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Mos maiorum

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Il Mos maiorum (dal latino mōs maiōrum, letteralmente «usanza, costume degli antenati») rappresenta il
nucleo della morale tradizionale della civiltà romana.[1] Per una società come quella romana, le tradizioni sono
il fondamento dell'etica: esse comprendono innanzitutto il senso civico, la pietas, il valore militare, l'austerità
dei comportamenti e il rispetto delle leggi. Il Mos maiorum, fondendosi nell'insieme dei valori acquisiti in
seguito all'ellenizzazione della cultura latina, darà vita alla humanitas.

Il termine mos[2], puntualmente e invariabilmente tradotto con il riduttivo costume a livello scolastico, è in
realtà un termine latino molto più ricco semanticamente e ha valore insieme ideale e pragmatico, in quanto
comprende il sistema di valori di un singolo individuo o di una società e, contemporaneamente, la prassi che
coerentemente ne deriva. Da mos deriva l'italiano "morale".

Il termine mores era già usato nel periodo protostorico dalle tribù stanziate nel territorio laziale, in riferimento a
usi di tipo magico-religioso. Ne dà una definizione Sesto Pompeo Festo:[3]

(LA) (IT)

«Mos est institutum patrium, id est memoria «Il costume è l'usanza dei padri, ossia la
veterum pertinens maxime ad religiones memoria degli antichi relativa soprattutto a
caerimoniasque antiquorum.» riti e cerimonie dell'antichità.»

Dal periodo regio all'età imperiale, i mores, vengono a identificarsi come un corpo di principî e di valori
esemplari per la comunità romana di quell'epoca e nelle seguenti. Chiunque non rispettasse il "Mos maiorum"
infrangeva il codice degli insegnamenti etici e morali romani.

Indice
Mores come costume e usanze
Storia
Protostoria: dal X secolo a.C. alla metà dell'VIII secolo a.C.[6]
Età regia
Età repubblicana (509-27 a.C.)
Età imperiale (27 a.C.-395 d.C.)
Fonte dei mores
Mores opera scritta o non scritta?
Categorie di mores
Mores come forma di diritto (non scritto)
Storia
Dal X secolo a.C. alla fondazione di Roma
Nella struttura familiare
Nei riti religiosi
Nei rituali funebri
Nella divisione del lavoro
Dal 754 a.C. al II secolo d.C.
Nella vita politica
In ambito militare
Nel diritto di famiglia
Nella tradizione religiosa
Nel rapporto patronato-clientela
Mores come regolatori delle legis actiones
Mores e ius
Ius gentium
Il titolare dei diritti derivanti dai mores
Sanzioni in caso di non osservanza dei mores
Differenza tra mos e consuetudo
I mores come valori della romanità
Storia
Età regia
Età repubblicana
Età alto-imperiale
Crisi del III secolo ed età tardo-imperiale, fino a Giustiniano
Valori fondamentali della romanità nei mores maiorum
Fides
Pietas
Maiestas
Virtus
Gravitas
Altri valori della romanità
Note
Bibliografia
Collegamenti esterni

Mores come costume e usanze


I mores sono dei precetti normativi accettati da tutta la comunità, poiché investiti di un'auctoritas[4]. Questi
mores non solo sono un'usanza investita di sacralità, bensì rappresentano un abbozzo di 'costituzione' per
l'intera comunità romana obbligata a seguirli. Si riteneva infatti, soprattutto in epoca regia, che il rispetto di tali
precetti[5] proteggesse dalle forze dell'occulto, in quanto espressione del soprannaturale e della volontà divina. I
mores, come sistema di credenze e di valori universalmente riconosciuti e unanimemente condivisi all'interno
della civiltà romana, informavano a sé, l'agire pubblico e privato dell'individuo. Non si è certi, ma è possibile
che i mores, una volta emanati, avessero la funzione di creare un precedente normativo.

Storia
Protostoria: dal X secolo a.C. alla metà dell'VIII secolo a.C.[6]

Secondo le opere storico-giuridiche di Gaio e Sesto


Pomponio[7] i mores, sono usi e costumi delle tribù che
si unirono fondando la città di Roma[8].

In quella prima fase erano solo i mores a identificarsi


con il diritto romano, costituendo il modello al quale gli
appartenenti alla comunità adeguavano il loro
comportamento: tali modelli derivavano da secoli di L'area "sacra" di Sant'Omobono dove si sono svolti
usanze precedenti, risalenti ai pagi[9]. Gli studiosi gli scavi e lo studio di testimonianze relative ai
ritengono che antecedentemente all'età regia, quindi nel popoli latini anteriori all'VIII secolo a.C.
corso della fase pre-civica, i mores si basassero sul
comportamento delle familiae, e, successivamente, a
partire dalla metà dell'VIII secolo a.C., anche delle gentes, nel rispetto delle forze naturali, secondo
l'interpretazione dei sacerdoti, che, a mano a mano li raccoglievano tramandandoli oralmente, e custodendoli in
archivi sacerdotali segreti.

In un primo momento i mores non costituirono leggi effettive ma, soprattutto nella Roma precivica, erano
precetti unanimemente condivisi e attuati dalla comunità. Intorno al X secolo a.C. i sacerdoti raccoglievano
tramite forma orale, e probabilmente anche per iscritto, tali usi, mantenendoli segreti. In questo periodo erano
gli unici detentori di conoscenze giuridiche, e uno dei loro compiti consisteva nel rivelare, sempre
segretamente, questi usi, al soggetto che li richiedesse o piuttosto a interpretarli nel modo che ritenessero più
adatto. Quindi consigliavano al richiedente una condotta da seguire per conseguire un proprio legittimo
interesse o per difendersi correttamente da un diritto altrui. Ciò perché nel diritto dell'epoca era insito una forte
componente morale, che occorreva dunque rispettare, seguendo determinate ritualità nelle dichiarazioni, nei
comportamenti e in generale nell'agire sociale, tanto pubblico quanto privato. Tali modalità continuarono a
vigere sia nel periodo regio sia in buona parte del repubblicano. Nell'età regia l'interpretazione fu affidata al rex
e al Pontifex Maximus, talvolta congiuntamente.

Età regia

Nessuna fonte tramanda nulla di preciso sui mores nell'età primitiva di


Roma, e di come si evolsero nel tempo. Solo Sesto Pomponio[10]
confidava che, con i primi re, fu necessario definire norme scritte,
tanto da generare l'atto normativo delle leges regiae. Grazie anche ad
altre fonti, tra cui Plutarco, Cicerone e Sesto Pomponio, conosciamo
queste norme emanate dai re, anche attraverso l'intervento del
Pontefice massimo.

Gli storici hanno ipotizzato che ci potesse essere un profondo


La lupa capitolina, Romolo e Remo. collegamento tra "leges regiae" e mores, dal momento che anche il
pontefice possedeva l'autorità per emanarle. Si ritiene dunque che
alcuni di tali atti, con qualche modifica, altro non siano che costumi
diventati leggi. Secondo la tradizione, è in quest'epoca che si emanarono in forma scritta le leggi, benché il
primo non fu Romolo, che le emanò sempre in forma orale[11][12], anzi la prima compilazione, che si perde
nella leggenda, sarebbe il fantomatico Liber Numae di Numa Pompilio, che tuttavia non ci è pervenuto: in
questo libro, infatti, si sarebbero raccolte le norme sia stabilite da Romolo sia da Numa Pompilio, segnatamente
i riti sacerdotali[13] sicuramente derivanti dai mores[12]. Trassero ispirazione da tali scritti anche i re successivi,
creando nuove leges, e, probabilmente anche nuovi mores, in parte ripresi o sviluppati dai mores attribuiti a
Numa. La tradizione successivamente ci parla anche di altre opere, come il Commentarius di Servio Tullio e i
Libri sibillini, che Tarquinio il Superbo ricevette dalla ninfa Sibilla, nei quali sarebbero raccolti alcuni riti
religiosi[14].

Tutti gli atti normativi dell'età regia sono comunque scomparsi, a causa dell'incendio che colpì Roma nel 390
a.C.[15] per opera dei Galli di Brenno. Comunque, sia le pratiche tradizionali, sia i rituali arcaici, affondano le
proprie radici nelle consuetudini collettive.

A un certo punto però i mores non furono più


sufficienti, in quanto il popolo romano richiedeva un
diritto più sicuro e non incerto, come attesta
l'Enchiridion di Pomponio:

Interno della Curia, antica sede del Senato.

(LA) (IT)

«Iniquae initio civitatis nostrae populus sine «e certamente il popolo all’inizio della
lege certa, sine iure certo primum agere nostra città (Roma) decise di agire senza
instituit:omniaque manu a regibus legge stabile, senza diritto stabile: tutto era
gubernabantur.» governato dai re con il loro potere.»

(Sesto Pomponio, Enchiridion[16]. traduzione)

poi, più avanti, ci parla di leggi regie, emanate dai re della tradizione:

(LA) (IT)

«Et ita lege quasdam et ipse curiatas ad «Così egli (Romolo) propose al popolo
populum tulit: tulerunt et sequentes reges. alcune leggi curiate (ovvero le leges regie
Quae omnes conscriptae ex stant in libro secondo gli studiosi): altre ne proposero i
Sexti Papirii, qui fuit illis temporibus, quibus re successivi. Tutte queste leggi si trovano
Superbus Demarati Corinthii filius ex scritte insieme nel libro di Sesto Papirio,
principalibus viris.» che visse nella stessa epoca in cui visse il
superbo figlio di Demarato di Corinto, (per
citare uno) fra gli uomini più illustri.»

(Sesto Pomponio, Enchiridion[17].traduzione)

Nell'età regia anche il rex era a conoscenza dei mores interpretati, e poteva rivelarli. D'altra parte anche il
Pontifex Maximus contribuiva all'emanazione delle leges regiae, per cui, alcuni studiosi ritengono che talune di
tali leggi siano in realtà mores attuati con, o almeno in parte, un atto normativo regio. Di conseguenza tale
agire diventa un ulteriore modalità di emanazione di mores (seppur indiretto), di mores e legislazioni del
periodo precedente.
Età repubblicana (509-27 a.C.)

Con la cacciata dei Tarquini si concluse l'età regia, e l'unico diritto ritorna a essere le rivelazioni e
l'interpretazione dei soli Pontefici dei mores. Però in questo periodo, che durerà circa 50 anni, la plebe
comincia a sospettare che i Pontefici interpretino solo a vantaggio della classe sociale alla quale appartengono,
i patrizi, a discapito degli stessi plebei.

Nella prima metà del V secolo a.C. si giunse a un punto di rottura. Alcune fonti, tra cui Tito Livio e Dionigi di
Alicarnasso, raccontano che a partire dal 462 a.C. si creò un movimento plebeo il cui fine era una legislazione
scritta, legislazione che ottennero nel 450 a.C. grazie a un decemvirato legislativo durato due anni,
commissione che aveva il compito di elaborare in massime il diritto esistente fino ad allora, dunque per lo più
dei mores.[18] Successivamente, dal momento che queste massime non erano di facile lettura, la loro
interpretatio era comunque lasciata ai Pontefici e pertanto tenuta ancora segreta, perciò da ritenere sempre
rientrante come interpretatio di mores, almeno sino a quando Tiberio Coruncanio non la renderà pubblica
attraverso un'interpretazione laica e creando vero e proprio diritto ovvero la creazione dello Ius Civile. D'altra
parte però, le XII Tavole erano un'opera che non poteva riguardare e non riguardava tutti i rami del diritto
perciò dove non arrivavano le XII Tavole venivano utilizzati e rivelati i mores[19].

Sempre secondo Sesto Pomponio la prima opera riguardante i mores[20] dell'età repubblicana secondo la
tradizione era rappresentata dallo ius papirianum di Sesto Papirio[21], una raccolta di tutte le "leges regiae"
appartenute all'età regia: anche quest'opera si perde nei meandri della tradizione e non sappiamo se sia esistita
per davvero. Il primo cinquantennio del V secolo a.C. venne caratterizzato dal regolamento dei mores in forma
di massime, ma da Livio e da Dionigi d'Alicarnasso ci viene raccontato che, a partire dal 462 a.C., i plebei,
resosi conto che i Pontefici emanavano i mores solo in favore loro o dei patrizi, cominciarono a richiedere
un'opera scritta che riassumesse l'essenza dei mores in modo tale da interrompere il monopolio dei Pontefici su
questi regolamenti orali, tramandati e conosciuti solo dai sacerdoti. Così con un decemvirato legislativo durato
un paio d'anni[22] nel 450 a.C. venne emanata la legge delle XII Tavole. Si trattava di una raccolta dei mores
fino ad allora esistenti. Poiché l'opera risultò di difficile interpretazione, venne affidata ai pontefici, che
mantennero così il monopolio interpretativo, dove le XII Tavole non contemplavano determinate norme. Tutto
ciò mutò con Tiberio Coruncanio, primo pontefice plebeo: egli rivelò i rituali e come venivano emanate le XII
Tavole e da qui si osserva la presenza dei primi giuristi laici. Fonti utili potevano essere anche lo ius
usucapionis[23] e lo ius Flavianum[24].

