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DIRITTO PRIVATO ROMANO

DIRITTO ROMANO E LE SUE FONTI


Il diritto può essere diviso concettualmente in due gruppi: la concezione normativa (norma, regola
di condotta o complesso organico di norme) e quella istituzionale ( identificato con l’ordinamento
giuridico: modo di essere di una società e colletività). Inoltre il diritto è diviso ulteriormente in
diritto oggettivo: “norma agendi”, e il diritto soggettivo: “facultas agendi” la pretesa del soggetto
garantita e disciplinata dal diritto oggettivo, nei confronti di altri beni o soggetti. I due concetti
sono strettamenti correlati: poichè il diritto soggettivo trova nel diritto oggettivo il suo
fondamento. Inoltre per quanto riguarda il diritto soggettivo, la dottrina moderna l’ha
ulteriormente ampliato, attraverso l’utilizzo delle nozioni di potestà: poteri-doveri che a un
soggetto è dato esercitare su altri soggetti(indipendentemente dalla volotà) , e facoltà: possiblità
riconosciute e garantite al titolare di un diritto soggettivo. Dai moderni sono state fatte poi,
ulteriori distinzioni: si dice obbligo il dovere di fare o non fare alcunchè in relazione al diritto
soggettivo altrui, e soggezione la situazione in cui versa un soggetto di dovere necessariamente
sottostare per ottenere un risultato utileo evitare un pregiudizio.
Il diritto romano sarà dunque strettamente correlato al diritto oggettivo spiegato sopra,
appartenente a una società organizzata da uomini liberi dalla nascita di Roma nel 754 a.C. alla
morte dell’imperatore Giustiniano nel 565 d.C.. Con questo imperatore ci fu una svolta storica
straordinaria : la compilazione del CORPUS IURIS CIVILIS (o corpo del diritto civile)redatto dal 528
al 534 d.C. per volontà di Giustiniano. Dopodichè ci fu la seconda vita del diritto romano con il
diritto bizantino e quello comune. L’ordinamento giuridico romano è quello che è durato più a
lungo, ed è stato l’unico ad essere cientificamente elaborato, oichè effettivamente solo Roma
ebbe i giureconsulti. Per di più nel diritto romano, si trova la matrice della maggior parte dei sitemi
privatistici d’Europa e di altri paesi del mondo.
Il termine latino che indiva il diritto è ius, utilizzato in un’accezione che sembra indicare il dirittto
oggettivo e quello soggettivo contemporaneamente. Attraverso l’utilizzo di questo termine si
indicava anche il luogo del giudizio, davanti al magistrato. Sarà solamente in seguito, nell’età
postclassica, che si utilizzerà iltermine iura per designare globalmente la giurisprudenza classica.
Ma nelle nostri fonti il termine ius significa letteralmente: situazione giuridica soggettiva: dunque
diritto e dovere insieme. Pertanto era sia diritto passivo sia attivo del rapporto giuridico, ma
concretamente era la situazione giuridica in dipendenza di determinati atti. (ita ius esto- XXI
tavole)
È fondamentale in merito al diritto, fare una distinzione tra il diritto privato: settore del diritto che
si occupa di regolare i rapporti tra gli individui in quanto tali, e il diritto pubblico che regola
l’organizzazione e il funzionamento della collettività. (analogamente ius privatum e ius publicum).
Quanto a ius publicum, il termine latino deriva etimologicamente dal termine populus: popolo;
pertanto è interessante notare come originariamente il dirro pubblico fosse il diritto del popol: del
populus romanus.
Il diritto romano può essere diviso in più periodi storici: età arcaica, età preclassica, età classica,
età postclassica e infine età giustinianea.
L’età arcaica può essere periodizzata storicamente con la nascita della città di Roma nel 754 a..C.e
si conclude circa verso la metà del III secolo d.C.. Inizialmente il regime costituzionale è
monarchico composto da un rex, Senato e un’assemblea popolare e diventerà repubblicano verso
la fine del VI secolo d.C. imperniato su magistrature, senato e assemblee popolari. I n questa parte
storica vediamo l’evoluzione della città romana che da essere un piccolo e modesto villaggio di
pastori e agricoltori si sviluppi fino a diventare una potenza militare e si ingrandisce attraverso le
attività commerciali. Durante questo periodo il diritto risulta essere povero di strutture, sono
pertanto pochi i comportamenti leciti e illeciti che possono essere considerati giuridicamente
rilevanti e pochi i diritti soggettivi riconosciuti e tutelati. ed è inoltre un sistema povero a livello
formalistico: vengono prodotti atti giuridici attraverso la pronunzia di determinate parole: certa
verba considerate parole o atti solenni. E il diritto riguardo strettamente i cittadini romani. Si
trattava di un diritto legato ai mores: ovvero una azione prevalentemente consuetudinaria, i
costumi dei più antichi.ai mores, col tempo, vennero integrate le leges: leges publicae, o leggi del
popolo (collegati in un certo senso alla volontà popolare. La più famosa è senza dubbio la legge
delle XII Tavole degli anni 451- 450 a.C. che fu emanata dei decemvri: dei magistrati straordinari
appositamente eletti (le prime dieci scritte da Valerio e le ultime due da Orazio).furono
inizialmente scritte su delle tavole di bronzo che vennero successivamente distrutte nell’incendio
di Roma nel 387 a.C. , ma i romani ne conservarono la memoria parte la legge delle XII tavole,
ebbero maggiore importanza le leggi rogatae, che erano proposte dal magistrato, che “rogava”
(interrogava) il popolo riunito in assemblea e una volta approvata, la proposta diventava lexa
differenza delle leggi rogatae che potevano essere approvate dal popolo composto da patrizi e
plebei, i plebisciti erano votati dalla plebe soltanto e inizialmente obbligavano soltanto i plebei. Ma
successivamente una legge (lex Hortensia) equiparò i plebisciti alle legesrendendoli obbligatori per
tutti. Ma, le leggi, date e rogate, erano relativamente poche rispetto ai mores.
In questo periodo la conoscenza e l’interpretazione del diritto era strettamente affidata ai
pontefici: una classe sacerdotale considerata anche la classe dei primi giuristiche gestivan il loro
ruolo in un’atmosfera di assoluta segretezza. Erano coloro a cui i cittadini si rivolgevano per
conoscere il ius, che interpretavano alla lettera, e, interpretandolo ricavavano istituti nuovi.
Questa tipologia di diritto venne inizialmente qualificata come ius Quiritium, e dopo ius civile. Lo
ius Quiritium era letteralmente il diritto dei Quiriti: il nucleo più antico del diritto romano e
adoravano Quirino. Era sostanzialmente una sommatoria di tutte le leggi dell’epoca arcaica usate
solo dai cittadini romani. Questo diritto inoltre riconosceva dunque posizioni giuridiche soggettive
quali il potere su cose inanimate, animali e schiavi: manifestata attraverso una formula di
appartenenza (dopo proprietà). Da un momento non precisabile dell’età arcaica il diritto romano si
arricchisce di nuove prospettive e diventa ius civile , perché riguarda i cives: soltanto i cittadini
romani. Comprendeva da un lato il ius Quiritium ma era molto più ampio (si ampliarono e
introdussero nuovi concetti come il concetto di oportere: la necessità giuridica del debitore di
tenere un certo comportamento verso il creditore)
Dopo l’età arcaica, ci fu l’età preclassica , verso la metà del III secoloa.C. che corrisponde anche
agli anni della crisi della repubblica. In questo periodo hanno inizio le guerre puniche e roma si
estende sul Mediterraneo diventando in poco tempo la potenza egemone rispetto ai popolo che si
affacciavano sul maree inoltre i territori presenti fuori dall’italia vengono organizzati in provinciae.
Inoltre la società romana si evolve anche spiritualmente e i traffici commerciali di intensificano.
Ma questa evoluzione porterà poi ai conflitti e guerre civili. Durate questo periodo storico vennero
individuate e riconosciute e tutelate altre posizioni giuridiche soggettive e furono repressi nuovi
illeciti privati. Ma soprattutto si diede riconoscimento a nuovi negozi giuridici (atti giuridici
volontari e leciti). È in questo periodo inoltre che il diritto romano non fu più considerato come
povero di strutture, grazie anche alla nascita dei negozi. Rimasero in vigore i mores e le leges ma le
leges rogatae ne furono emanate poche per quanto riguarda il diritto privato. I pontefici
perdettero il loro monopolio della conoscenza e interpretazione del diritto e “cedettero” il loro
ruolo alla giurisprudenza (laica) e al pretore. Per quanto riguarda la giurisprudenza, viene intensa
in questo caso in senso di iuris prudentia, ovvero scienza del diritto: significato riconosciuto anche
oggi alla dottrina ma sconosciuto e estraneo alle fonti romane. Si parla inoltre di interpretatio
prudentium per intendere l’interpretazione degli esperti del diritto, ovvero dei giuristi. Al giorno
d’oggi il ruolo del giurista è si, quello di interpretare le norme giuridiche e fornire la propria
opinione su di esse, ma ciò non sarà mai vincolante per nessuno e rimarrà una mera opinione. A
roma, all’epoca, le cose stavano diversamente poiché i giuristi, oltre a ricoprire un ruolo di alto
prestigio, le loro opinioni e parole potevano essere considerati come ius. Quando il primo
pontefice plebeo, Tiberio Coruncanio, cominciò a discutere n pubblico riguardo le ragioni dei
responsi, si spezzò il monopolio pontificale del diritto, ed ecco che da allora i privati, non più
pontefici, cominciarono ad operare sia attraverso un’attività consultiva, sia di insegnamento e
composizione di opere giuridiche. Ma, i giuristi laici come già i pontefici fornivano delle opinioni e
pareri (i responsa) che se emessi da giuristi qualificati potevano essere considerati ”validi”, ma i
giuristi svolsero anche un’attività letteraria; scrivendo opere in cui si manifestarono come
scienziati del diritto, cominciando dunque a ricavare delle soluzioni ai casi concreti confrontando i
principi vigenti che stavano alla base costruendo in questo modo dei concetti che consentirono di
dominare e gestire dati di diversa origine e costruendo anche gli istituti (strutture che avevano lo
scopo di essere dei punti di riferimento di principi e regole proprie) e procedere alla formazione di
sistemi individuando, dove possibile una soluzione. Tra i giuristi più conosciutic di questo periodo
abbiamo manio manilio, giunio bruto e publio mucio che furono così i veri fondatori dello ius civile.
Nonostante ciò il primo a proporre la trattazione sistematica del ius civile fu quinto mucio scevola,
console. In questo periodo il ius civile si affianca anche al diritto onorario
In questo periodo il ius civile subì un forte incremento: infatti si diede tutela a nuovi negozi anche
se compiuti da non cittadini (peregrini), che diedero poi luogo ad obblighi qualificabili come
oportere. Da qui ci furono due significati: il primo più stretto ed è la creazione di negozi e istituti
riservati ai soli cittadini romani, l’altro più ampio ed esteso anche ai peregrini. Per quanto riguarda
quest’ultimo, lo si intese soprattutto per quanto riguarda le obbligazioni, ovvero le
compravendite , locazioni, vendite e mandati(poi contratti). Si parla inoltre di un metro di giudizio
utilizzato dal giudice: la buona fede (iudicia bonae fidei) che consentiva un giudizio non rigido e
determinato ma che rimandava ai comuni criteri della lealtà e e correttezza e sottolineava la
possibilità non indifferenza di abbracciare costantemente nuove realtà
I negozi dunque furono qualificati come appartenenti al ius gentium (diritto delle genti): ovvero
diritti che erano tutelati anche nei confronti dei non cittadini. Ma pertanto si può dedurre che il ius
civile si contrapponeva al ius gentium, nonstante quest’ultimo fosse parte integrante del primo
per l’oportere. Ma al ius civile si affiancò e si contrappose il ius honorarium: o diritto onorario( per
la massima parte del pretore di produrre e formare il diritto romano). Per quanto riguarda
quest’ultimo: si tratta del diritto risultante dall’attività sostanzialmente creativa di alcuni organi
giurisdizionali: magistrati eletti dal popolo con carica annuale, che potevano essre pretori, urbano
e peregrino, edili curuli e governatori delle province. Il pretore (cum imperio: poiché aveva il
potere supremo tra tutti i magistrati repubblicani e l’unico suo vincolo riconosciuto erano i diritti
essenziali dei cittadini) aveva il compito di dicere ius. Invece per quanto riguarda gli edili curuli
(sine imperio) operavano sulla vigilanza sui mercati e dipendevano dalla vendita di schiavi e
animali e valutavano la correttezza nelle contrattazioni. Un altro organo, instituito più tardi, fu il
praetor peregrinus a causa di traffici commerciali molto intensi e aveva il compito di dicere ius tra
cittadini e stranieri e ebbe pari dignità e potere rispetto a quello urbano. Il ius honorarium fu il
risultato dell ‘attività edittale dei magistrati collegata ad un processo formulare (documento scritto
concordato dalle parti) e inoltre fu per la maggior parte opera del pretore urbano, per quanto
infatti l’opera del pretore peregrino e del governatore delle province era ricalcato su quello del
pretore urbano. il pretore, in forza del suo ius edicendi -8programma politico pubblicato nel foro)
emanava un editto destinato a durare un anno tanto quanto la sua carica, editto in cui forniva dei
strumenti giudiziari e l’indicazione dei modelli ei provvedimenti che avrebbe emanato nell’anno in
cui sarebbe stato in carica. Nonostante ogni fatto, l’editto emanato l’anno prima scadeva, di fatto
accadde che i pretori successivi andassero via via a confermarlo migliorandolo e accrescendolo
all’occorrenza , andandosi in questo modo a formare un consistente nucleo edittale che si
trasmetteva di anno in anno (edictum tralaticium). L’intervento del pretore si manifestava
principalmente in tre direzioni: agevolava l’applicazione del ius civile, colmava le sue lacune e lo
correggeva. Questo per garantire in modo più appropriato l’equità, non perché il ius civile fosse da
considerare iniquo, ma perché iniqua poteva risultarne la sua applicazione, allora il pretore
concedeva gli strumenti necessari alla sua applicazione.
Dopodichè ci fu l’età classica, con la fine della repubblica romana e l’avvento del principato,
fondato da Ottaviano Augusto (27 a.C.). periodo in cui il dominio romano crebbe ulteriormente
economicamente, spiritualmente, culturalmente e socialmente. Il diritto privato si sviluppa ancora
di più e si aggiungono nuove fonti: i senatoconsulti le costituzioni imperiali, emanazione del
Senato e del principe( equiparati alle leges);si estingue però l’attività legislativa del popolo (lex) e
quella del pretore ( iinovatore del ius). Intorno al 130d.C. infatti il giurista Salvio Giuliano, per
incarico dell’imperatore Adriano stabilì il testo definitivo dell’editto pretorio che propose
all’approvazione del Senato: editto perpetuo. Da questo momento, i pretori mantennero la
funzione giurisdizionale ma senza il ius edicendi (non ci sono più elementi di assoluta novità)
(codificazione del diritto perpetuo). In questo periodo storico si parla anche di giurisprudenza
classica, per il periodo in cui operano e in cui vissero, per la purezza di forme e la perfezione della
tecnica. Ma in modo particolare si ritiene classica per il modello concepito come un modello
universale. I primi tempi dell’età classica furono contraddistinti dall’antagonismo di due sectae
principali: i sabiniani e i proculiani. I primi con capostipite Ateio Capitone, avevano un approccio
molto più conservatore, a differenza dei secondi con capostipite Marco Antistio Labeone che
avevano un’ ottica molto più progressista del diritto. A sanare questo dissidio fu Salvio Giuliano,
autore del Digesta. Durante questo periodo vissero anche altri due giuristi molto importanti: Gaio
autore di Institutiones e Pomponio. Ma il maggiore dei giuristi romani dell’epoca fu senza dubbio
Papiniano.
Infine abbiamo l’età postclassica, periodo in cui l’attività del giurista è cessata e in cui i giuristi
diventano dei funzionari dell’impero e operano nelle costituzioni imperiali, tutto questo in
concomitanza con una delle tante crisi che travagliarono l’impero romano. Quest’epoca iniziò con
l’abdicazione di Diocleziano e con l’ascesa al trono di Costantino. Infatti fu proprio con Diocleziano
che si consolidò un governo assoluto e dispotico: il dominato, con l’imperatore alla sua sommità.
L’impero viene diviso in due parti per ragioni prettamente strategiche di difesa: pard Occidentis
con capitale a Roma e pars Orientis con capitale Bisanzio, Costantinopoli. In ognuna di esse c’era
un imperatore ma vari fattori portarono alla fine dell’impero romano d’occidente e rimarrà
soltanto l’impero d’oriente con imperatore Giustiniano , salito al trono nel 527, verso la conquista
dell’Italia. Ora rimane solo l’imperatore come unica fonte viva del diritto , ma le costituzioni ,
leges, rivelano un vero e proprio scadimento e imbarbarimento anche dal punto di vista
linguistico. Tuttavia lo studio del diritto procede, e nuovi scritti vengono pubblicati: come il Codice
Teodosiano. E nel VI secolo ci fu la compilazione del Corpus Iuris Civilis.
Le fonti del diritto possono essere fonti di produzione o fonti di cognizione: le prime sono ogni atto
o fatto da cui scaturisce il diritto oggettivo che produce il diritto. Invece le seconde sono ogni
materiale che ci consente di conoscerne le forme i contenuti.
Possono essere considerate norme di produzione ad esempio la giurisprudenza e gli editti del
pretore, ma anche i mores e le leges. Successivamente alle leges i classici equipararono la
consuetudine o consuetudo, osservanza generale e costante da tempo immemoriabile di un
comportamento da parte di una collettività. Concettualmente si può dire che la consuetudo non
era diversa in realtà diversa dai mores, più antichi di quest’ultimi. Ma pare che le consuetudo
fossero considerate come le tradizioni giuridiche di un popolo provinciale, motivo per il quale i
mores non furono mai messi in discussione. La principale fonte di cognizione fu il Corpus Iuris
Civilis con cui si indica la monumentale compilazione di iura (giurisprudenza classica) e leges
(costituzioni imperiali). Esso si divide in 4 parti ben distinte: Institutiones, Digesta, Codex e
Novellae. Le Institutiones diviso in quattro libri sono la parte più breve e semplice, poiché sono
state scritte sotto forma di discorso diretto che l’imperatore tiene ai giovani che si avviano agli
studi giuridici, e ha per questo motivo una funzione pressocché didattica. È utile quindi analizzare
la sistematica: il modo in cui questo libro è stato scritto (diverso da tutti gli altri) ed è anche il
modo in cui l’autore presenta e distribuisce il contenuto e gli argomenti che tratta. Infatti in questo
testo tutto è affidato all’intuito e al suo sviluppo: infatti tratta prima le persone, le cose, le
obbligazioni e il processo, ed è attraverso questo ordine che oltrepassa ogni filosofia poiché inizia
dalle persone che sono le entità a favore delle quali tutto il diritto è stato configurato. Dopodiché
c’è il il Digesto: diviso in 50 libri e la parte con maggior pregio. E si tratta in sostanza di una grande
antologia che raccoglie brani tratti da opere di giuristi classici organizzati per materia e c’è anche
qualche raro passo di giurista repubblicano. Dopo si trova il Codex(CI) scritto dopo il Digesta
quando Giustiniano aveva emanato altre costituzioni di diritto privato. Pubblicato nel 534 ed è
diviso in 12 libri a loro volta divisi in titoli. E infine ci sono le Novellaeche furono raccolte dopo la
morte dell’imperatore.
Oltre al Corpus Iuris Civilis, ci furono altre fonti di cognizione del diritto romano come le Istituzioni
di Gaio e il Codice Teodosiano. Le prime furono scoperte nel 1826e sono divise in 4 libri e il
secondo è stato fatto compilare dall’imperatore Teodosio II ed era diviso in 16 libri. Per di più ci
furono anche i Tituli ex corpore Ulpiani, i Fragmenta Vaticana, la Lex Dei, la Consultatio veteris
cuiusdam iurisconsulti e la Lex romana Wisigothorum.

IL PROCESSO
Il processo evoca una sequenza di atti e fenomeni ed è un’attività che ha uno scopo/fine: accertare
la sussistenza di un diritto soggettivo quando è messa in discussione o quando se ne ostacola
l’attuazione. Può essere esecutivo o di esecuzione, oppure di cognizione o accertamento. È
interessante sottolineare la frase “ i romani pensavano il diritto attraverso il processo” poiché
effettivamente fornisce gli strumenti giuridici in difesa di certi soggetti. L’azione è il diritto di
richiedere in giudizio ciò che è dovuto ad un soggetto( dà per scontata l’esistenza di un diritto
soggettivo). È necessario distingere le norme primarie che riguardano i diritti che sussistono grazie
all’esistenza di queste norme; e le norme secondarieche sussistono invece ogni volta che un diritto
soggettivo viene negato o ostacolato. Si può dire dunque che prima dell’esostenza delle orme
primarie ci sono gli interessi e i vantaggi delle persone che vogliono essere tutelate e protette.
Il primo processo giuridico è il processo per legis actiones: dello ius Quiritium nell’età precalssica e
civile nell’età classica.
Quando si parla di processo privato a darvi impulso è il soggetto singolo ma interviene sempre un
organo pubblico: organo giudiziario. Le norme processuali oggi sono considerati secondarie
rispetto a quelle del diritto sostanziale : ovvero alle norme primarie che regolano direttamente i
rapporti tra gli uomini nella vita associata : in esso hanno fondamento i diritti soggettivi. Ma se un
individuo viene riconosciuto un diritto soggettivo ed è tutelato, sarà in grado di promuovere un
giudizio per far valere le sue ragioni: questo potere si chiama “azione”. Pertanto si può anche dire
che ad ogni diritto soggettivo corrisponde anche un’azione, il cui riconoscimento è implicito nel
diritto soggettivo, ma è un posterius.
Tpicità: adesione diuna norma ad un modello, solo se c’è un modello c’è un diritto. Nel diritto
romano il rapporto tra diritto sostanziale e processo era molto diverso: l’idea di azione deriva di
fatto da actio intesa come strumento per l’esercizio di potere per promuovere un giudizio . ma
dalle fonti romane non si parla tanto di actio quanto più di actiones: azioni al plurale ed esse erano
molto tipiche. Infatti proprio perché erano tipiche c’era un elenco di azioni, ognuno in difesa di
una oarticoare posizione giuridica soggettiva attiva e ognuno con la propria struttura.per questo
motivo una ragione era tutelabile solamente se vi era un’apposita actio già presistente : attraverso
una prospitta rovesciata rispetto ad oggi, oggi l’azione presuppone il diritto soggettivo mentre
allora il diritto soggettivo presupponeva l’azione. Proprio per questo, si notava nel diritto onorario
e quindi nel processo formulare: come delle posizioni acquistavano rilievo giuridico duna volta che
il pretore proponeva lo strumento giudiziario che le tutelasse, nell’editto. Era sostanzialmente
l’esistenza del mezzo processuale che ne consentiva il riconosciumento e la tutela, e quindi lo
studio del processo formulare è indispensabile e imprescindibile per il diritto privato romano.
Durante l’evoluzione giuridica romana, possono intravedersi diversi tipi di processo: le legis
actiones, il processo formulare, le cognitiones extra ordinem dell’età classica, il processo
postclassico e quello giustinianeo.
Le prime furono le più antiche e quelle che durante l’età arcaica furono fribile solamente dai
cittadini romani. (dalle istituzioni di Gaio) le legis actiones sono tante quanti sono i diritti soggettivi
e il nome deriva dalla modalità in cui esse venivano trasmesse: da lego-dico, modalità orale. Per
quanto riguarda queste, si componevano di 5 riti processuali, diversi tra di loro : si tratta dei
sacramenti, per iudicis arbitrive postulationem, per condictionem: dichiaratiche volte
all’accertamento di situazioni giuridiche incerte o controversie e poi, per manus iniectionem e per
pignoris captionem: esecutive e volte alla realizzazione di posizioni giuridiche certe. Gli aspetti che
legavano questi riti erano il fatto che erano accessibili ai soli cittadni romani, il loro carattere orale
e la rigida formalità: eseguita tramite la certa verba. Solo per quanto riguarda la legis actio per
pignoris capionem era necessaria la preenza di ambedue le parti: attore e convenutoe anche la
partecipazione di un magistrato. Il magistrato autorizzava la prosecuzione di un procedimento e
pertanto aveva il ruolo di mostrare legittivo il rito. Dal momento che entrambi i contendenti
dovevano essere presenti dinanzi al pretore, doveva essere cura dell’attore assicurare la presenza
del l’avversario. Questo accadeva attraverso una procedura chiamata : in ius vocatio, ovvero la
chiamata al giudizio: un atto provato per cui una parte ingiungeva all’altra pronunciando quelle
parole e chiedendo quindi di seguirlo dinanzi al magistrato. A questo però non ci si poteva
sottarrre, infatti l’altr parte era autorizzata ad usare anche la forza perchè questo avvenisse.
Le legis actiones dichiarative avevano una cmune caratteristica strutturale: il processo era diviso
quindi in due part: in iure e apud iudicem.
Per quanto riguarda la prima fase, aveva luogo davanti al magistrato in modo tale da fissare i
termini giuridici della lite, e alla fine di questo procedimento il pretore nominava un giudice
cosicche le parti potessere procedere all’apud iudicem. Quant i contendenti erano ancora in iure
dovevano avolgere un atto solenne in cui invocavano i rispettivi testimoni che attestassero il rito
compiuto: si tratta di litis contestatio.
Dopodichè l’apud iudicem si svolgeva dinanzi ad un giudice: un cittadino privato che avrebbe
rivestito il ruolo di giudice o di arbitro per quanto riguarda le competenze tecniche o valutazioni
economiche specifiche. In ogni caso il compito del giudice era quello di raccogliere le prove ed
emanare la sentenza. A differenza della parte in iure, la seconda parte della procedura non era
collegata a quel tipo di formalismo e infatti non era neanche necessaria la presenza di entrambe le
parti, ma successivamnet con un precetto presente nelle XII tavole, in assenza di una delle due
prti, trascorso mezzogiornoil giudice avrebbe dovuto dare ragione alla parte presente. Le legis
actionem più antoche furono la legis actio sacramenti e la legis actio per manus iniectionem.
La prima: la legis actio sacramenti,dichiarativa, fu quella più impiegata e che sopravvisse più a
lungo. Venne inoltre qualificata generalis perchè veniva utilizzata per ogni pretesa per la quale non
fosse prescritta un’altra legis actio. Essa poteva essere in rem o in personam.
La legis actio sacramenti in rem(riguardava le cose)(diritto reale: le cose/diritto di credito:non
coinvolge le cose ma le persone) era utilizzata per a tutela e il riconoscimento di posizioni
giuridiche soggetive assolute per le quali si parlava di vindicationes e si trattava sempre di azioni
reali in cui il proprietario perseguiva la cosa che gli apparteneva(eredità). Riguardava inotre
l’appartenzenza ad una cosa/oggetto poichè all’epoca non esisteva ancora il concetto di proprietà.
Erano presenti l’attore: colui che produce l’azione e un convenuto: colui che viene chiamato in
giudizio. Per questo caso ad esempio funzionava in questo modo: una volta presenti ambedue i
contendenti davanti al magistrato in iure e presente anche la cosa controversa, la parte che aveva
preso l’iniziativa della lite teneva in mano una bacchetta: festucae attraverso di essa faceva atto e
affermava solennemente che questa gli apparteneva (anche se si trattava ad esempio di uno
schiavo), toccandola con la festuca. Dall’atra parte, non mostrando remissività, compiva lo stesso
gesto annunciando la stessa formula.in questo modo alla vindicatio seguiva la contravindicatio. A
questo punto interveniva il pretore dicendo ai litiganti di deporre la cosa e dopo aver obbedito i
due prcedevano nel sacramentum: un discorso ampio e complesso pregno di sacralitàche infatti
comportava sempre un solenne giuramento, che poi divenne una scommessa di pagare all’erario
cinquanta o cinquecento assi (monete di bronzo) : 50 se il valore del processo era inferiore a 1000
assi, 500 se era superiore. Dopodichè interveniva il pretore che emanava un provvedimento in cui
assegnava il possesso provvisorio della cosa controversa alla parte che assicurava l’intervento di
garanti ritenuti più idonei: questi chiamati praedes perchè avevano il ruolo di garantire la
restituzione della cosa all’avversario insieme ai frutti emanati durante processo.
Conclusa la fase in iure, il giudizio continuava in apud iudicem: parte in cui ciascuna parte si
preoccupava di dimostrare al giudice che la cosa controversa gli apparteneva. Dopo aver raccolto
le prove, il giudicesi sarebbe pronunciato su quale dei due sacramentum fosse stato iustum e
quale iniustum. Infine il soccombente pagava all’erario l’importo del sacramentum, e quanto alla
cosa controversa, se a vincere la causa fosse stata la persona a cui era stato asseganto il possesso
provvisorio, avrebbe continuato a tenerselo, invece se fosse stata l’altra parte, nel caso in cui la
cosa non fosse stata restituita, la parte vittoriosa avrebe potuto procedere contro i praedes(anche
con l’uso della frza).
Invece per quanto riguarda la legis actio sacramenti in personam, era assai meno noto dell’in rem,
poichè riguardava la tutela di posizioni giuridiche soggettive relative. Il creditore insoddisfatto
avrebbe agito contro il suo debutore affermando, in iure e rivolto allo stesso debutore: affermo
che tu sei tenuto a darmi diecimila.e ti chiedo di ammettere o negare. Il debitore poteva dunque
ammettere o negare: se avesse ammesso avveniva il confessio in iure, con l’interruzione del rito,
ma nel caso in cui avesse negato, le parti si sarebbero sfidate al sacramentum (come la legis actio
sacramentum in rem )contro pooi il soccombente ricnosciuto debitore di una somma di denaro, il
creditore avrebbe esercutato la legis actio per manus iniectionem. Essa aveva carattere esecutivo
e veniva esperita tramite l’esecuzione di un giudicato: manus iniectio iudicati aperta al creditore in
favre del quale stata emessa una sentenza iudicatum, per cuil’avversario fosse stato riconosciutore
debitore di na certa somma di denaro. Si procedeva sempre che il debitore iudicatus dopo trenta
giorni dalla sentenza non avesse ancora pagato. Al iudicatus era parificato il confessus ovvero
l’ammissione in iure del proprio debito. E quindi con la manus iniectio si procedeva anche in
difetto di iudicatum riguardo a situazioni ricnosciute a priori comoe certe: alcune manus iniectio
pro iudicato, altre manus iniectio pura. La manus iniectio pro iudicato si dava allo sponsor che
avesse prestato garanzia, avesse soddisfatto il debuto e il debitore grantito non gli avesse
rimborsato entro 6 mesi il relativo importo.
Questo procedimento avveniva davanti ad un magistrato giurisdicente , con la presenza di
creditore e debitore, nonostante inizialmente soltanto il creditore avesse un ruolo attivo , il quale
doveva rivolgersi all’avversario enunciando, attraverso i certa verba, la fonte, o causa, del credito
che pretendeva spettargli, ne indicava l’importo e dichiarava di manum inicere afferrando il
debitore. Il debitore poteva indicare un vindex, o garante, il cui intervento lo avrebbe sottratto dal
manus iniectio. Il vindex poteva negare il debito e quindi contestare il diritto dell’attore di
procedere alla manus iniectio. E così si istituiva una legis actio nella quale il vindex, se
soccombente, avrebbe dovuto pagare il doppio dell’importo del debito riconosciuto. Se invece in
debitore non avesse indicato un vindex, il pretore avrebbe pronunciato l’addictio del debitore in
favore dell’altra parte e avrebbe potuto tenere in catene per se l’addictus per sessanta giorni.
Durante questo tempo, il creditore avrebbe dovuto portare il debitore in tre mercati e proclamare
pubblicamente l’importo del debito, e se qualcuno avesse riscattato il debito sarebbe stato
“salvato”, ma se questo non fosse avvenuto, il debitore poteva essere venduto come schiavo fuori
Roma o addirittura ucciso, e smembrato con la divisione delle parti del suo corpo nel caso ci
fossero stati più creditori. (non ci sono tuttavia testimonianze di debitori uccisi ). Il debitore poteva
tuttavia, sottrarsi alla manus iniectio anche senza l’appoggio di un vindex e poteva da sè negare il
debito affermato dall’attore ma con la conseguenza di subire la condanna l dobbio in caso di
soccombenza.
Ci furono poi altre legis actiones: la legis actio per pignoris capionem: esecutiva, nn richiedeva la
presenza nè del magistrato neanche dell’avversario e prevedeva che il creditore pronuniciasse la
certa verba e prendesse in possesso le cose appartenenti al debitore tenendole in pegno. C’era la
legis actio per iudicis arbitrive postulationem che era esperibile per crediti nascenti da stipulatio e
per la divisione dell’eredità o anche per la divisione di beni comuni. E il rito era molto simile a
quello della legis actio sacramenti in personam: le parti facevano riferimento alla fonte o causa e si
rivolgevano al pretore chiedendo la nomina di un giudice o arbitro. Poi c’era la legis actio per
condictionem, dichiarativa per i crediti aventi ad oggetti una somma determinata di denaro ed
estesa dopo anche agli oggetti. Nel procedimento l’attore affermava il proprio credito senza la
fontee il debitore doveva rispondere adempiendo in termini di oportere.
Nel processo legis actiones, erano presenti solamente i cittadini romani, ma con l’intensificarsi a
partire dal III secolo a.C. delle relazioni commerciali tra i romani e gli stranieri e con lo sviluppo
della società, c’era una forte esigenza di cambiare le strutture giuridiche processuali. Questo
attraverso l’inserimento dell’intervento del prteore urbano e la nascita lìdel processo formulare.
Ma presto si aggiunse anche un praetor peregrinus, con il compito di dicere ius tra cittadini romani
e stranieri oppure solo tra stranieri. Essendo via via ritenuto inadeguate, le legis actiones vennero
soppresse intorno al 130 a.C. e nel 17 a.C. le restanti legis actiones. La conseguenza fu che il
processo formulare andò a sotituire completamente le legis actiones e divenne poi il processo
privato onorario per tutta l’età classica.
Il processo formulare (che in realtà non inizia nel 17 a.C. ma bensì nel 242 a.C. con l’istituzione del
praetor peregrinus) aveva carattere unitario e si trattava pertanto di un solo procedimento
impiegato per le varie actiones: per ciascuna di esse era prevista una formula nell’editto: le azioni
di fatto erano tipiche ma erano talmente numerose che consentivano la tutela di pretese tra le più
di differenti per natura, origine e fondamento.
Il processo era aperto anche ai non cittadini ed era diviso in due parti: in iure e apud iudicem, con
funzioni analoghe a quelle del processo per legis actiones, ma con la differenza che in entrambi i
procedimenti, le parti erano ammesse ad esprimere liberamente le loro ragioni, senza alcun
formalismo. Inoltre, importante er anche la scrittura nel processo formulare: poichè infatti le
formulae erano redatte per iscritto, ed è un segno del più avanzato contesto culturale. Per di più il
ruolo del magistrato era più attivo e dinamico. Per assicurare la presenza dell’avversario si
provvedeva con un in ius vocatio che rimase un atto privato compiuto solamente dal’attore senza
la partecipazione di un organo pubblico, in cui l’attore invitava l’altra parte a seguirlo dinanzi al
magistrato. L’attore avrebbe dovuto precisare azione che intendeva promuovere e inoltre contro il
vocatus che si rifiutava di seguirlo, l’attore non avrebbe potuto ricorrere alla violenza. Alla in ius
vocatio si affiancò il vadimonium per cui accadde che si fece ricorso molto meno col tempo alla in
ius vocatio. Nonstante la struttura del vadimonium ci è in gran parte oscura, sappiamo che
comportasse che il convenuto attraverso la stipulatio, promettesse la sua presenzaa davanti al
magistrato il giorno concordato.
Il processo si apriva dunque con la prima parte in iure in cui venivano fissati i terini giuridici della
lite con la rsenza del convenuto e dell’attore. Il magistrato era in iuris dictio: pertanto aveva il
potere di stabilire il principio di diritto da valere nel caso concreto, ma ciò si esplicava soprattutto
attraverso la datio actionis; con cui il magistrato, approvato il testo della formula concordata dalle
parti, concedeva l’azione richiesta e dava il via libera ad ulteriore procedimento. In questo
processo i magistrati erano idue pretoriurbano e peregrino, l’edile curule e i governatori
provinciali. (tutti esercitavano giurisdizione sulla base di un editto). Dinanzi al pretore le parti
manifestavano le loro ragionie l’attore indicava all’avversario la formula dell’azione che intendeva
promuove facendo riferimento all’albo che riproduceva l’editto in cui erano contemplate le diverse
formule. E quindi l’attore indicava sotanzialmente le proprie pretese. Se il convenuto non le
avrebbe ammesse, avrebbe evuto luogo un dibattito informale, con la partecipazione del pretore
che poteva aggiungere obiezioni, repliche o eccezioni.
Infine il pretore avrebbe potuto convinversi che la pretesa da parte dell’attore fosse infondata e
allora procedere oltre sarebbe stato inutile, oppure che fosse fondata che pur fondata in diritto, in
relazione alle cose emerse durante il dibattito sarebbe stato iniquo preseguirlo. In questi due casi il
pretore avrebbe denegato l’azione e non ci sarebbe stato alcun seguito (la denegatio non era una
sentenza ed era pertanto senza effetti). Ma spesso accadeva invece che il pretore desse l’azione
con la datio actionis, attraverso la quale dava il via libera all’ulteriore procedimento. La datio
actionis presupponeva che le parti, avessero concordato il testo della formula : ovvero un breve
documento scritto in cui le parti indicavano inanzitutto il nome del giudice che averbbe emanato la
sentenza e assolto o condannato il convenuto a seconda che ritenesse vere oppure no le
circostanze scritte sulla formula.sostanzialmente nella formula erano indicsti i termini della
controversia determinanti per la decisione. Una volta che il pretore fosse stato d’accordo sul testo
della formula, compiva la datio actionis dando in questo modo la formula, azione richiesta e
autorizzando il procedimento sulla base di qeulla data formula . l’attore ne recitava il contenuto:
iudicium dictabat e il convenuto l’accettav: iudicium accipiebat. Questo fascio di atti volontari
costituiva la litis contestatio , presupposto indispensabile poichè era attraverso di essa che i
termini giuridici restavano fissati definitivamente e la formula no sarebbe più stata mutata. (la litis
contestatio non sarebbe più stata ripetuta infatti aveva essetti esclusori). Un altro effetto della litis
contestatio era quello conservativo: perchè con questa la pretesa dell’attore era messa al sicuro e
qualunque effetto successivo non l’avrebbe pregiudicata. Inoltre senza la litis contestatio, non
sarebbe stata possibile alcuna sentenza ed essa esigeva la partecipazione di entrambe le parti,
infatti senza la partecipazione del convenuto e senza quindi la defensio , il giudizio non avrebbe
avuto luogo e l’attore non avrebbe ottenuto alcuna sentenza. Poi se il convenuto avesse assunto
un atteggiamento passivo di non collaborazione all’istituzione della lite: indefensio, il pretore
avrebbe minacciato diverse e gravi in certi casi.
Ed è con la litis contestatio che si chiude la fase in iure e si apre la fase successiva apud iudicem
che aveva luogo dinanzi ad un giudice. Questo era un comune privato cittadini che riscuoteva la
fiducia di entrambe le parti: ibfatti era scelto dalle parti che si era precedentemente messe
d’accordo con il magistrato. Il giudice poteva essere una persona singola oppure organi giudicanti
collegiali (spesso 3): recuperatore, per i processi di maggiore rilievo come i giudizi di libertà, o
delitti gravi. Per la scelta dei giudici c’erano speciali liste, compilate sulla base di criteri politici. La
seconda parte di questo processo si svolgeva senza formalità e ciascuna part esponeva
liberamente le proprie ragioni. Nella scelta delle prove, non c’era alcun criterio rigido da dover
seguire e pertanto il giudice le avrebbe apprezzate secondo il proprio libero convincimento.
L’ultima fase dell’apud iudicem era la sentenza di condanna o di asssoluzione del convenuto e mai
dell’attore: si trattava di una sentenza definitiva in quanto senza appello. La sentenza di condanna
era sempre espressa in denaro e dava luogo alla obligatio iudicati: l’attore vittorioso avrebbe
potuto procedere contro l’avversario che non vi si adeguasse con l’actio iudicati.
La formula era composta di diverse parti: la nomina del giudice inanzitutto e dopodichè le quattro
parti ordinarie: intentio, demonstratio, condemnatio e adiudicatio. Ma non tutte queste erano
necessarie. Inanzitutto l’intentionon poteva mancare: esprimeva la pretesa dell’attore e la ragione
fatta valere pertanto.caratterizzava la formula denunciandone la natura e consentendo, quando
non c’era la demonstratio, di stabilire il tipo di azione.
La demonstratio indicava la causa o fonte e i motivi per l’attore aveva dato vita ad una azione. Non
era necessaria all’interno della formula. Erano infatti presenti delle formule più astratte in cui la
demonstratio non era presente e la causa non espressa quindi. La demonstratio era espressa
prima della intetio e iniziava con il termine quod (poichè).
L’intentio poteva essere certa o incerta: certa quando la pretesa dell’attore era determinata,
incerta in tutti gli altri casi. Quando la c’era una demonstratio, era sempre incerta l’intentio e
indicava e indicava tutto quello che il convenuto doveva fare all’attore. Inoltre l’attore avrebbe
anche potuto chiedere un pluris petitio(domanda di qualcosa di più), con la conseguenza di
perdere la lite. Nel caso in cui Giovanni fosse stato creditore di 90 e non di 100: se avesse chiesto
ed ottenuto di procedere con una formula che avesse come intentio quella di 100, il giudice, dal
momento in cui il suo credito non era di 100, avrebbe dovuto assolvere il convenuto e rigettare
l’azione(=logica formulare) e in questo modo l’attore averbbe perso la lite. Ma nel caso in cui
avesse chiesto di meno (minoris petitio) di quello che effettivamente gli sarebbe dovuto spettare,
e avesse vinto la lite, avrebbe ricevuto lo stesso richiesto.
La condemnatio era la parte nella quale si invitava il giudice a condannare il convenuto se
sussistevano le prove presenti nella formula , altrimenti ad asssolverlo. Ma questa era diversa dalla
sentenza di condanna, anch’essa chiamata condemnatio, ma collegate. Infatti la formula avrebbe
dovuto specificare l’oggetto della sentenza e i termini della condemnatio formulare non sarebbe
stati espressi in denaro: questo perchè il processo esecutivo contro il convenuto cndannato e
inadempiente presupponeva un debito espresso in una somma determinata di denaro. Talvolta
c’era anche un limite alla condanna pecuniaria: la condemnatio integrata da una taxatio in modo
tale che nessun convenuto dovesse essere condannato oltre una certa misura.
