappresentazione degli dei. Questo divieto di rappresentare gli dei sarebbe caduto presto,
nella stessa età regia, nell’età dei Tarquini (monarchia etrusca) a partire dai quali avrebbe avuto
liberto corso la statuario religiosa. Poi c’erano le statue profane, statue non di dei o eroi ma di
personaggi non divini. A quanto pare, per quanto riguarda le statue profane c’era una regola: il
divieto di esporre in luoghi pubblici o accessibili al pubblico immagini di soggetti viventi. Questo
divieto conosceva delle deroghe, ad esempio non era applicabile all’imperatore, statue
dell’imperatore vivente potevano essere esposte; altra deroga era ottener un permesso imperiale con
il quale si poteva esporre l’immagine di una persona vivente. Questo divieto non ha impedito che
nella prassi si formasse piano piano quello che gli studiosi hanno chiamato “il diritto alla statua”.
Punto 14 dispensa (fino a 18 tutti diritto alla Statua). Frammento di Paolo nel Digesto ,che dice che
nella sua epoca (età dei severi) suole essere concesso che immagini o statue che sarebbero state
ornamenti dello Stato fossero erette in pubblico. La statuaria privata che fosse collocata in luoghi
pubblici era percepita come pubblica = le statue private, esposte in luoghi pubblici erano
sostanzialmente viste come proprietà pubblica. C’è tutto un fenomeno, già in età preclassica, del
riversarsi nella capitale di una enorme massa di statue, fregi, decorazioni, provenienti dalle città
sottomesse, dai bottini di guerra. Tutte queste decorazioni e sculture erano di proprietà pubblica una
volta destinate all’ornamento di spazi pubblici. Il fatto che diventassero di proprietà pubblica le
rendeva res incommerciabili, c’erano anche collezioni private in misura minore, e come abbiamo
detto, grazie agli scopi di propaganda soprattutto nei secoli del principato tutto il patrimonio
statuario e marmoreo crebbe molto, soprattutto per quanto riguardava l’immagine dell’imperatore.
Poi l’abisso, le invasioni barbariche, e prima ancora l’iconoclastia cristiana del IV secolo.
Costantino è il primo imperatore cristiano, in quest’epoca iniziano le devastazioni dei templi
pagani, le cronache registrano la distruzione di statue e complessi monumentali pagani, che
venivano distrutti o riutilizzate per costruire chiese cristiane, dove prima c’erano i templi. Anche
Roma è stata in parte investita dalla furia iconoclasta, ma pare che non ci siano state sistematiche
spoliazioni, perché già a partire dal V secolo gli imperatori cristiani hanno iniziato ad emanare
costituzioni per limitare la distruzione di edifici e statue, non perché volessero tutelare la libertà di
culto, sappiamo che con Teodosio I viene vietata la fede pagana anche nel privato. Semplicemente
gli imperatori cristiani non volevano che la città fosse completamente spogliata dai suoi ornamenti.
Però anche Roma subisce delle spoliazioni, sia dagli imperatori romani che dai barbari (es.
saccheggio dei Visigoti, Vandali 455).
Sappiamo da prove scritte e archeologiche che nei primi secoli cristiani molti pagani nascondevano
intenzionalmente i propri beni, cd occultamento volontario. Nascondevano monete, statue,
decorazioni per proteggerli da invasioni e dall’iconografia cristiana. Questo porta alla formazione in
un paio di secoli di un sottosuolo archeologico ricchissimo, che nei secoli successivi scatena una
febbre degli scavi (capp. 7-8).
A Roma cosa ne è del sottosuolo dopo i romani? Abbiamo visto che i marmi antichi venivano
usati per costruire le chiese, nei secoli successivi al tracollo, nella Roma successiva alle invasioni
barbariche fino a tutto il 400 troviamo i cd marmorarii, delle scuole di architetti/scultori/ornatisti
specializzati nel reimpiego dei marmi antichi. Per abbellire, decorare le nuove chiese si
saccheggiavano le catacombe romane, le pietre cimiteriali, e le statue antiche venivano convertite in
figure di santi. Si commerciavano marmi e si vendevano nei centri dove si stavano costruendo
cattedrali, si faceva incetta di marmo e travertino per creare la cd calce archeologica. Queste cose
succedevano già nell’VIII secolo e continuano almeno fino al 400. Alcuni papi del 400 scendono in
campo per salvare ciò che restava dei monumenti antichi. Si era aperta la stagione dell’umanesimo
ed era matura l’idea che la conservazione del passato e della sua memoria monumentale fosse
essenziale per la rinascita morale e urbanistica della città moderna. Papa Piccolomini nel 1462
emana una bolla, il cui incipit nel testo 19 dispensa, sul divieto di demolizione di edifici antichi.
Questa bolla si scrive nell’orizzonte culturale dell’umanesimo.