Il primo giurista[25] può essere considerato Sesto Elio, diventato poi anche console, il quale nel 198 a.C. stila
un'opera di analisi delle XII Tavole e dell'interpretazione pontificale, oltre alle legis actiones, chiamata tripartita
(lat. tripertita). Anche quest'opera non ci è pervenuta, ma sicuramente poteva essere di grande aiuto per capire
i collegamenti mores-XII Tavole e mores-legis actiones. I mores dovevano comunque essere ancora molto
seguiti nel I secolo a.C. Il giurista Gaio Svetonio Tranquillo ci racconta di un editto di censura emesso nel 92
a.C. che pone i mores quali regolamenti ai quali si devono adeguare tutte le consuetudini[26] si devono
adeguare, in caso contrario verranno ritenute inique.

Età imperiale (27 a.C.-395 d.C.)

Con l'avvento degli imperatori romani, è possibile che i mores siano stati decisi sempre da questi ultimi tramite
le varie costituzioni che ne delineavano i limiti. Le ultime informazioni che abbiamo sui mores come
regolamenti risalgono al II secolo, grazie al giurista Giuliano, dal quale sappiamo che i mores dovevano essere
seguiti solo se non vi erano leggi contrarie. Per i periodi successivi non ci sono informazioni, ma è da ritenere
che almeno in ambito religioso pagano qualcosa sopravvisse: un esempio sarebbero i sacrifici fatti dal senato
sull'altare della vittoria per buon auspicio nelle guerre, poi eliminato nel 382 per volere imperiale, vicino al
380, quando invece l'editto di Tessalonica dichiarava la religione cristiana religione di Stato. Oppure ancora i
riti officiati dal rex sacrorum eliminato come figura istituzionale solo nel 390.
Le rivelazioni dei pontefici per quanto riguarda i mores assumono con
il tempo sempre minor rilevanza, in quanto molti ambiti vengono
sostituiti nell'osservanza di leges, e contemporaneamente sempre più
importanza assume la tradizione, già applicata all'interno del sistema
giudiziario, si pensi alla "pignoris capio" della quale Gaio ci informa
che rappresenta una "legis actio" strutturata in alcuni punti secondo i
mores. Se poi il iudex (giudice) e indeciso su una causa controversa,
essendo quel negozio e regolato da mores o regole conosciute solo dai
pontefici può chiedere che intervenga il Pontefice come arbitro della
controversia. Dall'altra parte con l'avvento del periodo imperiale sono
gli stessi imperatori a restringere gli ambiti di utilizzo di questi con le
loro costituzioni e ne abbiamo informazione dai giuristi. Prima con
Gaio Svetonio Tranquillo che racconta di un editto di censura del 92
a.C., che dichiarava:

«Tutte le novità fatte contrariamente alle usanze e alle Augusto nelle vesti di pontifex
tradizioni dei nostri antenati, non devono essere maximus
considerate giuste.[27]»

Infine con Giuliano (II secolo) secondo il quale i mores si utilizzano solo se non vengono previste leggi in
quegli ambiti. Dopo il II secolo non si trovano più informazioni, ma sembrerebbe che abbiano perso quasi del
tutto la loro rilevanza come atto giuridico, validi ancora per qualche rito pagano[28] addirittura la festività del
Lupercalia sopravvisse sino al 495, o forse poco oltre.

Fonte dei mores

All'inizio, nell'età protostorica, le fonti dei "mores" non erano altro che il comportamento dei "patres",
considerati i "genus" all'interno della loro famiglia, gruppi parentali stanziati sulle colline, dove i più anziani
erano i sacerdoti. È probabile che già questi raccogliessero i culti seguiti in quell'epoca, successivamente delle
"gentes", probabilmente prima dell'inizio dell'età regia, furono raccolti dai sacerdoti che li memorizzavano e li
tramandavano oralmente, perciò le fonti dei mores erano gli stessi sacerdoti e le loro interpretazioni. In piena
età regia i mores furono redatti in forma scritta o ed emanati anche dai re, poi con la fine dell'età regia, l'unica
fonte dei mores restarono i sacerdoti, con le loro rivelazioni e la tradizione.

Mores opera scritta o non scritta?

È un aspetto molto dibattuto dagli studiosi della storia dell'antica Roma. In linea generale si possono
individuare tre correnti: nella prima, per alcuni, sulla base di alcune fonti, i mores rappresentavano un
regolamento non scritto, come ci informano all'inizio delle loro opere, sia Sesto Pomponio con
l'Enchiridion,[29] sia Gaio con le sue istituzioni[30]. La seconda linea di pensiero affermava invece, che
l'essenza dei mores è vera solo in parte.

Infatti, all'inizio, probabilmente, questi erano emanati e raccolti oralmente[31] a cominciare tra il X e il IX
secolo a.C. Le fonti comunque cominciano a essere menzionate a partire dall'VIII secolo a.C., molte di queste
relative ai mores[32] e alle leges regiae di cui i libri pontificii, i libri augurales, e i libri regii ecc, riportate da
autori come Cicerone, che ricopriva anche il ruolo di sacerdote augurale, per cui aveva libero accesso anche
agli stessi libri augurales.[33] Anche alcune opere di Plutarco, sono state citate quali fonte di mores, ma ve ne
sono molti altri, venendosi quindi a delineare un archivio pontificale in cui vengono raccolti tutti i precetti e le
attività effettuate dai sacerdoti, distinguendo opere, rispettivamente con libri per i primi, e commentarii per i
secondi. Infine c'è una terza linea di pensiero, di tipo induttivo, in cui i sacerdoti erano considerati i redattori
dei testi memoriali dei mores, probabilmente giunti fino a noi tramite le informazioni indirette di alcuni storici
romani e greci che ci illustrano le leges regiae strettamente collegate ai mores.

Alcune idee, a tal proposito, ritengono che è proprio da queste redazioni scritte che sia nata la legge delle
dodici tavole. Ma, di là dalla rielaborazione degli storici antichi, che sicuramente ripresero le norme nelle loro
cosiddette citazioni testuali togliendo molti arcaismi, la struttura delle XII Tavole è troppo complessa per aver
avuto origine dal decemvirato legislativo ex novo, da leggi non scritte, e ricordate a memoria, in realtà le stesse
leges regiae e alcuni memoriali dei sacerdoti utilizzati da collegamento tra i mores e la redazione delle XII
Tavole, perciò, molti studiosi ritengono che sia esistito, per forza di cose, qualche documento scritto attinente ai
mores[34]

Categorie di mores

Alcuni di questi costumi prendono vari nomi e non vengono identificati semplicemente col termini di mos,
infatti esistevano:

i Mores maiorum che identificavano i costumi più antichi o caratterizzati da maggior auctoritas
dei maiorum.[35]
i Mores regionis validi solo in una precisa regione.
i Mores sacer[36] quelli relativi al culto.
i Mores familiae, o gentes, validi limitatamente a quello specifico gruppo familiare o a quella
gens, oltre che di tipo religioso, come i sacra gentiles, potevano essere appartenere anche ad
altri ambiti, come supervisionare lo stile di un vestito, o di un dato culto ecc.
i Mores iudiciorum, usi che regolavano lo svolgere delle attività processuali, in quanto, anche
in quegli ambiti si rispettava una determinata forma.
i Mores militum: usi e costumi militari. Si pensi alla figura del cittadino-soldato che si divide tra
le terre e la guerra e si accontenta, da una parte della gloria, e dall'altra della semplicità.

Mores come forma di diritto (non scritto)

Storia

Dal X secolo a.C. alla fondazione di Roma

Di questo periodo non abbiamo alcuna fonte scritta coeva[37] o di autori successivi; perciò, per stabilire quali
fossero le tradizioni, l'unico modo è di utilizzare lo strumento archeologico. Si parla delle popolazioni stanziate
nei territori dove poi verrà fondata la città di Roma e tramite i ritrovamenti funerari si cerca di dedurre costumi,
tradizioni e struttura della società di quel remoto periodo.

Nella struttura familiare

Prima di tutto, sulla base dei corredi funerari rinvenuti nel corso degli scavi archeologici, si è dedotto
l'esistenza di una differenza di attività tra la popolazione maschile, che si dedica alla raccolta-coltivazione, alla
caccia, trovandosi in una zona boschiva, e alla guerra[38], e la popolazione femminile, dedita alla tessitura e ai
lavori domestici. In questo periodo esiste solo la struttura familiare della familia, non ancora quella della gens.
Le familiae sono sempre caratterizzate dal potere patriarcale, dove il pater ha potere assoluto, compreso quello
di decidere i riti all'interno della famiglia in quanto genus di questa. I primi insediamenti sono di tipo
strettamente familiare, cioè il gruppo semi-nomade o sedentario stabilito su un colle è una famiglia o comunque
un nucleo unito da legami parentali. Poiché sono stati rinvenuti corredi funerari di diversi livelli qualitativi, cioè
corredi funerari più ricchi e meno ricchi, è da ritenere possibile che vi fosse già una differenza di livello
economico tra le varie famiglie, ma non si può dire se già esistevano classi sociali differenti.

Nei riti religiosi

La religione di questo periodo è riconducibile dal confronto con le


culture più primitive dei nostri giorni. In particolare, alcuni studiosi
fanno rilevare l'analogia tra la popolazione malese, che credeva
nell'intervento di forze soprannaturali nella vita di tutti i giorni; questo
sarebbe provato dal fatto che alcune fonti parlano di numen o
numena, "forze", secondo le credenze dei popoli più antichi, stanziate
in questi territori identificate, non come divinità, ma come "forze
singole", ognuna delle quali possedeva un proprio compito, "forze"
che circondavano letteralmente la familia, e in senso più esteso le
comunitas, in grado di intervenire nella vita di tutti giorni. Per queste
popolazioni, ogni "forza", nella realtà, agisce all'interno di uno
strettissimo ambito, per esempio si cita la forza che fa muovere un
fiume, oppure quella che causa la pioggia, ecc. .. ecc. .. Per favorire
l'azione di queste, i Sacerdoti del tempo, avevano codificato
l'osservanza di specifici riti, Sacerdoti che, in questo periodo non
erano altro che gli anziani del gruppo semi-nomade. Non sappiamo Vestale (Roma, Palazzo Braschi)
nulla dei riti seguiti, tranne di uno usato anche in età storica, ovvero il
rito del Septimontium, una processione che riuniva tutte le
popolazioni stanziate nei colli romani o vicini che partiva dal Palatino e attraversa molti colli vicini. Questo rito
collettivo dimostrerebbe la somiglianza religiosa di tutte queste popolazioni, ma questo servirebbe anche a
rinnovare la pace tra le varie popolazioni: il rito veniva celebrato l'11 dicembre. I riti di questo periodo, almeno
la maggior parte, utilizzavano come donazione alle forze i legumi. In particolarmente questo rituale è stato
individuato grazie agli scavi archeologici, ma anche secondo quanto diceva Plinio sull'utilizzo nei riti delle
fave. A prima dell'età regia risale anche il culto di Vesta e delle vestali che dovevano custodire il fuoco di
Vesta. All'inizio dovevano essere solo due, la prima vestale di cui si ha notizia è la madre di Romolo Rea
Silvia vestale, esistita di certo, prima dell'età regia di Roma.

Nei rituali funebri

Il rituale prevedeva, nel X secolo a.C., la cremazione del corpo, su un rogo, per un periodo prolungato[39] dopo
di che il fuoco viene spento, probabilmente col latte, poi le ossa raccolte in un vaso chiamato ossuario,
collocato in un vaso più grande chiamato dolio, al quale veniva affiancato il corredo funerario di oggetti in
miniatura, ritenuti utili per la vita nell'aldilà. Da tali riti e comportamenti si è dedotto che le popolazioni di quel
tempo credevano nell'esistenza di una vita oltre la morte.

