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CORSO DI STORIA DEL DIRITTO MEDIEVALE E MODERNO – I MODULO – PROF. FRANCESCO DI


CHIARA

Lezione n. 1 – 30.09.2020

Oggi partiremo dal basso impero romano, andando alle origini del Medioevo che vi affondano le
radici. Il medioevo irrompe nella romanità. Quindi ci occuperemo del Medioevo, partendo dal basso
impero romano, per arrivare alla modernità (periodo delle codificazioni), percorrendo circa 1000
anni.
Il nostro punto di arrivo sarà il diritto comune di formazione essenzialmente universitaria che si
formerà dal 1100 in poi, dalla scuola di Bologna, in poi. Lì si formerà l’officina del diritto comune,
cioè si formerà questa diritto comune, il quale è formato da due direttive, da un punto di vista
normativo:
- Quelle legate al diritto romano-giustinianeo;
- Quelle legate al diritto canonico.

In questo si innesta anche la cultura universitaria, quindi il diritto di formazione universitaria. Quelle
due direttive verranno scoperte nel 1100 da giuristi che si formeranno nelle università, in
particolare nell’Università di Bologna. Per arrivare al diritto comune dobbiamo analizzare queste
fonti che vanno a comporre il diritto comune. Dunque, dobbiamo analizzare come si destreggiano
queste fonti e analizzeremo anche il diritto che effettivamente si applicava nel mondo medievale.
In questo percorso fatto di normativa, prassi e di dottrina – perché il diritto comune è un diritto a
base dottrinale, che rielabora le fonti suddette facendole diventare qualcosa di nuovo – dobbiamo
avere la mentalità di storici del diritto. Per prima cosa, dunque, dobbiamo pensare che parleremo
con il passato ma cercheremo di toglierci gli occhiali del presente. Questo vuol dire che
incontreremo realtà diverse dalle nostre: noi viviamo in una realtà nella quale siamo abituati ad
avere una legge posta dall’alto, in cui diritto e legge coincidono; abbiamo un’autorità che è quella
statale, anche se ormai ci sono anche altre fonti di produzione normativa (regioni ed organismi
sovrannazionali), ma comunque abbiamo un’autorità che dall’alto stabilisce le leggi; abbiamo un
potere politico che ha interesse a creare ed innovare il diritto. Questa è la situazione in cui stiamo
vivendo e gran parte dei casi che sono contemplati nel diritto, sono racchiusi nella legge e, in
particolare, nel codice. Noi veniamo da un’esperienza ottocentesca che ha portato al trionfo dei
codici, l’idea di codice, del buon codice illuminista il primo dei quali fu il Codice Civile napoleonico e
poi i vari codici nazionali che, comunque, racchiudono il diritto. Quindi, essenzialmente, il diritto nel
nostro mondo equivale a legge; c’è questa equazione che si viene a formare a poco a poco, nel
periodo moderno. L’esperienza medievale, invece, ci porta in una realtà diversa; lo storico non deve
dire “è peggiore” o “è migliore”, ma deve prendere atto che è una realtà diversa. Non dobbiamo
cercare nel passato elementi del presente. Il diritto risponde alle esigenze che si creano partendo
dal basso della società e le risposte a tali esigenze sono diverse a seconda del periodo storico in cui
ci troviamo. Sono delle esperienze giuridiche che noi, essenzialmente, compariamo. E la
comparazione non è soltanto di carattere spaziale, tra luoghi diversi, ma è anche diacronica nel
senso che può riguardare epoche diverse. Ed è questo che noi faremo: compareremo epoche
diverse, scevri da idee di supremazia del presente rispetto al passato. Nel medioevo vi era una
cultura giuridica raffinatissima, diversa dalla nostra. Spesso, il diritto, il mondo politico ha chiesto al
passato, ha fatto delle domande al passato per avere le risposte strumentali, quindi per legittimare
il presente, la situazione attuale. Si è interrogato il passato, spesso, in chiave legittimante. E questo
è un modo sbagliato, in cui si mette il passato ai margini.
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Il medioevo è profondamente diverso dalla nostra contemporaneità, oggetto di una storiografia


ostile e si è spesso paragonato il termine “medioevo” con l’espressione “secoli oscuri”. O si è fatto
questo oppure, ad opera dei pandettisti e di alcuni romanisti del secolo passato, si è visto nel
Medioevo un lungo periodo di passaggio in cui continuava ad applicarsi il diritto romano; e anche il
diritto comune era visto, in realtà, come una ripresa del diritto romano-giustinianeo, come se il
medioevo non avesse dato degli apporti. Ma così non è perché l’evento della scoperta giuridica del
medioevo che è il diritto comune, l’approdo del diritto comune è un evento del tutto medievale. Il
diritto comune è un diritto che riprende e riscopre il diritto romano-giustinianeo e il diritto
canonico; ma con la scelta di questa fonte come fonte normativa, perché fonte autoritativa che
proveniva da un imperatore, fonte ritenuta vigente, i medievali hanno fatto qualcosa di diverso:
hanno reso applicabile una fonte che era autoritativa, autorevole. E in questo passaggio c’è tutta la
differenza e l’innovatività che il medioevo crea. Quando parleremo dell’organizzazione, vedremo
come alcuni aspetti – come patronato e colonato – della normativa romana vengono adattati ai
tempi mutati. Per cui immaginiamo che, quando parliamo della base del diritto comune, si
applicherà un diritto romano-giustinianeo del VI sec. ad una realtà europea che sarà del 1100,
quindi stiamo parlando di 5-6 secoli dopo e la realtà chiaramente era cambiata. Si comincia ad
adattare il diritto romano-giustinianeo alla realtà mutata, rendendolo effettivo ed applicabile. Qui
interviene l’opera del giurista che re-interpreta il diritto romano-giustinianeo, creando diritto
nuovo. Non è un diritto che attraversa i secoli medievali, arrivando fino al periodo della
codificazione. Assolutamente no, è qualcosa di diverso in quanto l’aspetto fondamentale del diritto
comune è l’interpretatio del giurista che ne fa qualcosa di nuovo, applicabile ai suoi tempi. Mentre
per anni il diritto comune è stato visto come un’applicazione continua del diritto romano, in
particolare di quello giustinianeo, che attraversava i secoli medievali. E invece no, perché il diritto
comune e la rilettura del diritto romano giustinianeo sono qualcosa di innovativo. Il diritto
medievale crea nuove realtà giuridiche perché c’è una necessità che viene dal basso, ci sono
necessità a cui il diritto risponde e che, magari, non erano presenti nel diritto romano. E allora,
spesso, a partire dal diritto romano si interpretano estensivamente le fattispecie del diritto romano
e si crea qualcosa di nuovo, specialmente nell’ambito civilistico: nuove forme contrattuali, nuovi
status personali. Parleremo, quando analizzeremo l’organizzazione, di patronato o il colonato: da
un’esigenza che veniva dal basso cioè quella per la quale, verso la fine del mondo romano, mancava
la schiavitù, mancavano gli schiavi che coltivavano le terre, ci si poneva la il problema di cosa si
dovesse fare in questi grandi latifondi privi di schiavi che coltivavano le terre. Mancando gli schiavi,
si creavano dei rapporti tra soggetti liberi, cioè tra un colono (soggetto che coltivava) e il
proprietario del latifondo, partendo dal colonato (rapporto giuridico già presente nel mondo
romano, anche se molto diverso perché nel mondo romano il rapporto si instaurava tra un soggetto
libero – proprietario del latifondo – e uno schiavo, cioè colui che coltivava la terra). Qui gli schiavi,
però, vengono a mancare. Succede, allora, che nella prassi si vede questa nuova figura contrattuale
che parte dal diritto romano ma che, in realtà, ha qualcosa di nuovo perché il rapporto si instaura
fra due soggetti liberi e si applicano quelle potestà di asservimento anche fra soggetti liberi. Quindi il
colono, che è un soggetto libero, va a coltivare quella terra poiché l’interesse pratico, l’esigenza che
viene dal basso è che ci sia qualcuno che coltivi la terra e che sia stabilmente legato alla terra. E così
al colono si applicano spesso le stesse normative che si applicavano agli schiavi; ma si crea in realtà
un contratto nuovo, diverso partendo dal mondo romano. Quindi il medioevo è un’officina: prima,
un’officina della prassi, perché le situazioni di cui stiamo parlando – colonato e patronato – si
creano dal basso, dalla prassi: è la prassi che suggerisce delle soluzioni e quelle si applicano; poi,
verso il 1100, subentrerà una razionalizzazione di questo mondo attraverso l’interpretazione dei
giuristi. La società dell’Alto Medioevo (476-1000) era una società semplice, curtense in cui
spariscono le grandi città, i grandi centri, i grandi mercati. E quindi bastava un diritto semplice, che
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veniva dalla prassi: la fonte principale del diritto dell’Alto Medioevo è la consuetudine; il diritto
romano-giustinianeo scompare perché troppo complesso. Quello che si applica è un diritto non
migliore o peggiore ma più semplice rispetto al diritto romano, che è formale e più complesso; la
società necessitava di quel diritto in quanto ha esigenze più semplici perché la società stessa era
cambiata. Quindi centri come Roma o Napoli, Madrid o Parigi si riducono a piccole unità; le città si
spopolano e la gente va a vivere nei castelli, in queste corti tanto che sia Cortese che Padoa-
Schioppa parlano di società curtensi, dove l’economia è semplice, è un’economia di sussistenza. Vi
erano rapporti semplici dove vi era il signore territoriale che era un proprietario terriero e
all’interno vi era questi soggetti, i coloni, che pagavano un canone e coltivavano pezzi di terra. Ma
l’economia, essenzialmente, era di sussistenza; lo scambio di merci al di fuori di queste corti era del
tutto eccezionale. Era un diritto realmente semplice; le consuetudini locali, questo diritto che
partiva dal basso bastava. Non era necessario che ci fossero giuristi che interpretassero questo
diritto poiché bastavano i pratici, soggetto che neanche erano grandi esperti di diritto ma della
pratica, che capivano gli usi che dovevano diventare consuetudini vincolanti; bastavano questi
soggetti che facevano essenzialmente il diritto e lo applicavano. Scompare il diritto romano e
scompaiono anche i giuristi, cioè coloro che sono i teorici del diritto.
Dal Basso Medioevo (1000-seconda metà del ‘400, tendenzialmente; sono tutte date convenzionali
in quanto non c’è una data precisa di inizio e una data precisa di fine) qualcosa cambia. L’anno
1000, da un punto di vista simbolico, è fortemente avvertito. Si diceva che nell’anno 1000 il mondo
sarebbe finito, e da questo pericolo scampato nacquero dei cambiamenti (sociali, demografici,
economici): quindi abbiamo un aumento demografico, un’economia più complessa, rinascono le
grandi città e i mercati. E in tale ottica il diritto consuetudinario non può più bastare, è troppo
semplice. Quindi ci si rivolge al diritto romano-giustinianeo, che era l’ultimo diritto dell’antichità che
proveniva da un imperatore, dunque valido e autorevole, però bisognava renderlo applicabile. Ed è
da qui che rinascono le università e i giuristi, cioè i teorici del diritto, perché nascono esigenze
nuove, la società è più complessa, la consuetudine non basta più, ci si rivolge – per rispondere a tali
esigenze – al diritto romano-giustinianeo che, però, si deve rendere applicabile, quindi adattarlo ai
tempi. L’operazione del giurista crea qualcosa di nuovo: rende applicabile ai tempi il diritto romano-
giustinianeo. Chiaramente, Giustiniano non poteva prevedere le fattispecie che si sarebbero venute
a creare dall’anno 1000 in poi. Il diritto romano-giustinianeo si applica in maniera estensiva, si taglia
e si cuce; si parte da quello, con un’interpretazione estensiva, per ricavare soluzioni nuove, per
creare qualcosa di diverso. Il diritto comune è qualcosa di diverso dal semplice diritto romano-
giustinianeo o dal semplice diritto canonico, perché dobbiamo ricordarci che abbiamo due direttive:
quella di diritto civile e quella di diritto canonico. In questo periodo medievale l’Europa era
accomunata dal cristianesimo e la religione era anche diritto applicato. Molti istituti riguardanti la
sfera temporale erano demandati al diritto canonico: quello che riguardava matrimonio, testamenti,
successioni, parti rilevanti del contratto arrivano dal diritto canonico. È un tutt’uno: l’Europa è
un’Europa cristiana; il medioevo è il secolo della cristianità. Nell’officina di diritto comune viene
ricreata la figura del giurista, si va a ripescare il diritto del passato e qualcuno deve maneggiarlo per
renderlo applicabile e i pratici non bastano; servono i giuristi, i teorici del diritto. È chiaro che
qualcosa cambia e quindi si vede di creare questo diritto comune, rielaborando le norme del diritto
romano-giustinianeo e del diritto canonico. Non sottovalutiamo mai la strada canonistica perché in
un periodo di frammentazione come quello che stava attraversando l’Europa, il grande elemento di
uniformità sarà dato dalla cristianità. I secoli medievali sono secoli cristiani, l’Europa è cristiana. Vi
saranno due grandi entità: l’impero (che si è dissolto, poi rinascerà sotto altre spoglie) e soprattutto
la Chiesa. Infatti il passaggio di epoca tra medioevo ed età moderna non è un momento fortemente
avvertito, siamo noi che creiamo convenzionalmente degli eventi importanti e tra questi c’è
sicuramente la RIFORMA PROTESTANTE perché si sfalderà l’unità cristiana, che caratterizzava
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l’epoca medievale: l’uomo medievale è un buon suddito ed è un buon cristiano; le due cose vanno
insieme.

Nella prima parte della lezione abbiamo parlato di protagonisti, abbiamo parlato di pratici, giuristi,
dottrina quindi, appunto, di fonti normative ma nel medioevo c’è un grande assente: il
LEGISLATORE. Lo Stato è il grande assente. Paolo Grossi parla dei secoli medievali come dei “secoli
senza Stato”. Il potere pubblico si disinteressa del diritto; ecco il grande assente del Medioevo: LO
STATO. Il diritto viene prodotto da vari centri di produzione. La fonte consuetudinaria viene creata
dai pratici che capivano quali fossero i comportamenti che poi diventano consuetudini
giuridicamente vincolanti. Ero i pratici che, almeno nell’Alto Medioevo, creavano il diritto. Così
come nel Basso Medioevo, abbiamo visto la figura del giurista che adatta il diritto romano-
giustinianeo, che lo rende da normativa vigente a normativa effettivamente attuabile. Nel Medioevo
il legislatore, tendenzialmente, non legiferava. Lo Stato è il grande assente e avevamo una pluralità
di fonti che promanavano da vari soggetti, da vari organi; era normativa anche la decisione di un
signore feudale, era normativo anche il diritto canonico, configurandosi dunque un pluralismo delle
fonti, più fonti. Jacque Le Goff parla dell’uomo medievale e, come dicevamo all’inizio, l’uomo
medievale è un soggetto che – nel periodo dell’Alto Medioevo - vive in un latifondo, in una corte, in
un castello o in un feudo e dovrebbe adeguarsi alle consuetudini di quel feudo, al diritto canonico
perché l’uomo medievale è cristiano. La definizione dell’uomo medievale non può prescindere dal
suo essere cristiano. Se l’uomo medievale è un mercante (abbiamo detto che nel Basso Medioevo
rinascono i mercanti, l’attività commerciale) dovrebbe seguire la normativa mercantile, cioè la LEX
MERCATORIA che è a base consuetudinaria; quindi le varie consuetudini dei vari luoghi di mercati.
Normative diverse per status diversi, perché il soggetto di diritto non era come noi lo immaginiamo
adesso il quale è un’eredità ottocentesca. La società è divisa in status: il mercante aderisce alla
normativa mercantile, colui che stava nel feudo obbediva alle consuetudini di quel particolare
feudo. Poi vi erano anche consuetudini più ampie, sì particolari ma che si adattavano a territori più
ampi, usi che si creano in un certo territorio. Chi abitava in un Comune doveva obbedire alla
normativa del comune, anche questa a base consuetudinaria. Il legislatore interveniva dopo,
quando decideva di farlo, a sancire realtà già chiare nel diritto, nella prassi, nel diritto applicato. Per
noi tutto questo è inconcepibile: un diritto che non coincide con la legge, un diritto che nasce dalla
prassi, avere una pluralità di fonti che promanano da soggetti diversi. Per ciascun mestiere abbiamo
spesso una normativa diversa, spesso a base consuetudinaria. Questa realtà i medievali riuscivano a
ridurla a sistema, riuscivano a destreggiarsi in questa pluralità. Paradossalmente, sarà nell’età
moderna quando vi sarà l’ingresso dello Stato, di questa entità che assume la potestà di far leggi, si
passerà dal pluralismo medievale, visto come strumento di ricchezza del diritto, come un sistema
vario di più fonti, più centri di produzione, al particolarismo giuridico, dove le fonti si complicano
(nell’età moderna si enfatizza la confusione delle fonti). Paradossalmente, quando arriva lo Stato
come ente ordinante nell’età moderna le fonti si complicano. L’esigenza più avvertita, nell’età
moderna, è la certezza delle fonti. Nel Medioevo si parla di pluralismo, cioè di ricchezza di queste
fonti del diritto che poi nell’età moderna si complicano e diventerà sempre più difficile
barcamenarsi. Quella che è la iurisdictio, cioè quel fascio di poteri che stanno in capo a chi governa
composto dal potere legislativo e dal potere di dare giustizia, nel medioevo era fortemente
sbilanciato; tale termine aveva elemento preponderante il “dare giustizia”. Il sovrano medievale è
presente perché, comunque, l’impero è presente. Però questi sovrani vedranno sé stessi come
giustizieri, cioè come sovrani che danno giustizia. Si disinteresseranno sostanzialmente dell’attività
legislativa, difficilmente entreranno nei rapporti fra privati. Il diritto civile, i rapporti contrattuali che
avremo nel Medioevo, la disciplina dei rapporti fra i soggetti verrà gestita, essenzialmente, non
dallo Stato, non dalla legge ma dalla consuetudine, dall’interpretazione dei giuristi. Saranno loro che
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realmente modificheranno gli ordinamenti. Il sovrano sarà un garante dell’ordinamento esistente,


ma difficilmente innoverà l’ordinamento. Ci saranno pochissimi casi, tipo Federico II in Sicilia che è
un imperatore ma anche sovrano del regno di Sicilia. Lui fa un testo il “Liber Augustalis”, che introno
al 1200 fa vedere un’idea di Stato e di sovrano che crea lui stesso la gerarchia delle fonti e che vuole
legiferare nel suo regno. Ma sono casi eccezionali perché i sovrani medievali non hanno interesse a
legiferare. Mentre nell’età moderna, in cui la iurisdictio è fatta sia del potere legislativo che
giudiziario, i sovrani cercheranno di intromettersi anche nell’innovazione dell’ordinamento
attraverso le loro leggi. Con la legge del sovrano e, quindi, dello Stato (perché il sovrano incarna lo
Stato), lo Stato stesso si interesserà alla modifica e regolamentazione dei rapporti privati nell’età
moderna, mentre nel medioevo è raro che i sovrani facciano questo. Ci sono i sovrani, ma si
disinteressano di questa cura dei rapporti tra i privati. Stiamo entrando in una realtà diversa, per noi
inconcepibile. Noi siamo figli della codificazione, dei codici. Adesso stiamo vivendo un momento di
decodificazione in cui vi sono altri centri di produzione del diritto, vi sono normative speciali esterne
al codice che complicano il panorama del diritto, ma il centro è sempre il codice; diritto e legge
coincidono. Nel medioevo no, il diritto era davvero un’altra cosa. La legge raramente disciplinava i
rapporti tra privati e questo è un aspetto fondamentale. La nostra contemporaneità, rispetto al
Medioevo, mostra delle differenze profonde. Però questo non vuol dire che il nostro sistema sia
giusto e quello sia sbagliato. Lo storico deve rispettare il passato, accettarne le risposte che
necessariamente diverse. Spesso possono avvicinarsi in qualche modo: un esempio classico che si fa
quando si parla dell’età moderna è quello dei tribunali che, con le loro decisioni, creavano diritto e
questo si avvicina molto agli ordinamenti di common law. Ci sono spesso somiglianze, però sono
realtà giuridiche diverse e bisogna rispettarle.

Il Medioevo, per la sua diversità, spesso è stato oggetto di discriminazioni. Noi parleremo anche
della più grande creazione istituzionale ed economica del Medioevo che è il FEUDALESIMO e tutti i
rapporti feudali coinvolgono gran parte dell’Europa, sia nell’Alto che nel Basso Medioevo. Gran
parte dell’Europa è infeudata, è il sistema istituzionale su cui si fonda l’Europa medievale. I rapporti
feudali caratterizzano aspetti economici, contrattuali, politici e istituzionali tanto da configurare il
feudalesimo come la più grande creazione istituzionale-economica e sociale del Medioevo e tutti
questi rapporti feudali sono creati in maniera consuetudinaria. Vi saranno due leggi che regolano
aspetti marginali, ma tutti i rapporti feudali che resteranno in vigore fino alla rivoluzione francese
saranno tutti di creazione consuetudinaria. Il feudalesimo, emblema del Medioevo, sarà visto con
occhi negativi, come sinonimo di oscurità medievale mentre in realtà è un sistema in cui si
strutturava la società medievale.

Noi studiamo storia del diritto per comprendere realtà diversa, per comprendere il passato perché
se il termine familia assomiglia al termine famiglia di oggi e in questo vediamo una lunga continuità,
non abbiamo capito niente della storia del diritto. La storia del diritto è fatta di profonde fratture,
profonde discontinuità. Può esserci una matrice comune, può arrivare il termine dal diritto romano,
però attraverso i secoli, non si può trascurare questo punto. Non si può trascurare che la famiglia
nell’epoca romana è una cosa, nell’alto medioevo è un’altra, nel basso medioevo un’altra ancora e
così anche in età moderna e contemporanea. Non possiamo vedere la storia come una lunga linea
continua; la storia è fatta di fratture alcune delle quali evidenti. La nascita dell’Università, della
scuola di Bologna, dal punto di vista del diritto è una frattura evidente con il passato; la rivoluzione
francese è una frattura evidente, cosa di cui si accorgono i contemporanei. Dalla rivoluzione
francese in poi, quello che c’era prima è Ancien Regime, cioè è regime passato, mondo passato.
Quello è un cambiamento istantaneo; noi nella storia vediamo cambiamenti lenti, frutto di processi
lenti. Ci sono poche date importanti e la rivoluzione francese è una data importante (4 agosto 1789)
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perché viene a cessare il regime feudale e in quel momento i contemporanei se ne accorgono


immediatamente. La storia è fatta di tante fratture e queste possono essere frutto di processi lunghi
ma anche di momenti. Noi sappiamo, stiamo vivendo un momento drammatico e stiamo
percependo che il mondo sta cambiando. Il nostro modo di fare lezioni era inconcepibile prima. Ma
la storia del diritto è fatta di cambiamenti, non è una cosa continua. E lo storico deve capire le
fratture della storia, non deve appiattirsi in categorie di comodo perché è facile ragionare su un
concetto giuridico e ragionare sulla sua continuità; è più difficile vederne le fratture.
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Lezione n. 2 – 01.10.2020

Noi partiremo da un periodo importante che è quello del Basso Impero. Oggi all’incirca partiremo dal III-IV
sec. (quindi ancor prima dell’ingresso nel medioevo) che è un secolo in cui il diritto romano ha conosciuto
dei mutamenti così profondi che eserciteranno veramente un influsso determinate sull’intero ciclo della
storia giuridica europea. Questo è un momento di congiunzione.
Noi facciamo partire il medioevo tendenzialmente dal 476 d.C. anno della caduta dell’Impero romano
d’Occidente, e arriva fino alla seconda metà del 1400 (quindi alla scoperta dell’America). È un arco
temporale lunghissimo in cui distinguiamo:
- Alto Medioevo, che va dal 476 circa fino all’anno 1000;
- Basso Medioevo, parte dall’anno 1000 per arrivare alla seconda metà del 1400 (sempre
tendenzialmente);
Sono processi graduali. Si tratta di una divisione convenzionale che facciamo noi storici perché in realtà
queste distinzioni di epoche non erano neanche colte dai contemporanei. Sono dei punti di riferimento che
ci diamo noi per dividere le epoche.

Vediamo però veramente il momento in cui il medioevo irrompe: che situazione c’era nel diritto romano?
Intorno al IV secolo nel diritto e nelle istituzioni romane si verificano dei mutamenti importanti che
caratterizzeranno anche la storia futura.
- È in questo periodo che lo sterminato territorio dell’Impero è ripartito in 114 province che sono
suddivise tra la parte occidentale e la parte orientale. Si trattava di una ripartizione politica, giuridica
e amministrativa tra Occidente e Oriente che si accentuò proprio nel IV secolo: una divisione netta
che diventerà irreversibile nel 476 quando l’Impero romano d’Occidente verrà a crollare.

- Nel IV secolo la successione al trono prevedeva due Augusti (due imperatori) e due Cesari.
Quest’ultimi in realtà, erano quelli che gli Augusti designavano come loro successori, linea
successoria che però spesso era disattesa. Quindi avevamo due Augusti (uno ad Occidente e uno ad
Oriente) che designavano due Cesari.

- In questo periodo l’amministrazione civile era stata separata da quella militare. Già fin dall’età di
Costantino questo era avvenuto e si trattava di una scelta che era in palese contrasto con il principio
romano classico dell’indivisibilità dell’imperium che era quel potere che spettava a chi amministrava
la res publica.

- Con Diocleziano che governerà alla fine del III secolo e all’inizio del IV secolo in tutto l’Impero soffia
un nuovo vento che è un vento d’Oriente, cioè la parte importante dell’impero si sposta in Oriente. Il
centro dell’impero ormai è a Costantinopoli nella parte orientale, Roma perde la sua centralità e
questo provoca anche dei mutamenti importanti dal punto di vista del diritto e delle istituzioni.

Il princeps assurge una dimensione semi-divina e anche i segni esteriori arrivano in Occidente e
rispecchiano questa visione di un principe semi-dio (ad esempio mantello di porpora con pietre
preziose; il principe pretenderà anche l’inchino – prostinesi – segno orientale dell’adorazione; il
bacio dell’anello; la genuflessione).
Quindi veramente anche i segni esteriori fanno rafforzare e fanno vedere il mutamento della figura
del princeps.

In generale muta il concetto maiestas (tipica del mondo romano) non più intesa, come nella
tradizione romana degli antichi, come “maior dignitas” dove il princeps si distingueva dagli altri per la
sua maior dignitas era un primus inter pares sotto molti aspetti; adesso si viene ad ammantare di
elementi ideali, sacrali.
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Infatti in Oriente, l’imperatore era un’entità quasi sovrannaturale, aveva una distinzione netta
rispetto ai suoi sudditi. Ecco che anche in Occidente inizia ad arrivare questa idea e questa
teorizzazione di questa figura dell’imperatore.

E i poteri degli imperatori, dunque del princeps, aumentano di conseguenza, e inizia a parlarsi di un
imperatore che è legibus solutus cioè addirittura che è al di sopra delle leggi e che è svincolato
dall’obbligo di obbedienza alle leggi stesse.

L’idea che il principe sia sciolto dalle leggi risalirebbe, per influenze orientali, all’età dei Severi,
intorno alla massima: “princeps legibus solutus est” cioè quell’istituto che prevede la legittimazione
di qualsiasi comportamento del governante seppur in violazione di legge (all’inizio consentiva al
princeps di sfuggire a qualche requisito formale posto dal diritto civile in materia di successioni
ereditarie).

Poi questo aspetto della legibus solutio nei fatti verrà più teorizzata che applicata, gli stessi
imperatori lo ridimensioneranno tanto che fino a Giustiano gli imperatori riterranno sé stessi
vincolati alle loro stesse leggi: infatti Settimo Severo e Caracalla esprimeranno la loro intenzione di
vivere secondo le leggi e così anche Teodosio II che nella costituzione Digna vox del 429 aveva
dichiarato che era cosa lodevole che il regnante si professasse vincolato dalle leggi però non dirà
affatto che lui è obbligato ad osservarle si tratta solo di una dichiarazione di buona volontà.
Tendenzialmente Giustiniano dopo il 532 con una fallita rivolta (Rivolta di Nika) applicherà tale
principio: cioè reputerà se stesso sciolto dall’obbligo di obbedienza alle leggi. Dunque ancora nel IV-V
secolo abbiamo questa teorizzazione dell’imperatore legibus solutus ma nei fatti gli imperatori
continuano comunque ad applicare e ad essere vincolati alla legge. C’è però questa teorizzazione
dell’idea che il sovrano potesse essere sciolto dall’obbedienza alla legge, teorizzazione che però è
assente nel mondo romano.

Nel IV secolo col mutato assetto anche istituzionale si prende molto dalla visione orientale dell’impero. La
distinzione tra i due imperi è una distinzione netta. La tradizione giuridica romana d’occidente è
profondamente diversa da quella orientale, e anche questa visione mutata del princeps mostra come anche
in Occidente soffia questo vento di Oriente.

Questa mutata situazione politica ebbe inevitabilmente delle ripercussioni anche sul piano della produzione
delle fonti del diritto, in cui rimaneva quasi inalterata la distinzione fra leges e iura, almeno fino a quando
Giustiniano emanerà il Digesto trasformando gli iura in legge e quindi cesserà questa bipartizione. Però per
tutto il IV secolo rimarrà questa distinzione.

Iura sono principi idonei all’applicazione nella prassi che vengono tratti dagli editti pretorii ma anche e
soprattutto dalle opere dei giureconsulti dotati di ius rispondendi all’imperatore. Questi sono molto legati al
patrimonio occidentale e sono veramente fonti del diritto romano. La giurisprudenza romana ha per base
questi iura.
Leges sono fonti normative che promanano dall’imperatore: quindi sia le costituzioni imperiali che i
rescritti.

In questo periodo la distinzione tra leges e iura continua ad essere presente ma, visti i mutamenti
istituzionali di cui abbiamo parlato, gli iura subiranno l’ingombrante presenza dell’imperatore che ne
disciplina e limita l’ambito di applicazione.

Ad esempio: Nerone vagheggiava l’idea di un proprio monopolio normativo. Persino principi moderati come
Adriano e Marco Aurelio preferiscono confinare i giuristi nel CONSILIUM del principe che resero istituzione
stabile (poi trasformata da Costantino nel concistoro).
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In Oriente Costantino confina i giureconsulti nel CONCISTORO, che è una specie di concilium principis reso
organico e stabile, è una sorta di organismo consultivo del principe che indirizza la formazione degli iura. Si
tratta di un modo per imbrigliare il pensiero dei giuristi che diventano quasi dei collaboratori del princeps.
Quindi la fonte degli iura che da loro promana è fortemente imbrigliata.

In Occidente, invece, nel 426 Valentiniano III con la sua Legge delle citazioni che poi verrà recepita nel
codice Teodosiano stabilì che solo le opinioni dei giuristi classici avessero efficacia vincolante. Limita gli iura
vincolanti, quelli che hanno forza di legge e che diventano fonte normativa per l’ordinamento, al pensiero di
5 giuristi della Roma classica, tra cui Modestino, Ulpiano, Paolo, Gaio e Papiniano. In caso di discordanza tra i
pareri di questi giuristi sarebbe prevalsa la maggioranza e in caso di parità sarebbe prevalsa l’opinione di
Papiniano. Gli iura si cristallizzano nelle opere di questi 5 giuristi.
Tutto questo per dire che gli imperatori, in questo periodo, in qualche modo influenzano, indirizzano – a
parte le leges che da loro promanano – anche gli iura.

Contestualmente abbiamo che le leges che sono fonti che promanano dall’imperatore (sempre a causa
dell’idea che parte da Oriente della mutata concezione dell’imperatore) acquistano sempre più rilievo in
questo tardo mondo romano, in questo periodo del basso impero.
Gli iura vengono imbrigliati e la figura dell’imperatore diventa sempre più centrale nell’ordinamento e così
anche le leges, fonte normativa che promana dall’imperatore, diventano centrale.

LA VOLGARIZZAZIONE
Un aspetto importante che riguarda gli iura ma che riguarderà anche gli istituti del diritto romano e che è
caratteristico di questo periodo è la VOLGARIZZAZIONE DEL DIRITTO ROMANO è un fenomeno interno al
diritto romano.
Questo diritto “volgare” si forma in questo periodo, già a partire dalla fine del III secolo con l’editto di
Caracalla che estende la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero, quindi alle province più
sperdute.
Quindi il diritto romano viene applicato anche alle province più sperdute non soltanto a Roma, Alessandria,
Costantinopoli che sono luoghi centrali dell’Impero anche dal punto di vista culturale. La lingua latina, ma
anche il diritto romano vengono estesi a tutto l’Impero, anche nelle province più sperdute dove il livello
culturale è diverso dal centro dell’Impero.

Ecco che in questo periodo si assiste - e già gli storici del diritto dell’800 hanno studiato questo momento del
diritto romano e la sua volgarizzazione – a una semplificazione del diritto romano; oggi si parla di
adattamento del diritto romano alla prassi. Quindi il diritto romano deve semplificarsi per essere compreso.
Già nella storiografia di fine dell’Ottocento, Otto Brunner, analizzando questo fenomeno interessante
(volgarizzazione del diritto) parlava di divergenza fra l’applicazione e la norma: da una parte c’è una e da una
parte c’è l’altra. Nelle parti provinciali dell’Impero il diritto romano per farsi comprendere deve adattarsi alla
prassi, soprattutto nelle province più sperdute.
Da Brunner in poi la storiografia giuridica studia questo fenomeno. Prima i romanisti confrontando il diritto
romano nudo e puro, quello formale, scritto che conoscevano della Roma classica, al diritto romano
volgarizzato, della Roma post classica, del Basso impero, e hanno parlato di degenerazione del diritto
romano come di impoverimento del diritto romano.
Ma a poco a poco si è fatta strada fino ad oggi l’idea di iniziare a vedere nella volgarizzazione non un
impoverimento del diritto romano ma di porre l’accento nella volgarizzazione sull’incontro tra diritto
romano e diritti locali.

Quindi questo diritto romano che è formale, scritto, si incontra con i diritti più sperduti delle varie province
dell’Impero e quindi c’è questo incontro tra diritto romano e diritti locali e si forma il diritto romano volgare
che è un diritto della prassi che forma nuovi istituti privatistici.
È un diritto che va in parallelo per un certo periodo, già a partire dal IV sec, con il diritto ufficiale. E parte
dalle province più periferiche per estendersi a tutto l’impero.
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Quindi, a poco a poco anche gli studiosi romanisti, hanno smorzato questa drammaticità che c’era alla fine
dell’Ottocento e fino alla metà del secolo scorso, in cui vi era questo concetto di diritto romano volgare in
cui si vedeva questa decadenza del diritto romano. Mentre adesso, anche loro, smorzano questa idea del
tutto negativa. Ovviamente però vi è sempre questo paragone “perdente” tra diritto romano volgare e il
diritto della Roma classica. Ennio Cortese, uno dei più grandi storici del diritto ancora viventi, addirittura
quando parla di volgarizzazione afferma che in questo periodo abbiamo l’esplosione del Medioevo, nella
romanità del Basso Impero. Noi facciamo partire l’Alto Medioevo dalla metà del V secolo, però, vediamo che
già nel IV secolo sta entrando il medioevo, la mentalità medievale.

Più che il testo della norma si dà rilievo ad un aspetto non formale, ma al modo migliore di rispondere a
nuove esigenze. Vediamo che il diritto volgare è veramente un filone alternativo che è sempre interno al
diritto romano, che esplica attraverso la modificazione di vecchi istituti e con la creazione di nuovi istituti.
Partendo dal diritto romano ufficiale questo viene modificato. Anche Paolo Grossi parla di un nuovo diritto,
da qui inizia l’itinerario del diritto medievale perché vi è questa idea di non mettere più al centro il
formalismo, il testo o l’istituto romano dal quale, comunque, si parte; però la cosa fondamentale è
rispondere alle esigenze. Questa è la caratteristica fondamentale del diritto medievale, cioè quella di porre
al centro l’effettività e non il formalismo. L’importante è risolvere un problema, rispondere ad una
esigenza si estende la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero e anche il diritto romano si estende
quindi alle province più sperdute (dove già iniziavano le incursioni germaniche) e quindi non si poteva
applicare a questi luoghi l’armamentario formale e complesso del diritto romano perché sarebbe stata una
cosa incomprensibile. Una cosa è applicarla a Roma, a Costantinopoli e ai luoghi culturalmente avveduti, ma
un’altra cosa è applicarla ad altre parti dell’Impero. Che diritto applicare in questi luoghi? Premesso che il
diritto romano classico è complesso, non è comprensibile in questi luoghi, che facciamo? Con l’incontro con
la prassi si semplifica e nascono nuovi istituti. Ecco quindi l’aspetto centrale della volgarizzazione è l’incontro
tra questo diritto alto (il diritto romano) e la prassi. Agisce questo sia sulle fonti che sugli istituti.
Vedete che la volgarizzazione è, non una degenerazione, ma una semplificazione del diritto romano che
segna l’incontra tra il diritto romano e la prassi dal quale nasce il diritto romano volgare o volgarizzato (che
possiamo dire anche semplificato), che con l’incontro con la prassi si modifica.

Volgarizzazione negli istituti…


Fin da adesso vediamo come in realtà il medioevo non è diritto romano che attraversa i secoli ma è
creazione di un diritto nuovo grazie all’incontro con la prassi e al sopravvento della effettività sul formalismo.
Molti schemi che erano chiari nel diritto romano verranno messi in discussione. Un esempio emblematico
negli ISTITUTI di questa volgarizzazione è quello del COLONATO o del PATRONATO.
In ambito privatistico nascono istituti nuovi che comunque partendo dal diritto romano creano degli status,
degli istituti nuovi.

L’esempio del colonato: già a partire del III secolo l’impero romano incontra la crisi della manodopera
schiavista perché ci sono sempre meno schiavi, anche per l’ingresso della morale cristiana che si pone
contro la schiavitù. Ecco che nascerà l’esigenza di sopperire agli schiavi nel lavoro agricolo, bisogna farne a
meno. Quindi vi è questa figura del colonato che magari già esisteva nel diritto romano ma si incontra con la
prassi in cui si ha un’esigenza (sopperire al fatto che non esistono più schiavi). Vi sono delle grandi ville
romane cioè grandi organismi che sono sia dei castelli, organismi abitativi in cui viveva un signore
territoriale, ma sono anche grandi aziende agricole perché questo signore è anche un grande latifondista ad
esempio Piazza Armerina in Sicilia. Visto che non ci sono più gli schiavi come fare? Abbiamo l’esigenza che
soggetti liberi lavorino in queste terre. Il colono, allora, paga un canone annuo al signore però è necessario
che questo soggetto sia vincolato alle terre. La figura del colonato nel diritto romano già esisteva ma adesso
per via di consuetudine viene modificata perché il potere del signore latifondista sul colono e il vincolo che il
colono ha in queste terre diventa pressante e prepotente tanto che nel mondo romano non era conosciuto
un rapporto di subordinazione tale tra due soggetti liberi. Infatti il colono è un libero non è uno schiavo però
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il signore ha poteri penetranti il colono rimane vincolato alla terra, nel caso in cui la terra venga venduta il
colono viene venuto col latifondo, il colono non può citare il signore in giudizio, il signore è anche sulle sue
terre anche giudice sotto certi punti di vista perché esercita anche potestà pubblicistiche.
Nel mondo romano non andava così perché era ben chiara la distinzione tra pubblico e privato, in questo
mondo della volgarizzazione e del medioevo queste distinzioni sfumano. Il signore latifondista può anche
essere giudice nelle sue terre e può anche esigere tributi dal colono, può giudicare su tutto (tranne che
sull’aumento del canone perché avrebbe un conflitto di interessi e veniva rispettato). Il signore ha dei poteri
penetranti e di stampo pubblicistico sulla vita del colono, cosa che nel mondo romano non esisteva. Il colono
è un soggetto formalmente libero, non è uno schiavo, ma nei fatti si assottiglia di molto in questi rapporti la
differenza tra soggetto libero e schiavo, perché era fortemente vincolato ai voleri del signore.
Il colonato, che era già presente nel mondo romano come un rapporto legato al rapporto fondiario, però,
adesso con esigenze nuove (sopperire all’assenza di lavoro servile), si modifica, viene volgarizzato per le
esigenze della prassi. Quindi anche la distinzione che era chiara nel mondo romano tra libero e non libero,
qui è profondamente sfumata.

Il patronato è un istituto in virtù dei quali i piccoli proprietari, strozzati dall’esazione fiscale dell’impero, si
mettono sotto la protezione di un patrono perché non ce la fanno più economicamente. Anche in quel caso
il patrono esercita dei diritti sul suo protetto che sono di stampo pubblicistico, esercita delle competenze di
stampo pubblicistico e statale. La distinzione tra pubblico e privato è molto soffusa, questa cosa è tipica del
mondo medievale. C’è un’esigenza, il diritto risponde a questa esigenza partendo dal basso.

Questi sono istituti che nel mondo romano erano presenti, ma adesso la consuetudine, l’approccio con la
prassi e le esigenze pratiche da risolvere, li fa cambiare tantissimo e fa sì che si parta da questi istituti ma poi
si arrivi a qualcosa di nuovo. Questi istituti del colonato e del patronato, che nascono nel mondo romano,
ora sono diversi, perché le esigenze pratiche a cui vengono applicati, l’incontro con la prassi li fa modificare
profondamente. Nel diritto romano il colonato è un rapporto chiaro tra soggetti liberi, adesso formalmente i
soggetti sono soggetti liberi però, nei fatti (che è quello che interessa dal mondo medievale in poi), il colono
è un soggetto fortemente subordinato al proprietario latifondista. Quindi la distinzione fra il colono-uomo
libero e lo schiavo è molto sfumata. Arriviamo quasi a non distinguere nel colono l’uomo libero dallo
schiavo, le potestà pubblicistiche da quelle privatistiche: nasce come un rapporto privatistico ma in realtà
signore o il patrono esercitano delle potestà di stampo pubblicistico (richiede tributi, giudica le
controversie). Questi istituti sono proprio un esempio di come la volgarizzazione del diritto porta alla
creazione di istituti nuovi e così verranno creati, partendo dal diritto romano, nuovi contratti specialmente
nell’ambito privatistico. Il medioevo, con la sua mentalità pragmatica legata più che alle forme normative
alla sostanza, al risolvere problemi, a venire incontro ad esigenze, irrompe nel Basso Impero. La
volgarizzazione è un fenomeno tutto interno al diritto romano, però veramente vi è l’irruzione prepotente
del medioevo fin da adesso in cui cominciano a formarsi per via di consuetudine, per via di comportamenti
ripetuti poi ritenuti vincolanti, istituti di carattere privatistico e questo è un classico del mondo medievale.

RICAPITOLANDO: Dall’incontro del diritto romano con la prassi nasce quello che è un diritto diverso, il diritto
romano volgare.
L’esigenza era di applicare il diritto romano anche alle province e da queste periferie dell’Impero l’incontro
tra il diritto romano e la prassi porta alla creazione del diritto romano volgare e anche negli istituti porta alla
creazione di istituti nuovi che partono dal diritto romano formale, scritto, complesso per creare un diritto
nuovo e abbiamo già visto questa cosa in alcuni istituti (colonato e patronato esempi interessanti di questo
mutamento di rotta).

Volgarizzazione delle fonti…


La volgarizzazione coinvolge oltre che gli istituti anche gli IURA. Negli iura vediamo che il pensiero dei
giureconsulta classici (Paolo, Ulpiano, Gaio, ecc) viene adattato, in realtà, ai mutati tempi e al mutamento
culturale in atto e il pensiero di questi giuristi viene rielaborato e semplificato. Nascono, così, delle raccolte
giurisprudenziali che venivano composte su iniziativa di privati e che riproducono il pensiero di giuristi
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classici. Viene riproposto il loro pensiero nel periodo post classico, vengono fatte queste raccolte di privati
che rielaborano e semplificano il pensiero di questi giuristi classici in quanto troppo complesso. Ad esempio,
abbiamo:

 Le PAULI RECEPTAE SENTENTIAE sono raccolte private che circolano e quindi non vi una data precisa
(dobbiamo abituarci a ciò nel medioevo). Vengono composte tra la fine del III e inizio del IV secolo,
in parecchie edizioni che subirono molti aggiustamenti al fine di adattare il più possibile il pensiero
del grande giurista classico Paolo alla prassi contemporanea. Si presume che originariamente
fossero 5 libri. Si tratta di una serie di massime che si ispirano liberamente al pensiero di Paolo che
viene rielaborato e semplificato.
Costantino le nominerà avvertendo che dovevano “semper valere”; Valentiniano aveva incluso Paolo
tra i “grandi”; Alarico II le introdusse pari pari nella Lex Romana Wisigothorum; e Giustiniano se ne
servi nel Digesto.