Dalla Bolla Cum almam nostram urbem (papa Pio II Piccolomini, a. 1462)
«Anche se si tratta di lacrimevoli avanzi di edifici, essi arrecano ancora un ornamento alla città,
rappresentano la memoria dell’antica romana grandezza, un fulgido esempio di virtù, ed infine un
avvertimento della caducità e della fragilità delle cose umane».
Bolle papali avevano lo stesso potere delle costituzioni imperiali. In questa Protezione del
soprasuolo, non si interessa agli scavi o alle antichità sommerse, si tratta però del primo
provvedimento organico teso a sanzionare ogni forma di saccheggio, quindi demolizione,
distruzione danneggiamento delle antichità che sono intese come edifici antichi. Le sole antichità
che iniziano ad essere protette sono gli edifici. C’è dunque un divieto di distruzione degli edifici,
ma nel corso della bolla si ammette che si possa demolire un edificio antico in presenza di una
licenza pontificia. Se si era proprietari di un edificio antico non lo si poteva quindi distruggere a
piacimento, c’era un interesse pubblico a mantenerlo. La legge appare severa nel dettato ma non fu
applicata con rigore, erano frequentissimi i favoritismi, e lo stesso Papa Piccolomini ha autorizzato
l’utilizzo di marmi per la costruzione di San Pietro. Nel corso del 400 e 500 seguono altre bolle
papali sulla linea della protezione degli edifici antichi. Queste bolle papali attribuiscono pieni poteri
in materia urbanistica a Roma al Cardinale Camerlengo e ad altri funzionari, quindi anche di
protezione delle attività di superficie (cd maestri delle strade). Il cardinale Camerlengo è il vice
del Papa, colui che dirige l’amministrazione finanziaria della Santa Sede attraverso la
Camera Apostolica (organo finanziario del sistema amministrativo pontificio). Nonostante questo,
il saccheggio continua, il mito della classicità diventato forte nell’umanesimo fa affiorare un
collezionismo pubblico e privato esasperato e parte una corsa ai reperti che le regole pontificie non
riescono a regolare, anche perché si concentrano sula protezione della antichità di superficie. Le
statue e i reperti nel sottosuolo continuano a non essere considerate dalla legislazione, a dispetto del
loro crescente valore culturale e commerciale. Ai rinvenitori non proprietari non sono riconosciuti i
diritti tradizionali in materia di acquisto del tesoro, quando qualcuno scopre una statua o un reperto
in un fondo non suo non è considerato inventore di un tesoro. Il rinvenimento di antichità, sia
casuale che intenzionale risponde alla regola dell’appartenenza al proprietario del fondo.
Naturalmente potevano esserci accordi diversi, accordi specifici e preventivi nel caso di cavatori
professionali, che si mettevano d’accordo anticipatamente con il proprietario, così come potevano
esserci particolari licenze di scavo su fondi pubblici, appartenenti al papa. Scavatori professionisti e
licenze specifiche del papa potevano derogare alla regola dell’appartenenza del reperto al
proprietario del fondo.
Le licenze di scavo erano concesse dal Cardinale camerlengo, che aveva potere in materia
urbanistica, ed erano concesse a persone comuni, o anche persone di rango che ottenevano il
permesso di scavare in proprio, oppure in luoghi privati con il consenso del proprietario, o ancora in
luoghi pubblici, a condizione che gli scavi rispettassero le antichità di superficie e non intaccassero
quindi gli edifici antichi.
Le norme per la spartizione dei reperti: dipendeva da licenza a licenza. C’erano ovviamente dei
favoritismi, generalmente le norme che erano indicate in queste licenze di scavo prevedevano che al
cardinale Camerlengo, ossia alla camera apostolica, andasse la metà dei reperti scavati in luogo
pubblico, che si riduceva a un terzo quando si scavava in luogo privato. Queste erano solitamente le
norme contenute nelle licenze, ma c’erano casi in cui il Camerlengo concedeva licenze che non
prevedevano alcuna trattenuta da parte della Camera apostolica. Questa pratica delle licenze di
scavo non era un efficace strumento di protezione dei reperti, aveva effetti molto approssimativi. Le
licenze erano troppe, gli spazi lasciati ai cavatori irregolari enormi. Quindi, nel corso del 500 non
c’è molto di giuridico da sottolineare, le regole dell’appartenenza dei reperti sono poco chiare, ma
quando non vi fossero accordi o licenze di scavo la regola era che i reperti appartenevano al
proprietario del suolo, non erano considerati tesori. L’idea della conservazione dei reperti inizia
faticosamente a farsi strada solo tra 1600 e 1700.