E poi c’era l’adiudicatio: presente solo nelle formule di azioni diverse, per il regolamento di confini
e autorizzava il giudice ai partecipanti alla comunioni o quelli confinanti delle parti definite.
La praescriptio non era propriamente una parte presente della formula, poichè era scritta nella
iudicis nominatio. Per comprenderne il significato occore focalizzarsi nel caso particolare in cui la
formula avesse una intentio incerta, con cui il creditore avesse dedotto in giudizio tutto ci che gli
era dovuto in dipendenza di quanto specificato nella demonstratio. E quindi come conseguenza si
aveva che il creditore-attore noon avrebbe più potut ripere l’azione per lo stesso credito, in modo
frazionabilee perseguita tramite un’unica azione. Si trattava di un rimedio che giovava all’attore.
Invece l’exceptio era un rimedio a favore del convenuto e si trovava inserita dopo l’intentio ed era
una condizione negativa della condanna : il giudice avrebbe condannato il convenuto solo se le
circostanze presenti nell’exceptio non risultassero vere, altrimenti l’avrebbe assolto. Essa veniva
inserita nella formula sotto richiesta del convenuto e la sua funzione era analoga a quella della
denegatio actionis (la differezan era che questa impediva lo svolgimento del processo). Ma non
ogni difesa del convenuto era exceptio, infatti il convenuto poteva dire “ non è vero”, non avrebbe
opposto nulla in senso formulare , ma avrebbe solamnete negatio l’intentio, non modificando la
formula. Invece l’exceptio era necessaria una volta che, senza di essa, il giudice non avrebbe
potuto tenere conto di fatti che si voleva che venissero tenuti in considerazione (riguardavano le
frasi come: è vero ma, ammettiamo che sia vero, tuttavia).
Si parla di ipso iure: effetto automaticoe di ius civile di cui il giudice poteva e doveva tenere in
considerazione pure se non fosse stato menzionato nella formule, viceversa si parla di ope
exceptionis quando per farli valere bisognava opporre l’exceptio.
L’exceptio era in realtà un rimedio prerio, poichè escogitata da lui e di norma rappresentava un
mezzo di attuazione dell’equità pretoria, e un rimedio volto a correggere il ius civile quale la sua
applicazione appariva iniqua. Poteva anche accadere che, dopo la risposta dell’attore all’exceptio,
esso fosse considerato iniquo e quindi nella formula si inseriva una replicatio dop l’exceptio in
modo tale che il giudice non avrebbe dovuto tenere in considerazione l’e., se infondata.
Affianco alla legis sacrementum in rem e in personam, se ne affiancano altre più semplici senza il
sacramentum ma con la presenza di entrambe le parti e con la presenza di entrambe le parto: in
iure e apud iudicem. Questo ha come conseguenza la laicizzazione del processo: la legis actio per
manus iniectionem: aveva carattere esecutivo e veniva utilizzata nel caso il convenuto non avesse
pagato una somma di denaro (debitore) o se non avesse presentato un determinato
comportamento( prestazione). Allora l’attore se sarebbe rivolto al magistrato per un’azione
esecutiva e il magistrato avrebbe potuto riconoscere valido l’uso della legis presentata in presenza
del convenuto anche attraverso l’uso della forza (a differenza della ius vocatio) e la richiesta
avrebbe, nel caso in cui il convenuto non avesse adempiuto, dato avvio alla sentenza di condanna
con la possibilità dell’attore di portare con sé il convenuto. Ma il convenuto aveva la possibilità di
chiedere ad un soggetto esterno alla causa di pagare il suo debito: un vindex o garante visto come
una sorta di liberatore (spesso si trattava di un amico del convenuto), altrimenti l’attore avrebbe
portato il convenuto in 3 mercati chiedendo di pagare il suo debito, e se nessuno l’avesse fatto per
lui, il debitore poteva anche essere ucciso e il suo corpo ripartito nel caso in cui ci fossero stati più
creditori, oppure essere venduto come schiavo fuori Roma. Ma in ogni cado il convenuto anche
senza l’aiuto del vindex avrebbe anche potuto negare il debito affermato dall’attore, con la
conseguenza di subìre il doppio della condanna in caso di soccombenza.
Le azioni poteva essere classificate in più modi: c’erano le azioni civili e le azioni pretorie o
onorarie. Le azioni civili erano fondate sul ius civile e quelle onorarie fondate sul diritto onorario,
e la classificazione aveva lo scopo di stabilire più agevolmente l’intentio della formula, nel caso in
cui la pretesa facesse parte del ius civile o meno. Infatti sappiamo che quelle che appartenevano al
ius civile erano le affermazioni di appartenenza a ex iure Quiritium, di spettanza di uno ius, di
obbligazioni espresse tramite l’oportere. Per quanto riguarda le zioni fondate sullo ius civile, era
sufficiente che l’editto del pretore le contemplasse, invece le zioni pretorie dovevano essere poste
in apposite clausole contenuto nello stesso editto. Tra le zioni civile troviamo i iudicia bonae fidei:
il dovere giuridico del debitore di adempiere era espresso tramite oportere bonae fidei, che
tutelava inoltre anche i non cittadini ed erano azioni in personam che avevano la formula
composta dalla demonstratio, intentio e condemnatio. L’intentio era incerta e si presentava sotto
forma appunto di oportere ex fide bona. Quindi il giudice era tenuto a stabile quali fossero gli
obblighi a carico del convenuto secondo dei criteri di buona fede: ovvero correttezza nella vita
relazionale, il giudice doveva pertanto interpretare la formula con un ‘ampiezza di giudizio
maggiore rispetto alle azioni in personam. Nelle azioni civili in cui il dovere giuridico non era
espresso tramite oportere ex fide bona, ma oportere semplice erano i iudicia stricta: giudizi di
stretto diritto. Invece per quanto riguarda i iucia banae fidei erano ad esempio: i 4 contratti
consensuali: compravendita, locazione, società e mandato.
Invece per quanto riguarda le azioni pretorie potevano essere considerate utiles o in factum, e si
trattava in ogni caso di rimediare ad alcune lacune del ius civile poiché di fatto tutelavano dei
rapporti iure civili non specificamente tutelati dal ius civile. Avevano pertanto la stessa funzione
ma una struttura diversa: nelle azioni utili non mancava il riferimento allo ius civile perché si
trattava prettamente di un estensione del ius civile (anche nelle azioni con trasposizione di
soggetti), mentre invece nelle azioni in factum, si prescindeva del tutto dal ius civile invitando il
giudice a condannare o assolvere a seconda che certi comportamenti avessero avuto luogo o
meno. Inoltre le azioni utiles, poteva applicare un estensione dello ius civile in più modalità: la più
nota era la fictio: da cui nascono le actiones ficticiae, nella cui intentio il giudice era tenuto a
giudicare sulla base una “finzione giuridica”, ovvero come se esistesse un elemento o una
circostanza mancanti ma che secondo il ius civile sarebbero stati necessari per dare luogo ad una
situazione riconosciuta e tutelata. Nelle azioni con trasposizione di soggetti invece era diverso: per
dare modo al giudice di condannare il convenuto nonostante il difetto, nell’attore di legittimazione
attiva e nel convenuto di legittimazione passiva , si indicava nell’intentio il nome del soggetto
legittimato che non avrebbe partecipato al giudizio e nella condemnatio il nome del soggetto che
stava in giudizio al posto del legittimato.
Dopodiché, un’altra classificazione è quella delle azioni in rem e quelle in personam, da cui deriva
la distinzione tra diritti reali e dirtti di credito. Infatti nelle azioni reali, c’è lo scopo, nell’intentio
della formula, d verificare che effettivamente la cosa per cui si controverte spetti all’attore, tramite
un diritto assoluto e non un diritto verso un’altra persona determinata e quindi nell’intentio c’era
solamente il nome dell’attore e quello del convenuto e di nuovo dell’attore comparivano poi di
nuovo nella condemnatio. Inoltre questo avveniva anche perché la persona del convenuto non era
definita a priori ma al momento dell’azione, o meglio al momento della litis contestatio. Mentre
invece , per quanto riguarda le azioni in personam, l’attore si afferma creditore ed assume che
l’avversario è tenuto verso di lui ad un certo comportamento e quindi la pretesa dell’attore è
specifica verso una persona determinata, e il suo nome compariva insieme a quello dell’attore già
nell’intentio. Le azioni reali e in personam si differenziavano anche per quanto riguarda il regime
processuale: l’indefensio in particolare. Infatti, durante la fase della litis contestatio, se il
convenuto non avesse collaborato al processo, nella azioni n personam è più grave, può subire la
missio in bona: mancata comparizione a giudizio , con la quale si prospetta un male superiore: si
dava la possibilità, nel caso in cui il convenuto avesse rifiutato la defensio, a dare corso
all’esecuzione sulla persona autorizzando l’attore a trascinare presso di sé il convenuto e tenerselo
in stato di assoggettamento. Opppure alla missio in possessionem: esecuzione patrimoniale e
autorizzare l’attore a prendere possesso di tutti i beni del convenuto. Invece per quanto riguarda
le azioni in rem, il convenuto era obbligato alla translatio possessionis: trasferimento del possesso
tramite il quale il convenuto deve fare il trasferimento del bene. E infine erano diversi anche per
quanto riguarda gli effetti preclusivi della litis contestatio: infatti nelle azioni in personam si
consideravano i iudicia legittima : azioni svolte a Roma tra cittadini romani di fronte ad un giudice
unico e l’effetto si sarebbe proposto ipso iure (secondo lo ius civile), in tutti gli altri casi l’effetto
veniva fatto valere secondo un’esecuzione: ipotizzando che il primo processo non avesse avuto
sentenza ma fosse terminato alla litis contestatio.
Dopo abbiamo le azioni arbitrarie, la cui formula conteneva una particolare clausola , per cui il
giudice, dopo aver verificato l’intentio prima di procedere alla condanna pecuniaria, avrebbe
dovuto domandare di restituire e condannarlo solamente in caso di mancata restituzione. Questa
clausola arbitraria comportava dunque un obbligo per il giudice: dopo la fase in iure, se il
convenuto cede la cosa controversa il giudice è obbligato ad assolverlo, altrimenti il giudice è
tenuto a deferire il giuramento sul valore della lite all’attore (tu attore sulla base di questa lite,
dimmi quale valore ne dai, e lui avrebbe sovrastimato il valore ovviamente). Per quanto riguarda
questo punto si ha un’estensione prima ai iudicia in buona fede e poi anche a quelli di stretto
diritto, fino ad arrivare ad avere tutti i giudizi assolutori.
Un’altra distinzione era quella tra le azioni penali e quelle reipersecutorie: le prime erano volte a
perseguire una pena nei confronti dell’attore, di un illecito; sempre in ambito privato, infatti si
discorre di illeciti privati: delitti (delicta) e si tratta di azioni in personam e avevano una funzione
afflittiva o punitiva, con una pena che poteva essere corporale o pecuniaria: ma nel processo
formulare la pena era sempre pecuniaria. Invece con le azioni reipersecutorie si sta facendo
riferimento a delle azioni che erano volte a persegurie una reintegrazione patrimoniale in ottica
risarcitoria (l’attore viene pagato come se un danno non fosse mai stato commesso). Le differenze
tra queste due tipologie di azioni sono che le azioni pensali era sempre in personam poiché
comprendevano un vincolo obbligatorio mentre invece quelle reipersecutorie potevano essere sia
in rem che in personam. Le penali sono intrasmissibili (esercitato o subito dall’erede) dal lato
passivo , ovvero dall’erede del convenuto mentre le altre sono trasmissibili sia dal lato attivo che
passivo. Le azioni penali si possono cumulare (quando sono presenti più soggetti che hanno
commesso lo stesso illecito) tra loro anche con una reipersecutorie, mentre quelle reipersecutorie
non si possono cumulare tra di loro. Inoltre le azioni penali sono nossali (ad esempio gli schavi
erano soggetti privi di diritto giuridico), mentre quelle reipersecutorie ce n’è solamente una
nossale. La nossalità prevedeva che quando un illlecito viene fatto da uno schiavo, la vittima agisce
secondo l’azione penale contro il proprietario dello schiavo, ma ha la possibilità di liberarsi dal
pagamento della lite, dando a nossa lo schiavo: cedendo lo schiavo alla vittima dell’illecito, senza
la possibilità di rifiuto. Con il tempo, e con l’avvio del principato si ha una depenalizzazione del
diritto penale, in particolare riguardo all’intrasmissibilità passiva, si ammettono deroghe sempre
più ampie al principio di cumulo tra azioni penali e reipersecutorie, e cade il principio di nossalità
rispetto ai filii familias: che rispondevano direttamente degli illeciti commessi, durante il periodo
post classico, ma viene invece mantenuto ancora per gli schiavi. Nelle azioni penali, la pena era
quasi sempre espressa nella condmnatio secondo un importo maggiore rispetto al pregiudizio
subito dalla vittima e più spesso si trattava di un multiplo; la giurisprudenza cominciò a
distinguere, nella condemnatio con la paena in un multiplo, una parte simplum corrispondente al
pregiudizio subito dall’attore che venne considerato a titolo di risarcimento, dal resto che venne
considerato a titolo di pena. Un esempio è qquello dell’actio vi bonorum raptorum: dato all’autore
di una rapina nella misura del quadruplo del valore della cosa sottratta: l’azione era chiamata
mista perché comprendeva il simplum: il valore della cosa come risarcimento , in più il triplo del
valore. Inoltre un altro fenomeno fu quello dei crimina: comportamenti sanzionati da azioni penali
private nell’ambito del iudica publica.
Pper l’esecuzione della sentenza occorreva l’actio iudicati: un actio in personam che aveva come
presupposti il fatto di essere espressa in denaro con conseguente obligatio iudicati, e il fatto che il
debitore entro 30 giorni non avesse adempiuto. Dopo l’avvio della fase in iure se il convenuto
riconosceva di essere tenuto, il pretore dava avvio all’esecuzione, ma il convenuto aveva anche la
possibilità di negare l’esistenza dei presupposti dell’actio iudicati: dicendo che non vi era stata
alcuna valida sentenza di condanna ai suoi danni, dicendo di aver adempiuto o dicendo che i
termini dell’adempimento non fossero ancor trascorsi, portando così ad un accertamento. Ma in
caso di contestazione infondata, il convenuto sarebbe stata sottoposto alla condanna al dobbio:
infitiatio.
Per quanto riguarda l’esecuzione essa poteva essere personale o patrimoniale: quella personale
riguardava la legis actio per manus iniectionem ma con delle semplificazioni e temperamenti. E a
questo punto il creditore avrebbe potuto condurre con sé il debitore nelle proprie carceri e tenerlo
in assoggettamento fino a quando altri non lo avessero riscattato o fino a quando il debitore si
fosse riscattato tramite il suo lavoro. L’alternativa era la sentenza patrimoniale che culminava nella
bonorum venditio: si iniziava con una missi in bona , possesso dei beni del convenuto, che aveva la
funzione di custodia e di conservazione e contemporanea ad essa il pretore disponeva la
prosciptio con cui eventuali creditori avrebbero potuto intervenire attraverso una procedura
consensuale. Ma, dopo trenta giorni dalla presciptio, se il creditore che aveva dato impulso
all’esecuzione fosse stato soddisfatto, il debitore veniva definito infame. Dopo la prescriptio, il
pretore avrebbe poi potuto nominare un curator bonorum che avrebbe potuto gestire in via
provvisoria il patrimonio del debitore. I creditori si preparavano a designare un magister bonorum
che preparava la vendita all’asta dei beni del debitore e dopo l’approvazione del pretore si
sarebbe acquistato tutto in blocco. L’acquirente era chiamato bonorum emptor che avrebbe
pagato subito la percentuale offerta al creditore che aveva promosso l’actio iudicati e avrebbe
anche pagato la stessa percentuale per quanto preteso dagli altri creditori i cui crediti egli non
contestava. Invece per gli altri debiti poteva essere convenuto in giudizio con azioni nella cui
formula la condemnatio veniva limitata con una taxati, e recuperare così i beni del debitore di cui
non avesse ottenuto il possesso ed eseigere ulteriori creditit. Possiamo dire che il bonorum
emptor subentrava nel momento in cui il debtore aveva subito la bonorum venditio, alla stregua di
un successore universale. La bonorum venditio era estranea allo ius civile, e non rientrava
almenochè il bonorum emptor non fosse divenuto proprietario iure civili dei beni del debitore.
Ma si poteva anche dar luogo a procedure esecutive senza un indicatum, a prescindere
dell’esercizio dell’actio iudicati.
Si consentì ance alla cessio bonorum , ovvero la cessione volontaria di tutto il patrimonio ai
creditori, senza giungere alla esecuzione o infamia.
Nell’ambito del processo formulare, l pretore apportava alcuni rimedi, in tre direzioni: adiuvndi vel
supplendi vel corrigendi iuris civilis gratia, e rientravano qui la denegatio actionis, l’exceptio, le
actiones utile, quelle con trasposizione di soggetti e le actiones in factum.
Si parla inoltre di interdicta: ordini processuali che vietavano determinati comportamenti, e
venivano quasi sempre emessi da un privato contro un altro privato e potevano essere
prohibitoria, restitutoria e exhibitoria.. essi erano considerati ordini condizionati poiché erano il
risultato dei presupposti piuttosto articolati fatti dal pretore che avevano come conseguenza la
conclusione del processo. Tra i rimedi pretori troviamo ad esempio la in integrum restitutio: per
correggere il ius civile per motivi di equità . in ogni caso il pretore non avrebbe mai potuto rendere
nulli gli effetti giuridici già iure civile : ma bensì concedeva all’occorrenza la possibilità di
neutralissare degli effetti pur senza annullarsi formalmente (in integrum restitutio). Invce le
cautiones e le stipulationes praetoriae erano dei rimedi pretori per colmare alcune lacune del ius
civile. L’obbligo sarebbe poi stato anche riconosciuto iure civile.
Le missionem in possessionm erano disposte dal pretore per postulatio con decretum per
l’accertamento dei presupposti dell’interessato. Ma solitamente il missus non acquistava il
possesso ma la semplice detenzione.
Il processo formulare fu definitivamente abolito essendo venuta meno l’attività pretoria, dai figli di
Costantino. Ma non fu buttata via la ricca elaborazione concettuale compiuta dalla giurisprudenza
e fu pertanto inserita nel nuovo processo. Augusto riconobbe il valore giuridico ai fedecommessi
ed era l’imperatore a stabilire la competenza dei consoli: fu il primo caso di cognitio extra
ordinem, per cui si fece riferimento ad un tipo di processo che non era né per legis actiones né un
processo formulare. La conseguenza fu poi i furono anche altri organi competenti nel tempo
diversi dai precedenti: ci fu nelle provincia i governatori : magistrati repubblicani e funzionari
direttamente nominati o dipendenti del principe. Il princeps interveniva nei giudizi privati, e spesso
decideva in prima istanza che anche in corte si appello. In età classica altri organi giudicanti di
appello furono il Senato: il praefectus praetorio e il praefectus urbi. Nella chiamata in giudizio
interveniva un organo pubblico e non più privato e il convenuto che non si fosse presentato in
udienza dopo essere stato chiamato sarebbe stato chiamato contumace : nono obbediente ad un
invito di ordine pubblico e il giudizio si sarebbe svolto senza la sua presenza, e non sarebbe per
forza stato considerato colpevole.il processo non era più diviso in due parti: in iure e apud iudicem
ma si svolgeva tutto di fronte ad un unico organo pubblico che avrebbe avuto l’ordine di emanare
la sentenza, senza alcuna litis contestatio. Questo tipo di processo era quindi fondato sempre
sull’apprezzamento del giudice sia per quanto riguarda il merito della lite, sia la conduzione del
procedimento, e non c’era alcun formalismo presente in questa procedura. Quanto alla sentenza
sarebbe stata espressa o in denaro o in esecuzione forzosa.
Con gli inizi dell’età postclassica avviene un annullamento totale riguardo all’utilizzo delle formule
prende avvio un processo unico definitivamente. Ed è in questo momento che gli organi territoriali
diventano anche organi competenti a livello giudiziario per quanto riguarda il primo grado, o
l’appello a seconda dell’ordine gerarchico. Ma al vertice della gerarchia c’era limoeratore che
decideva l’ultima istanza. Invece per quanto riguarda gli orientamente, i principi e le regole si
trasmisero al processo post classico e a quello giustinianeo. Il procedimento si irrigidisce col
tempo: il legislatore tende a non dare tanto spazio all’esercizio di poteri discrezionali da parte dei
giudici. Ma le parti hanno modo di parlare e difendere le proprie ragioni in più momenti del
processo, perchè il punto da decidere non si trova più cristallizzato in una formula definita da una
litis contestatio. Per moltissimi atti giudiziari venogno prescritti documenti scritti e un’altra novità
è che sulle parti si gravano spese giudiziare mai considerate prima d’ora. Vennero abolite le carceri
private, ma l’esecuzione personale per i debiti non scomparve.
Inoltre strumenti e principi formulari vennero adattati al nuovo processo, attraverso sviluppi
ulteriori che permisero l’assenza definitiva dei tecnicismi formulari. Ad esempio l ‘exceptio poteva
essere utilizzata non solo per escludere la condanna ma anche per ridurre la pena. Con la
scomparsa della fgura del pretore, non ci fu neanche più la distinzione tra le azioni civili e le azioni
pretorie, tuttavia rimase la distinzione tra le azioni di buona fede e di stretto diritto, ma con un
incremento per quanto riguarda l’elenco. Alle azioni di buona fede vennero affiancate quelle
arbitrarie e ne fu ampliato il numer. La tipicità delle actiones e degli altri mezzi processuali rimase
nominalmente ma perse valore in sostanza, dal momento che molte azioni presero un carattere
più generale.
Possiamo dire che vennero meno le formule, le differenze strutturali tra le singole actiones; tutte
le elaborazioni che erano state oggetto del processo che però si svincolavano dal processo
diventano materia di diritto sostanziale, che deve pertanto essere preso in considerazione a
prescindere da quella processuale. Per di più emerge la tendenza di proprospettare il diritto
soggettivo indipendentemente dall’actio corrispondente. Si può dire inoltre che il processo e il
diritto sostanziale che prima erano saldamente legati e connessi, si staccarno e divennero
rispettivamente oggetto di discipline separate.

GLI ATTI NEGOZIALI


Per fatto giuridico si intende ogni evento, volontario e non, che incidendo sulla realtà giuridica, dà
luogo ad una situazione giuridia nuova oppure alla modificazione o estinziome di situazioni
giuridiche già preesistenti: ovvero ogni eventi in grado di produrre effetti giuridici. È opportuno ora
fare una distinzione tra fatti giuridici volontari e involontari: infatti i fatti involontari si verificano
anche senza la volontà dell’uomo e si definiscono fatti naturali: avvengono per calamità naturali o
per decorso del tempo ad esempio. Per fatti giuridic volontari invece si intendono quelle azioni
umane giuridicamente rilevanti in quanto tali, e vengono genericanete definiti atti giuridici. Essi si
possono poi distinguere tra atti giuridici leciti e illeciti. I primi sono consentiti dall’ordinamento,
mentre i secondi no. Per quanto riguarda gli atti giuridici leciti si suole parlare di negozi giuridici,
ovvero manifestazioni di volontà da parte di privati dirette al conseguimento di risultati pratici
giuridicamente definibili in termini di acquisto, perdita o modificazione di situazioni giuridiche già
esistenti (soprattutto diritti soggettivi). Si tratta in qeutso caso di categforie giuridiche che fanno
parte della dottrina moderna, soprattutto dalla Pandettistica in germania nel XIX secolo. E sono
anche soggetto a continua revisione e precisazione: il loro schema è anche oggetto di numerose
contestazioni.
Poi tra i fatti giuridici troviamo anche gli atti illeciti: fatti giuridici volontari vietati dall’ordinamento
giuridico. In questo caso si parla di obbliagzioni e la loro conseguenze o effetto è quello
dell’appplicazione di una sanzione a carico dell’autore e si tratta di un atto voluto, ma di
consenguenze giuricìdiche non volute.
I negozi giuridici sono fatto giuridici volontari e si tratta in questo caso di atti leciti i cui effetti sono
di norma e di sostanza gli stessi voluti dall’utori o autori dell’atto. Nonostante sia assene nelle fonti
romne il concetto di negozi giuridici, è vero che in realtà molti atti rientravano nello stesso schema
proposto dai negozi giuridici. Nonostante ciò, non accadde che si riconoscessero effetti giuridici ad
ogni atto lecito, come a proposito di actiones, il criterio era quello della tipicità e ogni “negozio”
aveva una sua struttura e regime.
Si è anche soliti distinguere nella struttura dei negozi giuridici, tra gli elementi essenziali, naturali e
accidentali. Sono detti essenziali quegli elementi strutturali fondamentali nel negozio giuridico. In
tutti i negozi è fondamentale la manifestazione di volontà che deve pertato riguardare i soggetti
che sono capaci di agire e legittimati a compiere il negozio. La capacità di agire corrisponde alla
capacità intellettuale e per legittimazione si intende l’idoneità a far nascere un negozio in relazone
agli effetti che esso è destinato a produrre. Alcuni elementi del negozio g. Sono essenziali sono in
certi casi: nei negozi formali è mecessaria l’adozione di una forma, in quelli causa di una causa. Poi
ci sono gli elementi naturali, effetti, conseguenti automaticamente al negozio pure nel silenzio
delle parti e potrannno con patto contrario escluderli. Invece si dicono accidentali, quelle clausole
non essenziali che non sono prprie dei singoli tipi negoziali ma che possono esere esplicitamente
espressi e inseriti dalle parti. (condizione, termine e modus)
Si parla di negozio guiridico invalido quando presenta un difetto intrinseco in uno dei suoi elemnti,
mentre invece si dice inefficace un negozio che non produce effetti. La dttrina moderna distingue
pi tipi di invalidità: invalidità di nullità o di annullabilità: un negozio nullo è un negozio che ,per
difetto di uno più elementi essenziali non produce i suoi effetti e pertanti si dice che nasce morto;
una sentenza di nullità sarà dichiarativa. Inve esi dice annullabile una negozio che presenta dei vizi
meno gravi e quiindi nasce vivo di fatto ma è come se fosse ammalato e quindi potrà essere
annullato e non produrrà alcun effetto, diventando così inefficace.per quanto riguarda il concetto
di nullità, esso deriva dalle fonti romane, mentre invece quello di annullabilità no, ne deriva
solamente.
Molto spesso la nullità di un negozio avviene perché è avvenuta una violazione di una norma
giuridica, ma non sempre la nullità comporta il fatto che ci sia stata una violazione. Bisogna fare in
merito a ciò, una classificazione per quanto riguarda le leges: leges perfectae che stabiliscono un
divieto e insieme anche la nullità dell’atto compiuto nonostante il divieto, le leges minus quam
perfectae che stabilivano un divieto ed una sanzione ai trasgressori senza sancire anche la nullità,
le leges imperfectae: che stabilivano un divieto senza nullità o sanzione.
I negozi giuridici possono essere classificati così: i negozi formali: nei quali la volontà deve ssere
manifestata in una determinata forma e quindi la forma scritta è essenziale; e i negozi non formali
in cui la forma scritta non è essenziale e tantomeno lo è la volontà, che può essere espressa
liberamente. Poi ci sono i negozi causali, nei quali la causa determina la struttura del negozio; e i
negozi astratti in cui la causa non emerge dalla struttura e gli effetti negoziali si producono
indipendentemente da essa. I negozi unilaterali si chiamano così quando avviene la
manifestazione di volontà solo da una parte come ad esempio il testamento, i negozi bilaterali da
due parti come i contratti e i negozi plurilaterali, in cui convergono manifestazioni di più parti
come la societas.
Ogni parte che compone un negozio rappresenta un centro di interessi, e per parte in questo caso
si intende la persona, ma nel diritto romano era comune che si intendessero più persone, quando
più persone sono portatrici di interessi identici.
I negozi possono essere a titolo oneroso, quando sono bilaterali e ciascuna parte consegue un
vantaggio dietro corrispettivo come la compravendita, invece nei contratti a titolo gratuito una
parte o il destinatario consegue un vantaggio senza corrispettivo come il comodato (rientrano qui
gli atti di liberalità).
Ci sono i negozi inter vivos che sono la maggior parte e sono i negozi che producono effetti in vita
dei soggetti che partecipano ai negozi, e i negozi mortis causa che producono effetti dopo la morte
del loro autore, come le disposizioni testamentarie. Per quanto riguarda gli effetti, si parla di effetti
reali o obbligatori: i primi (mancipatio, in iure cessio, traditio) riguardano il trasferimento di
proprietà o la costituzione o estinzione di diritti reali limitati, invece gli altri riguardano perlopiù la
nascita o l’estinzione di obbligazioni. Questa distinzione era più importante per il diritto romano,
poiché gli effetti reali erano diversi rispetto a quelli che davano luogo alle obbligazioni.
I negozi, o atti dispositivi sono atti in forza dei quali taluno aliena estingue o comprime il suo diritto
, e si tratta di quelli che hanno effetti reali e ci sono anche la rinunzia ad un credito e
l’affrancazione di un servo. Invece i negozi fiduciari, sono i negozi in cui le parti stringono un’intesa
che una volta attuata consentirà di realizzare lo scopo e sono ad esempio l’adoptio, la emancipatio
e il contratto di fiducia.
Dato che ogni negozio è la manifestazione di una o più volontà, possiamo dire che la volontà non
basta, ma deve essere manifestata e palesarsi nel mondo esterno, in alcuni casi , negozi non
formali, si po' manifestare liberamente, mentre in alcuni caso, negozi formali, va manifestata
attraverso una forma determinata.
I negozi formali riguardano i negozi dell’antico ius civile e richiedevano all’epoca una formula
precisa orale: certa verba e talvolta anche il compimento di alcuni gesti predeterminati. Infatti le
forme negoziali dell’età arcaica non erano solamente un involucro esterno, ma bensì esprimevano
di sé i contenuti dei negozi che con esse realizzavano , tramite una sorta di formalismo interno,
che comportava, in caso di mancata adozione di quelle forme, la nullità. La maggior parte di negozi
formali troviamo la mancipatio o la iure cessio.
La manicipatio, prettamente simbolica che inizialmente era un negozio causale e poi divenne
astratto con lo scopo di poter essere applicata ad un numero di cause sempre maggiori e diverse
tra di loro( inizialmente roguarda la vendita in contanti ritualizzandola), riguarda prettamente i
mores ed era quindi un negozio risalente allo ius Quiritium e quindi allo ius civile, fruibile quindi
dai solo cittadini romani. Essa si compiva con il rame o il bronzo (aes) e con la bilancia (libra) e
avevano un senso poiché una parte conseguiva un vantaggio pronunciando determinate parole
dall’impiego della bilancia e del rame o bronzo che veniva pesato di fronte a cinque cittadini
romani come testimoni e un altro cittadino: il libripens che avrebbe dovuto reggere la bilancia e
pesare il metallo. Tra le parti presenti c’erano: il mancipante o mancipio dans e il mancipio
accipiens. E la mancipatio consentiva l’acquisto di un potere su persone o cose in favore del
mancipio accipiens e la perdita da parte del mancipio dans. Essa veniva utilizzata per quanto
riguarda il trasferimento di proprietà in termini di appartenenza ma era utilizzata molto più spesso
in servitù rustiche o per l’acquisto della manus sulla donna o l’acquisto dei filii familias. Era
pragmatico l’impiego della mancipatio per quanto riguarda l’acquisto su suolo italico di schiavi,
animali da tiro o da soma considerati tutti res mancipi. Infatti se si fosse trattato di un suolo, o
terreno era sufficiente portare anche solo una parte simbolica del terreno e anche il prezzo di fatto
poteva essere prettamente simbolico (ovvero sganciato dal valore di mercato). Questo stava a
significare che di fatto non si trattava pienamente di un prezzo ma bensì di un elemente facente
parte di un rito e come tale doveva essere presente. Si poteva inoltrre capire se si stava facendo
una vendita oppure una donazione in base a quanto si metteva sopra la biancia( attraverso il
prezzo simbolico, una sola moneta magari). Infatti se a dover essere mancipato era uno schiavo si
procedeva in questo modo: il mancipio accipiens teneva lo schiavo e poneva sulla bilancia il
metallo che il libripens avrebbe pesato e che il mancipio accipiens avrebbe consegnato al mancipio
dans. Per effetto, acquistava così la proprietà sullo schiavo. Ma la mancipatio oltre alla proprietà,
trasferiva anche il possesso? In realtà la mancipatio di bei mobili si, invece quella di ben immobili,
come sugli schiavi o sugli animali, no, infatti occorreva che il mancipio dans ne facesse
ulteriormente consegna. Ma a noi appare uno scambio abbastanza immediato e quindi un atto che
si realizza tramite una vendita.
Successivamente, con il riconoscimento del contratto consensuale di compravendita con effetti
solo obbligatori, la mancipatio perdette la funzione di vendita. Ma, fu definita imaginaria venditio(
divenne poi una formula) e ne mantenne struttura ed effetti reali, ma non era più una vendita che
cominciava a diventare un negozio a parte che si perfezionava col solo consenso. La mancipatio
invece divenne un negozio astratto che produceva effetti a prescindere dalla causa. Il formulario
della mancipatio poteva essere integrato da leges mancipii o dalla leges mancipio dictae. Ad
esempio una lex manicpii era la exceptio servitutis con la quale il proprietario di due fondi avrebbe
potuto alienarne uno costituendo così la servitù a favore del fondo che tratteneva e a carico di
quello alienato. Ma essa scomparve del tutto con l’arrivo di Giustiniano.
La in iure cessio era un altro negozio formale e solenne , sempre del ius civile e poteva essere
utilizzato per il trasferimento del dominium su res mancipi e nec mancipi per la costituzione e
rinunzia di servitù prediali e usufrutto, acquisto di patria potestas, adoptio e cessione di tutela
mulieris. Non si trattava ssolutamente di una compravendita, infatti non era presente nessun
prezzo. Nonstante ciò riguardava un modo di acquisto della proprietàe richiedeva la presenza di
un magistrato, infatti lettrealmente significava: cessione che avviene in tribunale( fase in iure)) non
riguardava quindi il fatto che fosse nata magari una sorta di cntroversia, ma la presenza del
magistrato era necessaria in ogni caso poichè spesso il trasferimento di proprietà era un’attività di
un cero rilievo e aveva effetti patrimoniali considerevoli. (era un negozio-affare). Aveva una forma
imposta: si compiva in iure, dinanzi ad un magistrato con iuris dictio e le parti presenti erano il
cedente ed il cessionario. Quando l’atto aveva ad oggetto uno schiavo sul quale il cedere voleva
trasferire al cessionario il trasferimento o la proprietà, il cessionario tenendo lo schiavo
pronunciava la vindicatoria (dico che questo uomo è mio) a questo punto il pretore avrebbe
interrogato il cedente se intendeva controvindicare e di fronte al suo diniego o silenzio avrebbe
pronunciato l’addictio (il magistrato constata che di fronte all’affermazione di porprietà, nel
momoento in cui non nasce alcuna controversia una volta che l’eltro dice che la cosa è sua, anche
se di fatto non era possibile che succedesse realmente perchè le parti si erano già
precedentemente messe d’accordo. Allora il magistrato assegnava la proprietà del bene attraverso
l’addictio) in favore del cessionario. Seconda una certa causa l’aveva quindi fatto proprio, e l’aveva
acquistato, ma non viene specificata la causadi fatto, perchè si tratta di un negozio astratto fin da
subito; ed è come se la causa in questo tipo di negozio fosse la legittimazione a fare quel
determinato negozio. Poteva riguardava anche il trasferimento delle anvi o le servitù rustiche:
passare attraverso un terreno con gli animali con lo scopo di farli abbeverare. La in iure cessio è
come se fosse un finto processo, ma nella sostanza era un vero e proprio negozio giuridico in cui
non vi emergeva nessun accordo ma esso vi era presupposto di un negozio bilaterale e aveva
effetti reali. Si trattava in età preclassica, di un negozio astratto con funzioni analoghe a quelle
dette per la mancipatio.
Anche la stipulatio era un negozio formale: un negozio bilaterale o contratto, in cui le parti erano
lo stipulante o stipulator e il promittente o promissor e si compiva tramite un’ interrogazione con
la quale lo stipulante chiedeva al promittente se avesse l’impegno a tenre un determinato
comportamento, e allo stesso modo rispondeva il promittente che si limitava a pronunciare le
parole in prima persona, pronunciate in seconda persona dallo stipulante. (prometti che darai
190? Prometto.). in questo modo nasceva un’obbligazione sanzionata da iure civili e avente ad
oggetto una prestazione promessa. Il prototipo della stipulatio fu la sponsio che era riservata ai
soli cives per la quale veniva utilizzato il verbo spondere.la stipulatio era un negozio astratto, il che
consentiva di utilizzarla per più cause molto diverse tra loro.
Nei negozi venivano utilizzate più forme: orali, scritte… le forme scritte, tramite spesso la scriptura,
che producevano effetti giuridici e in particolare fonti di obbligazioni oppure in cu il documento
rappresentava solamente un involucro esterno contenente la volontà.
Se parliamo di negozio non formale stiamo trattando la traditio: negozio bilaterale molto diffuso a
Roma per il trasferimento del possesso e il passaggio di proprietà. La traditio si compiva
essenzialmente con la consegna e non bastava il consenso da parte di entrambe le parti.
Per quanto riguarda i contratti consensuali era necessaria la volontà e la sua manifestazione in un
qualche modo, oralmente o per iscritto tra persone presenti o lontane,, in modo diretto o tramite
intermediario.
Ma alle volte, poteva anche accadere che ci fosse una qualche divergenza tra la
manifestazione(portare sulla palma della mano, portare esteriormente) e la volontà: qualcuno
manifesta una volontà che non ha ad esempio. Per questo caso bisogna distinguere i negozi
solenni del ius civile dagli altri negozi, poiché nei primi la manifestazione solenne e tutte le
formalità erano essenziali, invece nei contratti consensuali ad esempio non formali, la soluzione
era la nullità del negozio. Basti pensare ad esempio al mondo del teatro, che è la manifestazione di
cultura di un popolo intero. Si può dire che nel teatro si mettevano in scena dei negozi, come delle
vendite che venivano quindi manifestate, m non erano di fatto volute , nonostante magari
mettessero anche in atto la mancipatio . ma a questo punto sorgeva allora una problematica:
perchè nella mancipatio la volontà non era rilevante e l’effetto del negozio si sarebbe prodotto
indipendentemente dalla volontà, come il suono che fann i tasti di un pianoforte una volta che
vengono premuti, ma allora perchè nel teatro l’effetto non si produceva? Perchè i romani hanno
pensato che l’interpretazione sistematica della realtà, ovvero l’interpretazione della realtà nel suo
complesso, è come se fosse nel teatro e c’è quindi l’intenzione di raffigurare una mancipatio che di
fatto non si vuole.Ad esempio per quanto riguarda le dichiarazioni fatte per scherzo (ioci causa)
non vennero neanche prese in considerazione e siamo sicuri che sia una netta divergenza tra la
realtà concreta e la manifestazione di essa. Diverso è il caso della riserva mentale: il caso di chi
consapevolmente e senza averlo concordato con altri dichiara ciò che non vuole, e questo rendeva
valido il negozio. Invece un’ipotesi più complessa era quella della simulazione: ovvero in un
negozio bilaterale in cui la consapevolezza di non volere qualcosa è comune ad entrambe le parti
del negozio e si avrà così un negozio simulato o simulatorio. Ma di fatto in questo caso non si può
realmente capire se la persona in causa lo voglia veramente o meno e se ci sia effettivamnte la
consapevolezza. La simulazione può essere assoluta o relativa: assoluta (motivo per cui il negozio è
astratto e le parti possono volere cose diverse da quelle già prestabilite)se le parti dichiarano di
volere un negozio ma in realtà non ne vogliono alcuno, relativa nel caso in cui le parti vogliono un
negozio diverso da quello dichiarato. I negozi solenni del ius civile restavano validi anche se
simulati, infatti l’accordo simulatorio era una sorta di patto e pertanto gli effetti del negozio erano
modellati secondo il volere di entrambe le parti ed erano entrambi consapevoli. L’interessato
avrebbe quindi potuto opporre l’exceptio pacti conventi all’azione dell’altra parte: attraverso la
quale avrebbe potuto provare il patto simbolico e che quindi non si voleva un certo negozioo
alcune sue parti. Per il negozio simulato nella simulazione relativa, era valido se ne sussistessero
requisiti di forma e di sostanza. Di fatto la donazione tra i coniugi era invalida, con pena nullità;
perchè allora il rischio che dopo aver fatto un patto simulato l’altra parte avrebbe potuto dire che
in realtà si trattava di una venidta e non di una donazione e citare quindi in giudizio l’altra persona;
ma l’altra presona a questo punto avrebbe potuto opporre l’exceptio pacti conventi, anche se era
una causa illecita.
Ma la divergenza tra il dichiarato e il voluto poteva anche essere non consapevole, in conseguenza
di errore o deviazione dal vero. Infatti possiamo dire che i vizi del negozio erano l’errore, il dolo o
ilmetus (violenza). Nei negozi bilaterali, l’errore si ha anche quando ad esempio una parte
attribuisce alla manifestazione di volontà dell’altra parte un valore diverso da quello obiettivo o
quello che costei vi ha dato. Allora si avrà un dissenso. L’errore (o falsa rappresentazione della
realtà) che esclude la volontà può dipendere da una svista, cattiva conoscenza della lingua o da
ignoranza dal modo comune di esprimersi, esso si chiama errore ostativo: o errore nella
dichiarazione. Invece esiste anche l’errore-vizio, che di per sé non esclude la volontà. Avviene
quando taluno è convinto di circostanze non vere e pertanto compie il negozio, quindi il negozio di
per sé è voluto, ma non in quelle circostanze magari; e pertanto si sarebbe compiuto in modo
diverso magari. È come se la volontà in questo caso ci sia ma sia viziata. I giuristi romani si
occuparono dell’errore ma senza fare la distinzione tra errore ostativo e errore-vizio. Il primo tipo
di errore riguarda il fatto che la parte non ha compreso il senso della dichiarazione e ha quindi a
che vedere con la forma linguistica e in questo caso manca del tutto la volontà.invece il secondo
riguarda una falsa rappresentazione spontanea della reltà.Evidentemente allora non ogni errore
comportava l’invalidità del negozio. L’errore di diritto che dipende cioè da ignoranza o
fraintendimento di norme e istituti giuridici era irrilevante e il negozio era ugualmente valido
perché su tutti i consociati incombe l’onere di conoscere l’ordinamento giuridico che li concerne;
invece l’errore su elementi di fatto fu solitamente ritenuto rilevante e poteva portare alla nullità in
quanto scusabile e non grossolano. Essenziale è l’errore che investe il negozio nei suoi aspetti
fondamentali, come ad esempio l’error in negotio ovvero l’errore che riguardava l’identità del
negozio da compiere. L’error in persona riguardava l’errore sull’identità del destinatario o
dell’altra parte del negozio ed era sempre rilevante per le disposizioni mortis causa. L’error in
corpore era sull’identità fisica dell’oggetto del negozio che era sempre rilevante. E l’error in
substantia o in materia che riguardava la composizione materiale dell’oggetto del negozio ed era
rilevante quindi anche essenziale, mentre inve l’error in qualitate, riguardante la qualità
dell’oggetto no. Quindi per quanto riguarda l’errore- vizio per i romani esso era quasi sempre
irrilevante.