 Per quanto riguarda il pensiero di Gaio, nella seconda metà del V secolo, abbiamo il LIBER GAI o
EPITOME GAI (epitome viene utilizzato per dire forma semplificata – forma epitomata=forma
semplificata). Esso si pensa sia stato elaborato in Gallia e anche in questa opera abbiamo una
semplificazione e un’interpretazione delle “Istituzioni” di Gaio e testimonia l’enorme successo che
quest’ora ebbe e che nel Liber Gai viene semplificata. Il Liber Gai avrà un suo futuro perché entrerà
a far parte della Lex Romana Wisigothorum. Le Istituzioni di Gaio attraversano dei passaggi
importanti e sono una delle opere più importanti del pensiero romano classico. Quindi abbiamo
l’opera originale che è “Le istituzioni” di Gaio, l’opera volgarizzata e quindi semplificata “Liber Gai o
Epitome Gai” che entrerà a far parte per intero della Lex Romana Wisigothorum e poi le “Istituzioni”
torneranno ad essere la base importante per le Istituzioni di Giustiniano successivamente.

 Per quanto riguarda il pensiero di Ulpiano, probabilmente nella prima metà del IV secolo, avremo i
TITULI EX CORPORE ULPIANI. Anche qui si tratta di un’opera di volgarizzazione quindi di
semplificazione del pensiero di Ulpiano che viene elaborata probabilmente per fini scolastici ed ebbe
un enorme successo per tutto l’Alto Medioevo. Durante il medioevo l’opera venne attribuita ad
Ulpiano in persona, ma in realtà è un’opera che trae spunto dal pensiero classico di Ulpiano e lo
semplifica. Alcuni pezzi vennero adoperati nella LEX DEI e altri vennero inseriti nel Digesto di
Giustiniano.

 Sempre a questo periodo e cioè all’età costantiniana risalgono i FRAGMENTA VATICANA, così
chiamati perché sono stati ritrovati dal Cardinale Angelo Mai nel 1821 in un palinsesto della
biblioteca vaticana. I palinsesti sono dei codici in pergamena che venivano raschiati per essere
utilizzati.
Questi codici pergamenacei venivano riutilizzati e raschiando questi palinsesti, nell’Ottocento, si
riusciva a capire il contenuto anche precedente. Così vengono riscoperti in questi palinsesti questi
frammenti che contengono degli stralci di un manuale istituzionale destinato, anche questo, all’uso
scolastico in cui compaiono dei brani di giuristi classici e di cui l’autore (sempre di questi frammenti
vaticano) sembra avere avuto conoscenza nella versione originale.
Vi erano poi anche stralci di costituzioni imperiali, in special modo delle costituzioni di Costantino
ragione per la quale si data quest’opera nell’età costantiniana. La cosa interessante è che queste
costituzioni contenute in questi frammenti vaticani, compaiono in forma completa rispetto a quelle
che poi vedremo nei codici ufficiali (Teodosiano o di Giustiniano). Le costituzioni qui citate sono
costituzioni del periodo costantiniano sono in forma particolarmente completa, ancora più completa
di quelle che poi verranno utilizzate per comporre il codice Teodosiano e il codice Giustiniano.

Queste opere in qualche modo volgarizzano il pensiero dei pensatori classici e i frammenti vaticani
riprendono i vari stralci di questi pensatori ma anche costituzioni imperiali. Ma avremo anche altri tipi di
opere che testimoniano proprio la vitalità degli iura in questo periodo del tardo impero.
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Oltre ad opere che si rifanno alla Roma classica, avremo anche opere, riflessioni giurisprudenziali che
riprendono il pensiero contemporaneo, quindi del periodo post classico che non riprendono per forza il
pensiero del periodo della Roma classica ma anche opere di iura attuali, quindi il pensieri di giuristi anche di
questo periodo postclassico. Tra queste ebbe molta diffusione:

 La più importante è la COLLATIO LEGUM MOSAICARUM ET ROMANARUM che è conosciuta come LEX
DEI che non riprende il pensiero della Roma classica ma che è un manualetto del periodo post
classico che mette in comparazione la legge biblica e quella di Roma evidenziandone le coincidenze,
le concordanze; quasi evidenziando l’intento di tranquillizzare i fedeli con l’obiettivo di esortarli a
seguire entrambe le leggi (sia quella biblica che quella romana). Quest’opera dovrebbe risalire
attorno al 426, quindi al periodo della Legge delle citazioni, perché molti iura allegati sembrano
obbedire severamente alle norme di tale legge e quindi ripercorrono anche il pensiero dei 5 giuristi
classici della Legge delle citazioni. La Lex Dei è molto importante perché rispetto alle opere che
abbiamo citato prima, quest’opera è contemporanea, del VI-V secolo, non è una semplificazione del
pensiero classico. E’ un pensiero attuale. Vengono citati ampiamente i giuristi della Roma classica,
ma appartiene a quegli iura ancora vivi. Ebbe una grande diffusione quest’opera ed è particolare
perché, appunto, mette in relazione le leggi bibliche con quelle del diritto romano. Si vede questa
unione di queste due leggi: il buon suddito deve obbedire sia alla legge romana che alla legge biblica.
Quindi ha un intento quasi di tranquillizzare la coscienza dei fedeli, mettendo in evidenza le
comunanze tra le due leggi, e di indurli a obbedire all’ordinamento dell’Impero.

 L’operetta di Cuiacio (aveva scoperta dal suo allievo Antoine Loisel), grande giurista ed erudita
francese. Questa venne pubblicata nel 1577 e intitolata CONSULTATIO VETERIS CUIUSDAM
IURISCONSULTI (Consulenza ad un avvocato), e consiste in pareri dati da un giurista, forse maestro,
ad un avvocato. Il problema che si pose l’antico e ignoto autore fu di reperire poche norme adatte
alle fattispecie discusse, quindi non si deve pensare ad un opera molto raffinata, il risultato è
modesto ma significativo. Vi sono anche qualche costituzione del Codice Teodosiano, qualche altra
dei codici di Ermogeniano e Gregoriano, e, tra gli iura, le sole Sentenze dello pseudo Paolo; sono le
fonti che in quelli anni Alarico II raccoglieva nella sua Lex Romana Wisigothorum;

Gli iura, ma anche la loro volgarizzazione, rappresentano un fenomeno, tra le fonti del diritto, che ha le sue
origini prevalentemente legate alla tradizione occidentale. Gli iura nascono, ripercorrono il pensiero del
diritto romano occidentale. La volgarizzazione semplifica questo pensiero. Le opere volgarizzate, quindi,
riescono a penetrare anche nelle province più periferiche dell’impero.
Come abbiamo visto negli istituti anche nelle fonti del diritto, in particolare negli iura, abbiamo che i pensieri
di questi pensatori classici (che sono a tutti gli effetti fonti del diritto) devono essere compresi per essere
applicati. Siccome sono fonti del diritto devono essere applicate, allora la soluzione, anche qui, è
volgarizzarle quindi semplificarle. Dunque il pensiero complesso di questi pensatori verrà semplificato per
renderlo accessibile. Sono delle raccolte giurisprudenziali che prendono spunto dai giuristi ma queste
raccolte semplificate (epitomate) sono anonime. Non sappiamo se vi è una sola mano o più mano di privati
che si sono messi lì a semplificare questi giureconsulti della Roma classica.
Queste opere hanno un grandissimo successo. La volgarizzazione abbiamo visto che ha effetto su istituti
perché crea istituti nuovi, ma anche nella fonti del diritto negli iura.

LE PRIME CODIFICAZIONI
Per quanto riguarda l’altra fonte del diritto che sono le LEGES abbiamo che in questo periodo (dal IV secolo
circa) spira molto un vento d’Oriente in tutto l’Impero e cambia l’idea stessa e la rilevanza dell’imperatore
nell’ordinamento. Nel IV sec. (attenzione siamo ancora nel mondo romano) gli imperatori legiferano,
cercano di imbrigliare gli iura, ma poi intervengono anche e soprattutto attraverso la fonte propria cioè le
leges che sono appunto delle fonti di derivazione imperiale.
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Diciamo che nel passaggio del centro dell’Impero da Roma a Costantinopoli già dal 330, c’è la supremazia
della parte orientale dell’impero. E quindi il ruolo dell’imperatore è cambiato e anche la produzione
legislativa degli imperatori sia costituzioni (di carattere generale) ma anche rescritti imperiali (oggi
paragonabili ad atti di natura amministrativa che hanno specifici destinatari ma anch’essi fonti del diritto
ovviamente).
Noi vediamo che in questo periodo vi è una notevole produzione legislativa da parte degli imperatori, questi
specialmente in Oriente produrranno molte normative (che poi arriveranno anche in Occidente) ciò dovuto
al cambiamento del ruolo stesso dell’imperatore che diverrà centrale nell’ordinamento, nel cercare di
imbrigliare le fonti del diritto, e diverrà come una sorta di signore delle varie fonti del diritto e porrà molte
leggi sia costituzioni che rescritti. A questa iper-produzione normativa si associa la nascita, già dal periodo
dioclezianeo (quindi la fine del III secolo), dei primi codici, cioè delle raccolte di normative imperiali
(costituzioni e rescritti).

Qui con il termine CODICE intendiamo semplicemente codice pergamenaceo, quindi veramente l’aspetto
pratico, queste opere che sono redatte in codici di pergamena. Questi codici non hanno niente a che fare
con i codici in senso moderno connotati dal loro essere innovativi. Questi codici di cui parleremo, che vanno
dalla fine del terzo secolo, del Basso Impero Romano, non hanno nulla a che fare col fenomeno della
codificazione di cui parleremo nel secondo modulo (fenomeno che parte nel 1700 e arriva sino al 1900).
Perché codici in senso moderno sono connaturati dal loro essere innovativi, dal modificare il diritto. Questi
di cui parliamo sono dei codici pergamenacei, che sono chiamati così in modo a-tecnico (perché raccolti in
fogli di pergamena) ma nei fatti sono delle raccolte antologiche che contengono del materiale preesistente.
Sono raccolte inizialmente private (niente di ufficiale all’inizio) di materiale antologico (costituzioni o di
rescritti imperiali già esistenti) non tendono ad innovare il diritto: erano raccolte antologiche contenenti
materiale vecchio; non hanno niente a che fare con il processo di codificazione che va dal ‘700 in poi.

Viene, quindi, l’esigenza di raccogliere queste tante leges imperiali, sia costituzioni che rescritti imperiali, in
raccolte antologiche. I primi codici risalgono al periodo di Diocleziano, si tratta di raccolte non ufficiali sui
quali la storiografia concorda nel ritenere che essi siano stati voluti dalla stessa cancelleria imperiale. La loro
autorità, dunque, fu dall’inizio indiscutibile perché pure se private c’era un collegamento perché erano
volute dalla cancelleria imperiale. Si tratta di raccolte, di rescritti, di atti connessi all’attività giurisdizionale e
amministrativa del principe, più che a quelle legate al carattere generale delle costituzioni. Questi sono stati:
I. CODICE GREGORIANO redatto intorno al 292-293 d.C. E’ un codice privato, si pensa redatto in
Oriente. Questo codice gregoriano riportava rescritti dall’età di Adriano in poi, dal 117 d.C. in poi.

II. CODICE ERMOGENIANO è un codice che quasi continuava il codice precedente e raccoglieva i
rescritti di Diocleziano della fine degli anni 293 e 294.

Quindi abbiamo questi due codici che contengono rescritti che da Adriano (117 d.C.) arrivavano fino ai
rescritti di Diocleziano (293-294), rescritti contemporanei.
Questi due codici contengono rescritti, hanno un carattere di opere private e la storiografia comunque li
collega, in qualche modo, alle cancellerie imperiali perché vediamo che forse erano stati voluti dalla
cancelleria imperiale però rimangono opere privati non hanno carattere ufficiale.

III. CODICE TEODOSIANO Bisogna aspettare un po’ per avere il primo codice ufficiale. Siamo solo 3
anni dopo la Legge delle citazioni, sarà fatto d’iniziativa dell’imperatore d’Oriente Teodosio II che
idea il progetto di una raccolta normativa concepita come continuazione del codice Gregoriano ed
Ermogeniano. Inizialmente la sua idea era un progetto molto ambizioso che prevedeva un volume di
costituzioni imperiali (completo di quelle sia vigenti che non più vigenti) destinato ad uso della scuola
e un altro volume destinato soltanto al diritto applicato,alla prassi giurisprudenziale, alla prassi
forense, comprendente le sole leggi vigenti e un po’ di iura. Era un progetto ambiziosissimo che
sembra prefigurare l’opera Giustinianea, ma non fu portato in porto. Questo progetto parte nel 429
d.C., già nel 435 d.C. il progetto fu ridimensionato arrivando a comprendere soltanto costituzioni
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vigenti e da utilizzare al contempo sia per i tribunali (quindi per la prassi giurisprudenziale) che per le
scuole, mentre gli iura vennero tralasciati.

Alla fine, il codice definitivo fu promulgato nel 438 d.C. ed entra in vigore nelle due parti dell’Impero
nel 439 d.C. e fu un’opera, che seppur dimensionata, di una mole notevole: conteneva 16 libri
contenenti soprattutto costituzioni imperiali vigenti ma anche i rescritti. Rispetto all’idea originaria,
qui abbiamo solo un Codice fatto di costituzioni vigenti, quindi il progetto è ridimensionato.
Dopo un lungo lavorio, questo codice nasce in Oriente ma poi viene promulgato anche in Occidente
e comunque è un’opera molto importante, sia pur nascendo da un progetto successivamente
ridimensionato.
Esso avrà una lunga tradizione, è un codice che comunque – e vediamo fin da adesso l’ingresso della
Chiesa – recepisce soltanto costituzioni di imperatori cristiani (tralascia le costituzioni non cristiane)
non a caso: ciò è un chiaro segno dell’irruzione cristiana nel tessuto normativo dell’impero. Il Codice
teodosiano, anche per questo, vanterà una notevole fortuna perché verrà riconosciuto dalla Chiesa
come IL CODICE UFFICIALE DELL’IMPERO. La chiesa è la fautrice della tradizione romana e
romanistica anche nei periodi successivi e in tutto il medioevo. Il fatto che questo codice sia visto di
buon occhio dalla Chiesa, in quanto recepisce soltanto le costituzioni cristiane degli imperatori
cristiani, non è un fatto secondario: anzi fa sì che questo codice abbia notevole fortuna nel mondo e
nella Chiesa, in quanto essa dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente sarà la continuatrice
della romanità, reputandosi sua erede. L’aver recepito e accettato sarà un fatto non di poco conto
che assicurerà a questo codice una vita realmente lunga.
Questo è il primo codice ufficiale, perché i due precedenti sono codici a carattere privato, fatti da
privati. Mentre Teodosio II vuole il primo codice ufficiale della romanità. È grazie all’irruzione della
cristianità nel tessuto dell’Impero e al benestare della Chiesa, che il codice ha avuto una lunga
durata. Quindi questo è un aspetto molto importante. Questo codice sembra essere un precursore di
quella che poi sarà la compilazione Giustinianea

Alla fine il progetto originario viene molto ridimensionato però resta comunque un’opera di mole e di
importanza notevole, che segna l’irruzione della cristianità nel diritto romano perché accoglie solo
costituzioni cristiane e ciò fa sì che, nei fatti, questo Codice abbia una lunga durata e venga recepito dalla
Chiesa come codice ufficiale della romanità.
Anche qui l’importanza simbolica nel medioevo non è soltanto simbolica. Certi simboli, certi aspetti hanno
proprio un carattere pregnante. Il fatto che il codice Teodosiano sia riconosciuto della Chiesa come codice
della romanità in un certo senso per gran parte del medioevo il codice teodosiano avrà lunga vita e avrà una
diffusione notevole. Quando Giustiniano farà la sua compilazione e la estenderà anche all’Occidente (con la
pragmatica sanctio) incontrerà profonde resistenze, perché per la Chiesa occidentale il codice della
romanità è il codice Teodosiano, quindi la compilazione Giustinianea (opera di mole e significato
rilevantissimi) faticherà profondamente a penetrare in Occidente anche per la resistenza di quelle forze
tradizionali come la Chiesa che vedono nel codice Teodosiano, il codice ufficiale della romanità. Ricordate
che con l caduta dell’Impero romano d’Occidente la Chiesa eleggerà sé stessa come erede della romanità e
per loro il codice ufficiale è il codice Teodosiano.

L’INCONTRO TRA DIRITTO ROMANO E DIRITTO GERMANICO


Fino ad ora ci siamo occupati della volgarizzazione come semplificazione delle fonti del diritto romano che
viene a creare questo fenomeno di semplificazione e modificazione dato dall’incontro del diritto romano con
la prassi, che crea anche istituti nuovi (abbiamo visto gli esempi del colonato e del patronato che sono
istituti nuovi che prendono spunto dal diritto romano ma che poi si modificano e creano un nuovo tipo di
convenzione di tipo privatistico attraverso l’incontro con la prassi). Quindi la prassi modifica il diritto romano
e crea strutture, istituzioni, status, convenzioni, contratti nuovi.
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Veniamo adesso a parlare di un altro fenomeno che contribuisce anch’esso a modificare e in un certo senso
a volgarizzare il diritto romano: l’incontro del diritto romano con il diritto germanico. Questo è un incontro
tra due mondi profondamente diversi, due sistemi di diritto altrettanto differenti. L’uno, il diritto romano,
che da un sistema formale di diritto scritto va sempre più verso l’oralità; e l’altro, il diritto germanico
(prettamente orale e consuetudinario), che dall’oralità tenderà a trasformarsi in diritto scritto.
Abbiamo un incontro-scontro che darà vita ad una convivenza, per certi versi forzata, che necessita di
soluzioni che il diritto cercherà di fornire attraverso dei principi e delle produzioni assolutamente peculiari.
Anche in questo caso l’incontro di due mondi, e di popolazioni diverse dovrà dar luogo a soluzioni peculiari,
perché erano veramente due mondi molto diversi che avevano due modi diversi di concepire il diritto e la
società. Quindi l’incontro di questi due mondi dovrà creare dei ponti tra questi diritti diversi e tra queste
popolazioni diverse che dovranno convivere e il diritto dovrà trovare la soluzione.

Per quanto riguarda il diritto romano suoi connotati li conosciamo: è un diritto formale e scritto. Per quanto
riguarda i popoli germanici, non esiste un solo diritto germanico ed una sola organizzazione sociale
accomunante le molte tribù germaniche e barbare, ma abbiamo una diversità notevole tra le varie tribù tra
le quali è, comunque, possibile riscontrare dei tratti comuni. Per il nostro studio preziosissimo è Tacito che
nella sua opera “La Germania” mette in chiaro alcuni aspetti della società e del diritto germanico. Anche se è
un’opera del I secolo questi aspetti possiamo traslarli facilmente anche al periodo di cui stiamo parlando.

Non essendoci un solo diritto germanico, avendo più tribù, possiamo analizzare alcuni aspetti che
accomunano queste tribù germaniche:
NOMADISMO assenza di stanziamenti stabili; testimoniato anche dal mancato uso di un’agricoltura
intensiva.

FAMIGLIA cellula fondamentale della società in una concezione allargata che andava oltre i legami di
sangue: i componenti familiari, che costituivano il clan, condividevano i beni mobili. La loro unione familiare
era rispettata in battaglia. Anche l’esercito rispecchiava la composizione familiare in cui era divisa la tribù.

PRINCIPIO DELLA PERSONALITA’ DELLE LEGGI Per quello che attiene all’organizzazione più giuridica più
giuridica, il diritto obbediva al principio della personalità delle leggi in virtù del quale all’interno di un
medesimo territorio era riconosciuta la coesistenza di una pluralità di diritti, ciascuno dei quali era
applicabile ad una specifica etnia. Spesso ad un territori potevano appartenere più etnie, ciascuna etnia
aveva il proprio diritto. Questo della personalità del diritto sarà un principio che regolerà i rapporti tra
germani e romani nella maggioranza dei casi. Avremo che i germani obbediranno alla loro legge di stirpe
(visigoti, longobardi ecc.) mentre i romani potranno obbedire alla loro legge.
Questo è il principio della personalità del diritto un diritto diverso per ciascuna etnia che conviveva anche
nello stesso territorio. Noi del resto abbiamo un principio opposto, quello della territorialità del diritto chi
vive in un territorio obbedirà ad un’unica legge indipendentemente dalla propria etnia. Mentre nel mondo
germanico era prevalente questo principio della personalità del diritto.

ESERCITO L’esercito in armi era la struttura pubblica fondamentale. Quindi la struttura sociale
fondamentale era la famiglia ma che si rispecchiava nell’esercito che era la struttura PUBBLICA
fondamentale. Con l’ingresso nell’esercito – dopo la pubertà – i maschi raggiungevano lo stato di adulti,
sottratti alla potestà paterna e acquistavano con la capacità di portare le armi, anche la capacità di agire. La
donna per questo non aveva capacità di agire, se non con l’assistenza del padre, del fratello o del marito. La
capacità di agire è legata alla capacità di portare le armi quindi quando si entra nell’esercito, si portano le
armi si acquista la capacità di agire.
Quindi capacità soggettiva in capo a tutti ma capacità di agire legata strettamente alla struttura
fondamentale che è l’esercito.

PUNTO DI VISTA ISTITUZIONALE Solo nelle fasi più delicate il popolo delle varie tribù germaniche si davano
un re che era un capo militare, mentre normalmente erano i maggiorenti del popolo (quindi anche gli
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anziani, i capi militari, appartenenti alle famiglie più rispettate) a proporre le scelte che poi venivano
deliberate dall’assemblea. Il re era un capo militare che era nominato solo in caso di guerre ed era una
figura legata strettamente a momenti di emergenza normalmente era l’assemblea che rappresentava i
maggiorenti (le famiglie più importanti della tribù) a governare.

ASPETTI PRIVATISTICI Per quanto riguarda gli aspetti privatistici, erano popolazioni nomadi quindi vi era
solo la proprietà dei beni mobili sconoscevano la proprietà dei beni immobili, vigeva soltanto la successione
legittima e dunque tutti quei rapporti giuridici legati alla sedentarietà erano sconosciuti (ad es. testamento).

AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA La giustizia era amministrata dai capi eletti dall’esercito. La struttura
fondamentale, dunque, è l’esercito che elegge anche i soggetti che devono giudicare. L’esercito rappresenta
la società e la figura del re è solo eccezionale (in caso di guerra) ed è anche lui un capo militare.
L’amministrazione delle varie tribù è lasciata all’assemblea che rappresenta le famiglie più importanti, i
maggiorenti delle tribù.
Da un punto di vista del diritto, abbiamo una situazione che è profondamente legata al carattere del
NOMADISMO. La giustizia è legata, nell’ambito penale specialmente, alla faida, cioè la vendetta rituale.
Tutto legato alla legge del Taglione: se si arreca un’offesa, ci sarà una risposta uguale e contraria e quindi
un’altra offesa.
A poco a poco si andranno affermando le sanzioni pecuniarie: cioè l’idea di risarcire l’offesa ricevuta non con
un’altra offesa ma con una somma di denaro.

Per quanto riguarda le invasioni barbariche, tradizionalmente, la storiografia, vede in una delle concause
della caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Nei fatti, questi popoli germanici, e quindi queste invasioni
barbariche, godono di una pessima storiografia. Sicuramente il rapporto con questi popoli forse accelerò dei
processi degenerativi che erano già in corso nell’impero romano. In realtà i barbari entrano in contatto con i
popoli germanici non si può dunque parlare di invasioni. Queste popolazioni entrarono in contatto con
l’impero romano, ancor prima del V secolo, nel 476 quando viene deposto Romolo Augustolo (ultimo
imperatore dell’impero d’occidente) da un capo barbaro, ma in realtà queste popolazioni già dal IV secolo in
poi si iniziano a stabilire stabilmente nei territori dell’Impero Romano d’Occidente. Però in realtà questi
popoli già da tempo dialogavano con l’imperatore romano d’Oriente e d’Occidente. Infatti i loro primi
rapporti con gli imperatori nascono già dal II-III secolo quando gli questi, chiamano tali popolazioni
germaniche per essere assunte al soldo degli imperatori, per combattere come mercenari sotto i vessilli
dell’Impero. Spesso fanno delle razzie, come il saccheggio di Roma nel 410 d.C. ad opera di Alarico re dei
Visigoti, ma, in realtà, il saccheggio fu fatto da popolazioni che entrarono, saccheggiarono e se ne andarono,
contro l’imperatore Onorio che era venuto meno ai patti di ingaggio e non aveva pagato queste popolazioni
che avevano combattuto sotto i vessilli imperiali e poi non erano stati pagati. Si trattava, in realtà, di
saccheggi che erano isolati, spesso razzie.

Soltanto dal V secolo inoltrato queste popolazioni si iniziano a stabilire e creano dei regni all’interno di
quelle che ormai sono le macerie dell’impero romano d’Occidente. Però i primi sovrani di questi regni
continuano a farsi chiamare Flavi, cioè il nome della dinastia di Costantino, quasi ad indicare un rapporto di
ossequio nei confronti dell’impero. Le razzie che venivano fatte erano contro un singolo imperatore, non
contro l’Impero. Successivamente (già dal V secolo) quando queste popolazioni si stabiliscono all’interno dei
confini dell’Impero Romano d’Occidente, creano dei regni stabili che sono all’interno di quello che è ormai
l’ex Impero Romano d’Occidente ma questi sovrano germani hanno un grande ossequio nei confronti
dell’imperatore (in questo caso dell’Imperatore d’Oriente) infatti continuano a chiamarsi Flavi (proprio il
nome della dinastia di Costantino che fu un carismatico imperatore d’Oriente) in segno di reverenza nei
confronti dell’Impero. Il rapporto nei confronti dell’Impero è sempre un rapporto di ossequio non di
contrasto: possono contrastare un singolo imperatore non l’istituzione dell’Impero.

Come mercenari inizialmente non hanno una penetrazione stabile e sedentaria nell’impero: entrano nei
confini e se ne vanno. Poi nel V secolo inizia uno stanziamento stabile nelle macerie di quello che ormai era
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l’Impero Romano d’Occidente e si formano questi regni romano-barbarici regni in cui abbiamo dei sovrani
barbari (appartenenti a diverse tribù ed etnie) che si stanziano nelle varie parti dell’ex Impero Romano
d’Occidente. Ed ecco che qui sì abbiamo l’elezione di sovrano germanico stabile.
Quello che era un mondo nomade diventa un mondo che ora risente della SEDENTARIETA’. Creeranno un
regno che sarà barbaro, perché saranno i germani saranno la popolazione vincente, ma che avrà al suo
interno anche i romani regni romano-barbarici, in cui bisognerà garantire la sopravvivenza. Il diritto creerà
un ponte tra i vincitori e i vinti. Spesso capitava che i germani erano in numero inferiore rispetto ai romani
allora la convivenza veniva garantita attraverso la legislazione: creare delle normative che riuscivano ad
omogeneizzare entrambi i diritti e a far convivere romani e i germani.
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Lezione n. 3 – 07.10.2020
La lezione scorsa ci siamo fermati parlando di questo evento che modifica il diritto romano che lo volgarizza
in qualche modo a causa dell’incontro del diritto romano con la prassi nuova, l’incontro col diritto
germanico.
Abbiamo visto la diversità tra questi due mondi e diritti: da una parte il diritto romano che è un diritto
formale, scritto che a poco a poco con questo processo di volgarizzazione diventa diritto consuetudinario e
si va modificando col suo incontro con la prassi, questo diritto è un diritto di partenza scritto e formale che si
incontra con il diritto germanico che è un diritto profondamente diverso soprattutto un diritto a base
consuetudinaria ha veramente nulla di scritto.
Non c'è un diritto Germanico, queste tribù hanno ciascuna il proprio diritto, però abbiamo le leggi di stirpe
che riguardano queste varie popolazioni, come la legge di stirpe dei Franchi (la legge salica) o la legge di
stirpe delle popolazioni visigote, longobarde, che sono leggi solo dal punto di vista materiale e non formale.
Sono normative delle quali abbiamo visto gli elementi comuni che sono legati al nomadismo, quindi
l’assenza di proprietà privata, la predilezione della successione legittima rispetto alla successione
testamentaria, l’assenza di tutti quegli istituti che riguardano la proprietà immobiliare (perché sono solo
proprietari di beni mobili), la capacità di agire che è legata essenzialmente a quella che è la struttura
istituzionale più importante che è l'esercito quindi soltanto chi fa parte di esso può portare le armi e quindi
può avere la capacità di agire (non è riconosciuta pertanto alle donne e ai fanciulli) a differenza della
capacità giuridica che è riconosciuta a tutti. Tutto questo diritto ha una base consuetudinaria.

Si tratta dell’incontro di questi diritti che sono veramente complessi. Queste popolazioni entrano in contatto
(romani e germani) e bisogna trovare un ponte fra questi soggetti. Le invasioni barbariche sono un elemento
importante ma non è l’elemento centrale della caduta dell’Impero romano d’Occidente come spesso la
storiografia ha fatto notare. È l’incontro con le invasioni barbariche che dà un contributo molto importante.
Perché non le invasioni ma l’incontro con queste popolazioni?
Perché in realtà i Germani scendono all'interno dei confini dell'Impero Romano d’Occidente quando ancora
l’impero è vivo ed esistente perché spesso venivano chiamati dagli imperatori; queste popolazioni si
stabilirono all’interno dei confini occidentali con l’accordo dei palazzi di Bisanzio perché sono gli imperatori
che chiamano queste tribù, per assoldarle come mercenari per combattere le loro guerre. Vengono chiamati
come milites foederati (popoli stretti da un’alleanza con il trono) cioè come combattenti che combattono al
soldo degli imperatori per essere loro mercenari e sopperire alla scarsità delle legioni.
Quindi spesso scendono, fanno queste battaglie, e a volte può capitare che gli imperatori non pagano il loro
patto di ingaggio, non riconoscono quello che avevano pattuito ed è per questo che queste popolazioni
saccheggiano le città dell’Impero, ma agiscono contro l’imperatore e non contro l’impero. Famosissimo è il
saccheggio di Roma del 410 fatto da Alarico re dei Visigoti ma si tratta di un atto nei confronti
dell’Imperatore Onorio che l’aveva ingaggiato ma che non aveva pagato poi il suo patto di ingaggio venendo
meno agli accordi.
Ma in realtà queste popolazioni avevano veramente un rapporto di ossequio nei confronti dell'Istituzione
dell’Impero, potevano avere qualche volta dei rapporti tesi con qualche imperatore. Poi quando l’Impero
Romano Occidente crolla a questo punto si fermano, si stanziano. Quindi da popolazioni nomadi in un certo
momento si stanziano all’interno dei confini dell’Impero.

Alarico era generale federato che aveva concluso tantissime alleanze e re dei Visigoti. Era venuto in Italia
prima in qualità di dux sotto le bandiere romane della guarnigione della Pannonia e della Mesia; poi fu
nominato magister militum dall’imperatore d’Oriente Arcadio. Nel 410 Alarico e Onorio si incontrarono
nei pressi di Ravenna dove Onorio propose ad Alarico uno stanziamento in Spagna se fosse riuscito ad
allontanare i Vandali. Alarico accettò e iniziò ad incamminarsi, con il suo esercito, alla volta dell’Iberia ma
venne attaccato alle spalle da Stilicone. Questa notizia, tuttavia, è falsa perché Stilicone sarebbe stato
messo a morte due anni. Ad attaccarlo, invece, fu il goto Saro nonché suo nemico personale
probabilmente aizzato dallo stesso imperatore. Alarico, furibondo, rientrò a Roma saccheggiandola per
tre giorni ma senza
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che fossero molestati i luoghi sacri, non la incendiò tutta come si usava. È evidente che l’orribile evento fu
determinato più da spirito di vendetta verso Onorio; prima del saccheggio Alarico, dopo aver deposto
Onorio, fa nominare dal Senato di Roma Attalo imperatore, l’ex prefetto della città, che si era adoperato
per far riappacificare goti e romani. Alarico morì nel 410 in Calabria e gli succedette Ataulfo che condusse
i Visigoti in Gallia e ricominciò a combattere da federato sotto la bandiera di Onorio contro l’usurpatore
Giovino. Nel 414 sposò la sorella di Onorio, Galla Placidia, la quale accrebbe un sentimento filo-romano
del re che aveva pensato, addirittura, di sostituire l’impero romano con un Impero Goto di cui poter
essere acclamato Augusto. Lasciò il progetto perché i Goti non erano in grado di osservare le leggi scritte,
senza le quali lo Stato non è Stato.

Mentre prima venivano, combattevano, tornavano al Nord quindi uscivano dai confini dell’Impero, quando
cade l’Impero si stanziano e creano dei regni romano-barbarici.
In questi regni, solitamente non vi era un re, solo eccezionalmente era nominato un re che era un capo
militare. Sostanzialmente era l’Assemblea che rappresentava i maggiorenti (quindi le famiglie più
importanti) che prendeva le decisioni più importanti per le tribù stesse mentre il re era solo un capo militare
nominato per motivi di guerra o ragioni pressanti dal punto di vista militare.

Quando cominciano a stabilizzarsi dal punto di vista istituzionale qualcosa cambia. Sull’ex territorio
dell’Impero si formano questi regni romano-barbarici che hanno a capo un sovrano germanico; e questi
sovrani fin dall'inizio cominciano a farsi chiamare Flavi, dal nome della dinastia di Costantino (carismatico
imperatore d'Oriente) in segno d'ossequio nei confronti dell'Impero. Il prenome Flavius venne portato anche
dai generalissimi romani, dotati di vasti poteri ed insigniti del titolo di patritii, titolo onorifico risalente a
Costantino che lo aveva istituito per decorare le altissime cariche e configurava una parentela fittizia con
l’imperatore. Quindi anche quando formano i loro regni romano-barbarici, l'ossequio nei confronti
dell'istituzione-impero è intatto perché questi soggetti si ritengono quasi dei subordinati, dei continuatori
dell’Impero d’Occidente cioè ossequiosi in qualche modo nei confronti dell'imperatore - ormai c’è solo
l’imperatore d’Oriente – infatti si ritengono dei Flavi come appartenenti alla famiglia di Costantino

Quando viene a crollare l'impero romano d'Occidente questi soggetti si stanziano all’interno dei confini e
formano dei regni, mentre prima vengono e vanno, hanno interessi diversi, erano combattenti, non si
fermavano, spesso saccheggiavano; adesso dalla metà del V secolo in poi si fermano e creano questi regni
romano-barbarici.

 I Visigoti si impadroniscono della Gallia meridionale e più tardi in una parte della Penisola Iberica. Il
regno Visigoto durò dal 418 al 711, una durata molto lunga ma successivamente subirono la sconfitta
dei Franchi.

 Poi abbiamo i Burgundi che occuparono la regione tra Ginevra e Lione, anche loro poi sconfitti dai
Franchi.

 Poi avremo i Franchi stessi che si stabilirono nella Gallia settentrionale nel 481.

 I Longobardi che scesero in Italia nel 568 e conquistarono gran parte dell’Italia Settentrionale fino ad
arrivare al Duca di Benevento con un intervallo territoriale dato dai possedimenti della Chiesa
nell’Italia centrale. Anche i Longobardi verranno sconfitti poi dai Franchi.

 Poi vedremo anche Angli e i Sassoni che sbarcheranno in Inghilterra intorno al VI secolo.

Tutte queste popolazioni vedremo che una volta che si stabilizzano, avranno dei problemi dovuti alla
sedentarietà e dovranno veramente inventarsi un diritto nuovo, dovranno cambiare profondamente il loro
diritto che non conosceva alcuni istituti come la proprietà ad esempio perché non erano mai stati stabili.
Quindi c’è un forte fermento interno del diritto germanico e poi c’è anche da dire che dovranno convivere
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con i romani che già vivevano nei territori in cui si formano questi regni e che spesso li soverchiavano in
numero addirittura; quindi soggetti latini che avevano praticano il diritto romano. Quindi bisogna creare un
ponte tra vincitori (popoli germanici) e vinti (romani), tra etnie diverse e con diritti diversi che dovranno
convivere.

Per questo si troveranno degli escamotage. Siamo entrati nel medioevo e vediamo che spesso le soluzioni
arrivano dal basso. Ad esempio l’applicazione del principio della personalità del diritto può servire in questi
casi perché ad esempio i latini applicano il diritto romano e i longobardi il diritto longobardi ecc. Ma man
mano che si intensificano i rapporti tra queste popolazioni e si deve concludere, ad esempio, un negozio
giuridico bisogna trovare delle soluzioni e capire che diritto applicare. Per esempio in un negozio giuridico
concluso tra un romano e un longobardo che diritto applichiamo?
Ecco qui si trova una soluzione dal basso come le c.d. professiones iuris, cioè l’espediente adottato dai notai
per evitare confusioni: indicare in ogni carta la legge secondo la quale si sarebbe dovuto regolare e giudicare
il rapporto documentato. Cioè si diceva prima di stipulare un contratto ci si metteva d’accordo su quale
diritto doveva reggere quel negozio giuridico. La parte forte del contratto dichiarava di vivere secondo una
determinata legge per via della loro natio, ossia della 'nascita' che li aveva radicati all'interno di un
determinato gruppo etnico. Sono le professiones iuris a dare il segno che si era entrati nella personalità della
legge. Queste sono soluzioni che vengono dal basso, si iniziano a creare veramente le consuetudini comuni
ad entrambe le etnie.

Lo vedremo meglio quando parleremo della fonte consuetudinaria che sarà la fonte più importante per
tutto l’Alto Medioevo, che spesso le soluzioni nascono dal basso. Però, per trovare un ponte tra vincitori e
vinti un elemento importante fu la legislazione.
I Germani capirono che era importante legiferare: cioè una legge che veniva dall’alto perché era un ponte,
era lo strumento che i romani conoscevano.
Quindi per venire incontro a queste popolazioni, come ad esempio nel caso della Lex Romana
Wisigothorum, Alarico II (che era ariano) fu spinto addirittura dai vescovi cattolici perché capivano che era
necessario avere una legge scritta che in qualche modo regolasse i rapporti tra le varie etnie perché i romani
conoscevano quello come fonte principale per regolare i loro rapporti.

Togliamoci dalla mente che il sovrano medievale vollese innovare il diritto con la legge. Vedremo adesso in
realtà che queste fonti normative contengono materiale già esistente, non innovativo, però da un punto di
vista simbolico sono importanti, è importante la scelta di legiferare.
Quindi il ponte tra queste popolazioni, tra le consuetudini germaniche e il diritto romano, fu trovato nelle
leggi, nel legiferare. Vediamo qualche esempio di legislazione di queste popolazioni germaniche.

I VISIGOTI
L’episodio più importante fu la vicenda visigota con la nascita del più grande tra i regni barbarici, cioè quello
di Tolosa, in Gallia, e trasferito poi a Toledo a seguito della sconfitta ad opera dei Franchi di Clodoveo.
Molto diffusa e molto importante è la legislazione Visigota Nel 506 Alarico II, re dei Visigoti, fece comporre
la LEX ROMANA WISIGOTHORUM che prese da lui anche il nome di ‘’Breviarium Alaricianum’’ (Breviario
Alariciano) Era una ricca antologia di fonti normative romane vigenti tutte riprodotte più possibile vicino al
loro testo originale e non in compendi parafrasati. Questa fonte normativa si divideva:
- In una prima sezione di leges in cui era racchiuso circa un ottavo del codice di Teodosiano con l’aggiunta
anche di poche novelle di Teodosio stesso (cioè alcune costituzioni di Teodosio che non erano
ricomprese nel codice) e anche del suo collega Valentiniano III e anche di qualche suo successore.
- Una seconda sezione di iura che era dominata dalla presenza integrale delle Pauli receptae sententiae,
del Liber Gai con anche dei frammenti tratti del pensiero di Papiniano e poi, sempre in questa parte di
iura, sono compresi anche il codice Gregoriano ed Ermogeniano.

Vi starete chiedendo cosa ci stanno a fare il Codice Gregoriano ed Ermogeniano nella parte degli iura?
Perché c’è la presenza del codice Gregoriano ed Ermogeniano in questa seconda parte degli iura e in
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particolare degli iura volgarizzati? La storiografia si è chiesta perché questi due codici si trovano in questa
sezione quando sarebbe stato più normale trovarli nella prima sezione in cui ci sono le leges.
A quanto pare la scelta di Alarico II fu quella di inserire il codice gregoriano-ermogeniano in questa sezione
di Iura perché, in realtà, contenevano rescritti imperiali e non costituzioni e poi anche perché si trattava di
raccolte non ufficiali, raccolte private.

La storiografia dice che Alarico II ha preso questa iniziativa, di fare la Lex Romana Wisigothorum, per
ingraziarsi i vescovi e la popolazione cattolica desiderosi di una semplificazione dell'ordinamento e quindi di
avere una legge. Tanto più che il sovrano in quel periodo aveva bisogno di ingraziarsi questi soggetti per
avere il consenso e la fedeltà dei suoi sudditi alla vigilia di una battaglia con il re dei Franchi Clodoveo, in cui
Alarico II nel 507 morirà.
Comunque il movente per fare questa legge secondo la storiografia dominante, che anche Cortese
riconosce, è quella di ingraziarsi la parte cattolica che erano i romani e per farlo lo strumento fu dargli una
legge che aveva contenuto romano perché contiene leges e iura divisi nelle due sezioni (in particolare di iura
volgarizzati).

Quello che sembra interessante per lo storico giurista è che questa legislazione Alariciana si venne a porre
accanto ad un altro complesso normativo già esistente la Lex Wisigothurm nota anche col nome di Liber
Iudiciorum, il cui primo nucleo risaliva ad un codicetto emanato da Eurico, apparso circa nel 476 anno della
fatidica caduta dell’Impero romano d’Occidente. La storiografia comincia a chiedersi cosa ciò significasse
perché anche guardandole dal punto di vista del contenuto sono simili. Secondo un orientamento
storiografico più datato la Lex Wisigothorum risalirebbe ad una trentina di anni prima rispetto alla Lex
Romana Wisigothorum e quindi sarebbe stata realizzata dal predecessore di Alarico II che si chiamava
Eurico. Oggi la storiografia contraddice questo indirizzo e anche Cortese che afferma che la Lex
Wisigothorum e la Lex romana Wisigothorum sono tendenzialmente contemporanee e sono entrambe
opere di Alarico II.

Perché fare questo doppio binario legislativo, due leggi che nei fatti sono molto simili? Una volta accertato
che le leggi promanano entrambe da Alarico II ci si chiede perché. Anche nel dare questa risposta la
storiografia si è divisa.
La storiografia più datata diceva che questa era una esplicazione del principio della personalità del diritto
la Lex Romana Wisigothorum la usavano i romani mentre la Lex Wisigothorum la usavano i Visigoti.
Ma a ben guardare le due leggi sono troppo simili quindi che significato aveva distinguerle dal momento che
hanno un contenuto quasi identico.
In realtà, nella legge visigota non erano raccolte le tradizioni germaniche. Al contrario, conteneva un insieme
di regole tratte dalla prassi volgare romana che subirono una germanizzazione del testo. Sotto Eurico, i Goti
cominciarono ad avere leggi scritte. Per consentire di formare soldati, ma anche cittadini, e per garantire
l’instaurazione di rapporti fra Goti e Romani non vi era altro mezzo che imporre ai primi, che non avevano
leggi, di seguire quelle dell’Impero. Ma il codice ufficiale era troppo vasto e difficile per i barbari; e allora
venne fatta una sintesi della prassi volgari con cui i Visigoti erano entrati a contatto durante la militia
foederata. Non c’era, dunque, nessuna applicazione stretta del principio di personalità del diritto, vista la
politica dei re Visigoti che miravano a creare una vita giuridica comune.
Cortese a questo punto ha contraddetto l’idea che il doppio binario legislativo dipendesse dalla rigida
applicazione del principio della personalità del diritto. Secondo lui, in realtà, le due leggi stanno in un
rapporto di genus-species: cioè la Lex Romana Wisigothorum è più complessa e veniva usata per i negozi più
complessi; l'altra, la Lex Wisigothorum, era una legge che aveva un contenuto molto simile ma era molto più
semplice e veniva usata per negozi più semplici. Nei fatti poteva accadere che i romani usassero la Lex
Romana Wisighotorum (più complessa) e che i Goti usassero la Lex Wisigothorum (meno complessa) però
nei fatti entrambe le popolazioni utilizzavano entrambe le leggi.