Continuiamo a considerare Roma perché è il massimo centro culturale dell’epoca e perché in questo
luogo il tema del rapporto stato-tesori ha un valore paradigmatico. A partire dal 1600 la materia
degli scavi archeologici cessa di essere oggetto di interventi saltuari per diventare uno dei temi
principali della legislazione dello Stato della Chiesa del patrimonio artistico della città. Tema
fondamentale come quello dell’esportazione e conservazione dei reperti. Questa materia viene
formalmente affidata al cardinale Camerlengo, e viene normata non più da bolle papali ma da editti
cardinalizi. Questo fino all’unità d’Italia. Tra il 1624 e il 1820 si contano almeno 14 editti
cardinalizi sulla protezione dei reperti, ma probabilmente sono di più. In sottofondo però c’è sempre
una certa tendenza a lasciar correre, quindi è vero che il tema della conservazione diventa centrale,
ma questi editti non hanno la forza per imporre un giro di vite sulla circolazione dei beni.
Il 1700 è il secolo in cui la storia dell’antiquaria si impone anche a livello scientifico, è il secolo
degli antichisti e dei conoscitori scientifici delle attività di scavo. Vengono pubblicate opere
scientifiche sull’archeologia, ci sono collezionisti e commercianti. Si susseguono a livello
legislativo e edittale degli editti che però non sortiscono particolare effetto. Resta in vigore per tutto
il 700 il principio per cui il sottosuolo appartiene al proprietario del fondo. Il diritto dello Stato non
è regolato in modo unitario come principio, dipende caso per caso, intanto reperti e tesoro
continuano ad essere concetti separati. Abbiamo detto molte cose, ma i concetti giuridici non sono
molti in questa materia.
27.11.23
Nel corso dell’800 ci sono avvenimenti politici molto importanti a Roma, e alcuni intersecano il
nostro tema. Quelli più significativi sono:
Occupazione francese di Roma dal febbraio 1808 fino al Congresso di Vienna del 1814
importante ricordare il massimo organo di governo di quel periodo, la consulta straordinaria per
gli stati romani istituita nel 1809. La consulta ha emanato un decreto che contiene un titolo
dedicato agli scavi.
Punto 18, pag. 40: Gli articoli riguardano rispettivamente i ritrovamenti da scavo con licenza, l’art.
9 invece i ritrovamenti fortuiti. Notiamo che sono trattati allo stesso modo, in ogni caso bisogna fare
dichiarazione all’autorità. Il Code Napoleon è già stato pubblicato, e come vedremo questo decreto
vive nello spirito del Code napoleon, perché viene confermata la proprietà privata di ogni oggetto di
scavo, non c’è nessun diritto per lo stato e nessuna regalia per il principe, ad eccezione del diritto di
prelazione. Però, una volta che si era consentita la prelazione alle autorità se la prelazione non fosse
stata esercitata, il privato avrebbe acquistato la piena e totale disposizione del reperto archeologico.
Ci interessa di più un’altra data, dopo la restaurazione viene emanato un editto cardinalizio molto
importante: il cd Editto Pacca disegna la disciplina dei beni culturali per Roma e le province
romane fino alla legge unica del 1902. Fino alla prima legge unitaria noi vediamo l’applicazione di
questo editto, un editto che ha avuto una vita molto lunga, perché emanato sotto lo Stato pontificio,
e dopo la presa di Roma, quando Roma entra a far parte del regno d’Italia (breccia di Porta Pia,
1870) viene richiamato in vita da una legge del regno d’Italia, la legge De Falco (punto 20 dispensa)
del 1871 riporta in vita l’editto come legge speciale per Roma e province. L’art. 5 riporta appunto in
vigore l’editto, in quanto era la legge attinente alla conservazione degli oggetti d’arte. L’editto però
viene emanato nel 1820, un momento in cui l’opinione pubblica rifletteva sulle dispute
internazionali di proprietà delle opere d’arte. Era in grande voga il tema dei capolavori requisiti da
Napoleone, si percepisce anche a livello di grande pubblico l’importanza sociale delle opere d’arte,
che hanno un valore sociale indipendentemente dalla loro appartenenza privata. Questo è il clima in
cui viene emanato l’editto.
Persiste nel corso dell’800 la separazione tra antichità come reperti archeologici e tesori. I reperti
archeologici sono materia di un diritto speciale, il diritto cardinalizio.
Punto 19, artt. 48 e 50 : dagli articoli viene confermato il divieto di esportare (non distrarli), si
dichiara la proprietà dello scavatore che sia anche proprietario del fondo, oppure nel caso in cui
l’inventore non sia anche proprietario si rimanda agli accordi tra scavatore e proprietario.
Il tesoro, a differenza dei reperti, è ancora percepito come materia di diritto privato, che viene
quindi trattata nei codici civili, i cui progetti non mancavano ma fallivano. Tesori e reperti erano
ben distinti e separati nella legislazione, ma nella giurisprudenza no. Il concetto di base è che la
giurisprudenza rotale (della sacra rota) dal 600 all’800 applicava alle antichità archeologiche la
legge di Adriano sui tesori, la giurisprudenza percorreva una strada tutta sua, diversa da quella
edittale. I due diritti si coordinavano con estrema difficoltà, la dottrina generalmente stava dalla
parte del legislatore.