Tra i vizi della volontà quelli che vennero presi in considerazione furono la violenza e il dolo. La
parola dolo (ha a chef fare con un negozio che in ogni caso è voluto) (in alcuni casii l dolo assume il
significato di comportamento genralmente iniquo) assume significati diversi: significa criterio di
responsabilità (omicidio doloso)e indica pertanto l’idea della volontarietà di un comportamento e
delle relative conseguenze pregiudizievoli. Il dolo in questo caso si contrappone al termine colpa.
Ma stando fuori dal senso di responsabilità il termine dolo assumeva spesso il significa di
comportamento iniquo. Per quanto riguarda il dolo negoziale può essere definito anche come una
macchinazione volta a trarre in inganno un’altra persona che diversamente non avrebbe compiuto
un determinato negozi o l’avrebbe compiuto a condizioni diverse da quelle stabilite. Quindi stiamo
dalla parte dell’errore-vizio. Quando l’errore non è imputabile all’autore del negozio ma è indotto
dall’altrui macchinazione si parla di dolo: poiché il punto di vista non è più di chi cade in errore ma
d chi con inganno induce in errore. L’errore di sé e per sé non era sempre rilevante, solo quando
era scusabile ed essenziale, ma di contro l’errore indotto all’altrui dolo è sempre stato rilevante.
Parlando di dolo negoziale si fa rifermento al dolus malus e non al dolus bonus: ovvero alle
furberie usuali tollerate dal costume, adoperate da molti per il trattamento dei propri affari., ad
esempio le vanterie della merce. Esso non viene preso in considerazione dal diritto a differenza del
dolus malus, che riguarda la vera e propria macchinazione per trarre in inganno gli altri. Infatti il
punto di partenza del dolo negoziale è proprio la sua irrilevanza (dolo e buona fede si escludono a
vicenda).
Nel tempo il pretore introdusse nel suo editto una clausola che prometteva l’exceptio doli mali,
ovvero uno strumento che permetteva di invalidare ei negozi dai quali nascevano azione che non
erano in buona fede. Gli effetti del negozio potevano quindi essere neutralizzati, non annullato,
mediante l’exceptio. Veniva usato anche nelle situaizoni nelle quali non si poteva provare che una
vendita era simulata, attraverso l’exceptio pacti conventi.
Inizialmente il dolo non veniva difesa di per sè; pertanto il convenuto si sarebbe potuto difendere
solamente una vota entrato in un processo.
Il campo di applicazione dell’exceptio doli mali era molto più ampio del dolo negoziale, infatti
rappresentava una fitta rete di casi in cui appariva iniquo che l’autore conseguisse quanto iure
civili gli era dovuto in teoria. L’exceptio doli faceva pertanto riferimento al dolo commesso
dall’attore ma anche al dolo che l’attore commetteva nel momento stesso in cui agiva e per il fatto
stesso che agiva; il primo dolo passato, preterito, il secondo presente. Aveva quindi una doppia
valenza, in quanto exceptio doli praeteriti e exceptio doli praesentis. Il primo era il raggiro prima
del giudizio, il secondo si commetteva al momento stesso dell’azione e non si trattava di inganno
ma di comportamento iniquo.
Ma se la vittima del dolo, inconsapevole dell’inganno, avesse dato esecuzione al negozio? In
questo caso non avrebbe avuto senso difendersi ma avrebbe dovuto prendere iniziativa e
promuovere un giudizio avvalendosi dell’actio de dolo( per dare alla vittima del dolo una sorta di
protezione), esperibile dalla vittima contro l’autore del dolo e si trattava di un’azione penale al
simplum: l’importo della pena corrispondeva al danno subito. Ma l’actio de dolo era grave anche
perché il condannato sarebbe stato giudicato di infamia. Era un’azione arbitraria e per questo
motivo, se il convenuto avesse risarcito il danno prima della sentenza sarebbe stato esenta dalla
condanna. Era anche un’azione sussidiaria: il pretore l’avrebbe concessa solamente in caso di
difetto di altro mezzo giudiziario in favore dell’ingannato. Essendo penale era anche nossale e
quindi non poteva essere esercitata contro gli eredi dell’autore del dolo e non poteva essere
esperita oltre l’anno della commissione del dolo. Ma nel corso del tempo, si ebbe un allargamento
del concetto di dolo proprio di quest’azione e finì per essere ammessa per una lunga serie di casi
riguardanti l’inganno ma anche fuori dal dolo negoziale.
Un altro rimedio pretorio era il in integrum restitutio propter dolum.
Una altro vizio della volontà era il metus(tema analogo a quello del dolo): tema abbastanza
analogo a quello del dolo. Esso era il timore genrato dalla violenza altrui (vis), ma non si tratta di
una violenza fisica (via absoluta) , ma bensì la minaccia di provocare un male nel caso in cui il
minacciato non compia il negozio pensato , vis compulsiva ovvero una vilenza di tipo morale. La
minaccia di un male poi genera timore e si tratta di una minaccia abbastanza grave e seria e quindi
siamo di fronte ad unaì vizio della volontà perchè il negozio di per sè è voluto ma la volontà è
formata per effetto del timore generato dal vis. Il negozio estorto compiuto per metus era ius civili
valido ed efficace, ma nonostante ciò il convenuto con un’azione ex fide bona avrebbe potuto
ottenre l’assoluzione opponendo che il negozio di cui l’altra parte pretendeva l’adempimento gli
era stato estorto con la minaccia. Attraverso l’exceptio metus, la persona convenuta per
l’adempimento di un negozio estorto con la violenza morale (metus) al processo avrebbe ottenuto
l’assoluzione. Anche l’actio quod metus causa era un’azione pretoria e si dava a chi avesse dato
esecuzione ad un negozio estorto con la violenza prima ancora di essere chiamato in giudizio per
l’adempimento. Veniva riconosciuta anche ad un’altra persona che fosse intervenuta nel negozio
senza farne parte. Si trattava di un’azione penale : entro l’anno di pena era il quadruplo (perchè di
fatto la volontà qui nasce viziata) del valore del pregiudizio arrecato, doop l’anno del simplum. Era
anche un’azione arbitraria non solo contro l’autore ma anche contro terzi che si fossero
avvantaggiati in dipendenza del metus. In alternativa a quest’actio c’era in integrum restitutio
propter metus: rimedio edittale che neutralizzava gli effetti prodotti in iure civili. La persona
costratta a mancipare e trasferire il possesso di una persona res mancipi sarebbe stata ammessa
ad una rei vindicatio utilis, per cui il giudice avrebbe giudicato come se la mancipatio non avesse
avuto luogo.
Chiunque compie un negozio giuridico è sempre spinto da motivi propri e piuttosto personali e
soggetti, ma che l’ordinamento giuridico non prende in considerazion; veri o falsi che siano, giusti
o sbagliati leciti o non. Inoltre ogni negozio giuridico è compiuto per una causa: ovvero la ragion
d’essere oggettiva de negozio e la più immediata in relazione agli effetti dell’atto e quindi la
funzione che si intende realizzare attraverso gli effetti che il negozio andrà a produrre: elemento
oggetto che stava alla base di ogni negozio giuridico. La causa negoziale sarà in ogni caso lo
scambio di cosa contro prezzo nella compravendita, realizzazione di un prestito di consumo nel
mututo e nei negozi bilaterali la causa risulta essere comune ad entrambe le parti.
Per quanto riguarda il mutuo e la compravendita, la causa è riconosciuta a priori come lecita
dall’ordinamento e determina la struttura del negozio: si tratta dei negozi causali. Nei negozi
astratti invece la causa non è espressa e non emerge dalla struttura del negozio, infatti è esterna.
Infatti quello che la struttura del negozio astratto esprime è l’effetto del negozio e on la causa di
esso; si parla di mancipatio, in iure cessio e stipulatio ma anche di traditio. Per le prime due erano
traslative di proprietà, la stipulatio era produttiva di obbligazioni il motivo per cui la causa non era
presente era ce effettivamente i negozi potevano essere compiuti per cause diverse ed erano iure
civili validi ed efficaci anche se la causa mancava o era illecita.
La condictio fu la versione formulare della legis actio per condictionem attraverso cui si
perseguivano crediti per cui l’attore pretendeva sussistere a carico dell’altra parte un obbligo di
dare espresso con oportere che avrebbe avuto ad oggetto una certa somma di denaro o una certa
cosa determinata. Nella formula della condictio non c’era nessuna demonstratio, questo
consentiva anche la ripetizione del dato a una pluralità di fattispecie eterogenee. La condictio
presupponeva una datio nel senso di trasferimento di proprietà e presupponeva quindi che
l’attore avesse già in precedenza trasferito al convenuto la proprietà di una res. Ma ciò non era
sufficiente, doveva esistere una ragione valida per cui il convenuto non dovesse rattenere la cosa
così che si prospettasse un suo dovere di dare inteso sempre di trasferire la proprietà. Da età
classica il campo della condictio si amplia: formato da applicazioni contrattuali ed
extracontrattuali. Le prime riguardavano l’idea secondo la quale, la datio fosse stata compiuta con
l’intesa che quanto si trasferiva sarebbe stato poi restituito; invece quelle extracontrattuali
riguardavano dationes compiute per una causa inesistente o venuta a mancare. La condictio era
una sorta di rimedio per il difetto di causa nei negozi astratti di trasferimento.
C’era possibilità di aggiungere di volta in volta delle clausole diverse(per affrontare i problemi
rgiuardanti l’efficacia dei negozi giuridici stessi), per modificare gli effetti negoziali tipici o per
integrarli: si tratta di elementi accidentali del negozio giuridico. Le più comuni di queste clausole
sono condizione, termine e modus(onere).
Per condizione si va ad intendere sia l’evento futuro e incerto dal quale si fanno dipendere gli
effetti del negozio giuridico e sia la clausola aggiunta al negozio che contempla l’evento. Le
condizioni si distinguono in sospensive, che sospendono gli effetti del negozio e non produce
subito i suoi effetti ma solo quando e se il negozio si produrrà, e risolutive(evoca la morte del
negozio), che lo risolvono e producono i loro effetti ma cesseranno automaticamente se e quando
il negozio si produrrà.
Ma non tutti gli atti giuridici tolleravano l’aggiunta delle condizioni: si tratta degli actus legitimi ed
erano la mancipatio, in iure cessio, acceptilatio, manumissio vindicta e tutti i negozi che si
compivano mediante certa verba. Gli effetti di alcuni atti erano di per sé subordinati al verificarsi di
certi eventi: i legati, sarebbero stati efficaci una volta efficace il testamento: condicio iuris.
Non erano condizioni neanche le condiciones in praesens vel in praeterium conlatae che facevano
dipendere gli effetti del negozio da eventi attuali o passati.
L’evento dedotto in condizione poteva essere impossibile materialmente o giuridicamente, con
conseguenza di invalidità. E si adottò un regime abbastanza analogo per le condizioni nelle quali
l’elemento dedotto era illecito, ad esempio nell’ambito dei negozi inter vivos bisogna distinguere
tra i negozi che davano luogo a giudici di buona fede da un lato e stipulatio dall’altro. Nei primi
l’aggiunta di una condizione illecita portava alla nullità, così fu poi anche per la stipulatio ma
inizialmente era solamente invalidità. Un’analoga evoluzione si può riscontrare per quanto
riguarda i negozi mortis causa: c’era allora un intervento pretorio che aveva lo scopo di non tenere
in considerazione una condizione illecita: regime che venne poi esteso ad ogni condizione illecita
aggiunta ad una disposizione testamentaria.
Le condizioni possono essere positive: subordinano gli effetti del negozio al verificarsi dell’evento
dedotto dalla condizione, e le condizioni negative: al non verificarsi di esso.
Inoltre possiamo anche distinguere tra condizioni potestative(esempio: ti dò 100 se sposeria... o
anche espressa in negativa: ti dò 100 se non sposerai): quelle il cui avveramento dipende
essenzialmente da un atto volontario di persona interessata; casuali quelle il cui avveramento
dipende prettamente dal caso o da volontà di terzi e miste quelle il cui avveramento dipende sia
dalla volontà della persona interessata e sia dalla volontà di terzi. Le condizioni potestative al
contempo negative quando la persona che trarrebbe vantaggio dal negozio non adotti in futuro un
certo comportamento. Si pone anche il problema quando la condizione non contempla una
termine perché bisognerà attendere la morte dell’interessato che potrebbe far mancare la
condizione sino all’ultimo istante in vita, non producendo mai effetti.
Si parla di condicio pendet: la condizione pende se non si è verificata e i è ancora incerti che si
verificherà, nonostante sia valida di per sé, il debitore avrebbe potuto pretendere la restituzione.
La condicio extitit: la condizione si è verificata, il negozio comincerà a produrre i suoi effetti che si
chiameranno retroattivi. La condicio deficit: la condizione viene a mancare e il negozio risulta
essere destinato a rimanere senza effetti. Le condizioni potevano essere definite sospensive o
risolutive, per quanto riguarda la costituzione di usufrutto con deductio o legato per
vindicationem. Allora era inaccettabile l’idea di una condizione risolutiva con riferimento a negozi
come l’istituzione di erede o gli atti di liberazione dei servi. Ebbene si può anche dire che i patti
giuridici risolutivi se aggiunti a negozi che davano luogo a giudizi che non erano in buona fede
sarebbero stati tutelati solo in via di exceptio.
Anche il termine come la condizione si configurava come un elemento accidentale nel negozio
giuridico e quindi una sorta di clausola che le parti possono volere e non. Ma a differenza della
condizione è certo che il termine si verifichi, in quanto si riferisce ad un avvenimento futuro e
certo del quale si fanno dipendere gli effetti del negozio. Al termine si fa riferimento alla parola
dies. Poteva essere una data del calendario, o che poteva anche indicare un se e un quando
magari (quando tizio morrà). Il termine poteva essere iniziale o finale, il primo non produceva
effetti ma li avrebbe poi prodotti alla scadenza, una volta verificato l’evento; invece il secondo
produceva immediatamente i suoi effetti che sarebbero poi cessati alla scadenza. Alcuni negozi
non tolleravano l’apposizione di termini che portava quindi alla nullità. (ad esempio la traditio e la
stipulatio non tolleravano termini finali).
Tra gli altri elementi accidentali troviamo anche il modus od onere: imposizione al destinatario di
un atto di liberalità di adottare un determinato comportamento: si trattava pertanto di un
comportamento volontario e poteva essere anche correlato alla condizione potestativa , ma la
differenza tra le due era che la condizione potestativa subordinava gli effetti del negozio
all’avveramento della condizione, con la conseguenza che nel caso in cui questa non si fosse
verificata, il negozio non avrebbe prodotto effetti. Invece il negozio modale è immediatamente
efficace a prescindere dell’adempimento del modus . (la condizione subordina ma non ordina e il
modus ordina ma non subordina).
Il legatario era obbligato a prestare una stipulatio con la quale promettere all’erede l’esecuzione
del modus: nel caso in cui non l’avesse fatto e non avesse prestato la cautio, egli sarebbe stato
respinto in forza di exceptio doli. Ma il modus aggiunto ad un legato poteva comportare
prestazioni a favore di terzi talchè l’erede avrebbe potuto non avere interessead opporre
l’exceptio doli al legatario.
Invece per quanto riguarda la donazione: si parla di in dando (donazione reale) per cui il donante
trasferiva al donatario la proprietà del bene che donava e tutto ciò avveniva tramite un negozio
astratto: come la mancipatio, in iure cessio o traditio. Quando si stabiliva un modus a carico del
donatario il modus poteva apparire quale ausa dell’atto di trasferimento: così avrebbe avuto
luogo una datio e quindi un trasferimento di proprietà. Ad avere interesse dell’adempimento
poteva anche essere un terzo, che non poteva agire direttamente contro il donatario ma
intervennero delle costituzioni imperiali che diedero al terzo beneficiario del modus, un’actio utilis
per l’adempimento.
Gli effetti principali del negozio giuridico che si connettono alla sua causa vengono imputati in via
diretta ed esclusiva alle parti del negozio.
Il nuntius è una sorta di messaggero portavoce che riferisce puntualmente quanto è stato invitato
di riferire, ma non è l’autore del negozio poiché non dichiara volontà propria. Ma non può
neanche essere considerato un terzo estraneo al negozio perché effettivamente è l’autore stesso
del negozio e perciò è a lui che si collegano direttamente gli effetti di esso. A Roma i negozi formali
e solenni non potevano avvenire mediante nuntius ma con la presenza di entrambe le parti.
Invece un altro caso è quello delle persone fisiche che agiscono e concludono negozi quali organi
di quelle collettività. Queste persone sono: i rappresentanti legali (actores) ed esprimono una
volontà propria e nono agiscono in quanto soggetti autonomi, ma in quanto organi di un altro
soggetto che non potrebbe operare nel mondo giuridico. Per questo si fa riferimento alla
“rappresentanza organica”: essa ebbe maggior rilievo nella Roma antica, soprattutto per quanto
riguarda i negozi d’acquisto conclusi soggetti alieni iuris, soprattutto schiavi e filii familias. Questi
atti erano validi ed efficaci solo che ad acquistare era unicamente il dominus, pater familias o in
ogni caso l’avente potestà. I soggetti alieni iuris erano inseriti nell’organizzazione famigliare sotto
la potestas del pater familias.
Se gli effetti principali dei negozi imputavano direttamente agli autori del negozio e a terzi si faceva
riferimento alla responsabilità addietizia, per cui se ad assumere un obbligazione era una persona
soggetta a potestà, ne sarebbe stato vincolato anche l’avente potestà.
Parlando di rappresentare possiamo domandarci se in un negozio le parti potessero farsi
sostituire. Effettivamente si ma non si tratta di un concetto prettamente romano, ma elaborato poi
dai giuristi moderni. Si tratta di un fenomeno per cui un soggetto autonome: rappresentante
giuridicamente capace, conclude un negozio e esprime così una propria volontà in nome e per
conto di un altro soggetto con effetti in capo al rappresentato. La rappresentanza di distingue in
volontaria, quando i poteri vengono conferiti al rappresentante dal rappresentato con un suo atto
volontario e legale in tutti gli altri casi. Non rientra in questo caso il nuntius in quanto non
esprimeva una volontà propria. Per quanto riguarda i negozi solenni e formali, i negozi non
potevano non esigere la presenza delle persone partecipi degli effetti dell’atto che si compiva.
Si parla anche però della rappresentanza indiretta, che non era considerata vera rappresentanza:
concludere un negozio per conto altrui ma in nome proprio con effetti che si imputavano al
dichiarante. Invece al significato di rappresentanza diretta, i romani furono dapprima contrari e
poi l’ammisero man mano in pochissimi casi. Uno di questi riguardò il curator furiosi, e un altro il
possesso.
A causa di un’antica regola, erano vietati con pena di nullità, i patti o i contratti in favore di terzi:
infatti le parti non potevano convenire che dal negozio che andavano a compiere nascessero
crediti in favore di terzi al negozio estranei. (regola espressa per la stipulatio). Questa regola aveva
una doppia valenza: non nasceva in questo modo né un azione a favore di terzi e neanche a favore
dello stipulante. Si derogò successivamente, al divieto di patti e contratti a favore di terzi, ad
esempio per la donazione.
Il processo formulare tenne conto del fatto che durante tutta la lite potessero farsi sostituire,
attraverso la figura del cognitor: sostituto nominato direttamente dalla persona che voleva farsi
sostituire: dominus litis con pronunzia orale e solenne. Il cognitor partecipava al giudizio in nome
altrui e contestava la lite con la formula della trasposizione di soggetti e il suo nome era presente
solo nella condemnatio. Gli effetti preclusivi ella litis contestatio si producevano però solo
direttamente nei confronti del dominus litis e poi, una volta emanata la condanna, l’actio iudicati
sarebbe spettata unicamente al dominus litis o contro di lui. Invece, per quanto riguarda la figura
del procurator ad litem, la cui nomina avveniva solo informalmente, anche in assenza
dell’avversario, la litis contestaio e la sentenza non avrebbero avuto effetti dapprima nei confronti
del dominus litis.
Fu poi in età classsica che si ebbe un graduale processo evolutivo che si concluse con
l’equiparazione di queste due figure.

LE PERSONE
Per capacità giuridica si intende l’idoneità ad essere titolari di diritti e di doveri o comunque di
situazioni giuridiche soggettive, invece per capacità di agire si intende l’idoneità a operare
direttamente nel mondo diretto e compiere personalmente atti giuridici. (si tratta di categorie
giuridiche non romane). Attualmente sono giuridicamente capaci tutti gli esseri umani, e la
capacità giuridica viene riconosciuta anche ad alcune entità composte da organizzazioni di
persone o beni che vengono chiamate persone giuridiche. Invece gli esseri umani sono persone
fisiche. Oggi la capacità di agire presuppone la capacità giuridica, ma all’epoca romana non era
assolutamente così e c’era una profonda scissione tra le due tipologie di capacità. Quindi i soggetti
capaci giuridicamente sono in ogni caso delle persone: fisiche se si parla di essere umani,
giuridiche per gli altri enti. Invece nel diritto romano, era diverso: la parola “persona” era riferita
solamente a quelle che oggi sono le persone fisiche , e tutti gli esseri umani erano persone ma non
avevano capacità giuridica e non l’avevano necessariamente le persone libere: non l’avevano mai
invece gli schiavi. Anche i romani riconobbero l’esistenza di alcune organizzazioni che potevano
avere diritti e doveri ma non elaborarono un concetto per questo fenomeno. La capacità giuridica
nono concepibile propriamente per le persone giuridiche , viene riconosciuta a tutti gli esseri
umani intellettualmente capaci , negata quindi ai minori e gli infermi di mente. Anche a roma la
capacità di agire era imputata ai soggetti intellettualmente capaci ma non necessariamente
presupponeva la capacità giuridica: il pater familias sano e adulto era capace giuridicamente e
anche di agire, invece gli schiavi e i filii familias erano capaci di agire ma non avevano capacità
giuridica di per sé. Il presupposto di ogni capacità giuridica è in ogni caso l’esistenza , che ha inizio
con la nascita e ha fine con la morte.
Per quanto riguarda la capacità giuridica si può fare riferimento allo schema degli status(che
sostanzialmente era la posizione in relazione alla situzione di libertà, civiltà e famiglia): status
libertatis (comunità degli uomini liberi), status civitatis ( comunità cittadina corrispondente allo
Stato romano) e status familiae ( riguardo alla famiglia).
Ha piena capacità giuridica la persona che è al contempo libera, cittadina romana e pater familias,
o comunque nono soggetta ad altrui potestà. La persona capace si dice sui iuris, non soggetta a
potestà quindi. Ai sui iuris si contrappongono gli alieni iuris: persone giuridicamente incapaci
soggette ad altrui potestà.
Il possesso dello status libertatis era il primo punto per poter godere a Roma di capacità giuridica.
Liberi si nasceva o si diventava: da madre cittadina romana oppure se uno schiavo fosse stato
liberato. Nel primo caso si parla di “ingenui” mentre nel secondo di “liberti”.
A Roma la successione di schiavitù è strettamente collegata alla vittoria delle guerre, poiché aveva
come conseguenza il fatto di rendere prigionieri i nemici vinti. Le cause della schiavitù furono
principalmente due: la nascita da madre schiava oppure la cattura del nemico (sia per i nemici dei
romani che viceversa). Una volta che un nemico catturava un cittadini libero romano nel suo
territorio, una volta tornato in patria egli avrebbe riacquistato la sua libertà come prima della
cattura e veniva pertanto reintegrato all’interno della sfera giuridica. Poi in età postclassica fu
anche regolamentata e consentita la vendita di neonati come schiavi del compratore.
In realtà, in epoca romana, il concetto di schiavitù e la condizione dello schiavo in generale era
abbastanza strana e contraddittoria: intanto si deve ricordare che Gaio fece una distinzione
riguardo allo ius per le cose, persone e azioni. Infatti per quanto riguarda i servi, quali esseri
umani, rientravano all’interno delle personae, ma quali possibili oggetti di proprietà rientravano
nelle cose: in res mancipi. (i loro corpi venivano considertai come corpi di persone e in quanto tali
venivano seppelliti una volta morti, in luoghi chiamati locus religiosus: erano considerati personam
e non res). Non erano giuridicamente capaci, le unioni anche stabili, tra servi non erano rilevanti e
non erano considerate matrimonium ma bensì contubernium. Non avevano nemmeno rilievo i
vincoli tra genitori e figli, o in generale tra congiunti dello stesso sangue, motivo per il quale i
proprietari avevano anche il poter di dividere e separare le famiglie dei servi. Gli schiavi erano
considerati alieni iuris e quindi assoggettati alla potestà del proprietario: dominus, che esercitava
un potere assoluto su di essi, anche per vita e morte.
Tuttavia ai servi si riconobbe una sorta di capacità di agire, soprattutto riguarda al fatto che erano
in grado di migliorare la condizione del dominus e fungevano da organo di acquisto del dominus,
non potendo mai peggiorare la sua condizione.
Al diritto arcaico risale la regola per la quale, contro il serbo altrui responsabile di delicta, la vittima
potesse esercitare vendetta direttamente , impossessandone e applicando anche la pena
corporale stabilita. Il principio venne poi regolato successivamente dalle azioni nossali.
Lo schiavo veniva spesso utilizzato dallo schiavo per compiere dei negozi giuridic dal dominus, ma
gli effetti ricadevano direttamente e solamente sull’altra persona che compiuva il negozio perchè
lo schiavo in quanto non avente capacità giuridica avrebbe avuto la possiblità di non dover pagare
e di non peggiorare mai la condizione del proprietario, dominus. Il peculio era il denaro che si dava
agli schiavi per compiere un negozio giuridicosempre a vantaggio del dominus che non ne
trasferiva la proprietà, ma solamente il possesso: presuppone la capcità di agire e non quella
giuridica. Se si parla di atti di disposizione e di assunzione di debiti per quanto riguarda gli schiavi,
essi avrebbero dovuto essere giudicati come inefficaci dal punto di vista del diritto, perché il servo
non possedeva nulla di suo di fatto e non poteva dunque obbligare se stesso. Tuttavia è già a
partire dall’età arcaica che si concedeva ai servi un gruzzoletto di denaro: il peculio, lo stesso che si
erano guadagnati con il lavoro. Nonostante ciò il proprietario del peculio restava in ogni caso il
dominus, ma si ammise presto che bisognava trasferire il possesso con anche la proprietà quando
si trattava di res nec mancipi.
I servi avevano dunque un peculio con cui potevano trafficare con terzi ma anche con il dominus.
Gli schiavi non potevano di fatto porre in essere dei negozi in quanto non erano soggetti
giuridici.Di qui il riconoscimento, prima di fatto che in diritto che i servi potessero adempiere gli
obblighi assunti con atti leciti. Da qui poi il riconoscimento he il servo potesse anche assumere
obligationes da atto lecito : dette obligatione naturales( obbligazioni fatte da una spontanea
esecuzione dello schiavo- naturali perchè appartenenti alla loro natura ed estranei di fatto al
diritto), e non obligationes civiles (vere e proprie per cui il creditore avrebbe poi potuto convenire
il debitore in giudizio). Le obligationes naturales infatti non davano mai luogo ad actiones: l’effetto
principale era quello che il creditore pur non potendo costringere il servo ad adempiere, avrebbe
potuto trattenere quanto ricevuto in adempimento.
Ma fino a che punto i terzi in un negozio giuridico potevano contare sugli schiavi che
commerciavano con loro? (dovevano poter contaeìre intanto sulla correttezza dello schiavo)
Ci fu sempre più una maggiore esigenza che i servi entrassero all’interno degli affari del dominus:
ma non si poteva pretendere che i terzi contassero pienamente su un atto di adempimento da
parte dello schiavo, e quindi occorreva che si disponesse all’occorrenza di strumenti giudiziari
idonei che garantissero loro l'adempimento dei negozi giuridici. questo intervenne pertanto il
pretore , in situazioni in cui il dominus si fosse già in via preliminare assunto esplicitamente o
implicitamente la responsabilità di certe azioni e operazioni finanziarie compiute dal proprio servo.
il pretore pertanto andò promettendo nel suo editto che avrebbe dato a terzi alcune actiones
contro il dominus: actiones adiecticiae qualitatis: azioni adiettizie. erano una sorta di
responsabilità aggiunta riguardante il dominus e sanzionata da actio che si aggiungeva a quella
naturale del servo. alcune di esse erano l’actio quod iussu: che presupponeva che l’impegno del
servo nei confronti del terzo fosse stato assunto in seguito ad una autorizzazione da parte del
dominus; l’actio exercitoria: che presupponeva che il proprietario del servo fosse un armatore e
quindi possedesse una nave e la affidasse in gestione al suo servo proponendolo come magister
navis, con la conseguenza che in caso di debiti eventuali si andava contro il dominus attraverso
quest’actio. dopodichè c’era l’actio institoria: che riguardava il titolo che il dominus era in grado di
dare al suo servo di institor ( direttore) e in caso di debiti avrebbe risposto sempre il dominus.
invece l’actio de peculio et de in rem verso era caratterizzata dalla presenza di due
taxationes(limite che il giudice non avrebbe potuto superare nella condemnatio): una la de peculio
e l’altra la de in rem verso. Si parla di actio tributoria che intanto presupponeva la concessione di
un peculio, ma non solo, anche avesse compiuti negozi, assunto obbligazioni in ordine a beni
peculiari affidatagli dal dominus affinchè ne commerciasse, presupponeva che i terzi creditori si
fossero poi rivolti al pretore e questi avesse invitato il dominus a procedere alla ripartizione
dell’importo delle merci peculari tra i creditori attribuendo agli stessi una quota proporzionale al
credito di ciascuno e partecipando anch’egli alla ripartizione proporzionale sullo stesso piano degli
altri creditori. Allora non era un’azione adiettizia, ma poteva essere esperita contro il dominus dai
creditori che lamentassero di avere avuto attribuita una quota minore rispetto a quella loro
dovuta.
lo status libertatis poteva essere oggetto di contestazione : questo portava ad un processo di
libertà che poteva essere o una vindicatio in libertatem ex servitute nel caso in cui il libero viveva
come uno schiavo, o una vindicatio in servitutem ex libertate, viceversa. il rito inizialmente era la
legis actio sacramenti in rem con formule ricalcate sulla rei vindicatio e a giudicare erano i
recuperatores, consoli poi nell’età classica. invece la formula processuale adottata nel processo
postclassico era quella dei praeiudicia: azioni meramente dichiarative che non arrivavano mai ad
una sentenza. di fatto il principale interessato non era dal punto di vista formale soggetto della
lite ma bensì l’oggetto : ad essere parte del processo infatti erano il convenuto e l’attore: dominus
e il terzo, questo perchè effettivamente il servo non aveva capacità di stare in giudizio e il suo
stato era incerto fino alla sentenza. questo scomparve poi nell’epoca di Giustiniano: quando il
servo fu finalmente in grado di difendere le sue ragione di persona.
lo stato di schiavitù poteva cessare con l’atto di affrancazione da parte del dominus, detta
manumissio(aveva come effetto quello di attribuire la libertà allo schiavo)(non era una
controversia processuale). che poteva essere compiuta unicamente dal dominus. per il ius civile si
avevano tre tipi diversi di manunmissio: la manumissio vindicta che era un antico negozio formale
e solenne compiuto dinanzi al magistrato in iure presenti il dominus e lo schiavo. era presente un
adsertor in libertatem che dichiarava libero il servo toccandolo con una bacchetta e se il dominus
non si fosse opposto allora egli sarebbe diventato libero. col tempo era possibile farlo anche solo
attraverso una dichiarazione. la manunmissio censu: molto meno praticata , in occasione delle
operazioni di redazione delle liste del censo e si realizzava con l'iscrizione del servo tra i cives
romani con l’autorizzazione del dominus (pratica che cadde nell’età postclassica). infine la
manunmissio testamento, la più diffusa tra le tre che trattava in particolare una disposizione
testamentaria che aveva quindi efficacia dopo la morte del suo testatore.
c’erano anche le manumissioni pretorie, conosciute per la loro informalità(lo schiavo rimaneva
giuridicamente e tecnicamente tale), sviluppate intorno all’età repubblicana: si usava affrancare i
servi anche in forme di inter amicos(dichiarazione informale) per epistulam ( semplice lettera). I
manumessi in queste forme non acquistavano subito la libertà : il pretore tutelava la libertà della
quale godevano in punto di fatto denegando al dominus la vindicatio in servitutem.
La manumissione fedecomissaria era indiretta e si ebbe durante in periodo augusteo quando
Augusto diede efficacia ai fedecommessi sull’erede cui il testapre avesse fatto carico di
manomettere un servo venne a gravare l’obbligo di procedere alla manomissione. In caso di
rifiuto, l’onerato avrebbe potuto esservi costretto, e ne caso in cui il rifiuto persistesse, l’organo
giudiziaro avrebbe potuto attribiure direttamente la libertà allo schiavo con una sentenza
costitutiva.
In età postclassica si riconobbe la manumissio in sacrosanctis ecclesiis: semplice dichiarazione di
volontà di liberare il proprio schiavo resa dal dominus di fronte ai fedeli e presieduta dal vescovo.
Ma i servi potevano acquistare la libertà anche non solo tramite la manumissione, ma in casi più
rari. Ovvero nel caso in cui il prigioniero di guerra avesse riacquistato la sua libertà o anche
quando per disposizione imperiale, la serva venduta diventava libera a patto che non venisse
prostituita una volta che il patto fosse stato violato.
Il fenomeno dei servi divenuti liberi per manumissio, aveva assunto proporzioni preccupanti in
relazione al fatto che si temette un eccessivo numero di schiavi liberati. Per questo problema
furono emanate due leges, che vennero poi abolite in seguito da Giustiniano.
Gli schiavi liberati acquistando la libertà, acquisivano anche la cttadinanza romana, divenivano
anche sui iuris ovvero giuridicamente capaci; ma nonostante ciò la loro condizione non era uguale
a quella dei nati liberi, definiti ingenui (gli schaivi liberati erano definiti liberti). I liebrti soffrivano di
una minore considerazione sociale che in pratica li escludeva da alcune attività ritenute proprie
degli ingenui, attività dette artes liberales e subivano discriminazioni per il diritto ubblico poichè
erano anche esclusi in via di principio dalle cariche pubbliche. L’ex dominus assumeva la carica di
patrono e godeva nei confronti del liberto i diritti di patronato, trasmissibile mortis causa ai
discendenti. (potestà) poi dall’ultima età repubblicana col ridimensionamento di alcuni poteri, si
affremò la prassi per cui il servo prima della manumissione, doveva necessariamente fare al
dominus un giuramento con cui prometteva che una volta liberato avrebbe prestato le operae al
dominus e sarebbe quindi stato vincolato dl punto di vista religioso.
Appare strana la posizione delle persone in causa mancipii, che erano sì liberi e cittadini romani
ma al contempo assoggettati a potestà di altra persona. In questa condizione si trovavano i filii
familiasmancipati dal loro pater familias che in realtà in età arcaica la mancipatio dei filii familias
era una vendita che divenne del tutto desueta in età preclassica. Le personae in casua mancipii
erano libere e cittadini romani e a differenza dei servi potevano fare un matrimonio ed avere dei
figli legittimi, ma non avere capacità giuridica per i rapporti patrimoniali infatti erano alieni iuris
ovvero soggetti a potestà. Poi morta la persona che su di essi esercitava il mancipium non
diventavano sui iuris e cadevano sotto il mancipium dell’erede. Come per gli schiavi una volta
liberati, diventavano sui iuris con la manumissio.
La società romana riconobbe anche altre situazioni di dipendenza personale le quali non
comportavano la privazione della capcità giuridica. Ad esempio si può parlare del colonato:
fenomeno sviluppato durante il perodi del basso impero. I coloni erano persone libere di umile
condizione , piccoli affittuari terrieri o umili lavoratori giornalieri dei campi che si obbligavano ad
un lavoro subordinato. Durante questo periodo fu anche attuata una politica piuttosto severa
riguardo alle differenze di classsi sociali: i coloni furono vincolati alle loro terre che coltivavano al
punto che non potevano distaccarsene neanche dai proprietari : definiti servi terrae. Inoltre
subirono gravi limitazioni anche in merito alla capacità giuridica: i loro beni furono considerati
come un peculio e ne fu anche limitata la libertà matrimoniale.
Il ius civile fu così detto perchè apparteneva ai soli cittadini romani, vvero i cives. Ma con il tempo
e l’intensificarsi dei traffici tra i cives e gli stranieri, l’espressione ius civile aasunse un significato
ben più ampio di quello precedente e allo ius civile si contrappose il ius gentium come ius comune
a cittadini e peregrini. Il possesso dello status libertatis era una delle condizioni per la piena
capacità di diritto privato. Cittadini romani si nasceva o si diventava: nascevano cittadini romani da
padre cittadino purchè procreati in matrimonio legittimo, sia nati fuori da matrimonio legittimo da
madre cittadina. Cittadini romani si diventava per concessione dello stato romano e poteva
riguardare sia singole persone che comunità intere. Queste concessioni erano quelle riguardanti gli
alleati itali: socii, ma anche in favore di tutti gli abitanti liberi dell’impero. Perdevano invece la
cittadinanza romana i cives che fossero stati ridotti in schiavitù, quelli che si fossero stabiliti in
colonie di nuova istituzione, quelli che avessero scelto l’esilio in un altro stato sovrano legato a
Roma da trattato o quelli che per crimi commessi subissero condanna all’esilio: deportatio. Ai cives
romia si contrapponevano i peregrini, persone libere ma non cives. A loro si applicava lo ius
gentium e a volte gli veniva concesso il ius commercii o il ius connubii. Una categoria privilegiata
dei peregrini era quelli dei Latini divisa in: Latini prisci, cittadini delle città laziali vincolate a Roma
da un’antica alleanza e mantenevano le loro istituzioni di diritto pubblico e privati. Ai Latini prisci
furono assimilati coloro che si stabilivano nelle colonie fondate da Roma: ovvero i Latini coloniarii
e a questi ultimi furono assimilati a loro volta i Latini Iuniani.
Il gradino gerarchico più basso dei peregrini era rappresentato dai peregrini dedictii, i membri
delle collettività straniere che si erano arrese a Roma senza condizioni e all’inerno delle quali il
vincitore aveva abrogato ogni ordinamento nazionale e quindi gli venne negata ogni capacità di
diritto privato nazionale avendo solo il ius gentium. Col tempo poi le diverse categorie dei
peregriini vennero assimilate ai cives
La piena capacità giuridica era riconosciuta alle persone sui iuris che erano persone libere,
cittadine romane e non seggette a potestà: pertanto occorreva che la persona avesse nella familia
una determinata posizione e un preciso status familiae quello di sui iuris. Ad essi si
contrapponevano gli alieni iuris, che potevano essere soggette al dominus, mancipium, patria
potestas, manus. Al primo erano soggetti gli schiavi, al secondo le personae in casua mancipii, il
terzo i filii familias e l’ultimo le donne. Il termine familia assume significati molto diversi nellef onti
giuridiche, ma la familia a cui si fa riferimento quando si parla di status familiae è il gruppo unitario
composto da una sola persona sui iuris libera e cittadina pertanto. Egli era di sesso maschile ,
anche dai filii familias e dalla donna in manu, assoggettati a potestà. Ad avre capacità giuridica
erano uomini e donne indipendentemente dall’età. Essi erano i pater familias e non erano mai le
donne.
Per quanto riguarda il matrimonio: genralmente era preceduto da una promessa hce in età antica
si compiva mediante sponsio, per mezzo del quale il pater familias della donna facevano al
fidanzato promessa del matrimonio : sponsalia. Da qui ne nasceva inevitabilmente un vincolo
giuridico all’adempimento. Successivamente la promessa del matrimonio si compiva unicamente
mediante il consenso reciproco comunque espresso ma da cui non sarebbero nate obligationes nè
tantomeno obbligo giuridico. Tuttavia si riconobbe che dagli sponsalia dessero luogo a
conseguenze giuridiche minori (una volta rotto il fidanzamento, l’obbligo di restituire i doni).
Il principale presupposto per la costituzione di una familia era il matrimonio legittimo o iustae
nuptiae per cui si richiese il connubium, l’essere almeno in età pubere e il consenso reciproco.
Il connubium era l’attitudine a vivere in matrimonio legittimo con l’altro coniuge: la capacità civile
che si rivelava non tanto in sè ma più che altro in riferimento ll’altra persona e l’unica regola era
che sussistesse tra cittadini romani. Questo veniva spesso affiancato dai classici al divieto di
sposarsi con i parenti. Il fatto che tra gli sposi mancasse il connubium, che essi non fossero in età
pubere o che non avessero espresso il reciproco consenso era un impedimento per il iustae
nuptiae, a differenza della violazione del lutto vedovile, che era un antico precetto risalente ai
mores pe cui era vietato alla vedova di avere un nuovo marito prima del decorso del tempus
lugendi: letteralmente il tempo di piangere, che era di dieci mesi dalla morte del marito. La
violazione di questo precetto generava una sanzione dava luogo prima a sanzioni di carattere
sacrale e poi all’infamia.
La concezione romana del matrimonio era molto diversa rispetto alla concezione attuale: per noi il
matrimonio è un negozio giuridico, un atto e un rito che dà luogo ad un vincolo destinato a durare,
finchè non sopravvengono la morte del marito o della moglie oppure fino alla pronunzia dello
scioglimento o annullamento dell’atto da parte di un organo giudiziario. Invece per i romani il
matrimonio era di fatto la convivenza stabile di due persone di sesso diverso con la volontà
costante di vivere in un unione monogamica come marito e moglie. Il matrimonio era pertanto un
fatto sociale prima di essre un fatto giuridico.
Al matrimonio poteva accompagnarsi la conventio in manum, per effetto della quale la moglie
cadeva sotto la manus del marito e veniva pertanto incorporata di diritto nella famiglia del marito
mutando lo status familiae e perdendo iure civili ogni legame con i parenti di prima. Ma la
conventio in manum poteva anche non avere luogo: il matrimonio poteva essere cum manum o
sine manum (la moglie manteneva lo status familiae di prima del matrimonio). I matrimoni sine
manum erano considerati matrimoni liberi. Comunque nonstante inizialmente i matrimoni sine
manum costituivano una sorta di eccezioni e quelli cum manum erano considerati la regola,
successivamente, quelli cum manum scomparvero del tutto (durante il principato).