Fino a circa l'830 a.C., si osservano tre tipologie di rituali differenti: quello della cremazione, già esposto,
quello in cui il vaso coi resti veniva deposto in una fossa chiamata pozzo, oppure il terzo in cui veniva scavata
una fossa rettangolare per deporre il cadavere in posizione supina. Il periodo successivo fino al 770 a.C., vide
il rituale maggiormente in uso della fossa rettangolare col cadavere supino, alcune volte veniva usata la
cremazione, mentre il corredo funerario era caratterizzato, non più da oggetti reali in miniatura, ma da oggetti
veri, per esempio venivano deposte di fianco al cadavere, armi vere, collane, ecc. Successivamente, fino al 730
a.C., troviamo il metodo a fossa con corredo, oppure l'utilizzo di sarcofagi in terracotta simili a una bara. Da
730 al 630 a.C., il seppellimento dei morti avveniva al di fuori dall'abitato, tranne per i bambini, seppelliti
vicini o sotto le capanne, posti orizzontalmente in una fossa o nel dolio.
Nella divisione del lavoro

Il costume di questi popoli prevedeva che l'uomo andasse a fare la guerra o a coltivare o raccolta mentre la
donna si occupava della tessitura e dei lavori domestici e i sacerdoti (le persone più anziane del gruppo) dei riti
sacri.

Dal 754 a.C. al II secolo d.C.

Nella vita politica

La partecipazione nella vita pubblica era parte dominante della vita del cittadino maschio nella Roma antica.
La vita pubblica comprendeva politica, esercito, legge e anche sacerdozio. Nella politica, il cursus honorum
divenne la procedura standard di attribuzione delle cariche. L'osservanza di questo percorso veniva considerata
convenzionale; comunque ci furono deviazioni dal cursus. Lucio Appuleio Saturnino e Gaio Servilio Glaucia,
in associazione con Gaio Mario la sua legislazione e le elezioni, ruppe la tradizione cercando il consenso dei
tribuni della plebe. Mario stesso smise di accettare la tradizione dell'élite romana. Mario non fu solo un homo
novus di gran successo, ma fu eletto 7 volte console, cosa mai accaduta prima. Queste figure contrastano
fortemente con la carriera di Cicerone, che seguì severamente il cursus honorum e mantenne una gran
coerenza nel sostenere gli interessi dell'aristocrazia e i valori ancestrali da essa salvaguardati. Cicerone ottenne
molta della sua fama dalla sua abilità di oratore, lavorando come difensore e Pubblico Ministero nelle corti.

La legge era strettamente legata al cursus honorum e alle magistracies che un cittadino poteva sperare di
ottenere. I membri della classe superiore, avendo una conoscenza maggiore della legge e dell'arte oratoria (dal
momento che erano consuetudini parte della loro istruzione), soddisfacevano i ruoli di prosecutore, difensore e
persino giudice. Questi ruoli erano doveri tradizionali per la classe superiore, che potevano addossarsene la
responsabilità. Sebbene moltissime responsabilità appartenevano alla sfera della vita civile, come era comune
nell'era antica, dai romani ci si aspettava anche che servissero nell'esercito.

In ambito militare

All'inizio emblematica è la figura in età arcaica del cittadino soldato che fino ai 40 anni si dedica solo a due
attività coltivare la terra e guerreggiare. Successivamente i mores del militare stabiliva che i soldati cittadini
venivano obbligati all'arruolamento in caso di minacce riguardanti lo Stato intero, ma dopo Mario entrarono in
vigore i soldati professionisti, fedeli ai loro generali. L'esercito romano era originariamente costituito da
persone della classe superiore, poiché essi erano gli unici membri della società che potevano permettersi i costi
economici delle armi e assenze dal lavoro giornaliero. La speranza degli uomini romani era di unirsi all'esercito
e ottenere gloria a servizio dello Stato, e quando non erano impegnati in battaglie o guerre, riponevano le armi
e si dedicavano alla vita civile. Comunque, Gaio Mario riformò l'esercito per includere capite censi e
sottomettere le truppe al suo controllo prima ancora che a quello dello Stato.

Nel diritto di famiglia

I mores stabilivano anche la struttura familiare cioè si limitavano a dare la potestà del pater familias sui suoi
consociati nonché la struttura delle gentes, però sicuramente i mores in questo ambito si limitavano solo a dare
la giusta struttura e a qualche altro regolamento che però non intaccava il potere del pater nei confronti di chi
abbia un debito o un delitto su un suo consociato o lui stesso cioè il cosiddetto formarsi del vincolo corporale
poi evoluto in dare o oportere sino ad arrivare a una parvenza di vincolo giuridico.

Nella tradizione religiosa


A differenza delle moderne religioni occidentali, gli antichi romani non separarono le pratiche religiose dal
servizio allo Stato. Mantennero invece l'usanza dei loro antenati Indo-Europei di un clero legato allo Stato. Per
esempio, il Collegio dei Pontefici era custode di diversi culti, Collegio al cui vertice era nominato un sacerdote
che poteva anche essere in possesso di una carica politica e/o militare. Gli antichi romani praticavano
regolarmente anche il culto degli antenati, dei Penati, divinità protettrici della casa privata e del suo interno[40],
dei Lari, comuni nella religione privata romana, in aggiunta alle figure antropomorfe divine romane. I Lari
sono spiriti guardiani, variabili nelle loro manifestazioni a seconda dei ruoli che ricoprivano: come, per
esempio, i Lari Augusti, spiriti protettori dell'imperatore. Più comunemente venivano citati i Lari compitali,
guardiani degli incroci, e i Lari familiari, custodi della casa. Senza dimenticare tutti gli dei pagani,
successivamente assimilati e modificati dalle varie conquiste, molti dei quali per esempio hanno assunto nomi
di dei greci.

Nel rapporto patronato-clientela

Un altro importante aspetto della tradizione romana è il rapporto tra Patronus e Cliens (patrono e cliente). È il
rapporto più comunemente verificatosi tra Patrizi e Plebei, dove in cambio della tutela del Patronus (patrizio), il
cliens (plebeo), offriva servizi fino a quando il debito non era stato restituito. Più tardi nella storia romana,
dopo la nomina a princeps di Augusto, la maggior parte della popolazione diventò clientela dell'imperatore,
finché, alla fine, non lo fecero tutti.

Mores come regolatori delle legis actiones

I mores all'inizio, essendo l'unico regolamento esistente disciplinava le legis actiones più antiche, ovvero "legis
actio sacramentum in rem, manus iniectio, pignoris capio" e altre che non conosciamo dalle fonti. La "legis
actio sacramentum in rem", doveva essere regolata solo dai mores, in quanto unico atto normativo, e la presa
della cosa in iure[41] davanti al giudice non doveva essere solo simbolica, ma viene ipotizzato da alcuni
studiosi, che, nel periodo più arcaico, avvenisse proprio attraverso una contesa materiale, in un secondo
momento diventata più simbolica, e seguita poi da un giuramento con satisdatio[42]. Tutti questi aspetti
dovevano essere regolati dai mores, e insiti nel sistema istituzionale del tempo, dal quale poi nacquero le leggi.
Per la manus iniectio non sappiamo bene come si svolgeva la procedura, poiché non si hanno molte
informazioni, ma, in linea di massima serviva per avere una sorta di potestas sullo schiavo o sulla moglie,
pronunciando determinate parole, attraverso determinati gesti, come nel caso della legis actio sacramentum in
rem, quando l'attore pone la festuca sulla persona che rivendica come suo schiavo. Nel caso della pignoris
capio, che, a quanto ci dice Gaio, era ancora in vigore nel suo periodo, e poco modificata rispetto al periodo
antico, in quanto molti aspetti erano regolati dai mores, anche se non è mai stato rivelato in che maniera
specifica. Oltre ciò, anche la sponsio doveva essere regolata da mores, anche perché nel rito viene menzionato
lo ius Quiritium, fortemente legato ai mores.

Da questa analisi si comprende che i mores regolavano le legis actio attraverso sia specifiche parole, sia
determinati gesti. In questo modo il gesto o/e la parola eseguita convenzionalmente davano all'atto quel diritto
di validità necessario e sufficiente per conseguire quel risultato, esattamente come prevedeva il diritto di quel
tempo, ma anche[43] per proteggersi dall'intervento di forze occulte che avrebbero potuto influire
negativamente.

Oltre a regolare alcuni punti delle legis actionis, i mores regolavano anche alcuni negozi[44] soprattutto i più
antichi, come la mancipio e il trasferimento della res mancipi attraverso il rito della pesatura del bronzo grezzo.
Poi, man mano, vi fu un'involuzione dell'istituto, fino a ridursi a mera apparenza, poiché il costo della res si
pagava con moneta. La nuncupatio[45] secondo cui si poteva modificare gli effetti della mancipatio, sembra che
prima di derivare da una regola delle dodici tavole, questa sia stata prima un mos, poi rielaborato all'interno
della stesura delle XII tavole, come la nuncupatio ebbe stessa sorte l'istituto dell'usus[46]. L'istituto del
matrimonio era previsto con la confarreatio, molti riti di tipo religioso con i Lupercalia, e gli auguri con i loro
Auspici.

Mores e ius
Ius Quiritium

I mores più antichi sono strettamente correlati col ius quiritium, ovvero il primo diritto romano. Di questo
diritto abbiamo informazioni da Gaio, da Cicerone e da altri, poiché viene nominato in alcuni negozi che
hanno le loro radici nel periodo più antico come nella mancipatio. Questo diritto si incentra soprattutto nel
potere familiare e dominicale o padronale, e va dal VII secolo a.C. al VI secolo a.C., perciò non riguarda il
settore delle obbligazioni con l'oportere, o asservimento corporale, sviluppatosi dopo questo periodo, perciò lo
ius quiritium è caratterizzato fondamentalmente da mores, leges regiae e foedera.

XII Tavole

Le XII Tavole raccolgono fondamentalmente massime di mores, e infatti, come dicono vari autori antichi, i
relativi collegamenti sono molti, per esempio l'usucapio deriva dai mores, prima di diventare una regola delle
tavole, oppure la traditio, molto antica anche questa, poi trasformato in legge tabulara, oppure ancora la
mancipatio e molti altri.

Ius civile

Lo ius civile, essendo la risultante del lavoro ragionato dei giuristi sulle dodici tavole, rappresenta solo
un'evoluzione ulteriore delle dodici tavole, ma anche qui, troviamo delle analogie con i mores : per esempio il
rapporto tra patronus (o gens) e cliens e l'obsequium[47] del cliens nei confronti del patronus, ma oltre che nel
diritto positivo, vi sono molti collegamenti anche nel diritto processuale derivante sempre dalle XII Tavole, e,
trasformate con lo ius civile in formule: l'actio sacramentum in rem, l'agere per sponsionem o la manus
iniectio, ecc.

Ius gentium

Per lo ius gentium invece, bisogna fare un discorso più complesso, poiché riprende e assimila, oltre a istituti di
varie popolazioni, anche istituti romani. La risultante è che vengono per esempio ripresi sempre la traditio e la
sponsio stipulatio tutte e due derivanti da mores. In questo tipo di ius, viene ripreso anche la fides, valore
romano sin ad antico derivante da mores, sul quale si basano nello ius gentium, soprattutto i commerci tra
diverse popolazioni.

Ius honorarium

Per il ius honorarium non abbiamo invece nessun collegamento diretto, poiché nasce dalla iurisditio e
dall'imperium del pretore, ma man mano quando si stabilizza, riprende istituti dallo ius civile modificandoli,
dall'altra però, riprende anche principi del mos maiorum e della consuetudine internazionale nel commercio;
un esempio è nel caso in cui, attore e convenuto, abbiano stretto un negozio secondo la fides del mos maiorum
e della consuetudine internazionale, per cui il pretore, per far in modo che le parti rispettino tale fides, concede
al convenuto un exceptio doli. Un altro ancora è la concessione di exceptio per non aver rispettato una
promessa con sponseo, tipico istituto antico risalente ai mores. Perciò vediamo che certi ambiti sono correlati, e
che lo ius honorarium cerca dei rimedi efficaci derivanti dai mores.

Il titolare dei diritti derivanti dai mores


I titolari di diritti derivanti da mores erano veramente pochi, soprattutto nel periodo più antico. Infatti in questo
periodo potevano essere titolari solo coloro che erano al centro di situazioni giuridiche soggettive, per esempio,
i patres familiae: infatti questi potevano aver contratto matrimonio, dunque i mariti[48] o avere un cliens, cioè il
patronus, oppure il patres nei confronti dei consociati della familia, gli alieni iuris, oppure i militari: per
esempio i celeres, anch'essi al centro di riti specifici, oppure i sacerdoti ecc. Sempre in nel tempo antico coloro
che non potevano essere titolari di diritti erano certamente quelli che non potevano essere titolari i situazioni
giuridiche, ovvero coloro che non possedevano almeno tre requisiti: la libertà, la cittadinanza romana, e la
potestà su persone, alieni iuris, cioè lo status di pater familias. Nel periodo preclassico e classico la situazione
cominciò a mutare, con la potestà del pater che diventa sempre meno patrimoniale, e il crearsi della distinzione
tra situazioni da tutelare e interessi. Probabilmente anche i filii familias[49] poterono essere titolari di diritti
derivanti da mores.