LA LEX MUNDIALIS  legge secolare per antonomasia che i padri del Concilio di Siviglia, presieduto da
Isidoro, avevano invocato nel 619 indentificandola con il Breviario Alariciano. Ricompare nel 775 in una
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lettera indirizzata a Carlo Magno con la configurazione di lex totius mundi. Una prefigurazione vaga di diritto
comune tardomedievale.

I BURGUNDI

I Burgundi avevano attraversato il Reno ed erano entrati in Gallia come nemici dei Romani. Nel 4378, il
generale Ezio, insieme al re degli Unni Attila, vinsero una battaglia ed Ezio stanziò i Burgundi nella Sapaudia e
ne fece milites foederati. Il processo di romanizzazione iniziò con il re Gundobado il quale fu magister
utriusque militiae ed ebbe il titolo di patritius che contrassegnava i generalissimi, soprattutto barbari, delle
armate romane. Morì nel 516. È in questo periodo che vide la luce la legislazione burgunda.

Questo doppio binario legislativo poi si ripete in alti regni romano-barbarici. Infatti anche i Burgundi con re
Gundobado faranno una Lex Burgundiorum, emanata alla fine del V sec. e intitolata Liber constitutionum
(Lex Gundobada) e che restò in vigore anche dopo l’annessione della Borgogna al regno Franco (i Burgundi
avevano un regime diverso da quello dei Romani e alcune norme valevano per entrambi e i giudici dovevano
utilizzare il codicetto per risolvere le controversie tra Romani e Burgundi, come affermato dallo stesso re
nella prefazione) e una Lex Romana Burgundiorum di incerta apparizione, formata da 180 capitoletti con
materiale del codice teodosiano, Gregoriano ed Ermogeniano, gli iura, le Pauli Sententiae e il Liber Gai, tutto
esposto in forma parafrasata e non nel testo originale; quindi anche loro attueranno questa scelta di
mettere materiale romano nella loro legislazione. Dunque anche i Burgundi per creare questo ponte con i
vinti vi sarà la legislazione e la scelta di legiferare loro (da germani) con materiale romano.

Quindi queste leggi romano barbariche saranno peculiari perché nel caso dei Visigoti e dei Burgundi
abbiamo leggi con materiale romano ma promulgate da un sovrano germanico. Questo è un particolare
rilevante così come anche il doppio binario legislativo. Altro aspetto importante che spesso chiediamo è
capire che leghiamo queste leggi alla volgarizzazione perché in realtà contenevano materiale romano che
specialmente per quanto riguarda gli iura si trattava di iura volgarizzati (quelli che in quel periodo
circolavano e quindi la semplificazione del pensiero dei giuristi della Roma classica) perché in realtà loro
questo conoscevano cioè gli iura romani ma volgarizzati.

I LONGOBARDI

Nella primavera del 569, l’esercito longobardo del re Albonio si affacciò sulla pianura padana. I Longobardi
era un popolo ferocissimo e, al tempo di Giustiniano, erano stati in contatto con la civiltà romana, essendo
milites foederati sotto Roma e avevano ottenuto in “dono” la città di Norico e le fortezze della Pannonia.
- Secondo Paolo Diacono, erano rimasti nella regione per 42 anni e avevano partecipato alla riconquista
dell’Italia sotto Bisanzio;
- Secondo altri, furono richiamati in Italia da Narsete (loro vecchio comandante) destituito nel 567 e
furioso con il palazzo di Costantinopoli;
- Per altro, l’arrivo dei Longobardi serviva a calmare le mire dei Franchi sulla Pianura Padana.

Sicuro è che nei primi 3 anni, la spedizione di Alboino non incontrò alcuna resistenza da parte dei bizantini.
Non mancano comunque casi in cui si parla di crudeltà e sentimenti ostili nei confronti dei romani: Clefi,
infatti, massacrò ed esiliò cittadini romani per vendetta a causa della morte di Alboino a seguito di una
congiura; anche Autari, figlio di Clefi, diede luogo ad un massacro di nobili in quanto il padre fu assassinato.
Secondo Paolo Diacono vi fu anche l’imposizione di un tributo ai romani che diede inizio alla curtis regia di
Autari.

Scelta diversa fanno i Longobardi, una popolazione che arriva in Italia intorno al 568. È una popolazione che
gode di pessima stampa soprattutto per colpa della Chiesa che li ha sempre visti come una minaccia.
Immaginate infatti che il dominio longobardo si estende inizialmente nella parte Settentrionale d’Italia in
tanti ducati (perché hanno difficoltà a formare un regno unitario) sino a Benevento ma con l’intervallo
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territoriale della parte centrale che sono i domini della Chiesa. Questi sono di spettanza dell’Imperatore
Romano d’Oriente perché l’Italia centrale è una roccaforte, c’è l’esarcato di Ravenna e l’esarca è la
promanazione dell’Imperatore romano d’Oriente; si tratta dei rimanenti possedimenti dell’Imperatore
romano d’Oriente nel centro Italia e Roma, la città santa, è all’interno di questi domini orientali. Il regno
Longobardo si estende quindi dal Nord Italia, c’è questo intervallo nell’Italia centrale dove c’è la Chiesa (di
pertinenza dell’imperatore romano d’Oriente) e si estendono fino a Benevento quindi nella parte
continentale dell’Italia meridionale. Mentre Sicilia e Calabria sono ancora di spettanza dell’imperatore
romano d’Oriente cioè sono possedimenti orientali in Occidente.
La Chiesa ha sempre visto come una minaccia questi longobardi che la circondavano. Queste popolazioni
ariane sono dipinte, specialmente dalla storiografia cattolica, come popoli belligeranti che portano soltanto
la guerra. In realtà Rotari, un sovrano longobardo, nel 643 inaugura la tradizione legislativa di questo popolo,
poi vi sarà anche Liutprando che sarà anche lui un sovrano legislatore longobardo.

L’editto di Rotari
L’editto di Rotari è molto importante nel 634 perché anche Rotari capisce che è il momento di fare la scelta
legata alla legislazione, quindi anche lui decide di fare una legge. Però, a differenza dei sovrani Visigoti e
Burgundi, Rotari decide di mettere per iscritto le consuetudini longobarde: non metterà per iscritto
materiale romano, non promulgherà materiale romano già esistente ma metterà per iscritto le consuetudini
del suo popolo. Questa ovviamente è un’operazione molto complessa perché (questa è una costante che
vedremo nel nostro corso fino all’età moderna) mettere per iscritto delle consuetudini ha solitamente una
forte resistenza da parte della popolazione, perché è una fonte che è per sua natura viva, quindi metterla
per iscritto significa bloccarne il potere espansivo e cristallizzare quelle che sono legge e quelle che sono
fuori dall’atto normativo non lo sono più; è legge quella consuetudine che è contenuta in quella fonte
normativa (in questo caso l’editto di Rotari). Vi è una forte resistenza e quella di Rotari è un’operazione
importante, l’operazione di mettere per iscritto le consuetudini delle popolazioni longobarde.

Rotari inoltre sceglie di trasporle in latino perché è la lingua la lingua del diritto, è la lingua dotta, è la lingua
dei romani e metterle per iscritto in latino è anch’essa un'operazione complessa perché spesso non vi era il
termine latino per alcuni istituti che il diritto romano - e quindi i latini- non conosceva. Ad esempio il
guidrigildo, il mundio, sono termini germanici che non hanno trasposizione latina.
Vediamo che Rotari fa questa grande operazione e sceglie di legiferare e di mettere per iscritto le
consuetudini longobarde, a differenza dei sovrani visigoti e burgundi anche lui usa come metodo la
legislazione ma sceglie di mettere per iscritto le consuetudini del suo popolo.

 L’editto di Rotari contiene 380 articoli.


 Le leggi sono in forma siquata  la legge non ha carattere generale e astratta ma si parte da casi
concreti, quindi ha un forte carattere casistico.
 Inoltre è un enorme tariffario, molto minuzioso al punto da sembrare ridicolo  Nei fatti il sovrano
che sceglie autonomamente di fare questa legislazione e nel Cortese vi è un discorso molto
interessante sulla natura di questa legge, sulla natura di acclamazione o di scelta condivisa dal
sovrano da parte dell’Assemblea. Cortese dice che c’è chi dice che il sovrano avesse condiviso questa
scelta di fare questa normazione con questo contenuto, con l’Assemblea; nei fatti, pare che il gesto
fatto (gesto che Cortese nel libro lo dimostra molto bene, questa parte qui è molto interessante e vi
consiglio di vederla) di battere le lance contro gli scudi da parte degli esponenti dell’esercito in realtà
è un’acclamazione della scelta del sovrano che in realtà è una scelta individuale di fare questa
normazione. Rotari scrive, in fondo all’Editto, di aver fatto il codice con l’appoggio e il consiglio dei
primati iudices e di tutto l’esercito vittorioso; inoltre proclama di aver eseguito un solenne gairethinx
per confermare la legge rendendola inattaccabile e inviolabile e per darla in custodia perenne ai
sudditi. L’uso del termine gairethinx, che sta ad indicare l’approvazione popolare delle leggi, appare
tuttavia abnorme in quanto Rotari faceva discendere l’efficacia vincolante dell’Editto dalla propria
autorità, anche se l’idea dell’approvazione popolare sembra corroborare quella concezione pattizia
della norma, scaturita dall’accordo tra re e popolo. Vi dico questo perché è una normazione che
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mette per iscritto consuetudini già esistenti ma il sovrano fa anche una scelta molto importante. È
un’opera che è un enorme tariffario, che è in gran parte costituita da un’elencazione di offese, reati e
con le susseguenti composizioni pecuniarie. L’intento di Rotari è quello di superare, in qualche
modo, di far diminuire l'importanza della faida cioè la vedetta rituale che obbedisce alla legge del
Taglione. Quindi cioè nell’ambito del diritto penale se io faccio un’offesa, l'offeso appunto può
rispondere con una successiva offesa e questo creava veramente delle catene infinite di offese e
vendette. Questo che è un elemento comunque ancestrale del mondo longobardo, era realmente
una belligeranza continua e con Rotari si cerca di superare questo attraverso composizioni
pecuniarie quindi se si arrecava un'offesa era previsto un risarcimento cioè una composizione
pecuniaria, l’offeso poteva ricevere una somma di denaro. L’editto di Rotari è minuziosissimo in
questo perché è un’elencazione di offese; cerca di abbracciare il più possibile le offese che potevano
essere arrecate e i reati che potevano essere commessi con il tariffario e la susseguente
composizione pecuniaria e quindi il valore dell’offesa. (per fare qualche esempio: un pugno, sono 3
soldi; uno schiaffo, 6; una ferita in testa – purché la cicatrice resti nascosta – 6 soldi; per un occhio
strappato, la pena è pari alla metà del guidrigildo.)

In base a cosa era commisurato il valore dell’offesa e quindi il valore della somma da risarcire?
In base all’offesa ricevuta (se io faccio un furto, quel furto ha un valore; l’omicidio un altro) e in base anche
ad al valore sociale dell’offeso. Qui si vede veramente la struttura sociale longobarda. Ad esempio, l’offesa
arrecata al soldato (colui che apparteneva all’esercito) veniva pagata di più perché è più alto il rango sociale
del soggetto offeso. Rotari affermò di aver inasprito le compositiones per evitare risse. Se i poveri non
pagavano, perché le composizioni erano troppo gravose, era consuetudine consegnare il colpevole al
creditore in schiavitù. Con Liutprando, diventò legge: se la pena era inferiore ai 20 soldi, la servitù sarebbe
stata temporanea e limitata agli anni necessari ad estinguere il debito; in caso contrario, sarebbe stata
perpetua.

Rotari comminò poche pene afflittive: il taglio della mano per il reato di falso, ad esempio; la pena capitale
era prevista solo per la congiura contro il re, la diserzione, la collusione del nemico, ecc. E sono tutte
fattispecie prese dai regolamenti militari romani. Ma per l’omicidio dell’uomo libero o del barone, alla
famiglia della vittima andava pagato il guidrigildo (900 soldi). Qui subentra il discorso del GUIDRIGILDO. È il
valore sociale dell’uomo - in realtà dell’ucciso - quindi il valore sociale del corpo. Nel caso di un omicidio il
guidrigildo chiarisce il valore di quel soggetto; quindi se si uccideva un soldato il guidrigildo era altissimo, il
prezzo da pagare per il valore della persona del soldato che veniva ucciso, in questo caso era molto alto
come lo era anche l’omicidio di una donna che veniva risarcito con una cifra molto alta. Il guidrigildo era
dovuto anche per fattispecie gravissime e diverse dall’omicidio. La strutturazione del diritto criminale in
chiave economico, cominciò ad interessare anche il fisco. Infatti, lo stesso reo doveva pagare il proprio
guidrigildo per metà alla curtis regia e per metà ai privati. In tal modo si passa dal carattere privatistico a
quello pubblicistico di multa o ammenda.

Molto interessante nell’editto di Rotari è la FIGURA DELLA DONNA. Viene messa per iscritto quella che era la
visione dei popoli germani. Essa aveva la capacità giuridica ma non aveva un’autonoma capacità d’agire, cioè
non poteva porre in essere autonomamente negozi giuridici; per compiere questi atti la sua volontà doveva
essere integrata da quella del mundualdo colui che aveva il mundio il potere di rappresentare la donna e
integrare la volontà la sua volontà. All’inizio della vita della donna il mundualdo poteva essere il padre o il
fratello (quindi un esponente della famiglia d’origine) e al momento del matrimonio il mundio poteva essere
acquistato dal marito che diventava il mundualdo. Ma Rotari precisò che questo potere potesse essere
esercitato anche dalla curtis regia, in mancanza dei soggetti detti prima. La donna poteva avere capacità
giuridica ma non di agire, e questo status venne definito potestas. Sul sesso femminile vi era una doppia
potestas: quella familiare e quella specifica del mundio. Le due potestà potevano non essere nelle stesse
mani oppure il mundio poteva restare alla famiglia d’origine se il marito, non l’acquistava pagandolo.
All’inizio il prezzo era reale, ma poi divenne simbolico. Il mundio entrava nell’asse ereditario e poteva
capitare che i figli minorenni acquistassero mortis causa il mundio della madre.
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Il mundio sui liberti veniva quantificato al momento della loro manumissio in una somma fissa che costituiva
il prezzo del semilibero. Il mundio ha tre componenti: potestativa, protettiva e patrimoniale.
Questo nella storiografia (soprattutto quella cattolica che aveva una visione negativa del mondo longobardo)
ha dato luogo a notevoli degli equivoci perché quando guardando i manoscritti e i resoconti delle cerimonie
di matrimonio longobarde questo acquisto del mundio è stato scambiato per l’acquisto della donna nel
matrimonio; come se il marito acquistasse la donna. In realtà così non è perché nel matrimonio il marito non
acquista la donna ma acquista, se vuole, il mundio questa potestà di integrare la volontà della donna e
diventa mundualdo (cioè possessore del mundio). Se non l’acquista può restare nella disponibilità della
famiglia d’origine. L’atto conclusivo che perfezionava le nozze era la consegna della donna, la traditio, nelle
mani del marito ma alla donna veniva richiesto il suo consenso. Se veniva obbligata, il mundoaldo era punito
con la perdita del mundio. Padre e fratello erano sottratti a tale sanzione per la forza del vincolo familiare.
Alla donna andavano i doni dello sposo, in particolare il morgincap o dono del mattino (che non doveva
superare ¼ del patrimonio del marito). La posizione della donna era rafforzata da una donazione nuziale, la
meta o meffio, il cui ammontare era variabile contrattato dagli sponsali in un patto o in una fabula solenne,
messo per iscritto dal notaio. Se lo sponsus ritardava di oltre due anni il perfezionamento del matrimonio,
egli era obbligato a prestare la meta pattuita riscossa dal mundoaldo ma dato alla moglie. Aveva ora luogo la
cerimonia ecclesiastica della “subarrhatio anulo”. La scelta dell’anello a forma di alfa e omega era simbolico
e la forma circolare era simbolo di affectio e fedeltà. Al tempo dei Longobardi, gli effetti erano prodotti dal
rito civile e la chiesa infiltrava divieti matrimoniali ed ipotesi di nozze illecite aprendo la strada alla
successiva inclusione del matrimonio nel diritto canonico, in quanto materia spirituale.
Questo in realtà è un aspetto molto importante, la figura della donna. Nel mondo longobardo non vi è una
discriminazione di genere nei confronti della donna o un trattamento deteriore ma è un fatto strettamente
legato al diritto: la donna non ha capacità di agire così come non ha capacità di agire autonoma il fanciullo o
lo straniero; ma la donna, è tenuta fortemente in considerazione nel mondo longobardo, fa prova il
guidrigildo molto alto nel caso dell’uccisione di una donna. Questo crea veramente il valore sociale attribuito
alla persona nel mondo del diritto longobardo; un diritto che riesce perfettamente in questo aspetto.
Quindi il fatto che il guidrigildo, il valore, della donna è molto alto ci fa capire in realtà il rilievo della donna in
questo mondo longobardo.

 Ultimo aspetto importante da sottolineare riguardo l’editto di Rotari è l’aspetto che del processo.
L’editto di Rotari disciplina e quindi vediamo degli squarci del processo longobardo, il quale è visto
come un gioco dove il giudice era l’arbitro del gioco, non era chiamato a decidere nel merito. Per i
Germani antichi, scopo essenziale del processo era di allontanare la solita, sempre incombente
minaccia delle faide. Il processo è dominato, nel suo aspetto probatorio, dall’ordalia: il sistema
probatorio ordalico è un sistema nel quale, secondo la visione longobarda, è presente Dio. Quindi i
due contendenti in un processo si sottopongono a delle prove. Queste potevano essere fatte
individualmente: famosissima è quella di camminare sui carboni ardenti, in questo caso la presenza
di Dio comportava che se il soggetto superava questa prova allora la sua pretesa era vincente in
giudizio. Oppure poteva essere un’ordalia bilaterale cioè un duello, con armi vere o randelli, e chi dei
due contendenti, che avanzavano due controversie contrastanti in giudizio, vinceva il duello era lui
che aveva ragione. Chi vinceva otteneva soddisfazione e aveva l’obbligo di acquetarsi. Vedete come
c’è questa commistione notevole tra il mondo giuridico e il mondo fattuale: nei fatti siccome Dio era
presente nel processo, il sistema probatorio era dominato da questo aspetto e quindi accadeva che
chi vinceva le prove era quello che aveva ragione in giudizio. Quindi il giudice non era un soggetto
esperto di diritto ma era un soggetto che faceva da arbitro. C’era poco di strettamente giuridico in
questo processo. Un altro gioco ero quello di far giurare con sollenità il convenuto e l’imputato non
da solo ma insieme ad una schiera nutrita, a seconda del valore della causa, di soggetti. Erano
chiamati coniuratores o aidos o sacramentales. Quindi, anche i testimoni testimoniavano sulla
credibilità del soggetto e non sul fatto in controversia: più credibile era il soggetto (una delle parti in
causa), più testimoni portava dalla sua parte e più era facile che il giudice gli desse ragione. Dunque
non agivano propriamente da testimoni, perché giurano sull’affidabilità della persona (de credulitate)
e non sui fatti (de veritate).
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Questo è un altro aspetto molto importante di questo processo longobardo: sostanzialmente
identico nelle cause civile e in quelle penali, si riduceva quindi a una sorta di gara ludica, e l’ufficio
del giudice era di dirigerla secondo le regole stabilite dal diritto e poi di proclamare chi aveva vinto e
chi aveva perso. Non doveva accertare la ‘verità’, né stabilire chi avesse ragione e chi avesse torto,
perché questo non aveva rilevanza. Il principio accettato era che il convenuto o imputato, se
superava la prova, si riteneva liberato dalle pretese dell’attore nelle cause civili e ‘purificato’ o
‘purgato’ dalla colpa in quelle penali. Se invece soccombeva era tenuto a obbligarsi con wadia a
soddisfare la controparte, aprendo così la strada, nel caso di inadempienza, a una pigneratio privata.
Di procedimento esecutivo pubblico, naturalmente, neppure si parlava. Altra novità del processo
longobardo è la comparsa della prova scritta. Un cenno si trova in Rotari, nella norma in cui si
stabilisce che in giudizio può essere presentato il documento di compravendita di una terra o una
casa per smentire il venditore che pretenda di non aver venduto il bene. Rotari consiglia inoltre di
metter per iscritto a futura memoria la manomissione non solenne con cui un servo è stato fatto
aldio. La celebre notitia iudicati pavese del 762 mostra giudici che maneggiano documenti per
fondare su di essi la loro sentenza.

Questo è l’Editto di Rotari, siamo intorno al 643. Vediamo che Rotari fa una scelta diversa rispetto agli altri
popoli germani perché mette per iscritto le consuetudini longobarde e sarà una scelta che poi sarà seguita
da altri sovrani longobardi come Liutprando.

I FRANCHI
Tra queste popolazioni germaniche, una popolazione che ha rilievo notevole per la storia europea è
sicuramente quella dei Franchi.
La dinastia Franca si estenderà nei domini dell'ex Impero romano d'Occidente, si stabiliranno nella Gallia
settentrionale intorno a 481 e lì partirà il regno dei Franchi. A poco a poco all’interno di questa popolazione
la famiglia dominante diventerà quella dei Carolingi: la dinastia dominante sarà prima quella dei Merovingi e
poi quella dei Carolingi.

I Franchi non avevano una doppia legislazione anche se romanizzati e cattolici dal tempo di Clodoveo.
Sembra che proprio all’epoca di quest’ultimo, entrò in vigore il nucleo originario del loro Pactus legis Salicae,
una raccolta normativa fonte di un accordo tra il popolo franco e i suoi maggiorenti che stabiliva pene
pecuniarie per i reati e faceva leva su risarcimenti congrui per evitare la vendetta privata o la faida, flagello
sociale temuto. La compositio pecuniaria era fonte di ulteriori iniquità e andava fissata una tabella di valori.
Ecco perché tale Pactus può considerarsi come il più antico esempio di tariffario penale stabilito per legge.

La storia dei Franchi – e in particolare di questa dinastia – sarà una storia importante a livello europeo
perché si incrocerà con quella di un nuovo impero che nascerà nella notte di Natale dell’800 che il Sacro
Romano Impero. Protagonista della creazione di questo impero, della fine del regno longobardo che fu un
crollo rovinoso non solo perché sollevò polveroni locali ma anche perché si accompagnò ad un mutamento
dei rapporti tra Occidente e Oriente, e dell’arrivo dei Franchi negli ex confini dell’Impero Romano
d’Occidente sarà la Chiesa, già protagonista per quanto riguarda le fonti normative in quanto aveva
benedetto il codice Teodosiano perché era un codice espurgato dalle costituzioni non cattoliche e per
questo avrà una lunga vita. La Chiesa è la protagonista assoluta nel bene e nel male de destini europei per
tutto il Medioevo e anche per l’età moderna. Fu la Chiesa a determinare la fine del regno longobardo e
l’arrivo dei Franchi e in particolare della dinastia carolingia che ebbe delle conseguenze notevoli a livello
europeo.
Tutto ebbe inizio quando i re Longobardi decisero di conquistare Ravenna che interrompeva la continuità dei
domini longobardi che avevano capitale a Pavia. Questo era un sogno che turbava i sovrani longobardi già da
tempo. L’impresa fu tentata da Liutprando, re longobardo, che nel 726 occupò l’ESARCATO DI RAVENNA. Ma
apparve subito chiaro che l’operazione longobarda per una sua effettiva compiutezza (quindi per avere
questa unità territoriale) postulava anche la conquista della città eterna Roma.
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Questa è la prospettiva che ovviamente atterriva i vari pontefici che già male tolleravano un padrone seduto
a Costantinopoli, in Oriente (perché questa parte dell’Italia centrale era di appartenenza dell’imperatore
romano d’Oriente) figuriamoci cosa avrebbe provato il pontefice a sottostare un'orda di germanici (così
erano visti i longobardi) addirittura in casa propria.

Nonostante la pessima tradizione (soprattutto per merito della Chiesa) di cui godettero i Longobardi e
Liutprando (che provò a conquistare l’Esarcato), questi era realmente un principe cristiano e cattolico e non
aveva alcuna intenzione di scatenare una guerra di religione. Difatti, nel 728 restituì il castrum di Sutri, uno
dei punti più fortificati del ducato romano, per rassicurare il soglio di Pietro sulle sue buone intenzioni. Ma la
Curia non si fece commuovere e la sfiducia della Chiesa dovuta alle mire più volte fatte da Liutprando e da
altri sovrani longobardi sull’Esarcato e della minaccia contro Roma, determinò una costante paura della
Chiesa nei confronti di questo atteggiamento dei longobardi; tanto più che, da una parte la Chiesa non
riteneva l’Imperatore d’Oriente in grado di soccorrerlo e difenderlo dal punto di vista militare, dall’altro nel
726 i rapporti tra la Chiesa e gli imperatori d’Oriente erano rapporti molto tesi.
Proprio nel 726, l’imperatore d’Oriente Leone III L’Isaurico, fu un grande sostenitore di quella eresia che
dilagava in Oriente, l’iconoclastia  cioè il divieto del culto delle immagini sacre. Quindi immaginate che gli
imperatori d’Oriente, come Leone III L’Isaurico e altri, fecero asportare dalle chiese le immagini sacre.
Questo non fu visto di buon occhio dalla Chiesa e dai Pontefici.

Facciamo una premessa che ci porteremo dietro per tutte le nostre lezioni: La visione orientale e occidentale
della religione è molto diversa anche l'approccio del potere politico: in oriente vediamo come l’imperatore
Leone III Isaurico si intromette in fattori spirituali (l’imperatore impone il divieto del culto delle immagini
sacre), si insinuano all’interno delle questioni teologiche e religiose perché era dilagante la visione
cesaropapista cioè l’imperatore era anche capo della Chiesa; in occidente c’era la visione opposta, quella
ierocratica per tutto il medioevo i pontefici riterranno sé stessi dei superiori rispetto agli imperatori. Quindi
si tratta di due visioni diverse della religione per quanto riguarda l’Oriente e l’Occidente, prima ancora degli
scismi ufficiali di carattere religioso, abbiamo proprio la visione della politica nei confronti della religione.

Leone III L’Isaurico fa un atto cesaropapista, impone il divieto del culto delle immagini sacre. Ovviamente il
patriarca di Costantinopoli Germano si oppose, si dimise e fu costretto alla fuga. Si apre una battaglia tra
imperatore e i vari pontefici. Alla risposta dei pontefici contraria a questo divieto (del culto delle immagini
sacre) l’imperatore risponderà addirittura che il divieto è tassativo (imponendo tale dottrina coattivamente
con un decreto del 730) che in caso di disobbedienza poteva portare anche all’eliminazione fisica del
pontefice. L’Occidente insorse e una sinodo romana dell’anno successivo condannò l’iconoclastia. La
ritorsione del monarca fu severa e colpì la chiesa di Roma: gli imperatori cominceranno a fare imposizioni
fiscali anche alle Diocesi dell’Italia meridionale, sottratte al papa e sottoposte alla giurisdizione del patriarca
di Costantinopoli; i possedimenti ecclesiastici di Sicilia e la Calabria (ma anche all’interno della stessa Roma)
sono dell’imperatore romano d’Oriente il quale impone delle esazioni fiscali a quei territori che erano
solitamente esenti dalla tassazione; scoppiarono sommosse a Ravenna che portarono all’assassinio
dell’esarca Paolo; l’imperatore, la cui ira non conoscerà limiti, pretenderà di incamerare le rendite
ecclesiastiche delle Diocesi dell’Italia meridionale, bizantina (sotto il dominio dell’imperatore romano
d’oriente). Addirittura nella stessa città di Roma l’imperatore volle imporre l’iconoclastia, ad opera del nuovo
esarca Eutichio, e ridurre all’obbedienza anche la santa sede a costo anche dell’eliminazione fisica del
pontefice.
I pontefici di quel periodo (Gregorio II, Gregorio III) iniziano a maturare un’insoddisfazione verso questa
situazione. Da una parte c’erano i longobardi, dall’altra c’era un imperatore romano d’oriente che non solo
non era in grado di difenderli ma con cui i rapporti erano profondamente tesi. Per cui si pensò anche di
deporlo. A causa di questa insoddisfazione in questi pontefici monta la volontà di eleggere un imperatore in
Italia per spedirlo a Costantinopoli e avere un imperatore fatto in Occidente e far tornare l’Impero in
occidente. Però prevalse la moderazione: Gregorio II, il papa bersaglio delle minacce di Leone III l’Isaurico,
pronunciò parole distensive, invocando la fedeltà al trono bizantino.
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La goccia che fece traboccare il vaso, fu la destituzione del mite re longobardo Rachi che andò a morire nel
convento di Montecassino e l’assunzione al trono longobardo del bellicosissimo Astolfo il quale sorretto dal
partito guerrafondaio longobardo invase per l’ennesima volta l’Esarcato con la conquista di Ravenna tra il
750-751.
Questa volta, ai timori della Chiesa si affiancò anche l’indignazione dell’imperatore d’Oriente, infatti
Costantino V inviò al nuovo pontefice Stefano II un messo, il segretario Giovanni, portatore del comando di
recarsi a Pavia dal re Astolfo per intimargli di restituire Il maltolto. Stefano II nel 753 partì per Pavia,
supplicando il re di rendere al legittimo padrone i territori invasi ma il re gli diede ascolto. A questo punto il
pontefice si rivolge ai Franchi ed in particolare a Pipino Il Breve, che succedette al Padre Carlo Martello e
dopo essersi sbarazzato dell’ultimo sovrano merovingio assunse il ruolo di re dei Franchi nel 751, con
l’autorizzazione della suprema autorità morale: papa Zaccaria gli fu benevolo. Egli autorizzò la deposizione di
Childerico III e questo rappresentava un’inaudita interferenza del pontefice nella sfera temporale e che
offrirà un valido argomento ai canonisti per affermare che il papa poteva deporre i sovrani secolari. Pipino il
Breve, nel 751, ricevette l’untio sacra da Bonifacio. Pipino Il Breve inaugura la dinastia dei Carolingi.
Quindi il pontefice rifiutato da Astolfo si recò ad incontrare il novello re franco, Pipino il Breve, e l’incontro
avvenne a Ponthion, una località della Francia Settentrionale; e strappò al re Franco la promessa di
riconquistare l’Esarcato e di restituirlo.

Papa Stefano prolungò il proprio soggiorno presso i Franchi rassodò i legami con la nuova dinastia a tal
punto da indurre l’instaurazione di un rapporto fittiziamente familiare; ne conseguì che il progetto di tagliare
il tradizionale ancoraggio della Chiesa al trono d'Oriente, spostandolo in Occidente, venne maturando. Nello
stesso anno (nel 754) nel monastero di Saint-Denis a Parigi, Pipino e i suoi due figli Carlomanno e Carlo,
ricevettero l'unzione regia ed il titolo di patrizi romani. Pipino aveva già ricevuto l’unzione a re dei Franchi
dalle mani di San Bonifacio e non era possibile ripetere un atto sacrale con oggetto identico. La Nota de
unctione Pippini dice che Pipino e figli furono unti “re e patrizi” e configura un bizzarro e misterioso
conferimento di regalità e patriziato insieme. Il patriziato romano non si poteva dare con una unctio. Era un
titolo che da secoli erogava l'Impero e l’Impero soltanto. È difficile pensare che Costantino V avesse
autorizzato il progetto che Stefano in concreto realizzò. In realtà quel titolo di patritii Romanorum era
nell'Occidente l'appellativo che designava per antonomasia gli esarchi di Ravenna, e tutto fa credere che
Stefano II abbia voluto fare di Pipino e dei figli i nuovi esarchi. Eutichio, l’ultimo di nomina imperiale era
stato scacciato dalle armi longobarde; era interesse della Santa Sede sostituire in fretta il fuggitivo con un
personaggio efficiente e fidato. Quindi nei fatti per la Chiesa, dopo l'unzione sacra, Pipino il Breve e i suoi
due figli diventavano i successori dell’Esarca di Ravenna. Quindi una volta riconquistato l’Esarcato sarebbe
sorto un regno nuovo con la sostituzione dei Franchi rispetto all’Esarca solitamente nominato
dall’imperatore romano d’Oriente. Una volta riconquistato l’Esarcato nasce nuovo un regno, non doveva
tornare all’imperatore romano d’oriente ma restare come un affare occidentale tra i Franchi e la Chiesa.
L'unctio della cerimonia di Saint-Denis in regem et patritium di Pipino doveva aver avuto come nuovo
oggetto o un regno franco esteso all'Esarcato o un Esarcato elevato a Regno. Risulta dalla sua cancelleria che
Carlo Magno considerò appunto il patriziato dei Romani come una nuova corona. Si assegnerà questo titolo
dopo il 774, quando la definitiva sconfitta longobarda gli avrà dato in mano tutti i loro territori. Allora nulla
più gli impedirà di corredare con orgoglio l'intestazione dei propri documenti delle tre qualifiche, e di
presentarsi come rex Francorum et Langobardorum et patritius Romanorum. Tre titoli tutti chiaramente di
rango regio. Tre corone.

Infatti sempre nel 754 il Pontefice in un altro incontro con Pipino a Quierzy-sur-Oise, sempre in Francia,
ottenne dal re la Promissio Carisiaca cioè la promessa in cui il sovrano si impegnava una volta riconquistato
l’Esarcato di ridare alla Chiesa (non all'Impero ma alla Chiesa) l’Esarcato di Ravenna, una parte di Venezia, la
Corsica, l'Emilia, i ducati di Spoleto, di Benevento. Siamo ben oltre l’esarcato, si tratta di territori che
facevano parte dei possedimenti longobardi in Italia. Stabiliva che tra il papa e il re fosse maturato il
progetto di eliminare il regno longobardo, che tendeva a unificare l'Italia, e di spartirne il territorio: la
pianura padana ai franchi, il resto, al papa. È ovvio che si profilava il miraggio di un dominio peculiare a San
Pietro. La donazione non fu mai eseguita integralmente.
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Quindi la donazione venne, infatti, mantenuta in parte perché nel 756 i Longobardi vengono sconfitti e viene
riconquistato l’Esarcato; questi territori (alcune zone dell’Esarcato e dell’Emilia) non vengono attribuiti dai
Franchi all’Impero a cui spettavano, ma alla Chiesa. Quindi la Chiesa ottiene questo risultato importante. Si
viene a creare una situazione molto ambigua perché i Franchi riconquistano nel 756 l’Esarcato che era
caduto in mano longobarda, ma in realtà era di spettanza dell’imperatore romano d’Oriente. Questi territori
che vengono riconquistate dai Franchi, a parte la parte continentale dell’Italia meridionale e il nord che
costituiscono il vecchio regno longobardo, la parte centrale con l’Esarcato e con Roma era un’enclave
orientale, faceva parte dell’Italia bizantina insieme alla Calabria e alla Sicilia. In teoria riconquistata quella
doveva essere restituita all’imperatore romano d’Oriente con il quale inizia a partire una diatriba. In realtà la
riconquista franca fa sì che questi territori vengano restituiti alla Chiesa non all’Impero romano d’Oriente.
Da qui una situazione ambigua tra papato e impero: Bisanzio era preoccupata da tutto questo e il segretario
Giovanni, accompagnato dal protosecreta Giorgio, s'imbarcò alla volta della Gallia. Si trattava d'impedire il
ritorno di Costantinopoli nella sua capitale d'Italia, ma anche di evitare rotture con l'Impero, scandalose per
la Chiesa e non volute da Pipino. Nel 772, papa Adriano I fece mostra di agire da fedele suddito
dell'imperatore affrettandosi a consegnargli Paolo Afiarta, il capo del partito filo-longobardo di Roma perché
potesse giudicarlo e punirlo. Si atteggiò a titolare della giurisdizione sul territorio e cominciò a coniare
monete con la propria effigie e a datare i documenti ufficiali dall'anno del proprio pontificato. La Chiesa, da
tanti secoli istituzione dell’Impero, lo stava tradendo.

Sacro Romano Impero


A questo punto siamo nella seconda metà del 700 e avviene quello che è l’evento fondamentale del
Medioevo: il 25 dicembre dell’800 nella chiesa di San Pietro, Carlo Magno, che era succeduto al padre Pipino
il Breve, viene incoronato da papa Leone III imperatore del Sacro Romano Impero.
Il momento era particolarmente propizio perché intanto il trono d'Oriente era rimasto vacante perché stato
illegittimamente occupato dall’usurpatrice Irene che era una madre snaturata che addirittura aveva
deposto, imprigionato e accecato il figlio Costantino VI. Quindi il trono d’Oriente era vacante e a questo
punto a Chiesa, l’idea che già nel corso del 700 i vari pontefici avevano maturato di farsi un imperatore il
occidente qui si viene a realizzare. Quindi il figlio di Pipino il Breve, Carlo, diventa Carlo Magno e viene
incoronato imperatore del Sacro Romano Impero.

Piccola nota su Leone III: accusato l'anno precedente di adulterio e di spergiuro da una fazione della nobiltà
romana che gli era ostile, incarcerato e fortunosamente fuggito in Germania e messosi sotto la protezione dl
Carlo Magno, era tornato a Roma sotto scorta ed era stato deferito a un concilio romano che facesse luce
sulle gravi imputazioni che oscuravano la sua immagine. Il concilio si dichiarò non legittimato a giudicare un
pontefice, i testimoni di accusa si ritirarono e mancarono le prove. Ecco allora che il papa eseguì il
giuramento della propria innocenza. Il rito della “purgazione”: il papa eseguì il giuramento con i sacramentali
secondo la procedura germanica. Ed ecco pochi giorni dopo papa Leone officiare nella basilica di S. Pietro,
nell'occasione del Natale, la cerimonia che doveva elevare il patrizio dei Romani al rango di imperatore. Il
papa si prostrò nella proschinesi, atteggiamento adorante che doveva urtare un po’ la fierezza della Chiesa
occidentale.

La nascita di questo impero Sacro e Romano ha avuto un fortissimo potere simbolico per la Chiesa. Da quel
momento per la Chiesa, la notte di Natale dell’800, per la Chiesa rinasce un impero romano in Occidente
dopo la deposizione di Romolo Augustolo nel 476 e ritorna un impero romano in Occidente e questo è il
momento della Chiesa. Da questo momento avremo una renovatio imperii rinasce l’impero in Occidente
per la Chiesa. Si tratta di un impero che ha un carattere fortemente simbolico perché è sacro cattolico e
romano continuatore della romanità e poi questo imperatore viene incoronato dal Pontefice e questo è
un chiaro gesto di subordinazione dell’imperatore nei confronti del pontefice. Questa è la visione ierocratica
che è in Occidente dominante. Nella storiografia cattolica passerà questa idea fortemente simbolica e rituale
di questo grande impero che rinasce e abbraccia veramente gran parte dell’Europa. Si tratta della visione
della Chiesa, visione cattolica.
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Nel mondo germanico, per Carlo Magno in realtà, l'impero non aveva tutto questo significato simbolico.
L’impero per Carlo Magno era un’unione di territori, svuotato dei suoi contenuti ideologici legati alla
romanità, era visto solamente come una unione di territori. Quindi sono due visioni diametralmente
opposte. Il fatto è lo stesso, la nascita dell’Impero, ma per la Chiesa ha un forte significato simbolico; per
Carlo Magno no. C’è addirittura chi dice, tra gli storiografi dell’epoca, che Carlo Magno non fosse neanche
informato di questa incoronazione della notte di Natale dell’800 perché (come dice Cortese) se lo avesse
saputo neanche sarebbe entrato a San Pietro quella notte. A Carlo Magno faceva piacere questa unione di
territorio, diventerà re dei Longobardi e dei Franchi, Esarca di Ravenna (che adesso apparterrà ai Franchi), e
acquisterà il titolo di imperatore del Sacro Romano Impero. Questa incoronazione crea profondi contrasti
con gli imperatori dell’impero romano d’Oriente, vi saranno contrasti continui con Costantinopoli sede
dell’Impero romano d’Oriente.

Si pensò di unire i due imperi combinando un matrimonio tra Carlo e l’usurpatrice Irene. Le nozze non si
celebrarono, Irene fu deposta quell'anno stesso e morì l'anno dopo. I rapporti del successore Nicefòro con
Carlo si guastarono e solo nell'812 si giunse a un compromesso: Carlo avrebbe mantenuto la qualifica
imperiale ma non il nome di 'imperatore Romano' o 'dei Romani', che era titolo di cui si riconosceva
l’esclusività al monarca d’Oriente.
Nell’812 nella battaglia di Aquisgrana, Carlo Magno avrà una sconfitta e rinuncerà tranquillamente al titolo di
imperatore del Sacro Romano Impero, intessuto di maiestas e universalità e altre idealità astratte che poco
comprendeva. però nei fatti a lui interessava la composizione territoriale di questo Impero, più ancora che
l'idea di essere imperatore dei romani con tutto quello che ne deriva da un punto di vista simbolico.
Quindi vediamo che per la Chiesa veramente nasceva un’entità universale dal punto di vista temporale e
spirituale e aveva un connotato simbolico realmente rilevantissimo. Per Carlo Magno no, nasceva un’unione
territoriale o poco più di questo. I franchi germani sono profondamente medievali da questo punto di vista,
infatti guardano alla sostanza che alle forme e guardano cioè alla nascita di un nuovo impero che è
cosmopolita; che abbraccia gran parte dell’Europa; che ha delle problematiche dal punto di vista anche
religioso perché è un impero multietnico e multi-religione (in cui abbiamo la religione cristiana, la religione
ariana, in cui si vanno affiancando cristiani cattolici, ortodossi, ebrei).

Per la prima volta, nel medioevo nasce un impero che ha una sua diffusione globale e Carlo Magno si
occuperà di omologare anche da un punto di vista culturale il suo grande impero. Egli cercherà di dare dei
connotati comuni, ad esempio dal punto di vista culturale sarà la prima volta che nascerà una scrittura
comune la carolina che è la prima scrittura corsiva maiuscola che l’Occidente conosca. Inoltre cercherà di
omologare anche da un punto di vista della cultura del suo grande Impero e si circonderà di uomini di
cultura. Questo perché cercherà di dare delle direttive comuni ad un impero che era veramente sterminato
e multietnico (etnie longobarde, franche, gote, romane si trovavano tutte all’interno di questo grande
impero).
Carlo Magno cercherà di omologare anche dal punto di vista del diritto, cercherà di governare questi
territori diversi. La consuetudine sarà la fonte predominante però, in questo periodo alto medievale, sarà la
fonte principale, l’Europa è retta dalla consuetudine. È questo il periodo in cui si va formando il feudo e
l’istituzione feudale che è l’istituzione economica e sociale nel medioevo. Nel periodo franco si vanno
formando queste istituzioni feudali e hanno base consuetudinaria. Però, nonostante questo, vediamo che
da Carlo Magno vi è un impulso forte anche per legiferare. La legislazione ha un carattere di
amministrazione in questo regno. Cercherà di amministrare attraverso la legislazione questo regno. I
rapporti tra privati verranno gestiti dalla consuetudine però per amministrare questo grande regno Carlo
Magno userà anche la legislazione.

DA STAMAPRE DI QUESTA PARTE: pag 9-10-11 (paragrafi 8-9-10-11-12-13-14-15); pag 16-17-18 (paragrafi 9-
10-11-12-13); pag 21-22 (solo paragrafo 9 e 11).
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Lezione n. 4 – 8.10.2020

Ieri abbiamo introdotto i Carolingi. I Franchi avevano come dinastia dominante i Merovingi e poi dalla
metà del 700 circa la dinastia Carolingia con capostipite Pipino il Breve che aveva due figli Carlo (che poi
diventerà Carlo Magno) e Carlomanno. Quest’ultimo sarà molto sfortunato, perché con la morte del
padre diventa sovrano insieme al fratello e poi muore in circostanze misteriose. Tale dinastia, rispetto ad
altre popolazioni di cui abbiamo parlato, è fondamentale perché veramente uniscono la loro dinastia ad
una dinastia imperiale, quindi sono a capo di un impero: IL SACRO ROMANO IMPERO.

Tale impero avrà un forte significato simbolico per la Chiesa; sarà un impero di lunga durata del quale
seguiremo le sorti. Nella storia di cui noi parleremo (medioevo e parte dell’età moderna), questo impero
sarà sempre sullo sfondo nel corso delle lezioni, noi magari non ne parleremo più ma sarà sempre
presente. Noi non seguiamo l’aspetto istituzionale, quindi non possiamo seguire tutte le vicende, però
sappiamo che questo Sacro Romano Impero che nasce con i Franchi, poi avrà il suo centro verso il 900
verso l’area tedesca (con gli Ottoni), però questa esperienza che durerà moltissimo nel tempo inizia con i
Franchi e con l’incoronazione di Carlo Magno il 25 DICEMBRE 800, data importantissima in cui molte cose
cambiano.
È una data molto importante per noi e dal punto di vista simbolico è fondamentale: con
quest’incoronazione di Carlo Magno da parte del Pontefice, arriva al culmine quest’idea dei pontefici (che
per gran parte del 700 hanno problemi grossi con i Longobardi, con l’Imperatore d’Oriente) di creare un
loro Imperatore in Occidente.
Ed è quello che la Chiesa ha fatto con l’incoronazione di Carlo Magno. La Chiesa è protagonista nella
situazione politica, è la Chiesa che crea questo impero che è visto come continuatore della romanità ed è
voluto appunto dalla Chiesta che ritiene sé stessa come continuatrice della romanità (come vedremo
quando parleremo del diritto canonico).
Questo impero esplica questa unione tra lo spirituale e il temporale all’interno di questo impero: impero
sacro e romano. Un rilievo simbolico fondamentale.