Per la costituzione del matrimonio non si esigeva alcun tipo di rito, affinchè esso fosse valido era
sufficiente che tra due persone di sesso diverso vi si stabilisse la convivenza con la volontà di
vivere come marito e moglie. (affectio maritalis) se questo non ci fosse stato, ci sarebbe stato un
concubinato. Il matrimonio romano era rigorosamente monogamico: non era concepibile provare
l’affectio maritalis per due persone contemporaneamente. Ciò che segnava l’inizio del matrimonio
era proprio la convivenza, ma come provare poi l’esistenza di un affectio soggettiva?la questione
era di fatto più che di diritto, attraverso alcuni aspetti fatti prima del matrimonio: preesistenza di
sponsali, costituzione di una dote, conventio in manum o i festeggiamenti che con la diffusione del
Cristianesimo solevano accompagnare le nozze. Di fatto dal punto di vista del diritto queste
caratteristiche non erano fondamentali, ma nel caso in cui ci fossero state sarebbero state prove
più che valide per provare l’affectio maritalis. La prova poi sarebbe sttaa molto più semplice se la
donna fosse stata ingenua o onesta oppure se l’uomo e la donna fossero stati appartenenti a un
pari rango o classe sociale.
Gli effetti del matrimonio erano molteplici: osolo i figli nati da iustae nuptiae erano considerati
legittimi e quindi cadevano sotto la patria potestas del padre; poi, la donna avrebbe acquistato la
dignità sociale e giuridica del marito, c’era dovere di fedeltà reciproco tra i due coniugi, (infedeltà
punita con sanzioni patrimoniali, e l’adulterio se riguardava la moglie poteva anche essere punito
con l’uccisione della moglie), furono vietate poi successivamente le donazioni tra i coniugi con la
ena della nullità oltre al divieto,tra marito e moglie fu sempre vietato l’atto del furto, ma per le
cose che la moglie avesse sottratte al marito dopo il divorzio l’editto pretorio previde un’atto
reipersecutorio.
Visto che il matrimonio era un’insieme di convivenza e affectio maritalis, esso poteva sciogliersi o
per la morte di uno dei due coniugi, ma anche nel caso in cui fosse venuta a mancare in uno dei
due o in entrambi i coniugi l’affectio maritalis. Per questo si parlò di divorzio (divertere:
allontanarsi), oppure di ripudium con riferimento al divorzio unilaterale. Di fatto non era richiesta
alcuna formalità neanche per il divorzio. Esso detrminava lo scioglimento del matrimonio
qulunque fosse stata la causa: solo che il comportamento del coniuge che vi avesse dato causa
veniva talora sanzionato tramite una nota censoria che l’avrebbe rimosso dal Senato o non
ammesso ad esso oppure l’avrebbe collocato in una posizione più debole nell’ambito delle
assemblee popolari. In età postclassica, con l’affermazione del Cristianesimo, il regime del
matrimonio subì cambiamenti notevoli, ma sebbene la dpttrina dei Padri della Chiesa proclamasse
l’indissolubilità del matrimonio, il diritto romano non pervenne mai ad abolirlo: lo ostacolò ma
senza vietarlo. Il divorzio fu consentito in molti casi tra cui il fatto che il coniuge fosse colpevole di
adulterio o un altro comportamento disdicevoleper quanto riguarda la moglie, o se il marito
avesse tentato di prostituire la moglie o avere una concubina, oppure per entrambi il caso in cui si
fossero macchiati di crimina. In ogni altra situazione, il ripudio sarebbe stato sine causae quindi
illecito: il matrimonio si sarebbe sciolto ugualemente ma il coniuge che avesse divorziato sarebbe
stato colpito da sanzioni diverse che andavano dalla perdita della dote alla deportatio in insulam .
almeno per il divorzio uniaterale si andò a chiedere che esso venisse messo per iscritto.
La dote(dos) è un istituto di diritto romano arcaico che consisteva in una o più cose che la moglie,
il di lei pater familias o un terzo conferivano al marito espressamente come dote: era detta
profecticia se costituita dal pater familias, e adventicia in tutti gli altri casi.
Inizialmente si pensò alla dote in relazione al matrimonio cum manum come se fosse una
compensazione per la fiiglia delle aspettative ereditarie che ella avrebbe perso dalla famiglia di
origine. Ma per i giuristi classici e soprattutto in merito ai matrimoni liberi, la dote era una sorta di
contributo(“per sostenere i pesi del matrimonio”), che giovava direttamente sl marito e
indirettamente alla moglie e dato che una volta sciolto il vincolo di matrimonio essa sarebbe stata
restituita alla moglie, aveva anche la funzione di mantenere la moglie una volta vedova o
divorziata.
La dote si costituiva tramite datio, promissio o dictio. La datio era letteralmente il trasferimento di
proprietà in favore del marito , quindi non era un negozio ma un effetto reale: datio dotis. Si
realizzava con negozi astratti quale la mancipatio, in iure cessio e traditi. La promitio doti era una
stipulatio , e in quanto tale un vero e proprio negozio giuridico, un contratto, nel quale a stipulare
era il marito che diveniva una sorta di creditore ma non proprietario. Essa era quindi una forma
obbligatoria con effetti obbligatori. Era una forma obbligatoria anche la dictio dotis: negozio
solenne che si compiva tramite la pronunzia di certa verba e aveva un effetto obbligatorio: il
marito divenuto creditore avrebbe avuto un actio in personam per l’adempimetno. Questo
scomparve nell’età postclassica.
La dote poteva essere costituita sia prima del matrimonio, con condizione sospensiva, che
durante il matrimonio, producendo effetti immediati traslativi del dominio.
Con il matrimonio inoltre, il marito diveniva titolare dei beni dei diritti dotali, nonstante ciò la dote
si costituiva in considerazione della moglie. Più tardi, ci fu una legge che vietò con pena di nullità
l’alienazione dei beni immobili dotali senza il consenso della moglie.
Una volta sciolto il matrimonio, il marito avrebbe restituito alla moglie la dote mediante l’actio rei
uxoriae; un actio in personam e in ius, molto simile a quella di buona fede, che presupponeva che
il matrimonio fosse stato sine manu. L’azione spettava alla moglie oppure al di lei pater familias e
si trattava di un’azione attivamenta intrasmissibile che non si trasmetteva pertanto agli eredi della
persona legittimata ad esperirla. Sciolto il matrimonio per morte della moglie ivece, la dote
sarebbe rimasta al marito. Se la dote avesse avuti ad oggetto denaro o altre cose fungibile, il
marito avrebbe potuto restituirla gradualmente in più rate, non in caso di adulterio. Mentre in
alcune circostanze il marito avrebbe anche potuto trattenere parte della dote: in caso di cattivo
comportamento della moglie o se quest’ultima avesse sottratto dalla casa del marito le cose
donate alla moglie durante il matrimonio. Giusitiniano abolì poi l’actio rei uxoriaesostituendola
con l’actio rei stipulatu.
Ad avere capacità giuridica erano le persone sui iuris: persone libere, cittadine romane e non
soggette a potestà. Infatti ad esempio i filii familias, pur essendo liberi e cittadini romani, erano
alieni iuris e privi pertanto di capacità giuridica, poichè soggetti al pater familias. I filii familias eran
inanzitutto i figli nati in un matrimonio legittimo che con la nascita cadevano sotto la patria
potestas del padre. Si diventava filii familias anceh per adoxione: o per adrogatio, adozione di un
sui iuris, o per adoptio, per quanto riguarda un alieni iuris.
L’adrogatio si compiva durante un assemblea popolare: comitia curiata, articolati in trenta curie,
con il pontefice che presiedeva l’assemblea e dopo aver svolto indagini molto accurate e
preliminari, interrogava i due soggetti interessati circa la loro volontà di adrgoare o di essere
adrogato. Avendo ricevuto una risposta positiva il potefice avrebbe anche interrogato il popolo
che avrebbe dato anch’esso il suo assenso. Dopodichè l’adrogato divetava un filii familias,
passando dalla condizione sui iuris a quella di alieni iuris sotto la potestas del pater familias
adrogante, e tutti i beni e i diritto del’adrogato, passavano sotto la potestà del pater familias. Si
realizzava così una successione inter vivos: i debiti contratti in precedenza dall’adrogato iure civili
si sarebbero estinti.
Diversa dall’adrogatio, era l’adoptio in senso stretto che riguardava un alieni iuris che passava dalla
famiglia di origine alla famiglia dell’adottante, spezzando iure civili ogni vincolo con la famiglia
d’origine e passando sotto la patria potestas del pater familias adottante. Il procidemento era tale
per cui il padre mancipava per tre volte il figlio all’adottante, il quale adottandolo in causa mancipii
dopo la prima e la seconda mancipatio lo manometteva. Con la treza mancipatio, il padre avrebbe
perso la patria potestas sicchè il padre lo rimancipasse: questa volta il padre naturale acquistava
l’adottando non più come filius ma come persona in causa mancipii. Presenti i tre soggetti:
adottante, adottato e padre naturale che dava in adozione, si compiva dinanzi al magistrato una
sorto d in iure cessio in cui il’adottante rivendicava come propria la persona che avrebbe voluto
adottare e infine il magistrato avrebbe pronunciato l’addictio in favore dell’adottante che
acquistava finalmente la patria potestas sull’adottato. Giustiniano semplificò il procedimento
tramite una mera dichiarazione di voler dare e voler ricevere in adozione.
Dall’età postclassica, fu riconosciuta la legittimazione per successivo matrimonioper cui i ifigli nati
fuori dal matrimonio divenivano figli legittimi cadendo sotto la patria potestas del padre.
Il padre aveva dunque potere assoluto e illimitato di fronte ai filiis maschi o femmine, adottati o
naturali che fossero espresso tramite la formula: ius vitae ac necis( diritto di vita o di morte), simile
a quello dei servi.
Anche per quanto riguarda l’aspetto patrimoniale, la condizione dei filiis era simile a quella dei
servi: non avevano diritti propri in quanto privi di capacità giuridica e potevano quindi acquistare
dal pater familias senza obbligarlo mai. Poi anche ai filiis familias era concesso talvolta un peculio.
Però la condizione patrimoniale dei filii familias si differenziò notevolmente con il tempo, rispetto
a quella dei servi: essi successivamente potevano assumere obligationes civile, obbligazioni vere e
proprie sanzionate da azioni. Questa capacità fu riconosciuta ai figli maschi ma non alle figlie
femmine e inoltre per l’esecuzione della sentenza, i creditori avrebbero dovuto attendere che il
filius cessasse la patria potestas e che divenisse egli stesso pater familias. Il fatto che contro i filiis
familias, i creditori non potessero agire in via esecutiva, dà ragione del fatto che ai filii familias si
applicò il regime della esponsabilità adiettizia.
Augusto concesse ai filii di avere beni propri, di poter quindi disporre validamente per testamento
dei proventi del servizio militare e dei beni con tali proventi acquistati. Si tratta di un processo
evolutivo che portò alla configurazione di un peculio castrense.(beni acquistati dai filii familias per
il servizio militare che il pater non avrebbe potuto avocare a sè). Questo regime del peculio
castrense fu gradualmente esteso anche ai guadagni e ai beni e diritti: peculio quasi castrense.
Fu sempre in età postclassica che si attribuì ai filiii familias la proprietà dei beni provenienti da
successione materna e poi ancora i beni acquistati in occasione del matrimonio.: bona adventicia.
Per cui il figlio era proprietario di questi beni ma essi spettavano al patr familias.
La posizione giuridica dei filii familias, poteva cambiare per motivazione piuttosto diverse tra loro:
essi potevano essere mancipati dal loro padre nel caso dell’adoptio o potevano uscire dalla familia
di appartenenza cessando cosiì di avere libertà o anche solo la cittadinanza.
La patria potestas si estingueva di norma con la morte del pater familias, e così i figli divenivano
sui iuris e i figli maschi divenivano pater familias essi stessi. Gli altri filii familias, i nipoti duqneu,
rimanevan alieni iuris e cadevano sotto la potestà del loro genitore. Alla morte del padre era
quindi equiparata la perita della libertà o anche solo della cittadinanza.
L’emancipatio era equiparata a quella impiegata per l’adoptio:tre mancipationes e con la
manumissione il figlio diveniva sui iuris.
Le persone libere soggette a potestà e quindi alieni iuris eran anche le donne in manum: esse
potevano passare passare dalla condizione di sui iuris a quella di alieni iuris con la cnventio in
manum cadendo così sotto la manus del marito integrandosi così nella famiglia di lui.
La conventio in manum si compiva tramite confarreatio: arcaico e solenne rito religioso che
esigeva la pronunzia di certa verba in presenza di dieci testimoni con l’intervento degli sposi e la
partecipazione del sacerdote. Si compiva un sacrificio a Giovenel corso del quale era impiegato
pane di farro.(ebbe rare applicazioni). Tramite la coemptio: una mancipatio adottata al fine
dell’acquisto del manus in cui l’oggetto alienante era la donna. Fu il modo più comune per
l‘acquisto della manus, ma scomparve poi successivamente. E infine c’era l’usus.
La posizione circa la moglie in manu nell’ambito della famiglia era piuttosto singolare: era
considerata al pari della figlia rispetto al marito, della nipote rispetto al suocero pater familias e
della sorela rispetto ai suoi stessi figli.
Il vincolo tra più componenti della stessa familia ra detto agnatio:parentela civile che prescindeva
dal vincolo di sangue e non mancava tra padre e figli, ma talvolta poteva mancare tra padre e figli
adottivi. Con la morte del pater famiias, la familia si sarebbe spezzata in tante familiae quante
erano i filii familias ed eventualmente moglie e nuore in manu, nonostante ciò il vincolo di agnatio
non si estingueva. L’agnatio era un vincolo di tipo di parentela naturale conseguente ad adozione o
a conventio in manum in linea maschile e poteva riguardare i cittadini romani. Se si parla di agnati
appartenenti a nuclei familiari differenti si parlava di familia communi iure, composta dll’insieme
delle persone che sarebbero state sotto la potesta dello stesso pater familias e costui sarebbe
stato ancora in vita. Il vincolo si poteva estinguer per effetto di emancipatio, datio in
adoptionem,coemptio di una filia familias o per conventio in manum. Si estingueva con la perdita
della libertà e della cittadinanza.
Diversa dall’agnatio era la cognatio: parentela di sangue sia maschile che femminile che tante
volte coincideva anche con l’agnatio.
La parentela poteva inoltre essere in linea retta o in linea collaterale. Erano parenti in inea retta gli
ascendenti e i discendenti tra loro : genitori e figli, nonni e nipoti...ed erano invece parenti in linea
collaterale non i parenti in linea retta, ma bensì quelli che avevano un ascendente in comune:
fratelli e sorelle, zii e nipoti, cugini... nell’ambito della paretìntela assumeva poi valore il gradope
stabilire il grado per quanto riguarda la parentela in linea retta si contavano le genrazioni, senza
poi calcolare quella maggiore: genitori e figli sono parenti di primo grado, nonni e nipoti di
secondo e cos’ via... lo stesso veniva fatto anche per la parentela in linea collaterale: si risale
all’ascedente comune che poi non verrà calcolato e si discende al parente in relazione al quale si
vuoe stabilire il grado: fratelli e sorelle sono parenti di secondo grado, zii e nipoti di terzo grado, i
cugini, figli di fratelli e sorelle sono di quarto e così via...
L’affinità è il legame che unisce il coniuge con i parenti, agnati e cognati che siano, in linea
collaterale.
In seguito nacquero delle pretese alimentari giudiziariamente tutelate tra privati, parenti e
estranei che fossero, in virtù di una stipulatio o di un legato. Si affermò in questo modo abbastanza
gradualmente un reciproco dovere alimentare tra genitori e figli, esteso poi anche agli altri gradi di
parentela (dovere alimentare anche tra patroni e liberti.
La captis deminutio era uno schema concettuale con il quale si spezzavano i precedenti vincol di
agnatio e avveniva un mutamento di status. Si fece anche una distinzione tra captatio maxima:
conseguiva alla perdita dello status libertatis, captatio media, alla perdita dello status civitatis e
quella minima relativa alla perdita dello status familiae.
Subirono molte limitazioni più o meno gravi alla capacità giuridica i liberti, i coloni e gli altri.
Ad esempio le persone che, a causa di comportamenti riprovevoli, per l’esercizio di detrminate
attività o per la condanna subita in certi giudizi , sarebbero andati incontro a disistima sociale ed
erano colpite da infamia o ignominia. Esse erano ritenute così ad esempio le prostitute,
lenoni,commedianti, gliadiatori, alcuni condannati ai crimina, o che avessero commesso azioni
quali il furto, de dolo, vi bonorum raptorum, iniuriarum, legis Laetoriae, actio pro socio e azioni
dirette. Gli infames e gli ignominiosi andavano in contro a gravi incapacità di diritto pubblico.
Invece, di maggiore interesse sono i limiti alla capacità di diritto che riguardano le donne durante
tutto l’arco di tempo che concerne il diritto romano. Infatti in merito al diritto pubblico, fu loro
negata ogni tipologia di capacità; ma la maggiore delle limitaizoni riguardava la loro capacità
giuridica in merito alla patria potestas che era una prerogativa unicamente maschile e da essa
dipendevano la struttura della familia rigidamente patriarcale, il riconoscimento della parentela
civile, agnatio, solo in linea maschile e anche la possibilità per le donne di adrogare o dell’adoptio.
Le donne furono anhce escluse dagli uffici di tutore e di curatore, nè potevano rappresentare altri
in giudizio.
Per capacità di agire si intende l’idoneità ad operare direttamente nel mondo del diritto che
riguardava unicamente le persone fisiche ed era riconosciuta agli esseri umani intellettualmente
capaci. Oggi la capacità giuridica presuppone anche la capacità di agire, ma allora la capacità di
agire era riconosciuta anche per certi aspetti sugli alieni iuris e pertanto a persone giuridicamente
incapaci: servi, filii familias, donne in manu ma anche pesonae in causa mancipii.
Per il riconoscimento della capacità di agire rilevava anzitutto l’età e la distinzione in merito
fondamentale era quella tra puberi e impuberi: impuberi era tutti coloro che non avessero
raggiunto la capacità fisiologica di generare; puberi invece erano tutti coloro che avevano
raggiunto quella capacità o ne avessero comunque le apparenze. In merito si fece un’importante
distinzione tra maschi e femmine perchè per le femmine quest’età era il compimento del
dodicesimo anno di età, per i maschi invece inizialmente si guardavano i caratteri esteriori
connessi alla capacità di generare. Gli impuberi inoltre erano infantes,i fanciulli non ancora in
grado di un eloquio ragionevole, o infantia maiores, dopo essere passati per infantes. La capacità
di agire era dunque riconosciuta ai puberi: pienamnete se maschi, meno pienamnete se femmine
e negata del tutto agli infantes, riconosciuta solo in parte agli infantes maiores. In merito agli
impuberi sui iuris, ci furono dei problemi di tipo patrimoniale: essi erano fin da età remota soggetti
a tutela (esercitata da un tutore sul suo pupillo).
Questa tutela era definita tutela impuberum ed era un istituto del ius civile. Questa poteva essere
legitima, con l’agnatio di grado più vicino, la tutela testamentaria si dava solo se il pater familias,
temendo di morire prima che il figlio raggiungesse la pubertà, non avesse provveduto a nominargli
un tutore. E infine anche la tutela dativa che permetteva al pretore di avere il potere di nominare
su istanza della madre o di altri congiunti un tutore all’impubere sui iuris che non ne avesse
alcuno.
La tutela era un istituto insieme potestativo e protettivo: per questo infatti il tutore esercitava un
potere nell’interesse della familia per la buona conservazione del patrimonio familiare,
assicurando al contempo protezione e assistenza al pupillo. Si trattava dunque di una sorta di
potere-dovere che fu riservato sino a tutta l’età classica ai soli cittadini romani di sesso maschile e
fu poi solo in età postclassica che le madri dell’impubere, rimasta vedova, fu ammessa dalla tutela
a condizione che non si risposasse.
Il tutore era inoltre l’auctoritas: legittimato ad intervenire pertanto negli atti negoziali compiuti dal
pupillo, interponendo la sua auctoritas che era una sorta di dichiarazione di volontà. Egli poteva
quindi acquistare o trasferire il possesso del bene nell’interesse del pupillo. A ciò pose poi un
limite in seguito, un senatoconsulto che fece divieto al tutore di alienare fondi rustici e suburbani
appartenenti al pupillo. Per quanto riguarda quei negozi che comportavano l’acquisto e la perdita
del possesso, il tutor impuberum era considerato un rappresentante diretto; per gli altri negozi
invece l’atto avrebbe avuto conseguenze nel solo tutore. La tutela cessava di norma, una volta ch e
il pupillo avesse raggiunto l’età pubere.
Una volta cessata quindi la tutela, il tutore poteva essere chiamato a rendere conto della gestione
tutelare. In età preclassica, si parlò di actio tutelae, esperibile una volta cessata la tutela dall’ex
pupillo contro l’ex tutore e si trattava di un azione reipersecutoria di buona fede e infamante. Per
essa il tutore era obbligato a trasmettere gli acquisti fatti a nome proprio e nell’interesse del
pupillo, e rispondeva per quei pregiudizi patrimoniali derivati al pupillo dalla gestione della tutela e
imputabili a suo dolo o colpa.
Una volta raggiunta l’eà pubere, i maschi acquistavano capacità piena di agire, meno piena le
femmine. Nonstante ciò, con la crescita dell’economia, l’intensificarsi delle relazioni commerciali e
degli scambi e con il riconoscimento di nuovi rapporti giuridici si avvertì il pericolo di avere sempre
più giovani che avessero appena raggiunto l’età della pubertà che potesser obbliagarsi, alienare
beni, affrancare schiavi e così via... venne anche istituita un’azione attraverso una nuova lex,
azione detta actio legis Laetoriae, contro quelli che avessero negoziato con un minore di 25 anni
pubere e sui iuris raggirandolo. L’azione penale e infamante cadde poi in desuetudine in età
postclassica.
Il pretore provvide anche all’istituzione della figura del curatore del minore adolescente con il
compito di assisterlo negli affari.
Poi dall’età classica si usò concedere ai minori di venticinque anni di età la venia aetatis, in modo
che il minore avesse amministrato liberamente il proprio patrimoni e gestito i suoi affari, senza
avere la possibilità di invocare i rimedi pretori n favore degli adolescenti.
La capacità di agire era negata ai furiosi e ai prodigi: i primi erano gli infermi di mente, mentre i
secondi erano ritenuti incapaci di amministrare i propri beni per inettitudine pratica , genralmente
anche con tendenza allo sperpero. Mentre ai primi era del tutto negata la capacità di agire, ai
secondi solo parzialmente e ai primi per il fatto di essere furiosi ì, mentre ai secondi per divieto o
interdictio da parte del magistrato. I prodigi e i furiosi erano soggetti a una cura, solitamente il
parente in linea maschile di grado più vicino, con una procedura molto simile a quella del tutore. Si
parlò di curs legitima. I compiti del curator furiosi riguardavamo sia la persona che il patrimonio
del malato di mente , quelli del curator prodigi, solamente il patrimonio. Il regime giuridico era
molto simile a quello della tutela impuberum.
Anche i sordi, i muti e altri soggeti colpiti da certa malattie croniche invalidanti erano di per sè
capaci di agire ma impediti in ounto di fatto ad operare compiutamente nel mondo del diritto e a
gestire autonomamente i propri affari. Pertanto il magistrato provvedera a nominare per loro dei
curatori speciali. Le donne nel diritto romano subirono limitazioni non solo in merito alla capacità
giuridica, ma anche per quanto riguarda la capcità di agire, ma nonostante ci, durante l’età
repubblicana ci fu un enorme processo evolutivo che permise la scomparsa dei ogni tipo almeno
formale di disparità di trattamento tra i due sessi.
Il punto di partenzo in merito a questo è la soggezione della donna pubere e sui iuris alla tutela
muliebre: talchè la donna pubere, una volta cessata la patria potesta su di lei, passava sotto la
potestà del tutor mulieris e la donna impubere sui iuris, raggiunta la pubertà, passava dalla
soggezione alla tutela degli impuberia quella del tutor mulieris. Anche la tutela muliebre poteva
essere legitima: che spettava all’agnatus proximus, la tutela testamentaria che spettava alla
persona designata in testamento dal pater familias e il tutore dativo nominato dal pretore. Il tutor
mulieris non gestiva il patimonio della donna e i suoi compiti erano di fatto di assistenza e di
controllo delle gestione del patrimonio, poichè la donna no avrebbe potuto gestire da sola o
compiere sempre da sola gli atti di disposizione dei propri beni o negozi di obbligazioni. Dall’ultia
età repubblicana, la tutela muliebre andò perdendo significato: successivamente infatti ci fu la
possibilità per la moglie di scegliere liberamente per sè il suo tutore: ella aveva optio di sceglier il
suo tutor chiamato tutor optivus. Inoltre dall’epoca augustea, grazie alla lex Iulia et Papia
Poppaea, alla donna venne tolto il tutore e venne riconosciuta piena capacità di agire, alle dnne
con tre figli se ingenuae o quattro figli se liberte. La tutela muliebre scomparve poi del tutto in età
postclassica.
Ma la capacità giuridica poteva essere riconosciuta, oltre che alle persone fisiche, anche ad entità
diverse: persone giuridiche. Tra esse si distinguono: le corporazioni a base di personale, e
fondazioni a base patrimoniali.
Per corporazione si intende un’aggregazione di persona con propria organizzazione interna, cui
possano far capo diritti e doveri che siano diversi ai diritti e i doveri delle persone fisichee dei
singoli componenti di essa. La corporazione rimane anche identica a se stessa pure se alcuni dei
suoi membri vengono meno, altri se ne aggiungonoo vadano mutando. Invece per fondazione si
intende un complesso patrimoniale volto ad uno scopo, considerato esso stesso titolare dei beni
che lo compongono e comunque delle situazioni giuridiche soggettive che a quel complesso
patrimoniale si collegano così che i relativi rapporti giuridici non facciano capo che alla fondazione
stessa. La fondazione rimaneva isìdentica a se stessa pure ne caso in cui venivano a mutare gli
elemnti patrimoniali, l’identità fisica degli amministratori o dei beneficiari.
La collettività dei cittadini romani politicamente organizzata era definita Populus Romanus e tutto
ciò che lo riguardava veniva definito dai romani, come appartenente alla sfera del diritto pubblico,
estraneo pertanto alla sfera del diritto privato e regolato diversamente rispetto ai rapporti tra i
privati. La capacità giuridica si riconobbe ai civitates o ai collegia: quello di civitates fu un termine
genrale per designare municiapia e colonie, agglomerati urbani fuori città romana e con
autonomia amministrativa. I municipia erano formati dai cittadini romani, le colonie dai Latini
coloniarii. Fu poi con la concessione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’impero,
che le clonie furono assimilate dai municipi. I collegia invece erano associazioni di minore
importanza e portata; essi potevano avere scopi di culto, ma potevano essre anche organizzazioni
di commercianti o artigiani, o anche povera gente col fine di provvedere ai riti funebri e al
seppellimento dei propri membri. Furono detti anche sodalitates. Successivamente vennero
stabiliti nuovi collegi, che però dovevano necessariamente essere approvati preventivamente dal
Senato oppure dall’imperatore; e inoltre nessun collegio avrebbe potuto avere meno di tre
persone al suo interno.
Le corporazioni avevano la possibilità di fare compravendite, locazioni e mutui , ma anche
mancipationes, traditiones e stipulationes, inoltre il preotre consentì loro la possiblità di stare in
giudizio tramite actores. Essi avrebbero potuto anche avere beni in possesso e in proprietà.
Per fondazione si intendeva il complesso ereditarionell’intervallo tra la morte dell’ereditando e
l’accettazione da parte dell’erede. Il punto di partenza a riguardo era che l’eredità giacente non
appartenesse a nessuno: sine domino. Nel caso in cui fossero state sottratte da qulacun altro si
sarebbe allora trattato di un furto
In età postclassica si diffuse la pratica di disporre lasciti o anche donazioni in favore di
corporazionireligiosi vincolandone in questo modo il reddito a scopi di culto o di beneficienza. In
questo caso si parlò di piae causae.

LE COSE
Il termine res che noi traduciamo con cosa, nelle fonti giuridiche romane aasum significati
molteplici: adesso quello che ci interessa è il termine res relativo al significato di oggetto o entità
materiale e quindi una porzione limitata del mondo esterno. Oggi si preferisce parlare al riguardo
di beni e vi si fanno rientrare anche gli animali, gli edifici e i terreni; nel diritto romano anche gli
schiavi.
La prima distinzione che sipuò fare è quella tra res corporales e res incorporales: le prime sono le
cose che si possono toccare, mentre le seconde quelle che non si possono toccare: eredità,
usufrutto, obbligazioni e servitù prediali. Alcune identificate con iura e quindi con taluni diritti
soggettivi , pure se tali diritti potevano avere inizialmente ad oggetto cose corporali. È strano e
singolare il fatto che tra i diritti soggetti non compaia il diritto di prorietà, questo perchè era inteso
dai romani come l’idea di appartenenza (la cosa è mia) e il diritto di proprietà si identificò quindi
con il suo oggetto considerato esso stesso una res corporalis.
Si distingue anche tra cose in commercio e fuori commercio le prime potevano formare oggetto di
proprietà privata e comunque rapporti giuridici patrimoniali, mentre le altre fonamentalmente no.
Le cose fuori commercio erano res divini iuris: di diritto divino, ovvero res sacrae (altari...), res
religiosae ( luoghi per la sepoltura), res sanctae (porte e mura della città). Alle res divini iuris si
contrapponevano le res humani iuris: ovvero di diritto umano che potevano essere di diritto
pubblico o privato: le prime appartenevano alla collettività: populus romanus ed erano fuori
commercio se destinate all’uso pubblico (fiumi, piazze, teatri...) in commercio se si trattava dei
beni ai quali il populus romanus ricavava direttamente un reddito o comunque un’utilità.
Ci fu un’altra distinzione tra res mancipi: fondi sul suolo italico come schaivi, animali da tiro o da
soma e servit rustiche; e res nec mancipi, tutte le altre. Le prime erano le cose di maggior pregio
nella società romana arcaica e per esse venne richiesto il trasferimento di proprietà col rito
solenne della mancipatio o dopo anche con il rito dell’in iure cessio. Invece per il trasferimento di
proprietà delle res nec mancipii, venne utilizzata la traditio. Questa classificazione perdette senso
in età postclassica, con la decadenza della mancipatio e in iure cessio.
Bisogna distinguere tra beni mobili e beni immobili: i primi sono gli animali o gli oggetti inanimati
trasportabili e comunque amovibili anche gli schivi in età romana, mentre i secondi rappresentano
il suolo insieme a ciò che si inserisce stabilmente. Nonostante questa calssificazione inizialmente
non ebbe alcun rilievo, successivamente ebbe importanza in merito all’usucapione o la difesa del
possesso .
Si suole anche distinguere tra cose fungibili: le cose che rilevano un peso, un numero e una misura
e per le quali è rappresentabile quindi un equivalente corrispondente per peso, numero o misura,
e cose infungibili: le cose che vengono in consideraizone per se stesse nella loro individualità.
Si distingue ancora tra le cose di genere: in merito alle cose fungibili e cose di specie per le cose
infungibili. Si guarda attraverso una prospettiva diversa: si parla di cose di genere ponendo
l’accento sull’appartenenza ad una categoria (due bottiglie di vino rosso), mentre si parla di specie
inidicando cose perfettamente individuate come lo schiavo Gianni.
Si distingue ancora tra le cose consumabili: suscettibili di una sola utilizzazione e quindi che si
consumano per il fatto stesso di usarle, e cose inconsumabili: che possono essere consumate più
volte.
Le cose si dicono divisibili o indivisibili se sono o meno suscettibili ad una divisione materiale.
C’è un ulteriore distinzione tra le cose semplici: che per i romani costituivano un’entità naturale
(uno schiavo o una pietra), cose composte: le cose costituite da più cose semplici congiunte tra
loro artificialmente sempre che le cose che le componessero fossero tra loro riconoscibili e cose
collettive: più cose semplici non congiunte ma considerate unitariamente: gregge biblioteca.
I romani parlavano di frutti in merito ai prodotti delle piante e degli animali, e dal punto di vista del
diritto divenivano proriamente frutti una volta separati dalla cosa madre, e pertanto non avevano
considerazione giuridica autonoma. Come i frutti, furono considerate le attività lavorative dei servi
e si parlò invece di frutti civili in merito al corrispettivoche si ottenne concedendo una cosa in
godimento .
Si parla di diritti reali, per i diritti soggettivi su una cosa e come tali, diritti a carattere assoluto,
opponibili a tutti i membi della collettività. Di fronte ad un diritto realiìe, tutti i consociati sono
potenzialmente in egual misura obbligati a mnatenre un comportamento negativo: ad astenersi
cioè da azioni che siano in contrasto con quel diritto. In contrapposizione c’è il diritto di credito:
rapporto di obbligazione che costituisce il lato attivo ed è un diritto patrimoniale relativo tra due
parti: uno o più creditori dauna parte e uno o più debitori dall’altra, gli uni e gli altri soggetti
precisamente individuati e per cui la parte debitrice è tenuta in favore dell’altra parte
all’adempimento di una certa prestazione che consiste in quetsocaso in un comportamento
positivo. Qeusta classificazione è essenziale, ma lo era altrettanto importante all’epoca del diritto
romano, poichè era alla base dei negozi giuridici con effetti reali e dei negozi giuridici con effetti
obbligatori e essenziale anche per la distinzione tra le actiones in rem e quelle in personam. Diritto
reale per eccellenza era quello di proprietà che attribuisce al titolare e quindi al proprietario un
potere generale illimitato al godimento e alla disposizione del bene che è oggetto del negozio. Ma
sulla cosa stessa potevano gravare dei diritti reali : diritti reali limitati che sono stati cassificati in
diritti reali di godimento o di garanzia: i primi sono facoltà di godimento più o meno limitate come
l’usufrutto, la servitù ..., gli altri invece conferiscono al titolare il diritto di soddisfare un proprio
credito rivalendosi su una cosa in caso di inadempimento. Il carattere reale del diritto di proprietà
è evidente e emrge se si pone mente che è connaturata al diritto reale l’opponibilità a tuti i
membri della collettività: opponibilità ai terzi. Così, se da un canto, il proprietariopuò perseguire la
cosa propria presso chiunque la possieda, d’altro canto, i titolari di dirtti reali limitati potranno far
valere il proprio diritto no nsolo contro il possessore , ma anche nei riguardi di ogni eventuale
successivo proprietario dello stesso bene. I diritti reali erano inoltre diritti tipici riconosciuti e
tutelati e il loro numero fu sempre diverso a seconda dei contesti ma sempre contenuto.
Per proprietà si intende un diritto soggettivo di natura reale per cui il proprietario che ne è anche
titolare, si riconosce sulla cosa che ne è oggetto una signoria generale e inoltre non è possibile
elencare le facoltà spettanti al proprietario: ne rientra l’idea del godimento e della disponibilità
esclusiva e piena della cosa in questione.
Tuttavia ci sono alcune limitazioni per quanto riguarda queste facoltà: limitazioni legali, imposte
quindi dall’ordinamento giuridico, o limitazioni volontarie, caso in cui si parla si elasticità.
Si tratta inoltre di un diritto che una volta acquistato può in sè e per sè prescindere dall’esercizio
effettivo. Infatti il diritto di proprietà non si perde per il fatto che non venga esercitato ma sussiste
fino a quando non si sia verificato e sempre che si verifichi, un fatto che ne determini l’estinzione.
Di norma possiamo dire che il proprietario è anche il possessore della cosa, ma può anche non
esserlo e tuttavia restare il proprietario mantenendo quindi il diritto al possesso: si tratta di un
diritto che è imprescrittibile.
Allora si parlava in termini di appartenenza per indicare la proprietà (questa cosa è di Tizio) e per
indicare che si stava trattando di un potere acquisito e riconosciuto dal ius si aggiungeva anche ex
iure Quiritium. Con il termine dominus si indicò il proprietario, mentre i termini proprietas e
proprietarius sono di età più tardiva: età classica. Nonostante ciò, la vecchia terminologia non fu in
età classica totalmente abbandonata e si continuò a esprimere l’idea di appartenenza indicando la
proprietà. Il dominium ex iure Quiritium era un istituto del ius civile e da esso tutelato e garantito.
Si parla cioè di proprietà quiritaria o proprietà civile, ma esistevano anche la proprietà pretoria,
peregrina e quella provinciale.
Per quanto riguarda la proprietà, in termini di appartenenza, in epoca romana, potevano esserne
titolari unicamente i cittadini romani e ne erano oggetto res corporales, sia nec mancipi che res
mancipi, sia mobili e immobili ma immobili solo su suolo italico.
Le terre originariamente appartenevano alla collettività ed erano prevalentemente adibite al
pascolo: queste terre che si andarono ad accrescere nel tempo costituivano l’ager publicus, e
venivano lasciate in godimento per la maggior parte a privati per estensioni abbastanza notevoli.
Ma successivamente, queste terre cominciarono ad essere oggetto di assegnazioni a carattere
definitivo, cosicchè i beni acquistati in tal guisa diventavano propri dei privati ex iure Quiritium. Poi
fu con la diffusione dell’agricoltura che alla distribuzione del ager publicus, in proprietà individuale
a privati si dovette poi far sempre maggior ricorso. Per l’assegnazione si procedeva mediante una
limitatio: un rito avente connotazioni sacrali che si compiva con l’intervento di un magistrato e di
un agrimensore(da gromaticus: tracciava le linee parallele e perpendicolari che incrociandosi
avrebbero stabilito i confini tra gli appezzamenti da assegnare, per fare ciò si aveva anche cura di
lasciare sempre uno spazio libero largo non meno di cinque piedi (un piede era circa 30 cm)
definito un limes che non poteva essere acquistato).
Il dominium ex iure Quiritium era un potere assoluto e anche illimitato: da qui l’idea di proprietà,
espressa in termini di avere il “diritto di usare ed abusare della cosa propria”. Il diritto romano, a
differenza di oggi, non aveva in merito, un divieto generale dei cosiddetti atti emulativi:
comportamenti del proprietario di un fondo nell’esercizio di un suo diritto senza trarne vantaggio
ma solo per nuocere al vicino. (“chi esercita un proprio diritto non lede nessuno”). Il fatto che
questo potere fosse assoluto e illimitato è strettamente collegato alla proprietà civile immobiliare
che era esente da tributi (solo poi a partire da Diocleziano). Il dominio sugli immobili si estendeva
sia in altezza che in profondità: sino alle stelle sino agli inferi. Inoltre si può sottolineare che la
limitatio permetteva ai proprietari i l ibero accesso ai fondi e riduceva al minimo le possibili
interferenze tra vicini. Anche per quanto riguarda gli edifici: tra aedes appartenenti a diversi
proprietari, era necessario lasciare un ambitus : spazio di cinque piedi di larghezza, come il limes.
Ma, in seguito, si usò procedere anche senza il rito della limitatio per l’assegnazione dei terreni e
per quanto riguarda le terre confinanti si palò di agri arcifinii. Un fenomeno analogo era quello
degli edifici. Bisognava inoltre assicurare ogni volta l’accesso libero ai proprietari, nello stabilire i
confini tra i fondi; tanté che non esistette nel diritto romano un precetto che facesse obbligo ai
proprietari di consentire il passaggio sul proprio fondo al proprietario del vicino fondo intercluso.
C’erano alcune limitazioni di tipo legale: dovevano essere tollerate pertanto le immissioni di fumo,
acqua e simili dall’immobile del vicino al proprietario, purché dipendenti dall’uso normale del
fondo e anche la sporgenza dei rami degli alberi purché sporgessero ad una altezza superiore a 15
piedi., se inferiore si potevano tagliare e trattenere. Si parla in merito, dell’actio acquae pluviae
arcendae, ai rimedi contro il danno temuto, all’operis movi nuntiatio, all’interdictum quod vi aut
clam e anche l’azione per il regolamento dei confini.
Il dominum ex iure Quiritium poteva acquistare tramite alcuni fatti o atti precisamente individuati:
c’erano intanto i modi di acquisto iuris civilis( mancipatio, in iure cessio e usucapio)e quelli iuris
gentium( occupazione, accessione, specificazione e traditio): i primi con effetti ai soli cittadini
romani, i secondi anche ai peregrini .
Quella di maggior rilievo è la distinzione tra i modi di acquisto a titolo originario e quelli a titolo
derivativo: originari e derivativi(si tratta in ogni caso di modi di acquisto particolari). I primi
prescindono da ogni relazione tra chi acquista e il precedente proprietario e possono avere ad
oggetto anche una cosa di nessuno come il caso dell’occupazione o anche una cosa altrui;
l’importante è che l’acquisto avvenga indipendentemente dalla relazione che c’è tra il proprietario
e chi acquista. (autore-avente causa). Nei modi originari rilevano solo l’acquisto in sé e le sue
modalità di attuazione, mentre in quelli derivativi la proprietà viene acquistata così com’era
presso colui che l’ha trasmessa: il proprietario di un bene lo trasmetterà con gli stessi pesi e le
stesse servitù. Ai modi di acquisto derivativi si accostano anche quelli costitutivi(derivativo-
costitutivi) che fanno riferimento al fenomeno per cui taluno diventa titolare di un diritto
soggettivo che si costituisce ex novo, e quindi in precedenza autonomamente inesistente sotto il
profilo giuridico che ha tuttavia una radice espressa nel più ampio diritto del soggetto che lo
costituisce. Si parla di questo fenomeno in merito ad esempio dell’usufrutto: il proprietario non è
usufruttuario della cosa propria, pertanto si dice che egli acquista un diritto nuovo che ha però la
sua radice nella proprietà piena del costituente. Il diritto a titolo originario si acquistava per
occupazione, specificazione, accessione invece quello derivativo si acquistava per traditio, in iure
cessio e mancipatio.
Per quanto riguarda invece i modi di acquisto a titolo universale, si parla dei casi in cui l’acquisto
dei beni o diritti consegue all’acquisto di complessi patrimoniali delle componenti di per sé non
definite, alcune delle quali potrebbero anche non essere note all’acquirente nel momento in cui
ne diventa titolare.
L’occupazione era un modo di acquisto originario e iuris gentium della proprietà quiritaria.