I Codici: a partire dall’eredità classica era rimasta ferma l’idea che il tesoro si identificasse in un
insieme di monete o preziosi nascosti sottoterra. Questa idea persiste nonostante la caccia ai reperti
archeologici che ha interessato l’Italia fin dall’umanesimo. I reperti sono sempre più valorizzati dal
mercato, ma seppur provenienti dal sottosuolo non si identificano come tesori. C’è stato un periodo
in cui i tesori sono stati identificati insieme, la prospettiva cambia nella seconda metà del 700 con
l’adozione dei primi codici civili, anche allo scopo di semplificare il sistema secondo il mantra della
chiarezza e brevità degli enunciati normativi.
Il Codice civile prussiano (ALR) punto 21 dispensa: codice del 1794. Il codice prussiano
abbandona l’identificazione del tesoro con il deposito di monete e accoglie una nozione ampia di
tesoro, anche troppo ampia. Questa nozione, che comprende tutte le cose di qualche valore che
giacciono nascoste sopra o sotto la terra per quanto il proprietario delle stesse è ignoto, va
benissimo anche per i reperti, che in questo modo acquistano i caratteri del tesoro. Tra i caratteri del
tesoro quello più interessante è l’appartenenza privata. Secondo questo codice i reperti sono tesori,
rientrano tra i tesori e in quanto tali appartengono a privati, sono passibili di essere acquistati da
privati. Non sono beni dello Stato secondo questo codice, non sono beni pubblici. Non ci sono
peraltro in giro per l’Europa in questa epoca leggi speciali che sanciscano la proprietà pubblica dei
reperti archeologici. Per leggi speciali di questo genere si deve attendere la fine dell’800. Le prime
leggi speciali che sanciscono la proprietà statale dei reperti di antichità sono la legge dello stato
cretese del giugno 1899 e la legge greca del luglio 1899. Questi sono i primi esempi di una
legislazione che proclama la proprietà pubblica di tutte le cose antiche, sia mobili che immobili.
Nell’epoca dei codici, invece, come in Italia, ci sono leggi che non osano negare la proprietà privata
dei reperti. Si inizia a capire che i reperti devono avere una funzione sociale (si impongono vincoli,
c’è un diritto di prelazione dello Stato), ma non si osa fare un passo successivo. La soluzione di
diritto privato per cui le scoperte archeologiche fortuite appartengono ai privati piace a una parte di
opinione pubblica, quella più liberale e mercantilistica che punta al commercio delle antichità.
Code Napoleon del 1804: prima si esaltava come monumento dello spirito dell’illuminismo, ma
negli ultimi decenni è seguita una visione più critica, lo si vede ora come un codice di forte
ispirazione borghese, un codice di proprietari fatto per i proprietari. Questo codice è stato applicato
direttamente anche in Italia, il code napoleon, con il nome di codice napoleone il grande del regno
d’Italia è stato applicato anche nei territori occupati dai francesi, è entrato in vigore nel 1806 in una
edizione che aveva il testo originale, la traduzione italiana e una versione latina. È rimasto in vigore
fino alla restaurazione. Il code napoleon ha avuto una grande influenza sui codici italiani preunitari
e anche sul cc de 1865.
Punto 22 dispensa, versione italiana del code napoleon: l’art. 716 comprende due commi non molto
chiari. I commenti della dottrina francese sono stati abbastanza omogenei, ci sono delle aporie che
vanno interpretate facendo ricorso allo spirito della legge e anche al supporto della giurisprudenza.
Come si è mossa la dottrina francese: nel secondo comma si trova la definizione di tesoro sembra
che una cosa, per essere tesoro, debba rispondere a tre/quattro requisiti:
1. Essere una cosa nascosta o sepolta in un fondo (nascosta intenzionalmente o anche dalle
forze della natura? La dottrina ha escluso che un tesoro si potesse dire tale se il deposito di
preziosi si è formato in seguito un evento naturale, es. terremoto, ma questo non è possibile
da dire in base alla lettera del testo/ solo cose che giacciono in profondità o anche
superficiali? / solo cose nascoste in fondi o anche in cose mobili?);
2. Essere tale per cui nessuno possa giustificare il suo diritto di proprietà: il proprietario
non è conosciuto o non è tale di giustificare il suo diritto. È difficile pensare a un
proprietario inesistente
3. Essere scoperta per effetto del caso: la giurisprudenza e la dottrina francesi sostengono che
questo criterio vale solo per i ritrovamenti in alieno, sul fondo altrui. Questi sono i requisiti
espressamente previsti dalla legge. Possiamo chiederci se è corretto aggiungere un requisito
implicito: quello di essere una cosa mobile, perché solo queste sono suscettibili di essere
nascoste, sotterrate, e perché il tesoro è un contenuto che deve differenziarsi dal contenitore.