Nella visione germanica, per Carlo Magno, in realtà l’impero è un’unione di territori, non ha niente di
simbolico, si tratta di territori che Carlo Magno vede come possedimenti propri. Si tratta di una idea alla
quale bisogna abituarsi perché è quella che poi ci introdurrà al feudo.
Nel Medioevo abituiamoci che non c’è distinzione fra pubblico e privato: per l’imperatore – e per i sovrani
in genere – nella visione medievale (rispetto al mondo romano dove la distinzione tra diritto pubblico e
privato era chiara) la distinzione fra pubblico e privato non è facilmente riscontrabile.
Per Carlo Magno l’Impero è un’unione di territori e questi territori sono suoi. Tanto che alla sua morte li
divide ai figli. Tra questi, Ludovico il Pio, alla morte di Carlo Magno (814) sarà il suo successore, e verrà
incoronato dal padre stesso e non dal Pontefice, questi ci fa vedere come l’Imperatore cerca di smarcarsi
da questa idea del pontefice come tenutario del potere tanto da incoronare l’imperatore. Pertanto sarà
poi Carlo Magno ad incoronare il figlio.
Dai successori di Carlo Magno in poi, gli imperatori, riterranno l’impero loro territorio, le terre loro, che
spesso infeuderanno per i loro fedeli. Quindi nei fatti i vari eredi di Carlo Magno si divideranno il territorio
e, a loro volta, lo frazioneranno nei confronti dei loro feudatari. Il SOVRANO E’ CONSIDERATO IL PRIMO
FEUDATARIO DEL REGNO (nel caso dell’imperatore è il primo feudatario del regno). Perché c’è questa
visione in cui il territorio è cosa propria (è di appartenenza dell’imperatore in questo caso), non cosa
pubblica. L’idea di impero di Carlo Magno sarà quella di un’unione di territori. È la Chiesa che dà questa
idea (che sarà prevalente) di un impero sacro-romano, di questo aspetto simbolico.

Inoltre prima di morire Carlo Magno nel 813, fece sostituire la scritta Renovatio Imperii Romani incisa sul
proprio sigillo con Renovatio Regni Francorum adottate da Ludovico il Pio; e sulla pietra tombale verrà
celebrato come “l’imperatore che ha nobilmente ampliato il regno dei Franchi” dove è evidentissimo che i
Franchi rinnegavano la romanità dell’Impero carolingio cosa che, invece, continuò a essere propugnata
imperturbabile dalla Chiesa.
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I CAPITOLARI
Dal punto di vista culturale abbiamo visto che - nonostante Carlo Magno e i suoi successori (nonostante
ritengano l’impero come semplice insieme di territori - nasce un impero con moltissime etnie è quindi
necessario un tentativo di uniformità.
Da un punto di vista culturale abbiamo visto che nasce la carolina che sarà la prima scrittura comune,
corsiva maiuscola che l’Occidente conosce.
Dal punto di vista del diritto, la fonte più importante che regola i rapporti fra i privati è la consuetudine,
però nonostante questo possiamo dire che i sovrani carolingi (quindi da Carlo Magno in poi) ebbero una
produzione normativa che è proporzionata alle scarse esigenze della vita semplice e alla presenza della
consuetudine, ma che comunque può dirsi abbastanza rilevante. Alle norme dei sovrani carolingi si dà il
nome di capitolari.

CAPITOLARI sono le norme dei Franchi e prendono il nome di capitolari perché non apparivano come
precetti singoli ma sono sotto forma di serie più o meno lunghe e non sempre omogenee di brevi capitoli,
quindi erano divise in capitoli.
Il termine capitulare segna una svolta nel linguaggio legislativo; la parola lex rimane riservata a designare i
complessi normativi popolari; scompare la parola edictum e si attenua gradualmente l'uso di decretum o
decretio, praeceptum o praeceptio.
Esse nascevano, venivano pubblicate, in diete o riunioni pubbliche nelle quali era sicuramente presente
l’imperatore. Queste riunioni si chiamavano PLACITI ed erano riunioni a carattere giurisdizionale (ne
parleremo quando parleremo del Placito di Marturi) un po’ come nello schema del processo. A questi
placiti oltre all’imperatore erano presenti i grandi dell’Impero, cioè i rappresentanti delle famiglie più
importanti che ponevano quesiti di diritto all’imperatore al fine di una loro risoluzione. A tali quesiti
l’imperatore dà risposta e tale risposta è già legge. Spesso però accadeva che questa legge venisse messa
per iscritto perché, dal punto di vista costitutivo basta la sola risposta dell’imperatore, ma ovviamente
tale legge deve essere conosciuta nei vari angoli dell’Impero, allora per un fatto di pubblicità notizia
solitamente sono i marchesi o i conti (grandi feudatari) e i missi dominici (funzionari imperiali) che
diffondevano la legge per tutto l’impero attraverso la lettura delle copie della legge che, a loro spese,
questi soggetti si facevano scrivere dai chierici amanuensi. Questi soggetti fanno mettere per iscritto i
capitolari dai chierici amanuensi che sono depositari del sapere in questo periodo perché i monasteri
erano gli unici centri di cultura quindi essi avranno il MONOPOLIO DELLA CULTURA, e sono questi i
soggetti che sanno scrivere: i chierici amanuensi.
Dunque questi conti e marchesi che a spese loro fanno mettere per iscritto la legge del sovrano ne
daranno lettura nei vari angoli dell’impero ma per un fatto solo di PUBBLICITA’ NOTIZIA. Perché nei fatti la
legge già è perfetta e già formata nel momento in cui vi è la risposta dell’imperatore. La risposta data
oralmente dall’imperatore a questi quesiti di diritto era già legge.

I capitolari, specialmente dopo la morte di Carlo Magno, vennero specificandosi in categorie diversificate
a seconda della funzione (del contenuto loro) e dei destinatari.

Per quanto riguarda il CONTENUTO, la FUNZIONE di questi capitolari abbiamo:


 CAPITULARIA ECCLESISTICA che contenevano provvedimenti relativi al clero, alle chiese e ai
monasteri; dunque che riguardano il mondo della Chiesa.
 CAPITULARIA MUNDANA che riguardano il mondo laico
 CAPITULARIA MISSORUM contenevano istruzioni per i missi dominici, ovvero per i funzionari
che in qualche modo rappresentano l’imperatore nei vari angoli dell’Impero con i compiti più vari:
di giurisdizione, di governo, di controllo, di amministrazione.

Con riferimento ai DESTINATARI è fondamentale la distinzione tra:


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 CAPITULARIA LEGIBUS ADDENDA Avevano il ruolo importantissimo di modificare e aggiornare le
leges popolari cioè le leggi di stirpe, le leggi ancestrali delle singoli stirpi, delle singole natio per
adeguarle alla volontà del sovrano (ad esempio integrava gli editti longobardi, o la legge salica=la
legge di stirpe dei Franchi).

Questi capitolari legibus addenda obbedivano al principio della personalità del diritto, erano
norme che valevano ed erano emanate per singole stirpi e popolazioni. Ad esempio le leggi
emanate per un longobardo. I capitolari legibus addenda che integravano gli editti longobardi (i
longobardi erano sconfitti ormai), che l’imperatore emanava per aggiungerli agli editti longobardi
per armonizzare gli editti longobardi con la volontà dell’imperatore, erano dati per i longobardi e i
longobardi li seguivano in tutto il territorio. Erano fatti per quella stirpe (non territorio) in
obbedienza al principio della personalità del diritto.

Dopo la consacrazione imperiale di Carlo Magno, nemmeno le leggi popolari vennero trascurate
dal monarca che con dei capitularia legibus addenda per le singole etnie va ad integrare le leggi di
stirpe delle varie popolazioni (capitolari per i longobardi, per i franchi, per i romani stessi).

Nell’802 Carlo Magno, approfittando di una tregua nelle guerre, raduna un concilio generale, e dà
lettura pubblica delle leggi popolari, e in tal modo ne riconosce il rilievo, le cristallizza,
bloccandone la creatività. Darne lettura significa che quelle lette dall’imperatore sono vincolanti e
quelle che non sono state lette dall’imperatore non sono più vincolanti. Ne cristallizza in qualche
modo i significati bloccandone la creatività.

Nell’ 803 furono emanati i capitularia addenda alla legge Salica perché Carlo Magno si accorse
delle lacune e dalle imperfezioni e si ripropose di migliorarle. Data l’attenzione che il sovrano
voleva dimostrare nei confronti di questa legge di stirpe, richiese e ottenne molti
consensi .Nessuna richiesta del consenso popolare echeggia invece quando i capitularia legibus
addenda vanno a modificare il patrimonio ancestrale di gente vinta e conquistata.
Carlo Magno, quando aggiorna gli editti di Rotari e Liutprando dice al figlio Pipino re d'Italia di
farne l'adnuntiatio, ossia di intimarli pubblicamente e farli osservare. La adnuntiatio non era altro
che la manifestazione solenne della volontà sovrana, necessaria e sufficiente a dare alle norme
forza vincolante.

È questo il lavoro che fa Carlo Magno con la normazione: sono tutti tentativi di omologare con la
normazione il vastissimo impero. I capitularia legibus addenda servivano dunque come forza
d’attrazione nella sfera legislativa del sovrano anche delle antiche leggi popolari. L'unità
dell'ordinamento generale dell’Impero è, in parte decentrato, ma sempre tenuto sotto il controllo
dell’unico potere centrale.

Da una celebre lettera scritta tra l’817 e l’822 da Agobardo, arcivescovo di Lione, all’imperatore
Ludovico il Pio viene messo in luce come la pluralità dei complessi normativi delle varie etnie
attentava al principio di unità invocato dalla Chiesa. Accade spesso, lamenta il prelato, che cinque
persone si trovino insieme e invece di regolarsi in modo uniforme seguono cinque leggi diverse, il
che finisce coll’incrinare quell’unità che la Chiesa, retta dall’unica legge di Cristo, esige. Per
risolvere tale problema i notai ricorsero ad alcuni espedienti quali quello delle professionis iuris.

 CAPITULARIA PER SE SCRIBENDA Poi abbiamo i capitularia per se scribenda che sono invece
norme che vengono emanate dall’imperatore per tutti i territori dell’Impero. Quindi leggi che
obbediscono al principio della territorialità dell’impero.
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Vedete quindi la differenza fra questi due tipi capitolari che formano un sistema complesso. Da una parte
abbiamo i capitolaria legibus addenda che obbediscono al principio di personalità del diritto che vanno ad
integrare le leggi di stirpe, quindi sono norme emanate dall’imperatore per le singole etnie che si vanno
ad aggiungere alle leggi di stirpe longobarda, agli editti longobardi (in gran parte messi per iscritto
dall’Editto di Rotari), alla legge salica (legge di stirpe franca), norme emanate per integrare la legge di
stirpe romana; dall’altro, abbiamo i capitolaria per se scribenda, obbediscono al principio di territorialità
perché sono emanati per tutto l’impero, per tutto il territorio. Quindi tutti gli abitanti di quel territorio
devono obbedire a quelle leggi che sono emanate secondo il principio della personalità del diritto.

Ad esempio il Capitolare italico fu emanato da Carlo Magno per tutto il territorio della penisola italica,
quindi in qualche modo vediamo come tutti quelli che stavano nel territorio italiano dovevano obbedire a
questo capitolare, quindi si tratta di un capitolare per se scribenda che in qualche modo obbligherà tutti
gli abitanti di un territorio indipendentemente dalla natio di appartenenza.
Si tratta di un complesso notevole che si venne formando via via dopo la conquista franca e fu aggiunto
agli Editti longobardi. Una nota elenca le occasioni (successioni, documentazione, giuramenti e
composizioni pecuniarie dei reati) in cui Longobardi e Romani adottavano le loro diverse leggi nazionali e
proclama che nelle altre materie tutti avrebbero usato la 'legge comune' aggiunta da Carlo Magno agli
Editti.
Carlo Magno ingiunse a Pipino di far mettere nell'ordinamento italiano anche i capitolari dell'803 che
riformavano la legge salica, per dare un tocco di uniformità alla sua politica legislativa nei confronti delle
varie genti.
Un segno dell’insuccesso nella divulgazione dei capitolari italiani, per esempio, può trovarsi nell’episodio
dell’imperatore Lotario che si sarebbe visto costretto, nell'832 a emanare per l'Italia un piccolo gruppo di
dieci estratti di norme di Carlo Magno e di Ludovico il Pio. Queste entrarono col tempo nel Capitulare
italicum che rimase parte viva dell'ordinamento del Regno d’Italia e si andò incrementando fino a Enrico
2° (III) imperatore e re d'Italia, e risalgono al 1054.

Quindi vediamo che un impero complesso ha bisogno di un sistema di diritto e normativo anch’esso
complesso. Dunque, effettivamente, vediamo come grazie a questo sistema messo in piedi da Carlo
Mango (che poi reggerà anche dopo) si cercherà in qualche modo di governare questo impero che è fatto
da etnie diverse. Il principio della personalità del diritto soltanto non basta, così come anche le
professiones iuris cioè quegli escamotage che vengono dal basso in virtù del quale se facciamo un
contratto, ci mettiamo d’accordo, le due parti si mettono d’accordo su quale normativa reggerà quel
contratto. Ad esempio se sono un longobardo e un romano stabiliranno sin dall’inizio quando stipulano il
contratto che esso nel corso della sua vita alla legge romana o alla legge longobarda. La stessa cosa se
sono un franco e un longobardo obbedirà alla legge franca o alla legge longobarda. Tutte insieme
compongono questo ordinamento cioè sia escamotage dal basso come le professiones iuris ad esempio,
la grandissima base o zoccolo durissimo e ampio fatto dalla consuetudine, e anche per la corretta
amministrazione dell’Impero (al fine di omologare le varie legislazioni e venire incontro ad esigenze
amministrative più che ancora che della vita dei provati che viene regolamentata dalla consuetudine)
vediamo come gli imperatori faranno – da Carlo Magno in poi - questa distinzione tra captolaria legibus
addenda (che obbediscono al principio della personalità) e i capitolaria per se scribenda (che obbediscono
al principio della territorialità del diritto) cioè che l’imperatore emana per tutti gli abitanti del territorio
indipendentemente dalla natio di appartenenza.

LE FALSIFICAZIONI
Adesso entriamo in quel fenomeno molto rilevante delle falsificazioni. Accade che Carlo Magno e suo
figlio Ludovico il Pio sono i primi imperatori che hanno un occhio di riguardo e in qualche modo
partecipano all’organizzazione della Chiesa. Questo intervento degli imperatori avviene in maniera
veramente fattivo, nel senso che i Franchi erano stati chiamati dalla Chiesa la quale, in questo particolare
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momento storico, accetta di buon grado la partecipazione e l’aiuto degli imperatori per la sua
organizzazione.
Diciamo che questo è un periodo (fine del 600 e la prima metà del 700) di profonda crisi per la Chiesa. Gli
imperatori intervengono profondamente. La Chiesa ne aveva gran bisogno che i sovrani intervenissero: la
sua decadenza aveva toccato il fondo; la gerarchia andava in pezzi; il clero era ignorante e veniva
reclutato senza criterio; vi erano diocesi prive di vescovi e diocesi in cui ve n'erano due; prelati che si
allontanavano dalle proprie sedi o si facevano trasferire a sedi più importanti e ricche; mentre le
tradizioni canoniche volevano che il pastore fosse legato indissolubilmente al proprio gregge. In questo
contesto i Carolingi cominciano a preoccuparsi.
Pipino oltre ad aver convocato il concilio di Soissons, si era spinto a curare il cosiddetto sacramentario
(messale) gelasiano.
Carlo Magno ancora prima di essere imperatore, quando era ancora sovrano dei Franchi, interviene, ad
esempio in un Concilio, nel Concilio di Francoforte nel 794. Era ancora sovrano dei Franchi, ma quando
sarà imperatore, sia lui che il figlio Ludovico il Pio intervengono anche su fattori legati al dogma. Carlo
interviene per difendere il dogma: per difendere ad esempio il culto delle immagini, per scagliarsi contro
alcune eresie: infatti dal 700 in poi, dilagante sarà l’eresia adozionista (sono vecchie teorie che ritengono
che, in realtà, Cristo sia figlio adottivo di Dio - una mentalità chiaramente eretica). Carlo ma anche il figlio
Ludovico interverranno e la Chiesa accetterà di buon grado l’intervento degli imperatori. È in qualche
modo un unicum per così dire. La Chiesa accetta di buon grado l’intervento degli imperatori anche in
fattori spirituali, legati al dogma. Questo è un aspetto importante.
Fu Carlo a ordinare ad Alcuino una revisione alla Bibbia e a Paolo Diacono la redazione di un nuovo
omeliario da adottare nei suoi regni.
Una volta formatosi il Sacro Romano Impero e iniziata la legislazione degli imperatori di questo Impero,
specialmente con Carlo e suo figlio Ludovico il Pio, la tutela, la protezione della Chiesa da parte degli
imperatori avviene anche attraverso l’emanazione dei CAPITOLARI ECCLESIASTICI che sono dei capitolari
di favore della Chiesa. Quindi sono capitolari che in qualche modo fanno il più delle volte attribuzioni
territoriali alla Chiesa o che istituiscono privilegi nei confronti della Chiesa o dei singoli ministeri. Sono dei
capitolari di vantaggio. Infatti, tra l'826 e l'827, l'abate Ansegiso del monastero di Fontenelle, raccolse i
capitolari di Carlo e di Ludovico e ne riempì quattro libri.

Dopo la morte di Ludovico il Pio, intorno alla prima metà dell’800, abbiamo che la nobiltà di corte
acquista un rilievo notevolissimo.
Questa nobiltà vede di cattivo occhio la promulgazione di questi capitolari ecclesiastici di favore per la
Chiesa perché, nei fatti, questi capitolari che riguardando il potere temporale, facevano attribuzioni
territoriali, prevedevano privilegi. In questo caso, le singole chiesa e i singoli monasteri, spesso, sono
concorrenti nel possedimento di terre rispetto alla nobiltà. Questi soggetti vedono di cattivo occhio
l’approvazione di capitolari ecclesiastici, specialmente di capitolari di favore nei confronti della Chiesa
(capitolari che il più delle volte istituiscono privilegi).
La dinastia cominciò a perdere potere e l’acquistò l’aristocrazia che vide i propri interessi lesi dalla
protezione regia degli interessi delle Chiese e quindi riuscirono ad impedire l’emanazione di alcuni
capitolari ecclesiastici. Ad esempio:

 Nella Dieta di Compiègne dell'823, i signori laici riuscirono a impedire la promulgazione di un


editto che prevedeva la restituzione a Chiese di beni detenuti da nobili.
 Nel giugno 846 a Epernay, analoghi interessi spinsero l'aristocrazia a opporsi a un capitolare
ecclesiastico nel quale erano riprodotti canoni dei concilio di Parigi e di Meaux. Carlo il Calvo,
debole e bisognoso dell’aiuto dei nobili, fu costretto a piegarsi.

In seguito all’accrescersi del potere politico dei nobili, le diete cessano di costituire luogo di pubblicazione
di norme ed espressione della volontà del re e diventano luogo di discussione.
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A questo punto, la Chiesa che vedeva la monarchia ormai debole e incapace a difenderla da una nobiltà
che era interessata a mantenere il disordine nell’organizzazione ecclesiastica per meglio dominarla e
depredarla, reagisce FALSIFICANDO. Quindi le falsificazioni erano viste come antidoto al fallimento e fine
dei capitularia ecclesiastica.

L’800 è un secolo parecchio oscuro dal punto di vista del testo giuridico, però non è un fatto nuovo nella
visione medievale. Cioè, noi vediamo che la Chiesa inizia a falsificare. Come ci siamo già detti, nel
processo di formazione dei capitolari, la legge era già perfetta con la sola emanazione orale ma un
passaggio fondamentale era quello di mettere per iscritto il capitolare, che è un passaggio legato alla
pubblicità del capitolare.
A gestire questo processo erano i chierici amanuensi, quindi poteva accadere che questi falsificassero
capitolari già esistenti o, addirittura, se ne inventassero di nuovi. Il fenomeno della falsificazione dilagò
misteriosamente dalla metà del IX secolo in poi (in alcuni ambienti ecclesiastici specialmente francesi) e
gettò sul mercato, nel mondo giuridico, un numero rilevante di testi giuridici pesantemente alterati o
inesistenti (inventati ex novo).
Quei testi venivano spesso riconosciuti dagli imperatori come propri. Spesso gli imperatori riconoscevano
questi testi come veritieri. Vi era, cioè, l’approvazione consapevole o inconsapevole dell’autorità che era
legittimata a emanare queste fonti giuridiche, autorità che era in questo caso l’imperatore.

Quindi capitava nei fatti che si presentava il Monastero di Montecassino, andava dall’imperatore con in
capitolare falsificato o del tutto falso e gli diceva di aver messo per iscritto quel capitolare che è la tua
volontà espressa a parole, orale, volatile. Gli imperatori li riconoscevano come propri a volte perché
credevano di aver detto davvero quelle cose. Tenete conto della volatilità di questi capitolari e di come si
formavano questi capitolari nel mondo Franco. Inoltre dobbiamo tenere presente che la cancelleria
dell’imperatore era una cancelleria girovaga che girava con l’imperatore: quindi questi testi c’erano,
potevano essere persi, spesso ne erano custodi i monasteri; ma soprattutto non dimentichiamo che nel
processo di formazione di questi capitolari l’oralità era l’elemento decisivo però spessissimo i capitolari
venivano messi per iscritto dagli amanuensi o questi aggiungevano qualcosa e alteravano il capitolare per
dare appunto dei vantaggi alla Chiesa. Prima non ce n’era bisogno ma dalla metà dell’800 sì perché era
difficile per gli imperatori far approvare alla nobiltà del regno dei capitolari di favore nei confronti della
Chiesa.

Quindi gli amanuensi, soprattutto il clero francese, mettevano in giro dei capitolari falsi in tutto o in parte,
inventati ma il più delle volte modificati: da quello che diceva l’imperatore di aggiungeva qualcos’altro di
favore per la Chiesa (un privilegio, un’attribuzione territoriale).
E per la Chiesa questo processo delle falsificazioni non è un peccato, perché nella visione della Chiesa la
distinzione tra un Vangelo ortodosso e uno apocrifo (che nei fatti non è reputato veritiero) è data
dall’approvazione da parte del pontefice, più che dal contenuto. Dunque non è un mendacio, perché nella
visione della Chiesa è importante che sia l’autorità legittimata a riconoscere come veritiera quella fonte
normativa (per il vangelo il pontefice; per il capitolare, l’imperatore).
Questo fenomeno delle falsificazioni è molto interessante. Per la Chiesa non costituisce realmente un
peccato. Lo dice anche Cortese, il quale spiega molto bene questo fenomeno delle falsificazioni.

Attenzione non sapremo mai con certezza perché gli imperatori approvavano questi testi: o perché
davvero pensavano di aver detto quelle cose che poi sono state messe per iscritto, quindi
inconsapevolmente; ma alle volte anche consapevolmente perché sapevano che era difficile far
approvare testi di favore per la Chiesa, perché ormai la fazione nobiliare era dominante.
La definizione di una istituzione deriva anche dai soggetti che ricoprono quella funzione e quella
istituzione. Quando erano imperatori come Carlo Magno e Ludovico il Pio erano che facevano quello che
decidevano ma quando gli imperatori successivi avevano una personalità più mite meno impetuosa e il
partito nobiliare di corte prende il potere, per loro è difficile far approvare i capitolari ecclesiastici perché
sono capitolari che nei fatti il più delle volte sono attribuzioni territoriali o dei privilegi alle singole chiese e
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monasteri. Quindi spesso può capitare che il monaco amanuense o modificava un capitolare esistente o
ne metteva in giro qualcuno di nuovo e poi ottenevano l’approvazione da parte dell’imperatore
(consapevolmente o inconsapevolmente).

Domanda di un collega: Ma essendo i capitolari innanzitutto fonti orali come si è capita la falsità
di questi? Molto spesso mettendo a CONFRONTO le varie copie. Differivano, infatti, le varie copie:
un capitolare che cita una stessa data (quindi fatto in uno stesso placito) deve essere quello,
invece vediamo che veniva copiato in maniera diversa. I capitolari sono sì orali e poi vengono
ricopiati e messi per iscritto. Spesso accadeva che uno copiava una cosa, uno ne copiava un’altra,
uno aggiungeva dei pezzi l’altro no. Mettiamo a confronto quello completo e quello
tendenzialmente più realistico con un altro che ne contiene solo una parte o che ne modifica
alcune parti. Quindi così si fa attraverso la giustapposizione si cerca di capire ma non è facile.
Pure capitolari che vengono riconosciuti come veritieri dagli imperatori ma abbastanza datati, è
molto probabile che in realtà siano capitolati falsi. Perché ad esempio un monastero va da un
imperatore e dice che dieci anni prima il predecessore aveva riconosciuto un privilegio e gli
chiede di confermarglielo: un’operazione del genere lascia qualche sospetto. Tutto questo che
stiamo dicendo è parecchio oscuro e crea qualche difficoltà nel comprendere in questo oscuro IX
secolo il diritto franco.
Chiaramente dobbiamo toglierci dalla testa la nostra idea di diritto, perché tutto questo che per
noi è scandaloso, non lo era per quella mentalità giuridica e grazie a quella concezione del testo
giuridico visto secondo l’ottica dell’utilizzatore. Per la Chiesa non lo era: se il Vangelo è
riconosciuto dal pontefice, poco importava del contenuto. Quello che differenzia un vangelo
ortodosso (veritiero per la Chiesa) da un vangelo apocrifo (non riconosciuto a posteriori come
vero) è il riconoscimento del pontefice più ancora del contenuto. Traslando questa visione
teologica nel diritto, se il capitolare anche falso è riconosciuto dall’imperatore (autorità
legittimata a riconoscerne la veridicità), allora si considerava vero. Non si faceva un peccato
mortale.

Vediamo che nascono a questo punto una serie di raccolte di capitolari in tutto o in parte falsi ad opera di
privati.
Ad esempio tra l’847 e l’852 (anche qui l’anno è incerto) un certo Benedetto Levita mise insieme ben
1721 pezzi di capitolari distribuiti in tre libri e quattro appendici (un’opera rilevante). Si trattava di
un’opera che si pone come una continuazione di quella di Ansegiso, abate di Fontenelle, che aveva curato
la collezione in quattro libri dei capitolari genuini di Carlo Magno e di Ludovico il Pio, e mette insieme
soprattutto capitolari franchi ma non solo, anche di frammenti di diritto romano (tratti prevalentemente
dalla lex Romana Wisigothorum).
Quest’opera grossa è fatta intorno alla prima metà dell’800. Questo Benedetto Levita mise insieme 1721
pezzi di capitolari falsi in tutto o in parte.
La ventata falsificatoria colpì anche la vecchia collezione Hispana o Isidoriana che si era diffusa dall'Iberia
in Gallia. Fu questa Hispana Gallica ad essere adulterata nella cd Hispana Augustodunensis.

In questo periodo ambito la più celebre opera di falsificazione di questo periodo è costituita dalle
DECRETALI PSEUDO-ISIDORIANE quest’opera per la sua diffusione e longevità è considerata uno dei
prodotti giuridici più significativi dell’età carolingio.
Il nome di Isidoro compare nella prefazione, per questa ragione sono chiamate Decretali pseudo-
Isidoriane ed evoca Isidoro da Siviglia che a quei tempi era un importantissimo filosofo e teologo e per
lungo tempo è stato considerato il massimo dispensatore di dottrina anche teologica. Vengono così
chiamate e richiamano nella prefazione Isodoro da Siviglia per essere attribuite anche solo mentalmente
a questo filosofo (per attribuirle a lui) ma, in realtà, non sono opere di Isidoro da Siviglia ma sono opere
che contengono in realtà dei capitolari falsi, di testi inesistenti o testi esistenti modificati tratti da fonti
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laiche o tratti da fonti ecclesiastiche. Si tratta di uno straordinario numero di manoscritti che ci
pervengono (più di un centinaio) risalenti tra il secolo 9°e il 15°.
L’obiettivo della raccolta si desume dalla sua insistenza sul tema dell’autonomia dei vescovi e della loro
pari dignità. La Chiesa francese si andava organizzando in una piramide gerarchica contro la
feudalizzazione transalpina.

Le false decretali coinvolgono uno dei personaggi più significativi degli ultimi tempi carolingi:
Incmaro, arcivescovo di Reims e metropolita della Gallia, difensore della posizione di comando che
aveva assunto.
L’omonimo nipote, Icmaro di Laon, che il potente zio fece accecare, è responsabile di una delle
prime utilizzazioni delle Decretali Pseudo-Isidoriane: per contrastare l’arroganza dello zio curò la
redazione di un ampio estratto dell'opera, lo sottoscrisse, lo fece sottoscrivere dal suo clero e lo
brandì come arma.
Vi erano casi, come in Pseudo-Isodoro, in cui l’autore non si proponeva affatto di indurre qualcuno
in errore, al contrario, voleva giovare alla Chiesa dei fedeli riportandola alla purezza del suo stato di
grazia originario, cioè la verità religiosamente intesa.

Questa opera molto importante è considerata un monumento giuridico del Medioevo, ebbe una
grandissima diffusione e una grandissima longevità. È frutto di invenzione, ma nonostante fossero testi
falsi, venivano considerati testi veri. O quantomeno siamo all’interno di un mondo – citando il libro del
professore Conte sul diritto comune - nel quale quello che importa è l’ottica dell’utilizzatore, cioè più
ancora della veridicità o dell’integrità del testo, quello che importa è la FUNZIONE DEL TESTO
NORMATIVO.
Con le falsificazioni, chiaramente, arriviamo all’eccesso perché si creano capitolari inesistenti o di
aggiungono parti non esistenti modificando capitolari già esistenti. Però rientrano in una visione, che è
una visione nella quale non vi è l’ottica dell’integrità del testo cioè non è posto al centro questo, ma è
posto al centro quello per cui il testo serve, la sua funzione. Quindi spessissimo (e lo vedremo con la
compilazione giustinianea) dei testi si prende quello che interessa e il resto non viene neanche
tramandato, viene tralasciato. Viene preso quello che serve, quello che interessa: l’ottica
dell’utilizzatore si guarda non all’integrità del testo ma a quello che serve all’utilizzatore.
Le falsificazioni sono l’extrema ratio di questo discorso, è un eccesso a cui si arriva nel nono secolo che è
un secolo per certi versi oscuro.

Si pensa che in questi contesti sia nato il più importante falso della storiografia, cioè la DONAZIONE DI
COSTANTINO, cioè quella donazione, completamente falsa, in virtù della quale l’imperatore Costantino
(intorno al IV secolo circa quando era imperatore dell’Impero romano d’Oriente) abbia ceduto molti dei
possedimenti e delle isole occidentali in donazione alla Chiesa.
Questa donazione è falsa, ma fino agli inizi dell’età moderna (1400) si penserà che era vera prima di
scoprirne la falsità ad opera degli esponenti della “scuola culta” in particolare di Lorenzo Valle.
Questo non dà luogo a conseguenze di poco conto, ma è la fonte su cui si basavano le pretese temporali
della Chiesa su tutto l’Occidente o gran parte di esso. Si pensa che l’invenzione di queste donazioni possa
essere stata probabilmente partorita in questo momento storico (lo stesso Cortese lo dice e non lo dice) e
d’altra parte vi sono delle somiglianze con la Promissio Carisiaca cioè quella promessa fatta da Pipino di
Breve al pontefice di attribuzioni territoriali alla Chiesa: una volta riconquistato l’Esarcato Pipino il Breve
avrebbe , secondo questa promessa, restituito non solo l’Esarcato ma anche Venezia, la Corsica, parte
dell’Emilia Romagna, il Ducato di Benevento alla Chiesa. La Promissio Carisiaca è vera, è avvenuta; la
Donazione di Costantino – che è falsa e riguarda proprio l’aspetto istituzionale - ha delle somiglianze con
la Promissio Carisiaca come le attribuzioni territoriali alla Chiesa. Essendo un periodo in cui dilaga il
fenomeno falsificatorio, SI PENSA che questa falsa donazione di Costantino possa essere stata partorita in
questo momento storico e fatta risalire a momenti antecedenti, all’imperatore Costantino: donazione del
tutto falsa.
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Le falsificazioni sono proprio l’extrema ratio di un fenomeno che è legato all’ottica dell’utilizzatore nei
fatti ciò che importa è che un testo normativo sia UTILE, poi che sia riportato nella sua interezza, che sia
tramandato solo in parte o che vengano tramandate solo le parte che servono o, addirittura in questo
caso, sia falso, se svolge il suo ruolo, è irrilevante. Non è questo il centro del discorso. L’importante è che
svolga il suo ruolo, poi l’integrità del testo, sia in termini di completezza che di veridicità, è irrilevante.
Questa è proprio l’ottica del testo aperto: chiunque ci mette mano (raccoglitori privati, coloro che lo
tramandano, lo trascrive) lo muta anche secondo le proprie esigenze: lo modifica, ne riporta solo alcune
parti. Questo è un classico della visione, dell’ottica dell’utilizzatore e per la Chiesa questo non è un
peccato questa è una visione più legata all’idea del testo che ha la Chiesa, anche per i Vangeli.

GIUSTINIANO
Con i Franchi siamo finiti all’impero carolingio e siamo arrivati fino al IX secolo perché abbiamo seguito la
direttiva del diritto romano volgarizzato. Adesso torniamo indietro al VI secolo e vediamo cosa
effettivamente accade in Oriente e seguiamo il filone decisivo del DIRITTO ROMANO GIUSTINIANEO che
poi verrà ripreso ed avrà una grandissima continuità. Quindi ci poniamo intorno all’inizio e alla metà del VI
secolo. Quindi è qui che nasce la COMPILAZIONE GIUSTINIANEA. Abbiamo abbandonato il filone del
diritto romano volgare e delle invasioni barbariche facciamo un salto indietro e ci spostiamo in Oriente.
Mentre in Occidente nel 476 d.C. crolla l’Impero Romano d’Occidente, in Oriente c’è ancora l’Impero
Romano d’Oriente. Il personaggio fondamentale per le sorti del diritto sarà GIUSTINIANO.
È una figura fondamentale perché il diritto giustinianeo, di cui parliamo adesso, sarà quel diritto che la
scuola di Bologna, dopo l’anno 1000, andrà a riprendere come vero diritto romano autorevole cioè come
vero erede del diritto romano, come diritto che promana da un imperatore (Giustiniano imperatore
dell’Impero Romano d’Oriente) e che sarà la base del diritto comune (fatto dal diritto canonico ma
soprattutto dal diritto giustinianeo). Il diritto romano giustinianeo sarà la base, cioè sarà un ordinamento
fondamentale che dal momento della sua riscoperta (dalla scuola di Bologna in poi) verrà abrogato
formalmente soltanto con le codificazioni moderne; quindi avrà una durata lunghissima. Dunque adesso
seguiamo questo filone che ci porta fino all’età moderna inoltrata e fino alle codificazioni. Seguiremo la
compilazioni giustinianea, le sue vicende, questo diritto romano giustinianeo nell’Alto Medioevo, la sua
riscoperta dopo l’anno Mille nel Basso Medioevo (perché nell’Alto Medioevo questo diritto giustinianeo
tendenzialmente un po’ scompare) e poi anche le sorti sul diritto romano giustinianeo e sul diritto
comune durante il periodo moderno.

Per quanto riguarda Giustiniano, egli nacque nel 482 in una località dell’Illiria (vicino l’odierna Skopje in
Macedonia) e nonostante ci si trovi in Oriente, in questa particolare parte della Macedonia si parlava
latino. Questo è un particolare non di poco conto che influenza la vita del futuro imperatore il quale
trascorrerà tutta la sua vita in ambienti di lingua e cultura, sì greca ma nella quale si parlava latino pur
essendo in Oriente. Giustiniano sempre ricorderà l’idioma latino dei padri. Come dice Cortese, sarà stata
questa formazione di marca latina ad alimentare l’attaccamento dell’età matura di Giustiniano alle
tradizioni Occidentali e la sua voglia di rimettere piede in Occidente (in Africa ed in Italia, a Roma). La sua
idea è quella di rilanciare la vecchia cultura romana e anche il diritto romano occidentale con degli iura in
particolare. Quindi di restaurare, in qualche modo, e rinnovare l’antico e forse questa lingua latina può
avere influito.

A Costantinopoli dove ancora giovane lo aveva chiamato l’imperatore Giustino che era lo zio (il fratello
della madre), gli fu impartito un insegnamento superiore che gli aprì le porte della cultura ellenistica, lo
orientò verso la teologia, da qui anche il suo interesse e le sue fantasie teologiche.
Fu adottato dallo zio Giustino, nel 527 d.C. e pochi mesi lo zio morì e divenne imperatore. Fu imperatore
fino al 565 d.C. quando morirà addirittura ultraottantenne. Quindi una vita e un impero lungo quello di
Giustiniano dal 527 al 565.

Tre sono le linee direttrici della sua politica:


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1. Impegno per una codificazione, per un sistema di diritto, attenta al nuovo ma anche fedele
all’antico che assicurasse la certezza del diritto.
2. Un programma di restaurazione con le armi del potere imperiale . L’idea di rientrare nella parte
occidentale. Ormai l’impero romano d’Occidente era caduto, era un impero ormai dominato dalle
popolazioni germaniche. L’intento di Giustiniano fu quello di rimettere piede in Occidente (nella
parte settentrionale dell’Africa e da lì rientrare in Italia e a Roma il vero cuore dell’Impero).
3. Rimettere unità nella Chiesa cristiana , lacerata da un periodo di crisi, dall’arianesimo che dilagava
nei regni Goti. Quindi voleva sedare le tendenze eretiche e settarie che erano all’interno della
Chiesa in questo periodo, nel 500, e poi abbiamo visto anche nel 700 in cui la Chiesa nell’Alto
Medioevo attraversa un periodo di profonda crisi proprio del dogma. In questo periodo vi era
questa disgregazione data proprio dall’arianesimo (in Occidente i Goti e i Longobardi erano ariani).
L’idea di Giustiniano era quella di erigersi a protettore della Chiesa.

Quest’ultimo intento non riuscì perché Giustiniano da protettore e restauratore dell’unità della Chiesa
che pensava di essere, nei fatti arriva persino a sequestrare un pontefice, papa Virgilio, che non voleva
condannare la teoria dei tre capitoli accettata dal concilio di Calcedonia, che lui considera eretica. E
quando nel 553 lo costrinse a farlo nacque uno SCISMA: vescovi d’Africa, Illiria e Dalmazia si rifiutarono di
obbedire a papa e imperatore per restare fedeli a Calcedonia. Quindi i rapporti non arriveranno mai ad
essere idilliaci. Tranne quest’ultimo scopo di ergersi a grande riunificatore e salvatore della Chiesa, i primi
due (quello legato alla codificazione e quello del ritorno nella parte Occidentale) gli riescono.

L’idea di fare un nuovo sistema di diritto.


Dopo pochi mesi dopo l’incoronazione, Giustiniano formò una commissione con a capo il suo magister
officiorum (un suo funzionario) Triboniano e composta da altri 9 giuristi (8 burocrati e un professore).
Questa commissione ha il compito di rielaborare i codici Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano e di
ammodernarli e liberarli dalle contraddizioni e preparare un nuovo codice snello e aggiornato.
L’opera fu rapidamente portata a termine, nel 529, in meno di due anni, fu emanato da Giustiniano il
CODEX che prende il nome di Codice Giustiniano in onore dell’imperatore stesso.
Il testo, però, non ebbe una vita lunga perché cinque anni dopo la nuova edizione lo soppiantò
definitivamente. Di questo primo Codice Giustiniano abbiamo pochissime notizie, rimanendoci soltanto
un indice (dal quale pare che contenesse la legge delle citazioni). In realtà il Codice verrà soppiantato e
verrà fatta una nuova edizione il CODEX REPETITAE PRAELECTIONIS soltanto cinque anni dopo.

Giustiniano intanto fa il Codice e dopo, Giustiniano ma soprattutto a Triboniano - divenuto sempre più
importante all’interno dell’organizzazione amministrativa dell’Impero perché divenne una sorta di
ministro della giustizia - venne l’idea di iniziare ad operare sugli iura, quindi su quell’altra parte del
patrimonio giuridico romano e cioè la parte più legata al diritto romano occidentale.
Il via ai lavori fu dato nel 530 d.C. e Giustiniano ordinò che degli iura si facesse templum iustitiae: una loro
parte, accuratamente scelta ed aggiornata, fu tramutata in legge ed entra a questo titolo
nell’ordinamento. Quindi si fa in modo che all’interno di quest’opera vi fossero gli iura vincolanti (quelli
che facevano diritto) e quelli che venivano lasciati fuori in base alla selezione fatta Giustiniano e da
Triboniano non erano più diritto, non erano più vincolanti e spariscono per sempre.
Il significato di questa affermazione è importante: gli iura (la cui libera vita era già stata limitata nel 426
da Valentiniano III con la Legge delle citazioni che secondo la quale sono solo 5 i giuristi vincolanti, gli altri
no) contenuti in un’opera che poi sarà il DIGESTO, smetteranno di essere una parte autonoma del diritto.
In questo modo, Giustiniano con la redazione del Digesto farà un’opera che verrà promulgata il 16
Dicembre 533, quindi tre anni dopo l’inizio dei lavori e saranno 3 anni anche complessi in cui Giustiniano
dovrà anche sedare una rivolta interna. Questi Digesta - 10mila pezzi scelti di una 40ina di giuristi divisi in
50 libri - contengono iura quindi è una selezione di iura fatta da Giustiniano e dal suo ministro della
Giustizia Triboniano (cuore della commissione che farà i Digesta).
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L’intento di Giustiniano è un intento di grande ossequio nei confronti di questa parte dell’ordinamento
romano che sono gli iura. Questo intento è di riordinare e selezionare gli iura da mettere nel digesto e
creare questo tempio della giustizia in cui quegli iura che sono all’interno del digesto sono diritto, quelli
che non sono stati selezionati non sono più nulla. Dal 16 dicembre 533 quando viene promulgato il
Digesto, vediamo che l’intento era quello di grande ossequio nei confronti di questa fonte ma nei fatti gli
iura, cessano di essere una fonte del diritto romano perché vengono promulgati dall’imperatore e quindi
cessano il loro compito e la loro forza creatrice.

Sono anni complessi, Giustiniano dà inizio a questa operazione nel 530 e viene ultimata nel 533 e sono
anni in cui Giustiniano ha dovuto sedare delle rivolte interne.
Nel gennaio 532, durante lo spettacolo delle corse, ci fu una rivolta che in 1 settimana assunse grandi
proporzioni: l’insurrezione di Nika, dal grido che lanciavano gli insorti. Erano 2 i protagonisti, al contempo
fazioni sportive e partiti politici:
- Verdi o Prasinoi rappresentavano gli interessi della borghesia cittadina e commerciale e
rivendicavano i diritti dinastici dei nipoti del vecchio imperatore Anastasio e tendevano all’eresia
monofisita religiosa;
- Azzurri o Venetoi portavoci di latifondisti e dell’economia terriera, professavano cattolicesimo
ortodosso, appoggiati dall’imperatore.
Furono i Verdi, partito di opposizione, a dare il via alla sommossa ma la pesante repressione ebbe il
risultato che anche gli Azzurri si unissero alla protesta contro le esose nuove leggi fiscali e dilagò l’odio
contro i responsabili: il praefectus urbi Giovanni di Cappadocia e Triboniano. Di entrambi si chiese ed
ottenne la destituzione. Si destituì Giustiniano e s’incoronò Ipazio nipote di Anastasio.
A salvare il trono fu la moglie TEODORA, la discussa imperatrice di cui il Procopio degli Anecdota descrive
la vita scandalosa prima della conversione e del matrimonio.
Teodora affidò al generale Belisario il compito di espugnare l’ippodromo e sedare l’insurrezione. Ne segui
un massacro, Giustiniano si diede alla vendetta, rafforzò il suo potere verso l’assolutismo. Triboniano
rientrò e il Digesto si avviò alla conclusione. Nonostante queste difficoltà in tre anni i digesta sono pronti.