Consisteva nella presa di possesso di cose che non appartenevano a nessuno, come animali in
stato selvatico, cose trovate sulla riva del mare, cose dai privati sottratte al nemico in tempo di
guerra, isola emersa in mare, sempre che i fondi rivieraschi fossero limitati…ecc… si parla
dell’acquisto di cose abbandonate purché fossero res nec mancipi, delle res mancipi, il proprietario
manteneva il dominio finché un eventuale occupante ne fosse divenuto egli stesso proprietario
per usucapione. In merito ad esempio del tesoro, denaro o preziosi rimati sepolti in un fondo di
epoca tanto remota da non conservarne memoria, spettava al proprietario del fondo dove si
trovava o se rinvenuto da persona diversa dal proprietario del fondo, il tesoro sarebbe spettato
per metà al dominus fundi e per l’altra metà a chi l’avesse scoperto, divenuto proprietario tramite
l’acquisizione del possesso del bene.
Per accessione si indicano invece i fenomeni legati allo iuris gentium che, accomunati dalla
circostanza che una cosa corporale subisce un incremento, completamento o arricchimento, per
aggiunta di un’altra che non appartiene allo stesso proprietario. La cosa che subisce un incremento
viene detta cosa principale mentre l’altra viene detta accessoria. L’incremento si verifica a
vantaggio del proprietario della cosa principale pure se ignaro e l’acquisto è a titolo originario.
Un caso di accessione è il caso dell’unione delle cose di qualità diversa: unione organica quando ha
luogo per compenetrazione di corpi in modo che la cosa accessoria diventi un tutt’uno con la cosa
principale. Questo ad esempio per quanto riguarda la semina fatta con sementi proprie su terreno
altrui, o la tintura con colore proprio su stoffa altrui, o la ferruminatio, unione di due oggetti
metallici di proprietari diversi…
Nell’accessione rientrano anche gli incrementi fluviali: alveo abbandonato per cui i proprietari del
fondo, non limitato, estende il suo dominio sino alla linea mediana del fiume: proporzione di terra
affiorata nel mezzo del fiume che cadeva in proprietà dei domini dei fondi opposti con confine
segnato dalla linea mediana del fiume.
Un altro tipo di accessione è l’inaedeficatio: costruzione di un edificio con un materiale
appartenente a una persona diversa rispetto al proprietario del suolo. Si diceva pertanto “la
superficie accede al suolo”, intendendo per superficie tutto ciò che insisteva stabilmente sul suolo
e si estendeva senza limiti. Il proprietario diveniva automaticamente proprietario anche
dell’edificio, ma solo dell’edificio nel suo complesso, non dei singoli materiali utilizzati con i quali
era stato costruito. I materiali di costruzione , una volta demolito l’intero edificio, potevano essere
riutilizzati, come spesso accadeva, per altre costruzioni.
Poteva succedere talvolta che taluno costruisse su terreno proprio con materiale altrui: in questi
casi il proprietario dei materiali non avrebbe potuto rivendicarli se non una volta avvenuta la
demolizione completa dell’edificio e sino ad allora il suo diritto di avere indietro i materiai era
detto “quiescente”, una volta demolito l’edificio, “risvegliato”. Ma si trattava sempre di una
demolizione che egli non avrebbe neanche potuto pretendere che avvenisse ma doveva
unicamente aspettare. Avrebbe poi potuto pretenderne la restituzione, una volta demolito
l’edificio, tramite una rei vindicatio.
C’è anche la specificazione, sempre a titolo originario e riguarda la trasformazione di una cosa
altrui sino a farne un’altra cosa che nel comune apprezzamento appare nuova (dall’uva viene
ricavato il vino, da una massa di argento il vaso). Si faceva successivamente una distinzione in
merito a una specificazione che fosse o meno reversibile: se fosse stata reversibile il dominus ne
avrebbe mantenuto la proprietà(come il caso del vaso), se non era reversibile, lo specificatore
avrebbe acquistato la res nova (il caso del vino con l’uva).
Era sempre chi acquistava che aveva un ruolo attivo: per l’in iure cessio a causa di un adattamento
delle formule processuali a funzioni negoziali, per la mancipatio invece essa avrebbe mantenuto la
sua struttura. Ma, in ogni caso, l’idea di proprietà prescinde dall’idea del possesso e si dovette col
tempo affermare che l’acquisto da parte del mancipio accipiens o del cessionario di quel potere fu
detto dominium ed era subordinato all’esistenza dello stesso potere rispettivamente nel
mancipante e nel cedente. La mancipatio e la in iure cessio comportavano da un lato il
trasferimento della proprietà civile, ma anche il passaggio di possesso, che però avveniva
solamente se si trattava di beni mobili, per i beni immobili esigeva anche la traditio per il passaggio
del possesso.
La traditio riguardava un negozio bilaterale che si compiva mediante la consegna di una cosa : iuris
gentium, sia di beni mobili che immobili e trasferiva comunque il possesso. Ma riguardava solo le
res corporale e affinchè la traditio trasferissse la proprietà era necessario che a compierla fosse
proprio il proprietario della cosa. La traditio si realizzava mediante la consegna quindi, anche se di
fatto la consegna materiale poteva anche mancare talvolta: bastava che il tradens facesse
conseguire all’accipiens la disponibilità della cosa, mediante una traditio symbolica o la traditio
longa manu o traditio brevi manu, quando ‘acquirente teneva già la cosa che l’alienante gli
trasmetteva. Di fatto era vera e propria traditio , la consegna della cosa venduta da parte del
venditore al compratore, della cosa che si intendeva donare dal donante al donatario. Non era
traditio la consegna della cosa a scopo di custodia o del locatore all’inquilino.
Perché la traditio avvenisse era necessaria la concorde volontà di tradens e accipiens e che le parti
fossero quindi d’accordo per acquistare o trasferire il possesso della cosa
Per il trasferimento della proprietà occorreva anche una iusta causa traditionis: ovvero la ragione
per la quale si procedeva per una traditio e che giustificava l’acquisto della proprietà. In realtà di
giuste cause ce n’erano diverse: esse erano in numero definito: la causa vendendi nel caso del
venditore che consegnava al compratore la cosa venduta, la causa donandi nel caso in cui il
donante consegnava al donatario la cosa donata, la causa solvendi nel caso in cui il creditore
adempiva all’obbligazione di dare e poche altre.
Il legato per vindicationem era un atto mortis causa ed era un modo di acquisto derivativo a titolo
particolare: disposizione testamentaria con la quale il testatore attribuiva direttamente una cosa
propria ad un terzo detto legatario. Questo acquistava la proprietà civile una volta che il
testamento fosse divenuto efficace.
L’adiudicatio era la pronunzia del giudice formulare che traeva fondamento da quella parte della
formula pure essa detta adiudicatio. Il giudice pertanto formulava giudizi divisori assegnando a
ciascuna delle parti e nel caso soltanto di una, una o più res o porzioni di res. Per effetto di essa, i
comproprietari o coeredi di quote ideali cessavano di essere tali e diventano proprietari esclusivi
del bene determinato. Era costitutiva perché era considerata essa stessa modo di acquisto della
proprietà.
L’eventuale condanna espressa dal giudice non poteva che essere espressa in denaro (l’importo
era definito litis aestimatio). Ma talvolta poteva succedere che il possesso una volta dichiarato
soccombente, anziché restituire subisse la condanna pecuniaria che corrispondeva al valore della
cosa rivendicata e con l’offerta di pagare la litis aestimatio, il convenuto poteva mantenere il
possesso della cosa e diventare proprietario ex iure Quiritium.
L’usucapione oggi detta prescrizione acquisitiva era un modo di acquisto del dominium ex iure
Quiritium riservata ai cittadini romani, i cui requisiti erano: res habilis, titulus, fides, possessio e
tempus.
erano usucapibili le cose che fossero al contempo anche habiles, ovvero idonee ad essere
usucapite. non erano res habiles le res furtivae ovvero le cose che erano state rubate e le res vi
possessae ovvero le cose di cui qualcuno che si era impossessato utilizzando la violenza; esse
mantenevano la non usucapibilità anche presso eventuali terzi acquirenti in buona fede e sarebbe
tornate ad essere usucapibili una volta tornate in possesso del proprietario.
non ogni possesso conduceva poi all'usucapione ma solo quello di chi teneva la cosa come propria
e non si potevano usucapire le res incorporales che non erano suscettibili di possesso.(possessio)
l’usucapione si doveva necessariamente compiere col decorso di due anni per gli immobili e di un
anno per le altre cose e pertanto occorreva tenere la cosa per uno o due anni e possederla in
modo continuo non interrotto. con la morte poi del possessore il tempus usucapionis non subiva
interruzioni perché l’erede subentrava nel possesso al posto dell’ereditando e nella sua stessa
situazione. al riguardo si parla di successio possessionis. da età classica abbiamo invece un altro
principio: accessio possessionis: il compratore avrebbe potuto sommare il proprio possesso a
quello dante causa in modo tale che, se esso fosse stato nella stessa qualità del compratore,
l’usucapione iniziata presso il venditore avrebbe potuto essere portata a termine dal compratore.
Si richiese anche il titulus o iusta causa per l’usucapione: ragione oggettiva che stava alla base
dell’acquisto del possesso per giustificare l’acquisto della proprietà. il titolo più ricorrente è quello
di pro emptore: compratore cui il venditore avesse trasmesso il possesso della cosa venduta ma
non la proprietà. questo accadeva principalmente per due ragioni: o perchè da un lato il venditore
non era proprietario della cosa venduta, oppure perché, in caso di una res mancipi, ne aveva fatto
solamente traditio. erano anche i titoli di pro legato e quello di pro derelicto.
Si richiese anche la buona fede e quindi la convinzione del possessore di non recare ad altrui col
proprio possesso un ingiusto pregiudizio.
Tra i casi speciali dell’usucapione, troviamo: usucapio pro herede e usureceptio. per quanto
riguarda la prima si trattava del caso in cui la persona che avesse preso possesso anche di una sola
cosa ereditaria , purché appartenente ad una eredità giacente, trascorso un anno avrebbe
acquistato l’eredità nel suo complesso anche se in mala fede. questo per evitare che l’eredità non
restasse a lungo deserta in caso ad esempio di mancanza di eredi. già in età preclassica l’effetto
acquisitivo fu relegato solo alle singole cose ereditarie possedute.
a difesa del dominium ex iure Quiritium c’era una rei vindicatio che spettava al proprietario e non
al possessore e tendeva a far conseguire al proprietario il possesso. si agiva pertanto dapprima
tramite una legis actio sacramenti in rem con una struttura bilaterale (vindicatio e
contravindicatio). si trattava di una formula con clausola arbitraria o restitutoria, per cui il giudice
avrebbe dovuto innanzitutto verificare se la cosa controversa appartenesse all’attore ex iure
Quiritium e se non risultava questo, assolveva il convenuto, altrimenti il convenuto avrebbe
dovuto restituire l’oggetto di controversia. se il convenuto non avesse restituito, allora l’avrebbe
condannato il giudice, condanna espressa in denaro commisurata al valore dell’oggetto
controverso al tempo della sentenza e a determinarne il valore sarebbe stato l’attore. è logico
quindi presupporre che il convenuto avrebbe anche potuto mantenere il possesso della cosa
controversa durante il giudizio.
invece per quanto riguarda l’onere della prova (onus probandi) esso era a carico dell’attore che
poteva risultare particolarmente gravoso perché ogni volta che si invocava un modo di acquisto
derivativo bisognava provare non solo di averlo acquistato in forza di un adeguato negozio
traslativo di proprietà , ma anche di avere acquistato dal proprietario.
poteva anche accadere che il convenuto possessore della cosa , avesse precedentemente erogato
sulla cosa delle spese (impensae): ai fini del rimborso, il convenuto purché in buona fede, avrebbe
potuto opporre l’exceptio doli reputandosi iniquo il comportamento dell’attore che insistesse
nell'azione senza prima avere rimborsato almeno talune spese con la conseguenza che il
convenuto sarebbe poi stato assolto. così avrebbe trattenuto la cosa: da qui il riconoscimento del
ius retentionis. ma in questo caso si doveva trattare unicamente di spese utili o necessarie: erano
dette necessarie quelle impensae senza le quali la cosa sarebbe perita o deteriorata , utili quelle
che ne avrebbero migliorato redditività. le prime dovevano essere rimborsate per intero, invece
quelle utili nella misura minore tra lo speso e il migliorato. il possessore soccombente non
avrebbe ottenuto il rimborso delle spese voluttuarie, quelle di mero abbellimento, ma avrebbe
potuto portare con sè gli oggetti relativi a tali spese, solo se oggetti acquistati per accessione.
la rivendita sarebbe stata diretta contro il possessore, che era in questo caso passivamente
legittimato.
per essere assolto il convenuto avrebbe dovuto restituire anche i frutti percepiti dalla litis
contestatio e risarcire i danni che la cosa dopo la litis contestatio aveva subito.
per lo stesso motivo, quando si trattava di usucapione del bene rivendicato essi doveva essere
restituito attraverso un atto traslativo.
il convenuto una volta dichiarato soccombente, non restituiva la cosa, sarebbe stato obbligato a
pagarne il valore.
la rivendica non era l’unico mezzo giudiziario per difendere la proprietà: c’erano anche le azioni
negatorie: azioni di servitù e quella do usufrutto ed erano date al proprietario possessore contro
quanti esercitassero illegittimamente sul bene usufrutto o servitù. Poi c’era l’actio aquae pluviae
arcendae che si dava al proprietario di un fondo rustico contro il proprietario del fondo vicino nel
caso in questo questi ne avessero ostacolato o alterato lo scorrere naturale; ed era un actio in
personam. C’era la legis actio e la cautio per il danno temuto: non ancora verificato. contro il
vicino che negava di prestare la cautio, il pretore emetteva il decreto di missio in possessionem, in
modo che il proprietario del fondo minacciato avesse lasciato libero ingresso nel fondo per il quale
la missio era stata concessa. il missus non avrebbe ottenuto il possesso del fondo del vicino ma
solo la detenzione utili ai fini di sorveglianza e prevenzione. se invece non avesse prestato la cosa,
ci sarebbe stata un ulteriore missio: missio in possessionem ex secundo decreto. un’altra azione
era quella chiamata: operis novi nuntiatio: quando sul fondo del vicino erano in corso opere di
costruzione o demolizione che si ritenevano lesive di un proprio diritto, l'interessato poteva fare
ricorso a quest’azione, attraverso la quale il proprietario del fondo interessato avrebbe potuto
intimare al vicino di sospenderne l’esecuzione. Nel caso in cui questo l’avesse invece continuata, il
pretore avrebbe emesso contro di lui un interdictum demolitorium, per cui l’intimato sarebbe
stato tenuto a demolire quanto aveva costruito dopo la nuntiatio. gli effetti sospensivi sarebbero
poi cessati dopo un anno. c’era poi la interdictum quod vi aut clam: con la quale il proprietario del
fondo avrebbe ottenuto la rimozione della costruzione che taluno avesse realizzata vi, nonostante
il suo divieto, o clam, clandestinamente sul fondo dello stesso attore. E infine c’era anche l’actio
finium regundorum: quando accadeva ad esempio che per alterazione dello stato dei luoghi
dipendente da forze naturali, non si scorgessero più i confini tra due fondi rustici e questo facesse
poi sorgere una controversia: lo scopo era pertanto che il giudice ristabilisse i confini tra i due
fondi.
durante l’ultima età repubblicana fu istituita una azione Publiciana a speciale tutela dei possessori
in buona fede e cum iusta causa che avessero perduto il possesso della cosa prima del
compimento dei termini per l’usucapione e affinché si diede quindi loro la possibilità di
recuperare la cosa con questa azione. Era un’azione in rem e con clausola arbitraria in cui però ad
essere attivamente legittimato era il possessore. Essa era diversa dalla rivindica anche
nell'intentio: il giudice avrebbe dovuto accertare se l’attore, prima di perdere il possesso, avesse
posseduto la cosa cum iusta causa e in buona fede e, in caso positivo, “fingere” trascorso il
termine per l’usucapione
poteva sorger tra il proprietario Quiritiano e il possessore ad usucapionem un conflitto per il quale
tra i due avrebbe dovuto prevalere il primo: se questi rivendicato la cosa presso il possessore ad
usucapionem, il convenuto non opponendo una exceptio, avrebbe potuto che soccombere. è
emblematica in questo caso, la situazione in cui ad esempio il venditore di res mancipi che non
avesse fatto al compratore mancipatio o in iure cessio ma solo traditio.
in ogni caso, il possessore ad usucapionem, legittimato con l’azione Publiciana, godeva di una
tutela pressocchè relativa, prevalendo di fronte ai terzi ma dovendo cedere di fronte al
proprietario civile. Nonostante ciò, a volte egli possedeva anche una tutela assoluta invece che
relativa, anche quindi di fronte al proprietario civile. Il diritto del proprietario civile fu qualificato:
nudum ius Quiritium e si disse che il possessore ad usucapionem teneva la cosa in bonis, per
questo si è solito parlare oggi di proprietà pretoria.
Le terre dei paesi assoggettati dai Romani e organizzati in provincie furono lasciate nella
disponibilità dei privati che le tenevano già, ma gravate da imposte (stipendium). il dominium che
le possedeva si ritenne competere o al populus Romanus o all’imperatore direttamente , mentre il
potere dei privati fu qualificato quale possessio. era definita proprietà provinciale poiché i
contenuti erano simili quelli del dominium ex iure Quiritium sui fondi italici: infatti era
trasmissibile mortis causa e con atti inter vivos e tutelata da un’actio in rem corrispondente alla rei
vindicatio e si trasmettevano mediante traditio, non si acquistavano per usucapione.
per la cognitio extra ordinem delle provincie si stabilì tuttavia la prassi per cui il possessore del
fondo che l’avesse posseduto per un lungo periodo di tempo, convenuto con chi assumendosene
titolare, ne avesse reclamato la restituzione , avrebbe potuto opporre la praescriptio: longi
temporis che era uno strumento di difesa per il convenuto e non era utile per il recupero del
pssesso perduto.
col tempo ci fu poi una volgarizzazione dei concetti giuridici soprattutto per quanto riguarda i diritti
reali: venne meno il pretore e le formule, venne meno anche la distinzione netta tra la proprietà e
il possesso. Nonostante ciò, con Giustiniano, si ritornò alla concezione classica per cui si doveva
sempre distinguere la proprietà: diritto soggettivo, dal possesso. La proprietà divenne un istituto
unitario avendo l’imperatore abolito la qualifica di ex iure Quiritium del dominium. Non ci fu
neanche più la distinzione tra i fondi italici e quelli provinciali che erano tutti oggetto del dominium
senza ulteriore qualificazione.
Invece circa i modi di acquisto, venne abolita in epoca giustinianea la differenza tra res mancipi e
res nec mancipi e venuta meno la mancipatio rimase solamente la traditio rispetto alla
compravendita e alla donazione tornarono in uso le causae.
Successivamente anche l’intervento di Costantino fu molto importante, poiché egli istituì una
longissimi temporis praescriptio, quarantennale, opponibile dal possessore di un immobile.
Giustiniano ne ridusse poi il termine a 30 anni e dispose la fusione della longissimi temporis
praescriptio, ai beni immobili; e usucapio, ai soli beni mobili.
Ci fu anche la prima manifestazione del fenomeno della comproprietà: per cui più soggetti sono
riconosciuti titolari del diritto di proprietà sullo stesso bene. Essa si costituiva automaticamente
alla morte del pater familias tra più heredes sui e si poteva costituire anche tramite una legis actio.
Ciascun consorte avrebbe potuto sia gestire sia fruire delle cose comuni, ma anche alienarle e in
ogni caso disporne per intero con effetti che sarebbero poi andati a tutti gli appartenenti al
consortium. Questo scomparve poi nell’ultima età repubblicana.
un altro tipo di comproprietà era quello della communio o comunione di proprietà. Poteva essere
sia volontaria, sia incidentale. ll regime giuridico della communio riflette per alcuni aspetti quello
del consortium, ma per altri ne diverge invece: nella concezione di base perchè ciascun
partecipante definito socius era titolare di una quota ideale del bene: in sostanza di una frazione
del diritto di proprietà. Pertanto si negò che più persone potessero essere proprietarie per l’intero
della stessa cosa. ogni comproprietario poteva alienare la sua quota ma nulla di più, su di essa
avrebbe anche potuto esercitare pegno o usufrutto ì, non servitù prediali, e partecipava alle spese
nella misura corrispondente alla sua quota e nella stessa misura faceva i suoi frutti.
Gli aspetti giuridici simili a questi due tipi di comproprietà invece riguardavano da un lato la regola
per cui ciascun comproprietario poteva da solo acquistare anche senza il consenso degli altri e
anche operare nella gestione della cosa comune seguendo anche il principio del diritto di veto.
l’idea della proprietà plurima integrale affiora anche nel diritto di accrescimento, proprio della
communio di proprietà: se un socius avesse rinunciato alla sua quota, questa si sarebbe
accresciuta agli altri , a ciascuna in proporzione della misura del suo diritto sulla cosa comune.
ll regime della manumissione del servo comune da parte di uno dei socii, non avrebbe reso lo
schiavo libero, ma avrebbe dato luogo all’accrescimento in favore degli altri comproprietari; e lo
schiavo sarebbe divenuto libero solo se e quando tutti avessero compiuto l’atto di affrancazione,
anche se in tempi diversi.
Il rimedio per la divisione dei beni comuni era l’actio communi dividundo, mediante formula con
adiudicatio e con condemnatio per avere del denaro. Per la divisione bisognava necessariamente
attendere una divisione giudiziale.
il diritto romano riconobbe anche altri diritti soggettivi come il diritto reale limitato su cosa altrui :
diritti per cui il proprietario può pretendere dal proprietario di un fondo vicino un comportamento
determinato di tolleranza o di omissione. è un concetto di servitù proprio del diritto romano e poi
trasmesso al nostro sistema giuridico. Oggi il codice civile si pone da una prospettiva del tutto
diversa, definendo la servitù come :” un peso sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo
appartenente a diverso proprietario”. le servitù prediali riguardano unicamente i beni immobili,
rustici e urbani e spettano al proprietario in quanto tale di un fondo e ad essere obbligato è il
proprietario del fondo vicino. La servitù segue i due fondi: dominante e servente sia dal lato attivo
e sia dal lato passivo, non è alienante separatamente dai fondi e alienato, l’uno o l’altro, la servitù
passa necessariamente in capo al nuovo acquirente o a suo carico.il concetto che stava alla base di
questo principio era la “doppia realità” che esprimeva il fatto che la servitù fosse intanto un
rapporto tra fondi. i giuristi romani qualificano la servitù ius fondi, qualitas fundi, condicio fundi.
Poi in ogni caso i due fondi dovevano appartenere a due proprietari diversi: poiché non è
concepibile la servitù su cosa propria.
la prima caratteristica della servitù era che essa doveva essere utile al fondo dominante, non utile
in sé ma utile oggettivamente al fondo.
un’altra regola era la “servitus in faciendo consistere nequit”: la servitù non può consistere in un
un fare e il proprietario del fondo servente, che potrà tollerare : essere tenuto a “pati”, non fare:
“non facere”; ma mai ad un comportamento positivo: “facere”.
Le servitù poi si distinguono poi in servitù positive e negative: le prime quelle in cui il proprietario
del fondo dominante non potrà non tenere un comportamento attivo, negative quelle il cui
esercizio non comporta in sé alcuna attività .
Le servitù sono indispensabili: si costituiscono e si estinguono nel loro intero.
non si parlò ma per il diritto romano, di servitus come categoria unitaria ma non si riconobbe che
fosse servitù ogni peso sopra un fondo… Si andarono poi riconoscendo gradualmente singole
figure di servitù venendo prima riconosciute come iura e res incorporales. Erano tipiche e
rappresentate dal modus servitutis, limitazione indicata nell’atto costitutivo. le prime ad essere
conosciute furono due servitù di passaggio: iter e actus (passaggio a piedi e con carri e animali) e
quella di acquedotto.
le servitù relative a fondi rustici si dissero servitù rustiche, quelle relative a edifici: servitù urbane.
le prime erano res mancipi, le seconde erano res nec mancipi.
Inoltre si dissero servitù solo i servizi tra fondi relativi a fondi italici.
Ogni servitù comportava un assoggettamento: di un fondo ad altro fondo nelle servitù prediali, di
una res ad una persona nelle servitù personali.
per la loro natura di diritti reali, le servitù si costituivano mediante negozi con effetti reali, con
mancipatio le servitù rustiche, con in iure cessio rustiche e urbane. Tra i modi di costituzione
abbiamo anche pactio et stipulatio, patto accompagnato da stipulatio. Invece nel diritto
giustinianeo, venute meno la mancipatio e la in iure cessio, pactiones et stipulationes divennero il
modo generale di costituzione delle servitù. Esse si costituivano mediante exceptio servitutis
anche detta deductio servitutis: che aveva luogo quando il proprietario di due fondi, nell’alienarne
uno con mancipatio, d’accordo con l’acquirente, costituiva tra essi servitù: a carico del fondo che
alienava e in favore di quello che tratteneva. Le servitù potevano anche essere costituite per
adiudicatio o il legato per vindicationem che presupponeva che il legatario fosse proprietario di un
fondo e che l’altro fondo destinato ad essere servente fosse del testatore e da costui si
trasmettesse all’erede o ad altro legatario per vindicationem. Non si costituivano per traditio
perché si trattava di res incorporales, non suscettibili quindi di possesso. non si sarebbero neanche
costituite per usucapione.
Le servitù si potevano estinguere per confusione, rinunzia o remissio servitutis, non usus(per cui si
fece una distinzione tra servitù rustiche che generalmente erano positive e urbane che
generalmente erano negative). Come stabilire quindi il momento in cui una servitù poteva non
essere esercitata) dal momento in cui il dominus del fondo servente avesse tenuto un
comportamento incompatibile con l’esercizio della servitù.
A difesa della servitù, c’era la vindicatio, non naturalmente la rei vindicatio che era a difesa della
proprietà, ma la vindicatio servitutis che fu anche detta actio confessoria.
Un altro diritto reale limitato al godimento su cosa altrui, è l’usufrutto, che viene definito come un
diritto soggettivo reale di usare e percepire i frutti di una cosa altrui senza alienarne la
destinazione economica. il titolare viene chiamato usufruttuario, il proprietario della cosa gravata ,
nudo proprietario. L’usufrutto venne riconosciuto come un diritto autonomo per esigenze legate
alla diffusione dei matrimoni sine manu, nei quali, la donna non entrava a far parte della famiglia
del marito. Per conservare intatto ai figli il patrimonio della famiglia e assicurare al contempo alla
propria vedova un dignitoso sostentamento.
Con Giustiniano, l’usufrutto venne qualificato come servitutis, prediale inerente ai fondi, e
personali inerente a usufrutto e uso. Nelle prime il fondo era asservito ad altro fondo, il secondo
invece asservito ad una persona : usufruttuario.
Oggetto dell’usufrutto potevano essere cose mobili e immobili, mancipi e res nec mancipi, purché
inconsumabili e fruttifere e res corporales.
L’usufruttuario poteva usare la cosa gravata da usufrutto e percepirne i frutti che diventavano poi
suoi al momento dell’effettiva percezione. L’usufruttuario doveva a sue spese curare la
manutenzione ordinaria della cosa e avere quindi cura che la cosa non perisse o si deteriorasse.
All’usufruttuario si imponeva la prestazione della cautio fructuaria: stipulatio pretoria con la quale
l’usufruttuario prometteva al nudo proprietario la restituzione del bene una volta estinto
l’usufrutto, ma anche un uso della cosa con criteri di correttezza.
L’usufrutto aveva carattere personale: era pertanto inalienabile e intrasmissibile agli eredi.
l’usufruttuario avrebbe potuto cederne l’esercizio e l'usufrutto si sarebbe estinto con la sua morte.
Aveva pertanto una durata limitata nel tempo.
Il primo modo di costituzione di usufrutto fu il legato per vindicationem: ma anche tramite in iure
cessio e modellata sulla vindicatio usus fructus (dico che a me spetta il diritto di usare e percepire i
frutti del fondo corneliano). l’usufrutto si costituiva con adiudicatio nelle azioni divisorie. Si
costituiva per deductio, cui faceva riscontro l’exceptio servitutis, quando taluno nell’alienare la
cosa propria tratteneva l’usufrutto. Si poté anche costituire mediante pactio e stipulatio, ma sino
in età classica solo ai fondi provinciali e Giustiniano poi ne fece un modo generale. Inoltre non si
compiva per traditio.
l’usufrutto si estingueva in ogni caso con la morte dell’usufruttuario, ma anche prima della sua
morte: quando scadenza del termine finale contemplato nell’atto costitutivo, perimento della
cosa, trasformazione della cosa fino a cambiare la destinazione economica, rinunzia,
consolidazione, quando l’usufruttuario ne acquistava la proprietà o il proprietario ne acquistava
l’usufrutto. Anche per non usus : in un anno per i mobili, due per gli immobili.
la tutela giudiziaria per difender l’usufruttuario stava la vindicatio usus fructus: azione confessoria
con struttura del tutto simile a quella per le servitù.Era un’azione in rem costituita da pactio et
stipulatio.
Si parlò anche di quasi usufrutto per le cose consumabili per cui il legatario avrebbe acquistato la
proprietà, salvo per la restituzione dell’equivalente.
Ci fu il riconoscimento delle cose infruttifere: si parlò di usuraio per colui che avrebbe avuto il
diritto di usare direttamente e personalmente la cosa , senza percepirne i frutti:l’usuraio di un
animale avrebbe potuto utilizzare l’attività lavorativa ma non i suoi frutti, quello di un edificio vi
avrebbe potuto abitare…l’usus non era divisibile e il suo regime era ricalcato su quello
dell’usufrutto.
Ciò che stava organicamente sopra il suolo, il proprietario del terreno non poteva non essere al
contempo proprietario anche della superficie: il caso più comune era quello della costruzione di
una cosa su suolo altrui. Nulla di fatto impediva che il dominus potesse dare in locazione e anche
vendere la superficie e l'altro contraente detto superficiario , avrebbe acquistato solo un diritto di
credito al godimento dell’edificio già esistente o da lui stesso costruito, perché locazione e vendita
davano luogo a effetti obbligatori. Sull’edificio, il superficiario non avrebbe acquistato né
proprietà, né altro diritto reale. Il pretore diede una tutela al superficiario, tramite una interdictum
de superficiebus utile per il recupero della superficie contro l’autore dello spoglio. In età classica il
pretore intervenne poi con un’apposita azione in factum. Il corrispettivo periodico fisso , o canone,
cui con scadenza genericamente annuale era solitamente detta solarium.
Le terre pubbliche che i censori erano usi dare in concessione a privati erano detti agri vectigales. I
concessionari vennero detti possessores e tutelati con interdicta. Le concessioni potevano essere a
termine ed erano revocabili per mancato pagamento del canone. Erano generalmente qualificate
come locazioni.
In età postclassica vennero poi meno le concessioni di agri vectigales: e si svilupparono altri tipi di
concessioni di terre pubbliche che ius perpetuum e ius emphiteuticum , e si parlò al riguardo di
enfiteusi. La materia fu ulteriormente riformata da Giustiniano: l’enfiteuta era tenuto al
miglioramento del fondo e in ogni caso obbligato al pagamento di un canone annuo: avrebbe
potuto alienare il fondo enfiteutico ma avrebbe anche potuto preferire il concedente al
concedente che lasciava alienare il fondo a terzi, era dovuto il 2 per cento del prezzo o del valore
del fondo. L’enfiteusi si estingueva per mancato pagamento del canone o dell’imposta fondiaria
per oltre tre anni, per alienazione del fondo a terzi effettuata senza cura degli adempimenti verso
il concedente, per confusione.
Tra i diritti reali di garanzia oggi troviamo il pegno e l’ipoteca e in merito bisogna distinguere tra
datio pignoris e conventio pignoris: la prima era il pegno manuale , ovvero la consegna della cosa
al creditore in modo che la tenesse fino a quando il credito non fosse stato soddisfatto; invece la
seconda riguardava un patto tra il creditore e proprietario della cosa con il debitore, con cui si
conveniva che il creditore ne avrebbe preso possesso in caso di inadempimento e l’avrebbe tenuta
sino all’avvenuta estinzione del debito.
Con la datio pignoris, il creditore pignoratizio acquistava sulla cosa il possesso, un possesso utile ai
fini della tutela con gli interdetti possessori. il pretore intervenne poi in seguito, con un
interdictum Salvianum: azione proibitoria che si dava al creditore pignoratizio contro il conduttore
di fondi rustici che non avesse pagato la mercede convenuta e aveva come scopo la ripresa del
possesso degli attrezzi di lavoro o quant'altro. Ci fu un'altra azione: interdictum de migrando,
sempre proibitoria che spettava al conduttore di immobili urbani invece, contro il locatore che gli
impedisse di portare via dall’alloggio le cose che vi aveva immesso; ma presupponeva che il
canone fosse stato precedentemente pagato o che quelle cose non fossero state convenute in
pegno. Ma molto più significativo è l’intervento ulteriore per cui al creditore pignoratizio si diede
l’actio Serviana: esperibile contro il possessore attuale della cosa. L'introduzione di quest’azione
fece in modo che il pegno di configurasse come diritto reale e di garanzia. Inoltre i giuristi romani
configurarono il pegno come istituto unitario.
Il pegno che aveva solitamente ad oggetto cose corporali, era validamente costituito da chi avesse
la cosa in bonis : sia dal proprietario quiritario, sia dal proprietario pretorio.
il creditore pignoratizio, una volta possessore della cosa pignorata, avrebbe avuto di essa sì il
posseso utile per la difesa possessoria interdittale ma non il godimento e neppure il semplice uso:
se l’avesse usata , avrebbe infatti commesso un furto. Invece il creditore avrebbe potuto percepire
i frutti e se il credito non fosse stato soddisfatto, il creditore avrebbe trattenuto la cosa finchè il
debito non si fosse estinto.
si riconobbero validi ed efficaci sia il patto commissorio, per il quale il creditore,inadempiente il
debitore, avrebbe acquistato in proprietà il bene pignorato, sia il patto per cui si dava al creditore
facoltà di venere la cosa , soddisfarsi col ricavato e restituire al debitore quanto sopravanzato. Il
patto commissorio venne poi vietato da Costantino, e fu molto più praticato invece il ius vendendi,
che divenne anche un elemento naturale del rapporto, in virtù di esso infatti il creditore
pignoratizio veniva autorizzato sì ad alienare la cosa in caso di inadempimento ma non a
manciparla e avrebbe potuto solo farne traditio; in modo tale che se la cosa fosse stata mancipi, il
compratore ne avrebbe acquistato nient’altro il possesso ad usucapionem e la proprietà pretoria,
ne avrebbe poi acquistato la proprietà quiritaria se la cosa fosse stata res nec mancipi.
Dato che la conventio pignoris o hypotheca, non comportava il passaggio immediato del possesso
al creditore, la cosa stessa poteva essere convenuta in pegno o ipotecata a più creditori, in tempi
diversi e per obbligazioni diverse. Dopo si stabiliva il creditore di rango maggiore che aveva ipoteca
di primo grado, creditore a favore del quale l'ipoteca fosse stata convenuta prima. Però ai creditori
di rango inferiore si dava talvolta la possibilità di pagare attraverso un ius offerendi al creditore di
rango superiore una somma di denaro che gli avrebbe permesso di salire di grado.
Il pegno si sarebbe estinto con l’estinzione del debito garantito, più spesso per adempimento, ma
anche per perimento della cosa o per confusione, oppure ancora per vendita in esecuzione del ius
vendendi. La rinunzia al credito estingueva da un lato il pegno, ma non ipso iure, bensì per effetto
dell’exceptio pacti conventi.
Inizialmente le terre pubbliche erano lasciate in godimento ai privati, e anche in forza di speciali
concessioni ad opera dei censori dietro corrispettivo: nell’uno e nell’altro caso i concessionari
erano detti possessores, il loro potere sulle terre possessio e l’esercizio di questo potere possidere.
Fu dalla fine dell’età arcaica che il pretore cominciò a proteggere questi possessores di agri publici
contro eventuali molestie e spossessamenti con provvedimenti come gli interdicta. La stessa
protezione riguardava anche gli usus di un immobile ai fini dell’usucapione e vennero poi estese
anche ai precaristi e a quanti tenessero come propria una cosa mobile.
Questo di sopra avvenne per concedere più opportunità: assicurare la difesa e anche attribuire la
relativa qualifica a soggetti che avessero in ordine alla cosa in punto di fatto una posizione
indipendente o ne avessero comunque il controllo. Restavano pertanto esclusi i coloni, inquilini e
gli altri che teneva la cosa in forza di locazione, ma anche i depositari, comodatari, usufruttuari e i
servi e filii familias. I soggetti che pur avendo una relazione con la cosa materiale, non erano
riconosciuti come possessori di essa dai romani, venivano chiamati detentori e si fa riferimento in
questo caso ad un naturaliter possidere o naturalis possessio: per indicare un possesso naturale
senza effetti giuridici propri del possesso.
Invece i soggetti ai quali viene riconosciuta una vera possessio erano tutelati mediante interdicta
che potevano essere volti alla conservazione o al recupero del possesso.
Il più antico tra di essi è l’interdictum uti possidetis che riguardava gli immobili e tendeva a far
cessare turbative e molestie, e doveva essere esperito entro l’anno dal giorno in cui queste
avessero avuto inizio. Tra i due litiganti avrebbe prevalso quello che possedeva la cosa tramite una
possessio iusta, in modo non clandestino e non violento o non precario. Il concedente (precario
dans) avrebbe potuto impunemente riprenderne il possesso togliendola al precarista , anche
utilizzando la forza se necessario.
Un altro tipo di interdictum era l’interdictum utrubi: si applicava agli schiavi, animali e altre cose
mobili e vi prevaleva non tanto il possessore attuale ma quello dei due litiganti che avesse
posseduto la cosa per più tempo.
Un altro interdictum possessorio era l’interdictum unde vi: che riguardava i soli beni immobili e si
dava entro l’anno alla persona che avesse subito spoglio violenti del possesso ed era volto al
recupero della cosa.
Poi c’era l’interdictum de vi armata: che senza limiti di tempo spettava alla vittima di uno spoglio
violento contro la persona che lo spoglio avesse commesso avvalendosi di una banda armata.
Tra i possessori legittimati all’esercizio degli interdictum a difesa del possesso vi furono: coloro che
tenevano la cosa uti domini come se fossero proprietari della cosa stessa. Viene anche sottolineato
più volte come di fatto nelle fonti giuridiche, il possesso sia uno stato di fatto. Il possessore uti
dominus era protetto sia che fosse effettivamente proprietario sia che non lo fosse , ed era
protetto sia contro eventuali terzi e anche contro lo stesso proprietario della cosa nel caso in cui
fosse stato lui a violare il suo possesso; invece la questione riguardante la proprietà andava
discussa e vista in sede di rivendica. Pertanto il dominus non possessore , per avere il possesso
della cosa propria avrebbe dovuto ricorrere alla rivendica. Se avesse sottratto la cosa vi aut clam,
in via di autodifesa, avrebbe dovuto ripristinare lo stato di fatto quo ante , talvolta anche con
l’aiuto degli interdetti a difesa del possessore: questi assolvevano una funzione di mantenimento
della pace e dell’ordine sociale: ne cives ad arma veniant (che i cittadini non vengano alle armi).
Ma il possesso era uno stato di fatto che dava luogo ad un altro effetto: l’usucapione, che non
riguardava tutti i possessori ma solo i possessori uti domini che tenevano la cosa come propria ,
con animus domini e gli stessi che col decorso del tempo, se non proprietari della cosa , lo
sarebbero divenuti per effetto dell’usucapione (possesso ad usucapionem oppure possesso ad
interdicta). questi due tipi di effetti riguardavano esigenze diverse tra di loro: mantenimento
dell’ordine sociale, tutela… Di norma i possessori uti domini, possedevano sia ad interdicta e sia ad
usucapionem, gli altri possessores invece avevano solo la possessio ad interdicta. Però quando la
cosa era data in pegno o in precario, chi la dava manteneva il possesso ad usucapionem, mentre il
creditore pignoratizio o il precarista acquistavano il possesso ad interdicta. Nel caso invece del
sequestro, il possesso ad usucapione, non spettava a nessuno e il possesso ad interdicta si stabiliva
in favore del sequestratario.
Alla posizione dei possessores, i Romani approfondirono moltissimo e rilevarono come essa non
potesse prescindere dall’intenzione di tenere la cosa per sè. In altri termini, i giuristi romani,
individuarono nel possesso un corpus possessionis e un animus possidendi. il primo a quanti
avessero un contatto materiale con la cosa ma anche a quanti ne avessero l’effettiva disponibilità
e il controllo di essa. Si possedevano anche gli animali da stalla o avviati al pascolo, gli schiavi
mandati in giro per fare delle commissioni, la cosa dove si abitava mentre si era temporaneamente
fuori e vi si poteva rientrare liberamente. L’animus possidendi era invece inteso come l’intenzione
di tenere la cosa per sé nel proprio interesse, in maniera del tutto indipendente. Il possesso di una
cosa di acquistava quando qualcuno con l’animus possidendi aveva la disponibilità di disporne:
corpus; si conservava fino a quando questa possibilità perdurava senza smettere l’animus e si
perdeva quando venivano meno l’animus possidendi o anche solo l’una o l’altro. L’esempio del
possessore di un fondo che ne esca col proposito di tornarvi è emblematico: egli conserva il
possesso e lo perde se altri in sua assenza vi si insedia con la violenza o in modo clandestino
L’effetto di interversione del possesso significa che chi ha iniziato a tenere una cosa in forza di un
titolo , di una causa , non può pretendere di possederla ad altro titolo o per una causa diversa da
quella iniziale: per avere mutato il proprio animus. Infatti in questo caso, occorre che il deponente
gli venda la cosa o ad ogni modo che gliela alieni.
Il possesso di una cosa composta non implica anche il possesso delle cose singole che la
compongono: delle singole partes. Questo anche perchè, il possesso riguardava le res corporales e
non le res incorporales.
Quelli che esercitavano usufrutto o servitù non furono denominati come possessori poichè di fatto
la cosa che possedevano non era di loro possesso, ma rimaneva al nudo proprietario, e si trattava
unicamente di iura e quindi di res incorporale; questo aveva come conseguenza la negazione per
loro di utilizzare la difesa interdittale possessoria contro molestie o eventuali impedimenti e
negare anche ai non titolari l’acquisto per l’usucapione del bene gravato e anche dello stesso
diritto di usufrutto e servitù. Ma per quanto riguarda la tutela contro le molestie, il pretore
intervenne dall’età classica concedendo in via utile a quanti titolari e non, esercitavano usufrutto
su immobili per la mancanza di possesso non potevano competere loro in via diretta e tutelò con
interdicta speciali: quasi possessio.
l’ulteriore evoluzione poi porterà ad una concezione unitaria del possesso e ad un esercizio di fatto
del diritto di proprietà, che non si identifica più con il suo oggetto. Questo lo possiamo leggere nel
nostro codice civile, nell’articolo 1140 che definisce il possesso come “ il potere sulla cosa che si
manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di un altro diritto reale”.