Sanzioni in caso di non osservanza dei mores

La non osservanza dei mores da parte di un soggetto prevedeva diverse conseguenze. Inoltre, che qualsiasi
decisione sottoposta ai valori contenuti nei mores generava un precedente giudiziario. Nel periodo pre-civico e
regio, era la stessa comunità che garantiva l'osservanza di riti: così se un soggetto, per esempio un pater
familias, doveva chiedere il tributo a un altro soggetto da cui avesse ricevuto un danno, questi era messo in
grado di ottenerlo dalla stessa comunità.[50] Poiché i mores venivano definiti, secondo gli antichi, come
espressione corretta della visione della vita, si deve ritenere possibile che per i mores, soprattutto quelli investiti
di una maggior auctoritas, dovessero esserci conseguenze simili all'infamia, all'ignominia o anche alla pena
capitale. Se invece il mos riguardava l'usufrutto di un diritto o il porre in essere di un negozio, questo non era
considerato valido.[51] Quando il mos riguardava determinate azioni criminali come l'omicidio o l'adulterio, il
reo nella maggior parte dei casi, andava incontro a una pena di tipo religioso-pagano, come l'essere sacrificato
a una divinità (sacertà), il supplicium more maiorum, o la poena cullei, oppure era soggetto al vincolo
corporale del danneggiato[52], poi evoluto nell'oportere[53]. Anche azioni come attirare il malocchio su
qualcuno, se in un primo tempo non veniva sanzionato, nel periodo delle XII Tabulae venivano colpite da
pesanti sanzioni.[54]

Differenza tra mos e consuetudo

Negli studi sul diritto romano, fino al XX secolo, generalmente i termini mos e consuetudo vengono
considerati sinonimi, aspetto confermato anche da alcune fonti di epoca romana. Recentemente però gli storici,
sulla traccia di altre fonti, tendono a non considerare i due termini come sinonimi, individuando invece
differenze, lievi ma non del tutto trascurabili. I mores, infatti, sono usi e costumi[55] conseguiti per ottenere il
bene dell'intera comunità, e caratterizzati prima, da elementi magico-pagani, poi dall'intervento sacerdotale: i
sacerdoti, con le rivelazioni dei mores, conferirono a questi il classico carattere giuridico-religioso. Le
consuetudines invece sono usi e costumi che il popolo segue come abitudine, non segnate da un carattere
'sacro', né custodite o attuate dall'ordine sacerdotale: si tratta, dunque, di atteggiamenti e principî non derivanti
da usi ancestrali o antichi, ma di più recente formazione, nei quali è assente la componente religiosa e
l'intervento sacerdotale.

I mores come valori della romanità


Se da una parte abbiamo i mores che identificano costumi e usanze, dall'altra i mores divengono strumenti
portatori di valori. In questo frangente i mores assumono una caratteristica di ideologia, soprattutto nell'età
imperiale, cioè rappresentano in senso ampio, non più dei singoli costumi da seguire, ma vengono visti nel loro
complesso come rappresentanti di virtù che si devono possedere per far del bene alla comunità romana. A
questo proposito si affermava che il fondamento dei mores maiorum fosse basato su cinque virtù fondamentali
appunto:
1. Fides: la fedeltà, la lealtà, la fede, la fiducia e reciprocità tra i cittadini
2. Pietas: la pietà, la devozione, il patriottismo, il dazio
3. Maiestas: sensazione di superiorità di appartenenza a un popolo civile
4. Virtus: qualità peculiari dei cittadini romani, il coraggio, l'attività politica e militare
5. Gravitas: tutte le regole di condotta dell'antico romano tradizionale, rispetto per la tradizione, la
serietà, la dignità, l'autorità, anche se ci furono plurimi valori scaturiti dai "mores".

Storia

Età regia

Già dall'età regia si ritenevano importanti alcuni valori, ma non ne abbiamo informazioni scritte che indicano in
che modo, ma sappiamo che già Numa Pompilio edificò un piccolo tempio in onore della fides divinizzata.
Sicuramente anche altri valori ebbero la stessa sorte soprattutto quelli ritenuti fondamentali.

Età repubblicana

Prima del III secolo non abbiamo nessun documento a testimonianza dei valori morali degli antichi romani,
però, quasi certamente vi sono stati, anche in questo periodo, oltre a qualche opera anche un luogo di culto. In
tutto il periodo repubblicano, in loro onore, si denota anche uno sfarzo maggiore dei templi, rispetto all'età
regia. Come vedremo, ci sono però molti autori che nei secoli successivi dedicheranno, chi più chi meno, le
loro opere ai mores, vediamone qualcuno e la loro evoluzione nel tempo:

La figura di Appio Claudio Cieco per i valori non è tanto importante, poiché non abbiamo notizie di opere che
riguardano i valori romani. Anche se le sue imprese sono forse in parte leggendarie,[56] fu infatti oratore
abilissimo, nonché genio della retorica, rientrante appunto nell'otium del bonus civis. Da non scordare anche le
sue Sententiae. Viene considerato un pre - Catone ovvero anticipatore su molti aspetti della figura di Catone il
Censore.

Nevio (III secolo a.C.) nelle sue opere fa trasparire l'ideologia eroica; nelle sue cothurnatae traspaiono alcuni
valori riguardanti la guerra e i soldati. In vari frammenti del Bellum Poenicum si manifestano valori come la
virtus, la gloria, l'onore del soldato:

(LA) (IT)

«seseque ei perire mavolunt ibidem quam «ed essi preferiscono morire lì sul posto
cum stupro redire ad suos popularis.» piuttosto che tornare con vergogna presso i
concittadini.»

(Gneo Nevio[57]. )

È la prima opera a noi pervenuta che ci tramanda i valori degli antichi romani; qui si sofferma sul guerriero
romano. Non sappiamo se prima venivano messi in rilievo i valori romani, ma da qui partirà l'evoluzione di
questi in relazione al mos maiorum.

Successivamente compare nella scena Ennio, che negli Annales, come nella sua opera epica, oltre che di gesta
di eroi, si parla anche di valori verso l'ideologia aristocratica celebrando la storia di Roma, resa possibile grazie
alla virtus di singoli individui: grandi mores, come l'uso e il costume e i nobili e magistrati che hanno portato
prosperità a Roma, come Quinto Massimo. La descrizione di questi valori descritti da Ennio viene alla luce
grazie a ritratti di condottieri e uomini di potere; in un verso afferma persino:
(LA) (IT)

«Moribus antiquis res stat Romana «Lo Stato romano si fonda sugli antichi
virisque.» costumi e sui grandi uomini.»

(Quinto Ennio[58]. )

In questo verso possiamo notare la coesione e il collegamento tra gli antichi costumi, ovvero i mores come usi
e costumi, e i mores come valori della pristina romanità, secondo Ennio elementi fondanti della civiltà romana.

In questo periodo però qualcosa cambia, il successivo autore di cui abbiamo notizia che ci trasmette valori
ellenici è Tito Maccio Plauto, il quale è importante, poiché è una sorta di maestro di Terenzio a cui fa da
mediatore Plauto Cecilio Stazio. Infatti Terenzio, come il maestro, si ispira nelle sue opere teatrali a valori
ellenici sulla riga del maestro, però in questo caso lui aggiunge anche delle morali[59] cosa che invece Plauto
non faceva, grazie appunto a questi tre autori. Oltre al Circolo degli Scipioni, la cultura greca con la sua etica e
i suoi modelli saranno i mediatori della penetrazione della cultura ellenica in quella romana, anche grazie a
Pacuvio, Accio i poetae novi e la satira di Lucilio, fino a Lucrezio nel I secolo a.C. che trasmette alla plebe la
dottrina epicurea. Di non meno scarsa importanza è Catullo e i suoi carmen caratterizzati dalla ricerca
dell'amore e della voluptas, sottraendosi ai doveri e agli interessi propri del civis romano e dove assumono
importanza i sentimenti personali e non l'interesse e il benessere della collettività. Un'altra figura sulla scia di
Catullo è anche Properzio, insieme ad altri rifiuta il mos maiorum e i valori della civitas, preferendo
un'esistenza dedicata all'amore utilizzando l'elegia.

Il punto di svolta ha inizio quando gli antichi romani vennero a


maggior contatto e conquistarono territori nella penisola ellenica.
Roma fu sempre influenzata, anche se limitatamente, dalla cultura
greca durante il suo sviluppo, ma quando vennero maggiormente a
contatto con la loro cultura, gli studiosi romani impararono nuove
materie di conoscenza, come la dialettica, la filosofia, la logica e
queste furono applicate al diritto, un diritto che ormai, grazie
all'influenza greca, si stava man mano trasformando da tradizionalista,
con i riti e costumi romani, a ragionato e pratico: la nascita dei vari ius
civile, ius gentium, ius honorarium nati dallo studio dei giuristi e dai
loro pareri sui casi concreti da cui scaturisce dal diritto più pratico e
lontano dai tradizionalismi. A questo ambiente ellenizzante, si oppone
la figura di Catone il censore il quale dal 184 a.C. si presenta come
campione delle antiche virtù romane contro il degenerare dei costumi
e le manie di protagonismo ispirate dal pensiero greco[60]. Catone, a
favore dei valori antichi romani, scriverò anche diverse opere che ne
esalteranno le caratteristiche: il De agri cultura in cui si danno dei
precetti per il giusto comportamento di un proprietario terriero (pater Ritratto senile di cui è stato proposto
familias), da una parte come attività sicura, mentre dall'altra l'attività di Marco Porcio Catone come modello.
soldato, cioè espone le caratteristiche che doveva avere un buon
cittadino-soldato che si dovevano fondare su virtù come la
parsimonia, la duttilità e l'industria, valori tipici anche della precettistica dei mores maiorum nel tempo
successivo, il Praecepta ad filium:

(LA) (IT)

«Vir bonus, Marce fili, colendi peritus, cuius «Uomo buono, Marco figlio mio, è l'esperto
ferramenta splendent.» agricoltore i cui arnesi splendono.»

(Catone il censore[61]. )
(LA) (IT)

«Orator est, Marce fili, vir bonus dicendi «L'Oratore è, Marco, figlio mio, un
peritus.» gentiluomo esperto nel parlare.»

(Catone il censore[62]. )

il Carmen de moribus a noi non pervenuto ma ci sono pervenuti solo due frammenti dal Noctes atticae di
Gellio:

(LA) (IT)

«"Vestiri" inquit "in foro honeste mos erat, «Dice: nel foro era costume vestirsi in
domi quod satis erat. Equos carius quam modo decoroso, in casa (vestirsi) quanto
coquos emebant. Poeticae artis honos non bastava. Compravano i cavalli a prezzo più
erat. Si quis in ea re studebat aut sese ad caro dei cuochi. Non c'era onore nel fare
convivia adplicabat, "crassator" poesia e se qualcuno vi si applicava (alla
vocabatur".» poesia) o partecipava assiduamente ai
banchetti era chiamato parassita»

(Catone il censore[63]. )
(LA) (IT)

«Illa quoque ex eodem libro praeclarae «Dallo stesso libro si trae anche quella
veritatis sententia est: "Nam vita" inquit sentenza di chiarissima verità: «Infatti la
"humana prope uti ferrum est. Si exerceas, vita umana è quasi come il ferro. Se la
conteritur; si non exerceas, tamen robigo eserciti. Se non la eserciti, tuttavia, la
interficit. Item homines exercendo videmus ruggine la distrugge. Parimenti vediamo
conteri; si nihil exerceas, inertia atque uomini consumarsi esercitandole»
torpedo plus detrimenti facit quam
exercitio".»

(Catone il censore[63]. )

In queste opere l'obbiettivo di Catone è la lotta contro il Circolo degli Scipioni, non tanto per combattere
contro la cultura greca in se stessa, ma per contrastare i suoi elementi illuministici di critica e di pensiero sui
valori; infatti per Catone le due culture, Romana e Greca, avrebbero potuto coesistere, ma la prima non doveva
aver l'ardire di corrodere le sue basi etico-sociali costituite dai mores, dall'azione di critica della seconda.
Anche se man mano inevitabilmente la cultura greca fluirà in quella romana.