Ma poco prima che il progetto dei digesta fosse ultimato, Giustiniano pensò anche ad un manuale di
diritto per la scuola, consapevole del fatto che una riforma del genere dell’ordinamento andava
accompagnata a un’adeguata formazione dei giuristi.
Alla scuola e alla formazione dei giuristi Giustiniano fu molto attento vedendo questi aspetti come
complementari alla sua monumentale opera legislativa che a poco a poco stava edificando.
Infatti con la costituzione Omnem provvide anche ad una riforma didattica che prevedeva uno studio
quinquennale del diritto: dopo un primo anno dedicato ad una sintesi manualistica; dal secondo al quarto
anno gli studiosi avrebbero dovuto cimentarsi coi Digesta, che è la parte più complessa; per poi far
culminare la loro preparazione con lo studio del Codice al quinto anno.
L’ordine degli studi rispecchiava anche la concezione imperiale del sistema normativo che era costruito
come una piramide: il Digesto che custodivano la cultura e la tradizione giuridica occidentale costituiva
l’ossatura scientifica portante; ma era il Codice che era posto al vertice quasi a legittimare e ad illuminare
tutto l’ordinamento, alla luce dell’onnipotenza legislativa del monarca. Quindi il codice è la parte apicale.

Per quanta riguarda le nozioni elementari del primo anno, Giustiniano le volle racchiuse in un manuale
ufficiale e furono chiamati a redigerlo sempre Triboniano (che è il cuore della concezione del diritto e
della codificazione giustinianea) e altri due membri di una commissione che erano due maestri di diritto -
Teofilo e Doroteo - che scrissero ciascuno 2 dei quattro libri delle Institutiones.
Questi soggetti scrissero le INSTITUTIONES, divise in 4 libri. Anche in questo caso l’opera fu ultimata in
pochi mesi avendo come esempio fondamentale le Istituzioni di Gaio (le quali fanno questo viaggio le
istituzioni di Gaio, alla volgarizzazione, fino ad essere la base fondamentale delle Institutiones di
Giustiniano).
Quindi alla fine del 533 questo immane lavoro sembra completato. Il 23 novembre del 533, un po’ prima
dei digesta, vennero completate le istituzioni che divennero il primo manuale scolastico con forza di
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legge, in disarmonia con il codice. È un’opera che viene destinata alla scuola (al primo anno) ma vengono
anche loro promulgate dall’imperatore. Poco dopo il 16 dicembre 533, viene promulgato anche il Digesto.

La promulgazione del Digesto mise in evidenza la disarmonia e l’incompletezza del Codice (fatto nel 529)
che non teneva conto delle norme imperiali che intanto erano state emanate negli ultimi 4 anni da
Giustiniano. Dunque gli venne in mente di fare una nuova versione del Codice: il CODEX REPETITAE
PRAELECTIONIS, promulgato dopo pochissimo tempo nel 534. Per questo dicevo all’inizio che del primo
codice, quello del 529, il codice di Giustiniano, noi ne conosciamo molto poco perché in realtà una volta
promulgato il nuovo codice, nei fatti di quel codice rimane molto poco perché a noi viene tramandato
soltanto un indice perché poi sarà il nuovo codice ad essere tramandato.

Giustiniano tra il 534 e il 535 e il 540 continuerà a legiferare ma da un punto di vista quantitativo e
qualitativo le costituzioni successive saranno meno rilevanti. Giustiniano ebbe il progetto di curare egli
stesso un’edizione delle NOVELLE COSTITUZIONI cioè le costituzioni nuove successive al codex repetitae
praelectionis e quindi quelle costituzioni che non sono all’interno del Codex ma che Giustiniano continua
a fare. Giustiniano in vita non ci riesce ma ci pensarono altri che composero delle raccolte di novelle
giustinianee: una greca, la più ricca, circolata solo in Oriente che contiene circa 168 novelle giustinianee e
le altre due che circolarono anche in Occidente che sono l’Epitome Iuliani e l’Authenticum.

Fondamentale in questo senso è l’EPITOME IULIANI Composta FORSE (raccolte private di cui comunque
non sappiamo molto) da un Giuliano che era professore a Costantinopoli che riassume, rimaneggia e
traduce in latino circa 124 novelle che si collocano tra il 535 e il 555. Si tratta di novelle composte dietro
richiesta della Chiesa di Roma. Quest’opera ricca di novelle sparì nell’ombra perché Irnerio dalla scuola di
Bologna in poi queste novelle giustinianee vengono considerate non veritiere e il testo non originale.
Altra fortuna ebbe invece l’AUTHENTICUM Si tratta di una collezione di 134 novelle. Giustiniano per
l’Oriente scriveva in greco. Anche queste novelle verranno tutte tradotte in latino, in una traduzione
ritenuta affidabile. Queste novelle hanno una vita molto lunga perché vengono ritenute dagli studiosi
della Scuola di Bologna come autentiche. Infatti l’Authenticum viene preferita all’Epitome Iuliani e sarà la
raccolta di novelle giustinianee che sarà utilizzata dagli studiosi della scuola di Bologna.

La tradizione della compilazione giustinianea avrà una tradizione manoscritta molto lunga. Durante l’Alto
Medioevo circolerà manoscritta la c.d. LITTERA PISANA (perché il manoscritto era a Pisa) e poi LITTERA
FIORENTINA (dopo che Firenze nel Basso Medioevo si impadronì di Pisa). Ci sono dei dubbi sull’autenticità
della tradizione manoscritta della Compilazione Giustinianea stessa. Su questo poi torneremo.

Ultima direttiva della politica giustinianea: la sua volontà di tornare in Occidente.


La 2° fase del programma politico di Giustiniano, cioè la riconquista dell’Occidente intesa anche per
liberare greggi cattoliche dagli ariani.
Nel medesimo 532 aperto con l’insurrezione di Nika, un armistizio con il nemico Cosroe aprì l’avventura
mediterranea.
Nel giugno 533 il generale Belisario salpò per l’Africa, sconfisse i Vandali e catturò il loro re Gelimero.
Tornato a Costantinopoli da trionfatore, si prepara alla nuova impresa contro i Goti d’Italia. Il pretesto per
iniziare l’impresa fu l’assassinio di Amalasunta, madre di Atalarico, filoromana e protetta da Giustiniano.
Belisario sbarcò in Sicilia ad ottobre e a dicembre l’aveva in mano; passò in Calabria e si diede a risalire la
penisola.
Occupa Ravenna nel 540, stava per conseguire la vittoria quando gli Unni piombarono a minacciare Tracia
e Macedonia e Cosroe ruppe la tregua.
Belisario lasciò l’Italia, i Goti si ripresero e un nuovo armistizio con i Persiani nel 545 consentì di preparare
la riscossa; Narsete ebbe la nomina a comandante in capo nel 551 e condusse un secondo esercito contro
la Dalmazia e la Venezia Giulia, vinse i re Totila e Teia che rimasero uccisi.
Nel 553 Giustiniano riuscì a riconquistare parte della penisola sotto il comando del generale Narsete.
Quindi Giustiniano riesce in quest’altra direttiva di riconquistare in qualche modo la penisola italica.
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A questo punto Giustiniano, riconquistata la penisola, vuole subito estendere la sua legislazione anche in
Occidente. Quindi estendere il Codex, il Digesta, le Istituzioni (le raccolte di novelle Epitome Iuliani e
l’Authenticum verranno fatte dopo la morte di Giustiniano).
Quindi nel 554 subito, appena rientrato in Occidente farà una constitutio, la PRAGMATICA SANCTIO, che
avrà il compito di estendere la sua compilazione anche in Occidente. Anziché far cessare i focolai di
resistenza estese la sua compilazione a tutta l’Italia introducendo una riforma normativa profonda ad un
Paese che dopo la guerra e carestia, era allo stremo.
La norma fu compresa in un testo unico di 27 disposizioni che restituirono l’assetto della proprietà
fondiaria sconvolto dai re goti su richiesta del papa Virgilio (la Chiesa era grande proprietaria terriera). Era
una sorta di Pragmatica Sanctio in cui Giustiniano dice che i libri furono già inviati per farli divulgare
edictali programmate: ossia perché il magistrato locale, che era Narsete, li pubblicasse secondo l’uso con
proprio editto.
A questo punto la storiografia si chiede quale fu il livello di penetrazione effettivamente di questa
compilazione. Sicuramente l’imperatore volle estenderla anche nella parte occidentale.
Certamente l’Italia diventerà formalmente un territorio di compilazione giustinianea perché l’imperatore
la estende formalmente con la Pragmatica sanctio anche alla penisola italica che lui ha riconquistato. Per
la penisola italica, diritto romano equivarrà sempre a diritto romano-giustinianeo.
Però viene da chiedersi nei fatti quanto penetra questa compilazione perché noi già sappiamo che nel
554 viene estesa con la pragmatica sanctio anche in Occidente nella penisola italica che è stata
conquistata però di lì a poco arriveranno nel 568-569 i Longobardi, quindi dovrà fare i conti con l’arrivo
dei Longobardi. Abbiamo un periodo limitatissimo di effettiva diffusione della compilazione giustinianea.

Immagiate che nelle altre parti occidentali (Spagna, Francia) già esisteva dall’inizio del 500 la Lex Romana
Wisigothorum quindi per loro il diritto romano equivaleva a questa legge.
Studiosi come Fitting hanno messo fortemente in dubbio questa penetrazione della compilazione
giustinianea. Voi già sapete che i regni romano-barbarici sono nati all’interno dell’Impero (in Gallia, in
Spagna) già si sono formati i regni visigoti, i burgundi e loro già hanno questa legislazione che è
precedente, e dunque per loro il diritto romano è Lex Romana Wisigothorum. Mentre nelle altre zone
(penisola Iberica o Francia), il diritto romano equivale alla lex romana Visigothorum, emanata all’inizio del
VI sec. Quindi, temporalmente, abbiamo prima la lex romana Visigothorum e, poi, la compilazione
giustinianea.

La penisola italica sarà formalmente luogo di compilazione giustinianea, viene riconquistata da


Giustiniano nel 553, e con la pragmatica sanctio estende formalmente in occidente la sua compilazione
(fatta di codex istituzioni, digesta, codex repetitae praelectionis, no le novelle non vengono fatte quando è
in vita), ma bisogna chiedersi quanto in realtà è riuscita a penetrare. Sull’effettiva penetrazione della
compilazione giustinianea qualche dubbio c’è perché di lì a poco (nel 568) arrivano i Longobardi.
In più ricordiamoci che Giustiniano dovette combattere per l’estensione effettiva della sua compilazione
in Occidente anche con le resistenze delle forze conservatrici, come ad es. la Chiesa, che riconosceva
come proprio codice, come eredità del diritto romano il Codice teodosiano che è un codice parecchio
perorato dalla Chiesa. Quindi la compilazione di Giustiniano dovette affrontare effettivamente notevoli
resistenze tra le quali non solo l’arrivo dei longobardi ma anche resistenze delle forze conservatrici, come
la Chiesa che riconosceva nel codice Teodosiano l’effettivo erede della romanità.
La compilazione giustinianea, questo monumento fondamentale per la nostra cultura, sarà poi oggetto
del diritto comune, della rinascita bolognese dopo l’anno 1000.

Cosa succede a questa compilazione nell’Alto Medioevo?


Nell’Alto Medioevo (nei secoli che vanno dalla sua estensione dopo la morte di Giustiniano, dalla fine del
VI secolo in poi fino all’anno 1000) la compilazione è oggetto di tutti quei fenomeni che caratterizzano
l’Alto Medioevo.
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Abbiamo detto che la società ormai è un società semplice, non complessa, dominata dalla consuetudine.
Quindi la compilazione giustinianea che è molto complessa.

Basti pensare ai Digesta che veramente racchiudono gli iura e il patrimonio giuridico della Roma classica,
il diritto più genuino della Roma classica, ma sono troppo complessi, non si possono applicare e neanche
si possono più di tanto studiare.
L’ultima citazione dei Digesta che noi abbiamo è intorno al 600 in una lettera del pontefice Gregorio
Magno, a un defensor Giovanni, in procinto di partire per l’Iberia al fine di dirimere una controversia.
Dopo questo dei digesta abbiamo un oblio fino all’anno 1000. Quindi tendenzialmente non si applicano, si
applicano pochissimo e non si studiano. I Digesta, dunque, tendenzialmente scompaiono.
Dei Digesta troviamo citazioni in alcune raccolte canoniche in cui si trovano dei frammenti.

Restò in uso, invece, l’Epitome Iuliani, cara alla Chiesa. L’Epitome Iuliani fu utilizzata dall’autore della lex
romana canonice compta che apparve verso la metà del IX sec. ed ebbe molto successo nell’Italia
superiore.
Una buona parte dei capitoli ricomparve qualche decennio più tardi in una collezione canonica, la
collectio Anselmo dedicata che prende il nome dalla dedica appunto a un Anselmo arcivescovo di Milano
tra l'883 e l’896. Qui il materiale, distribuito in 12 libri, è prevalentemente anacronistico, ma in mezzo a
decretali e canoni compaiono 238 capitoli di lex romana che corrispondono quasi perfettamente alla
canonice compta.

Le Istituzioni circoleranno di più, verranno anche più studiate in quanto sono un manualetto semplice
destinato alla scuola Rimangono e vengono studiate, ed entreranno a far parte del patrimonio delle
scuole di arti liberali – scuole che avevano sede nei monasteri, a cui era affidata la formazione dell’uomo
medievale. In queste scuole venivano un po’ studiate le Istituzioni ma anche qui, molto poco. Continuano
ad essere utilizzate e un po’ studiate perché sono la parte più semplice della compilazione (quelle che
dovevano occupare il primo anno dello studio del diritto, la parte introduttiva del diritto erano
sicuramente la più semplice).

Per quanto riguarda il Codex, dei suoi 12 libri, circoleranno soltanto i primi 9. Gli ultimi 3 libri sono
dedicati all’amministrazione dell’impero (un impero che è lontano e non più avvertito come presente
dato che è l’impero romano d’oriente effettivamente) e non circolano. Nella tradizione Alto medievale
circoleranno un po’ i primi 9 libri ma per il resto gli ultimi tre libri scompaiono.Si metterà in circolazione
un’Epitome Codicis dalla quale sarebbero stati estromessi oltre agli ultimi tre libri, tutte le disposizioni in
greco e un numero rilevante di costituzioni, così che l’opera sarebbe stata ridotta a un quarto
dell’originale.
Per molti secoli, fino a Bologna, talmente erano desueti gli ultimi 3 libri del Codice che si pensava che esso
avesse solo 9 libri. Poi a Bologna, grazie all’opera degli allievi della Scuola di Bologna che ritroveranno i
manoscritti, viene integralmente ricostruito il Codice.

La summa Perusina
Un testo del codice non solo incompleto, ma soprattutto trasformato in un seguito di rozzi sommari
delle costituzioni, comparve per qualche tempo nell'Italia centrale. Essendosene ritrovato l'unico
manoscritto nella biblioteca capitolare di Perugia l'opera è stata battezzata Summa Perusina.
Della Summa Perusina si sono sempre rilevati la rozzezza e i fraintendimenti, che giungono talvolta
a capovolgere il senso del dettato Giustinianeo. Per lo più gli errori sono il frutto dell'ignoranza, ma
non sempre.

Anche qui applichiamo quello che abbiamo detto fino ad ora sull’ottica dell’utilizzatore: gli ultimi tre libri
scompaiono perché non servono, perché riguardano l’amministrazione anche economica dell’Impero
d’Oriente che ormai era visto come lontano e totalmente diverso dalla realtà occidentale quindi nei fatti
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non circolano, non servono. Non interessa all’utilizzatore tramandare, utilizzare questi libri del codice che
riguardano un argomento che nella prassi giornaliera del diritto non esiste più.
Vengono utilizzate un po’ le costituzioni contenute nei primi 9 libri ma anche queste circolano in forma
epitomata, quindi circolano solo alcune parti di queste, vengono trascritte e tramandate non la prima e
l’ultima parte (cioè l’intestazione della costituzione e i destinatari) ma circolano parti del contenuto che
però vengono epitomate, semplificate. Mentre gli ultimi tre libri non circolano più. I Digesta
sostanzialmente non servono e cadono nell’oblio.
Tutto questo per renderci conto a che livello arrivi, nell’Alto Medioevo, l’ottica dell’utilizzatore: cioè si
tramanda, si ricopia quello che interessa, quello che serve. Non interessa l’integrità dei testi. L’ottica del
testo, cioè tramandare un testo che sia il più vicino possibile all’originale, interessa poco; interessa più
l’aspetto fattuale, cioè si trascrive solo quello che serve.

E, in realtà, potremmo dire che le falsificazioni un po’ rientrano in questa idea, falsificazioni che
riguardano i capitolari, fonti diverse dalla compilazione giustinianea. Alla fine, se ci immettiamo in
quest’ottica, riusciamo a capire il senso delle falsificazioni: siccome interessava che il capitolare dicesse
una cosa, se ne falsificava il significato oppure se ne crea un significato completamente nuovo. Siamo in
un periodo in cui il testo è veramente qualcosa di fluido. E in questa fluidità del testo, in cui esso viene
cambiato, dei primi 9 libri che circolano del Codice, le costituzioni sono spesso un taglia e incolla nel
senso che ne circola solo una parte o la parte che interessa. Addirittura una stessa costituzione ha più
versioni. Il discorso che fanno gli studiosi di Bologna che vedono che l’EPITOME IULIANI non è veritiera,
mentre l’AUTENTICUM sì, lo fanno ma giustapponendo alcune costituzioni contenute nell’una e nell’altra,
e vedendo che una è più completa o vicina all’originaria.
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Storia del diritto medievale, lezione n. 5 – 14.10.2020

L’Alto Medioevo è la patria dell’ottica dell’utilizzatore: si tramanda solo ciò che serve. La compilazione
giustinianea cade nell’oblio perché troppo complessa e non più confacente ad un mondo nuovo e più
semplice.

LA SOCIETA’ CURTENSE.
Padoa-Schioppa e Cortese, spesso enfatizzando, parlano di questo MONDO CURTENSE, in cui si riscontra una
società semplice fatta di singoli castelli autosufficienti, che sono sia delle unità abitative ma anche delle vere
e proprio aziende che nascono per un aspetto puramente economico. La struttura tipica era basata su quella
del latifondo romano tardo-antico, dove vi era un comprensorio centrale, sfruttato direttamente dal
padrone con manodopera servile. Dobbiamo immaginare che le persone si trasferiscono dalle grandi città,
che si spopolano, in queste realtà frammentarie dove i soggetti vivono. E in queste realtà abbiamo una
CURTIS, cioè la dimora del signore latifondista e poi, attorno alla curtis, avremo la pars dominica che è
direttamente posta sotto il controllo del signore che vi risiedeva e veniva resa produttiva attraverso l’opera
di soggetti che lì lavoravano e, spesso, tali soggetti erano libero o semi-liberi. E a questa porzione si
aggiungeva poi la pars massaricia che prendeva la denominazione dall’essere divisa in varie unità rurali che
potevano non essere in continuità territoriale tra di loro. Appartenevano comunque al signore latifondista,
ma erano curati da soggetti sicuramente liberi che, comunque, davano al signore una parte del raccolto e
un’altra parte la tenevano per loro; spesso pagavano anche un canone al signore, quindi la contropartita era
un censo in moneta o in natura, o altre volte prestavano il loro lavoro, oltre che in questa parte, anche nella
pars dominica andando ad integrare i semi-liberi o i servi che vi lavoravano. È una STRUTTURA
TENDENZIALMENTE AGRICOLA, è un’azienda agricola. La struttura fondiaria era, dunque, costituita dalla
curtis composta da pars dominica e pars massaricia, che di fatto è una grande azienda agricola. Dal punto di
vista giuridico la curtis, presente nei patrimoni di qualche grande signore laico e di molti conventi, pone il
problema dei contratti con cui si distribuiva la mano d’opera libera nella parte massaricia. Nei codici
diplomatici sfilano enfiteusi, livelli, precarie ecclesiastiche e altre concessioni di terre designate con nomi
vari a seconda delle colture: nei pastinati, per esempio, si impiantavano olivi, noci o altri alberi da frutto.
All’interno di questa struttura, i rapporti da economici diventano rapporti giuridici. Come abbiamo già visto,
parlando di colonato e patronato, possiamo dire che la situazione è molto simile. Qui, abbiamo una serie di
rapporti giuridici. Com’è tipico nel mondo medievale (dove l’impero è visto come il patrimonio privato
dell’imperatore e dunque non c’è una distinzione fra pubblico e privato) è che in queste strutture, in queste
cellule societarie importanti, appunto le CORTI (società curtense), non abbiamo una distinzione tra pubblico
e privato, nel senso che abbiamo un rapporto di tipo economico ma da tale rapporto nascono anche delle
situazioni pubblicistiche, degli status personali. Quindi, vediamo che da una parte vi sono dei vincoli di
obbedienza per coloro che vivono nella curtis del signore; dall’altra parte il signore può anche dirimere
controversie all’interno dei suoi territori. All’interno della sua signoria fondiaria il signore può emanare atti
di carattere normativo, dirimere le controversie, può imporre tributi. Sono potestà che noi oggi diremmo di
stampo pubblicistico, ma nei fatti questo è indistinto nel mondo medievale. Nascono rapporti che sono
privatistici, ma che hanno anche carattere pubblicistico e questo avviene all’interno di queste corti dove i
soggetti sono auto-sufficienti, nel senso che le corti sono auto-sufficienti. Si produce quello che serve per
vivere, il commercio con l’esterno è molto raro e l’uso della moneta è ridotto. Il commercio, nell’alto
medioevo, mai scompare; ma scomparendo le grandi città, le fiere, e avendo di fatto un’economia di
sussistenza in quanto le corti sono auto-sufficienti al loro interno, il commercio si riduce solo ai beni lusso.
Ma quello non è commercio, è un commercio di vasta scala perché abbiamo i mercanti che dall’Oriente
arrivano in Occidente e vanno dai grandi signori per dare loro merci pregiate che non circolavano; non è un
commercio fatto di beni di largo consumo ma di beni di nicchia. Quindi, abbiamo un’economia agricola, il
che rappresenta un aspetto comune importante, e abbiamo un’autosufficienza e scambi commerciali ridotti
al minimo.

LE SIGNORIE TERRITORIALI.
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I signori fondiari possono diventare SIGNORI TERRITORIALI. Ciò avviene quando questi signori fondiari
acquistano, all’interno di un’intera regione, un rilievo preponderante rispetto agli altri signori fondiari
(perché magari, dal punto di vista quantitativo, hanno dei possedimenti più grandi dovuto anche alla
numerosità dei residenti al loro servizio) addirittura all’esterno della signoria fondiaria e diventano SIGNORI
TERRITORIALI. Estendo il proprio rilievo anche all’esterno delle proprie signorie fondiarie anche sugli altri
signori fondiari. Un esempio sono i Canossa, famiglia molto importante, che sono signori territoriali
importanti che domineranno in parte della Toscana e dell’Emilia; così come anche l’Abbazia di Nonantola,
abbazia importante nella Pianura Padana, che sarà un ente ecclesiastico il quale sarà un grande signore
fondiario che estenderà la sua influenza in un’intera regione diventando signore territoriale. E spesso
capitava, come nel caso dei Canossa, che questi signori ottenessero un riconoscimento dall’imperatore. I
Canossa, addirittura, furono considerati i luogotenenti degli imperatori nelle loro regioni di appartenenza.
Ottengono spesso un riconoscimento di stampo pubblicistico, ma prima ancora di questo riconoscimento
esercitano il loro predominio perché da signori fondiari predominanti, per numero di possedimenti e
residenti all’interno dei loro territori, si ergono rispetto agli altri signori fondiari e il loro potere dall’interno
passa all’esterno: dirimono controversie fra i vari signori fondiari o impongono tributi, ad esempio. Poi
magari ottengo un riconoscimento imperiale. Questa è una realtà molto simile a quella feudale, si
sovrappongono quasi tanto che trovare differenze non è facile. Magari ottengono che i territori gli vengano
concessi in feudo e questo è un riconoscimento formale importante. Però, nei fatti, ciò che importa è che c’è
questo predominio a carattere territoriale. Quindi ricordiamoci la differenza tra signoria fondiaria e
territoriale che risiede in un aspetto quantitativo. Ricordiamoci che all’interno di questa entità abbiamo
signori che esercitano potestà di stampo privatistico, in quanto nascono come grandi aziende; poi da questi
rapporti di stampo privatistico nascono rapporti di stampo pubblicistico perché il signore fondiario
all’interno della sua curtis, della sua azienda può veramente iurisdicere, può dare diritto: risolvere
controversie, emanare atti normativi, pretendere altri tributi. Si forma questa entità in cui i rapporti nascono
con il diritto romano, ma si evolvono in qualcosa di diverso. Questo miscuglio di liberi, semi-liberi, servi,
questo miscuglio tra pubblico e privato era qualcosa di sconosciuto per il mondo romano; mentre qui,
questo miscuglio fa nascere dei rapporti nuovi, dal basso che solo successivamente possono ottenere un
riconoscimento pubblicistico ma, nei fatti, questo riconoscimento è solo eventuale. Accade spesso nelle
signorie territoriali, quando un signore fondiario si erge rispetto agli altri signori fondiari di un’intera regione
e si mette ad esercitare potestà di stampo pubblicistico all’interno di questa regione territoriale, quali
dirimere le controversie fra signori fondiari, imporre tributi, organizzare eserciti. Sono tutti aspetti di stampo
pubblicistico, ma nel Medioevo è naturale che sia così, che ci sia questo indistinto tra pubblico e privato.
E gli esempi della famiglia dei Canossa e dell’Abbazia di Nonantola servono a capire che si può essere signori
territoriali sia essendo laici che enti ecclesiastici. Questo è il periodo in cui gli enti ecclesiastici (abbazie,
monasteri) diventano centri agricoli di produzione, di esercizio della supremazia molto importanti. E
l’abbazia di Nonantola, ad esempio, eserciterà il suo indiscusso predominio in gran parte della Padania; così
come i Canossa (famiglia laica) che sono i veri protagonisti, che a volte sono sostenitori del papato, altre
volte dell’impero e ottengono il riconoscimento imperiale e, quindi, eserciteranno il loro potere di fatto e di
diritto perché autorizzati e visti come dei rappresentati dell’imperatore nella regione Toscana ed Emiliana. I
Canossa otterranno questo riconoscimento di stampo pubblicistico. Possono ottenere spesso
un’infeudazione delle loro terre, nel senso che viene concesso loro un feudo. Nei fatti, però, quello che
importa è il POTERE EFFETTIVAMENTE ESERCITATO, il potere sul territorio perché già questa è una forma
istituzionale di potere sul territorio: questi signori fondiari e, poi, territoriali hanno un territorio e su di esso
esercitano un potere di stampo pubblicistico. Questo è un esercizio di poteri statali. Ovviamente lo Stato, in
tutto questo, è assente in quanto è un fenomeno che nasce dal basso però intravediamo in questi rapporti
l’esercizio di potere statuale: vi è un territorio e un governo sul territorio.

LA CONSUETUDINE.
Questa è la società che abbiamo davanti agli occhi, in cui la fonte più importante è la CONSUETUDINE.
Abbiamo detto che il potere politico, dunque, lo Stato ha un sostanziale disinteresse nei confronti del diritto,
ed ecco perché in questo vuoto si inserisce e prospera la consuetudine. Il diritto è prodotto non dall’alto, ma
dal basso cioè dalla società, per rispondere alle esigenze della società stessa. In questa società. in cui la
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consuetudine è la fonte più importante, un problema che si pone è quello della FRAMMENTARIETÀ DEL
DIRITTO. Questo è un periodo, almeno in apparenza, di massima frammentarietà del diritto perché si
possono formare consuetudini anche che riguardano un singolo castello, una singola zolla di terra – come
dice Padoa-Schioppa – cioè consuetudini particolarissime per piccoli appezzamenti di terra e, poi, avere
accanto una consuetudine diversa. La frammentarietà, dunque, è notevole. E il sistema del principio della
personalità del diritto, quindi di applicare il diritto dei Franchi ai Franchi o il diritto dei Longobardi ai
Longobardi, man mano che le differenze di stirpe vengono ad attenuarsi e queste popolazioni iniziano a
comunicare e avere rapporti, entrerà in crisi, mostrando la frammentarietà del diritto, almeno in
APPARENZA. Studiando i documenti dell’epoca, vediamo che per la penisola italica moltissimi documenti
alto medievali attestano che, nelle pratiche di successione mortis causa o nei contratti agrari o nelle sanzioni
per atti illeciti e in altri campi, nel corso dei secoli, si andarono consolidando consuetudini legate al singolo
villaggio, alla singola porzione di terra; però, a poco a poco si vanno consolidando ed estendendo per interi
territori. Quindi queste consuetudini, da una parte, rispecchiano la frammentarietà estrema, almeno
superficialmente, però per interi territori si formano CONSUETUDINI COMUNI in certi temi, di cui è difficile
rintracciare l’origine. Si pensa che siano consuetudini che possono farsi risalire alle etnie dominanti in quel
territorio. Paradossalmente, nel momento di massimo frammentarietà europea, a causa dell’estrema
frammentazione delle consuetudini locali, nei caratteri di fondo del diritto si possono rintracciare alcuni
caratteri comuni. Possono cambiare alcuni aspetti formali, apparendo dunque frammentari; quello che non
muta in questi atti è la sostanza giuridica. L’esempio che fa Padoa-Schioppa è quello del giuramento. Il
giuramento è un istituto processuale che è legato all’aspetto probatorio. Il giuramento cambia le forme, ma
di fondo, come istituto resta sempre quello. Quindi, abbiamo una certa uniformità di fondo che è data da:
- COMUNANZA DELLA FEDE RELIGIOSA, dai comuni valori di cui si fa portatrice una Chiesa che è
anch’essa unitaria. La chiesa, dunque, è un elemento molto importante. La fede cristiana caratterizza
profondamente il diritto anche nell’Alto Medioevo. In questo stesso periodo circoleranno le raccolte
canoniche e in queste raccolte rinveniamo i frammenti della compilazione giustinianea. La chiesa è
protagonista assoluta del diritto.
- ECONOMIA OMOGENEA della società, perché prevalentemente contadina, non cittadina. Le città
abbiamo detto che sono scomparse o comunque ridotte rispetto all’età tardo-antica. E abbiamo
questa comune economia agricola, non artigiana e non commerciale.

Questi due aspetti di comunanza sono importanti perché danno un qualcosa di omogeneo al diritto. E poi,
c’è la sopravvivenza sempre per via consuetudinaria, in modo sotterraneo di regole e istituti propri della
cultura romana. Il diritto romano continua a sopravvivere in via consuetudinaria. Non più per mezzo della
legge scritta ma, a poco a poco, abbiamo una continuità e una rinascita per via consuetudinaria. Già nell’Alto
medioevo abbiamo che, comunque, il diritto romano continua in maniera sotterranea a circolare, per via
consuetudinaria. Continuerà questo eterno incontro tra diritto romano e prassi; quindi il diritto romano
diventerà qualcosa di diverso. Molti contratti o negozi giuridici dell’Alto medioevo si richiamano al mondo
romano, molti dei rapporti si richiamano al mondo romano, hanno matrice romana che si va a mischiare con
le componenti germaniche e religiose. Ci sono diverse matrici, ma quella romana è sempre presente benché
si modifichi nel suo incontro con la prassi. Noi spesso lo vediamo negli ATTI NOTARILI, nei FORMULARI
NOTARILI, in cui i notai hanno le formule o gli schemi degli atti, in cui vediamo che a poco a poco c’è un
richiamo al diritto romano. Si fa riferimento ai formulari romani però in contratti che sono modificati nel
contenuto pur mantenendo la stessa struttura. Ad esempio, i contratti che riguardano la proprietà
richiamano il mondo romano, in un mondo in cui il dominium romano non esiste più perché la proprietà è
frammentata in più situazioni possessorie sullo stesso bene (cosa inconcepibile per il diritto romano). Però,
comunque nei formulari si fa riferimento ai contratti romani, quanto meno per la struttura, ma si modificano
nel loro contenuto, si riempiono di contenuti nuovi ma c’è sempre uno sub-strato di cultura romana
presente.

I PRATICI DEL DIRITTO: GIUDICI E NOTAI.


Chi è che effettivamente è protagonista della formazione e applicazione del diritto consuetudinario?
Abbiamo detto che il grande assente in questo periodo è lo Stato, ma anche i giuristi, cioè i teorici del diritto.
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Li vedremo protagonisti soltanto con la rinascita del diritto grazie alla scuola di Bologna, ma in questo
momento non sono loro i protagonisti in quanto non servono per le consuetudini, cioè coloro che
interpretano le norme giuridiche. Non ci sono leggi tendenzialmente da interpretare.
I veri protagonisti di questo diritto a base consuetudinaria, di questa creazione basata sulla prassi, sono i
PRATICI DEL DIRITTO, cioè giudici e notai che – oltre ad interpretare le sempre più rare leggi - devono
accertare i principi non scritti posti da costumi e comportamenti e nel momento in cui li applicano, li
caricano di auctoritas. Giudici e notai trasformavano i costumi e i comportamenti in NORME
CONSUETIDINARIE. Questi soggetti vanno a cogliere i costumi e comportamenti e gli danno la sanzione di
vincolatività con la sentenza o con il documento notarile. Spesso capitava che chi poneva in essere un
comportamento, per dare vincolatività a tale comportamento, mirava ad ottenere una sentenza o un atto
notarile che, in qualche modo, trasformasse tale comportamento, trasformandolo in qualcosa di vincolante.
Per quanto riguarda le PREROGATIVE DEI GIUDICI, essi devono essere nobili, sapienti (sapienza
enciclopedica, generale) e timorati di Dio. Questi sono i requisiti che devono avere i giudici. Non veniva
richiesto che conoscessero le leggi. Non deve, dunque, essere necessariamente esperto di diritto. In età
carolingia, i giudici vengono affiancati, ad esempio, da figure più esperte di diritto come gli scabini perché
nei fatti i giudici non devono essere esperti di diritto. Sono soggetti esperti di costumi della società in cui
vivono e il loro compito è quello di trasformare tali costumi in consuetudini.
I giudici sono sicuramente importanti, ma la maggior parte delle fonti che ci parlano di questo periodo alto
medievale sono gli ATTI NOTARILI, i quali hanno una funzione rilevante in quanto ci forniscono veramente
tanto di questo periodo dell’Alto Medioevo che si conosce grazie ai formulari. IL NOTAIO È IL PROTOTIPO
DEL PRATICO ALTO MEDIEVALE: deve essere un individuo conosciuto dalla comunità in cui opera, deve
essere un esperto di diritto a differenza di quanto richiesto per il giudice, del tecnicismo del diritto e deve
godere di buona reputazione, cioè deve essere credibile. Occorre chiarire che il notaio non era, nell’Alto
Medioevo, il pubblico ufficiale che conosciamo oggi, investito dallo Stato di un potere certificativo che
assicura ai suoi documenti la pubblica fede. Come dice Cortese, un qualcosa di pubblico gli si riconosceva.
Sappiamo che già ai tempi dei Longobardi, il notaio viene citato nei documenti come “scrivanae publicus” e
nel IX sec., nel periodo carolingio, più di una volta compare con il termine di notarius publicus, non sapendo
se questo secondo termine indicasse un dipendente della cancelleria imperiale del palazzo, capace di dare
agli atti che scriveva almeno un certo grado di credibilità; o se designasse solo un privato che esplicasse la
propria attività pubblicamente. Anche qui di una nomina e di un controllo dall’alto iniziano a parlare i
capitolari carolingi. È possibile che dai Carolingi in poi, allo status e alla mansione notarile fosse attribuito un
carattere semi-ufficiale. Nei territori di forte tradizione bizantina circolava ancora nel X secolo il prestigioso
nome di tabelloniones. A Napoli i notai erano raccolti in un ordo; talvolta assumevano la denominazione di
scriniarii, nome tipico del linguaggio ecclesiastico per designare il personale delle cancellerie papali vescovili.
Come spiegò una grossa probabilmente nel X secolo, lo scrinium era appunto una sede di scrivani.
Altra funzione che, dal periodo carolingio in poi, viene attribuita ai notai è quella della CONSERVAZIONE dei
documenti. Questo è un elemento importante in quanto garantiva, rispetto al tempo, la conservazione della
valenza probatoria carte. Era diffuso nell’alto medioevo che gli archivi fossero le chiese, monasteri, enti
perenni che garantissero l’immortalità della memoria. Dal periodo carolingio in poi, ci sono anche archivi
pubblici riservati a documentazione pubblica, facendo riferimento ad un obbligo di conservazione nel
pubblico archivio di tutti i capitolari soprattutto per garantirne la memoria. Quindi i notai hanno questo
ulteriore compito nel periodo carolingio: quello di conservare gli atti. Dunque, si vede come la figura del
notaio è molto più complessa di quella del giudice. Il giudice deve essere nobile, timorato di Dio e sapiente;
il notaio è un pratico, ma è una figura ancora più centrale che ha qualcosa di pubblico, dai Franchi in poi,
nell’esplicazione della sua attività. Una semi-ufficialità l’aveva perché se ne parlava quasi come un
dipendente di corte, di cancelleria ed ebbe il compito, dai carolingi in poi, di conservare i documenti e gli atti
pubblici e, tra questi, anche i capitolari. I notai poi sono fondamentali perché da essi percepiamo gran parte
della cultura medievale.

LA FIRMITAS.
I notai sono importanti per chiarire il concetto fondamentale quando si parla di atto notarile o di negozio
giuridico in generale che è il concetto di FIRMITAS. Per introdurre tale concetto, dobbiamo dire che il
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medioevo aveva imperniato il problema dell’atto giuridico e del negozio non su come e quando nascesse la
sua efficacia obbligatoria, ma sulla firmitas che comunque doveva conseguire l’atto. Un problema che solo in
parte coincide con la vincolatività e l’efficacia dell’obbligazione. Non era nuovo perché anche questo veniva
dalla romanità, in quanto il concetto di firmitas fa delle comparse rare nell’età classica, ma è un concetto
che diventerà frequentissimo fin dalla tarda antichità fino ad arrivare all’Alto Medioevo, diventando
centrale. Fra i tanti significati che assumeva, come dice Cortese, a chiarire bene il concetto di firmitas sono i
caratteri dell’IRREVOCABILITÀ e dell’INATTACCABILITÀ dell’atto e del suo contenuto e questi costituivano i
valori di fondo della firmitas. Sono valori che denotano aspetti diversi, a seconda delle tappe lungo le quali si
svolge la dinamica dell’atto e del negozio.
La PRIMA TAPPA, quella della irrevocabilità, coglie il momento in cui la volontà dell’agente o dei contranti
superi gli ondeggiamenti della fase di gestazione e la volontà sia ferma su un risultato che non potrà subire
mutamenti, staccandosi, dunque, dalla dimensione soggettiva. Noi, in questo momento, individuiamo la
nascita dell’obbligazione, mentre gli antichi asserivano che in questo momento l’obbligazione diventava
firma, ferma, irrevocabile. E ciò poteva avvenire compiendo alcune formalità: presso i romani la stipulazione
era la più adatta a stabilizzare obbligazioni, per le donazioni di considerevole valore era l'insinuatio nei
pubblici registri; nel mondo longobardo per le donazioni vi era il launegild, per le promesse, almeno col
passar del tempo, la datio wadie. La funzione di erogare firmitas sarà assunta, soprattutto, con il documento
notarile e non a caso, nel linguaggio alto-medievale, il documento stesso si chiamerà firmitas. Per meglio
assolvere il suo compito ci voleva la sottoscrizione delle parti, che noi ancora chiamiamo firma, che poteva
essere corroborata mediante simboli formali come disporre la carta sull’altare o dinanzi al corpo di un santo,
seguire la manufirmatio, cioè l’apposizione della mano sul documento, la presenza di testimoni e del notaio
che, esso stesso, era testimone. Il momento dell’irrevocabilità lo abbiamo con l’incontro delle volontà dei
soggetti. Noi diremo che questo costituisce l’origine dell’obbligazione, ma per i medievali questo è un
momento in cui l’atto è fermo, è dotato di firmitas. E spesso atto notarile è sinonimo di firmitas. È l’atto
notarile che rende i rapporti irrevocabili attraverso l’esplicazione di alcune formalità come la firma delle
parti alla presenza di testimoni con aspetti rituali molto importanti.
La SECONDA TAPPA dell’efficacia della firmitas stava nel suo assicurare l’inattaccabilità sia degli assetti di
interessi che il documento conteneva e sia del documento stesso. Questa inattaccabilità si sperimentava in
giudizio ove a difendere la carta e il suo contenuto provvedevano le formalità: testimoni, che erano sempre
presenti all’atto, lo sottoscrivevano. Anche il notaio stesso era un testimone. Con tutti questi formalismi il
documento era in grado di erogare firmitas dal momento in cui arrestava l’ondeggiante formarsi della
volontà delle parti fino a quello in cui difendeva la stabilità delle cose volute, provandole in giudizio. I
formalismi facevano in modo che l’atto facesse prova di sé in giudizio, essendo inattaccabile.
Sono due aspetti legati alla firmitas:
- l’aspetto dell’irrevocabilità dell’atto (incontro delle volontà che diventano solide);
- l’aspetto dell’inattaccabilità dell’atto in giudizio che, grazie ai formalismi, fa prova di sé in giudizio e
diventa inattaccabile. Questo è l’aspetto patologico dell’atto. È un altro attributo che la firmitas
garantisce.
Tutto ciò è presente nei formulari notarili che sono pieni di queste formule di contratti e negozi giuridici e
dei formalismi che servono per attribuire la firmitas al documento. È proprio nei formulari notarili che
ritroviamo la prassi alto-medievale, cioè il diritto applicato nell’alto medioevo. Il diritto applicato dell’Alto
Medioevo non lo troviamo nelle leggi, sono poche, e neanche nella dottrina giuridica, ma lo troviamo nei
formulari notarili.
Vedremo un ritorno nella prassi del diritto romano sommerso, un richiamo sempre maggiore al diritto
romano. Vedremo, come intorno all’anno 1000, il diritto romano sembra rinascere e come effettivamente i
formulari notarili sono un campanello di allarme perché come si comincerà a far uso delle forme dei
contratti romani. Specialmente in alcune zone dell’Italia come Emilia-Romagna e Toscana, dove si riavrà il
rinascimento giuridico, si andava formando questa classe di pratici che conoscevano anche il diritto romano.

Un’altra teoria assegna al documento efficacia costitutiva o dispositiva di diritti: ne ha fatto, cioè, una forma
idonea a generare obbligazioni e trasferire beni. Questa teoria, però, ha sollevato alcune perplessità.
L’argomento dell’efficacia costitutiva del documento è desunto dal fatto che la redazione notarile si dovesse
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concludere con la consegna del documento stesso (absolutio), gesto dispositivo per eccellenza, falsamente
interpretata come eseguita dalle parti. In realtà, era il notaio a consegnare lo scritto ai contraenti e non
aveva alcun potere dispositivo dei diritti altrui. Ma tale teoria non regge. L’aspirazione delle parti era che
intervenisse un auctoritas, un pubblico potere, per renderlo autentico, credibile e forte e dunque che avesse
l’idoneità ad erogare la firmitas. Ma vi è un alro modo per procurare autorità pubblica all’atto notarile:
attingere al potere giurisdizionale. Nell’Italia centro-settentrionale nacque la prassi dell’ostensio chartae in
giudizio, ovvero l’esibizione del documento ad un giudice per una sentenza di accertamento, sia per dare
pubblicità a certe situazioni giuridiche private sia per assicurare la loro futura intangibilità. Questo genere di
accertamento, probabilmente, acquistò una fisionomia tipica visto che si avvertì l’esigenza di dedicargli uno
schema apposito nei formulari.

Stampare dal Cortese pag 34-35-36 (paragrafi 5-7-8-9)


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Lezione n. 6 – 15.10.2020

Abbiamo detto che vi è questo estremo pluralismo alto-medievale ma nel quale noi ricaviamo degli
elementi di fondo di omologazione di queste consuetudini, degli elementi comuni ed omogenei che fanno
sorgere elementi più profondi rispetto a alle differenze superficiali di alcuni formalismi. In periodo
nascono delle consuetudini che hanno una base territoriale, che si estende per regioni anche ampie,
superando il principio della personalità del diritto in quanto si perde la loro origine (derivavano dal diritto
longobardo, franco, romano) per poi estendersi a tutti coloro che vivevano in una determinata regione o
territorio. Si crea una uniformità di fondo dei suoi aspetti importanti al di là del formalismo e delle forme
che potevano essere diverse. La base del diritto alto medievale, la fonte del diritto più importante era la
consuetudine.