La scoperta di un immobile, salvo leggi speciali, per il diritto comune appartiene al
proprietario del fondo
NB: rispetto al diritto romano manca un requisito del tesoro, ossia il requisito del tempo. Il code
napoleon abbandona questo requisito definito in diritto romano. Quindi dottrina e giurisprudenza su
questa scia ammettono che tesoro sia una qualunque cosa nascosta di cui nessuno è in grado di
giustificare la proprietà, anche un deposito di monete di conio recente.
Rapporto scopritore-nasconditore: anche se nella pratica era per di più il proprietario che procedeva
al nascondimento, nulla vieta di pensare che sia avvenuto anche senza o contro la sua volontà,
anche da parte di un saccheggiatore o degli eredi. Per quanto riguarda l’inventore, solo se
l’inventore è proprietario del fondo può avere l’intero tesoro trovato nel fondo. Nel code napoleon
non ha questo diritto il possessore, l’usufruttuario del fondo, tutti i soggetti diversi dal proprietario
se sono inventore avranno diritto alla sola metà del tesoro come ogni altro estraneo, e solo se il
rinvenimento è avvenuto per caso. Altro punto riguarda il contenente: deve essere un immobile o
può essere un mobile? La lettera della legge è stata superata da dottrina e giurisprudenza piano
piano, che hanno ammesso che qualsiasi “luogo” potesse essere un contenitore di tesori, non solo un
fondo quindi muri, ma anche mobili.
La definizione di oggetto del tesoro è invece amplissima: “toute chose”, qualunque cosa, quindi
anche i reperti.
In generale dicono che Il tesoro è qualunque cosa nascosta, o sotterrata, della quale non vi è alcuno che
possa giustificare di esserne il padrone. Alcuni esplicitano il requisito del ritrovo fortuito (Regno delle due
Sicilie), altri no (CC per gli Stati Estensi, CC per gli Stati di Parma, Piacenza e Guastalla, CC Sardo).
Libro III modi di acquistare e trasmettere la proprietà, Titolo I dell’occupazione, Art. 714: si sente
l’influenza del code napoleon e dei codici preunitari. Però il codice del Regno d’Italia presenta una
definizione che almeno rende espliciti due requisiti che invece in quello francese erano rimasti
impliciti: il carattere mobile della cosa e il suo pregio. Ancora niente lascia presagire ciò che
avverrà dopo qualche anno, quando l’impatto delle scoperte archeologiche sulle regole del tesoro
provocherà un’implosione dell’istituto. Un’interpretazione di questo articolo sostanzialmente
morbida, quasi letterale, la giurisprudenza inizialmente non interviene. Per alcuni, secondo la lettera
della norma, i luoghi di rinvenimento dovrebbero essere sempre dei fondi. Per alcuni studiosi
bisogna seguire la lettera della legge, altri ammettono anche dei contenitori diversi dai fondi, ad
esempio dei mobili. Anche a definizione italiana non accoglie il requisito del tempo, della vetustà
del tesoro. È tesoro anche un deposito di monete in corso legale.
Appartenenza: il comma 1 dice che il tesoro appartiene al proprietario del fondo in cui si trova, ma
se viene trovato nel fondo altrui metà della proprietà del fondo metà all’inventore stessa
disciplina del code napoleon, che discende della disciplina di Adriano. È un compromesso tra le
ragioni dell’inventore, a cui il caso dovrebbe assegnare l’intero tesoro se stessimo alla legge del
dono della divinità, e le ragioni del proprietario del fondo a cui spetterebbe l’intero tesoro se si
applicasse il ius fundi.
Segnaliamo un’aporia in cui è scivolato anche il cc italiano: il considerare il tesoro come modo di
acquisto della proprietà per occupazione al momento dell’acquisto il tesoro non è una res
nullius, l’occupazione è un titolo di acquisto della proprietà sulle res nullius. Non è che il
proprietario non esiste, tendenzialmente c’è ma non è conosciuto o conoscibile.
Per quanto concerne i reperti archeologici dal 1865 ufficialmente si applica questa regola
dell’art. 714 anche ai reperti archeologici. Il codice del 1865 non è completo per quanto concerne
la tutela dei reperti, anzi porta a un vuoto normativo sul reperto. Nel frattempo, ci sono annessioni
territoriali e l’Unità d’Italia si consolida. Il Parlamento italiano nel 1871 ha votato l’art. 5 della
legge de falco in cui vengo richiamati in vita i testi normativi preunitari. Il parlamento non ha
emanato subito una legge sui reperti archeologici perché anche in materia di beni culturali
c’era una netta separazione tra due schieramenti opposti: quelli che volevano la
conservazione dei tesori archeologici, che invocavano l’introduzione di leggi conservative, e
dall’altra coloro che non volevano la conservazione ma auspicavano la dispersione dei tesori
archeologici, volevano che fossero i proprietari ad esserne domini, a decidere a chi venderli e
quindi come disporne. La discussione era tra queste due fazioni. Politica vincolistica degli oggetti di
storia in nome di una loro funzione pubblica vs meno vicoli e più mercato. Il Parlamento esita e
come soluzione di compromesso nel 1871 riprende la legislazione preesistente.