Nei pochi frammenti giunti a noi dell'opera satira di Lucilio, traspare la sua tecnica di satira e di lamento nei
confronti della politica e delle condizioni sociali[64] del suo tempo ma non solo, dai frammenti pervenutici ci
trasmette anche di un valore importante, quale l'Urbanitas (il bon ton)

Figura emblematica sulla scia di Catone e di Panezio, dal quale riprende molti pensieri, è quella di Marco
Tullio Cicerone, che, tramite le sue orazioni e opere filosofiche, vuole dare una base ideale, etica, politica
ripresa dalla tradizione dei mos maiorum alla classe dominante però consentendo l'assimilazione della cultura
greca, senza eliminare i valori fondamentali romani, come l'otium e l'humanitas. Tra le opere più significative
testimoni di questa linea di pensiero ci sono il De oratore, qualche sentenziae del Pro Sestio. L'humanitas si
classificava come codice di buone maniere, oltre ciò Cicerone andava contro l'epicureismo, cioè il disinteresse
per la politica, cosa che Cicerone non poteva sopportare poiché un uomo romano si deve interessare alla
politica e alla vita pubblica. Cicerone nella sua opera Cato maior idealizza Catone come simbolo della
vecchiaia, visto come valore, e dall'altra con l'opera, Laelius, parla del suo amico Lelio e dei fondamenti
dell'amicizia, intesa come valore. Non meno importante è il De officiis, opersa fondante sullo stoicismo di
Panezio per formulare una morale contro il disimpegno politico dell'epicureismo illustrado valori come
l'honestum, l'utile, la beneficentia, la magnitudo animi, il decorum e il galateo.

Anche Varrone si occupa dei costumi e si rende conto, come i suoi predecessori, della loro decadenza e ne
parla nell'opera satirica, Saturae Menippeae. Emblematica è il Sexagensis che racconta di un ragazzo che
addormentatosi si risveglia dopo sessant'anni e si accorge che Roma è cambiata in peggio.

In seguito Cornelio Nepote scrive un'opera sull'argomento dei valori romani; nel suo caso però, col De viris
illustribus si sofferma sui caratteri originali di Roma antica, della sua tradizione, e dei suoi valori, mettendoli
però a confronto con le tradizioni di altri popoli e compiendo un'analisi sui popoli, secondo cui, questi si
distinguono tutti dagli altri con i loro maiorum instituta, però senza criticare come invece fanno Catone o
Cicerone.

Sallustio con le sue opere come per esempio il Bellum Catilinae, raccontò di vari personaggi del periodo in cui
visse Catilina, tra cui Catone e Cesare messi a confronto, e ai cui personaggi rifilerà dei valori ben precisi[65]:
un Catone caratterizzato da integritas, severitas, innocentia e magnitudo animi, e un Cesare con munificentia,
misericordia, anche lui con magnitudo animi, affermando che tutti e due erano positivamente importanti per lo
Stato romano. Tramite queste opere-ritratto, Catone esporrà i valori tipici degli antichi romani, che, secondo lui
caratterizzavano alcuni personaggi della storia. Oltre ciò conduce anche una riflessione sul dilagare del
malcostume, che sempre secondo il suo pensiero, è dovuto a continue lotte tra le varie fazioni.

Riguardo a Gaio Giulio Cesare, importanti per il mos maiorum e la sua analisi, sono le opere del De bello
Gallico, in cui si racconta della sua campagna militare in Gallia, senza però soffermarsi alla semplice cronaca
di guerra, ma analizzando il mos gallicus e la struttura politica gallica, con a capo la figura dei druidi. Questa
opera svela che la struttura politica-giuridica della Roma più antica con i suoi sacerdoti e il collegio dei
Pontefici non era molto dissimile da quella gallica. Nel De bello civili, oltre alla guerra civile, Gaio Giulio
Cesare si sofferma su valori come la pax e la clementia. Ma la vera svolta nei suoi commentarii si trova nel
l'esaltazione dell'onore e del valore dei soldati, elogio che si configura come un primo esempio di promozione
dei valori della romanità antica, come faranno poi Augusto e Marco Aurelio, e non semplicemente di studio
filosofico o protesta contro la decadenza dei costumi, avvenuta sino ad allora.

Età alto-imperiale

Nel passaggio dalla Repubblica al principato, centrali furono le figure di Augusto e Mecenate e la loro attività
propagandistica dei valori romani, come unione della comunità, l'osservanza dei quali era utile per il benessere
della collettività. Viene instaurandosi un tentativo di ripristino degli antichi valori dopo la continua crisi e la
loro inosservanza nel periodo precedente, dovuta al dilagare della crisi, in tutti gli ambiti, e in tutto l'impero. I
più grandi poeti, anche se legati a Mecenate, non si sentono in realtà obbligati a far risplendere i valori romani
nelle loro opere, poiché li sentono anche loro importanti, e le loro idee coincidono con quelle propagandistiche
di Augusto. Ma vediamo come rispondono a questa richiesta di propaganda i vari autori:

Se Teocrito mette in risalto il mondo pastorale nella sua semplicità con la sua poesia, Virgilio lo imita ma lo fa
anche suo nella prima giovinezza, e come risultato ottiene le Bucoliche. Più avanti scriverà un'opera, le
Georgiche, apparentemente ispirate, a causa della crisi, da un programma augusteo di ripristino del mondo
agricolo, delle quali non ne risulta traccia. Invece si coglie il collegamento tra Virgilio e la propaganda
ideologica augustea, dove vengono esaltate le tradizioni nazionali dell'Italia contadina e guerriera, culminato
nella guerra contro Antonio, dove Virgilio persegue il mito nazionale dell'unità italica, per la tradizione, mentre
per divinizzare il princeps viene scritta anche l'opera dell'Eneide.

Orazio, a differenza degli altri autori, decide di analizzare, tramite la satira, i vizi invece dei valori. Vizi come
gli eccessi, la stoltezza, l'ambizione, l'avidità, l'incostanza, il tutto, volto, non a cambiare il mondo, ma soltanto
a trovare una soluzione alla crisi, che pochi possono percorrere. Con il tempo la sua voce satirica viene meno,
a causa delle dure critiche ricevute.

Al tempo di Nerone, fu Seneca a illustrarci valori come la beneficentia e la clementia, attraverso la stesura del
de beneficiis e il de clementia: Nel primo ci illustra il rapporto tra benefattore e beneficiato, nel secondo illustra
a Nerone come si comporta un buon imperatore, il cui valore massimo deve essere la clementia. Lui credeva
che con la sua filosofia un imperatore guidato bene poteva diventare un buon imperatore, forse era questa la
sua risposta alla crisi.

In epoca flavia, stanco della realtà corrotta di Roma e delle false virtù ostentate ma non praticate, Giovenale,
tramite la sua satira, prende di mira personaggi della sua epoca denunciandone la corruzione; descrive i suoi
desideri, una città di Roma ritornata agli albori pastorali, che, secondo lui sono il periodo storico migliore mai
vissuto dagli abitanti della città.

Tramite le opere di Stazio gli imperatori dell'età Flavia pretendono di esercitare un controllo sulla cultura, come
in realtà cerco di fare anche Nerone, tentando un programma di restaurazione sia civile sia morale. Stazio con
le Silvae, e la sua retorica fatta con celeritas, analizza i valori tipici di quel periodo imperiale. Tra questi
menziona la simplicitas, già ripresta da Ovidio nelle Epistulae, e ancor prima da Seneca. Poi riprende alcune
idee di Cicerone, ma sarà utilizzata anche da autori successivi, quali Plinio il Giovane e Marziale.

Una figura un po' a parte è Quintiliano, il quale vede una Roma completamente allo sbando con la crisi
dell'eloquenza. Le sue opere si soffermano sulle virtù e i valori che devono possedere un buon insegnante e un
buon oratore, analizzando in modo preciso l'arte della retorica, e i rimedi per uscire sia dalla crisi sia dalla
corruzione dell'oratoria e dell'eloquenza.

Più tardi anche con Tacito conosciamo i valori: un esempio è nell'opera, De vita et moribus Iulii Agricolae
dove esalta il suocero Giulio Agricola per la conquista della Britannia. In quest'operà ci trasmette proprio della
virtù guerriera: la virtus. Non solo esalta la figura del suocero, anche quando era sotto un brutto imperatore,
come Domiziano, ma anche la sua fedeltà, moderazione e operosità.

Quando ormai sembra che l'influenza alessandrina abbia avuto la meglio sulla cultura romana e la tradizione,
ecco che osserviamo la produzione di un'opera di eulogia.[66] Abbiamo un'esaltazione delle Gesta di Augusto,
ma sotto la spinta descrittiva della tradizione romana, ma non ellenica, al tempo dell'imperatore Marco Aurelio
e tra gli imperatori propagandisti degli antichi valori romani.

A differenza degli altri, però, non si limita semplicemente a propagandarlo tramite gli intellettuali dell'epoca
nelle loro opere, ma afferma la sua convinzione, anche nella sua opera senile, "Ricordi o Colloqui con se
stesso" dove espone, secondo lui, quali sono gli autentici valori della romanità. Sono a tal proposito illuminanti
le parole dell'imperatore Marco Aurelio:

«Pensa in ogni momento che sei un romano e un uomo e che devi eseguire ciò che hai tra
le mani con dignità coscienziosa e sincera, con benevolenza e libertà e giustizia.»

Traspaiono qui gli antichi ideali romani della virtus, della gravitas e della iustitia. Marco Aurelio sentiva il
dovere di mettere tutte le sue energie al servizio di tutti, di subordinare ogni suo sentimento e azione
all'interesse di tutti.

Crisi del III secolo ed età tardo-imperiale, fino a Giustiniano

Aulo Gellio con le sue Noctes Atticae è un osservatore attento e scrupoloso dei periodi precedenti, e soprattutto
del loro pensiero. Anche in quest'opera troviamo valori tipici romani ripresi da altri autori più antichi; Aulo
Gellio li riprende e li fa propri esaltando alcune personalità del passato e le loro idee. Un altro, uno degli ultimi,
è lo storico Eutropio, uno degli ultimi innovatori della cultura dei
valori e della morale romana col suo compendio, il Breviarium ab
Urbe condita. Ripercorrendo il lascito degli storici precedenti, in Aulo
Gellio traspare nostalgia, sia per il passato e per la vita pastorale, sia
per il grande periodo monarchico.

Dal I secolo viene a diffondersi lentamente la religione cristiana


assiduamente combattuta dagli imperatori, poiché i cristiani non
riconoscono come dio la figura dell'imperatore e vengono perseguiti
sino alla fine del III secolo. Ma all'inizio del IV secolo ecco che il
Cristianesimo si fa largo nella cultura romana. Con la crisi religiosa il
cristianesimo, molto lentamente, ma inesorabilmente, sostituisce il
paganesimo, nonostante le continue lotte da parte dei rappresentanti di
quest'ultimo. L'influenza del cristianesimo nella cultura romana è
anche più forte rispetto alla cultura ellenica; lentamente cambiano i
modi di pensare, gli antichi valori romani vengono sostituiti dai valori
cristiani di libertà e uguaglianza di soggetti considerati fratelli gli uni
con gli altri. Con i vari editti prima il cristianesimo viene permesso[67]
poi diventa unica religione di Stato e qualificata come, cattolica[68], Edizione del Digesta (XVI secolo),
perciò la stessa concezione della vita cambia rispetto ai valori della parte del Corpus Iuris Civilis di
tradizione. Però questi vengono ricordati comunque negli scritti, come Giustiniano I.
parte di una cultura.

Come già detto in precedenza, i valori della romanità vengono soppiantati da quelli del cristianesimo,
comunque, al tempo di Giustiniano I si formalizzò, attraverso uno studio dei Giuristi classici, una raccoltà delle
loro idee, e di conseguenza anche dei valori in cui credevano: è il caso dell'opera del Digesto, nella quale si
raccoglieva in un'unica opera i frutti della secolare produzione della giurisprudenza romana.