IL FEUDALESIMO
Ora vediamo se questo è vero o meno. Nel senso che adesso analizziamo il più importante esempio
istituzionale politico ed economico del Medioevo, e non solo, che è il FEUDALESIMO. Quindi analizziamo
questo assetto istituzionale, politico ed economico e vediamo come tutto il mondo feudale in realtà è
creato su base consuetudinaria.
Il feudalesimo è l’esempio di istituzione che nasce come territoriale ma che in realtà diventa il perno
socio-politico del periodo medievale. Non a caso, il feudo è stato definito da Calasso (grandissimo storico
del diritto novecentesco) “la più grande creazione consuetudinaria del medioevo”.
Siamo in un periodo in cui le consuetudini medievali, in assenza di legislazione, si diffondono in gran parte
dell’Europa e il feudo diventa (anche per la storiografia) l’EMBLEMA del Medioevo, ma caratterizza in
realtà non solo il medioevo, ma questa istituzione si diffonde per il medioevo ma, nella sua fase matura,
anche in età moderna.

Per molti studiosi il feudo è stato l’emblema del medioevo, tanto che spesso il medioevo era sinonimo di
feudo e viceversa. Il feudo è stato spesso studiato e avversato da coloro che avversavano l’ancién regime
(cioè il vecchio regime), le istituzioni medievali e il feudo è l’istituzione più importante del Medioevo.
Infatti nel periodo illuminista, molti studiosi da Montesquieu a Voltaire, criticavano il feudo vedendo in
esso la causa di tutti i mali, vedendolo come un istituto barbaro. Veramente gli illuministi francesi
auspicavano ad un rinnovamento globale del diritto e della società, e vedevano nel feudo l’emblema della
società barbara come la madre di tutti i mali essenzialmente, perché rappresentava, per loro, i secoli bui
del medioevo. Questa è una visione che dagli illuministi andrà avanti e avrà anche dei risvolti istituzionali,
in quanto uno dei primi atti durante la rivoluzione francese, fu quello di abolire il regime feudale il 4
Agosto 1789. Quindi vedete come nei fatti, dunque, il feudo fosse veramente visto in chiave deteriore,
con una visione fortemente critica.

Ci sono state anche indagini che parlavano delle ORIGINI del feudo stesso e molti hanno cercato, già fin
dal rinascimento giuridico (quindi fin dal 1100, la scuola dei giuristi bolognesi) cercavano di trovare le
matrici del feudo rinvenendole nel diritto romano. Cercavano proprio il legame con il diritto romano, per
vedere le origini del feudo nel diritto romano.
Quindi in particolare si rifacevano alla CLIENTELA, un istituto di diritto romano in cui un soggetto si
subordina rispetto ad un altro nel ricevere una protezione, la c.d. commendatio, istituzione romana ma
che sarà viva successivamente anche nei possedimenti franchi. Dunque si faceva risalire la matrice
feudale, il feudo cercando legami con il diritto romano, o col precarium che è un contratto romanistico
con il quale, naturalmente, vi sono delle differenze. Si cercavano le basi del feudo col diritto romano, i
collegamenti con il diritto romano. Quindi il feudo venne considerato come frutto di un antico istituto
romano, già presente all'inizio della storia di Roma, ovvero la clientela, che poi fu esportata in Gallia e in
Germania, quando diedero ai veterani terre nei territori conquistati.

Solo di recente la storiografia ha visto come il feudalesimo è un misto di varie influenze: romana,
germanica ma anche, in qualche modo, la simbologia cristiana.
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Tutto questo è veramente trasfuso e crea le CONSUETUDINI FEUDALI. Prendono da queste matrici ma in
qualche modo sono qualcosa di diverso da queste. Il feudo è la chiave di lettura di quello che ci siamo
detti fino ad ora: di questo mondo a partire dall’Alto Medioevo.
Anche le consuetudini feudali, di cui adesso parleremo, si fondano da queste varie matrici che sono
appunto romane, germaniche ma anche cristiane, ma che nei fatti comunque si fondano e creano
qualcosa di nuovo.

A parte studiosi come Tocqueville e Wizzov(?) che sono precedenti, nel XX secolo inoltrato già abbiamo
l’opera di Bloch “La società feudale” o le opere di Ganshof, sono studiosi recenti che ci parlano del
feudalesimo in termini che cercano di essere i più acritici possibili. Con Bloch, con Ganshof cerchiamo di
avvicinarci ad una visione acritica del feudalesimo senza quell’idea illuminista che per forza vede un
aspetto negativo del feudo.
Fu comunque un giurista francese, ben più datato, Charles Dumoulin che alla fine del ‘600 diede l’avvio
ad una teoria che nella sostanza, con aggiustamenti, è la teoria che abbiamo oggi del feudo, con una
visione molto schematica. Dumoulin già nel 600 si diceva che il feudo sarebbe stato un’invenzione dei
Franchi, avrebbe visto la luce ai tempi dell’insediamento dei Franchi in Gallia quindi dei primi Merovingi
già all’inizio del V secolo. I Longobardi avrebbero appreso dai Franchi il feudo e l’avrebbero portato
nell’Italia pagana e nel Mezzogiorno. È seicentesco il primo pensatore a darci una visione acritica del
feudo chiarendo alcuni passaggi di questa istituzione che nascerebbe all’origine dell’insediamento in
Gallia dei Franchi stessi nel V secolo.
Si pensa ancora oggi che sia stato Carlo Magno (e quindi i Carolingi) il vero fautore del feudo, all'epoca tra
l’8° e il 9° secolo perché vi erano tanti documenti che testimoniavano la preparazione di questo istituto;
tuttavia quello che rende questa ipotesi non del tutto convincente è che non compare mai il nome feudo,
né tanto meno compaiono tutte insieme le 3 componenti che ne fanno parte.

Una definizione completa di feudo è quella di Gina Fasoli del 1958 che riassume bene i connotati del
feudo. “Il feudalesimo è l’assetto sociale e politico dei Paesi dell’Europa occidentale, tra l’VIII e XII secolo,
basato sul rapporto personale del re con i suoi vassalli che gli giuravano fedeltà e ai quali il re promette la
sua protezione e concede in godimento i feudi con l’obbligo di accorrere presso il sovrano per consiglio e
servizio militare”.
Da questa definizione della Fasoli, un professore siciliano importante Mazzarese Fardella che è stato un
grande studioso anche del feudo, vede nel feudo i tre elementi in cui questa istituzione può essere
suddivisa:
- Personale vassallaggio (rapporto personale che c'era tra un signore e il suo subordinato,
elemento di lontane origini germaniche).
- Patrimoniale beneficio (concessione patrimoniale usata come remunerazione e ispirata alla
benevolenza, di origini ecclesiastiche).
- Politico immunità (il privilegio formale dell'immunitas, che era proprio delle terre fiscali e dei
latifondi imperiali dell'antichità, si riteneva originario di Roma antica).
Questi sono i tre elementi che per noi studiosi identificano il feudo.

Intanto possiamo delimitare nella definizione della Fasoli, come lei stessa fa, che stiamo parlando del
feudo dal punto di vista dell’Europa Occidentale perché questo è presente anche in altre realtà, come ad
esempio la pronoia bizantina, il feudalesimo russo, il feudalesimo arabo. Noi parliamo soltanto del
feudalesimo occidentale, ma è giusto che sappiate che di feudalesimo si parla anche in Russia, nel mondo
bizantino e anche in Giappone.
Questa definizione conta anche dei limiti temporali (VIII-XI secolo) definiti dalla Fasoli che identifica
realmente un feudalesimo classico, maturo perché i confini temporali possono anche essere estesi sia nel
termine iniziale (già nel V secolo possiamo parlare di feudalesimo) ma possiamo estendere anche il
termine finale oltre l’XI secolo di cui parla la Fasoli.
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Ma vediamo anche altri aspetti ad esempio chi sono i VASSALLI. Si definiscono vassalli coloro sono entrati
in un rapporto personale e subordinato con un soggetto dal quale hanno ricevuto un beneficium.
Originariamente la parola vassus che significava “uomo” compare in Gallia verso l'inizio dell’VIII secolo, il
re aveva alcuni vassi sia a palazzo che in giro per il regno ad amministrare beni fiscali. Quindi erano
servitori del re e in quanto tali le loro mansioni erano onorifiche e spesso privilegiate.
Il legame tra i vassalli e il signore era forte ma non indissolubile: in un capitolare di Ludovico il Pio dell'816
indica i 5 casi in cui il vassallo poteva legittimamente sottrarsi al rapporto con il signore o senior:
- Quando il signore abbia preteso ingiustamente servizi non previsti,
- Congiurato contro la sua vita,
- Si sia precipitato su di lui a spada snudata,
- Abbia commesso adulterio con sua moglie,
- Abbia tralasciato di difenderlo.
Questi casi danno al vassallaggio una patina etico-familiare.

La FEDELTÀ è l’elemento fondamentale di questo rapporto ed è un termine che ha origine già nel mondo
romano. La fedeltà che è alla base dell’elemento personale del feudo cioè del vassallaggio ha origine nel
mondo romano dove il termine fides già in età repubblicana indicava un vincolo di carattere etico
intercorrente fra il patrono e i suoi liberti ad esempio. Esso comportava l’instaurazione di un rapporto tra
il patrono e il liberto (lo schiavo da lui liberato). Vediamo come in questa prima fase che stiamo vedendo,
la fedeltà di cui si parla che è l’elemento personale del vassallaggio che ha delle origini nel mondo
romano.

Inizialmente la fidelitas, che è il rapporto personale che il vassallo doveva prestare al suo signore, non era
di pertinenza esclusiva del rapporto vassallatico, bensì aveva ormai raggiunto quel grado di diffusione,
tale che erano investiti della fidelitas, praticamente tutti.
Ad esempio, secondo le fonti bizantine i monarchi di Costantinopoli pretesero dai funzionari almeno sin
dal V secolo, un giuramento di fedeltà.
Poi anche Carlo Magno stesso fece grande uso della fidelitas, mandando i propri missi o messaggeri a
riscuoterla dal popolo, pretendendola con puntiglio, tanto che, avendo già ricevuto come re il relativo
giuramento, una volta incoronato imperatore, volle che questo giuramento fosse rinnovato.
Quindi la fidelitas divenne parte integrante del rapporto dei sudditi con la cosa pubblica e rese concreto il
rapporto tra sovranità e sudditanza, divenne individuale, imitando modelli privatistici e assunse natura
bilaterale.
Nel periodo della decadenza carolingia i giuramenti di fedeltà divennero occasionali e il giuramento di
fedeltà divenne simbolo di protezione da parte del superiore, il sovrano era implicitamente o
esplicitamente obbligato alla protezione del suddito (si affermò già nell’editto del 755 nel regno
longobardo con Astolfo, con il quale si assicurava protezione a tutti, ma in particolare ai miseri, ai deboli,
alle vedove e agli orfani).

Accanto a questa fidelitas generale, quella che tutti dovevano al sovrano; vi erano anche fidelitas
particolari una di queste era appunto il VASSALLAGGIO.

Bisogna chiarire che la definizione della Fasoli parla dell’VIII-XI secolo ma possiamo andare anche prima
già dal VI secolo nella Francia di Clodoveo (quindi i primi sovrani merovingi). Questi consideravano il
territorio patrimonio del sovrano (vista l’inesistenza della distinzione tra diritto pubblico e privato) e alla
morte di questo veniva diviso tra i figli e per motivi dinastici veniva più volte anche ricomposto.
Definite anche le regioni territoriali, quando il territorio veniva diviso, vengono definite anche le
aristocrazie che stanno in questi territori. Capitava dunque che i sovrani infeudavano delle terre alle
famiglie più importanti.
Questo capitava da parte dei sovrani, che appunto creavano i FEUDI MAGGIORI, il sovrano diventava il
signore feudale e quindi dava territori a marchesi, conti, e formava le aristocrazie territoriali. Queste le
formava infeudando, creando un rapporto, un vincolo con i propri signori. Il rapporto è un rapporto che
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ha un’ascendenza con la clientela romana, tipico rapporto nel quale vi è un soggetto sovraordinato (un
signore) che si lega ad un soggetto subordinato; in questo caso, abbiamo che il signore garantisce, con la
commendatio*, protezione al soggetto subordinato che si mette al suo ossequio e l’altro soggetto,
almeno all’origine, gli garantisce almeno in termini generali auxilium et consilium cioè di venire in
soccorso del signore quando questo ne ha bisogno. Soccorso che può essere militare, o giudiziale (come
testimone).
Le carte parlano delle più svariate prestazioni: pagare il riscatto nel caso in cui il signore venisse
sequestrato, prestare un servizio con le armi; insomma prestazioni molto generiche
In qualche modo le due prestazioni, hanno origine nella commendatio romana, ma nel V-VI secolo i
Franchi prendono questa idea della commendatio, questo rapporto in cui vi sono delle prestazioni
corrispettive che all’inizio sono generiche: il signore dà protezione e sostentamento materiale e il
soggetto che si subordina al signore, il suo vassallo, gli dà genericamente un aiuto militare.
Però la cosa è molto generica: in qualche modo viene in soccorso del signore.

*La commendatio: era praticata da secoli ed era presente nella Lex Visigothorum per l'assunzione dei
buccellari nel patrocinium dei potenti, i Longobardi l'avevano attinta da usi volgari, e ne trassero la
condizione semi-servile per i lavoratori della terra, chiamati commendati, che erano gli eredi degli antichi
contadini che si commendavano al patrocinio dei potenti.
La prima commendantio enunciata dalle fonti riguarda non servi o semi-liberi ma il potente duca
Tassilone di Baviera, che facendo atto di sottomissione si commenda a Pipino e figli, nel 757; è il più
antico vassallo altolocato della storia

Questo è il feudo delle origini,non vi è una prestazione ben definita delle parti, però con il tempo le due
prestazioni si vanno specificando.
La storiografia ha addirittura parlato di un momento in particolare che è il 732 cioè il momento in cui
Carlo Martello sconfigge gli Arabi, presenti oltre i Pirenei che minacciano l’islamizzazione dell’Europa e
della Gallia. È la cavalleria franca che sconfigge gli arabi. Questo passaggio è importante perché già nei
documenti in cui si parla di questa Battaglia di Poitiers si parla di questo servizio militare stabile che i
vassalli danno ai loro signori.
Quindi, da qui, si pensa che le prestazioni feudali si vadano specificando:
- Da una parte, abbiamo che quel generico dovere del signore di protezione e sostentamento
diventa stabilmente un’attribuzione territoriale cioè il signore dà il beneficium che corrisponde al
feudo quindi ad un appezzamento di terra per il sostentamento della famiglia del suo vassallo;
- Dall’altra, il vassallo assicura al signore il servizio militare.
Quindi si vanno specificando le prestazioni. Questo è soltanto dall’VIII secolo in poi, perché prima
avevamo che veramente vi erano prestazioni indefinite, vi era questo rapporto di subordinazione che già
abbiamo visto dalla commendatio romana era passata nel mondo franco tra il V e il Vi secolo in cui
avevamo dei rapporti.
A volte capitava che il signore è il PRIMO SIGNORE FEUDALE, addirittura Carlo Magno aveva preteso dai
suoi funzionari un GIURAMENTO VASSALLATICO che si vincola ancor di più rispetto al vincolo del sovrano
rispetto ai suoi sudditi. Il giuramento vassallatico è qualcosa in più.

Da questo momento in poi, cioè dall’VIII secolo circa, vediamo che le prestazioni feudali si vanno
specificando e acquistano i connotati di cui parla la Fasoli, cioè i connotati del feudo maturo o classico,
connotati che restano quasi del tutto invariati. Da una parte il signore darà il beneficium cioè attribuirà il
feudo al suo vassallo e, dall’altra, abbiamo che il vassallo assicurava al signore quella che ormai è una
prestazione delineata, ovvero il servizio militare appunto.

Adesso vengono chiariti in qualche modo i tre elementi di cui parlavamo con la definizione della Fasoli:
 Elemento personale: il vassallaggio, rapporto di fiducia che c’è tra il signore e il suo vassallo;
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 Elemento economico: il beneficium, quindi l’attribuzione feudale; l’elemento di carattere più
prettamente economico perché quando si specificano le prestazioni, questo elemento economico
patrimoniale, diventa di attribuire il beneficium cioè il feudo.

Excursus sul beneficio: Il beneficio era un tipo di salario, era connesso a un servizio (ministerium) che
poteva essere di vari tipi tra i quali anche quello militare, ed è da qui che si venne creando l’elemento
patrimoniale del futuro feudo, il beneficio.
Inizialmente però si diedero terre mediante i precària, che era una forma di concessione agraria usata
dalla Chiesa che ricorda il precarium romano: questo era gratuito, mentre la precària medievale no.
I benefici per finanziare l'esercito, nell’ultima età merovigia e agli inizi dell’età carolingia, erano una
precària strana, che non necessitava di una richiesta da parte del beneficiario e una relativa
contrattazione ma era il re che decideva unilateralmente. La precaria svanì presto dalla scena beneficiale,
ma l'abitudine di distribuire terre della Chiesa ai militari restò, si mantenne il forte legame tra beneficio e
servizio militare.
Il beneficio tra l'8° e 9° secolo ha avuto quindi un grande carattere aleatorio, data la revocabilità del
sovrano del beneficio stesso. Le notizie che abbiamo vengono solo da poche leggi perché la revocabilità
escludeva che si redigesse ogni volta un documento notarile di concessione. Privo di supporto della
documentazione, vi erano casi di vere e proprie truffe ai danni del re (beneficiari alienavano a terzi il
beneficio per poi ricomprarlo e avere una carta notarile che provasse il possesso del terreno). Questi reati
vennero puniti non per il fatto che fossero reati, ma perché coloro che li avevano commessi avevano
violato la fidelitas. Per ovviare a questo problema vennero mandati dei missi dominici in varie città, per
accertare che i benefici dati ai vari soggetti fossero legittimi: per lo più occorreva verificare e aggiornare
gli inventari. I
In età carolingia la fidelitas e il beneficium convergevano. Nell'839 l'imperatore Lotario proclamò che era
una cosa degna di maestà imperiale donare benefici a coloro che prestavano la loro fedeltà assoluta al
sovrano.

 Elemento politico: legato all’immunità che fin dai tempi più risalenti (quindi ai Merovingi)
consisteva nell’assicurare al vassallo (a colui che diventava signore del feudo) l’esercizio di poteri
di carattere amministrativo o anche economico, il potere giudiziario e quindi all’interno del
proprio feudo di poter esercitare potestà di stampo pubblicistico. Il vassallo nel suo feudo poteva
anche negare, impedire ai funzionari regi di esercitare qualsiasi atto di autorità nelle stesse terre.
Quindi abbiamo due aspetti legati all’immunità (cioè all’elemento politico del feudo): da una
parte, un aspetto positivo nel senso proprio giuridico del termine: il vassallo, che diventa signore
del suo feudo, può amministrare il feudo, può pretendere prestazioni di carattere economico,
quindi anche il pagamento di tributi ed esercita anche la giustizia all’interno del suo feudo;
dall’altro lato, un aspetto negativo legato all’elemento politico dell’immunità, il quale fa sì che il
vassallo possa impedire agli stessi funzionari regi la possibilità di entrare nel feudo per esercitare
queste potestà, per esercitare qualsiasi atto di autorità nelle sue terre (consisteva in un privilegio
negativo, nel divieto per i funzionari dello Stato di esercitare la giurisdizione, di riscuotere tasse,
ammende e tributi, di compiere atti preliminari o conseguenti a un giudizio).

Quindi vedete com’è realmente forte il legame feudale e come in realtà nasce un rapporto fortissimo tra
il signore e il suo vassallo. È un rapporto che dura per tutta la vita del vassallo e del signore stesso, dura
fino alla morte dei protagonisti perché è un rapporto personale che identifica proprio l’elemento
personale, il vassallaggio, rapporto fortissimo basato sulla fides che già nel mondo romano era
conosciuta. Questo è un elemento caratterizzante, portante nel feudo, accanto all’elemento patrimoniale
(il beneficium) e all’elemento politico (l’immunità).

Ricapitolando: Abbiamo visto le origini del feudo e siamo arrivati intorno all’VIII secolo in cui il feudo
acquista i connotati maturi definitivi. All’origine il feudo veramente era caratterizzato da questo aspetto
personale, l’elemento centrale era appunto il rapporto di fides tra due soggetti che si fa risalire alla
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commendatio di natura romana in cui abbiamo un soggetto che si accomanda, quindi si pone sotto le
dipendenze di un altro, in subordinazione; ma è un rapporto di fiducia legato alla fides e in cui le
prestazioni che nascono da questa fides sono generiche, non ben delineate (da parte del signore
protezione sostentamento per il suo accommendato; da parte di quest’ultimo un auxilium et consilium
cioè accorre in soccorso del signore).
Poi dall’VIII secolo in poi, tornando alla Fasoli, si vanno a chiarire gli elementi del feudo e tutto diventa più
schematico: abbiamo le due prestazioni, da una parte il signore che attribuisce il beneficium cioè il feudo
al suo vassallo e dall’altro il vassallo che presterà il servizio militare. Le due prestazioni si qualificano e si
chiariscono e così anche i tre elementi del feudo classico, maturo che sono: l’elemento personale cioè il
vassallaggio, questo rapporto di fides tra un signore e il suo vassallo; l’elemento patrimoniale che è
l’attribuzione del feudo; l’elemento politico che è l’immunità cioè il potere che ha il signore feudale (il
vassallo che è signore nel suo feudo) di esercitare potestà carattere amministrativo, tributarie e di dare
giustizia (il potere giudiziario), questo potere è un potere positivo – di fare queste cose - ma anche un
potere negativo cioè di negare ad altri, anche ai funzionari imperiali, la possibilità di entrare nel suo feudo
e di esercitare qualsiasi atto di autorità.
Siamo arrivati al feudo maturo perché giungono a maturazione gli elementi del feudo intorno all’VIII
secolo in poi. L’elemento personale del vassallaggio, dove la fides resta sempre la substantia del feudo, la
causa stessa del feudo.

Dalla commendatio romana - che è l’ascendente romanistica che si basava sul contratto di precarium
attraverso il quale dei soggetti chiedevano al signore la concessione di un fondo - si passa al termine
HOMAGIUM, cioè quel complesso di gesti con i quali si indica la dichiarazione di volontà di un soggetto di
porsi in ossequio di un senior, cioè di essere un subordinato nei confronti di un signore. L’homagium è,
quindi, l’atto con cui un soggetto si pone alle dipendenze, in subordinazione nei confronti di un altro.
Questa cerimonia dell’homagium si fa in ginocchio ponendo le mani in quelle del senior (cioè del soggetto
nei cui confronti si va a subordinare), e questo è il fondamento del contratto feudale. Il soggetto secondo
un termine romanistico fa traditio di sé stesso. Questo è l’elemento fondamentale del contratto feudale.

L’homagium poi è seguito dal GIURAMENTO VASSALLATICO (anch’esso ha delle origini romano-
germaniche) in quanto il vassallo essendo divenuto uomo del signore si impegna a difenderlo da chiunque
e questo è un giuramento molto più impegnativo di quello di sudditanza. È un giuramento fortissimo che
pretende una fedeltà ancora maggiore di quella che il suddito ha nei confronti del sovrano. Il giuramento
di fedeltà che il vassallo fa al signore è molto penetrante, ancor di più di quel giuramento di sudditanza,
tanto che Carlo Magno pretenderà il giuramento feudale dai suoi vassalli che li obbligherà ad una fedeltà
ancora maggiore rispetto a quella del sovrano, perché gli prestano omaggio.
Il giuramento si fa in piedi ponendo le mani su oggetti sacri e seguito dall’ osculum pacis cioè dallo
scambio di un BACIO, questo viene fatto sia per creare questa intimità, ma anche per obbedire alle regole
di San Paolo che esortava a scambiarsi un bacio tra cristiani nel momento in cui si raggiungeva l’accordo.
Quindi la simbologia cristiana entra nella cerimonia feudale. È fatto, quasi, per mettere i due soggetti in
un rapporto intimo, le corporeità dei soggetti vengono messe in un rapporto intimo.

Poi vi era l’eventuale REDAZIONE SCRITTA DI UN DOCUMENTO; che solitamente avveniva, e tale
documento conteneva la prestazione dell’omaggio, le varie prestazioni dei due soggetti ed era un
documento scritto.

Abbiamo poi che l’omaggio, il giuramento e il bacio sono seguiti dall’INVESTITURA che consiste in una
cerimonia attraverso la quale il vassallo viene immesso nel possesso del bene. Veniva, solitamente,
consegnato simbolicamente un oggetto attinente al feudo, ad esempio una zolla di terra; mentre per i
feudi di maggiore dignità (quelli che il sovrano consegnava ai suoi primi vassalli, quelli che costituivano
contee, ducati) venivano consegnati oggetti di valore simbolico: una bandiera o una spada come simbolo.
Il sovrano, in senso germanico, è un signore ed è legato da un rapporto di vassallaggio ai suoi vassalli. Lui
divide il territorio, lo infeuda e nei feudi di maggiore prestigio, dove poi nascono le contee e i ducati, in
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questi feudi maggiori in cui il signore feudale è il sovrano (che è il più importante signore feudale del
regno) ci sarà anche la consegna di oggetti di maggior valore simbolico come la spada, una bandiera.
E qui la simbologia cristiana è molto importante perché la Chiesa crea e allo stesso tempo utilizza la
simbologia feudale. Per molti contemporanei, legando la ritualità feudale a quella istituzionale, la
consegna da parte di Leone III a Carlo Magno dopo l’incoronazione di una spada e di un globo
indicherebbe l’investitura dell’imperatore che viene fatta dal pontefice questa immagine viene associata
al vassallo nei confronti del signore feudale (che è il pontefice) dunque una sottomissione vassallatica nei
confronti del Papa. Quindi vedete questa cerimonia come si forma; si tratta di una cerimonia rituale, ma
la ritualità qui è un aspetto importante perché è anche sostanza.

Adesso vediamo come il ceto ecclesiastico accolse le pratiche e il linguaggio feudali e le inserì nel suo
contesto. Basti pensare che il Vescovo, capo della gerarchia diocesana, pretese L’OMAGGIO DEI
CANONICI, degli abbati. Questo non stupisce se si pensa che il Vescovo era ormai divenuto nel mondo
feudale un funzionario dell’ordinamento laico e addirittura sotto gli Ottoni, divenne un conte (dal 900 in
poi).
Dunque, anche il vescovo era un signore feudale che pretendeva il giuramento vassallatico e abbiamo la
creazione dei vescovi conti da parte degli Ottoni quando nel 900 si spostano e abbiamo una ripresa
dell’impero che torna ad essere un’istituzione stabile e più centralizzata rispetto al periodo franco in cui il
territorio, dopo la morte di Carlo Magno veniva diviso tra i suoi eredi, poi ricomposto ecc.
Con gli Ottoni nell’area tedesca tra la metà e la fine del 900 abbiamo che rinasce in qualche modo
l’impero come struttura unitaria e torna ad avere un’impronta maggiore. All’interno di questa struttura
anche i vescovi sono visti come dei funzionari dell’ordinamento laico e diventano vescovi-conti, cioè dei
signori feudali essi stessi.

Restando sempre all’interno della definizione della Fasoli, nell’evoluzione del feudo e nell’idea stessa di
feudo maturo notiamo che, pur rimanendo sempre l’idea della fides, man mano che le prestazioni si
vanno specificando e una di queste diventa sempre il beneficium (cioè il signore dà in beneficium il
feudo), questo beneficium diventa a poco a poco l’elemento centrale, a fianco alla fides ma l’aspetto
patrimoniale assume sempre più rilievo. La fides caratterizzava il legame vassallatico legato all’aspetto
personale, ma a poco a poco l’aspetto patrimoniale acquista un rilievo sempre maggiore e in questo
senso il beneficio diventa centrale.

Quindi può accedere, ad esempio, che nella pratica documentale sin dalla fine del IX secolo era permesso
di prestare omaggio a più soggetti, questo perché si potevano ricevere più feudi. Si iniziò a parlare di una
GERARCHIA DEGLI OMAGGI e si ricorse all’omaggio ligio quindi ad una gerarchia. Era detto ligio l’omaggio
che prevedesse una fidelitas senza riserve e che, dunque, prevalesse sugli altri omaggi (quindi anche
rispetto all’omaggio prestato al sovrano). Questa gerarchia degli omaggi ha una forza centrifuga anche nei
confronti dell’imperatore stesso: l’idea dell’omaggio ligio ci fa capire, ci concretizza, la centralità del
beneficium che acquista già dal IX secolo; era impensabile nel feudo delle origini che si prestassero più
omaggi, nei confronti di più signori perché era un rapporto legato alla fedeltà con UN signore. La fides era
rivolta tra due individui (un signore e un vassallo) ed era l’aspetto centrale, quindi era vietato che si
prestasse omaggio a più signori. Mentre a partire dal IX secolo, per ottenere più feudi, i vassalli
prestavano omaggio a più signori, era una pratica invalsa questa di prestare omaggio nei confronti di più
signori.
Qual era l’omaggio che prevaleva sugli altri? L’omaggio ligio cioè veniva scelta una sorta di gerarchia degli
omaggi, nella quale vi era l’omaggio, il rapporto di fedeltà che era maggiore rispetto agli altri omaggi.
L’omaggio feudale nei confronti di un certo signore spesso poteva essere maggiore della riverenza e
dell’omaggio nei confronti dell’imperatore stesso. Il rapporto vassallatico era un rapporto molto intimo.
In questa gerarchia, si vede nei documenti, come la fedeltà nei confronti dell’imperatore è sicuramente
spesso minore rispetto all’omaggio ligio. La gerarchia degli omaggi e l’omaggio ligio ci fanno capire come
il feudo attraversa nel momento in cui il feudo matura, il suo periodo di patrimonializzazione: questa è
un’idea inconcepibile nel feudo delle origini, cioè prestare omaggio a più signori.
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Visto che l’elemento patrimoniale inizia ad avere il sopravvento, a questo punto le porte sono aperte
anche per L’EREDITARIETÀ DEI FEUDI. Quando l’elemento della fides era centrale, il rapporto era fra due
soggetti e durava per tutta la loro vita ed era inconcepibile che il rapporto potesse continuare in capo agli
eredi perché era un rapporto vincolato ai due soggetti. Mentre, quando l’attribuzione patrimoniale
diventa centrale è aperta l’idea di un’ereditarietà dei feudi. Abbiamo i PRIMI INTERVENTI NORMATIVI e
vediamo che:
- Nell’877 Carlo II il Calvo stabilisce l’ereditarietà dei feudi maggiori con il capitolare Quierzy. I feudi
maggiori sono i feudi che il sovrano stesso affida ai suoi funzionari che sono i maggiorenti, le
famiglie più importanti del regno e che creano contee, marchesati e ducati. Carlo II il Calvo,
penultimo imperatore carolingio, era in crisi di potere e pochi mesi prima di morire, si apprestava
a difendere il trono con le armi, e nell' 877, in giugno, quindi radunò una dieta a Quierzy prima di
partire per la guerra, dove il sovrano assicurò ai propri Conti che in caso di loro morte avrebbe
dato i loro benefici feudali ai figli, questo passaggio non sarebbe avvenuto in maniera automatica
ma era necessaria una reinvestitura. Il capitolare di Quierzy nasce da questa promessa fatta da
Carlo II il Calvo che prevedeva la reinvestitura dei figli, nasce per questo caso particolare dei
maggiorenti dell’Impero che accompagnano l’imperatore in guerra e lui assicura loro che in caso
di morte farà passare i benefici ai figli, da qui è aperta la strada per l’ereditarietà dei feudi
maggiori.

- Mentre con l’Editto de beneficiis di Corrado II il Sadico, nel 1037, si sancì l’ereditarietà dei feudi
minori, a partire dal Regno Italico.
La nobiltà cittadina era in gran parte composta da militi che vedevano la loro dignità diminuita
dalla mancanza dell’ereditarietà dei beni. Corrado II venne in Italia a combattere Milano e il suo
potente arcivescovo Ariberto, ed ebbe bisogno dei molti milites minori del suo regno, che
combatterono contro i loro seniores, i quali revocavano ai primi i loro benefici arbitrariamente.
Per avere il loro appoggio dovette emanare nel 1037 d.C. il famoso Editto de beneficiis: il quale
indicava l'irrevocabilità dei benefici messi a loro disposizione. Questo editto fu aggiunto al
Capitulare italicum, introdotta nel Liber Papiensis, che circolò tantissimo nell'11° secolo come
raccolta di tutte le leggi lombardo franche vigenti nel regno d'Italia; L’istituto si esalterà fino alla
trasformazione del beneficio in diritto reale assimilati a una quasi proprietà grazie al carattere
della patrimonialità, tratto peculiare del feudo italiano.

Questi provvedimenti fatti dai sovrani furono utili per frazionare i feudi e così anche il potere dei feudatari
e incoraggiare i vassalli ad una buona gestione del beneficio del feudo. Questi interventi legislativi
intervengono quando già la patrimonializzazione è un evento nella prassi esistente; quando il beneficium
era un elemento ormai centrale del feudo. Ecco che intervengono questi interventi legislativi che
sanciscono una situazione già presente nella prassi e in qualche modo i sovrani cercano di frazionare tra
più eredi anche i feudi perché la forza centrifuga del feudalesimo era molto forte: l’omaggio ligio ci fa
vedere come nella gerarchia degli omaggi quello nei confronti del sovrano non era certamente l’omaggio
ligio cioè il primo. Vediamo come vi era una forza centrifuga notevole e un potere sempre maggiore
acquisito da questi grandi signori feudali. Quindi rendendo ereditari i feudi (sia maggiori che minori) si
frazionava un po’ anche il potere di questi feudatari.

Poi col tempo si vanno affermando per vi CONSUETUDINARIA due modi di successione del feudo:
- Mos Francorum secondo il costume dei Franchi secondo il quale il feudo andava in ereditarietà
soltanto al primogenito, mentre agli altri figli veniva dato un assegno vitalizio;
- Mos Longombardorum secondo il quale il feudo veniva diviso in parti uguali ai figli.

In Sicilia, in particolare, venne adottato il mos Francorum, il feudo andava in ereditarietà al primogenito
ma agli altri figli veniva dato un assegno vitalizio; per le figlie femmine, invece, la c.d. dote di paraggio,
cioè il conferimento alla nubile di quei beni (una somma di denaro o beni immobili) che le consentissero
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di contrarre un matrimonio di pari livello sociale (quindi l’attribuzione della dote in realtà alla figlia) e
quindi di ambire ad un matrimonio conveniente.
I metodi di successione, i quali si andarono diffondendo per via consuetudinaria, potevano essere mos
Francorum (il feudo veniva attribuito al primogenito) o mos Longobardorum (il feudo veniva attribuito in
parti uguali ai figli).
Vediamo come, in realtà, l’ereditarietà dei feudi viene stabilità da due fonti legislative, il capitolare di
Quierzy e l’Editto de beneficiis, ma nei fatti viene sancito una realtà già presente nella prassi cioè la
patrimonializzazione del feudo che è un aspetto che già dal IX secolo era presente.
Per patrimonializzazione del feudo si intende quando l’elemento patrimoniale - il beneficium - diventa
centrale. E tutto il resto del mondo feudale di cui abbiamo parlato e che sarà l’asse portante istituzionale,
territoriale, sociale sarà costruito sulle consuetudini.

IL CONTRATTO FEUDALE
Entrando, adesso, nell’aspetto del CONTRATTO FEUDALE e le varie ascendenze del mondo feudale, noi
abbiamo visto che degli elementi romanistici nella costruzione di questo mondo ci sono così come degli
elementi germanici.

Per quanto riguarda il vassallaggio, i rapporti di fedeltà erano già presenti nel mondo romano con la fides,
ma è proprio di stampo germanico e così anche l’idea dell’investitura. Anche la simbologia è cristiana, vi è
questo rapporto osmotico tra la Chiesa e il mondo temporale. Il mondo feudale vede anche il contrasto
tra questi due mondi: da una parte la simbologia perché ad esempio la cerimonia dell’homagium viene
presa dalla Chiesa; ma anche la Chiesa, a sua volta, fa proprio il linguaggio feudale e lo inserisce nella sua
gerarchia, basta vedere l’idea stessa che la consegna della spada e del globo da parte di Leone III a Carlo
Magno, alla quale la Chiesa attribuisce un significato feudale. La Chiesa prende dal linguaggio feudale e
vede in questo una subordinazione vassallatica di Carlo Magno nei confronti del pontefice. Ma dall’altra
vediamo anche come la Chiesa inserisce nella sua organizzazione il clero e si organizza su base feudale.
Così noi vediamo, come nei fatti, i vescovi pretendono l’omaggio da parte dei loro abbati e chierici,
pretendono un giuramento vassallatico, i vescovi sono signori feudali. Con gli Ottoni diventano davvero
dei vescovi-conti, dei vescovi che sono veri e propri funzionari statali che hanno un beneficium feudale,
quindi hanno un feudo. Anche la Chiesa fa propria l’idea stessa del linguaggio feudale.

L’unione di queste ascendenze - quella romana, quella germanica, quella della Chiesa/canonica - fa sì che
sorgano cose nuove, istituzioni nuove che partono da quelle origini, da quelle ascendenze ma, poi, si crea
qualcosa di nuovo. Non dobbiamo sottovalutare mai l’aspetto creativo del medioevo perché è veramente
un aspetto importante. Qualcosa di nuovo che viene a crearsi è il contratto feudale il diritto feudale ha
la sua prima e originaria fonte nel contratto che viene a costituire la base dell’intero ordine sociale e
politico.
Quello feudale è un contratto di natura singolare perché ha al contempo carattere convenzionale e
istituzionale, cioè nasce insieme ad una concessione fondiaria e dà vita, anche, ad uno status con
elementi pubblicistici. Secondo uno storico contemporaneo, Lastuti, questo contratto unisce elementi di
diversa provenienza (tipo la commendazione romana, il vassallaggio germanico) configurandosi come un
contratto particolare, in cui c’è la concessione fondiaria, e qui si è ricercata l’ascendente di tale contratto
nel precarium romano ma mentre quet’ultimo non era un contratto a vita e non pretendeva un
corrispettivo, il contratto feudale è a vita ed è sinallagmatico a prestazioni corrispettive (abbiamo due
prestazioni, da una parte il beneficium del signore e dall’altra il servizio militare).
Nasce un contratto realmente nuovo rispetto al precarium romano che fa nascere sia una concezione
territoriale ma anche qualcos’altro che anche carattere istituzionale in quanto dà vita ad uno status che
ha elementi pubblicistici: grazie a questa attribuzione territoriale nasce anche lo status del vassallo il
quale in quel feudo esercita potestà di stampo pubblicistico (può imporre tributi, dare giustizia) quindi
veramente nasce qualcosa di diverso. È un contratto a carattere realmente complesso, che ha sia un
carattere convenzionale che istituzionale. Nonostante ci siano delle ascendenze romanistiche,
germaniche, in realtà nasce qualcosa di nuovo mostrandoci l’aspetto creativo del medioevo.
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In questo Alto Medioevo vediamo che per via consuetudinaria quasi per la volgarizzazione di contratti di
matrice romana, ma anche l’incontro della prassi col vassallaggio di origine germanica dà vita a qualcosa
di diverso.

Altro aspetto fondamentale è che nasce qualcosa anche all’interno dei diritti reali perché, come direbbe
Paolo Grossi quando parla delle situazioni possessorie del medioevo, si dà luogo alla frantumazione
dell’idea di dominium tipicamente romana, monolitica.
Nel mondo romano abbiamo il proprietario che ha questo diritto che è il dominium che è un diritto che è
ben distinto dal possesso, c’è distinzione tra la proprietà e gli altri diritti reali.

Nel feudo non è più così perché abbiamo un signore che è il titolare del bene, ma c’è un altro, il vassallo,
esercita diritti su quel bene, diritti che solitamente sono del proprietario.

Dopo la rinascita del diritto romano, da Bologna in poi si studieranno queste matrimi di questo feudo e si
vedrà che in realtà nel feudo si può parlare di un dominio diviso: non più del dominio monolitico del
mondo romano ma di un dominio diviso. Da una parte abbiamo il signore feudale in testa al quale
abbiamo il dominio diretto cioè l’aspetto formale, quindi è proprietario formale del bene, del feudo.
Dall’altra abbiamo il dominio utile cioè di un soggetto che in realtà gode del bene ed esercita diritti sul
bene.
Questa biforcazione a noi fa pensare all’odierna idea di diritto reale su cosa altrui, ma anche qui
comunque non appartiene a delle categorie effettivamente conosciute nel mondo romano, perché pur
partendo da un contratto che ha delle ascendenze col mondo romano sotto vari aspetti (come la
creazione di questo vincolo di subordinazione) in realtà dà origine a qualcosa che è profondamente
medievale.
Come dice Calasso, il feudo è una dimensione profondamente medievale e questa idea dà origine a
qualcosa di nuovo. Come dice Paolo Grossi dà origine alle situazioni possessorie. Non più il dominium
romano, ma le situazioni possessorie: cioè più soggetti che possono essere esercitare dei diritti proprietari
sul medesimo bene, cose che per il mondo romano era assolutamente inconcepibile.
Qui abbiamo l’idea, che poi verrà teorizzata, di un dominio diviso: da una parte, abbiamo il dominio
diretto del signore feudale che è il proprietario formale del bene; dall’altra abbiamo il vassallo che è in
realtà è colui che gode del bene.
Da questo punto di vista nasce un DIRITTO REALE NUOVO che è difficilmente definibile e che si può
associare ad alcune categorie romanistiche come l’usufrutto ad esempio, ma è qualcosa di diverso.
Possiamo avere delle ascendenze nell’usufrutto o con altri diritti reali su cosa altrui, ma è qualcosa di
diverso e di tipicamente medievale che nasce da un contratto complesso che ha un carattere
convenzionale e istituzionale. Vi è una attribuzione territoriale, una convenzione nella quale ci sono
prestazioni sinallagmatiche (signore che attribuisce il beneficium e vassallo che dà servizio militare), ma
sotto l’aspetto istituzionale nasce anche uno status nuovo, in un soggetto che da questo contratto origina
delle potestà di stampo pubblicistico. Vedete come il feudalesimo è profondamente medievale.

Spero che abbiate capito come si fondano molti degli elementi di indistinzione tra diritto privato e diritto
pubblico cioè elementi importanti che si fondano nel feudo, in quella struttura che è un’invenzione
tipicamente medievale che abbiamo identificato rileggendo la definizione della Fasoli alla luce di quello
che abbiamo detto, facendo un po’ di chiarezza: il feudalesimo è l’assetto sociale e politico dei paesi
dell’Europa occidentale tra l’VIII e XI secolo, basato sul rapporto personale del re con i suoi vassalli che gli
giurano fedeltà e ai quali egli promette la sua protezione e concede in godimento i feudi con l’obbligo di
accorrere presso il sovrano per consiglio e servizio militare.