28.11.23
Codice del 1865 non è soddisfacente riguardo il tesoro. La società era divisa in due fronti: coloro
che sostenevano la conservazione dei tesori archeologici e coloro che invece, in nome del mercato
libero, ne sostenevano la dispersione. Il Parlamento vota la legge De Falco, che richiama in vita il
diritto speciale degli ex stati preunitari. La giurisprudenza stessa fa fatica a fare chiarezza, e il
quadro normativo rimane suddiviso nel diritto speciale degli stati preunitari, l’editto Pacca, in
particolare per Roma e le province romane, e il diritto del codice civile in vigore sul territorio
nazionale. La tensione governativa e legislativa va verso una legge che disciplini l’intera materia
(appartenenza dei reperti, regolamentazione degli scavi, limiti alla proprietà privata dei beni
culturali, necessità di catalogarli, sanzioni in caso di violazione delle norme, limiti alla vendita, etc).
i punti di vista continuano però ad essere troppo distanti, i progetti si susseguono e falliscono.
Il primo approdo alla Legge Unica in tema di reperti archeologici è raggiunto dalla cd Legge Nasi
nel 1902 (punto 30), a cui segue la lege Rosadi del 1909. La prima è stata giudicata molto fragile, la
seconda è un po’ più consistente.
Come si è arrivati a queste leggi: sono stati i codici, per primo il code napoleon, a determinare
l’ingresso dei reperti archeologici nell’area privatistica del tesoro. È quello che è accaduto in Italia
con il codice civile del 1865 (comma secondo art. 714). Il reperto che avesse i requisiti di cosa
mobile, di pregio, nascosto, trovato fortuitamente etc. si configurava quindi come tesoro dal pdv del
diritto privato, e quindi veniva attratto nella sfera giuridica del proprietario del fondo e
dell’inventore. Abbiamo visto che nel 1871 torna in vigore per Roma e le province l’editto Pacca, e
seppure non particolarmente incisivo nei suoi contenuti, comunque, questo editto aveva avuto lo
scopo di salvaguardare le cose di antichità e di arte dalla dispersione. L’editto era stato accettato di
buon grado dai sostenitori della conservazione dei reperti, mentre era temuto dai sostenitori
dell’indirizzo opposto. I sostenitori della conservazione non si accontentano dell’editto Pacca,
chiedono un cambiamento più drastico dello statuto giuridico dei reperti archeologici, sostengono
che questi beni costituiscono parte del patrimonio della nazione, e che quindi la loro conservazione
corrisponde all’interesse nazionale. Chiedono l’introduzione di una legge generale che riformuli
tutti quei divieti, quelle sanzioni già previste nell’editto Pacca, e anzi faccia molto di più per la
conservazione dei reperti. Per loro era il momento di andare alla radice del problema, la legge
generale avrebbe dovuto dichiarare la natura demaniale del sottosuolo archeologico, e quindi
l’appartenenza pubblica dei reperti archeologici.
I sostenitori della dispersione, invece, chiedevano il rispetto ad oltranza del diritto di proprietà dei
privati, chiedono che ai privati, proprietari di reperti archeologici sia concesso di disporne
liberamente, a prezzo di mercato, compresi tutti quei reperti che costituiscono oggetti di arte. I
sostenitori della cd dispersione chiedono che ci si liberi dell’Editto Pacca, che definivano “una
legge barbara, dura e draconiana”. Secondo loro la proprietà artistica è una proprietà come tutte le
altre. Il cammino verso una legge unitaria è lungo, ci sono diversi progetti di legge, il dibattito
dottrinale è polifonico e molto interessante (cap. 19 manuale).
1902 legge Nasi: legge fragile, ma epocale, perché è la prima dopo 30 anni di tentativi a
guadagnarsi il voto del Senato e della Camera, ed è la prima legge unitaria sulla tutela e
conservazione dei monumenti. È stata definita una legge fragile, da qualcuno anche inutile. Per
quanto riguarda il nostro discorso segnaliamo che nella legge Nasi non si registra nessun
avanzamento per quanto riguarda il punto specifico della configurazione pubblica degli oggetti di
scavo.