Valori fondamentali della romanità nei mores maiorum

Tutti gli aspetti della vita, compresi i vari ambiti del diritto pubblico e privato, sono stati immensamente
influenzati dal costume, formatosi nel corso dei secoli. Alcuni dei suoi componenti meritano una particolare
attenzione a causa della loro importanza nel quadro dei maggior mores maiorum. Queste componenti della
tradizione rappresentavano una classe di valori che distinguevano il vir bonus[69] dagli altri, e alcuni di questi
cominciarono ad assumere una tale importanza nella cultura romana da essere addiruttura divinizzati e resi
antropomorfi sotto forma di oggetti o animali, vediamoli uno a uno:

Fides
Eliogabalo: Antoniniano[70]
La parola latina fides ha molti significati; comunque, questi sono
tutti basati su principi simili: verità, fede, onestà e affidabilità. Può
essere vista in uso con altre parole per creare termini come bonae
fidei[71] o fidem habere[72]. Nel diritto romano, il concetto di fides
rivestì un ruolo importante. Come in tutte le culture antiche, i
contratti verbali erano molto comuni nella vita quotidiana romana, e
così la buona fede permetteva transazioni commerciali fatte con
IMP CAES M AUR La dea Fides tra maggior fiducia. La fides si riscontra anche nel rapporto tra
ANTONINUS AVG, due stendardi patronus e cliens, tra coniugi, ecc. Se questa buona fede viene
busto di Eliogabalo dell'esercito tradita, la persona offesa potrebbe intentare una causa contro l'altra
rivolto verso destra romano e la che l'ha tradita.
legenda Fides
laureato, busto EXERCITVS Come dea romana, Fides rappresentava un culto molto antico. Il
con drappeggio; ("lealtà primo tempio in suo onore risalirebbe a Numa Pompilio[73],
dell'esercito"). edificato nella città di Roma. Era la dea della buona fede e
29 mm, 24.45 g, 12 h; coniato nel 219.
presiedeva ai contratti verbali. Venne descritta come una donna
anziana, ritenuta più vecchia di Giove. Il suo tempio è datato
intorno al 254 a.C. e si trova sul colle Capitolino di Roma, vicino al Tempio di Giove. Livio si insinua nei
dettagli del culto di Fides e nella sua storia di Roma. I suoi rituali venivano praticati dai flamines maiores, i
sacerdoti più importanti, dopo il Pontefice, degli antenati. Questi sacerdoti hanno proposto, nel luogo della
celebrazione, la creazione del santuario di Fides in un carro coperto, trainato da una coppia di cavalli. Dal
momento che si assumeva che la Fides abitasse nella mano destra di un uomo; essa venne rappresentata,
durante il periodo storico dell'Impero Romano, su monete con un paio di mani coperte, a simboleggiare la
credibilità delle legioni e dell'imperatore. La copertura delle mani riflette il culto di Fides, in cui l'uomo esegue
il sacrificio di coprire le sue mani con le dita per preservare la buona fede religiosa.

Pietas
Antonino Pio: Æ Sestertius[74]
Pietas non è l'equivalente del moderno derivato "pietà". La pietas
era l'atteggiamento romano del dovuto rispetto verso gli dèi, la
patria, i genitori e altri parenti. All'inizio si riferiva alla famiglia, e
alla fiducia e al rispetto tra coniugi, poi, la concezione del rapporto
si estese tra uomo e divinità: in realtà, non si deve solo parlare di
rispetto, ma anche di legame sentimentale e affettivo; gli studiosi lo
definiscono amore doveroso. L'accezione del termine comprendeva
anche un senso di dovere morale, non solo la mera osservanza dei IMP AELISU CAE- La dea Pietas in
riti[75]. Come conseguenza la pietas esigeva il mantenimento di SAR ANTONINUS, piedi di fronte con
buone delle relazioni un po' con tutti, e non solo, rispettosamente e busto di Antonino la testa rivolta
moralmente parlando. Secondo Cicerone, "pietas è la giustizia Pio rivolto verso verso sinistra,
verso gli dèi," e, come tale, richiede la presenza, più di un destra; tiene una scatola
osservatore dei rituali per il sacrificio e di corretta esecuzione di di incenso nella
questi, ma anche la devozione e rettitudine interiore della persona.
mano sinistra e
La pietas potrebbe essere visualizzata in molti modi. Per esempio,
sparge incenso
Giulio Cesare mostrò pietas durante la sua vita, sia cominciando nel
con la destra su un
52 a.C. e sia dedicando nel 48 a.C., dopo la battaglia di Farsalo, un
altare acceso.
tempio a Venere Genitrice. Il tempio è stato dedicato a Venere,
come la madre di Enea e quindi l'antenato degli Iulii, la gens di 30 mm, 24.56 gr, 6 h; coniato nel 138.
Giulio Cesare.

Augusto, dopo la morte di Marco Antonio e Marco Emilio Lepido[76], ha costruito un tempio di Cesare, al fine
di onorare il suo padre adottivo. Così, alcuni romani, a causa del loro ruolo di pii cittadini, hanno adottato il
cognomen Pio. L'imperatore Antonino Pio, ricevette questa aggiunta al suo nome a causa del suo ruolo nel
convincere gli anziani del Senato a divinizzare il suo padre adottivo in pubblico, l'imperatore Adriano, per la
pietas che ha mostrato verso il suo padre biologico.

Tale è stata l'importanza della pietas, che, nel 181 a.C., in base a Livio, venne costruito un tempio dedicato.
Analogamente agli altri concetti astratti nella cultura romana, la pietas è apparsa spesso in forma antropomorfa,
e talvolta accompagnata da una cicogna[77]. Venne anche adottata da Augusto come pietas Augusta, per
visualizzare la sua pietas, come si può vedere su monete del periodo. Però Cicerone, nel De inventione[78], ci
illustra una più alta pietas, ossia del rispetto del cittadino nei confronti dello Stato, che, nel De re publica,[79] la
definisce la pietas maxima; successivamente, con Virgilio, nell'Eneide[80], la pietas viene a identificarsi con
l'humanitas e la misericordia e si trasforma da forma di rispetto per i consanguinei nel provare pietà per la
sofferenza altrui.
Maiestas

La Maiestas sta a indicare nella Roma antica la dignità dello Stato come
rappresentante del popolo. Proprio questo mandato da parte prima delle
istituzioni repubblicane, poi con la trasformazione del governo
repubblicano in uno imperiale, ha fatto sì che l'imperatore stesso fosse
investito di questa majestas e rappresentante del popolo. Da qui viene a
crearsi il principio del laesa maiestatis, ovvero crimine verso lo Stato,
di quegli individui che deturpavano le opere pubbliche, o nei confronti
dell'imperatore o del senato romano rappresentanti della majestas e che
venivano puniti gravemente poiché il crimine veniva visto come lesione
all'intera comunità che l'imperatore e il senato o gli organi del governo
romano rappresentavano. Maiestas, però, ha un altro significato, ossia
quello inerente alla grandezza in riferimento al popolo, cioè l'essere fieri
di essere un appartenente al popolo romano come miglior popolo,
superiore e migliore rispetto agli altri popoli conquistati, una sorta di
coscienza di essere quasi un popolo eletto. Enea che porta sulle spalle il padre
Anchise e tiene per mano il figlio
Iulo diviene un'icona della pietas.
Virtus Terracotta, Museo archeologico di
Galerio: Æ Follis[81] Napoli
Il termine “Virtus” deriva dal
termine latino “vir”
("uomo") e indica l'ideale del vero maschio romano. Molteplici
sono gli aspetti della virtus. Il poeta Gaio Lucilio afferma che la
virtus per un uomo è sapere ciò che è bene, male, inutile e
vergognoso o disonorevole. In origine designava il valore in
battaglia dell'eroe e del guerriero. La virtus è tale solo se non viene
IMP MAXIMIANUS VIRTUS AVGG ET
utilizzata per scopi personali, bensì per l'interesse della comunità
(si intende in CAESS NOSTR, romana. Dal I secolo a.C. però la virtus non sarà più vista come al
questo caso: Gaio l'Imperatore servizio dello Stato, ma si separerà da questo ideale per ottenere un
Galerio Valerio Galerio, scudo al obiettivo più pratico: distinguersi dagli altri. La virtus
Massimiano) P F braccio sinistro, a originariamente si trasmetteva da padre in figlio, successivamente,
AVG, busto di cavallo verso dal I secolo a.C. la concezione di virtus cambia: non è più ereditaria,
Galerio rivolto destra; trafigge un ma è necessario ottenerla con impegno, superando le gesta degli
verso sinistra nemico a terra, antenati.
laureato, con elmo mentre un
e corazza. Tiene la secondo nemico e
Gravitas
lancia o uno sdraiato a terra; in
scettro sulla spalla esergo AQ La Gravitas, da non confondersi con la parola moderna gravità,
destra, scudo al P(rima). rappresentava il valore della dignità e dell'autocontrollo. Di fronte
braccio; alle avversità, un "buon" romano deve avere una facciata di
28 mm, 8.64 gr, 6 h (prima officina), imperturbabilità. Mito e storia romana raccontano storie di figure
coniato nel 305-306. come Gaio Muzio Scevola, descrivendole come esempi di gravitas.
Alla fondazione della Repubblica, il re etrusco Lars Porsenna aveva
assediato la città di Roma, e, con la città in crisi, Scevola tentò di assassinare Porsenna. Tuttavia, Scevola fu
catturato. Quando il re minacciò Scevola di tortura, se non avesse risposto alle sue domande su Roma, Scevola
pose la sua mano destra su un braciere e la tenne con grande gravitas (auto-controllo). Si racconta che il re,
visto il valore di Scevola, rinunciò a Roma. La gravitas di Scevola, non solo gli valse il nome scevola
("mancino"), ma contribuì inoltre a convincere Porsenna a non attaccare i Romani, strabiliato dalla loro
fermezza. Dunque la gravitas implica un atteggiamento serio, calibrato, come richiedono le circostanze, senza
nessun eccesso. Questo vale per il periodo arcaico e in parte repubblicano. Invece per l'età imperiale la
gravitas appare molto meno negli scritti, e, dove se ne parla, il concetto è cambiato rispetto al periodo
precedente, dove adesso viene a configurarsi come un falso atteggiamento giocondo, gentile e dolce, ovvero la
capacità di adattamento del cortigiano o del cliens che fa qualsiasi cosa per ottenere il favore del patrono o del
principe.

Altri valori della romanità

Oltre ai valori fondamentali dei mores, gli imperatori con le loro decisioni stabilivano quali fossero i valori da
rispettare per rendere la comunità migliore. Dall'altra parte gli autori latini[82] sostenevano i loro valori e buoni
costumi, basandosi sulla tradizione dei periodi precedenti, senza trascurare la nuova realtà della civitas in cui
vivevano. Ovvero, facevano un identikit del bonus civis, e individuavano i numerosi valori a cui prestar fede,
strettamente correlati gli uni con gli altri:

Amicitia

L'Amicitia nell'idealistica romana non intende semplicemente il nostro concetto di amicizia, ma in senso più
ampio il legame di alleanza che ci può essere tra due nazioni o il rapporto tra patronus e cliens. L'amicitia è
vista dagli antichi romani, come valore volto a perseguire comuni interessi, rappresentato anche da una
divinità. Il termine amicitia però si avvicina anche al nostro termine amicizia, soprattutto nel II secolo d.C.,
collegato a amicus e amor. Lo stesso cliente del patronus veniva definito amico, anche se vi era una differenza
di trattamento tra clienti più intimi e quelli considerati "meno amici" ; infatti esistevano diverse "categorie di
amicizia", in questo caso, in realtà, chiamare amicus il cliens era semplicemente un fenomeno di cortesia,
potendo benissimo essere imposto.

Ambitiosa morte

Il valore del suicidio: i romani lo consideravano una forma di morte nobile, piuttosto che una vita vissuta senza
dignità. È un gesto considerato molto rilevante, sia politicamente sia pubblicamente, che riscuoteva molta
approvazione nella cultura romana. Nel periodo imperiale poi, questo atteggiamento diventa molto rilevante, e
quasi di moda, per protestare contro i tiranni imperiali. L'archetipo del suicida viene rappresentato da Catone
l'Uticense, in protesta allo strapotere di Cesare, oppure il suicidio di Petronio, che muore discutendo con gli
amici, quasi si fosse addormentato, oppure ancora, il suicidio di Seneca, ma la storia romana antica ne
annovera molti altri.

Abstinentia

Disinteresse, onestà, integrità morale. Definisce l'atteggiamento disinteressato, specialmente dell'amministratore


nei confronti della cosa pubblica.

Aequitas

È il sentimento che ispira l'eguaglianza e la giustizia, soprattutto in ambito giuridico; esempi ne fa Ulpiano,
descrivendo la vera giustizia.

Auctoritas

L'Auctoritas è il valore del prestigio e della fiducia che un uomo, in possesso di questo valore dà, all'inizio
collegato alla religione significava far accrescere, aiutare altri. In un secondo periodo, quando divenne un
valore tipicamente laico, individuò l'affidabilità, l'ascendente, cioè la sua capacità di influenzare gli altri[83].
Questo secondo stato consiste in un equilibrio tra potere politico e prestigio sociale, la credibilità, la
responsabilità personale. Cicerone, invece, la considera un insieme di Dignitas e Virtus. L'Auctoritas in questo
caso è una forma altissima di potere, che non si ricollega necessariamente al potere politico, ma esercità la
costrizione o il comando tramite la forza di persuasione, grazie al proprio carisma. L'Auctoritas implica una
serie di diritti e doveri da chi ne è insignito, per esempio l'attribuire cariche pubbliche o tenere fede ai propri
impegni presi. La figura che storicamente se ne avvicina è Ottaviano Augusto che esercitò la sua autorità, non
tanto per i poteri che possedeva, ma sapendo dar un ordine senza imporlo, convincendo i propri sottoposti e
avendo rispetto per le istituzioni pubbliche.