Riepilogo: Adesso, alla luce di quello che abbiamo detto, vediamo come la Fasoli dipinge il feudo maturo,
il feudo classico dall’VIII secolo in poi. Non l’abbiamo visto però che c’è un feudo prima, già dal V secolo in
cui vi erano due prestazioni non ben qualificate fra due soggetti e che avevano carattere generico e
abbiamo visto come tali prestazioni vengono ad identificarsi nel servizio militare per il vassallo e
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nell’attribuzione del beneficium da parte del signore; quindi vengono a chiarirsi le prestazioni. E poi, da
questo momento maturo del feudo classico, a poco a poco, inizierà il percorso di patrimonializzazione del
feudo,ovvero porre l’aspetto patrimoniale, tra i tre elementi del feudo (elemento
personalevassallaggio, elemento patrimoniale beneficium; elemento politicoimmunità), al centro
del rapporto.
Mentre prima l’elemento centrale era l’elemento personale, che era l’elemento esclusivo; dall’VIII secolo
in poi abbiamo questi tre elementi ma prima l’elemento centrale, fondamentale era quello del
vassallaggio cioè la fides questo rapporto di subordinazione di un soggetto nei confronti di un altro con
due prestazioni non meglio identificate. Poi dall’VIII secolo in poi abbiamo la chiarificazione di questi tre
elementi: quando si chiariscono le prestazioni abbiamo anche i tre elementi del feudo. L’elemento
personale che è il vassallaggio, elemento originario cioè il legame di fides tra due soggetti, ha origini
romane e poi viene visto anche nei Merovingi dal V-VI secolo in poi.
Si affianca a questo l’elemento patrimoniale, l’attribuzione patrimoniale del beneficium del feudo. E poi
l’elemento politico che è l’immunità cioè la potestà del vassallo, che ormai è diventato signore feudale, di
esercitare delle potestà di stampo pubblicistico, amministrativo, giudiziario, tributario ma anche di
impedire ad altri di esercitare questo tipo di potere all’interno del suo feudo. Quindi abbiamo visto come,
una volta avvenuta la chiarificazione di questi tre elementi, a poco a poco l’elemento patrimoniale
acquista sempre più rilievo.
Quindi deve essere chiaro che dall’originario rapporto fra due soggetti, quando il beneficium (la terra, il
feudo) acquista il rilievo centrale, allora è concepibile che un soggetto presti più omaggi nei confronti di
più signori. Più vincoli di fedeltà nei confronti di più signori; ed è concepibile poi – qui la legge arriva dopo
come spesso accade nel medioevo – a sancire una situazione giù esistente e si stabilisce anche la
possibilità di ereditarietà dei feudi maggiori (con il capitolare di Quierzy) e poi anche dei feudi minori (con
l’Editto de beneficiis). Questo è il lungo percorso che noi abbiamo così tratteggiato.
Per chiudere l’aspetto legato all’Alto Medioevo andiamo avanti così la prossima volta entriamo in quello
che è l’anno 1000 la rinascita ecc. Per chiudere l’argomento alto-medievale vediamo come la
consuetudine è la base fondamentale da un punto di vista normativo dell’Alto Medioevo; abbiamo visto
come il feudo, il mondo feudale è il mondo che caratterizza questo Alto medioevo che è connesso alla
realtà economica e alla società curtense: è tutto uno stesso mondo. Nel feudo c’è un riconoscimento
formale, l’homagium; la società curtense è una realtà economica ma siamo nello stesso mondo. E questo
mondo feudale che è la cellula fondamentale dell’aspetto istituzionale, politico dell’Alto medioevo, è tutta
una creazione consuetudinaria. In tutto questo discorso noi abbiamo visto solo due leggi (il capitolare di
Quierzy e l’Editto de beneficiis), per il resto è tutto di creazione consuetudinaria.

LA FORMAZIONE DEI PRATICI DEL DIRITTO


Inoltre, abbiamo visto che i signori di questo mondo, delle creazioni consuetudinarie, della gestione del
diritto sono i PRATICI DEL DIRITTO e in particolare sono giudici e notai. I creatori di questo mondo, quelli
che fanno diventare i costumi in consuetudini, che sanciscono sotto molti aspetti questo mondo sono
loro, giudici e notai, che veramente nei fatti creano questo mondo.

Ma questi pratici come si formavano? Anche la cultura, allo sbocciare del nuovo millennio, appariva in
grande crescita. La cultura alto-medievale è una cultura che, intanto, veniva fatta nelle strutture
ecclesiastiche: nelle cattedrali (in città) o negli enti monastici, nei monasteri (nelle zone rurali). Lì veniva
impartita la cultura ed era una cultura, che all’opposto di quella odierna, si basava essenzialmente su una
portata di carattere enciclopedico. Era una cultura di carattere enciclopedico e l’uomo di cultura alto
medievale era destinatario di una cultura enciclopedica, di un sapere non specialistico ma ampio
generico. Doveva conoscere tutto il creato, e avere una visione integrale della realtà sia visibile che
invisibile, che veniva concepita quale ordine della creazione divina e come tale tutto doveva essere
appreso. Tutti i rami del sapere erano dei tasselli in questo unico disegno.
Anche qui vedete quanto c’è di teologico in questo discorso: tutta la realtà era l’aspetto del creato, la
cultura doveva spaziare in tutto ed era vista come l’enciclopedismo, una cultura di carattere
enciclopedico come il conoscere il tutto che rispecchiava l’ordine della creazione divina e i vari ambiti
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del sapere erano dei tasselli di questo ordine prestabilito, di questo unico disegno che era appunto la
creazione.

Quindi avevamo che questa concezione del sapere era espressa nel programma delle ARTI LIBERALI, così
denominate perché erano arti in cui era diviso il sapere erano arti intellettuali. Il sapere enciclopedico
alto-medievale era tutto racchiuso nelle arti liberali.
Le arti liberati hanno origine antica ma trovano nei primi secoli dell’Alto Medioevo una sistemazione con
Isidoro da Siviglia e le sue Etimologie. Queste risalgono ai primi decenni dell’VIII secolo e sono 20 libri
praticamente erano il testo in cui, per gli alto-medievali era racchiuso il sapere. Danno un ordine alle c.d.
arti liberati. Queste etimologie in 20 libri affrontavano, partendo dal significato di singole parole-chiave,
tutta la conoscenza disponibile al tempo, secondo quest’ottica enciclopedica. Quindi nei 20 libri, in cui
erano divise le Etimologie di Isidoro da Siviglia, era un testo che veramente racchiudeva per gli alto
medievali tutto il sapere. In questi 20 libri si partiva dando le definizioni, il significato di singole parole
chiave e qui era contenuto il sapere conoscibile al tempo. Isidoro da Siviglia in qualche modo riordina le
arti liberali, tutte queste branche del sapere. Le arti liberali dovettero costituire lo schema dell'istruzione
superiore nell’alto Medioevo. La caratteristica comune di queste “arti” era la loro rilevanza pratica.
Le arti liberali erano 7:
- 3 dette sermocinales termine che veniva da sermo (discorso) per indicare le discipline che
riguardavano l’organizzazione e l’esposizione del pensiero. Queste tre arti sermocinali
costituivano il Trivium ed erano: la grammatica, la retorica e la dialettica quindi quelle
riguardavano il discorso.
L'insegnamento della grammatica si svolgeva leggendo i classici latini da cui si traevano non solo le
regole di un linguaggio irreprensibile, ma anche il gusto per il bello stile nello scrivere; la dialettica
offriva gli elementi essenziali della logica aristotelica; la retorica, l’arte del persuadere, era cara
agli oratori e quindi agli avvocati, ai giuristi, e il suo insegnamento trovava il suo punto di forza nei
testi dell'oratore e avvocato principe dell'antichità, Cicerone.

- 4 dette reales termine che veniva da res (cosa) per indicare le discipline che indagavano la
realtà delle cose, la realtà del creato. Le 4 arti reales costituivano il Quadrivium: l’aritmetica, la
geometria, l’astronomia e la musica. Erano quelle legate alle scienze pure, in qualche modo legate
alla res, alle cose. Riguardavano fenomeni obiettivi, fondati sul numero e sulla quantità, e non il
funzionamento dell'intelletto. Erano discipline che indagavano la realtà delle cose, del creato
(termine che ha un richiamo sempre teologico). Insomma erano le materie “scientifiche” opposte
alle “umanistiche”.

Il DIRITTO era interno alle arti sermocinali, alla retorica e alla dialettica soprattutto, perché quest’ultima
(forse la più importante delle 3) era l’arte del ragionare, di organizzare il pensiero, di fissare i passaggi
secondo modalità argomentative valide e coerenti. Il diritto è all’interno di queste arti sermocinali.

L’insegnamento era strutturato secondo le griglie contenitrici che erano delle arti liberali, ed è attraverso
le arti sermocinali che veniva studiato il diritto, era all’interno della retorica, della dialettica. In qualche
modo si impartivano dei rudimenti, alcuni elementi generici legati alla cultura giuridica.
Le Etimologie di Isidoro da Siviglia, il testo fondamentale che veniva studiato nelle scuole in cui si
studiavano le arti liberi, dedicavano 27 paragrafi del Libro V al diritto ma i contenuti erano sviscerati
mediante la tecnica dell’indagine etimologica, del significato delle parole: venivano scelte alcune parole
del diritto e veniva dato il significato.
Si trattava di un significato spesso fantasioso, quindi non potevano costituire un bagaglio particolarmente
solido anche se era considerato in qualche modo sufficiente per gli allievi di quelle scuole. Il diritto era
concepito come un sapere profondamente radicato nella morale religiosa, con riferimenti biblici, il diritto
era un’indistinta tautologia; la consuetudine era posta sul piano medesimo della legge, quindi questa
indistinzione; la terminologia romanistica, che era pur presente, appariva sempre generica mai
circostanziata.
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Quindi da questo materiale limitato erano tratte le poche nozioni giuridiche trasmesse attraverso la
retorica, la dialettica e la grammatica.
Le scuole come gli insegnamenti erano caratterizzati dalla poca specializzazione, non esistevano scuole
dedicate prettamente, ex professo al diritto e la diffusione di questa cultura era appannaggio delle Chiese:
presso le cattedrali nelle città e presso i monasteri. Avremo delle scuole- cattedrali in citta e avremo
anche delle scuole monastiche quando la cultura era impartita nei monasteri. Il sapere quindi veniva, in
qualche modo, incanalato, racchiuso in questo prisma delle 7 arti liberi che costituivano veramente la
base del sapere di questi uomini di cultura (laico o ecclesiastico che fosse). La Chiesa restava la
depositaria per eccellenza della cultura e dei centri di formazione; solo eccezionalmente, saltuariamente
avremo l’attività di qualche scuola sempre legata alle arti liberali, all’interno di corti sovrane o di
corporazioni professionali, ma, tendenzialmente il sapere era completamente appannaggio della Chiesa.
Questo era lo stato della cultura e anche dell’insegnamento nell’Alto Medioevo.
La compilazione giustinianea era scomparsa; la base del diritto era la consuetudine; i signori del diritto
erano questi pratici che dovevano imparare elementi generici del diritto: non era tanto il diritto che
veniva insegnato in queste scuole ma era importante quello che loro sapevano della società, l’aspetto
pratico essenzialmente.

Quindi vediamo dove questi soggetti si formavano: non vi era un specializzazione, non c’erano delle
scuola dedicate al diritto, il diritto era all’interno di questo sapere enciclopedico che riguardava tutti gli
ambiti del sapere che erano racchiusi in queste 7 arti liberali, le 3 sermocinali (la grammatica, la retorica e
la dialettica) e le 4 reali (l’aritmetica, la geometria, l’astronomia e la musica). Il diritto era all’interno delle
arti sermocinali e veniva studiato nella retorica, nella dialettica e venivano impartiti dei rudimenti.

L’uomo di cultura alto-medioevale ha questa conoscenza di carattere enciclopedico, generalissimo e tutti


i saperi erano racchiusi nelle 7 arti liberali. Queste costituiscono un sapere antico perché sono precedenti
a questo periodo alto-medievale, fanno riferimento a Marziano Capella che è un autore che intorno al V
secolo crea questa favola mitologica in cui compare l’allegoria delle 7 ancelle di Apollo, intente ad
illustrare ciascuna un’arte. Questa idea di Marziano Capella è del V secolo, quindi intorno al 400 quasi
pre-medievale. Poi col tempo nell’Alto Medioevo, a dare un ordine quasi anche scolastico (destinato
all’istruzione) a queste arti liberali e a questo sapere sarà appunto Isidoro da Siviglia nelle sue Etimologie
nei primi decenni del VII secolo. Quest’opera composta da 20 libri sarà l’opera fondamentale che mette
ordine all’interno delle arti liberi e del sapere e lì si presume che sia contenuto quello che serve sapere
all’uomo di cultura alto-medievale. Essenzialmente vediamo come il diritto è contenuto in quest’opera, in
27 paragrafi del libro V (quindi neanche tanti) sotto questa indagine etimologica; vengono prese alcune
parole del diritto e ne viene spiegato il significato. Le Etimologie di Isidoro da Siviglia, spiegano il sapere
attraverso delle varie materie che trattano, attraverso delle parole chiave e spiegandone significati legati
a queste discipline. Del diritto dà queste nozioni generiche che identificano la cultura giuridica che serviva
in quel periodo. Elementi generici nel quale il diritto era spesso unito alla teologia, in cui il diritto romano
appariva sempre citato in maniera generica e mai circostanziata, in cui non si distingueva tra legge e
consuetudine. Quindi vedete come era un sapere realmente generalissimo e realmente poco tecnico,
impartito in questi centri di insegnamento delle arti fatti nelle scuole-cattedrali nelle cattedrali o le
scuole monastichemonasteri, i primi nelle città e i secondi nell’ambito rurale. Vedete come, i realtà, il
diritto così era insegnato, era spiegato e era compreso in questa cultura enciclopedica alto-medievale.
La settimana prossima entreremo nel 1000, nella rinascita del diritto. Le lezioni di cui abbiamo parlato in
questi due giorni riguarda l’argomento dell’Alto Medievo.

STAMPARE A PARTE PAGINA 29-30 PARAGRAFI 8-9-10; PAG 35 PARAGRAFI 5-7-8-9


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Storia del diritto medievale, lezione n. 7 – 21.10.2020

Adesso stiamo uscendo dall’Alto Medioevo. Abbiamo visto i centri di cultura alto medievali e come la cultura
si dipanava nell’alto medioevo, ricordandoci che era una cultura di tipo enciclopedico. L’uomo alto
medievale è di cultura, concetto all’interno del quale è ricompreso anche il diritto perché anche i pratici,
cioè giudici e notai che nell’Alto Medioevo maneggiavano il diritto, avevano bisogno di poche nozioni e sono
quelle che noi ritroviamo analizzando il testo utilizzato per l’insegnamento e per la formazione scolastica
alto medievale, ovvero le ETIMOLOGIE di Isidoro da Siviglia. In tale opera, quei pochi capitoli dedicati al
diritto davano nozioni generiche perché il diritto era poco tecnico; magari si richiamava, per quanto riguarda
i notai, a certi schemi che erano in qualche modo legati al mondo del diritto romano quindi a poco a poco
riaffiorano questi prontuari, questi schemi notarili e formulari notarili del mondo romano. E poi comunque i
pratici erano soggetti che maneggiavano la prassi, il diritto applicato, la consuetudine, quindi avevano
bisogno di poche nozioni. E la formazione era quella: i testi giustinianei erano tendenzialmente poco usati, i
Digesta specialmente scompaiono, venivano usati un po’ i primi 9 libri del Codex, un po’ le Novellae, ma
soprattutto le Istituzioni che erano un testo più semplice, adatto ad una società semplice, una società
curtense in cui le esigenze erano veramente semplici e bastava questo diritto a rispondere a queste
esigenze. Questa era la situazione nell’Alto Medioevo.

L’ANNO MILLE.
Intorno all’anno Mille qualcosa cambia. L’ANNO MILLE segna, da un punto di vista pratico, un fortissimo
incremento della curva demografica quindi aumentano le nascite, vi è una ripresa da un punto di vista
economico, una ripresa dal punto di vista degli scambi perché rinascono le grandi città, quindi rifioriscono le
fiere e i mercati. Questo è un aspetto importante. È necessario un diritto più complesso che vada incontro
alle nuove esigenze, ad esempio quelle dei mercanti. Quello dei mercanti è un ceto in ascesa dall’anno mille
in poi. Riprendono i commerci su vasta scala, i commerci riguardano anche merce giornaliera e non solo di
lusso, come avveniva nell’Alto Medioevo in cui sì, il commercio c’era ma riguardava solo beni di lusso; qui
adesso riprendono i commerci e gli scambi per tutti i tipi di beni, per i beni giornalieri. Quindi, immaginiamo
questi mercanti che diventano gradualmente grandi mercanti fino all’evoluzione, in età moderna, delle
SOCIETA’ MERCANTILI che dall’età moderna praticheranno anche rotte transoceaniche. Quindi si creano
queste grandi società di mercanti – anche se qui siamo ancora agli albori – però, chiaramente, il ceto dei
mercanti è un ceto che con la rinascita del mercato rifiorisce insieme ad esso e chiede spazio da un punto di
vista sociale e politico e chiede anche un diritto. Dunque è necessario un diritto più complesso. Così come
anche in tutti gli ambiti.
Da un punto di vista istituzionale abbiamo che, tra il 900 e il 1000, l’impero transita un po’ vero la realtà
tedesca, la dinastia Francofona, la dinastia degli Ottoni che danno una certa stabilità all’impero e cercano di
riaffermare l’unitarietà e le prerogative imperiali. Quindi, abbiamo questa istituzione che trova il suo antico
smalto dopo i secondi di disgregazione successivi alla morte di Carlo Magno; dall’815-816 in poi fino alla
metà del 900 abbiamo un momento di sgretolamento dell’istituzione imperiale perché i territori imperiali
vengono divisi tra i vari eredi. Ma con il transito dell’impero verso l’area germanica, la realtà tedesca
ritroviamo, in qualche modo, un’unità imperiale. E poi non è da sottovalutare un aspetto di CARATTERE
PRETTAMENTE PSICOLOGICO, cioè l’anno mille fa percepire alla società un pericolo scampato. Ed è
importante perché spesso noi parliamo di fenomeni che hanno lunga durata, ma l’anno mille è
un’ISTANTANEA importante perché venne diffusa la credenza, anche avallata da certi ambienti della chiesa,
che esso avrebbe portato la fine del mondo. L’idea di questa fine che non è avvenuta, l’idea di aver
scampato questo pericolo fece scaturire una serie di energie che si andarono ad innestare in quella società
in profondo cambiamento. L’aspetto psicologico è molto importante: dopo una crisi, dopo un periodo
complesso si ha sempre una ricaduta positiva e, leggendo il corso della storia, è quasi sempre così. Anche in
questo caso, scampato il pericolo dell’anno mille, si ha una forte ripresa in tutti gli ambiti: dal punto di vista
istituzionale, sociale, politico, economico. Anche l’agricoltura cambia, venendo attuata un’agricoltura di
stampo più intensivo e, quindi, migliora la produttività. Sono tutti aspetti che fotografano questa società in
profondo mutamento.
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LA SCUOLA DI PAVIA.
Sono aspetti che caratterizzeranno anche l’ambito dell’INSEGNAMENTO. Lotario definì la dottrina italiana
“estinta”, in quanto gli sembrava versare in condizioni disastrose. Non si sa se istituì una rete scolastica
nuova o se si limitò, come è più probabile, a organizzare l'afflusso degli studenti distribuendoli, a seconda
della loro provenienza, tra le sedi vescovili del Regno d'Italia: anzitutto Pavia. Nell’825, quindi prima
dell’anno mille, emana un capitolare ecclesiastico in cui vengono riorganizzati un po’ gli studi; ad esempio la
scuola di Pavia è una di queste sedi ecclesiastiche in cui vengono riorganizzati gli studi, dimostrando che
l’insegnamento era interamente affidato al clero. Vi è una sorta di riorganizzazione da un punto di vista
sociale, istituzionale, politico ed economico.
Quindi, vi è un cambiamento e sicuramente il diritto fatto di consuetudini, affidato soltanto ai pratici, quel
diritto fatto di costumi che si trasformavano in consuetudini vincolanti non è più sufficiente. Dunque, la
società a quale diritto si rivolge? Per sancire ancora una volta la diversità rispetto al nostro sistema di diritto,
noi ci saremmo rivolti alle leggi dall’alto che avrebbero riconosciuto questo cambiamento sociale e che,
quindi, avrebbero modificato in base alle esigenze delle società il sistema stesso. Ma siamo sempre nel
Medioevo, siamo nella fase di passaggio dall’Alto al Basso Medioevo, c’è stata sicuramente una ripresa
imperiale ma l’impero, comunque, è visto come profondamente lontano. Il potere politico dell’impero o
anche dei nascenti regni, perché già dal 900 in poi all’interno dell’impreso stesso si vanno radicando delle
monarchie che adesso vivono il loro momento iniziale (come la monarchia francese), si mostra
disinteressato al diritto. Questo è un discorso di continuità che facciamo dall’inizio, e lo facciamo anche in
questo passaggio importante. A chi fare riferimento, dunque?
Intorno al 1100 si andò a ripescare quello che era un diritto antico, autorevole, valido perché promanava da
un imperatore, quello dell’Impero romano d’Oriente (circa 5 secoli prima), che è il DIRITTO GIUSTINIANEO.
Si va a ripescare questo diritto che è assolutamente valido, autorevole e che, gradualmente, verrà reso
anche efficace. Ma questo avverrà nel 1100 prettamente con la SCUOLA DI BOLOGNA che, con il primo
maestro Irnerio, porterà alla rinascita e riscoperta del diritto romano giustinianeo. La storiografia da un po’
di tempo si concentra nel raccogliere quei campanellini, quelle luci che si vennero ad accendere prima di
Bologna e che non ci fanno vedere Bologna come un evento miracolistico: cioè Bologna che nasce dal nulla.
Assolutamente no perché ci sono degli eventi che ci fanno presagire quella che sarebbe stata la RINASCITA
DEL DIRITTO. Ci sono questi eventi, ci sono dei fattori culturali, legati al diritto, dai quali vediamo che ci
stiamo avvicinando a quella che sarà la grande riscoperta del diritto bolognese. Siamo in un periodo, ad
esempio, di grosso fervore teologico e la scienza teologica, la rinascita della logica, che è un ramo della
filosofia la quale è legata alla teologia, ha dei risvolti nel diritto. Dal punto di vista teologico, abbiamo delle
importanti scuole, soprattutto in Francia come la Scuola di Chartres, o la Scuola di Parigi, che sono scuole
teologiche all’interno delle quali in cui si inizia un’attività esegetica sulla Bibbia attraverso lo strumento
generale delle GLOSSE. Le glosse, di cui parleremo quando vedremo la scuola di Bologna, non è un genere
che nasce nel diritto ma troviamo varie glosse legate, soprattutto e inizialmente, alla Bibbia: le prime glosse
sono glosse fatte, appunto, nella Bibbia. L’attività esegetica è legata essenzialmente alla Bibbia. Personaggi
importanti, come Fulberto di Chartres o Lanfranco da Pavia che dall’Italia passa in Francia e altri, iniziano a
fare questa attività di glosse della Bibbia. E questo è un aspetto importante. Abbiamo delle raccolte
canoniche che contengono varie citazioni della compilazione giustinianea. Facciamo solo un esempio: il c.d.
Brachylogus iuris civilis detto anche Corpus legum (una raccolta che si presume sia nata in ambiente
ecclesiastico nel tardo XI sec. ma è una raccolta di diritto) la quale è una summa, cioè un riassunto, una
sintesi delle Istituzioni. Non abbiamo notizie certe, sappiamo solo che matura in ambito francese, in ambito
provenzale e abbiamo questa summa, che è un altro genere letterario che incontreremo quando parleremo
della Scuola di Bologna, di una parte della compilazione giustinianea, in questo caso delle Istituzioni. Quindi,
intanto c’è una rinascita dal punto di vista teologico e questo è un dato culturalmente importante che
segnala un certo fermento. Poi abbiamo, dal punto di vista dell’insegnamento, alcuni aspetti importanti.
Intanto, la scuola preirneriana di cui abbiamo certezza è la SCUOLA DI PAVIA il cui grande studioso è il
Merkel, ripreso anche da Cortese. Sulla scuola di Pavia abbiamo tanti dubbi, anche nel definirla scuola
dobbiamo capirci. Abbiamo già visto che con il CAPITOLARE OLONESE dell’825, Lotario riorganizzò le sedi
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dell’insegnamento che erano tutte sedi ecclesiastiche nella penisola italica e questo indica che
l’insegnamento era qualcosa che riguardava la chiesa. Era la chiesa che impartiva gli insegnamenti e questo
restò tale fino intorno all’anno mille; l’insegnamento era un affare degli ecclesiastici, erano loro che
insegnavano nelle sedi cattedrali delle città o nelle sedi monastiche, quindi nel tessuto rurale delle
campagne. Lotario riorganizza le sedi ecclesiastiche dell’insegnamento in cui si insegnavano arti liberali e, tra
queste, nomina Pavia. Quindi sicuramente, e di questo si è certi, a Pavia c’era una scuola di arti liberali uguali
a quelle di cui abbiamo parlato, che seguivano quello schema in cui il diritto era inserito all’interno della
retorica e della grammatica. Nel sistema del Trivio il diritto era un'appendice naturale della retorica. Accanto
alla scuola di arti si affacciò a Pavia, sin dall’inizio del XI sec, una scuola professionale di diritto longobardo-
franco rivolta alla formazione di giudici. La nascita di questa scuola va messa in relazione con il programma
di riqualificazione degli apparati giudiziari i cui segni sono ravvisabili nella progressiva scomparsa degli
scabini e nell'infittirsi di quei iudices domini regis o imperatoris o sacri palatii che costituiscono un gruppo
folto, compatto e autorevole gravitante sul palatium del sovrano. Infatti, Pavia era anche sede del palatium.
Pavia è stata una città importante, è stata la capitale del regno italico con i Longobardi, quindi quel regno
che andava dal Nord Italia fino al Ducato di Benevento; poi, continuò la sua funzione anche sotto i Franchi.
Quindi Pavia è una città importante, sede del palatium quindi sede amministrativa dove si amministrava la
giustizia. A Pavia, accanto a questa scuola di arti liberali, si venne a formare un INSEGNAMENTO, più che una
scuola, legato al diritto e legato esclusivamente ad esso, in cui il diritto acquista nuovamente i suoi connotati
di scienza autonoma. E questo è un aspetto importante. Noi cosa sappiamo di questo insegnamento
pavese? Intanto bisogna chiarirsi subito: si parla di una scuola di diritto germanico, cioè di diritto franco-
longobardo. Qui ancora non si parla in modo prevalente di diritto romano giustinianeo, ma di una scuola di
diritto germanico. E ciò si vede dalle opere di Pavia, fatte da alcune raccolte ma soprattutto da tre opere,
che contengono diritto franco-longobardo. Era un insegnamento che, nella sua prima generazione, doveva
formare i pratici cioè coloro che operavano nella prassi giurisprudenziale, nella prassi del palatium di Pavia.

LE OPERE: LIBER PAPIENSIS, LA LOMBARDA, L’EXPOSITIO E LA LEX ROMANA.


La prima opera è il LIBER PAPIENSIS, così chiamato da Merkel, il c.d. libro di Pavia e la cui formulazione risale
alla fine XI sec. Questa raccolta conteneva editti longobardi - dall’editto di Rotari fino agli editti di Astolfo,
fino alla metà del 700 - e anche capitolari franchi - contenuti soprattutto nel capitolare italicum destinato
alla penisola italica, erano capitolari che andavano da Carlo Magno fino a Enrico II, fino al 1014 -. Tutto il
materiale era organizzato secondo un semplice ordine cronologico, queste fonti normative erano messe in
ordine cronologico, dalla più antica alla più recente, prestando particolare attenzione al rito processuale.
Sempre con lo stesso intento, la Placiti in forma glossata compie un passo avanti perché dispone le formule
in ordine logico articolandole sulle ipotetiche domande dell'attore e risposte del convenuto inserite nella
trama di un astratto giudizio in una lite sul possesso di terre. Si leggono persino due citazioni romanistiche,
del Codice e dell'Epitome Iuliani.
lombarda Le stesse norme – editti longobardi e capitolari franchi – erano contenute in un’altra opera, la LOMBARDA, o

Lex Lombarda (entrata in circolazione a partire dalla metà del XII sec.), la quale vedeva la distribuzione di
questo materiale in ordine sistematico e non cronologico, cioè un ordine che sistematizzava la materia per
argomenti. Questo è un modo di rendere l’opera più aderente ai bisogni della pratica ma anche dello studio
perché una cosa è mettere semplicemente il materiale normativo in ordine cronologico, altra cosa è
ordinarlo secondo un ordine sistematico. È un qualcosa di diverso, richiede un livello di astrazione diverso
nonché un lavorio sull’opera molto diverso. Un’altra cosa da notare è che richiama anche la distribuzione
che Giustiniano fece nella suo Codex, quindi le materie sono ordinate secondo un ordine sistematico
(obbligazioni, contratti, ecc). Vi è un ordine sistematico di questo materiale normativo. Quest’opera opera
ebbe un grande successo tanto da soppiantare il Liber Papiensis, pur avendo i due libri lo stesso contenuto.
Ma a poco a poco la scuola di insegnamento pavese fa un salto di qualità grazie alla Lombarda. Il primo
approccio ai testi normativi consistette nel corredarli di formule per facilitare l'attuazione delle norme nella
pratica dei tribunali.
La terza opera, capolavoro della scuola longobardistica, è quella che segna davvero il salto di qualità della
scuola ed è L’EXPOSITIO AD LIBRUM PAPIENSEM, cioè la spiegazione del libro di Pavia. Quest’opera, databile
attorno al 1070, è un’opera di carattere esegetico cioè fatta dalla scuola per la scuola, destinata
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prioritariamente alla scuola. Tale opera è una spiegazione del Liber Papiensis, è un commento analitico e
tecnico alle leggi di Enrico I del 1019 che chiudono il Liber Papiensis, vengono spiegate le norme del Liber
Papiensis. Quindi, anche qui c’è un altro livello di astrazione rispetto alle fonti normative. La fonte
normativa, in quest’opera, viene commentata e spiegata, l’autore anonimo tenta di spiegare il Liber
Papiensis e, dunque, l’opera fa decisamente un salto di qualità perché è fatta dalla scuola per la scuola ed è,
dunque, oggetto di studio. L'expositor fa una decina di citazioni del Digesto ma non si dovrebbe
sottovalutare la sua scienza romanistica, che risulta ben impiantata sulle Istituzioni, sul Codice e sull'Epitome
Iuliani.

Tra i precoci scritti attribuiti alla scuola pavese ve n'è anche uno che riguarda i notai e la redazione degli atti
privati: è il Cartularium chiamato “longobardo”. Esso descrive un quadro aggrovigliato di leggi germaniche;
in talune formule mette in rilievo quella salica, la contrappone alla romana e ignora quella longobarda. Il
Cartolario ebbe a ogni modo una redazione italiana che circolò in tutta la penisola. Echi scolastici si odono
nell'operetta cui Ludovico Antonio Muratori diede il titolo di Quaestiones ac monita, una serie di quesiti,
con risposta, su materie disparate.

Sembra dunque rinascere l’idea di un insegnamento, di una cultura giuridica interpretativa che si richiama
l’aspetto proprio della dottrina, che si richiama più ai giuristi che ai pratici, a soggetti che speculano sul
diritto, che fanno speculazioni sul diritto, che spiegano il diritto. Quindi è proprio un salto di qualità notevole
rispetto al Liber Papiensis e alla Lombarda. Quest’opera è molto importante perché noi abbiamo parlato con
molta cautela del termine scuola riferendoci a Pavia. Abbiamo queste opere che ci testimoniano un
insegnamento legato al diritto germanico, però dall’Expositio traiamo importanti informazioni: l’expositor,
l’autore anonimo di questa opera ci parla di tre generazioni di studiosi che gravitavano attorno a Pavia, dei
loro vari orientamenti, ci parla degli antichissimi, degli antichi e dei moderni. L’opera è del 1070 circa e lui
parla della generazione più vecchia di sua conoscenza, gli antichissimi, che risale all’anno mille, circa 70 anni
prima. Quindi ci sono tre generazioni di studiosi di cui ci parla che gravitano attorno a Pavia tra il mille e il
1070, in un arco temporale di 70 anni.
Quindi la scuola è un evento che ha una sua continuità, non è legato episodicamente ad alcuni personaggi.
Le dispute fra antichissimi, antichi e moderni, di cui parla l’expositor, questo autore anonimo, nell’Expositio,
riguardano essenzialmente il diritto romano e il suo ruolo: gli antichissimi lo conosceva poco, gli antichi
iniziavano a conoscerlo e i moderni cominciarono nuovamente ad applicarlo. E dà una definizione molto
importante del diritto romano, cioè dice che la legge romana è lex generalis omnium, cioè LEGGE GENERALE
DI TUTTI. Qui, in chiave teorica, ritorna il diritto romano, un diritto romano che è visto a Pavia come un
diritto a carattere suppletivo cioè era un diritto che colmava le lacune del diritto franco-longobardo.
All’interno di quest’opera troviamo anche alcune citazioni della compilazione giustinianea. Che la legge
romana fosse sussidiaria e generalis omniun era opinione corrente anzi l’expositor insegna che addirittura il
primo legislatore longobardo (Rotari) aveva evitato di perdere tempo in definizioni e precisazioni sulle
proprie norme proprio perché presupponeva il rinvio al diritto romano. In realtà questa nuova scienza
pavese non inventava il concetto di diritto comune, aveva il merito di restituire lucentezza al marchio di
“generale” del diritto romano.
Ma ancora più che per questo, l’Expositio è importante perché ci parla dell’insegnamento del diritto a Pavia,
di questa scuola dedicata ex professo al diritto, cioè il diritto riacquista il rango di scienza autonoma.
Possiamo parlare di scuola perché vi sono tre generazioni e quindi è un evento continuativo. Se non
leggessimo l’Expositio, le informazioni che questo autore anonimo ci dà in quest’opera, sapremmo soltanto
che avremmo solo questi tre volumi: il Liber Papiensis, la Lombarda e l’Expositio, poco altro. Ma
addentrandoci nello studio dell’Expositio, si può parlare effettivamente di una scuola perché comunque vi è
un arco cronologico di circa 70 anni in cui l’autore parla di tre generazioni di studiosi, la più vecchia delle
quali risale a circa 70 anni prima dell’opera, un evento continuativo della scuola. È una scuola sempre di
diritto franco-longobardo, una scuola preirneriana, prima di Irnerio, prima di Bologna. Pavia è una di quelle
lucette che poi ci avvicina alla scuola di Bologna, è uno di quei sintomi culturali dell’insegnamento.
Quindi, abbiamo questa scuola di diritto franco-longobardo, possiamo chiamarla scuola perché ha una sua
continuità, dove è importante il RUOLO RICONOSCIUTO AL DIRITTO ROMANO: il diritto romano, la legge
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romana, è vista come lex generalis omnium (legge generale di tutti); la legge romana ha una funzione
sussidiaria, in funzione della comprensione e integrazione del diritto franco-longobardo. Un’intuizione
precoce di quella che sarà la missione storica del diritto romano e di quella che sarà la scuola di Bologna e di
quello che poi sarà il diritto comune che coinvolgerà tutta l’Europa. Qui abbiamo una precoce idea del diritto
romano, visto in termini scolastici come legge generale di tutti a carattere sussidiario, va a spiegare il diritto
franco-longobardo e ne colma le lacune. E questo è un aspetto molto importante, Pavia è molto importante
da questo punto di vista.

Sul fatto che Pavia fosse l’unica scuola preirneriana c’è qualche dubbio, brancoliamo nel buio. Di certo c’è
Pavia; poi, un certo Odofredo, un giurista duecentesco che ricostruisce la memoria storica di questo
periodo, del periodo pre-bolognese e del primo secolo bolognese, favoleggia su una scuola di Ravenna, dove
sarebbero stati portati i libri giustinianei per le guerre che si erano tenute nelle Marche, e addirittura di una
scuola di Roma: su quest’ultima si deve notare l’aspetto simbolico, cioè una scuola di Roma nella quale
vennero portati e rinacquero i libri della compilazione giustinianea. Nei fatti, ad oggi, non vi è traccia di
queste scuole, non sono scuole vere, non sono scuole certamente esistite. Di sicuro c’è Pavia, con tutti i
dubbi di cui abbiamo parlato. A Pavia abbiamo questi tre testi e abbiamo una continuità di insegnamento.
Dobbiamo, però, stare attenti perché si parla comunque di una scuola di diritto franco-longobardo in cui ci
viene detto dall’autore anonimo dell’Expositio che molte delle dispute tra le varie generazioni di insegnanti,
di coloro che gravitavano attorno a questa scuola, riguardavano il diritto romano e vi era il riconoscimento
del diritto romano come legge generale di tutti a carattere suppletivo. Che poi vi fossero anche altre scuole
non abbiamo certezza: circa Ravenna e Roma poi le informazioni si sono rivelate inesatte. Però certamente
anche a livello di insegnamento, gradualmente, il diritto a Pavia viene studiato come scienza autonoma e
questo è un merito innegabile della scuola di Pavia; quindi, accanto alla famosa scuola di arti liberali, perché
Pavia era una scuola di arti liberali, vi era anche questo studio autonomo del diritto. E poi, sempre all’interno
di una scuola di diritto germanico perché le opere questo ci dicono, le opere questo contengono: anche
l’Expositio è un commento, una spiegazione del Liber Papiensis quindi normativa di editti longobardi e
capitolari franchi, vediamo un percorso che dal Liber Papiensis che mette le fonti normative in ordine
cronologico, abbiamo la Lombarda che sistema le stesse fonti normative in chiave sistematica, quindi per
argomento secondo una divisione in titoli e capitoli che un po’ richiama la sistematica formale della
compilazione giustinianea; un passaggio decisamente in avanti si fa con l’Expositio che è un testo diverso. È
un’opera che può avere anche la sua destinazione pratica, non dimentichiamoci che in quella scuola si
formavano pur sempre i pratici ovvero i soggetti che operavano nella prassi. Ma con tale opera c’è un salto
in alto, c’è un’evoluzione interna alla scuola perché è un’opera di CARATTERE TEORICO, esegetico fatta dalla
scuola per la scuola, è un commento del Liber Papiensis. È ancora di più un’operazione interpretativa della
fonte normativa, è qualcosa di ancora più diverso. L’Expositio un’opera realmente importante che ha tanto
successo e che ci racconta delle tre generazioni, dunque della continuità della scuola di Pavia, continuità di
cui si può parlare proprio grazie a quest’opera, e anche del diritto romano come lex generalis omnium.

IL PLACITO DI MARTURI.
Ci stiamo avvicinando a Bologna, ci stiamo avvicinando a questa rinascita del diritto romano giustinianeo, a
questo grande evento che è il RINASCIMENTO GIURIDICO. Abbiamo visto una rinascita dopo l’anno mille da
un punto di vista sociale, da un punto di vista teologico e delle scuole perché abbiamo analizzato
l’insegnamento pavese e, poi, abbiamo visto come va riemergendo quel diritto romano di cui le tracce non si
erano mai veramente perse. In chiave di insegnamento un po’ scompare il diritto romano giustinianeo, non
viene applicato alla società semplice; però diciamo che è sottostante, c’era sempre quel diritto romano
giustinianeo, anche in termini di prassi. E questo va riemergendo, riemerge nella scuola di Pavia grazie a
questa visione del diritto romano come legge generale di tutti.
Da un punto di vista della prassi applicata, ad esempio negli atti notarili, in questo periodo di cui stiamo
parlando dell’anno mille, ci sono studi recenti di Giovanna Nicolai la quale analizza la figura di un notaio, un
certo Petrus, che nella zona di Arezzo usa abbondantemente, in una quindicina di suoi rogati, citazioni del
Codice e delle istituzioni di Giustiniano. Quindi questo Petrus è un professionista che, si presume,
conoscesse il diritto romano giustinianeo perché citava abbondantemente nei suoi formulari la compilazione
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e per farlo doveva conoscerla bene. La Nicolai fa una ricerca molto approfondita di questi notai preirneriani,
facendone oggetto di un libro del ’91, che segnala un filone di ricerca tuttora attuale: lei parla della cultura e
della prassi dei notai preirneriani. Ci fa vedere come questo notaio Petrus usava profondamente la
compilazione e, dunque, doveva conoscerla bene perché, in circa 15 rogati, sono presenti delle formule che
richiamano profondamente il diritto romano giustinianeo.
Ma il ritorno più luminoso nella prassi giurisprudenziale e nella prassi del diritto vivo, riguarda non solo
l’obbligazione ma quella parte della compilazione giustinianea che nel Medioevo è stata più trascurata e che
non veniva più studiata: i DIGESTA. Essi ritornano per risolvere una controversia nel PLACITO DI MARTURI,
un processo importante avvenuto intorno al 1076 a Marturi (odierna Poggibonsi, in Toscana), all’interno dei
possedimenti dei Canossa dove vi fu una controversia. Abbiamo un tribunale feudale in cui vi è un giudice,
Nardilo, un messo alle dipendenze dei Canossa. E abbiamo le rivendicazioni del monastero di San Michele a
cui erano stati donati, 80 anni prima, dal marchese Ugo di Toscana dei beni che poi erano stati usurpati dal
marchese Bonifacio, vassallo dei Canossa, che amava spogliare chiese e conventi a vantaggio proprio e dei
propri vassalli. Invano il monastero aveva sollecitato la restituzione. Marchesi e duchi avevano sempre fatto,
per così dire, “orecchie da mercante” e, intanto, era scattata la prescrizione quarantennale e colui che era il
possessore, il toscano Sigizone, si riteneva al riparo da qualsiasi azione di rivendica. Ma ecco che,
finalmente, rimasta reggente la vedova Beatrice di Canossa, madre di Matilde di Canossa, meno intollerante
rispetto alle rivendicazioni ecclesiastiche, sapendola più propensa a favorire i conventi, il monastero ritenta
la sorte nel marzo del 1076. Dopo tanti anni che aveva provato e non trovando mai un giudice disposto a
giudicare la controversia, il monastero ritenta nel 1076 con il Placito di Marturi. La Corte, presieduta dal
giudice Nardilo, con grande abilità aggira l’ostacolo della prescrizione, invocando un testo inconsueto dei
Digesta, un passo di Ulpiano che riportava l’editto pretorio in cui si nominava l’istituto della restitutio in
integrum, quindi il ripristino della situazione giuridica precedente al sopruso in oggetto, previsto per i
MINORENNI ma anche per i maggiorenni in due casi:
- Assenza prolungata nell’esercizio di un ufficio pubblico;
- Mancanza dei giudici a cui ricorrere, ed è questo il caso che ci interessa cioè la denegata giustizia che
il monastero aveva patito proprio in questa fattispecie.

In questo modo si supera la prescrizione quarantennale. Nardilo fa ricorso a questo passo di Ulpiano, che
non è tra i più famosi, mostrando la sua conoscenza della compilazione giustinianea. Questo passo è
richiamato anche curiosamente dal Brachylogus iuris civilis. Non è tutto casuale, ma c’è un reticolo di
conoscenze legate a certi passi della compilazione giustinianea. Non pare un caso che tra i frammenti citati
nel Brachylogus, vi fosse questo passo di Ulpiano che non è neanche tra i più famosi, che viene citato anche
da questo giudice Nardilo. Non pare casuale, ma veramente è sintomo della riemersione della compilazione
giustinianea in alcuni pezzi che poi diventarono famosi; questi pezzi andarono girando, alcuni frammenti
magari venivano citati e utilizzati nei tribunali. Per questo è una RINASCITA della compilazione giustinianea
nella prassi che è molto rilevante. Il fatto che questo passo sia citato anche nel Bracylogus, summa francese
delle Istituzioni dove però ci sono anche pezzi dei Digesta, non pare casuale ma sembra crearsi un reticolato
di questa rinascente cultura legata al diritto romano giustinianeo.

PEPO.
E in questo Placido di Marturi in cui torna trionfale la compilazione di Giustiniano, risolvendo una
controversia, in questo passo viene citato anche un certo Pepo che viene identificato come legis doctor
(qualifica che designerà i professori di diritto romano) che siede accanto al giudice Nardilo fra i consulenti
del tribunale feudale. Per la storiografia giuridica, Pepo diventa veramente il simbolo di questa cultura
preirneriana. Pepo lo troviamo a Marturi, accanto al giudice Nardilo, e viene visto come conoscitore del
diritto romano giustinianeo tanto che Odofredo, che è quel giurista duecentesco che è la memoria storica di
questo periodo preirneriano e del primo periodo della scuola di Bologna benché giurista successivo, dice che
Pepo insegnò il diritto romano giustinianeo a Bologna ancora prima di Irnerio; però aggiunge che, nei fatti,
non era un personaggio di grande cultura però fu il primo ad insegnare a Bologna. Odofrendo ci narra della
scarsa statura di questo Pepo, ce ne parla come di un bolognese che insegnava a Bologna ma non abbiamo
la certezza che sia lo stesso di Marturi.
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Però sempre questo Pepo ricompare, citato in un manoscritto di una summa al Codex del 1200, un’operetta
di scarso rilievo di ambiente francese, come un soggetto che insegnò diritto a Bologna e che fu lui a spiegare
il contratto di mutuo. Il manoscritto dice, appunto, che Pepo spiegò il mutuo come “quello che è mio diviene
tuo”, spiegandolo dunque con parole molto semplici.
Di questo Pepo bolognese ci parla anche Rodolfo il Nero, un teologo normanno, il quale afferma che Pepo in
un processo importante, in cui era presente anche l’imperatore Enrico IV, sostenne la pena di morte nel
caso del reato di uccisione del servo (tale pena era prevista nel diritto romano giustinianeo) in luogo, invece,
della composizione pecuniaria che era prevista nel diritto germanico. Gli argomenti esposti dal Pepo furono
due: a) il diritto naturale non consente di fare distinzioni tra servi e liberi, quindi non si possono applicare
pene differenti a seconda dello status personale delle vittime; b) la legge di natura prevede che chiunque
uccida venga “ugualmente” ucciso. Ma quel che s'intravvede è che Pepo pensava alla legge di natura. L'idea
che il diritto naturale dovesse prevalere su quello civile era esclusiva della Chiesa: per lei, essendo la natura
Dio stesso, il diritto naturale s'identificava con il divino a cui nessuna legge umana avrebbe potuto derogare.
L'obiettivo che Pepo si proponeva, ossia il suo attacco al diritto germanico e alle composizioni pecuniarie, del
resto era perfettamente conforme alla politica della Chiesa di quei tempi.