Nell’impostazione di base (punto 30) gli oggetti appartengono ai privati che li trovano nei propri
fondi. Gli scavatori hanno l’obbligo di avere una licenza e di soggiacere ai controlli, ma i reperti
appartengono a loro. C’è il diritto del Governo ad averne una quarta parte o il valore
corrispondente, ma non si mette in discussione la proprietà privata. Solo negli scavi intrapresi da
cittadini stranieri o istituzioni straniere c’è l’obbligo di ceder tutti gli oggetti a una pubblica
collezione del regno. Lo scopo è impedire l’esportazione dei beni. L’unico cenno alla scoperta
fortuita lo troviamo al primo comma dell’art. 15: l’obbligo di denunciare una scoperta
avvenuta per caso o meno. È un obbligo che riguarda sia la scoperta fortuita sia quella non
fortuita. Questo obbligo sembra l’unico in capo al fortuito scopritore, non ha l’obbligo di dare al
governo la quarta parte degli oggetti trovati, come lo scopritore non fortuito dono della Fortuna.
Legge Rava-Rosadi 1909: legge che sussurra la fine del tesoro archeologico, la legge Bottai sarà
poi un urlo. Legge timida ma con cui il legislatore sembra accettare implicitamente l’idea della
demanialità del sottosuolo archeologico, ma non viene detto esplicitamente nella lettera della legge.
Punto 31: “appartenere allo Stato” “rilasciare ai privati” (art. 15) secondo gli studiosi questi due
verbi non lasciano dubbi sulla volontà della Legge Rava-Rosadi di proclamare, seppure in modo
tacito, implicito, la demanialità del sottosuolo archeologico. Poche parole per i reperti fortuiti (art.
18, comma 4). Dopo l’emanazione di questa legge cosa cambia: il principio generale da applicare, è
che ogni volta che si trova un reperto che ha i requisiti del tesoro, si trova per lo Stato, non per sé
stessi come proprietari del fondo o per sé come rinvenitori in alieno. L’art. 714 cc, per quanto
riguardo il tesoro archeologico è quindi spedito in soffitta, salvo il caso in cui il rinventore e
proprietario debbano dividersi il compenso elargito in base alla legge. Nell’art. 18, comma 4, è
precisato “fermi stando i diritti riconosciuti al ritrovatore dal cc verso il detto proprietario”, quindi
rinvenitore e proprietario devono spartirsi il compenso previsto dalla legge. Salvo questi particolari
in linea di principio la dottrina ha fatto subito notare come la nozione di tesoro si sia avviata ad
essere svuotata di significato.
Legge Bottai: segna la fine definitiva del tesoro archeologico. Il principio generale è sempre lo
stesso, la demanialità del sottosuolo archeologico. Però in questa legge, a differenza della legge
Rava-Rosadi, lo troviamo espresso con chiarezza, esplicitato.
Punto 32: art. 49 legge Bottai esplicitamente precisa che le cose scoperte fortuitamente
appartengono allo Stato. Dall’articolo si vede anche che è sancita definitivamente la separazione tra
tesoro e reperto archeologico. Di nuovo, le strade si dividono. Una separazione che stavolta è
definitiva.
Nella relazione presentata del Ministro Guardiasigilli (relazione che accompagna l’emanazione del
cc) c’è un riferimento al tesoro: non vi è nulla di cambiato rispetto al codice precedente.
Codice civile del Regno d’Italia (1865) Il tesoro appartiene al proprietario del fondo
in cui si trova. Se il tesoro è trovato nel fondo
Libro III. altrui, purché non sia stato scoperto per solo
Dei modi di acquistare e di trasmettere la effetto del caso, spetta per metà al
proprietà. Gli altri diritti sulle cose (...) proprietario del fondo dove fu trovato, e per
Titolo I. metà al ritrovatore.
Dell’occupazione Tesoro è qualunque oggetto mobile di pregio,
(...) che sia nascosto o sotterrato, e del quale
nessuno possa provare di essere padrone.
in cui si trova. Se il tesoro è trovato nel fondo
altrui, purché sia stato scoperto per solo
effetto del caso, spetta per metà al
proprietario del fondo e per metà al
Codice civile (1942) ritrovatore. La stessa disposizione si applica
Titolo II. Della proprietà se il tesoro è scoperto in una cosa mobile
Capo II. Dei modi di acquisto della altrui.
proprietà Per il ritrovamento degli oggetti d’interesse
Sezione I. Dell’occupazione e
dell’invenzione
Art. 932. Tesoro è qualunque cosa mobile di
pregio, nascosta o sotterrata, di cui nessuno storico, archeologico, paletnologico,
può provare di essere proprietario. paleontologico e artistico si osservano le
Il tesoro appartiene al proprietario del fondo disposizioni delle leggi speciali.
L’ultimo dettaglio è nuovo, precisa che il contenitore può essere anche una cosa mobile. Del resto,
era già ammesso pacificamente da molto tempo, che il contenitore non dovesse per forza essere un
immobile. Per i ritrovamenti di oggetti di interesse storico, artistico etc. il codice determina che si
osservano le leggi speciali. La nuova disciplina del 1942 è sostanzialmente una ripetizione di quella
del 1865. Ripropone gli stessi concetti e anche le stesse contraddizioni in cui era incappato il
legislatore del 1865: in definitiva, ciò che fa la differenza tra tesoro e cose smarrite è il
sotterramento, o il nascondimento.