Benignitas

Bontà benevolenza correlato sia con l'Humanitas sia con la Clementia

Clementia

La Clementia è il valore che tenta di moderare l'animo nei confronti


della sconfitta, senza esercitare vendetta, oppure nella dolcezza del
superiore che guarda le pene dell'inferiore e ne prova pietà. È
correlata alla benevolentia o alla Magnitudo animi. È il
comportamento di un uomo che detiene il potere in una determinata
situazione ma non si fa dominare dall'ira e dalla crudeltà ma dalla
benevolenza, vincendo gli impulsi negativi: il rapporto per esempio
del buon paterfamilias nei confronti dei figli alieni iuris o del buon
romano verso i vinti. Bisogna fare una precisazione però, poiché
secondo Cicerone, bisogna essere clementi contro chi si arrende e si
sottomette ma spietati con chi invece si ribella: gli hostes. Questa è
una caratteristica che si denota da parte dei Romani nei confronti delle
popolazioni vinte, soprattutto quando l'impero si estenderà in maggior
misura, concedendo anche agli stranieri posizioni di rilievo nella
politica romana.

Concordia
Submissio o Clementia
Concordia, accordo, armonia; all'inizio era considerato all'infuori della (sottomissione di un capo barbaro):
sfera politica, ma poi, con l'influsso greco viene ad assumere L'imperatore Costantino I-Marco
importanza, sia per la sfera politica, sia filosofica. Aurelio, con alle spalle Pompeiano, è
su un alto podio davanti ai soldati e
Consilium agli aquiliferi con signa, e con un
gesto di clemenza assolve un
Saggezza, ponderazione, capacità di deliberare. La parola, ricca di principe barbaro che protegge il figlio
implicazioni, appare come uno dei valori della più antica latinità, e giovinetto con un braccio sulla spalla
indica la riflessione condotta con calma e in piena indipendenza di (Arco di Costantino).
giudizio.

Constantia

Fermezza, costanza, tenacia, forza d'animo, coerenza. La parola in sé designa la salda perseveranza, la stabilità
di un comportamento e di una virtù etico-politica, tipicamente romana. Questo valore, accoppiato con la
gravitas, ha svolto un grande ruolo nella storia e nel successo del popolo romano. La Constantia permetteva di
tenere i Romani concentrati e attivi nei momenti di grande turbolenza e devastante sconfitta, come ad esempio
la campagna di Annibale Barca, in poche parole il valore del non arrendersi mai.

Cultus

È l'osservanza obbligata e la corretta esecuzione dei rituali nei confronti della divinità. Le pratiche religiose
romane sono state orientate verso la corretta esecuzione di riti, non verso l'etica e la morale della persona. Gli
dei sono lieti se i riti vengono fatti con attenzione dai romani, perciò questi sperano di ottenere un favore
attraverso l'esecuzione di sacrifici e di altre formule rituali, se fatte in maniera corretta.

Decorum
Decoro, decenza, ciò che si addice a una determinata persona su certi aspetti simile alla Nobilitas.

Dignitas

La dignitas è il valore della dignità e prestigio di un cittadino romano, e alla considerazione di ciò, da parte
degli altri. Questo però riguarda la parte superficiale del prestigio, cioè il rispetto degli altri in senso superficiale
e non interno, come l'auctoritas. La dignitas è uno dei risultati finali volti a visualizzare i valori dell'ideale
romano e il servizio dello Stato nelle forme di primato, posizione militare e magistrature. dignitas fu il valore
della reputazione, dell'onore e della stima. Così, un romano che mostrasse loro gravitas, constantia, fides,
pietas e altri valori, sarebbe diventato un romano in possesso di dignitas tra i loro coetanei. Allo stesso modo,
attraverso questo percorso, un romano potrebbe guadagnare auctoritas , "prestigio e rispetto".

Disciplina

Disciplina, educazione, formazione civile e militare del cittadino. Disciplina è per il romano fondamento
indispensabile dello Stato, visibile attraverso la disciplina militare e in tutti i campi della vita.

Exemplum

Esempio, modello. È il valore costituito da un'azione gloriosa compiuta da un antenato, in dovere di imitare e
moltiplicare.

Gingillatio

Valore affermatosi nella tarda latinità, il termine designa una moderata ricerca del piacere senza lasciarsi andare
alla sfrenatezza, ma rispettando se stessi e l'ideale di enkràteia (moderazione). Alcuni studiosi sostengono che
tale valore si sia inserito all'interno del mos maiorum grazie all'affermazione sempre più crescente del
cristianesimo[84].

Gloria

La gloria è la fama che si ottiene dopo aver compiuto azioni valorose, perciò strettamente collegata alla virtus,
per non essere inferiore agli antenati. Elemento che caratterizza la società aristocratica all'inizio seguito anche
dal civis novum . Si può anche esprimere come riconoscimento e lode da parte della comunità. Anche la gloria
in un primo momento viene ritenuta trasmittibile di padre in figlio e solo successivamente ritenuta da
conquistarsi con le proprie gesta.

Honor

Onore cioè la posizione onorifica dopo un dato gesto legato alla virtus e alla gloria.

Riesumatio

Onore riservato alle salme dei defunti ormai sepolte consistente nell'offrire ai morti cibi e bevande, come se
fossero vivi, per favorire la decomposizione e allietare la vita nell'Ade.

Humanitas

Era il valore che ci contraddistingue dagli animali e dalle belve feroci e dagli esseri primitivi, ovvero il valore
della comprensione e della benevolenza della cultura del buon gusto e dell'eleganza. L'Humanitas in questo
caso non è relativa al ruolo di cittadino o del militare, ma riguarda la persona in se stessa, l'individuo.
L'Humanitas a un certo punto diviene sempre più elitaria, ovvero patrimono esclusivo dei ceti aristocratici, che,
con la loro educazione superiore tentano costantemente di affinarla: disponibilità, indulgenza, mitezza,
dolcezza, moderazione. Nel periodo imperiale questo valore verrà meno, poiché ritenuto un atteggiamento
della aristocrazia e di educazione superiore. Viene così a identificarsi nel periodo imperiale una nuova
Humanitas popolare che indica affidabilità, gentilezza e buon carattere senza implicare l'educazione superiore.

Industria

Attività, operosità. Il termine designa il valore che spinge l'uomo politico alla zelante collaborazione
nell'ambito dello Stato.

Libertas

Libertà. atteggiamento libero fuori dagli artifici in grado di fronteggiare con fermezza qualsiasi situazione
esterna. Tipico dell'aristocrazia romana.

Magnitudo animi

Grandezza d'animo, magnanimità, designa l'atteggiamento distaccato e grandioso con cui il cittadino,
soprattutto il nobile, si comporta nei rapporti con gli altri.

Nobilitas

Rappresenta in senso astratto, l'aspirazione a essere degni delle virtù degli antenati.

Otium

Se per il modello di cittadino arcaico l'Otium significava assenza di occupazione da parte del cittadino-soldato
che o coltivava o combatteva, in età repubblicana viene a identificarsi, a grandi linee da Cicerone, con la
mancanza di attività. L'influenza greca però, vide invece l'otium come riposo dalle attività quotidiane nei
confronti dello Stato, volto a studio intellettuale: da questo nasce in un secondo momento lo sforzo di Cicerone
di vedere l'otium come attività positiva,[85] con delle differenze da quello greco. Infatti nel caso romano viene
visto come tranquillità dell'esistenza privata, dedicata ad attività intellettuali, tipo letteratura e filosofia.
Cicerone vede l'otium come attività anche politica volta a migliorare la città. Nella tarda repubblica si
individuano due otium: otium luxuriosum dedito a occupazioni di nessuna utilità o vergognose e otium
tranquillum, sereno e imperturbato del saggio che lavora intellettualmente.

Pax

Esistevano all'epoca romana due valori inerenti alla Pax: la Pax Vespasiano: Æ Sesterzio[86]
animi, ovvero la serenità e tranquillità del singolo individuo, e la
Pax dello Stato. Questo secondo valore era più complesso, infatti
viene messo in rilevanza solo a partire dall'età augustea, poiché si
denota che attraverso la pax si genera anche il benessere e il buon
sviluppo dello Stato, che, con le guerre non c'era stato. Da qui viene
a configurarsi come valore, poiché dalla pax deriva l'impero e la
situazione di sicurezza del singolo cittadino che non si vede più
minacciato da guerre e può vivere serenamente. Già Cesare aveva IMP CAES PAX AUGUSTI, la
dedicato templi alla dea Pace nel 49 a.C. poiché si era reso conto VESPAS AUG PM dea Pace in piedi
dell'importanza per un popolo essere in pace; questa filosofia fu poi TRP PP COS III, verso sinistra,
proseguita da Augusto che ne introdusse il culto a Roma con l'Ara testa laureata tiene un rametto e
Pacis, un altare dedicato alla dea Pace alla fine delle campagne verso destra; una cornucopia; S
militari in Spagna, infine, lo stesso imperatore Vespasiano farà C in esergo.
costruire il Tempio della Pace. In realtà anche precedentemente
3.34 gr coniato nel 71.
nell'età regia assumeva una certa rilevanza: lo stesso Numa Pompilio desiderava che il tempio di Giano fosse
aperto nel periodo di guerra e chiuso in quello di pace. Molti poeti insistono sulla pace come portatrice di
fertilità, benessere e di valori sempre positivi.

Pudor

Pudore, moralità delinea la riservatezza del cittadino romano che preferisce parlare di certe cose in privato
piuttosto che in pubblico, oltre a designare la castità e la dignità, in correlazione anche con la modestia.

Religio

Non era "religione" nel senso moderno della parola. Religio è legato al verbo latino religare, nel senso di
"legare". Nella mente degli antichi romani, la religio ha rappresentato un legame tra la divinità e i mortali.
Questo legame è più il rispetto e l'obbligo di soggezione e di superstizione, collegata alla pratiche religiose e
alle usanze degli antichi Romani: sia gli uomini sia le donne avrebbero dovuto essere consapevoli di questi
legami per onorare la divinità attraverso le osservanze religiose, nel tentativo di mantenere una pax deorum[87].
In conformità con il sostantivo, l'aggettivo religiosus rappresentava un'esaltazione della pratica religiosa, fino al
punto di sfiorare la superstizione. Secondo i Romani la religio è considerata come una parte necessaria della
vita, in modo da mantenere l'ordine e la consuetudine nella comunità o in misura maggiore, nel mondo. La
motivazione alla base di queste osservanze, non è moralmente fondata sui valori moderni giudaico-cristiani, ma
sull'appagamento degli dei e l'aspettativa di premi. Per garantire una vittoria si fa la promessa di un tempio a
una divinità, o, nella speranza di alleviare le difficoltà, i membri della comunità compiono sacrifici. Livio
implica questa necessità nella sua descrizione della cattura della statua della dea Giunone da Veio. Rileva che
si è contro la religio degli Etruschi se si tocca la statua, a meno che non si sia un membro del sacerdozio o lo si
diventi per eredità. I soldati romani a loro volta, sono puliti, se non onorano la dea. Questo non è legato alla
pietas e la sua moralità intrinseca, ma invece è stato correlato al concetto di cultus.

Simplicitas

È il concetto di vivere secondo le origini in maniera semplice tipico dell'età arcaica, nell'età repubblicana
assumerà un notevole valore poiché questo verrà visto anche come esporsi a grossi rischi, poiché poneva il
soggetto a non prestare attenzione ai pericoli, soprattutto duerante il periodo dell'età imperiale, piena di giochi
di potere e di personaggi ipocriti, come afferma Seneca. Così nell'età imperiale il valore della simplicitas
assume un nuovo valore di atteggiamento spontaneo, rilassato, esercitandola però, con misura, cioè adattandosi
alla nuova epoca, dove la simplicitas non basta più se non si vuole incorrere nel biasimo e nel disprezzo. Lo
stesso Marziale parla di prudens simplicitas poiché non è più adatto ai tempi imperiali pieni di doppi giochi.

Urbanitas e rusticitas

Urbanitas indica il buon gusto e lo spirito naturali privi di eccessi dell'uomo elegante, una sorta di bon ton
romano. Successivamente va in contrapposizione ai valori degli antichi romani a causa dell'influenza greca,
poiché viene invece a delineare la raffinatezza in cerca di lusso, e a chi voleva apparire per forza alla moda in
contrapposizione alla Rusticitas e all'Industria, ovvero chi si accontentava della vita semplice rustica della
campagna dedita al lavoro.