LE OBBLIGAZIONI
Per obbligazioni o obligatio si intende il vincolo giuridico non materiale per cui un soggetto, detto
debitore, è tenuto ad un determinato comportamento nei confronti di un altro soggetto detto
creditore. Questo comportamento è chiamato prestazione, il dovere giuridico del debitore è il
debito mentre il corrispondente diritto soggettivo del creditore è il credito. Esiste anche il caso in
cui ci sono più debitori o più creditori, purché si tatti di persone sempre determinate. il diritto di
credito, che rappresenta il lato attivo dell'obbligazione, è un diritto relativo: non assoluto come
quello reale, perché ad essere obbligate sono una o più presone determinate , esattamente
individuate. L’zione che si dà al creditore contro il debitore sarà un actio in personam. La
prestazione del debitore consiste in un comportamento determinato ed è un comportamento
positivo: il debitore deve fare qualcosa , come pagare, consegnare, curare che qualcosa accada o
non accada. La realizzazione del credito esige in ogni caso la collaborazione del debitore. il
debitore inadempiente invece, se l’inadempimento è a lui imputabile, incorre di responsabilità,
che è una posizione giuridica di chi deve rendere conto di essere esposto a rischio di dover subire
una sanzione. il debitore inadempiente è esposto alla procedura esecutiva. Questa concezione
dell'obbligazione non è quella originaria, ma si andò delineando a Roma già nel corso dell’età
arcaica e si consolidò poi con il principato.
Questa idea dell’obligatio nacque a Roma sotto forma di atti leciti.
Inizialmente l’unico tipo di reazione pensato per i comportamenti lesivi, quali atti illeciti, fu in
merito al contesto estraneo a quello familiare e fu la vendetta. Per questo l'offensore doveva
necessariamente essere punito: la pena era corporale e nei casi più gravi poteva anche essere
ucciso. Ad infliggere la pena era il pater familias del gruppo familiare offeso. Nonostante ciò è
molto facile presupporre che l’offeso potesse in qualche modo rinunziare alla vendetta se
l’offensore o altri per lui, si offrissero di pagare una compensazione pecuniaria . Da un certo
momento si stabilì che l’offeso non potesse rifiutare la composizione pecuniaria che gli veniva
offerta in modo tale da evitare la pena corporale. La somma di denaro che l’offeso riscuoteva al
posto di essa fu detta anch’essa pena e si trattava di una sorta di riscatto, di un onere che avrebbe
permesso di liberare l’offensore dalla vendetta della vittima. Non si trattava di un'obbligazione
perché di fatto la pena non era una prestazione cui l’offensore fosse tenuto, né l’offeso avrebbe
potuto pretenderla. L’idea di obbligazione nacque così in merito all’idea degli atti leciti attraverso
la manifestazione di figure diverse tra di loro.
Innanzitutto la figura del nexum: un atto che si compiva con l’intervento di cinque testimoni
cittadini romani puberi e di un libripens con la bilancia. A questo vi si ricorreva in relazione ad un
prestito di denaro o comunque di metallo usato come merce di scambio. Si procedeva con una
pesatura del metallo in questione, altrimenti la pesatura era una pesatura simbolica. e il creditore
e il debitore non potevano non essere presenti: il primo avrebbe pronunciato parole solenni con le
quali affermava per sè il potere che si andava a costituire sull’altra parte e contemporaneamente
ne faceva atto di apprensione. Infatti fu con il nexum che il debitore diventato nexus sarebbe
subito stato assoggettato al creditore , il quale lo teneva per sé ed esercitava su di lui una
materiale coercizione , se del caso lo sottoponeva a punizioni corporali o lo utilizzava per attività
lavorative , questo fino a quando il nexus non avesse con il suo lavoro scontato il debito, oppure
un terzo non avesse con il pagamento soddisfatto direttamente il creditore. Quello che si andava a
costituire sui nexi era un potere diretto e immediato su una persona e il nexum dava pertanto
luogo ad un vincolo attuale , materiale, non soltanto giuridico come la classica obligatio. Il nexum
fu poi abolito dalla lex Poetelia Papiria in seguito.
Abolito era anche il punto di vista rispetto ai praedes e vades: le figure più antiche che
rispecchiano quelle dei garanti attuali. Nei rapporti tra i privati i praedes venivano chiamati in
merito alle legis actio sacramenti in rem per garantire che la parte cui il pretore avesse
provvisoriamente assegnato il possesso di una cosa controversa, la restituisse all'avversario in caso
di soccombenza. Ai vades invece si fece ricorso per garantire la ricomparsa in giudizio della parte
convenuta quando l’udienza era rinviata ad un altro giorno. Nonostante ciò, non era dai praedes e
i vades che si aspettava il comportamento idoneo al risultato ma dall’avversario in giudizio, il quale
doveva restituire la cosa controversa oppure ricomparire in tribunale nel giorno stabilito: quindi si
può dire che entrambe queste figure avevano lo scopo di rassicurare e garantire in realtà il fatto di
un terzo, ma esse scomparvero poi in età preclassica.
Il negozio più antico che dava luogo ad una obligatio era la sponsio o stipulatio: a cui
partecipavano un interrogante ed un promittente: questi restava vincolato alla promessa e quindi
ad una prestazione futura ed era responsabile in caso di mancato adempimento.
La stessa struttura della sponsio si andò poi estendendo ad altri rapporti da atto lecito, parlando in
merito di obligatio. Il fenomeno interessò poi gli atti illeciti, onde la pena pecuniaria sorta come
riscatto per liberare l’offensore dall'assoggettamento all’offeso fu configurata la stregua di
contenuto di un prestazione, alla quale era tenuto l’autore dell’illecito in favore della vittima ,
prestazione della quale il creditore avrebbe potuto pretendere il pagamento dal debitore , all’uopo
responsabile. A partire dagli inizi del principato, poi il termine obligatio fu anche utilizzato per i
rapporti che avevano la loro causa in atti illeciti che erano fenomeni eterogenei. Inizialmente
quando l’esecuzione per debiti si effettuava tramite la legis actio per manus iniectionem e il
responsabile era esposto al rischio dell’assoggettamento personale al potere del creditore . Ma
venute meno le legis actiones, l’esecuzione personale rimase e con essa anche il rischio
dell’addictio. Poi si affermò anche ad opera del pretore un nuovo modo di agire in via esecutiva
per cui, in alternativa all’esecuzione personale, il creditore avrebbe potuto procedere a esecuzione
patrimoniale, assoggettamento alla potestà del creditore non più della persona ma del patrimonio
del debitore. Poi all’esecuzione personale si dovette fare ricorso solo contro debitori del tutto privi
di mezzi. Per quanto riguarda l’obligatio, concepita prima come vincolo, sia pure potenziale, che
coinvolgeva materialmente la persona del debitore, si andò via via sempre più caratterizzando
come vincolo relativo al suo patrimonio.
Per indicare il vincolo giuridico che nasceva da sponsio si utilizzò il termine di oportere e sullo
stesso schema si parlò poi di obligatio e il punto di vista considerato non fu quello dell’attore che
affermava per sé un proprio diritto ma quello del convenuto-debitore gravato da un obbligo nei
confronti dell’avversario-creditore. L’oportere denotava in ogni caso l’esistenza di un vincolo di ius
civile. Per quanto riguarda la qualifica di obligatio, essa fu in primo luogo riservata ai rapporti
sottostanti alle azioni in personam in ius. Per i rapporti di diritto pretorio o di diritto onorario si
disse semplicemente che la parte obbligata era tenuta in virtù di un’azione, ma non si parlò di
obligatio, ma di actione teneri. In età classica la terminologia in merito alle obligationes fu estesa
ai rapporti di diritto onorario.
Ad ogni obligatio corrispondeva un’actio in personam; ma i classici parlarono di obligationes pure
con riferimento a rapporti non sanzionati da azioni: obligationes naturales intendendo che si stava
trattando di obbligazioni tali più in punto di fatto che in punto di diritto. Le obbligazioni vere e
proprie erano dette civili, non perché fondate sul ius civile ma perché erano sanzione da actiones.
Il difetto di actiones, per cui il debitore non avrebbe potuto essere costretto all’adempimento, era
il non-effetto dell'obbligazione naturale. L’effetto primo era la soluti retentio, per il quale il
creditore avrebbe potuto trattenere quanto adempiuto spontaneamente. All’obbligazione
naturale si riconobbero ulteriori effetti: oggetto di novazione era valutabile ai fini della
compensazione, potevano per essa essere costituite garanzie reali e personali.Di obbligazioni
naturali, si cominciò a discorrere a Roma in relazione ai debiti da atto lecito assunti dagli schiavi in
favore di una persona diversa dal dominus, purché assunti da un servo intellettualmente capace e
con un negozio che sarebbe stato efficace e valido. Le obbligazioni naturali, erano anche quelle
assunte dal pupillo senza l'auctoritas del tutore.
Pertanto si può dire che i possibili contenuti della prestazione erano: dare, facere e praestare: dare
dove figurava quale oggetto dell’oportere cioè nel senso di trasferire la proprietà o costituire altro
diritto reale e per questo non bastava che il debitore ne facesse mancipatio, occorreva invece
l’atto e quindi l’effetto. Invece era più ampio il concetto dietro al termine di facere: quale possibile
oggetto della prestazione che comprendeva un comportamento ben diverso dal dare; ovvero
un'attività sia materiale del compimento di un negozio giuridico, ma anche il non fare. Non è molto
chiaro il significato attorno al termine di praestare in quanto oggetto di oportere che poteva
essere in relazione ad ogni possibile prestazione.
La prestazione aveva dei requisiti abbastanza precisi: doveva essere di carattere
patrimoniale( essere suscettibile di una valutazione economica e con una condanna espressa in
denaro), il creditore doveva avervi interesse , il debitore non poteva esservi tenuto per il fatto
altrui, la prestazione doveva essere possibile , lecita, determinata e determinabile.
L’ostacolo poteva essere aggirato al ricorso a una stipulazione penale : una stipulatio con la quale
una parte prometteva all’altra di pagare una certa somma di denaro definita una pena , per
l’eventualità che la prestazione non venisse effettuata come e quando convenuto. Ad esempio
Tizio interroga: prometti di darmi X sesterzi se non mi farai un atto di ossequio durante la prossima
festa alla quale partecipiamo insieme? Caio risponde: prometto. Attraverso il ricorso della
stipulatio stava sotto il principio secondo il quale la prestazione doveva essere suscettibile di una
valutazione economica: X sesterzi, nel caso in cui il risultato atteso non si fosse verificato, mentre il
risultato atteso e contemplato era una condizione sospensiva e insieme negativa del negozio. La
pena di cui si tratta era per lo più convenzionale, stabilita preliminarmente tra le parti e aveva la
sua fonte nella stipulatio.
Perché nascesse un’obbligazione, abbiamo detto precedentemente che il creditore doveva avere
interesse alla prestazione: è necessario richiamare il divieto di contratto in favore di terzi, ovvero
la stipulatio in cui il debitore promettesse di compiere una prestazione in favore di un terzo
estraneo al negozio; divieto che non solo comportava che il terzo non avesse azione per
l’adempimento, ma comportava anche che non avesse azione nemmeno lo stipulante. In questo
caso l’interesse non era ravvisabile. Anche in questo caso poteva soccorrere una stipulazione
penale (esempio: Tizio: prometti di darmi duecento se entro l’anno non darai cento a Sempronio)
Caio: prometto)
è da porre in relazione il criterio per cui il debito e la responsabilità dovevano far capo alla stessa
persona, il fatto che i classici negava la validità all’assunzione di responsabilità per i
comportamenti altrui. Quindi non solo ne fu negata l’efficacia, ma non si ritenne nemmeno valida
l’assunzione dell’impegno che un terzo estraneo al negozio tenesse un determinato
comportamento. Pertanto è necessario sottolineare che la prestazione doveva avere ad oggetto
un comportamento proprio del debitore. In mezzo c’era sempre il possibile ricorso alla
stipulazione penale.
La prestazione abbiamo anche detto che doveva essere possibile: infatti era nullo in negozio
giuridico che ponesse a carico del debitore una prestazione rivelatasi impossibile : in questo caso si
tratta di un’impossibilità iniziale, già verificata al tempo in cui si compiva il negozio. La prestazione
poteva essere impossibile materialmente: come ad esempio consegnare un edificio già distrutto da
un incendio. Si ritenne pertanto impossibile la prestazione di trasferire al creditore la proprietà di
cosa già sua.
La prestazione doveva essere lecita e non contraria al buon costume (mores) o al diritto oggettivo.
La prestazione doveva essere determinata o determinabile: determinata con rinvio a elementi
esterni al negozio che si stava compiendo, come il caso della compravendita; determinabile invece
nel caso in cui la prestazione fosse affidata ad alcuna delle parti o ad un terzo, solo che la parte o il
terzo avrebbero dovuto procedere con il criterio dell’uomo onesto, con senso di giustizia e di
equità.
Un'obbligazione non poteva avere inzio dalla persona dell’erede e in caso ciò fosse avvenuto,
avrebbe comportato la nullità del negozio. Per questo motivo si fece ricorso alla figura
dell’adstipulator. Invece si ritenne valida una stipulatio in cui il promittente aveva adempiuto in
punto di morte e anche il mandato post mortem, perché fosse ravvisabile in esso l’inizio di
esecuzione avvenuto in vita delle parti.
La prestazione poteva essere in sé suscettibile di essere frazionata in piè prestazioni omogenee o
anche non esserlo: nel primo caso si dice obbligazione divisibile, nel secondo indivisibile. Di regola
erano divisibili le obbligazioni riguardanti il dare, e sempre indivisibili quelle riguardanti il fare.
Quelle riguardanti il dare, erano divisibili sia quando la prestazione aveva ad oggetto del denaro o
altre cose fungibili, ma anche quando aveva ad oggetto una cosa individuata nella specie.
L’obbligazione di dare sarebbe stata considerata indivisibile per quanto riguarda la costituzione di
servitù oppure il diritto reale di usus. Le obbligazioni indivisibili non potevano essere adempiute
parzialmente e ad esse si applicò pertanto il regime delle obbligazioni solidali elettive.
ad ogni obligatio corrispondeva solitamente una sola prestazione, ma esistevano anche le
obbligazioni alternative che prendevano in causa due o più prestazioni, in cui il debitore era
liberato con l’adempimento di una di queste. ad esempio: prometti di darmi il servo Tizio o di
darmi 100. Con la risposta affermativa, il debitore sarebbe stato tenuto a scegliere tra una delle
due prestazioni da eseguire. La scelta era definita electio, e poteva essere cambiata, dal debitore,
sino al momento dell’adempimento. Invece con l’impossibilità di una delle due prestazioni,
l’obbligazione alternativa cessava di essere tale poichè ci sarebbe poi stata solamente una scelta
possibile.
La prestazione poteva avere ad oggetto sia cose individuabili per la loro appartenenza ad una
categoria, a un genus, sia cose determinate, individuate nella specie: nel primo caso sono
obbligazioni generiche, invece nel secondo sono specifiche, che non davano luogo in sé, a
particolari problematiche, a differenza di quelle generiche. Erano generiche quelle obbligazioni per
le quali la prestazione aveva ad oggetto delle cose fungibili e potevano nascere da stipulatio o
anche da legato per damnationem. Era tuttavia necessario che l’oggetto della prestazione fosse
indicato con ragionevole determinatezza, altrimenti sarebbero stati nulli. Sempre meglio, era
specificare la qualità: dieci ettolitri di vino falerno. Il genus poteva essere più o meno ampio e più o
meno limitato: per quanto riguarda il genus limitato : “uno dei servi del testatore”, appare più
evidente la somiglianza con le obbligazioni alternative; ma nonostante ciò, erano diverse. Riguardo
alle res, non ci fu inizialmente una limitazione: il debitore poteva scegliere le peggiori e il creditore
pretendere le migliori. La caratteristica propria delle obbligazioni generiche era che la prestazione
non poteva diventare impossibile per perimento della cosa, perchè il genus non poteva perire.
Il creditore che non adempie la prestazione, se l’inadempimento è a lui imputabile, incorre la
responsabilità definita responsabilità contrattuale dalla dottrina moderna.
Per quanto riguarda il debitore, sarebbe stato responsabile se l’inadempimento fosse stato a lui
imputabile: nelle obbligazioni di dare cose determinate sanzionate da azioni in ius di stretto diritto,
il debitore rispondeva dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione se essa fosse stata
conseguente ad un suo comportamento positivo o cosciente, poco importa se voluto o meno.
In altri casi invece, soprattutto quando il debitore teneva a proprio vantaggio una cosa altrui , il
debitore rispondeva per custodia di essa e si trattava di un metro di responsabilità piuttosto
rigoroso, perché il debitore ne sarebbe stato liberato soltanto una volta che la cosa fosse perita.
Invece il depositario, sebbene dovesse custodire la cosa, non rispondeva per custodia, ma bensì
solo per dolo perché era a vantaggio del deponente, non proprio, che egli teneva la cosa
depositata, A questo si rispondeva tramite un actio in factum,e per quanto riguarda questo caso
specifico il dolo non era né considerato come inganno, né comportamento iniquo, ma in materia
della responsabilità contrattuale, era riferito alla volontarietà del comportamento e alla
volontarietà dell’evento dannoso da esso provocato.
Poi per quanto riguarda i iudicia bonae fidei, l’ampia discrezionalità attribuita al giudice nella
formula consentiva di adeguare la decisione alle circostanze del caso concreto. Si ritenne
conforme ai criteri di buona fede che il debitore rispondesse dell’impossibilità sopravvenuta della
prestazione sulla base del criterio della custodia; ma per altre ipotesi il grado del debitore fu
limitato al dolo soltanto oppure a volte anche alla colpa, intendendo così un comportamento
imprudente e negligente. In Questo caso si parla da un lato di culpa lata: la colpa grave ,nella quale
incorre il debitore che non intende quel che tutti intendono e viene equiparata al dolo con la
conseguenza che il debitore che avrebbe dovuto rispondere unicamente del dolo, risponde anche
della culpa lata. dall’altro lato c’è invece la culpa levis, contrapposta alla culpa lata, che consiste
nel non adoperare la diligentia propria dell’uomo medio e viene anche definita culpa in abstractio,
contrapposta a quella in concreto che è quella di chi non cura le cose altrui come se fossero cose
proprie. Col tempo, al concetto di copa finiscono poi per essere assimilati in sostanza i criteri del
factum debitoris e anche della custodia e si pervenne così ad un regime di responsabilità tutto
ancorato su dolo e colpa.
ai criteri di imputazione per inadempimento si poteva derogare con patto contrario: così sarebbe
stato possibile estendere alla forza maggiore la responsabilità di ogni debitore al solo dolo
eliminandone la colpa.Ma sarebbe stato nullo il patto che esonerasse il debitore anche dal dolo.
Il rischio dipendente da un evento pregiudizievole per taluno e non imputabile a nessuno detto
periculum, nel caso di una res era quasi sempre a carico del proprietario di essa; in presenza di
rapporti obbligatori invece, era a carico del creditore, poco importava se fosse proprietario o
meno della cosa in questione.
il fatto che il debitore cui fosse imputabile di impossibilità sopravvenuta della prestazione fosse
ritenuto di ciò responsabile comportava che, contro di lui, il creditore avrebbe potuto esercitare
ancora un’azione propria del rapporto tra le parti, la stessa esperibile se la prestazione fosse stata
ancora possibile. L’idea della perpetuatio obligationis indicava un obbligazione perpetua una volta
che era ormai divenuta impossibile la prestazione per causa imputabile al debitore.
Il ritardo colpevole dell’adempimento alla prestazione dava luogo a quella che allora si chiamava
mora, e il ritardo poteva essere imputabile o al debitore: mora solvendi, ma anche al creditore:
mora accipiendi. Il debitore cadeva in mora quando consapevolmente e senza una giustificazione,
non adempiva al proprio debito e per invitare e sollecitare il debito ad adempiere al suo debito si
utilizzava l’interpellatio che però non si utilizzava in tutti i casi, in due casi venne ritenuta
superflua: il primo è il caso delle obbligazioni con termine iniziale previsto nel negozio costitutivo
dell’obbligazione, il secondo riguarda le obbligazioni nascenti da un furto. La posizione di un
debitore in mora è più gravosa di quella di ogni altro debitore: perché il debitore morosa era
responsabile per l’impossibilità sopravvenuta della prestazione qualunque ne fosse stata la causa il
periculuum ne sarebbe stato in qualunque caso a suo carico. In proposito si fece ricorso al
principio della perpetuatio obligationis e si ammise anche che talvolta il debitore moroso fosse
liberato nel caso in cui egli avesse provato eseguita tempestivamente la prestazione, la cosa
sarebbe perita ugualmente. Un altro principio nello stesso ambito fu quello per cui, il debitore
moroso deve corrispondere al creditore anche dei frutti della cosa dovuta dal momento in cui sia
caduta in mora o dei suoi interessi, da liquidare ad opera del giudice.
Invece cadeva in mora il creditore che rifiutasse la prestazione che il debitore gli offriva e con la
mora il debitore, sarebbe soltanto stato responsabile per dolo. Questo riguardò anche le
obbligazioni generiche e pecuniarie, per queste ultime si stabilì anche che se il debitore avesse
avuto cura di depositare in luogo pubblico la pecunia, sarebbe cessato il corso di eventuali
interessi. La mora accipiendi cessava una volta che il creditore concretamente manifestasse
disponibilità a ricevere la prestazione.
Per fonti di obbligazione si intendono quei fatti giuridici cui si riconosce l’efficacia di generare
obbligazioni, al riguardo si parla di causae, accanto al termine di ragione, o ragion d’essere
obiettiva, o anche di funzione. Le fonti di obbligazioni nel diritto romano erano tipiche come erano
tipiche le azioni che le sanzionavano e i giuristi romani decisero di raggrupparle in delle apposte
categorie: obbligazioni che derivano da un contratto: contractus, o da delitto: delictum. Per
contratti si intendevano gli atti leciti con effetti obbligatori, per delitti gli atti illeciti sanzioni da
aioni penali. Ma per quanto riguarda il contractus è opportuno ricordare che c’è anche un
significato più ristretto per cui si dicono contratti solamente i negozi giuridici almeno bilaterali nei
quali ci sia precedentemente stato tra le parti un accordo volto a far nascere un obbligazione, in
modo tale che le obbligazioni siano le stesse tra le parti concordate. Questo significato è
riallacciato alla figura di Gaio che sviluppò questo concetto in una sua opera successiva, dove
propose in seguito non più una bipartizione delle fonti ma una tripartizione: contratto, delitti e
variae causarum figurae, in cui egli incluse anche gli atti leciti con effetti obbligatori non
classificabili tra i contratti per il difetto di accordo e anche per alcuni illeciti pretori sanzionati da
azioni penali ma non così gravi da essere classificati quali i delitti. Dopodichè si fece una ulteriore
quadripartizione delle fonti di obbligazione: obbligazioni da contratto, da delitto e si aggiunsero
quelle per quasi ex contractu e quasi ex maleficio: le prime sono relative agli atti leciti obbligatori
non contrattuali per difetto di consenso, i secondi invece riguardano gli illeciti meno gravi già
sanzionati dal pretore con azioni penali.
Per parlare di contratti si parla di negozi giuridici bilaterali con effetti obbligatori, produttivi di
obbligazioni, volute dalle parti.
I contratti erano tipici, essendo tipiche le fonti di obbligazioni e le azioni: per questo motivo si dice
che fossero a numero chiuso, ognuno con un proprio regime giuridico e un’apposita actio o
actiones proprie. Ma esistevano dei correttivi, si pensa ad esempio alla stipulatio, contratto in cui
la tipicità stava nella forma e non nel contenuto. Si può anche parlare dei contratti innominati, o
ancora ai patti aggiunti ai contratti da cui derivavano azioni di buona fede
I contratti nel diritto romano avevano effetti obbligatori, e soltanto obbligatori. Altri effetti reali
venivano riconosciuti ad altri negozi giuridici bilaterali quali la mancipatio, in iure cessio o traditio,
non qualificabili come contratti.
Dicendo che i contratti sono negozi giuridici bilaterali, si ha riguardo al momento formativo
dell’atto che richiede infatti la partecipazione di due o più parti che lo fanno. Invece per quanto
riguarda gli effetti dei contratti, si possono distinguere i contratti unilaterali o quelli bilaterali: i
primi sono quelli in cui sorgono obbligazioni a carico di una sola persona come nel caso della
stipulatio o del mututo, invece i secondi sono negozi in cui ad essere obbligate sono entrambe le
parti, come il caso della compravendita o della locazione. Ci sono anche i contratti bilaterali
imperfetti, nei quali ad essere obbligata in ogni caso è solo una parte, ma eventualmente più
nascere un obbligazione anche a carico dell’altra parte: come il deposito o il comodato. Per il
contratto di locazione e di compravendita si parla di contratti bilaterali in merito soprattutto
all’uso di indicarli con un binomio: emptio venditio e locatio conductio (contratti sinallagmatici).
Nelle fonti romane un caso a sé è invece quello della società: contratto bilaterale e negozio,
talvolta plurilaterale. Nella compravendita e nella locazione le prestazioni dovute da una e
dall’altra parte erano strutturalmente diverse tra di loro, mentre nella societas, le obbligazioni
assunte da ciascuna delle parti cospiravano tutte al medesimo fine. Un’altra classificazione sempre
in merito ai contratti, è quella tra i contratti reali:”l’obbligazione si contrae re, ovvero in virtù della
consegna della cosa”, qui gli effetti obbligatori di producevano pe effetto della consegna di una
cosa a partire da quel momento; anche qui inoltre il consenso non poteva mancare ma era
incorporato nella consegna e si manifestava con essa. La consegna poteva avvenire tramite
traditio come il mutuo o il caso del pegno (riguarda anche la fiducia e i contratti innominati), i
contratti verbali: la stipulatio è l’esempio per eccellenza e l’obbligaizone nasceva per effetto della
pronunzia di certa verba e il consenso veniva trasmetto tramite la pronuncia dei verba; e i contratti
letterali: l’esempio per eccellenza sono i nomina transscripticia ed erano i contratti in cui
l’obbligazione nasceva mediante la materiale registrazione per iscitto di certe operazioni contabili,
e anche in questo caso il consenso non mancava ma era espresso mediante scriptura, e infine i
contratti consensuali: “l’obbligazione si contrae in virtù del consenso”, il consenso era comunque
manifestato ed era sufficiente per il contratto, oltre che necessario. Una sua caratteristica era che
finchè non avesse avuto inizio l’esecuzione, essi si scioglievano per mutuo dissenso.
Il mutuo nel diritto romano era un diritto reale unilaterale, per cui una parte detta mutuante è,
consegna all’altra , detta mutuatario, unna somma di denaro o di altre cose fungibili con l’impegno
del mututatario di restituire al mutuante altrettanto dello stesso genere. Si trattava di un negozio
causale che realizzava un prestito di consumo e tramite la consegna , traditio, il mutuatario
acquistava la proprietà del denaro o delle altre cose che gli venivano consegnate : si trattava
pertanto di una datio. Nasceva solo un’obbligazione a carico del mutuatario che avrebbe dovuto
restituire l’equivalente di quanto ricevuto e per ciò compiere egli stesso una datio-traditio.
Per la restituzione, per la quale le parti pattuivano solitamente un termine, il creditore mutante
avrebbe agito con la condictio. L’azione per la restituzione del dato e che aveva sia applicazioni
contrattuali che extracontrattuali. La condictio era un’azione di stretto diritto in personam e in ius
in cui la formula era senza demonstratio e quindi astratta, nell’intentio vi era dedotto un dare
oportere a carico del convenuto. Il mutuo era pertanto un istituto del ius civile qualificato iuri
gentium perché riconosciuto e tutelato anche per i peregrini. Era un’azione di ripetizione e nella
formula c’era la quantità di denaro o di altre cose che era stata oggetto della datio. Era tutelata
tramite una exceptio. Ci furono poi numerose leggi che si preoccupavano di stabilire un limite
massimo agli interessi: inizialmente del 12 per cento poi ridotto al 6 per cento da Giustiniano. In
ogni caso fu vietato l’anatocismo, ovvero il patto per cui gli interessi non pagati avrebbero prodotti
ugualmente altri interessi.
Una particolare specie di mutuo era quella di fenus nauticum, ovvero un prestito marittimo
recepito dalla prassi commerciale mediterranea di varie città greche e che riguardava somme di
denaro volte a essere date in prestito per operazioni oltre mare con tassi di interessi molto elevati.
Anche il debito era considerato un contratto reale, ma bilaterale imperfetto: contratto in cui una
parte: deponente, consegnava all’altra: depositario, una cosa mobile con l’intesa che il depositario
la custodisse gratuitamente e la restituisse al deponente a semplice richiesta. Con la consegna il
depositario acquistava la detenzione e non avrebbe potuto utilizzare la cosa avrebbe altrimenti
commesso un furtum. Per il perimento o il deterioramento della cosa egli era responsabile per
dolo e nel diritto giustinianeo anche per culpa lata. A sua volta il deponente sarebbe stato tenuto a
rimborsare al depositario le eventuali spese e anche a risarcirgli il danno.al depositario non era
nulla dovuto per la custodia: poiché per la sua essenza il contratto era gratuito. Ci fu anche in
questo caso una relativa difesa giudiziaria sia pretoria che civile.
Si parlò anche di sequestro, correlato al deposito. A cui vi si faceva ricorso quando c’era
controversia sull’appartenenza della cosa tra due o più persone e queste preferivano affidarla
temporaneamente ad un terzo: il sequestratario perché la custodisse con l’intesa di restituirla poi
a quello dei deponenti che ne fosse stato riconosciuto proprietario. Il sequestro era diversi rispetto
al deposito perché di fatto la restituzione andava fatta soltanto ad uno dei due deponenti. L’azione
che si sarebbe data al sequestratario per la restituzione della cosa era l’actio sequestrataria.
Si indicava sempre con il deposito, l’affidamento ad altri di denaro contante , che l’accipiente
divenutone proprietario, avrebbe potuto mescolare con il proprio e a richiesta anche utilizzare
restituendone poi l’equivalente: si chiama deposito irregolare. Ma la differenza tra quest’ultimo e
il mutuo è il fatto che il mutuo era un prestito di consumo sollecitato dal mutuatario; mentre il
deposito irregolare l’iniziativa era del deponente che desiderava che il suo denaro fosse custodito.
È come se il deposito irregolare in un certo senso corrispondesse al nostro deposito bancario.
Il comodato era un contratto reale e bilaterale imperfetto e anche in esso una parte: il comodante,
consegnava all’altra parte: il comodatario, una cosa mobile con l’impegno del comodatario di
restituire la stessa cosa e pure il comodatario acquistava nient’altro che la detenzione della cosa
ricevuta dal comodato. Solo che il comodato era un prestito d’uso gratuito nell’interesse del
comodatario che poteva usare la cosa comodata e non doveva l’uso alcun compenso. Il contratto
era a tutto vantaggio del comodatario che, una volta deteriorata o perita la cosa, ne rispondeva
per custodia. Inoltre al comodatario erano dovute eventuali spese erogate sulla cosa e
risarcimento. Questa ebbe tutela pretoria e civilistica con azione diretta in favore del comodante.
Del pegno se ne parla limitatamente alla datio pignoris e viene in considerazione per quanto
riguarda il rapporto obbligatorio che si istituisce tra chi dà la cosa in pegno: solitamente il debitore
e il creditore che la riceve. Il creditore pignoratizio riceva la cosa e assume la veste del debitore
perché, estinto il debito, sarà tenuto alla restituzione della res pignorata; il debitore pignoratizio,
viceversa, assume il ruolo di creditore perché, estinto il debito, potrà pretendere la restituzione
della cosa stessa. Il contratto di pegno è un contratto reale bilaterale imperfetto per cui taluno a
garanzia di un debito consegna al creditore una cosa con l’intesa che estinto il debito venga
restituita. Il creditore pignoratizio non la può usare e per perimento o deterioramento della cosa
ne risponderà per custodia, con eventuali risarcimenti per spese o danni. Si rispondeva tramite un
actio directa che si diede al creditore pignoratizio contro l’oppignorante per eventuali spese e
danni.
La tutela processuale di deposito, comodato e pegno risale all’ultima età repubblicane si
conseguiva tramite il ricorso alla fiducia: una parte fiduciante trasferiva all’altre parte: fiduciario, la
proprietà di una cosa che generalmente rea res mancipi mediante mancipatio o in iure cessio con
il patto che la stessa cosa sarebbe stata trasferita in proprietà del fiduciante.si trattava di un
pactum fiduciae. O negozio fiduciario. La fiducia poteva essere cum creditore e dum amico: nella
prima il passaggio della proprietà era a garanzia di un credito del fiduciario dopo l’avvenuto
estinzione del debito che il creditore-fiduciario avrebbe dovuto ritrasferire al fiduciante la
proprietà della res fiduciae data. Nela fiducia cum amico invece la causa poteva essere anche la
custodia o un prestito d’uso; e il fiduciario avrebbe dovuto ritrasferire la proprietà all’altra parte a
semplice richiesta. Ma il fiduciante avrebbe potuto, nella fiducia cum creditore, trasmettere il
possesso riacquistando così la proprietà per effetto di usureceptio: una sorta di usucapione. Al
fiduciante non possessore doveva bastare dapprima il fatto di fare affidamento sul vincolo che
nasceva dalla fides. Col processo formulare al fiduciante si diede un actio fiduciae per il riacquisto
di proprietà e di possesso. Il grado di responsabilità fu anche esteso alla culpa. Non risulta che i
romani abbiano classificato la fuiducia tra i contratti, in effetti non lo era di fatto.
Tra i contratti verbali abbiamo la stipulatio innanzitutto che aveva una struttura composta da
interrogazione congrua risposta, e aveva carattere astratto. Fu applicata per molte cose diverse
perché di fatto era sì un contratto tipico, ma un contratto in cui la tipicità era nella sua forma e non
nel suo contenuto, cosicché i tipi di prestazione erano i più vari. In questo caso la stipulatio è presa
in considerazione in merito ad un contratto verbale in cui il consenso doveva essere espresso
verbis: secondo lo schema di interrogazione dello stipulante e congrua risposta del promittente in
cui quest’ultimo assumeva l’impiego di compiere l’azione indicata dall’interrogante. Si trattava di
un contratto astratto. Unilaterale perché nasceva una sola obbligazione a carico del promittente e
la risposta doveva essere congrua alla domanda, tramite l’uso dello stesso verbo: prometti di
darmi cento? Prometto. Era necessaria inoltre la contemporanea presenza di entrambe le parti. Il
prototipo della stipulatio fu la sponsio: la più antica fonte di obbligazione di ius civile nel senso
stretto e riservata ai soli cittadini romani, ma di ius gentium per quanto riguarda la fruibilità.
I soggetti della stipulatio erano interrogante e promittente: il promittente doveva adempiere allo
stipulante; ma l’interrogazione poteva anche essere espressa in modo tale che l’altro promettesse
di adempiere o allo stipulante o a un terzo, che in questo caso sarebbe stato un adiectus solutionis
causa, che però non sarebbe stato un creditore ma avrebbe unicamente potuto esigere la
prestazione se il promittente si fosse rivolto a lui per l’adempimento.
Invece era molto diversa la posizione della figura dell’adstipulator: un secondo stipulante che
avendone avuto incarico dal primo vi si affiancava rivolgendo pure lui al promissor invito di
compiere la stessa prestazione già promessa all’altro. La risposta positiva avrebbe fatto nascere
due stipulationes con uguale oggetto e il promittente era liberato on una prestazione soltanto in
favore di uno dei due creditori. Si faceva ricorso a questa figura nell’ambito della promessa di
adempiere dopo la morte dello stipulante . questa figura scomparve poi in età postclassica.
Un’altra figura sempre diversa ma analoga a quella dell’adstipulator, era l’adpromissor che era
questa volta affiancato talvolta al promittente
L’azione dello stipulante contro il debitore inadempiente era l’actio ex stipulatu che aveva formule
diverse se si trattava di dare o di facere: nel primo caso l’azione era certa, nel secondo incerta.
Le formalità della stipulatio erano verbali inizialmente, ma dopo si fece ricorso a dei documenti
scritti: instrumenta che avevano però solo un valore probatorio per provare l’avvenuta solennità
orale anche dei contenuti. In età postclassica si finì di riconoscere efficacia anche al documento in
sé.
Tra i contratti verbali troviamo anche la dotis dictio e la promissio iurata liberti.
Nei contratti letterali l’obbligazione nasceva per il fatto in sé della scriptura che presupponeva il
consenso manifestato dalle parti. Il solo contratto letterale che riguardò i soli cittadini romani fu il
nomen transscripticium: la cui operazione contabile che lo realizzava eseguita dal pater familias,
poteva essere o una transscriptio a re in personam: consisteva in ciò che il pater familias già
creditore di una somma di denaro a titolo di vendita d’accordo col proprio debitore registrava
quanto dovutogli come se l’avesse incassato e anche la somma di denaro come se l’avesse data a
mutuo allo stesso debitore, facendo in modo si estinguesse così il credito; oppure una transscriptio
a persona in personam: il pater familiass avendone avuto la delega da un proprio debitore avrebbe
segnato la somma che quello gli doveva come se l’avesse incassata e avrebbe registrato quella
stessa somma come se l’avesse data a mutuo al terzo: facendo così in modo che da un lato si
estingueva il debito e dall’altro nasceva un’obbligazione a carico dell’altro. Aveva luogo una sorta
di novazione per la quale non era strettamente necessaria la presenza di ambedue le parti e la
azione che si dava al creditore era una condictio.
La compravendita si realizzava tramite la mancipatio con lo scambio immediato di cosa contro
prezzo con un mero consenso. Le obligationes nascevano per effetto del solo consenso e qualificò
contratto l’atto con cui questo consenso si manifestava, mettendolo all’interno dei contratti
consensuali, in cui il venditore si obbligava a fare conseguire all’altra: compratore, il pacifico
godimento di una cosa definita merx e dal canto suo il compratore si obbliga a pagare al venditore
un corrispettivo in denar: pretium nella misura convenuta. Ad obbligarsi pertanto erano entrambe
le parti tramite un contratto bilaterale che era fruibile quindi sia da cittadini romani che peregrini e
era sanzionata mediante azioni in ius di buna fede.
Il consenso doveva esseere comuqnue manifestato, non importava come e il documento scritto fu
necessario solamente per esigenze probatorie, ma in età postclassica l’utilizzo dell’instrumenta
ebbe più ampia e larga diffusione e fu pertanto anche ritenuto necessario. Giustiniano decise di
lasciare alle parti la decisione in merito a se scrivere o meno la venidta che si andava a realizzare
oppure lasciarla solo orale. Non era raro l’impiego di una caparra : arrha: una somma di denaro
che poteva essere versata contestualmente alla conclusione di un contratto , col solo valore del
consenso prestato.
L’oggetto della vendita era detto merx, e molto spesso si trattava di una cosa corporale ma alle
volte era anche eredità, superficie, ius in agro vectigali, enfiteusi, usufrutto, servitù, crediti... era
anche ammessa la vendita delle cose future : emptio speratae e emptio spei: la prima era soggetta
alla condizione sospensiva che le cose venduta venissero ad esistenza , la seconda era una vendita
aleatoria non condizionata.
Il prezzo doveva essere espresso in denaro, denaro contante: pecunia numerata, in modo tale da
distinguere quale delle due prestazione sarebbe stata il prezzo e quale la merce di scambio e
anche per distinguere quale fosse il compratore e quale il venditore, questo necessario per
comprendere quale prestaizone comportasse a chi delle due figure quale responsabilità avessero
pertanto. La misura del prezzo era liberamente concordata tra le parti della vendita e il fatto che il
presso dovesse necessariamente coincidere con il valore della cosa era un principio abbastanza
estraneo al diritto classico che fu poi stabilito in seguito da Diocleziano.
Il compratore in quanto tale era quindi tenuto a fare traditio delle monete e del denaro in
generale in modo tale da farne conseguire al venditore la proprietà. Contro di egli, nel caso di
inadempimento, c’era l’actio venditi
Il venditore invece era tenuto a fare conseguire al compratore il pacifico godimento della merx,
ma egli non era obbligato al trasferimento della merx al compratore, ma solo a farne traditio in
modo tale che egli avrebbe potuto acquistarne il possesso. Se la merce no nconsegnata
contestualmente alla vendita periva, il compratore ne rispondeva per custodia.
Il venditore che avrebbe venduta una cosa non propria non era per questo in sè responsabile, ma
la responsabilità sarebbe sorta se il compratore avesse subito un evizione: il fatto del terzo che
rivendicasse con successo presso il compratore la cosa venduta. Una tale responsabilità poteva
derivare dalla mancipatio (?)...
Per quanto riguarda i vizi occulti: vizi o difetti materiali della cosa non manifesti al compratore
all’atto della vendita, il punto di partenza è che una respnsabilità del venditore non discendeva di
per sè dal contratto consensuale di vendita. Contro il mancipante del fondo venduto con una lex
mancipii, spettava al compratore l’actio de modo agri per il doppio del minor valore del fondo
qualora il fondo stesso fosse risultato esteriormente inferiore. A parte questo, il venditore che
avrebbe promesso con stipulatio, che la cosa venduta possedeva determinate qualità o era esente
da certi vizi, sarebbe stato convenibile dal compratore con l’actio ex stipulatu una volta verificato il
contrario. In questo caso avevano un ruolo speciale gli edili curuli nell’amministrazione dei
mercati: nel loro editto c’era l’obbligo di scrivere se avessero dei vizi o certe qualità determinate
sia per quanto riguarda gli schiavi che gli animali, nel caso in cui questo non fosse avvenuto,
l’azione sarebbe stata un actio quanti minoris: con la quale il compratore avrebbe avuto il minor
valore dello schiavo o dell’animale venduti; oppure l’actio redhibitoria, con la quale il compratore
avrebbe riavuto il prezzo previa restituzione dello schiavo o animale. L’editto degli edili curuli
venne successivamente esteso anche alle altre cose durante la vendita.
Alla eìvendita potevano essere integrati dei patti aggiuntivi, come il patto commissorio,l’in diem
addictio o il pactium displicentiae: i primi due erano a favore del venditore mentre il terzo a favore
del compratore. Si trattava comunque di patti risolutivi sospensivamente condizionati per cui la
vendita risultava soggetta a condizione risolutiva. Questi patti pretendevano che al verificarsi di
una certa condizione , la venidta dovesse considerarsi come non avvenuta : nel patto commissorio
la condizione era che il compratore non pagasse il prezzo entro il termine concenuto, nel secondo
patto che il venditore entro un creto limite di tempo ricevesse un’offerta migliore, e il terzo
riguardava il fatto di aver trovato la cosa non di suo gradimento.