La relazione ministeriale prosegue e l’istituto è considerato di portata pratica ridotta per effetto delle
leggi speciali per il ritrovamento di oggetti di interesse storico, che rimangono ferme. La relazione
stessa conferma che il tesoro archeologico ha preso la propria strada, fanno parte del patrimonio
dello Stato, mentre il tesoro continua ad essere disciplinato dal cc, ma ha appunto una portata
pratica ridotta. Quando entra in vigore il cc del 1942 la legge Bottai è già in vigore, infatti il
riferimento alle leggi speciali è proprio un rimando alla legge Bottai.
Quindi, tutta la materia delle scoperte archeologiche transita dal cc alle leggi speciali. La materia
delle scoperte archeologiche diventa materia di legislazione speciale. All’istituto del tesoro non
resta più nulla di archeologico, il tesoro non è più per definizione quello archeologico. Prevale
l’interesse pubblico per quanto riguarda i reperti archeologici, la legge afferma il diritto dello stato
sulle cose trovate, e di conseguenza degrada la tutela dell’interesse privato, che sia dello scopritore
o del proprietario del fondo, ad un semplice “diritto al premio” nei confronti dello Stato, una sorta
di risarcimento, non un premio incentivo, perché la proprietà non può essere acquistata come
inventori.
Qual è il requisito di base per accedere al premio: il carattere fortuito della scoperta. Solo se la
scoperta avviene per caso, al di fuori di qualunque proposito di ricerca fa acquistare il diritto al
premio. Questo vale anche per il proprietario del fondo, che non ha la libertà di cercare reperti
archeologici nel proprio fondo, siamo inseriti in una visione pubblica. Anche il cc all’art. 932 si
include tra i beni demaniali e quelli appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato anche i
reperti archeologici. È come se ricomparissero le regalie, il diritto dello Stato sul tesoro, o meglio su
un particolare tesoro.
Il tesoro archeologico è quindi un capitolo chiuso, eppure, in questa nuova disciplina qualcosa del
tesoro si è mantenuto. Una norma, che per chi non ha fatto il nostro percorso potrebbe risultare
incomprensibile, perché si spiega solo se si conosce la storia che ha portato a quel punto.
C’è un aliquid di molto ambiguo, che porta il segno di animale e della sua norma sull’acquisto.
Questo richiamo alla legge di Adriano si trova nel tema dei premi per gli scopritori, nel diritto al
premio. Abbiamo ricordato la regola per cui l’inventore non proprietario, che è chiamato dalla
Fortuna a scoprire il tesoro, acquista metà dello stesso, e metà spetta al proprietario del fondo.
L’acquisto del premio è previsto per lo scopritore, ma anche per il proprietario del fondo.
L’acquisto da parte del proprietario è ormai ingiustificato sul piano dei principi, perché il tesoro non
è parte del fondo. Il dono della Fortuna dovrebbe premiare solo lo scopritore. Si giustifica solo dal
pdv storico, è storicamente giustificato perché per riconoscere l’acquisto all’inventore di un tesoro
in alieno, come aveva intuito Adriano, bisognava concedere qualcosa anche al proprietario del
fondo in ossequio all’importanza del diritto di proprietà a Roma. Una disciplina, che se quando
Adriano l’ha applicata al tesoro, poteva definirsi un avanzamento nella dialettica dei rapporti di
lavoro, perché lo scopritore era normalmente un operaio, la stessa regola se applicata alle scoperte
archeologiche impone importanti riflessioni, perché non ha agganci sul piano dei principi.
Nell’attuale prospettiva della proprietà dello Stato sul sottosuolo archeologico l’art. 49 della legge
Bottai appare anacronisticamente prono alla voce del proprietario, del padrone se sono beni dello
Stato perché ci dovrebbe essere un premio per il proprietario del fondo?
La stessa norma si legge anche nel d. lgs. 42/2004, noto come Codice dei Beni Culturali: all’art. 92
(ultima pagina) si legge che il Ministero corrisponde un premio al proprietario dell’immobile in cui
è avvenuto il ritrovamento: come Adriano il moderno legislatore gratifica il proprietario con un
premio pari a quello attribuito all’inventore casuale o autorizzato che sia. Questo è un esempio di un
trascinamento di una norma che, quando è stata introdotta, era realistica, aveva un senso, mentre
oggi dato il quadro normativo in cui è inserita è ingiustificata. Molto spesso si rintracciano norme
che appaiono ingiustificate sul piano dei principi, e per capire perché sono ancora in vigore bisogna
fare tanti passi indietro per capirne l’origine.