Note
1. ^ Mos Maiorum, Brill Online (http://www.brillonline.nl/public/LOGIN?sessionid=075081815eff5d
000d66c52e710d1f80&authstatuscode=400).
2. ^ Al plurale, più comune, mores.
3. ^ (LA) Festo 157 (https://www.archive.org/stream/cu31924031242153#page/n119/mode/2up),
traduzione in Istituzioni di diritto romano, p. 29.
4. ^ Derivante sia dal fatto che venivano seguiti e tramandati dai patres, sia in quanto rivelati dai
sacerdoti.
5. ^ Investiti a un tempo di una valenza sia religiosa, sia magica.
6. ^ Investiti a un tempo di una valenza sia religiosa, sia magica.
7. ^ Sesto Pomponio, De origine iuris fragmentum I, 1; Gaio, Istituzioni di Gaio, I, 1.
8. ^ Roma arcaica e le ultime scoperte archeologiche. Aspetti di vita quotidiana nella Roma
arcaica: dalle origini all'eta monarchica.
9. ^ Mario Amelotti, Lineamenti di storia del diritto romano, p. 45.
10. ^ Sesto Pomponio, De origine iuris fragmentum I, 5.
11. ^ Sebbene Dionigi d'Alicarnasso ci informa che alcune di esse furono rese in forma scritta per
volere dello stesso Romolo.
12. Vedi Leges regiae e paricidas, pagg. 18-19.
13. ^ Non sappiamo se costituissero un'opera autonoma o una sezione del Liber.
14. ^ Livio, Ab Urbe condita libri I, 31, 8. L. Pisone ap. Plinio 28, 4, 14,;Gennaro Franciosi, pp. XVII-
XVIII;Livio, Ab Urbe condita libri I, 60, 4.
15. ^ Vedi Istituzioni di diritto romano, pag. 33.
16. ^ Enchiridion, paragrafo 1, riga 3.
17. ^ Enchiridion, paragrafo 2, riga 10.
18. ^ Secondo alcuni studiosi anche tramite leges regiae, che hanno avuto la funzione di
'memorizzare' i mores.
19. ^ Istituzioni di diritto romano pgg 32-33
20. ^ Sempre indirettamente poiché riguarda le leges regiae.
21. ^ Secondo alcuni Gaio Papirio, Pontifex Maximus nel 509 a.C.
22. ^ Le fonti sono discordanti.
23. ^ Di Appio Claudio Cieco.
24. ^ Di Gneo Flavio.
25. ^ O, sarebbe meglio dire, vero studioso del diritto.
26. ^ Gaio Svetonio parla di novità forse riferendosi anche alle leggi, in qualche misura.
27. ^ Suetonius, De Claris Rhetoribus, i.
28. ^ Riti del Rex sacrorum, Arvali, ecc. almeno fino a Teodosio I, 390.
29. ^ Viene definito ius incertum.
30. ^ Descrive usi che all'inizio ogni popolazione seguiva
31. ^ Anche se da alcuni ricostruzioni archeologiche del periodo risultano dei rapporti con i
minoici, che applicavano già una loro scrittura, e latini, un periodo di formazione della scrittura
nell'area laziale derivante da questi influssi.
32. ^ Oltre a rilevanti correlazioni e relazioni tra greci e romani che hanno un periodo di
applicazione della scrittura molto vicino a questo periodo.
33. ^ Anche se alcuni storici ritengono, probabilmente sulla base del racconto di Livio che ci parla
nell'Ab Urbe Condita della perdita di molti documenti riscritti successivamente dai sacerdoti a
causa del sacco di Roma del 390 a.C. che queste opere siano di più recente fattura circa IV-III
secolo a.C.
34. ^ A parte i documenti attinenti alle leges regiae.
35. ^ Delle persone più influenti, coloro che erano considerate le migliori persone della romanità.
36. ^ Nominati come lex sacra dalle fonti o anche come sacra gentiles.
37. ^ In questo periodo l'uso della scrittura non era ancora stato introdotto.
38. ^ Si tratta quindi di un contadino-soldato, forse anticipatore del più recente cittadino-soldato
istituito nel periodo romuleo.
39. ^ Questo si è dedotto dal fatto che, durante diversi scavi archeologici, sono state rinvenute
ossa incenerite.
40. ^ "Penates," O.C.D., pag. 1135.
41. ^ Trad. Lat. "Secondo la legge"
42. ^ Definizione da Enciclopedia Treccani. SATISDATIO. - È un tipo di stipulatio praetoria, cioè di
quella promessa solenne che il cittadino romano poteva esser costretto a fare davanti al
tribunale del magistrato o per rafforzare un'obbligazione giuridica preesistente o per creare
un'obbligazione nuova a difesa di un interesse non altrimenti tutelato. Quando la stipulatio
consiste nella sola promessa di chi si obbliga, essa assume il tecnico nome di repromissio;
quando vi intervengono garanti, essa si chiama satisdatio: la repromissio e la satisdatio sono
poi genericamente indicate col nome di cautio. Esempî di satisdatio sono quelle che il
convenuto può essere tenuto a dare per l'esecuzione dell'eventuale condanna: la cautio pro
praede litis et vindiciarum e la cautio iudicatum solvi. Data l'impossibilità di una coercizione
materiale, provvedono mezzi di coazione indiretta: così il convenuto con un'azione reale, se
non presta la satisdatio pro praede litis et vindiciarum o la satisdatio iudicatum solvi, viene
privato del possesso, e questo fa sì che egli da convenuto diventi attore e incorra nell'onere
della prova. Bibl.: P. F. Girard, Manuel de droit romain, 8ª ed. a cura di F. Senn, Parigi 1919; V.
Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto romano, 3ª ed., Napoli 1934.
43. ^ Questo vale per il periodo più antico soprattutto.
44. ^ N.d.c. "Nel senso di patteggiamento"
45. ^ Definizione da Enciclopedia Treccani NUNCUPAZIONE. - Nell'antico latino nuncupare
significa esprimere a voce, solennemente, e la parola ritorna di nuovo nello stesso senso, per
affettazione di eleganza, nelle costituzioni del tempo da Costantino a Giustiniano. A un
significato tecnico-giuridico si arrivò attraverso un versetto delle XII Tavole (VI, 1), che, a
proposito della mancipazione e degli altri negozî da compiersi con la pesatura del bronzo non
coniato nella stadera (per aes et libram), disponeva: "cum nexum faciet mancipiumque, uti
lingua nuncupassit, ita ius esto". Se la traduzione è facile ("quando taluno faccia un nexum o
una mancipatio, come la [sua] lingua abbia pronunciato, così sia diritto [fra le parti]"),
l'interpretazione è incerta: a parte l'opinione di chi pretende che la norma abbia permesso di
fare a meno della pesatura (opinione erronea, perché fino al secolo III d. C. la finzione della
pesatura è rimasta), vi è chi vede affermato nella massima il carattere formalistico dei negozî,
nel senso che gli effetti della formula sacramentale, pronunciata da chi acquista la cosa o il
diritto in presenza del trasmittente e dei testimoni, si svolgano indipendentemente da ogni
ricerca intorno alla reale volontà delle parti; e vi è invece chi ritiene che le XII Tavole abbiano
voluto consentire di aggiungere alla formula sacramentale altre parole, o di farla precedere da
dichiarazioni del trasmittente, in guisa da limitare o trasformare i fini originarî dei negozî (ad es.,
nel senso che la proprietà tornasse al trasmittente in caso di migliore offerta entro un certo
termine, o che del fondo venduto gli restasse l'usufrutto, o che tutto il negozio servisse a
garantire un credito, ecc.). Quest'ultima interpretazione è confermata dalla terminologia
costante in tema di testamento per aes et libram. Qui la formula sacramentale dell'acquisto era
pronunciata da un amico, che fingeva di comperare il patrimonio, ma la vera funzione dell'atto
risultava da una dichiarazione precedente del testatore, accompagnata dalla consegna del
documento in cui erano scritte le disposizioni. Ora è appunto alla dichiarȧzione del testatore,
non mai a quella del preteso acquirente, che si dà il nome di nuncupatio. Come si vede, la
nuncupazione non toglie che il testamento sia scritto: tuttavia si venne più tardi sviluppando
una terminologia che distingue fra un testamento per scripturam e uno per nuncupationem,
intendendo quest'ultimo come fatto oralmente; così nelle costituzioni del basso impero, forse
per errata interpretazione di testi della giurisprudenza classica che volevano dire tutt'altra cosa.
E in quest'ultimo senso anche noi parliamo, sia pure per negargli ogni valore giuridico, di
testamento nuncupativo. Bibl.: R. v. Jhering, Esprit du droit rom., trad. Meulenaere, III, Bruxelles
1888, p. 237 segg.; E. Rabel, Nachgeformte Rechtsgeschäfte, in Zeitschr. Savigny Stift., XXIX
(1908), p. 242 segg.; P. F. Girard e F. Senn, Manuel élém. de droit rom., 8ª ed., Parigi 1929, p.
310; V. Arangio-Ruiz, Istituz. di dir. rom., 3ª ed., Napoli 1934, pp. 328 e 502.
46. ^ Cioè nel senso di usucapire un bene.
47. ^ Def. Enc. Sapere : "s. neutro latino (propr. deferenza, rispetto), usato in italiano come sm.
Nella Roma antica, elemento del diritto di patronato (ius patronatus) che si esplicava soprattutto
nel campo processuale (in forza dell'obsequium dovuto al patrono il liberto non lo poteva
chiamare in giudizio senza il permesso del pretore) e criminale (era "atroce" ogni attentato
all'integrità fisica e morale del patrono, compiuto dal liberto, il quale commetteva parricidium se
lo uccideva)."
48. ^ Con la manus sulla moglie.
49. ^ Trad. Lat. "Figli e loro discendenti"
50. ^ Per es. il colpevole di un delitto non poteva porre resistenza e opporsi all'eventuale pena,
poiché la stessa comunità gli impediva di agire.
51. ^ Anche se c'era un semplice errore di gesti o parole: per es. Gaio ci dice come nel caso di un
soggetto che dicesse vites invece di arbores come previsto, anche questo semplice errore
recasse nullità al negozio.
52. ^ O per meglio dire di chi ne avesse avuto il diritto, ovvero il pater familias.
53. ^ Trad. Lat. "Fare ciò che è opportuno"
54. ^ "Qui malum carmen incantassit...", Tabula VIII. ( Trad, Ita : "Lanciò un incantesimo" )
55. ^ E per certi versi anche consuetudini.
56. ^ Ovvero come il buon cittadino romano preso ad esempio anche dai successori.
57. ^ Passo tradotto dal Bellum Poenicus di Nevio.
58. ^ Passo tradotto dal Annales di Ennio.
59. ^ Oltre al fatto di inserirci istituti tipicamente romani e valori tipicamente romani come l
'Urbanitas.
60. ^ Storia e testi della letteratura latina vol. 1 pag 205
61. ^ Frase tradotta dal Praecepta ad filium di Catone
62. ^ Frase trdotta dal Praecepta ad filium di Catone
63. Frase tradotta dal Noctes Atticae di Gellio 11,5.
64. ^ Anche se in parte fu influenzato dalla corrente ellenica.
65. ^ Non senza modificare la realtà di alcuni fatti.
66. ^ Di solito usata per esaltare i valori greci tranne nel caso di Giovenale.
67. ^ Editto di Milano
68. ^ Editto di Tessalonica.
69. ^ Il buon cittadino romano.
70. ^ RIC IV, 69-70.
71. ^ Trad. Lat. "In buona fede".
72. ^ Trad. Lat. "per essere credibili", o più letteralmente "avere fiducia"
73. ^ Livio, Ab Urbe Condita, I, 21, 4.
74. ^ RIC II 1083a (Adriano); Banti 270.
75. ^ Il cui termine corrispondente è cultus.
76. ^ Questi due uomini sono cotriumviri di Augusto nel secondo triumvirato.
77. ^ Simbolo della pietà filiale.
78. ^ Marco Tullio Cicerone, De inventione, 2, 66.
79. ^ Marco Tullio Cicerone, De re publica, 6, 16.
80. ^ Virgilio, Eneide, 9, 493.
81. ^ RIC VI 66b.
82. ^ Retori, storici, eruditi, giuristi, ecc.
83. ^ Soprattutto in ambito oratorio.
84. ^ C. Edwards, The Politics of Immorality in Ancient Rome, Cambridge University Press, 2002,
p. 36
85. ^ Poiché i romani ricordiamo hanno una tradizione di popolo industrioso.
86. ^ RIC Vespasianus, II, 437; BMCRE 555; Cohen 327.
87. ^ Trad. Lat. "Pace degli dei"

Bibliografia
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Corpora e florilegi epigrafici

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(LA) Corpus Inscriptionum Latinarum, CIL, Berolini, 1863-.
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Collegamenti esterni
Informazioni sul mos e mos maiorum e sulle sue caratteristiche, su xoomer.virgilio.it.
particolarità mos maiorum, su ariannaeditrice.it.

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