La locaizone nel diritto romano era un contratto consensuale e bilaterale per cui, con l’esplicita
previsione di un corrispettivo: la mercede o merces, una parte: il locatore, si impegna a mettere a
diposizione dell’altra per un periodo di tempo limitato e con uno scopo preciso, una cosa mobile o
immbile e l’altra parte: il conduttore o concuctor, si impegna a prenderla in consegna per poi
restituirla una volta scaduto il termine convenuto o raggiunto lo scopo previsto. Le obbligaizoni
previste erano sanzionate da actiones quali le actiones locati in favore del locatore, e le actiones
conducti, in favore del conduttore. Era fruibile anche dai non cittadini, peregrini, quindi qualificata
quanto iuris gentium. E in merito occore fare una distinzione tra la locatio rei e la locatio operis e
la locatio operarum: la prima era la locazoe che è presente oggi nel nosto codice civile e riguarda
cose mobili o immobili e il conduttore di cose immobili era detto inquilinus, il conduttore di fondi
rustici invece colonus. Il locatore in questo caso assumeva l’obbligo di consegnare la cosa e di
assicurarne il godimento, il conduttore invece assumeva l’obbligo di pagare la mercede in denaro
entro le scadenze stabilite e mantenere la cosa come gli era stata data e poi restituirla alla
scadenza.il conduttore avrebbe acquistato la detenzione e non il possesso e ne era responsabile
per custodia.
Anche la locatio operis poteva avere ad oggetto cose mobili e immobili: il locatore obbligava a
consegnare una cosa , il conduttore a esercitare autonomamente ma nell’interesse del lcatore una
certa attività relativamente alla stessa cosa cos da raggiungere il risultato convenuto, per poi
restituirla al locatore. Il conduttore poteva assumere l’impegno di trasportarla o di custodirla , e se
l’oggetto era un servo invece il conduttore poteva assumere l’impegno di istruirlo e se si fosse
trattato di indumenti di lavarli o rammentarli. Il conduttore ne era responsabile per custodia e per
cattiva esecuzione dell’opera anche per culpa.
Un regime speciale fu adoperato invece per la locatio operis riguardante le merci trasportate per
mare: perchè se per la difficoltà della navigazione si era costretti talvolta a gettare in mare alcue
merci locate per il trasporto, il rischio sarebbe stato sopportato dai locatori delle merci perdute. Al
riguardo il diritto romano parlò della lex Rhodia de iactu per cui il rischio si sarebbe ripartito
proporzionalmente tra i locatori delle merci che eran state imbarcate sulla stessa nave.
Con la locatio operarum un uomo libero assumeva l’impegno di mettere la propria attività
lavorativa alle dipendenze di altra persona , la quale si oobligava a pagare come corrispettivo una
certa mercede. Il lavoratore era il locatore e il datore di lavoro il conduttore. Il periculuum era a
carico del datore di lavoro e qeusto corrispondeva al nostro tipo di lavoro subordinato. Sino a età
classica avanzata i lavoratori liberi erano ben pochi e soffrivano di scarsa considerazione sociale e
gli uomini liberi erano quelli che facevano le cosiddette artes liberales: per la maggior parte
avvocati e agrimensori: attività queste che si praticavano allora perlopiù gratuitamente ma a cui
spesso i clienti offrivano dei donativi, e che divennero col tempo non più gratuite.
In età potclassica l’attività di applicazione della locazione si restrinse notevolmente.
La società o societas era un contratto consensuale bilaterale o eventualmente plurilaterale per cui
due o più socii, persone, convenivano di mettere in comune beni e attività di lavoro o anche solo
gli uni o le altre al fine di conseguire un lucro per tutti previa divisione di profitti e perdite, ed era
un contratto di iurs gentium, sanzionato dall’actio pro socio, di buona fede. Il grad di
responsabilità per inadempimento era diverso a seconda delle situaizoni e circostanze e si
rispondeva ora per dolo, ora solo per colpa ma in qualche caso anche per custodia. Ma il criterio
era quello della culpa in concreto. Il tipo di società fu quello della societas omnium bonorum: di
tutti i beni, dove i socii convenivano di mettere in comune i lro beni, presenti e futuri. Ma non
tardò in meritoil riconoscimento di altri tipi, quali: il fatto di mettee in comune delle attività
commerciali o industriali nell’interesse di tutti. La società era un singolare contratto consensuale
perchè non solo le parti si obbligavano in forza del semplice consenso comune manifestato ma era
altresì necessaria la perseveranza del consenso. La società si sarebbe sciolta per reciproco
dissenso, anche solo se uno dei soci avesse manifestato lavolontà di recedere il contratto, per
esaurimento di scopo, impossibilità soravvenuta, per morte e capitis deminutio anche solo di uno
dei due soci. Dal contratto di società nascevano delle obbligazioni e profitti e perdite sarebbero
state divise in parti uguali se nulla era convenuto in proposito, diversamente secondo i patti. Il
contratto di questo tipo sarebbe stato nullo se limitava la partecipazione di questo o qeul socio
alla sola perdita. Per la fraternitas si stabilì tra i socie per la fiducia reciproca che essa avrebbe
dovuto comportare , la codanna nell’actio pro socio era infamante , ma il convenuto godeva del
beneficium competentiae per cui avrebbe potuto evitare la condanna pagando tempestivamente
nei limiti delle sue possibilità economiche.
Un altro tipo di contratto consensuale era il mandato: contratto bilaterale imperfetto per il quale
una parte conferisce un incarico all’altra che si impegna ad eseguirlo: le parti sono dette mandante
e mandatario. Al mandatario non era dovuto alcun compenso, perchè se fosse stato previsto un
compenso si sarebbe allora trattato di una locazione. Il mandato poteva essere nell’interesse del
solo mandante o anche nell’interesse di terzi, invece furono negati gli effetti del mandato
all’incarico nell’interesse del mandatario. Contro il mandatario si dava al mandante l’actio mandati
directa e viceversa si dava invecel’actio mandati contraria. Il mandatario aveva pertanto l’bbligo di
eseguire fedelmente l’incarico e trasferire al mandante i beni, i diritti e i crediti; sul mandante
gravava l’obbligo di rimborsare al mandatario le spese e di risarcire i danni e sollevarlo da
eventuali debiti. L’esigenza che il mandatario trasferisse al mandante quanto acquistato e che il
mandante si accollasse o debiti derivava dal semplice fatto che il mandatario non era
rappresentante del mandante: ma si trattava di quella che ad oggi si chiama rappresentanza
indiretta. Per l’inadempimento o per la cattiva esecuzione il mandatario avrebbe risposto solo per
dolo. La condanna nell’actio mandati directa comportava anche l’infamia e le azioni erano in ius ex
fide bona e spettavano anche ai peregrini. Il mandato si sarebbe stinto per revoca del mandante,
per rinunziadel mandatario e per morte di una delle due parti, purchè prima che ne fosse iniziata
l’esecuzione, o anche solo per reciproco dissenso, una volta espletato l’incarico anche.
I contratti innominati erano i negotia di “affari” in cui ciascuna delle parti sarebbe stata onerata o
di un dare o di un facere e pertanto il valore non si riconobbe alla convenzione in sè ma
all’esecuzione. Era un: io do affinchè tu faccia, io faccio affichè tu dia, io faccio affinchè tu faccia...
si trattava pertanto di una dare o facere che esigeva anche una controprestazione; a dare efficacia
a questo tipo di convenzioni fu dapprima il pretore ma poi da età classica, l’esigenza di pretendere
della controparte una contropretsazione fu inserita da quest’ultima da un’azione con intentio:
azione in personam e in ius che fu detta praescriptis verbis e il gradi di responsabilità fu esteso alla
colpa. Le convenzioni divennero col tempo vere e proprie fonti di obligationes e quindi contractus.
Fu poi Stefano, giurista bizantino del tempo di Giustiniano, a qualificarle quali contratti innominati,
da noi anche definiti unilaterali accostati ai contratti reali. Il loro regime fu anche esteso a quello
dei giudizi di buona fede.
La condictio causa data causa non secuta tutelava i negozi del tipo do ut des e do ut facias.
I classici inquadrarono bel tipo do ut des la donazione modale e poi anche la permuta, il contratto
estimatorio, la datio ad inspiciendum. Per permuta si intendeva lo scambio di cosa contro cosa e il
contratto di tipo reale e unilaterale; invece nel contratto estimatorio una parte dava all’altra una
cosa stablendone il valore e l’accipiente si obbligava o a venderla e restituire il ricavato nei limiti
della stima o a restituire la cosa stessa. Nella datio ad inspiciendum invece una parte consegnava
all’altra una cosa perchè ne determinasse il valore e poi la restituisse. Poi ai contratti innominati
furono assimilati il precario e la transazione.
Il precario consisteva nella concessione di un bene immobile che una parte faceva all’altra affichè
ne godesse graduitamente e lo resituisse su semplice richiesta. In questo caso viene in mente ad
esempio la concessione di terre che i grandi proprietari fondiari usavano fare a propri clienti o
persone di fiducia. Il precarista fu per molto tempo tutelato contro eventuali terzi, ma non contro
il concedente e il precario dans avrebbe potuto riprendere il possesso della cosa in ogni momento
anche con atto di autodifesa , pure contro la volontà del precarista. Il pretore diede al concedente
per il recupero della cosa nel suo editto l’interdictum quod precario; e dopo gli si diede anche
l’actio praescriptio verbis. Da qui ci fu poi anche la sua qualifica in contractus.
Per patti si intende quelle convenzioni o accordi che venivano in qualsiasi forma manifestati, non
rientravano all’interno di nessun contratto titpico e vennero definiti nuda pacta. Ai patti
inizialmente non si attribuì nessun effetto, salvo per iniuria o furto. Le XII Tavole attribuirono
all’accordotra offeso e offensore e tra deburato e ladro l’effetto di estinguere la poena. Invece
ebbe una portata assai più ampia l’editto pretorio de pactis con cui il pretore avrebbe promesso di
tutelare i patti. Ai patti il pretore però diede efficacia limitata mediante exceptio pacti conventi. A
differenza dei contratti i patti non davano luogo alle obbligazioni; pertanto la parte che ne avrebbe
tratto vantaggio non avrebbe potuto promuovere giudizio , convenuta però in violazione del
patto , avrebbe opposto l’exceptio pacti conventi.
Si parlò anche in merito ad eventuali patti aggiuntivi: pacta adiecta, a contratti dai quali derviavano
azioni di buona fede e tra cui si fece distinzione tra quelli contestuali e quelli successivi al
contratto.
Giustiniano diede poi in seguito una efficacia diretta obbligatoria ai patti con i quali le parti
convenivano di rimettere all’arbitrato di un terzo scelto in comune accordo la decisione di una
controversia tra loro. Ciascuna parte prometteva all’altra una pena pecuniaria se la parte
promettente nn si fosse poi adeguata alla pronunzia dell’arbitro: si parlò al riguardo di
compromissum. (patto legittimo)
Ci fu poi un estensione in merito ai patti aggiunti contestualmente ai contratti, anche se non di
buona fede e si riconobbe poi anche che la stipulatio potesse essere compiuta quibuscumque
verbis. Si assottigliarono anche i confini tra la stipulatio e i pactum. Superata poi la tipicità
contrattuale, ogni accordo, purchè lecito, poteva essere definito come un contratto e avere effetti
obbligatori: nonostante ciò il diritto romano non parlò mai con termini espliciti al riguardo, ma vi si
giunse solo in età moderna.
alla negotiarum gestio o gestione di affari altrui senza mandato,si riconobbero effetti obbligatori.
Si davano alle parti le actiones negotiorum gestorum, dirette e contrarie, e di buona fede, la prima
al gerito e la seconda al gestore. Al riguardo si può dire che sul gestore gravava l’obbligo di portare
a termine l’affare intrapreso e di trasferire al gerito beni e diritti che ne avesse ricavato; invecensul
gerito gravava l’obbligo di assumere su di sè le obbligazioni che l’altro avesse contratto. Per
quanto riguarda la responsabilità fu estesa alla colpa.
Tra le fonti di obbligazioni da atto lecito non contrattuale vengono in mente anche a tutela ,
communio incidens, e coeredità, e più precisamente la tutela impuberum. Cessata la tutela, il
tutore dell’impubere doveva rendere conto all’ex pupulli della gestione tutelare e che l’ex pupillo
era obbligato a rimborsare all’ex tutore eventuali spese e a sollevarlo da eventuali debiti e oneri
assunti per la gestione. Anche la gestione della cosa o dell’eredità comune poteva dare luogo a
diritti e doveri reciproci tra comproprietari o coeredi e al pareggio dei conti, si prvvedeva in sede di
divisione.
I legati per damnationem e sinendi modo davano luogo a obbligaizoni tra erede e legatario e
l’obbligazione nasceva una volta che era morto il testatore e quindi una volta che il testamento
avesse acquistato efficacia. Nel primo legato, il testatore onerava l’erede di compiere una
determinata prestazione che consisteva in un dare o in un facere, in favore del legatario; nel
secondo legato invece il testatore poneva a carico dell’erede un obbligo di non facere così da
consentireal legatario di fare alcunchè di pretendere con sè una cosa o ereditaria o personale
dall’erede. Verso l’erede inadempiente si dava al legatario l’actio ex testamento una condanna al
doppio in caso di contestazione infondata. Ai legati possono essere affiancati anche i
fedecommessi: disposizioni di ultima volontà in favore di terzi che il testatore rimetteva per
l’esecuzione alla fides dell’erede o del legatario. Giustiniano equiparò poi i legati ai fedecommessi.
Al pagamento di indebito ci fu la solutio indebiti quale specifica fonte di obbligazione quando un
soggetto eseguiva una datio nell’erronea convinzione di esservi tenuto, e laltra parte ricevesse la
prestazione inconsapevole che non fosse dovuta. E poi anche la condictio indebiti per la
restituzione del dato.
Ci furono anche altre applicazioni non contrattuali della condictio, tutte riguardanti le ipotesi in
cui l’accipiens era obbligato a restituire quanto ricevuto o l’equivalente. In questo caso se ne parla
ad esempi oper quanto riguarda la datio dotis quando il matrimonio non è avvenuto, anche al
donante sopravvissuto nella donatio mortis causa e alla condictio che si dava a chi avesse dato per
una causa illecita.in tutti questi casi l’accipiens , senza la condictio avrebbe realizzato a danno di
chi aveva compiuto la daiìtio un arricchimento ingiustificato.
Ma le obligationes derivavano anche dai delicta: atti illeciti o comportamenti volontari riprovati dal
diritto.i delitti erano tipici: non si stabilì uno schema generale per cui gli atti che vi rientrassero si
qualificarono quali delitti e si trattava di comportamenti determinati che l’ordinamento riprovava,
ognuno con proprie connotazioni e con proprio regime giuridico: atti illeciti extracontrattuali.
(furto e danneggiamento se ne parlerà in seguito). L’obligatio che deriava dai delicta era
rappresentata dal vincolo tra offensore e offeso per cui l’uno era tenuto verso l’altro al pagamento
di una pena pecuniaria e perseguibile con un’azione penale nell’ambito del processo privato. Il
criterio generale per l’imputabilità del delitto al suo autore fu generalmente quello del dolo.
Inoltre da un altro punto di vista occorre notare che c’erano anche i crimina che erano repressi
con una pena privata nel processo privato: infatti era accaduto molto presto a Roma che alcuni
comportamenti più direttamente lesivi degli interessi della comunità e più gravemente riprovati,
avevano una connotazione propria, ed erano qualificati quali crimina e sanzionanti con pene assai
più gravi e repressi nell’ambito di iudicia privata. In materia si può notare un notevole processo
graduale di attrazione di illeciti privati tra i crimina: nel corso tra iudicia privata e iudicia publica ,
capitava spesso che i due iudicia si cumulassero e allora si sarebbe preteso che il iudicium
publicum si sarebbe svolto prima di quello privato.
Tra i delicta vi è il furto come abbiamo detto prima ed è considerato uno dei delicta più antichi: la
sua nozione originaria coincide con la nostra fondamentalmente: ovvero una sottrazione illecita di
una cosa mobile altrui (amotio rei). Ma da un momento non precisabile, la giurisprudenza prima
pontificale e poi anche laica, si preoccupò che alcuni comportamenti sentiti come illeciti non
restassero impuniti e allora li qualificarono quali furtum attribuendo al furto una concezione assai
più ampia rispetto a prima : ovvero intendendo per furto ogni comportamento doloso che
provocasse ad altrui una perdita o anche solo uno svantaggio relativamente ad una cosa mobile o
immobile. Con la giurisprudenza repubblicana poi fu nuovamente limitato alle cose mobili, ma non
si tornò tuttavia all’idea originaria del furto come la intendiamo anche noi oggi e ne rimase un
concetto molto ampio. Infatti era anche concepito come una contrectatio rei: in cui c’era anche
solo un contatto fisico con la cosa pur senza la materiale sottrazione. A volte si richiese che la
contrectatio fosse compiuta contro la volontà del proprietario della cosa, altre volte invece per
conseguire un lucro, o perché l’autore aveva intenzione di compiere un furto; ma in ogni caso era
una contrectatio fraudolosa. Inoltre si negò che fosse furto la sottrazione di cose ereditarie e si
escluse anche l’esistenza del furto tra marito e moglie.
Occorre in merito fare una distinzione tra il furtum manifestum: il furto commesso da ladro preso,
catturato dal derubato sul fatto; e il furtum nec mannifestum: il contrario.
A norma delle XII Tavole , il fur manifestus (autore del furto) poteva essere fustigato e poi addictus
( diventare servo del derubato) dal magistrato al derubato. Ma se il furto fosse stato fatto di notte
oppure se il ladro avesse tentato di difendersi con le armi, il derubato, invocata la testimonianza
dei vicini, avrebbe potuto impunemente uccidere il ladro. Molto presto però si ammise con la
prima età preclassica, che queste misure non dovevano più essere applicate, e vennero pertanto
sostituite dall’actio furti manifesti: un’azione penale pretoria, mediante la quale il derubato
avrebbe perseguito il quadruplo del valore della cosa rubata. Quest’azione si esercitava
immediatamente contro il ladro se egli era sui iuris e in via nossale se alieni iuris. Per il furtum nec
manifestum invece si pensò una pena pecuniara per il doppio del valore della cosa rubata.
All’actio furti, manifesti e nec manifesti, in ogni caso infamante, era legittimato attivamente il
derubato che avesse un interesse giuridicamente apprezzabile che la cosa non venisse rubata e
solitamente era anche il proprietario della cosa. Ma la persona poteva anche essere diversa.
L’actio furti manifesti e nec manifesti mantenne una natura penale.
Con la penale actio furti concorreva anche la condictio che in questo caso era chiamata condictio
ex causa furtiva: alla quale era ammesso il proprietario della cosa rubata in quanto tale, con la
conseguenza che ad esempio nel caso di furto di cosa comodata, il comodante dominus avrebbe
agito contro il ladro con la condictio, il comodatario con l’actio furti. La codictio presupponeva la
datio ed intendendosi con essa un trasferimento di proprietà. Ma perché contro il ladro si ammise
in funzione reipersecutoria e in favore del dominus la condictio ex causa furtiva, potendo lo stesso
dominus perseguire la cosa sua con la rei vindicatio? La doppia tutela in questo caso aveva la
funzione di rappresentare e garantire al derubato una garanzia maggiore.
La grave situazione dell’ordine pubblico, con conseguenti ruberie e saccheggi, indusse il pretore
Lucullo a prevedere nel suo editto l’actio vi bonorum raptorum: azione che era volta a sanzionare
la sottrazione di cosa altrui commessa con violenza: vale a dire la rapina. Si trattava di un’azione
infamante e penale che entro l’anno di pena era il quadruplo del valore della cosa sottratta, dopo
l’anno di pena era il suo semplice valore (simplum).
Per delitto si intendeva anche il danneggiamento, di cui se ne parlò a partire dalla lex Aquilia, un
plebiscito. Si trattava di una legge articolata in tre capitoli: il primo riguardante l’uccisione iniuria
di schiavi e capi di bestiame o gregge altrui, il secondo capitolo riguardava invece l’adstipulator
che avesse estinto il credito mediante acceptilatio e il terzo capitolo riguardava gli schiavi e i
pecudes, l’uccisione o il ferimento di animali che non fossero nel novero delle pecudes, alla
distruzione o danneggiamento di cose inanimate tra cui sono comprese anche gli schiavi e gli
animali. A carico dell’autore del fatto illecito, la legge prevedeva una pena che era la semplice
stima (simplum) del pregiudizio arrecato, il cui calcolo era però diverso a seconda dei capita della
legge: per il primo capitolo la pena era nel maggior valore che schiavi o animali avessero avuto
durante l’anno precedente l’uccisione, per il secondo capitolo la pena era nell’importo del credito
estinto e per il terzo capitolo nel maggior valore di schiavi animali o cose inanimate nei trenta
giorni precedenti l’evento dannoso. Col tempo il secondo capitolo cadde in desuetudine, mentre il
primo e il terzo ebbero notevoli sviluppi. L’azione contro l’autore del danno era l’actio legis
Aquiliae: penale e in ius e ad essere legittimato attivamente era il proprietario delle cose perite,
ma il pretore estese la tutela anche ai non proprietari. i classici poi ne riconobbero la funzione
reipersecutoria. si adottarono in seguito validi strumenti con lo scopo di superare il cumulo di
azione penale e azione reipersecutoria , se il conduttore avesse danneggiato la cosa locata, il
locatore che avesse esercitato l’actio locati non avrebbe potuto più agire ex lege Aquilia e
viceversa. nelle istituzioni giustinianee si andò anche oltre questo: con la possibilità di poter
qualificare l’actio legis Aquiliae ora reipersecutoria ora mista: penale e reipersecutoria insieme. ma
nel caso in cui il danno fosse stato compiuto nel momento di maggior valore della res nell’ultimo
anno o mese, l’azione sarebbe stata reipersecutoria; altrimenti , l’azione si sarebbe dovuta
considerare come mista, ritenendosi a titolo di pena quella parte della condanna che superava il
valore della res al tempo dell’evento dannoso. un esempio può essere il caso di un servo istituito
erede da un estraneo e ucciso prima di avere accettato: in sede di actio legis Aquiliae il giudice
avrebbe proceduto alla stima anche dell’eredità perché, se il servo su invito del padrone l’avesse
accettata, l’eredità sarebbe passata al dominus. la legge Aquilia puniva il dominus iniuria datum: il
danno arrecato iniuria ovvero ingiusto. ma ben presto la giurisprudenza attribuì all’iniuria una
valenza soggettiva e pervenne l’idea della culpa: culpa levissima. dal punto di vista oggettivo, il
danno che era quello corpore corpori datum, prodotto cioè direttamente e immediatamente dalla
forza muscolare dell’agente all'integrità fisica della cosa. ma anche in proposito intervenne il
pretore concedendo a singole ipotesi di damnum non corpore datum e per altre di danno di cose
senza lesione materiale delle stesse, azioni utili e in factum. più tardi, si diede un’actio in factum di
carattere generale a copertura di ogni ipotesi di danno inerente alle cose. in seguito nel processo
giustinianeo ci fu un evoluzione in merito ai delicta e si pervenne alla considerazione di una
configurazione unitaria dell’illecito civile extracontrattuale. ancora oggi si parla d danno aquiliano
e di responsabilità aquiliana.
la legge delle XII Tavole prevedeva pene diverse a seconda delle offese arrecate alla integrità fisica
o comunque al fisico di un’altra persona, queste offese erano: membrum ruptum: lesione fisica
con perdita definitiva della funzionalità di un organo, oppure os factum: frattura di un osso che
non comportava danni gravi o perdita della funzionalità dell’organo. per il membrum ruptum era
prevista la pena del taglione alla quale però l'autore si poteva sottrarre concordando con la vittima
una compensazione pecuniaria. per l’os factum la pena di 300 o di 150 assi a seconda che la
vittima fosse un libero o un servo. per lesioni e altre violenze fisiche minori la pena era di 25 assi
(percosse). dato che ad un certo momento il taglione fu considerato come una pena piuttosto
primitiva e rozza venne istituito al suo posto dalp retore un actio iniuriarum aestimatoria con cui
furono represse anche le offese morali ed era infamante e penale. la pena era pecuniaria nella
misura di volta in volta stabilita secondo l'entità dell’offesa sulla base di criteri di equità e a
giudicare in questo caso era un giudice collegiale: uno dei recuperatores. la condemnatio della
formula era con taxatio in modo che la condanna non superasse il limite nella stessa formula.
quest’actio era intrasmissibile agli eredi dal lato attivo e passivo.
il dirittoromano conobbe molti altri delicta e illeciti extracontrattuali, contro cui ci fu ad esempio:
l’actio de pauperie che faceva riferimento ai danni prodotti da animali: quadrupedi da gregge o
armento e in ogni caso danni conseguenti a comportamenti spontanei e innaturali. l’azione si dava
contro il proprietario delle bestie il quale era posto di fronte all’alternativa di risarcire il danno o
di dare a nossa l’animale trasferendone la proprietà all’attore. all’azione era attivamente
legittimato il danneggiato che vi avesse interesse: normalmente era il dominus delle res
danneggiate o eventualmente anche una persona diversa e si trattava di un’azione singolare
perché era nossale e non penale perché l'alternativa della nossa non era il pagamento della pena
ma bensì il risarcimento dei danni e riguardava comportamenti di animali e quindi non erano
illeciti volontari. la responsabilità in questo caso era oggettiva senza colpa e si addossava al
dominus dell’animale per il fatto in sé di esserne proprietario, secondo il principio per il quale
“colui il quale gode di un vantaggio in dipendenza del possesso di una cosa, deve anche subirne gli
svantaggi”.
poi c’erano anche le obligationes quasi ex delicto delle Istitutiones di Giustiniano che derivavano
dagli illeciti pretori non dolosi ed erano: iudex qui litem suam fecerit: il csao del giudice che avesse
giudicato malamente e alla parte che ne risentiva danno il pretore dava un’actio in factum;
l'effusam vel deiectum: il pretore si preoccupò dei danni a persone o cose provocati da oggetti
lanciati o lasciati comunque cadere dall’alto delle case di abitazione sulla pubblica via. in
quest’ultimo caso i criteri per la determinazione di una pena e quindi della condanna erano diversi
a seconda dei casi: per i danni alle cose la pena era determinata dal giudice nella misura del
doppio dei danni arrecati ; ed era invece fissa(50 aurei) per la morte di un uomo libero. si trattava
di un’azione popularis a cui era attivamente legittimato qualsiasi cittadino.. poi c’era anche il
positum aut suspensum: un’azione penale con pena fissa che fu concessa dal pretore contro
l’habitur della casa sul cui tetto o cornicione fosse stata appoggiata o posata una cosa che cadendo
avrebbe potuto portare danni ai passanti. e infine c’erano le actiones adversus nautas, caupones e
stabularios: per i furti o i danneggiamenti ai passeggeri che si verificavano sulle navi, nelle locande,
nelle stazioni per il cambio di cavalli.
le obbligazioni si estinguevano più spesso ipso iure ma alle volte anche ope exceptionis e con la
compensazione si estinguevano ope iudicis, per effetto della sentenza del giudice.
l'adempimento della prestazione: solutio, non era sempre sufficiente. con la solutio l’obbligazione
si estingueva ipso iure e a compierla era solitamente il debitore o anche un terzo eventualmente.
doveva invece essere fatta al creditore oppure anche al procurator del creditore. la prestazione
inoltre doveva essere adempiuta per l’intero salvo che il creditore non accettasse un
adempimento parziale: concedendo il beneficium competentiae.
il debitore doveva eseguire esattamente la prestazione dovuta: avrebbe potuto però al posto di
essa compiere una prestazione diversa effettuando quindi una datio in solutum (dazione in
pagamento) solo con il consenso del creditore. ed doveva essere adempiuta entro i tempi indicati
nell’atto costitutivo e nel luogo indicato.
col termine remissione si indica oggi l’atto col quale il creditore rinunzia ad esigere il proprio
credito e per il diritto romano si parla di solutio per aes et libram e anche di pactum de non
petendo.
la solutio per aes et libram era una sorta di rito simmetrico e contrario rispetto al nexum che si
svolgeva dinanzi a cinque cittadini romani puberi e un libripens che doveva reggere la bilancia;
presente anche il creditore, il debitore dichiarava solennemente seguendo un rigido schema di un
preciso formulario, di liberare se stesso dal potere del creditore e contemporaneamente gettava
sulla bilancia il metallo (rame e bronzo) e il libripens provvedeva alla pesatura. si trattava di un
atto a formalismo interno, necessario per la liberazione dei nexi al potere del creditore e per lo
scioglimento del vincolo. questa mantenne un effetto estintivo che le fu riconosciuto a prescindere
dall’adempimento. fu pertanto definita imaginaria solutio: una solutio apparente che
dell’adempimento aveva solo l’immagine e divenne un negozio valido ed efficace. questo tipo di
solutio scomparve in età postclassica.
l’acceptilatio: da considerare come ricevuto, era anch’essa un atto a formalismo interno, un atto
simmetrico e contrario rispetto alla stipulatio, alla domanda del debitore: hai ricevuto quel che ti
ho promesso? il creditore avrebbe risposto si. con l’acceptilatio l’obbligazione si sarebbe estinta
verbis. essa fu riconosciuta idonea ad estinguere l’obbligazione a prescindere dall’effettivo
adempimento ed ebbe una larga applicazione durante il principato.
il pactum de non petendo serviva per il creditore che poteva rimettere il debito e si impegnava a
non pretendere l’adempimento della prestazione e avrebbe avuto l’efficacia propria dei nuda
pacta facendo estinguere le obbligazioni.
per transazione o trasactio si intende una specifica causa di negozi astratti e insieme un particolare
caso di applicazione del pactum de non petendo. essa presupponeva una lite in corso o anche
incertezza sui diritti e doveri reciproci delle parti in modo che per mettere fine o in prospettiva di
future liti si poteva pattuire a reciproche attribuzioni o rinunzie. per l’attuazione si diede alla parte
interessata l’actio praescriptis verbis: contratti innominati.
per novazione si intende la sostituzione di un’obbligazione con un'altra talché la prima si estingue
e al suo posto sorge la nuova. la novatio si verificava fondamentalmente per effetto di una
stipulatio che avendo ad oggetto la stessa prestazione, facesse espresso riferimento al rapporto
obbligatorio che con essa si voleva estinguere. un esempio può essere il seguente: Caio,
compratore, deve a Tizio, venditore, Xmila sesterzi in dipendenza di una compravendita. Tizio
interroga: prometti di darmi i Xmila sesterzi che mi devi in virtù della compravendita tra di noi
intercorsa? Caio risponde prometto. in questo modo si sarebbe estinto il debito di Caio nato con la
vendita e ne nasceva uno nuovo con lo stesso importo ma con la fonte nella stipulatio. (novazione
oggettiva). inoltre con l’estinzione della prima obbligazione si sarebbero anche estinte le garanzie
personali e reali. la novazione presupponeva due requisiti: aliquid novi: la nuova obbligazione
doveva presentare qualcosa di nuovo rispetto a quella antica e animus novandi: si richiedeva
l’intenzione delle parti a procedere con la novazione. Giustiniano mantenne l’animus novandi e in
relazione all’aliquid novi poteva essere oggettivo o soggettivo.
un caso di novazione oggettiva si realizzava con la stipulatio Aquiliana, proposta da Aquilio Gallo.
in unica stipulatio si deduceva il corrispettivo pecuniario di ogni debito o comunque ogni obbligo,
in modo che compiuta la stipulatio,il promittente fosse tenuto verso lo stipulante ad una sola
prestazione, quella pecuniaria.
per quanto riguarda l’elemento nuovo della novazione soggettiva, riguardava o la persona del
creditore o quella del debitore e agendo con una delegatio, che era una autorizzazione unilaterale
e informale. questa delegatio si chiamava delegatio promittendi e poteva essere attiva o passiva:
attiva se il creditore (delegante) invitava il proprio debitore (delegato) a promettere con stipulatio
ad un terzo (delegatario) quel che lo stesso debitore doveva al delegante. il terzo delegatario
avrebbe interrogato il delegato dicendo: prometti di dare a me quel che dovevi al delegante Tizio?
prometto; e così l'obbligazione si estingueva e se ne creava una nuova. invece in quella passiva il
delegante era il debitore, delegato un terzo e delegatario il creditore: su invito del debitore il terzo
prometteva al creditore ciò che allo stesso doveva il delegante. il creditore interrogava il delegato
dicendo: prometti di dare a me quel che a me deve il delegante Tizio?prometto. e così avveniva lo
stesso per l’obbligazione.
Alla litis contestatio si attribuisce l’effetto di estinguere l’obbligazione e poteva avere due effetti:
preclusivi o estintivi, che si riconobbero essere collegati tra di loro: il creditore non può tornare ad
agire e quindi il suo credito è estinto. Ma a questo punto perchè allora l giudice avrebbe potuto
condannare il convenuto riconosciuto come debitore?perchè effettivamente una volta estinta
l’obbligazione per effetto della litis contestatio, non per questo deve interdersi liberato perchè è
sempre tenuto in forza di un vincolo di natutìra processuale chiamato condemnari oportere che
sarebbe poi stata estinta grazie alla sentenza di condanna che avrebbe poi dato luogo alla obligatio
iudicati. È come se effettivamente per effetto della litis contestaio avesse luogo una novazione e
ad ulteriore novazione dava luogo alla sentenza di condanna. (costruzione dogmatica di scuola). Il
debitore avrebbe anche potuto adempiere il suo debito anche dopo la litis contestatio così da
essere assolto.
Quando si parla di compensazione si intende il fenomeno per il quale, se il creditore è anche
debitore del proprio debito, crediti e debiti reciproci si estinguono nella misura in cui concorrono
in modo tale che ad esempio Tizio, creditore di Caio per 100, gli deve a sua volta 100, si estinguono
le due obbligazioni, ma se Tizio creditore di Caio per 100, è debitore di 50 verso lo stesso Caio, si
estingue il credito di Caio e sussiste quello di Tizio per differenza di 50. Il fenomeno della
compensazione di fatto è sconosciuto al diritto romano, ma è dall’età repubblicana che si fece
rientrare tra i poteri del giudice iudicia bonae fidei, la facoltà di tener conto dei controcrediti del
convenuto così da procedere alla compensazione giudiziale e condannarlo all’eventuale
pagamento della differenza. Affinchè il giudice del giudizia di buona fede potesse procedere a
compensazione si richiedeva che i due crediti dipendessero o dalla stessa fonte oppure dalllo
stesso rapporto; ma non occorreva che i crediti fossero omogenei perchè essendo lacondanna
sempre espressa in denaro, tutti i crediti venivano ricondotti allo stesso comune denominatore
pecuniario. Un’altra deroga riguardò invece gli argentarii: banchieri che disponevano di sicuri
strumenti di riscontro contabile e ai quali si impose l’onere di agire cpntro di essi cum
compensazione e avrebbe dovuto calcolare il saldo percui restavano creditori così da mettere
all’interno dell’intentio il saldo col rischio di perdere la lite. Anche in questo caso il credito si
sarebbe estinto in forza della sentenza del giudice, però a differenza dei iudicia bonae fidei i due
crediti dovevano essere omogenei e quindi avere ad oggetto cose fungibili. Anche giudiziale era il
tipo di compensazione che aveva luogo nel caso del bonorum emptor cui si fece obbligo di agire
cum deductione contro i debitori del fallito de costoro non fossero stati a loro volta creditori dello
stesso per ragione prettamente di equità.
Nel diritto giustinianeo il ricorso alla compensazione si generalizzò.
Con l’espressione di concursus causarum si fa comunemente riferimento all’ipotesi del creditore di
una cosa determinata: species, il quale, dopo che l’obbligazione è sorta, acquista la stessa cosa ad
altro titolo per altra via. E la conseguenza era dapprima l’estinzione dell’obbligazione in ogni caso
ipso iure. Doveva trattarsi i un concursus causarum lucrativarum: concorso di cause lucrative; e ad
esempio se Tizio, legatario èer damnationem di una certa res, acquistava da un terzo la stessa cosa
per donazione: lobbligazione da legato si estingueva: perchè le due causae erano lucrative.
L’obbligazione invece non si estingueva e l’erede continuava a essere tenuto al pagamento del
corrispettivo pecuniario: se Tizio legatario per damnationem di una certa res, l’acquistava ad
esempio perchè la comprava: le due causae in questo caso erano diverse: la prima era lucrativa
(legato), la seconda era onerosa (compravendita).
Le obbligazioni si estinguevano anche per altre cause ancora, ovvero: per confusione quando si
riunivano nella stessa persona le figure del creditore e del debitore, per impossibilità
sopravvenuta della prestazione non imputabile al debitore, in deroga al principio che crediti e
debiti si trasmettevno agli eredi e l’obbligazione si estingueva per morte di una parte, ancora per i
contratti consensuali finchè non ne avesse avuto inizio l’esecuzione e si scioglievano per reciproco
dissenso,oppure anche con l’adrogatio e con la conventio in manum di donne sui iuris che si
estinguevano iure civili.
A Roma non era riconosciuta la possibilità giuridica si procedere a cessione di creditie
trasferimento di debiti in modo che uesti passassero inalterati da un soggetto all’altro. Argomento
questo che venne poi preso in considerazione in seguito nell’età preclassica. Per quanto riguarda
la cessione dei crediti con la novazione: una novazione soggettiva nella quale la persona che
cedeva il proprio credito assumeva il suo ruolo di delegante e la persona alla quale il credito era
ceduto delegatario. Così cambiava la persona del creditore ma non aveva davvero luogo una vera
e propria cessione perchè il cessionario non subentrava nella stessa identica posizione del cedente
: insieme con la prima obbligazione si estinguevano infatti le relative garanzie e cessava il corso di
eventuali interessi, ma l’espediente della cessione poteva di fatto non essere praticabile perchè il
debitore avrebbe potuto non essere disponibile. Un altro espediente poteva essere che: il cedente
avrebbe nominato cognitor o procurator ad litem il cessionario, che avrebbe potuto così agire in
giudizio contro il debitore con la stessa azione della quale era titolare il cedente trattenendo
quanto ricavato. In questo modo però il cessionario sarebbe stato garantito solo a partire dal
momento della litis contestatio e prima di allora il debitore avrebbe potuto adempiere
direttamente al cedente con effetto liberatorio.
Espedenti contrari e simmerici a quelli della cessione dei crediti, sono quelli impiegati per il
trasferimento di debiti: su invito del debitore il creditore stipulava e il terzo prometteva quanto
dovuto dal debitore, oppure il debitore nominava il terzo cognitor o procurator ad litem perchè
sostenesse con ruolo di convenuto la lite con il creditore.
Si parla di obbligaizoni parziarie quando si parla delle obbligazioni con pluralità di creditori o
debitori in cui ogni creditore abbia il diritto di pretendere o ciascun debitore il dovere di prestare
una parte soltanto dell’oggetto della prestazione. Questa si ripartisce tra più creditori o debitori in
parti uguali o diseguali a seconda delle situazioni ognuna con una propria prestazione. Come ad
esempio il caso nel diritto romano dell’eredità.
Alle obbligazioni parziarie si contrappongono quelle solidali, obbligazioni in cui, avendo più
creditori diritto o essendo più debitori tenuti alla stessa prestazione, ciascun creditore può esigere
o ciascun debitore deve adempiere l’intero. Possono essere distinte in solidali attive: con pluralità
di creditori o solidali passiva con pluralità di debitori. Inoltre si possono anche distinguere le
obbligaizoni solidali cumulative, quelle in cui la prestazione era dovuta tante volte quati erano i
debitori o i creditori, o elettive quelle in cui la prestazione era dovuta una volta soltanto sicchè con
l’adempimentonei confronti di un creditore o da parte di un debitore l’obbligazione si estingueva
per tutti.
Le obbligazioni solidali cumulative ricorrevano in merito ad esempio di delicta oppure di legati per
damnationem. Per gli illeciti sanzionati da azioni penali, la regola era quella della solidarietà
cumulativa passiva se più erano gli autori dell’illecito, e tutti erano tenuti a pagare l’intera pena
senza effetto liberatorio per gli altri.
Si parla di solidarietà elettiva con riferimento alla scelta: uno solo dei creditori esigeva per tutti
l’intera prestazione o il debitore adempiva per tutti gli altri. Una sua possibile fonte poteva essere
la stipulatio con più stipulanti e un promittente o viceversa. Poteva anche derivare da altri
contratti e in questo caso dipendeva dalla volontà dei contraenti stabilire ogni volta se il regime
giuridico fosse quello delle obbligazioni parziarie o delle obbligazioni solidali.
L’obbligazione solidale elettiva si sarebbe estinta poi per tutti con l’adempimento della
prestazione, oppure anche per acceptilatio, novaizone, impssiblità sopravvenuta della prestazione
non imputabile al debitore; confusione e capitis deminutio avrebbero estinto l’obbligazione solo
nei confronti di quel debitore o creditore cui quei fatti estintivi si riferivano.
Anche la litis contestatio poteva estinguere le obbligazioni, ma per quanto riguarda i iudicia bonae
fidei si ritenne che finchè il creditore non stato soddisfatto nella solidarietà passiva, l’obbligazione
sussistesse a carico dei condebitori non ancora convenuti in giudizio; e i iudicia stricta, in cui la litis
contestatio dell’azione promossa da un concreditore o contro un condebitore estingueva
l’obbligazione nei confronti di tutti, talchè l’azione successiva sarebbe stata preclusa.
Il diritto romanonon conobbe alcuna specifica azione di rivalsa o regresso: ovvero contro il
concreditore , il quale aveva esatto la prestazione, gli altri concreditori non aveva alcuna specifica
azione di rivalsa per pretendere che il ricavato venisse diviso fra tutti, e il condebitore il quale
avesse compiuto la prestazione non aveva alcuna specifica azione di regresso contro gli altri
coobbligati per il rimborso di parte di quanto prestato. Solitamente allo stesso fine giovavano le
azioni che sanzionavano il loro rapporto interno e il rapporto interno tra i concreditori poteva
essere tale che la prestazione spettasse soltanto ad uno di essi.
Le garanzie reali delle obbligaizoni attribuiscono al creditore il diritto di rivalersi su una cosa altrui
in caso di inadempimento. Non così le garanzie personali: queste si realizzano con l’intervento di
un terzo: il garante, che assume di adempiere la stessa obbligazione del debitore principale . il
ricorso delle garanzie personali a Roma, fu molto più diffuso delle garanzie reali.
La più antica garanzia personale è la sponsio che è il prototipo della stpulatio che si compiva verbis
e era idonea a garantire soltanto le obbligazioni contratte verbis. Doveva essere prestata subito
dopo la promissiodel debitore principale, intervenendo lo sponsor o gli sponsores quali
adpromissores accanto al promissor. La sponsio era riservata ai soli cittadini romani e
l’obbligazione si sarebbe estinta con la morte dello sponsor. Più recente rispetto alla sponsio era la
fidepromissio, riconosciuta in età preclassica: era una vera e propria stipulatio con un regime
giuridico uguale a quello della sponsio, con la differenza di essere fruibile sia dai cives che dai
peregrini. Successivamente sul finire della Repubblica, fu riconosciuta la fideiussione: stipulatio
accessibile ai cives e non cives. Un tratto comune alle tre stipulazioni di garanzia era che con esse
si costituiva tra debitore principale e garanti da una parte e creditore dall’altra, il regime della
solidarietà elettiva passiva. Però la posizione del garante era per certi versi diversa rispetto a
quella del debitore principale perchè un carattere proprio delle stipulazioni di garanzia era
l’accessorietà: presupponevano l’esistenza dell’obbligaizone principale. Erano in questo modo
nulle le stipulazioni prestate per importi superiori a quelli del debito principale e necessariamente
l’estinzione dell’obbligaizone principale comportava anche l’estinzione delle obbligazioni di
garanzia. (ma non era vero il contrario)
Con gli inizi dell’età postclassica, la sponsio e la fidepromissio scomparvero e in età giustinianea la
riforma legislativa che negava alla litis contestatio l’effetto di estinguere l’obbligazione per tutti i
condebitori solidali riguardò anche i rapporti tra creditore, debitore principale e fideiussori.

L’idea di impiegare il mandato in funzione di garanzia delle obbligazioni da mutuo affiora


nell’ultima età repubblicana e si realizzava con il garante che assumeva il ruolo di mandante e
dava incarico al futuro creditore che assumeva il ruolo di mandatario di dare a mutuo una certa
quantità di denaro ad un terzo. Si contraeva in tal modouì un mandato di credito. Poi se erano più i
mandanti di uno stesso credito, l’esercizio dell’azione contro uno non avrebbe impedito al
creditore, di ripetere l’azione contro altri.
Si provvide a tutelare le aspettative degli stessi creditori contro il pericolo che il patrimonio del
debitore si riducesse oltre misurafino a rivelarsi insufficiente. A tutela di questo interessa una
legge sancì la nullità della manumissione dei servi fatta dal debitore in frode ai creditori. Ancora
prima dei rimedi di carattere generale in questo campo, il pretore aveva introdotto la denegatio
actionis che riguardava le obbligazioni che il debitore insolvente avesse assunto a proripo carico
con il proposito di accrescere la sua situazione di insolvibilità; la in integrum restitutio ob fraudem
con la quale gli atti del debitore che avevano ridotto il patrimoniovenivano revocati e poi un
interdictum fraudatorium che si dava al singolo creditore e riguardava gli atti di riduzione
dell’attivo patrimoniale che il debitore avesse fatto in frode ai creditori er era rivolto contro il terzo
in favore del quale tali atti erano stati compiuti. Si trattava di un intredictum restitutorio che
giovava anche agli altri creditori che avevano partecipato lla procedura concorsuale. I requisiti
comuni erano l’eventus damni: che aveva carattere oggettivoed era l’atto del debitore che doveva
essere tale da aver recata effettivo pregiudizio ai creditori, avendo ridotto il patrimonio del
debitore in misura tale che esso no nera più sufficiente per soddisfare i creditori. Poi altri requisiti
erano il consilium fraudis e la scintia fraudis che erano requisiti soggettivi: il primo la
determinazione, il secondo la conoscienza.

LE DONAZIONI
La donazione inizialmente non era un negozio autonomo, ma una possibile causa di negozi giuridici
astratti: soprattutto mancipatio, in iure cessio, traditio, stipulatio e acceptilatio i quali potevano
anche essere compiuti donandi causa in modo che una parte: il donante, effettuasse
un’attribuzione patrimoniale in favore dell’altra parte: il donatario, senza un corrispettivo e anche
a titolo gratuito. Pertanto la donazione aveva effetti diversi a seconda del negozio che si
impiegava: aveva effetti reali quando il donante trasferiva la proprietà oppure costituitiva o
estingueva diritti reali di godimento; effettti obbligatori quando con la stipukatio il donante
prometteva una prestazione; effetti estintivi di un obbligazione quando il donante faceva
acceptilatiodel proprio credito o in altro modo rimetteva al debitore il suo debito. Si può fare una
distinzione per quanto riguarda le donazioni, in merito alle donazioni in dando: quele reali,
donazioni in obligando: quelle obbligatorie, donazioni in liberando: quelle consistenti nella
remissione di un debito.
Ci fu una lex Cincia che proibì le donazioni sopra un certo limite. Quale fosse in merito il limite non
sappiamo oggi, ma era relativamente basso; e dal divieto furono esclusi i parenti entro il sesto
grado e taluni affini, qqualificati dalla legge quali personae exceptae.cla lex Cincia era una lex
imperfecta che vietava le donazioni tra estranei ma non stabiliva l’invalidità di quelle effettuate
contro il divieto e neanche pevedeva sanzioni contro i trasgessori. Però il pretore provvide
proponendo lexceptio legis Cinciae, che era un mezzo di difesa che sarebe giovato al donante solo
se alla donazione il donante no navesse dato esecuzione. Un esempio della donazione in dando è il
caso in cui Tizio mancipa a Caio a titolo di doonazione un proprio immobile ma senza trasferirgli il
possesso. Il donatario Caio in forza della mancipatiodiventa proprietario dell’immobile.non
avendone acquistato anche il possesso, successivamente rivendica l’immobile presso Tizio che ne
era rimasto possessore: e alla rei vindicatio di Caio il donante Tizio, ricorrendone i presupposti
potrà opporre con successo L’exceptio legis Cinciae.un altro esempio, ma questa volta della
donazione in obligando è il caso in cui Tizio promette mediante stipulatio a Caio sempre a titolo di
donazione una certa prestazione; poi a Caio che agisca dopo contro Tizio per l’adempimento Tizio
potrà opporre la stessa exceptio che valeva per l’esempio precedentemente. Con la morte del
donante la donazione no navrebbe più potuto essere revocata, ma non sempre: le donazioni
revocabili si dissero imperfectae, le altre perfectae.
Con la costituzione di Costantino , la donazione divenne un tipico negozio causale e fu pertanto
qualificata come contractus e ad essa si riconobbe l’effetto di trasferire anche la proprietà e si
riconobbero effetti reali. Con riguardo agli immobili furono prescritte talune formalità:la forma
scritta, la consegna della cosa con presenza dei vicini, la registrazione presso un ufficio pubblico;
cosicchè la donazione venne qualificata perfecta e come tale non più revocabile, solo con
l’adempimento di tali formalità. Col tempo poi la lex Cincia ha perdut o significato e Giustiniano
tornò ad esigere la traditio per il trasferimento della prorpietà e al contempo diede efficacia alle
donazioni obbligatorie anche se compiute mediante semplice patto.
Il principio che vietava le donaizoni tra moglie e marito, comportava la nullità dell’atto compiuto
contro il divieto talchè la mancipatio che il marito avesse fatto di cosa propria alla moglie
donationis causa o viceversa la moglie al marito, non avrebbe dato luogo al trasferimento di
proprietà e il coniuge donante sarebbe rimasto proprietario. Dal divieto erano però esclusi i doni
di modico valore se in occasioni di particolari ricorrenze e anche il consumo e l’utilizzazione dei
beni dell’uso quotidiano.
Una specie particolare di donazione era la donatio mortis causa: che ricorreva quando taluno
credendo di essere in imminescente pericolo di vita o anche solo ritenendo di morire prima del
donatario, donava una cosa propria trasferendone al donatario la proprietà. L’idea del donante di
fatto era stata quella di preferire stesso al donatario e il donatario ai suoi eredi.

LE SUCCESSIONI MORTIS CAUSA


L’espressione successio in locum evoca l’idea di una persona che prende il posto di un’altra,
cosicchè questa espressione insieme alle altre successio in ius, successio e al nostro termine
successione , esprime nel linguaggio giuridico l’idea del passaggio di posizioni giuridiche soggettive
da un soggetto a un altro ferma restando la loro identità. Qeusto fenomeno poteva riguardare sia
posizioni giuridiche attive: diritti soggettivi, che posizioni giuridiche passive: doveri giuridici:
fondamentalmente crediti, debiti e proprietà. Chi trasmette si chiama dante casua e la persona
alla quale si trasmette è il successore o anche avente causa che acquista a titolo derivativo. La
successione poteva essere universale: in universum ius: quando il successore subentra per l’intero
o per una quota in un complesso unitariamnte considerato e no nnecessariamente definito nei
suoi elementi costitutivi, di posizioni giuridiche soggettive trasmissibili che facevano capo ad altri;
o a titolo particolare: in singular res: se il successore subentra per l’intero o per una quota al
posto di un’altra persona in singole determinate posizioni giuridiche soggettive. La succesione può
avere luogo o inter vivos o mortis causa ( in dipendenza della morte del titolare de dirittti e doveri
che passano al successore). Oggi la sola successione universale riconosciuta è quella mortis causa,
ma nel diritto romano erano anche alcune inter vivos : in favore del pater familias in dipendenza di
adrogatio e di quella in favore dello stesso pater familias in dipendenza della conventio in manum
di donna sui iuris. Avevano anche luogo successioni iure praetorio: quella del bonorum emptor in
dipendenza della bonorum venditio.
Nel diritto romano i successori mortis causa a titolo universale erano gli eredi (heredes), e il
complesso delle situazioni giuridiche soggettive che passavano agli eredi: hereditas. L’acquisto
dell’hereditas presupponeva la chiamata, anche detta delazione ereditaria e spesso il momento
era lo stesso della morte dell’ereditando. La donazione poteva essere testamentaria oppure
legittima: la prima in forza di testament valido ed efficace: ex testamento, la seconda direttamente
in forza di legge: ex lege, anche detta nelle fonti romane ab intestato (successione intestata). Una
volta deferita l’eredità, il chiamato sarebbe subito diventat heres automaticamente e
necessariamente per il fatto stesso dell’avvenuta delazione e altre volte in seguito ad accettazione:
da qui la distinzione tra heres necessarii, e heres voluntarii. Con l’accettazione gli eredi volontari, e
automaticamente pet effetto della delazione gli eredi necessari, acquistavano la qualità di eredi
che non si sarebbe più persa una volta acquistata (erede una volta per sempre). Inoltre non
potevano coesistere nei confronti di un ereditando successori testamentari e successori ab
intestato. Un altro principio del ius civile questa volta riguardava gli heres voluntarii ed era quella
dellìintrasmissibilità della delazione ereditaria: se il chiamato all’eredità moriva prima di aver
accettato, i loro eredi non avrebbero potuto a loro volta accettare e in tal modo acquistare
l’eredità. Questa regola subì poi in età classica e ancora in età postclassica dei temperamenti per
ragioni di equità e infine Giustiniano indrodusse la trasmissio Iustinianea riconoscendo agli eredi
del chiamato di acquistare in vece sua l’eredità, entro un anno che decorreva dal giorno in cui il
dante causa aveva avuto notizia della delazione o dal giorno della delazione se il dante causa non
ne aveva avuta notizia. Cosi la delazione ereditaria era intrasmissibile mortis causa, e trasmissibile
con atti innter vivos.
Era il principio generale che ereditando ed heredes, trasmettendo l’uno e acquistando l’altro gli
diritti soggettivi e doveri giuridici, non potessero non essere in possesso di capacità giuridica.
Pertanto è e+necessario sottolienare che sia l’eresitando che l’ereditario dovevano essere persone
libere, cittadini romani e sui iuris. Alla successione ereditaria erano chiamati anche nascituri:
postumi, purchè concepiti già al tempo della morte dell’ereditando. Nella successione ab intestao,
la capacità giuridica in capo all’ereditando doveva sussistere al tempo eella morte, la capacità
giuridica in capo agli heredes al tempo della delazione , e per gli eredi volontari anche al tempo
dell’accettazione. Con la testamenti factio si parlanel diritto romano di successione testamentaria
e si indicano con questo termine sia la capacità di fare testamento(attiva) sia la capacità di
acquistare quali heredes in forza di testamento(passiva). Per la testamenti factio attiva si
richiedeva sia la capacità giuridice che la capacità ddi agire, per quella passiva invece si richiedeva
la capacità giuridica e e al tempo della perfezione del testamento e al tempo della chiamata
all’eredità. Iper quest’ultimo caso si parlava al riuardo dei filii familias soggetti alla patria
potestasdel testatore che i servi manomessi nel testamento. Gli uni e gli altri avrebbero potuto
essere validamente istituiti eredi che sarebbero poi divenuti eredi con la morte dell’ereditando.
Nu,la vietava che si istituissero eredi filii familias e schivi altrui: solo che questi con l’accettazione
non avrebbero acquistato a se stessi ma all’avente potestà: pater familias o dominus ed essi
avrebbero compiuto valido atto di accettazione solo di seguito ad espresso autoritario invito
dell’avente potestà poichè di fatto era questo che ne diventava l’erede.
La lex Iulia de maritandis ordinibus e la lex Poppeafatte approvare da Augusto parlarono di
capacitas con riguardo particolare all’incapacità di acquistare mortis causa dalle stesse leggi
stabilite con cui si vollero colpire caelibes e orbi: in merito ai beni non acquistati da caelibes e orbi
fu disposto un regime proprio, ma è impossibile distinguere oggi quali fossero le disposizioni in
merito alle due leggi, infatti le fonti ne parlano solitamente come se si trattasse di una sola legge:
lex Iulia et Papia Poppea. Ebbene i caelibes erano i non coniugati in età matrimoniale e i orbi erano
invece i coniugati senza figli; nel testamento si negò la capacità ad acquistare totale per i celibi e
per metà pre quanto riguarda gli orbi. La capacitas era richiesta solo al tempo della morte del
testatore, ma i celibi avrebbero potuto conseguirla nei cento giorni successivi. Quanto non
acquistato dai non capaci si accresceva in favore dei coeredi e se questi mancavano, diveniva
caducum ed era devoluto in primo luogo ai coeredi con figli e poi ai legatari con figli. L’imperatore
Caracalla volse le leggi augustee a fini di incremento del patrimonio pubblico abolendo pertanto i
privilegi di coeredi e legatari con figli e stabilì che, in assenza di coeredi parenti in linea retta del
testatore, la quota vacante: caducum fosse devolut al fisco.
Ci fu anche la possibilità di sanzionare con l’indegnità il comportamento di quanti via via si
ritennero indegni a subentrare al defunto iure hereditario e non furno ritenuti incapaci ad
acquistare iure hereditario ma quel che a questo titolo acquistavano, veniva rivendicato extra
ordinem. Gli indegni una volta divenuti heredes restavano tali anche dopo l’azione dell’erario o del
fisco, solo che il pretore avrebbe denegato le azioni ereditarie contro e a favore di essi. Furono
ritenuti indegni: l’uccisore dell’ereditando, l’erede che contestasse giudiziariamente lo status
personale dell’ereditando, chi avesse impedito all’ereditando di testare o ne impugnasse il
testamento come inofficioso o falso, i rei di adutreio o di stupro.
Gli eredi potevano essere necessari o volontari sia i sui sia gli schiavi manomessi nel testamento
dal dominus e nello stesso testamento istituiti eredi. Si dissero necessarii percè diventavano
necessariamente e automaticamente eredi con la morte dell’ereditando senza il bisogno
dell’accettazione ma anche senza la possibilità di rinunziare. I sui erano i familiari immediatamente
soggetti alla potestas dell’ereditando al tempo della sua morte e gli stessi familiari che avrebbero
acquistato lo status di sui iuris. Ad avere hered sui avrebbe potuto essere esclusivamente un
ereditando maschio, ma dall’ultima età repubblicana il pretore concesse ai sui heredes il
beneficium abstinendi in modo che loro potessero, pur conservando formalmente la qualifica di
eredi, evitare la proscriptio e avrebbero avuto luogo a nome del defunto rendendone ignominiosa
la memoria. Però tante volte per il timore di ciò che lo stesso ereditando manometeva nel proprio
testamento un proprio schiavo istituendolo contemporaneamente erede; la bonorum venditio
sarebbe anche stata a suo nome.
I sui e i servi istituiti eredi dal proprio padrone erano eredi necessari; invece gli altri erano eredi
volontari; che furono anche detti heredes extranei. Essi non sarebbero divenuti eredi
automaticamente ma di seguit all’accettazione ; prima dell’accettazione pertanto l’eredità era
considerata giacente.
L’accettazione poteva avere luogo o mediante cretio oppure per pro herede gestio.
La cretio era un atto formale che faceva parte degli actus legitimi e quindi richiedeva
necessariamente la pronunzia di parole determinate: certa verba. Alla cretio sidoveva fare
necessariamente ricorso nella successione testamentaria, quando il testatore , nell’istituire un
erde, subordinava l’istituzione alla condizione che l’istituto accettasse mediante cretio ed entro un
certo termine. La cretio non venne poi più utilizzata in età postclassica e scomparve del tutto.
La pro herede gestio era l’accettazione informale e tacita che consisteva in un comportamento che
denunciava senza la possibilità di equivoci la volontà di accettare atti di gestione del patrimonio
del defunto. In età postclassica, scomparsa la cretio, la pro herede gestio rimase l’unico modo di
accettazione dell’eredità ed essa doveva essere compiuta personalmente e comunque dopo che
avesse avuto luogo la delazione.
Il chiamato all’eredità avrebbe anche potuto rinunziare ad essa come abbiamo detto e per questo
non v’era alcuna prescrizione di forma
Con la successione ereditaria il patrimonio del de cuius si fondeva con quello personale dell’erede:
da qui l’eventualià, quando l’hereditas era damnosa, che gli eredi volontari si sottrassero
all’adizione. Per questo motivo i classici escogitarono alcuni espedienti, tra cui: il pactus ut minus
solvatur: prima di accettare i chiamati all’eredità convenivano con i creditori ereditari che una
volta divenuti eredi, avrebbero pagato loro solo una percentuale dei debiti del defunto, talchè
fossero stati invece convenuti di un importo maggiore, avrebbero opposto l’actio pacti conventi.
L’altro espediente fu l’aditio mandato creditorum con cui i chiamati avrebbero sì adito l’eredità,
ma dietro mandato dei credutori ereditari: se fossero stati costretti a pagre oltre l’attivo ereditarui
avrebbero potuto rivalersi contro i creditori mandanti con l’actio mandati contraria. Giustiniano
aggiunse poi anche il beneficium inventarii: se ne giovava il chiamato all’eredità che non avendo
anche accettato, entro un mese dalla notizia della delazione , avesse iniziato la descrizone esatta
dei cespiti ereditari: appunto l’inventario.in questo modo avrebbe pagato i debiti del defunto sino
alla concorrenza dell’attivo ereditario. Era anche possibile che fosse l’erede volontario ad essere
oberato di debiti e il suo patrimonio personale insufficiente a soddisfarli. Ci fu poi un decretum di
separatio bonorum con la conseguenza che la bonorum venditio per i debiti dell’erede avrebbe
riguardato i soli beni personali.
L’oggetto della successione universale mortis causa era l’hereditas qualificata quale universitas
perchè concepita in un complesso unitariamente considerato di corpore, ovvero beni di proprietà,
e iura, ovvero i crediti e i debiti; e si trattava di un complesso unitario come tale possibile oggetto
di bonorum venditio, di specifica azione giudiziaria, un dato reale e insime costituzione giuridca e
una universitas che poteva subire sia incrementi che perdite e tuttavia anche restare uguale a se
stessa. Si trattava poi anche di un complesso unitario che prima che gli eredivolontari compissero
valido atto di accettazione era suscettibile di propria autonoma considerazione. I Romani
concepirono l’hereditas come ius : ius successionis o ius hereditas, avente ad oggetto la stessa
universitas classificato tra le res incorporales. L’hereditas comprendeva le situazioni soggettive
trasmissibili che facevano capo al defunto al tempo della sua morte; cosicchè non passavano agli
eredi invece usufrutto e diritti affini che si sarebbero estinti con la morte del titolare, come anche
ad esempio le potestà familiari. Passava invece per converso il mancipium sui filii familias altrui, la
potestà sui servi che si trasmetteva anche insieme al dominium su di essi. Il possesso pensato
come stato di fatto si acquista in ogni caso non per il fatto in sè della successione ereditaria ma in
dipendenza di una presa di possesso, ovvero di un atto ch si realizzasse concretamente corpus e
animus. Ma sin da età risalente gli heredes necessarii furono trattati automaticamente quali
possessores delle cose già in possesso del de cuius e gli eredi volontari vennero considerati i
continuatori del possesso dell’ereditando. All’ereditando capitava anche talvolta che gli facessero
capo situazioni che si trasmettevano ai più stretti familiari: sacra familiaria (riti inerenti al culto
delle divinità domestiche, al ius sepulcri( sepolcro), al patronato.
L’azione specifica per la tutela dell’hereditas era la vindicatio hereditas: azione conosciuta come
hereditas petitio. Si trattava di un rito proprio della legis actio sacramenti in rem come la rivendica
era affidata per quanto riguarda il giudizio ai centemvri. Per quanto riguarda la legittimazione
passiva si parla del principio per il quale l’azione compete contro il possessore di cose ereditarie
purchè questo sia pro herede o pro possessore: il primo era chi assumeva di essere erede l’altro
chi non adduceva alcun titolo o causa del proprio possesso e rispondeva: posseggo perchè
posseggo. Invece se il convenuto invocava a giustificazione del suo possesso uno specifico titolo
particolare ecco che contro di lui l’ettore avrebbe potuto procedere con la rivendica e non con
l’hereditas petitio. Con la petizione di eredità, il convenuto doveva restituire i frutti maturati doo la
litis contestaio e rispondere del suo comportamento doloso e colposo successivo all’istituzione del
giudizio e anche restituire i frutti precedenti alla lite e restituire le res acquistate con il denaro
ereditario.
Il consortium ercto non cito si costituiva tra più coeredi sui e si trattava della comunione di eredità
che si stabiliva tra più eredi una volta scomparso il consortium poi tra più extranei. Il regime
giuridico era quello simile alla comunione di proprietà per cui ogni erede sarebbe stato titolare di
una quota ideale con diritti e doveri analoghi a quelli del comproprietario sul bene comune; se ne
parlò in merito a ius adcrescendi o diritto di accrescimento per cui uno o più contitolari in
detrminate circostanzr acquistavano automaticamente la quota di un altro contitolare; e ancche la
divisione da cui erano esclusi crediti e debiti ereditari perchè si sarebbero imputati direttamente ai
coeredi, a ciascuno in proporzione della quota ad ognuno spettante. Le obbligazioni attive e
passive se divisibil il regime delle obbligazioni parziarie, se indivisibili, erano trattate come le
obbliagazioni solidali elettive.
L’azione prorpia per la divisione dell’eredità era l’actio familiae erciscundae con procedura simile
a quella dell’actio communi dividundo in cui il giudice: arbiter procedeva alla distribuzione dei
cespiti ereditari in più lotti tanti quante le quote ereditarie e poi mediante adiudicatio li
aggiudicava ai partecipantialla divisione con effetti costitutivi di proprietà se del caso di altri diritti
reali. Al regolamento di eventuali conti tra i coeredi il giudice provvedeva mediante
condemnationes e da qui la classificazione della comunione ereditaria tra le possibili fonti di
obbligazioni. Il compiti definito officium dell’arbiter dell’actio familiae ercisscundae era assai
complesso: poichè egli avrebbe dovuto tenere in considerazione numerose situazioni: il modus
del testatore messo a carico di taluno degli eredi, dei prelievi spettanti ai singoli coeredi sull’asse
ereditario diviso e della certa res.
Daòò’ultima età repubblicana a Roma si sviluppò un sistema di successione universale mprtis
causa pretorio mediante la concessione della bonorum possessio ora ad agevolare l’applicazione
ora a integrarlo ora a correggerlo.
Sembra che le origini della bonorum possessio siano nel dicere vindicias con cui il magistrato nella
legis actio sacramenti in res assegnava ad una delle parti il possesso provvisorio della cosa in
contestazione e quindi nel caso della conroversia ereditaria assegnava il possesso interinale dei
beni ereditari. Poi fu da età preclassica che il pretore continuò a provvedere all’assegnazione in via
provvisoria del possesso, soltanto che lo faceva quando sorgeva questione quale delle parti fosse
in effetti nel possesso dell’eredità e dovesse quindi, quale possessore, sostenere la lite nel più
vantaggioso ruolo di convenuto. Il pretore quindi interveniva con l’assegnazione del bonorum
possessio in favore della persona che gli appariva più probabile erede o quella che in ogni caso
dava maggiori garanzie per la restituzione in caso di soccombenza. Ma da tarda età repubblicana il
magistrat usò concedere la bonorum possessio non tanto in favore del più probbie erede ma in
favore perlopiù della persona che ragioni di opportunità suggerivano che venisse alla successione
del de cuius. Poi la bonorum possessio andò perdendo la sua originaria valenza solo processuale e
divenne un istituto del diritto sostanziale.
La qualifica di bonorum possessor:successore universale secondo ius praetorio, rimase distinta
comunque da quella di erede: successore uiversale secondo lo ius civile, come il pretorio non
poteva annullare posizioni giuridiche soggettive acquistate e riconosciute iure civili ma solo
impedirne nei fatti la realizzazione, e non poteva nemmeno costituirne posizioni giuridiche iure
civili di per sè rilevanti, non avrebbe pertanto potuto creare heredes. Però ai bonorum possessore
egli assicurava posizioni giuridiche di vantaggio e di svantaggio del tutto analoghe a quelle degli
eredi civili.
Per quanto riguarda la tutela del possesso del complesso ereditario al bonorum possessor in luogo
dell’hereditatis petitio si diede l’interdictum quorum bonorum. Il successore poi non avrebbe
acquistato il cominium ex iure Quiritium dei corpora hereditaria e degli stessi corpora avrebbe
anche tenuto la possessioad usucapionem e li avrebbe tenuti in bonis e ne sarebbe divenuto
proprietario civile col decorso del tempo; se avesse perduto il possesso inoltre avrebbe potuto
recuperarlo con un’azione analoga e ficticia.
La bonorum possessio era concessa anche ai soggetti che erano al contempo eredi iure civili e i
quali avrebbero avuto convenienza a conseguire la doppia qualifica di heredes e bonorum
possessoresperchè in quetso modo si sarebbero avvalsi all’occorrenza anche di rimedi giudiziari di
per sè spettanti solo ai bonorum possessores. Ma era anche possibile che la bonorum possessio si
desse anche ai soggetti i quali non erano heredes: a volte in assenza di eredi civili o per preferenza
di essi, ora per colmare lacune del ius civile ora per correggerlo. Si parlò anche di bonorum
possessio sine re o cum re, in caso di conflitto ad esempio e prevaleva il bonorum possessor
all’erede civile e sine re il caso contrario invece.
Anche l’oggetto della bonorum possessio era universitas e un ius e pertanto corripondeva sempre
ad un complesso unitario di posizioni giuridiche soggettive attive e passive corrispondenti
all’hereditas.
Anche per diritto pretorio la delazione era testamentaria e ab intestato: alla prima corrispondeva
la bonorum possessio secundum tabulas (secondo il testamento) e quella contra tabulas( contro il
testamento). A norma di un’apposita clausola edittale però, la chiamata o la delazione dei
successibili aveva luogo, nella bonorum possessio secondo dei criteri diversi ripsetto a quelli del
ius civile. I successibili erano chiamati per categorie ma per i bonorum possessores la delazione
aveva una durata limitata nel tempo e agli appartenenti a ciascuna categoria era assegnato un
termine. Il tempo per l’istanza di bonorum possessio era di un anno per i figli e i genitori
dell’ereditando e di cento giorni per gli altri chiamati. Esso discorreva dalla morte del de cuius per
gli appartenenti alla categoria chiamata per prima , per quanti venivano dopo, il termine
decorreva invece dalla scadenza del termine assegnato agli appartenenti alla categria
precedente.
Gli heredes erano chiamati necessarii o voluntarii: i chiamati alla successione pretoria erano tutti
volontari perchè alla bonorum possessio si era ammessi di seguito ad agnatio bonorum
possessionis e il procedimento relativo iniziava con un istanza chiamata petitio dell’interessato e si
concludeva con la concessione definita datio del pretore. Alla datio della bonorum possessio il
pretore provvedeva secondo le previsioni edittali.
Poi nell’età postclassica si continuò ancora a distinguere tra heredes e bonorum possessores
anche se giuridicamente le due figure furono quasi del tutto assimilate.
Per collazione o collatio si intendeva un istituto che nelle due specie della collatio bonorum e della
collatio dotis ebbe origine nell’ambito della bonorum possessio.
La collatio bonorum fu introdotta da pretore in realzione alla bonorum possessio ab intestato e
riguardava i chiamati che erano liberi e sia i sui sia i figli emancipati.
La collatio dotis era anch’essa di origine pretoria e riguardava però la figlia cui il padre avesse
costituito dote e alla quale pertanto, una volta sciolto il matrimonio, di norma sarebbero stati
restituiti i beni dotali di cui di norma si sarebbe avantaggiata la sola figlia.
Durante il Basso Impero, il regime classico della collatio subì del profondi mutamenti: l’onere della
collazione infatti finì per non presupporre più la bonorum possessio, se ne fece carico ai
discendenti vuoi in linea paterna e vuoi in linea materna , emancipati e non e fu comunque riferito
sia ai beni dotali sia a quelli che il successore avesse avuti in donazione dall’ereditando. Collatio
dotis e collatio bonorum perdettero poi le connotazioni classiche confluendo così in un unico
istituto: la collatio discendentium.
Dava luogo sostanzialmente a successione universale mortis causa anche il fedecommesso
universale.
In difetto di testamento valido ed efficace si apriva la successione ab intestato che, secondo la
regola, il momento della delazione ab intestato era lo stesso della morte dell’ereditando. Ma se,
nella successione civile, il testamento in sè valido non diveniva effeicace per mancata accettazione
degli eredi volontari, gli eredi ab intestato erano chiamati all’eredità dal momento in cui era
raggiunta la certezza che non sarebbero venuti alla successione gli eredi testamentari. In modo
analgo successe nella successione pretoria.
Alla successione universale ab intestao erano chiamati nell’ordine: i sui (persone libere che al
tempo della morte del de cuius erano assoggettate alla potestas o manus e che in conseguenza
della morte avrebbero cessato di essere alieni iuris e diventati sui iuris e vi rientravano anche i
postum sui cioè i non ancora nati), gli agnati( persone libere senza discendenti in linea maschile da
un capostipite comune di sesso maschile ed erano i non sui e pertanto solo parenti in linea
collaterale e maschile: in primo luogo fratelli e sorelle e anche madre cum manu e figli) e i gentiles(
eredi volontari, chiamati all’eredità in mancanza di agnati).
Ci fu una regola che stabilì che Il patrono succedeva al proprio liberto se questo moriva senza aver
fatto testamento e non avesse avuto sui heredes: nella successione ab intestato del proprio liberto
il patrone aveva lo stesso ruolo del che nella successione dei nati liberi aveva l’agnato di grado più
vicino. La stessa regola o precetto stabiliva allo stesso tempo che il padre era chiamato alla
successione civile del figlio emancipato quale parens manumissor.
Con il graduale indebolirsi della società romana durante il periodo arcaico, rigidamente
patriarcale, il sistema delle successioni ab intestato del ius civile apparve iniquo e lacunoso e
quindi a correggere queso sistema del ius civile ci fu il regime pretorio della bonorum possessio
sine tabulis al quale erano chiamati i liberi, i legitimi, i cognati e vir et uxor. La classe dei liberi era
cartterizzata dai sui, dai figli emancipati e dai figli dati in adozione ma già sui iuris al tempo della
morte dell’ereditando. Nella classe dei legitimi rientravano invece quelli successibili ad ab
intestato iure civili. I cognati comprendevano i parenti di sangue sia in linea maschile che in quella
femminile, non però oltre il sesto grado. E poi nella quarta classe rientravano invece
reciprocamente marito e moglie. In virtù dell’edictum successorium gli appartenenti ad una classe
erano chiamati non solo se mancavano successibili nella classe precedente ma anche se questi
esistevano e avevano fatto decorrere inutilmente i termini dell’agnatio della bonorum possessio:
in altri termini nella bonorum possessio sine tabulis erano ammesse successio graduum e
successio ordinum.
Due senatoconsulti furono molto importanti in epoca classica: Tertullianoche migliorò la
condizione della donna madre, e Orfiziano che migliorò la condizione in merito ai figli.
Poi durante l’età postclassica invece la legislazione imperiale intervenne ripetutamente in materia
e così pure Giustiniano. Gli agnati andarono perdendo quella condizione di privilegiati rispetto ai
cognati e il trattamento successorio in linea femminile andò via via assimilandosi a quello
maschile, andarono anche a scomparire le limitazioni per quanto riguarda la successione ab
intestato delle donne. Migliorarono anche le aspettative successorie per quanto riguarda la madre
rispetto ai figli e della vedova rispetto al marito. Giustiniano tolse poi anche definitivamente il
valore all’agnatio.
Quando nessun erede o bonurm possessor acquistava l’eredità, i creditori del defunto avevano via
libera per procedere ad esecuzione patrimoniale. Ci fu una lex Iulia che stabilì che l’eredità
vacante: bona vacantia andasse all’erario e poi al fisco successivamente sostituendo l’erario.
La chiamata all’eredità poteva avere luogo in forza di un testamento: un atto unilaterale mprtis
causa personalissimo che poteva essere revocabile sino all’ultimo istante di vita e con il quale si
disponeva delle proprie sostanze per il tmpo dopo la propria morte. Il testamento poteva
contenere più negozi: istituzioni di erede, legati, manumissioni... testamentum deriva
etimologicamente dal termine testes: testimoni e in effetti tra le formalità richieste c’era anche la
presenza dei testimoni.
La prima forma ricnosciuta di testamento fu quella del testamento calatis comitis: un atto formale
che si compiva oralmente davanti ai comitia curiata che si riunivano due volte l’anno. Poco più
recente è il testamento in procintu: fatto per esigenze militari ai quali si permise di testare con
dichiarazione solenne e formale dinanzi all’esercito romano in armi pronto alla battaglia. Questi
tipi di testamento caddero in desuetudine con l’età preclassica in favore della mancipatio familiae
e testamentum per aes et libram.
La mancipatio familiae era un negozio fiduciario con il quale il testatore avrebbe trasferito il
proprio patrimonio a persona di fiducia.
Il testamento per aes et libram riguardava l’età della prima giurisprudenza laica e si trattava
sempre di una mancipatio familiae ma che recitava una formula laquanto elaborata da cui
traspariva il vero scopo dell’atto e in cui il testatore manifestava solennemente con un preciso
formulario, le sue ultime volontà: la pronunzia era detta nuncupatio. Poteva anche essere
compiuto tutto oralmente.
Ma l’editto pretorio prevedeva una bonorum possessio secundum tabulas (le tabulae erano le
tavolette cerate dove si redigeva la volontà testamentaria). Il pretore esigeva il documento scritto
chiuso e sigillato con il contrassegno di sette testimoni per cui non si esigevano particolari e
determinati ritio formalità orali. Era una prassi diffusa quella per la quale il testatore chiudeva le
tabulae e vi faceva apporre all’esterno i sigilli dei cinque testimoni, del libripens e del familiae
emptor.
Fin dagli inizi dell’età preclassica la forma testamentaria più utilizzata fu quella del testamento per
aes et libram fino a quando Costantino soppresse la necessità del rito della mancipatio e relativa
nuncupatio. In questo modo il testamento civile fu assimilato a quello pretorio. Un regime unitario
fu poi stabilito da Teodosio II tramite l’adozine di un documento scritto che il testaore avrebbe
dovuto presentare a sette testimoni dinanzi i quali egli stessi avrebbe dovuto firmare e dop di lui
anche i testimoni che avrebbero infine apposto i sigilli.
Il testamento era invalido per l’inosservanza delle formalità per esso prescritte e per incapacità di
testimone, anche per un vizio della forma dell’istituzione dell’erede. Un testamento inizialmente
valido poteva anche diventare successivamente invalido dopo la sua perfezione.
Il testamento perdeva poi validità per sopravvenienza di un figlio o anche di un postumo.
Il testamento era riconosciuto come atto di ultima volontà che poteva essere mutata sino
all’ultimo instante di vita e quindi poteva essere revocato solo per effetto di un nuovo
testamento. I modi di revoca del testamento erano del ius civile e acquisteranno valore in età
postclassica.
L’istituzione di un erede: heredes istitutio poteva essere contenuta solo in un testamento e fu
qualificata dai giurisiti come l’inizio e il fondamento stesso del testamento). Questa regola
perdette poi valore con Giustiniano. L’istituzione di un erede doveva avvenire tramite termini
esplici e con l’attribuzione espressa al destinatario della qualifica di heres in forma imperativa:
Tizio sia erede. Questo modo fu poi abolito da Costanzo, l’istituzione di un erede poteva essere
cum modo, cum libertate e cum cretione.
Dato che l’erede sarebbe stato successore universale , l’istituzione di un erede ex certa re: in un
singolo bene determinato, sarebbe stata una contraddizione che avrebbe portato alla nullità.
Poteva anche essere disposta sotto una condizione sospensiva , ma non risolutiva o con termine
finale o iniziale.
Poteva avvenire la sostituzione volgare: applicabile all’istituzione di un erde chiunque fosse
l’istituito ed era sotto la condizione sospensiva che il primo istituito fosse premorto al testatore o
non avesse accettato l’eredità o fosse stata senza effetti.
C’era altrimenti la sostizione pupillare che presupponeva questa volta che il testatore istituisse
erede un discendente soggetto alla sua immediata potestas ed era l’istituzione di un erde pupillo
qualora questi fosse morto ancora impubere e quindi nell’impossibilità di fare testamento.
Successivamente la giurisprudenza pontificale affermò la regola: i sui heredes devono essere o
istituiti eredi o diseredati. La diseredazione doveva essere adottata in forma imperativa e
all’interno del testamento e l’avrebbe escluso dall’eredità.
Una più piena e materiale non formale quindi, successione contro il testamento in favore di
congiunti del testatore si realizzò a Roma con la querela inofficiosi testamenti: un espediente che
era volto a fare apparire infermo di mente il testatore che senza serio motivo e violando
l’elementare dovere di affetto verso i familiari più vicini, avesse escluso il figlio o un altro prossimo
congiunto dalla propria successione. La querela doveva essere esercitata entro cinque anni
dall’adozione dell’eredità da parte dell’erede istituito e vi erano attivamente legittimatii figli del
testatore sui e non . dalla querela era inoltre escluso il legittimato che avesse dato che avesse dato
seguito in qualche modo alla volontà testamentaria.
Il testamento per essere vaildo ed efficace doveva almeno contenere una valida istituzione di
erede che era disposizione a titolo universale, ma talvolta conteneva anche disposizioni a titolo
particolare come ad esempio i legati con cui il testatore attribuiva alle persone indicate: i legatari i
singoli beni o comunque i singoli diritti sottraendoli agli eredi: questo riconoscimento avvenne con
la giurispudenza pontificale.
I giuristi romani individuarono quattro tipi di legati: per vidicationem con le parole do lego che
aveva ad oggetto beni propri del testatore; per damnationem con le parole heres meus damnas
esto che implicava il compimento di una prestazione di dare o facere in favore della persona
indicata dando così luogo ad una obligatio;sinendi modo con le stesse parole del legato
precedente ma integrate dall’imposizione all’erede di consentire che il legatario prendesse
possesso di una cosa determinata; e infine il legato per praeceptionem per cui l’impiego poteva
dapprima essere disposto solo in favore di uno dei coeredi istituiti nel testamento ed era pertanto
un legato di proprietà che poteva avere ad oggetto solo cose proprie del testatore.
Il senatoconsulto Neroniano stabilì una sorta di conversione negoziale per cui il legatosi sarebbe
considerato come se disposto con la formula adatta: in pratica come se disposto nella forma del
legato per damnationem con più pssibilitù di applicazioni. Il problema fu poi superato da Costanzo
che abolì le necessità dell’uso delle antiche formule anche per quanto riguarda i legati; ma la vera
e propria unificazione avvenne con Giustiniano che riconobbe comunque effetto obbligatori ai
legati e il legatario avrebbe anche goduto della doppia tutela reale e obbligatoria.
La testamenti actio passiva si esigeva non solo per gli eredi istituiti nel testamento ma anche per i
legatari.
I legati avrebbero avuto effetto da quandol’erede onerato acquistava l’eredità e quindi dal
momento della morte del testatore se l’onerato era heres suus, e dal momento dell’accettazione
dell’eredità se l’erede era erede volontario. Al legato era riconosciuto l’effetto limitato di far
acquistare al legatariodiritto di lascitosin dal momento stesso della morte del testatore.(definito
dies cedens) . al dies cedens si contrappose poi il dies veniens il momento a partire del quale il
legato avrebbe potuto essere fatto valere.
Una volta disposto il legato era soggetto alla revoca da parte del testatore che aveva luogo con la
revoca stessa del testamento.
Alcune leggi stabilirono un limite alla libertà di disporre mediante i legati: ad esempio la lex furia
testamentariafissò in 1000 assi il valore massimo di ogni legato e quella Falcidia stabilì che il
testatore potesse disporre in legati per non più dei tre quarti dell’eredità.
Il testamento poteva anche contenere manumissioni o nomine di tutori: con la manumissio
testamento il testatore dava la libertà al suo servo e con la tutoris datio il testatore nominava il
tutore a un proprio discendente immediatamente soggetto a sua potestà e come tale suus.
L’intervento di Augusto in merito ai fedecommessi fu abbastanza rilevante poichè egli rese
vincolanti i fedecommessi legittimando il beneficiato fedecommissorio a proporre la petitio
fideicommissi. Anche mediante fedecommesso poteva essere disposta la libertà a un servo ma si
sarebbe tuttavia trattato di una manumissione indiretta.
Tramite il fedecommesso universale si faceva carico all’erede di trasmettere ad altri dopo averla
acquistata, l’intera eredità oppure anche solo una quota di essa.
Al testamento si affiancarono i codicilli, anch’essi idonei come il testamento stesso a contenere più
disposizioni moris causa. E con questo termine si indicò un documento scritto tante volte uns
epistula: lettera che a differenza del testamento non richiese formalità per la sua perfezione. Si
fece una distinzione tra i codicilli confermati: con riferimento al testamento e quelli non
confermati con il riferimento a nessun testamento. Quelli confermati potevano contenere
qualsiasi disposizione che era possibile comprendere nel testamento, come anche i legati,
fedecommessi e manumissioni. Quelli non confermati invece potevano contenere solo
fedecommessi.

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