Un vescovo Gualfredo di Siena avrebbe scritto, più o meno intorno al 1090, negli anni infuocati dello scisma,
il racconto in versi di un immaginario convegno tenuto per discutere di papa e antipapa. Avrebbero
partecipato vescovi e maestri e personalità di spicco; i versi originali non ci sono pervenuti, ce li hanno
tramandati le Historiae Senenses di Sigismondo Ticci (però non molto affidabile, probabilmente fu lui a
definire quel Pepo “luce dei bolognesi” e mettere una nota a margine definendolo vescovo di Bologna). In
città, alla fine dell’XI sec, di vescovi ve n'erano due. Uno si chiamava Sigifredo e obbediva al papa Urbano II,
l'altro era scismatico, fedele sia all'antipapa Clemente III sia a Enrico IV. Ora, questo vescovo scismatico si
chiamava Pietro, aveva come diminutivo di marca germanica Pepo, e porta alle conseguenze estreme il
connubio tra legge divina e umana che nella prassi religiosissima dell’XI secolo significava subordinare
l'umana alla divina.

Questo Pepo bolognese che si pensa fosse un personaggio legato agli ambienti ecclesiastici, che infarcisse i
suoi ragionamenti di diritto romano con la visione morale, religiosa e teologica, è un personaggio che si
conosceva; viene citato varie volte come personaggio che, alla fine dell’XI sec. e inizio del XII, era un esperto
di diritto romano. Cortese dubita sul fatto che il Pepo di Marturi sia lo stesso Pepo che vediamo a Bologna,
conoscitore del diritto romano giustinianeo. Il primo, sicuramente, fu insegnante di diritto, il legis doctor
(epiteto che gli venne attribuito durante il Placito di Marturi), visto come Pepo legis doctor; da qui il legame
con Bologna e il legame con questo Pepo bolognese di cui ci parla Odofredo secondo il quale insegnò a
Bologna ed era un personaggio di scarso rilievo da un punto di vista di cultura giuridica. Però di questo Pepo
se ne parla in questa summa al Codice di ambito provenzale, viene citato da Rodolfo il Nero in un processo
in cui era presente addirittura l’imperatore Enrico IV all’inizio dell’1100 in cui Pepo escogita una soluzione
propria del diritto romano, richiamando la pena di morte per l’uccisione del servo. Che il Pepo di Marturi
fosse lo stesso Pepo bolognese, che ritroviamo in tutti questi processi, fa sorgere qualche dubbio. Però
veramente Pepo, nella storiografia giuridica, ha incarnato la categoria dei professionisti in cui possiamo far
entrare il giudice Nardilo, i giudici-giuristi che composero le opere di Pavia, il notaio Petrus, lo stesso Pepo
che era esperto di prassi conoscitore del diritto romano giustinianeo; una serie di professionisti del diritto
che gravitavano tra Toscana, Lombardia, Emilia-Romagna. In questi ambiti territoriali vediamo come vi sono
questi professionisti che conoscevano e iniziavano di nuovo a padroneggiare il diritto romano, in un sistema
nel quale il diritto germanico è ancora utilizzatissimo. Ad esempio, il c.d. Pracito di Garfagnolo del 1098 nel
quale vi è una discussione su un’attribuzione territoriale sempre tra un monastero e dei vassalli dei signori
feudali e qui si fa ricorso non già al diritto romano ma al classico duello, istituto classico del diritto germanico
per risolvere una controversia. C’è ancora dunque questo diritto germanico che è un diritto che ha un suo
rilievo centrale. La stessa scuola di Pavia è una scuola di diritto germanico però qualcosa sta comunque
profondamente mutando.
Vediamo come Bologna non nasce per miracolo. Secondo molti, Bologna nasce lì casualmente perché è
veramente il luogo in cui risiede Irnerio, il suo primo maestro. Però, non è causale neanche il luogo
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geografico perché tutti questi professionisti di cui stiamo parlando (il notaio Petrus di Arezzo, il Placito di
Marturi in Toscana, questo Pepo bolognese) fanno parte di quest’area padana e avevano ripreso a
maneggiare il diritto romano giustinianeo.
LA RINASCITA DELL’ANNO MILLE

RICAPITOLANDO: se ci dovesse essere chiesta la rinascita dell’anno mille, dobbiamo rispondere con tutti
questi dati. Dobbiamo comunque premettere che il punto di arrivo è la rinascita del diritto romano
giustinianeo. Però dobbiamo parlare di questa scuola di Bologna non come evento miracolistico che nasce
dal nulla. Intorno all’anno mille qualcosa cambia, tra l’Alto e il Basso Medioevo. E questo è legato, da un
punto di vista fattuale, a delle innovazioni dal punto di vista sociale, economico, demografico, istituzionale.
Ed è necessario un diritto diverso, arrivando al diritto romano giustinianeo, un diritto più complesso rispetto
alla consuetudine di stampo alto medievale. Però per arrivare al diritto romano giustinianeo, per arrivare a
Bologna abbiamo delle tappe:
- La RINASCITA TEOLOGICA: è un aspetto importante. Siamo nel periodo della RIFORMA GREGORIANA,
in cui vi è una profonda rinascita anche nella chiesa, nelle opere ecclesiastiche e una battaglia
profonda tra Chiesa e Impero. Qui siamo in un momento in cui, intorno all’anno mille e poco dopo, si
diffonde questa cultura gregoriana, questa battaglia profonda tra Chiesa e Impero nella quale sia
l’una che l’altra saccheggiano le biblioteche per trovare fonti romane che legittimino le loro pretese.
C’è questo ritorno al diritto romano giustinianeo che, paradossalmente, serve a legittimare le pretese
imperiali e quelle ecclesiastiche. Anche in Francia, abbiamo una rinascita della logica e della filosofia
con la Scuola di Parigi, la scuola di Chartres e la scuola di Orleans che sarà in concorrenza con quella
di Chartres. È in questo periodo che nascono le glosse ordinarie alla Bibbia. La Bibbia viene glossata.
Poi abbiamo varie opere canoniche che citano il diritto romano giustinianeo; abbiamo anche opere di
diritto civile che nascono in ambienti ecclesiastici come il Brachylogus che è una summa, una sintesi
delle Istituzioni. La rinascita teologica è emblematica di questo risveglio culturale;
- LA TAPPA DI PAVIA, DAL PUNTO DI VISTA DELL’INSEGNAMENTO: Pavia è una scuola di diritto
germanico. Sicuramente a Pavia, che era capitale del regno italico sotto i Longobardi e i Franchi, vi
era una scuola di arti liberali di notevole successo, in una sede vescovile perché la cultura era un
qualcosa che riguardava la chiesa (l’insegnamento era appannaggio degli ecclesiastici). Accanto a
questa scuola, intorno alla seconda metà dell’800 inizi del 900, almeno fino al 1070, si va
sviluppando una scuola che si occupa ex professo del diritto che riacquista la sua dimensione di
scienza autonoma. È una scuola di diritto franco-longobardo in cui si formano i pratici, le fonti
studiate sono fonti che riguardano il diritto franco-longobardo. Quindi è una scuola di diritto
germanico. E al suo interno abbiamo una terza opera, l’Expositio, che rappresenta un’evoluzione
della scuola in quanto è un’opera di carattere esegetico. Nel Liber Papiensis possiamo vedere gli
editti longobardi e i capitolari franchi messi in ordine cronologico, nella Lombarda lo stesso materiale
normativo è messo in ordine sistematico e poi abbiamo l’Expositio fatta dalla scuola per la scuola, in
cui vi è un commento analitico del Liber Papiensis. Ed è un’opera importante perché ricostruendo le
dispute tra le tre generazioni di studiosi (antichissimi, antichi e moderni) ci fa capire che la scuola è
un fatto non episodico ma legato a più generazioni, e quindi ha una continuità. E poi vede il diritto
romano come lex generalis omnium, legge generale di tutti, a carattere suppletivo per colmare le
lacune del diritto franco-longobardo.
- IL DIRITTO ROMANO TORNA PROTAGONISTA NEL PLACITO DI MARTURI: in tale processo torna
protagonista un passo di Ulpiano, un passo dei Digesta, ovvero l’opera che era scomparsa. Dall’inizio
del 600 non troviamo più citazioni di tale opera, ma qui lo ritroviamo. Ulpiano torna protagonista per
risolvere una controversia nella prassi giurisprudenziale. E troviamo questo Pepo, anche se adesso è
un personaggio un po’ ridimensionato, in quanto è stato accertato che il primo maestro di diritto
della scuola di Bologna fu Irnerio, è rimasto il rappresentante di questa cultura preirneriana, fine alto
medievale. Pepo, con tutti i dubbi che abbiamo, lo troviamo a Marturi e potrebbe essere la stessa
persona che troviamo citata in altre parti, ad esempio, da Odofredo come primo maestro bolognese;
oppure, in summa duecentesca di ambito provenzale, come colui che spiega il mutuo; o lo troviamo
in un processo innanzi all’imperatore Enrico IV. È lo stesso di quello di Marturi? Non lo sappiamo, ma
secondo Cortese no. Dietro un nome, ci sta questo personaggio leggendario visto a Marturi come
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legis doctor, ed è da qui che è nato l’equivoco perché legis doctor è l’appellativo che viene attribuito
da Irnerio in poi a coloro che studiano e insegnano diritto, a quelli che insegneranno diritto a
Bologna. E quindi si iniziò a pensare che allora il primo è stato Pepo e non Irnerio; ci sono tantissime
interpretazioni ed equivoci storiografici. Però Pepo rappresenta questa cultura preirneriana, fatta da
questi professionisti. Pepo era presente in un processo a Marturi, in un altro dinanzi ad Enrico IV e in
quest’ultimo venne considerato un profondo conoscitore del diritto romano perché diede una
soluzione che, più che essere legata al diritto germanico, era legata al diritto romano: la pena di
morte per l’uccisione del servo in luogo della pena pecuniaria prevista dal diritto germanico. A poco a
poco, il diritto romano sta affiorando. Lo troviamo a Marturi come consulente del giudice Nardilo che
decise, ma fu lui ad imboccarlo indicandogli quale passo di Ulpiano applicare. Quindi abbiamo questi
professionisti conoscitori del diritto romano giustinianeo come Pepo, pratici come Pepo stesso ma
anche come Nardilo, il giudice che decise comunque a Marturi, o come Petrus che emerge dalle
ricerche recenti che hanno innovato un filone di ricerca della Nicolai che ci spinge a vedere la cultura
giuridica di questi notai preirneriani, immediatamente prima della scuola di Bologna; questo Petrus
in vari suoi rogati fa profonde citazioni della compilazione giustinianea (Codex, Istituzioni e anche
qualcosa dei Digesta). Questi professionisti magari conoscevano soltanto alcune parti: non appare
casuale che il passo dei Digesta citato nel Brachylogus sia lo stesso di quello ripreso a Marturi.
Magari conoscevano solo alcuni passi, solo alcuni pezzi. Alcuni dicono che conoscessero solo i primi 4
libri dei 50 che compongono i Digesta. Magari sarà una conoscenza limitata però comunque questi
professionisti, che ne conoscessero poco o tanto, avevano ripreso ad utilizzare il diritto romano
giustinianeo in un periodo preirneriano. Per cui questo è un dato storiografico abbastanza recente,
questa idea che Bologna non sia un evento miracolistico. Tutto si appiattisce nello studio del 1100
con Bologna, perché la maggior parte degli studi si concentrano su Bologna. Quegli eventi
fortemente avvertiti dai contemporanei, erano realmente eventi importanti nella scuola di Bologna
in cui il diritto cambia profondamente. Però, ci siamo scordati di studiare quello che viene
immediatamente prima. Bisogna legare i vari avvenimenti di questo periodo, che è un periodo di
avvicinamento. Non dobbiamo appiattirci tra l’Alto Medioevo e Bologna, come due poli contrapposti:
c’è qualcosa in mezzo che porta a Bologna e l’anello di congiunzione è questo periodo, il periodo del
mille, verso Bologna fatto di Pavia, dalla rinascita teologica, da questi professionisti della Toscana,
Emilia, Lombardia che studiano, divulgano e applicano il diritto romano giustinianeo.

Stampare dal Cortese: pag. 42 (paragrafo 5), pag. 43 (paragrafo 9).


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Lezione n. 8 – 22.10.2020

LA RIFORMA GREGORIANA
Prima di Entrare a Bologna ci sono una serie di cose da enfatizzare perché è giusto che voi sappiate. C’è
un evento importante legato alla rinascita del diritto romano giustinianeo e che è vicino ed influenza il
recupero delle fonti originarie della compilazione giustinianea, che testimonia questo e che, in qualche
modo, fa vedere una sorta di passaggio da una concezione del testo giuridico ad un’altra (dalla visione
dell’utilizzatore alla visione dell’integrità del testo), che è un passaggio importante che vedremo nella
scuola di Bologna. In questo contesto un evento importante è la RIFORMA GREGORIANA Nel corso del
secolo XI si delineò un movimento di riforma della Chiesa muovendo i suoi primi passi dal monastero di
Cluny in Francia, tra le quali vi erano le tesi di monaci intransigenti quali Pier Damiani che sarà un pilastro
della riforma gregoriana. È una riforma che riguarderà la Chiesa ma non soltanto. È una riforma interna
alla Chiesa che ruota attorno alla figura di quel formidabile personaggio che fu Ildebrando di Soana, al
secolo Papa Gregorio VII. La riforma gregoriana certamente è una riforma della Chiesa ma che influenza
molto i rapporti tra Chiesa e impero: avremo veramente una profonda divisione, una controversia
importante tra la Chiesa e l’Impero; sarà qui che saranno maggiormente esposte le idee ierocratiche dei
pontefici (sotto Gregorio VII). Si tratta dell’idea che il pontefice abbia una auctoritas superiore rispetto
all’imperatore, quindi una subordinazione dell’Imperatore nei confronti del Pontefici. Questa è una idea
che nella riforma gregoriana vede chiaramente staccarsi, all’interno della gerarchia ecclesiastica, la figura
del vescovo di Roma (il pontefice); ma questa idea va immediatamente a legittimare delle pretese di
stampo temporale da parte dei pontefici.
La guerra tra Impero e Chiesa scoppiò violenta, l'abitudine dei monarchi di far eleggere pontefici (Enrico
3° 1039-1056, ne elevò 4 di seguito) e di nominare vescovi poteva esser considerata legittima dal
sovrano, ma insopportabile a una Chiesa che nell’11° sec, aveva visto esaltati il proprio prestigio e la
propria autorità.

La riforma gregoriana, fino al CONCORDATO DI WORMS DEL 1122, realmente segna questa rottura
profonda tra i pontefici e gli imperatori. Questa, da una parte, legittimerà le aspettative ierocratiche dei
pontefici, i quali cercheranno di porre un freno a quella dilagante moda di ingerenza da parte degli
imperatori nella gerarchia ecclesiastica; imperatori che, come abbiamo visto quando abbiamo parlato del
feudo, consideravano i vescovi come organici della loro gerarchia imperale, come funzionari e nasce
quella categoria dei vescovi-conti cioè vescovi che erano anche signori feudali. Quindi gli imperatori
nominavano anche i vescovi, e questo era qualcosa di inaccettabile ovviamente per le gerarchie pontificie
e dà vita a questa diatriba profondissima che si concluderà solo col Concordato di Worms nel 1122, nel
quale è stabilito che i vescovi venivano nominati secondo l’ordinamento canonico e le gerarchie
ecclesiastiche.
Questo è un patto molto importante, che è legato con quello che stiamo dicendo perché, come
accennavamo ieri, noi vediamo che, nei fatti, la riforma gregoriana vede impegnati i migliori intelletti tra
la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo come i pontefici Niccolò II, Gregorio VII; gli imperatori Enrico V ed
Enrico VI di Franconia, personaggi rilevantissimi.

Inizia, in questo momento, a diffondersi un modus operandi che è tipicamente medievale, le radici sono
qui, e questo vedremo come riguarda anche l’ottica giuridica. Un modus operandi che si basava
sull’assunto condiviso in ogni ambito del sapere medievale, e lo vedremo da qui in poi, che
l’autorità/autorevolezza dell'argomentazione utilizzata nonché la sua antichità legittimassero la tesi da
dimostrare. Quindi per dimostrare una pretesa (in ambito scientifico era una tesi, in ambito politico era
una pretesa) era necessario l’autorevolezza/l’autorità dell’argomentazione utilizzata. Era questo che era
centrale, come veniva sostenuta quella tesi e anche l'antichità. Sia l’autorevolezza che l’antichità
dell’argomentazione erano utili a legittimare una pretesa, una prerogativa. Era il ragionamento che, in
qualche modo, legittimava una pretesa.
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Questo modo di pensare che noi vedremo legato al ragionamento, all’argomentazione, che era quella
centrale nella pretesa vantata, spinse sia la fazione imperiale che la fazione ecclesiastica a saccheggiare
(come abbiamo accennato ieri) le biblioteche per trovare l'origine delle pretese in un diritto antico
autorevole che guarda caso era il DIRITTO ROMANO GIUSTINIANEO. Questi da parte sia dalla fazione
imperiale ma soprattutto da parte degli ambienti ecclesiastici: i monasteri di Montecassino, di Bobbio di
Mantova di Santa Giulia (che sono monasteri benedettini specialmente). È in queste biblioteche e in
questi monasteri che sono veramente contenuti manoscritti, la compilazione giustinianea ed è lì che si va
a cercare l'origine delle proprie ragioni, l’argomentazione delle proprie pretese e la giustificazione delle
proprie pretese sia da parte della fazione imperiale che ecclesiastica. Si va a cercare all’interno dei testi
antichi, autorevoli e nell’ambito del diritto quale testi più autorevoli se non la compilazione giustinianea?
Questo è un evento molto importante.

È un discorso che vale molto in ambito ecclesiastico giustifica il fatto che le prime citazioni, non in forma
riassunta del Codice delle Istituzioni, compaiono in collezioni canoniche. Ad esempio:
 Nella COLLECTIO CANONUM raccolta di canoni fatta dal vescovo Anselmo da Lucca intorno alla
fine dell’anno mille (nel 1086). Si tratta della collezione completa più legata all’insegnamento di
Gregorio 7°. L’opera deve comunque molto alla precedente in 74 titoli di Leone IX (che si usava
attribuire al monaco benedettino francese Umberto), dalla quale prende a prestito i due terzi del
materiale. In questa però è sottolineato in modo più acceso il primato del pontefice su tutta la
gerarchia ecclesiastica e in particolar modo sui concili; la supremazia del papa su tutti i potentati
laici e sull'imperatore stesso (della cui deposizione il papa è fatto arbitro).
Il ricorso a fonti laiche, ed in particolare alle leggi romane, è limitato ma v’è da riscontrare la
comparsa di passi tolti da due Novelle greche nella versione dell’Authenticum (raccolta sparita da
almeno 4 secoli).

 Nel DECRETUM del vescovo Burcardo da Worms in quest’opera troviamo le citazione delle
novelle soprattutto nella versione dell’Authenticum (la raccolta delle novelle dell’Authenticum e
non dell’Epitome Iuliani che invece è utilizzatissimo nell'Alto Medioevo). Erano gli anni di Enrico 2°
(1008-1012), quando Burcardo vescovo di Worms, compose la prima collezione canonica del
millennio. Nella sostanza presentò ancora l'immagine vecchia maniera della Chiesa 'imperiale' di
stampo costantiniano, ma con qualche venatura di nuovo: sorvolò infatti sul modello dei vecchi
concili che consentivano ai re d'intervenire nelle elezioni vescovili, rifiutò le pretese dei poteri
secolari di disporre liberamente dei beni delle chiese, sottolineò l'autonomia dei vescovi. Restò
una fonte molto usata fino a Graziano, chiuse un'epoca e ne aprì un'altra i cui nuovi obiettivi
erano: l'esaltazione del primato del pontefice romano, dei suoi pieni poteri sulla gerarchia
ecclesiastica e della preminenza su quella temporale, l'accentuazione della sacertà dei beni della
Chiesa, la rigorosa disciplina del clero, la conferma del celibato, la lotta contro la simonia
considerata eresia grave, la rivendicazione della giurisdizione ecclesiastica, il disegno preciso dei
sacramenti e della loro efficacia, l’accentuazione del potere repressivo della Chiesa con l’ausilio
del braccio secolare.

Queste raccolte di canoni (la quindi la Collectio Canonum di Anselmo da Lucca così anche il Decretum di
Burcardo di Worms) sono opere che sono poste al servizio della Riforma Gregoriana e che appartengono
alla seconda metà dell’XI secolo e a queste si può aggiungere anche la Collectio Britannica.

 COLLECTIO BRITANNICA che negli anni vicini al placito di Marturi (infatti è degli anni 1080-
1090) mostra una conoscenza più che buona del Digesto e abbiamo addirittura 98 citazioni
tratte dal Digesto. Sono raccolte canoniche che vengono fatte a cavallo o poco dopo rispetto alla
riforma Gregoriana, che sostengono le ragioni canoniche, la fazione papale in quella diatriba
con l’Impero e che portano avanti la della riforma Gregoriana di cui parleremo. Viene chiamata
Britannica perché si trova a Londra, ma che fu di certo composta a Roma e con tutta probabilità
durante il pontificato di Urbano 2°, attivo esponente della riforma.
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La Britannica sciorina con ordine i passi del Digesto tratti dai primi 24 libri. Viene spontaneo di
pensare, che il redattore originario della Britannica avesse innanzi agli occhi un testo o del
Digesto intero o di una sua parte. Questo contrasta con la vecchia credenza che tutte le
traduzioni testuali del Digesto circolanti in Occidente derivassero dalla nota littera
Pisana/Fiorentina, manoscritto età Giutistinianea e che qualcuno riteneva fosse la copia inviata
dall'imperatore in Italia quando estese la vigenza della propria compilazione alla penisola, un
errore d'impaginazione si riscontra sia nella Pisana, sia nell'intero percorso storico della vulgata,
la quale, ovviamente, non poteva che averlo ereditato dal manoscritto più antico.

Quindi sono raccolte che comunque portano in sé molte citazioni delle Istituzioni, del Codice, soprattutto
per quanto riguarda la Collectio Canonum e il Decretum di Burcardo di Worms, ma anche le Novelle nella
versione dell’Authenticum (che è la versione che verrà ritenuta autentica dai bolognesi, da Irnerio in poi).
Questo non è un aspetto secondario, sono tutte raccolte di cui riparleremo quando parleremo del diritto
canonico. Così anche la Collectio Britannica, collezione di raccolte canoniche anche questa però porta
addirittura 98 citazioni tratte dal Digesto e nella forma originale. Non sono più quelle forme riassuntati e
non veritiere presenti nell’Alto Medioevo c’è un distacco rispetto appunto all’alto medioevo.

Riaffiora il Digesto che era sparito per quasi un millennio, ma l’incontro con questo gran libro perduto non
avviene solo nella Collectio Britannica, ma anche nelle opere di Ivo di Chartres, il quale si presenta come
l'autore di ben tre collezioni, il Decretum, la Panormia e la Tripartita. Le collezioni paiono meno accese,
danno un posto più limitato alle Decretali di Gregorio 7° e uno spazio maggiore al vecchio Burcardo di
Worms e il diritto romano fa comparse più consistenti. Tendono a ridimensionare la figura del legato
papale che nelle precedenti sillogi appariva costruito come uno strumento troppo arrogante
dell’assolutismo pontificio.
Una delle divergenze tra le raccolte canoniche francesi e le italiane sta nell'uso diverso dei capitolari
carolingi, nelle prime sono sentite come fonti familiari e quindi richiamati, nelle seconde sono sentite
come simbolo dell’antica dipendenza dai sovrani carolingi e quindi trascurati.

È in questo momento, e Conte ne parla bene di questo aspetto, vediamo come la Chiesa a poco a poco,
con la citazione dei testi originali, si pone per la prima volta l’esigenza della GENUINITÀ DEI TESTI: di avere
dei testi non falsificati, quantomeno di verificare la paternità dei testi.
Non siamo ancora all’interno della visione del TESTO CHIUSO che vedremo a Bologna, cioè la visione che
pone al centro il testo piuttosto che l’utilizzatore. Qua abbiamo delle raccolte che citano dei frammenti
ma sono frammenti originali, vicino all’originale della compilazione giustinianea e non riassuntati: quando
si parla di frammento si prende tutta quella parte che viene citata del Codice, delle Istituzioni. Ad esempio
nella Britannica ricompare il Digesto, in particolare 98 citazioni vicini all’originale dei digesta non
riassuntate e questo è un fatto molto rilevante.
Non abbiamo ancora la volontà di ricostruzione di un testo integrale della compilazione giustinianea
come farà Irnerio, però quantomeno, dalla Riforma gregoriana in poi, nella Chiesa cambia un certo modo
di vedere il testo. Noi abbiamo visto, con il fenomeno delle falsificazioni che la Chiesa ha utilizzato anche
testi falsi per i suoi scopi e questo ha portato alla massima espansione il principio dell’ottica
dell’utilizzatore. Cioè del testo giuridico chi lo utilizzava poteva farne quello che voleva: poteva
trascriverne alcuni pezzi non originali, non integri e poteva falsificarli. Questo fa raggiungere la massima
espansione all'ottica dell’utilizzatore. Invece, adesso dalla riforma gregoriana in poi anche nella chiesa vi è
un passaggio di cercare di citare testi la cui paternità fosse riconosciuta in qualche modo, che si
avvicinasse all’originale e non nelle forme riassunte o addirittura false. Infatti queste cose ci avvicinano a
quello che stiamo per dire su Bologna.
Anche questa idea nuova che nasce all’interno della Chiesa di questa visione del testo giuridico, ci
avvicina al testo chiuso, a quella ricomposizione organica che farà Irnerio, il quale quando farà questa
ricostruzione mette insieme questo puzzle di pezzi della compilazione giustinianea per restituirla alla sua
integrità e prese anche spunto sicuramente dai frammenti contenuti in questa raccolta che gli furono utili
perché erano frammenti integrali, pezzi di raccolte integrali.
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Vediamo che la riforma gregoriana è realmente un altro tassello importante di avvicinamento a Bologna
proprio per la ricostruzione testuale, perché la riforma gregoriana è un motore per riscoprire testi
giustinianei che sono funzionali per le esigenze della fazione papale o Imperiale.
Questo è principio che sarà fondamentale nel diritto comune quindi è un aspetto importante. Passa l'idea
dell'autorevolezza dell'argomentazione per sostenere una tesi. Una tesi è giusta e legittima perché
centrale è l'argomentazione. L’autorevolezza e l’antichità dell’argomentazione.

Questa è la base qualche modo è la visione dell’interpretatio dei giuristi del diritto comune. Questa idea
dell’autorevolezza dell’argomentazione spinge anche a quelle interpretazioni che è la chiave con cui verrà
interpretata e adattata la compilazione giustinianea a tempi diversi e si farà dire alla compilazione quello
che magari la compilazione non voleva dire. Si interpreterà in maniera estensiva, perché è logico e
autorevole il discorso e in qualche modo è logica l’argomentazione. Da qui abbiamo anche la ripresa a fini
politici della compilazione giustinianea così una fazione e l’altra giustifichi le proprie argomentazioni. Si
interpreterà quel testo autorevole precedete che è la compilazione giustinianea. Anche in termini di
cambi di visione del testo giuridico, che noi vedremo con Bologna, la riforma Gregoriana e le raccolte
successive alla riforma sono un tassello importantissimo perché, in qualche modo, ci avvicinano al testo
giuridico bolognese: un testo stabile cercando di rifarsi a frammenti della compilazione originari, non
riassuntati la cui paternità fosse certa. Quindi a mettere al centro il testo e non l’utilizzatore ma non
siamo ancora la visione testo chiuso che vedremo con Irnerio ma poco ci manca.
Queste collezioni canoniche - che sono vicine alla scuola di Bologna, che sono contemporanee o di poco
successiva alla riforma gregoriana, che sono collezioni fatte in maniera strumentale per sostenere le
prerogative della riforma gregoriana (la Collectio canonum; il Decretum di Brucardo da Worm, la
collezione britannica) - sono importanti perché riportano frammenti originali non riassuntati della
compilazione: del codice, delle istruzioni ma anche dei digesta. Sono sovrapponibili al placido di Marturi,
anche la britannica, in qualche modo, è veramente vicina a Marturi e quindi conferma quello è ci siamo
detti sulla rinascita del diritto romano giustinianeo e anche la ripresa dei digesta (di cui abbiamo 98
citazioni tendenzialmente vicine all'originale nella collezione britannica).

In che periodo siamo con la riforma Gregoriana? Questa riforma si muove tra la fine dell’XI e l’inizio del XII
secolo, si muove negli ultimi anni del 1085 con la riforma gregoriana e Gregorio VII fino possiamo al 1122
col Concordato di Worms che stabilisce per la nomina delle gerarchie ecclesiastiche al diritto canonico
che è un fatto interno: la nomina dei vescovi è interna al diritto ecclesiastico, è interna alle regole del
diritto canonico e in qualche modo segna il punto per il pontefice perché da quel momento in poi
tendenzialmente viene meno quella tendenza degli imperatori di nominare dei vescovi che erano anche
dei vescovi-conti cioè dei feudatari e quindi interni alla gerarchia imperiale. Tendenzialmente siamo tra la
fine dell’XI e l’inizio del XII secolo (i primi 20-22 anni del XII) e questo è un periodo vicino, quasi
sovrapposto alla scuola di Bologna.

LA NASCITA DELLA SCUOLA DI BOLOGNA E IRNERIO


Abbiamo già visto l’importanza dell’ottica del testo e della riscoperta nei fatti della compilazione
giustinianea e il rilievo della scienza canonistica: non stiamo parlando di teologia ma di scienza canonistica
di opere e raccolte di diritto canonico che contengono citazioni importanti. Quello che a noi interessa, a
parte il numero di citazioni che contengono le costituzioni le istituzioni e anche nella britannica dei
digesta, è che sono nelle loro versioni il più vicino possibile all’originale, non sono nelle forme riassuntate
che noi vediamo nel medioevo. Dunque, rispetto alla cultura alto-medievale, vediamo come è cambiato
qualcosa. Tenente presente - perché ci servirà per quello che stiamo per dire sulla scuola di Bologna e del
metodo interpretativo della compilazione giustinianea - anche l’idea dell’autorevolezza del discorso,
dell’autorevolezza del ragionamento, cioè questa base razionale del ragionamento che diventa
fondamentale per sostenere una tesi.
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La nascita della SCUOLA DI BOLOGNA è avvolta nel mistero, tendenzialmente si parla di un insegnamento
bolognese datato fra il 1102 e il 1128 (i primi 30 anni del XII secolo).
Bologna sarà effettivamente la prima università: avrà la sua organizzazione stabile che sarà intorno
all’inizio/metà del 1200 e si organizzerà in un’università e sarà la prima università laica che l’occidente
conosca e sarà dedicata al diritto.

Anche sul suo fondatore, IRNERIO il primo maestro di diritto romano giustinianeo, sappiamo poco. I
documenti che riguardano Irnerio coprono pochi anni della sua vita. Secondo le fonti, anche recenti che
ad esempio cita Padoa Schioppa, Irnerio operò fra il tra il 1112 e il 1125 e disegnano un Irnerio
affaccendato tra arbitrati e giudizi. In alcuni manoscritti è tramandato col nome di Wernerius (cosi si firma
in qualche documento notarile) a sottolineare le ascendenze teutoniche, infatti in alcune traduzioni
appare con l’appellativo di teutonicus, di origine germanica. Di tedesco, Irnerio, ebbe probabilmente solo
delle ascendenze dato che lui stesso si definisce sempre iudex bononiensis e lo troviamo impegnato come
avvocato, come giudice in quell’aria bolognese o dell’Emilia, in vari placiti; sempre all’interno di quei
territori in cui gravitava il dominio della famiglia dei Canossa. L’ascendenza tedesca sarebbe anche
confermata dal fatto che l’imperatore Enrico V, che amava scegliere le persone di fiducia tra i
connazionali, gli avesse dato degli incarichi, lo avesse nominato egli stesso, nel 1116 giudice imperiale a
Padova in un placito e gli avesse affidato missioni politiche rilevanti. Odofredo, sostiene che sempre nel
1116 Irnerio si occupò di arte notarile e avrebbe composto il primo formulario per notai.

Sappiamo che fu maestro di arti liberali, il legame con l’insegnamento alto-medievale è presente; Padoa
Schioppa cita anche delle recenti ricerche in cui si conferma l’origine germanica di Irnerio e anche che,
forse, in gioventù fu un chierico e dunque proveniente dall’ordine ecclesiastico: quindi fu anche legato
prima di sostenere ed essere con Enrico V nelle nomine imperiale lo vediamo fare un suo esordio
nell’ambito ecclesiastico.

Inoltre, da alcuni sappiamo che fu scomunicato per aver sostenuto la nomina di Maurizio Burdino ad anti-
papa. Infatti Nel 1118 Landolfo iuniore nella sua cronaca milanese, racconta che quell'anno Enrico V spedì
Irnerio a Roma a perorare la causa di Maurizio Burdino, eletto nel marzo antipapa col nome impegnativo
e un po' provocatorio di Gregorio VIII. Le arringhe del giurista ebbero larga risonanza ma lo esposero
all'ira del papa legittimo Callisto II che, nel Concilio di Reims del novembre 1119, scomunicò Enrico V e
tutta la sua corte.
E’ possibile che la scomunica sia una delle ragioni della scomparsa del giurista dalla documentazione fino
al 1125. Egli potrebbe essersi allontanato dall'Italia al seguito dell'imperatore. Si dice che sia morto non
molto dopo il 1125, quando si ebbero le sue ultime notizie.

Irnerio lo troviamo spesso e le maggiori citazioni sono quelle che lo vedono operare all’interno dei domini
della famiglia dei Canossa. Questo lo troviamo in vari placiti ma anche testi recenti ci confermano questa
presenza di Irnerio come giudice, come avvocato in vari processi in quell’area di cui stiamo parlando
Toscana ed Emilia Romagna. Da qui il rapporto di Irnerio con Matilde di Canossa, figlia di Beatrice di
Canossa (la reggente della famiglia dei Canossa, rimasta vedova, che abbiamo incontrato ai tempi del
placito di Marturi). Matilde di Canossa ha questo legame con Irnerio che la storiografia ha molto
favoleggiato. Irnerio incontrò personalmente Matilde, quando entrambi parteciparono a un placito
tenuto nel maggio 1113 a Baviana nel Ferrarese, anche se non si può ricondurre con certezza all’incontro
di Baviana la richiesta che gli avrebbe rivolto Matilde di rinnovare i libri delle leggi, anche se è certo che
Irnerio doveva aver cominciato da un po' i suoi studi sui testi di Giustiniano. È importante il loro rapporto,
appunto per la petitio, la richiesta fatta da Matilde di Canossa ad Irnerio di renovare i testi delle leggi e
quindi rinnovare la compilazione giustinianea. Una petitio di un così illustre e potente personaggio è parsa
avere il valore di un ordine. Si leggeva che l'imperatore Enrico 5° aveva concesso a Matilde il 'governo del
regno in vece del re’. Nessuno crede più che si trattasse di un vicariato di Matilde (l’istituto del vicariato
imperiale arriverà tra un paio di sec alla luce).
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Cosa si intendeva con renovare?
Questa è una delle domande sulla quale la storiografia si è maggiormente interrogata; sul contenuto
effettivamente della petitio da Matilde di Canossa a Irnerio di renovare i libri delle leggi. L'invito a
rinnovare i libri delle leggi qualcuno preferì intenderlo come una metafora che avrebbe indicato il
rinnovamento del diritto romano.
Tra le varie interpretazioni, quella che appare più accreditata è quella secondo la quale Matilde chiede ad
Irnerio di riportare i testi giustinianei al loro antico splendore e quindi nella loro versione originale
sfrondandole da quelle versioni epitomate, riassuntate, corrotte che circolavano nell’Alto Medioevo e di
fare per quanto possibile un’edizione critica; un’edizione il più possibile vicina all’originale, andare a
recuperare i testi giustinianei originali, riportarli al loro antico splendore e fare un’edizione critica.
Questa petitio di cui tanto si favoleggia, questa richiesta di Matilde di Canossa potrebbe essere vera;
sicuramente è verosimile perché effettivamente Irnerio gravita in quell’orbita dei possedimenti dei
Canossa; è sia un pratico perché è anche un giudice e lo troviamo spesso nei placiti di quell’area
territoriale ma è anche un insegnante di arti liberali. Può essere abbastanza credibile e verosimile,
l’incontro tra Matilde di Canossa e Irnerio, e la richiesta è anch’essa verosimile perché alla fine è quello
che, poi, Irnerio fa. L’oggetto dello studio di Irnerio è la compilazione giustinianea, va a recuperare questa
compilazione e Irnerio (e poi anche i suoi allievi) a poco a poco va ritrovando la compilazione; lui studia,
ricompone la compilazione e la va spiegando e insegnando mentre apprende lui stesso e fa quest’opera di
riportare la compilazione alla sua integrità originaria, lui stesso impara, studia e spiega.

Irnerio ci viene presentato come un filologo esperto del testo giustinianeo immerso nell’atmosfera dei
grammatici di scuole di arti liberali. Il distacco da Pepo e dai suoi metodi a questo punto si allarga:
- Pepo un ecclesiastico che tratta Giustiniano forzandolo ad adeguarsi alle Scritture sacre.
- Irnerio un teorico entusiasta dei problemi testuali ancor prima di esserlo per il sistema giuridico e
per le logiche romane.

Irnerio e i suoi allievi: prima di tutto ricomporranno la compilazione giustinianea, ritroveranno vari
manoscritti dei digesta, del codex, delle novelle e innanzitutto li metteranno insieme per restituire
integrità al testo e li distribuiranno in una forma di libri legales

I libri legales sono oggetto di studio della scuola di Bologna e di Irnerio e sono quei libri sui quali, i giuristi
bolognesi a partire da Irnerio insegnando studiano anche. Imparano e riscoprono la compilazione
giustinianea.

Irnerio la risistema nella struttura dei libri legales. La compilazione giustinianea, nelle sue 4 parti, viene
ricomposta in 5 volumi scritti su pergamena:
- nel primo volume vi sarà il Codex che comprendeva i soli primi 9 libri del codice di Giustiniano;
- poi avremo Digestum vetus che comprendeva i libri del Digesto da 1-24;
- il Digestum inforitiatum che conteneva i libri dalla fine del 24-38;
- il Digestum novum che conteneva il libri dal 39-50;
- poi avremo il V volume detto appunto Volumen che conteneva - le restanti parti della
compilazione - le Istituzioni, le Novelle giustinianee suddivise in 9 collezioni nell’edizione
dell’Authenticum* (edizione reputata autentica dagli studiosi bolognesi), poi avremo anche i libri
dal X al XII del Codice. Più tardi si inseriranno in questi libri legales anche (testi di cui ancora non
abbiamo parlato) i libri feudorum e il testo della Pace di Costanza del 1183 e alcune costituzioni
imperiali dei secoli XII e XIII.

*Posto per la prima volta di fronte alla raccolta più completa delle Novelle giustinianee -
quell’Authenticum - vide una collezione disordinatissima fatta di costituzioni che trattavano
argomenti disparati e Irnerio, pensando che non fosse autentico, rifiutò d'inserirlo tra i Libri
legales; ma siccome sapeva che il problema dell'autenticità del testo non coincideva con
quello della validità delle Novelle, applicate nella forma dell'Epitome Iuliani, non ne volle
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privare il suo codice e tolse brevi estratti delle Novelle dall'Authenticum per sistemarli in calce
alle costituzioni del codice. Si chiamarono AUTHENTICAE, e curò che avessero l'aspetto di
note editoriali ben distinte dalle costituzioni del Codice cui si riferivano.

Questo sarà l’oggetto di studio della scuola bolognese. Irnerio inizia questo lavoro e ridistribuisce la
compilazione giustinianea, le 4 parti della compilazione (il codice, le istituzioni, i digesta e le novelle) e li
divide in 5 volumi: il volume I del Codex, il Digestum Vetus, Infortiatum, il Digestum novum, il Volumen
(che contiene le parti mancanti).
Irnerio ridistribuisce la compilazione e in qualche modo la ricompone e va spiegando questa
ricomposizione e questo è oggetto delle sue lezioni e ricompone l’integrità della compilazione. Questo è
quello che fa Irnerio e anche i suoi successori giuristi bolognesi perché i libri legales vanno
incrementandosi. Ma grosso modo è Irnerio che fa questa divisione in 5 parti della compilazione
giustinianea.

Come nasce la scuola di Bologna?


Adesso vediamo anche come nasce la scuola di Bologna. Questa scuola non nasce subito come
un’istituzione. L’istituzione dell’università di diritto di Bologna sarà tarda, arriverà intorno alla metà del
1200. Nascerà la prima università pubblica, laica che l’occidente conosca; ma, prima, lo studium
bolognese era organizzato secondo il rapporto di stampo privatistico: si fa riferimento anche qui al
contratto di societas del diritto romano, in virtù del quale vi erano dei maestri (il primo dei quali fu
Irnerio), erano maestri del dominus, che accoglieva dei discepoli, dei soggetti che volevano studiare i testi
della compilazione giustinianea li accoglieva nel proprio domicilio, li ospitava, insegnava la compilazione
giustinianea e riceveva da loro una colletta (il pagamento di un somma in denaro). Bologna nasce così e
fino agli inizi del 200 così opera con una forma privatistica, cioè abbiamo vari maestri e vari insegnamenti
che in qualche modo sono straordinariamente uniformi, nel senso che non abbiamo dei programmi
ufficiali, non abbiamo gli esami. All’inizio sarà un qualcosa di interno, sarà il maestro che una volta
ritenuto l’allievo meritevole lo introdurrà, a sua volta, nella cerchia dei docenti di diritto, cioè diventerà a
sua volta un dominus. Lo riterrà pronto a fare una pubblica dissertazione, magari nella cattedrale, e farà
diventare il suo allievo a sua volta un dominus. Il rapporto è proprio di tipo privatistico fra il maestro, il
dominus e i suoi allievi. Questi si recano nella casa del maestro e imparano. Vedete che questa struttura è
privatistica; non c’è niente di istituzionale all’inizio, non c’è neanche una sede istituzionale, questi qui
insegnano nel loro domicilio e in virtù del rapporto di stampo privatistico.

Ciò avviene a Bologna e Irnerio è il primo maestro, ma ci sono anche altri maestri, ci saranno 4
generazioni di glossatori (questa scuola prende il nome di scuola dei glossatori) e questi insegneranno
dall’inizio del 1100 fino alla metà del 1200, a Bologna, poi, continueranno gli studi e dopo i glossatori
avremo i commentatori ecc. Però quello che importa è che fino all’inizio del 1200 la scuola era privatistica
il rapporto era questo tra maestri che insegnavano: immaginate c’era il testo al centro e questi libroni
manoscritti, dei libri legales, (la compilazione giustinianea veniva trasfusa e riorganizzata in questi libri
legales, in cui si cercava di mettere i manoscritti originali della compilazione che venivano in essi
organizzati e se ne mette al centro una sola copia (perché erano costosi) e il maestro spiegava. L’origine è
quello di questo rapporto di societas privatistico.

Gli insegnamenti che avvenivano a Bologna acquistano un rilievo notevole in pochissimo tempo e vari
rampolli delle famiglie più importanti d’Europa vengono a studiare diritto a Bologna. Succedeva poi, che
questi qui tornavano nel loro Paese di origine, dopo aver studiato a Bologna, e lì tramandavano lo studio
bolognese e anche loro creavano delle scuole. Il movimento degli studenti è un modo formidabile per
diffondere la cultura bolognese, la conoscenza della compilazione giustinianea, l’interpretazione di questa
compilazione data dai giuristi bolognesi e il metodo bolognese. Questi studenti tornavano nei loro luoghi
d’origine ed esportavano la compilazione e il vero e proprio modello bolognese.
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FEDERICO BARBAROSSA
Immediatamente questo modo di studiare bolognese acquista notorietà, tanto che si interessa anche
l’imperatore. Quando ancora Bologna è fatta da questi insegnanti privati, da questi docenti che insegnano
ai loro discenti nel loro domicilio, se ne interessa l’imperatore.
Tant’è che nel maggio 1155 un imperatore venuto in Italia, Federico I Barbarossa, emana una costituzione
che dal suo incipit, cioè dalle sue prime parole, prende il nome di CONSTITUTIO HABITA questa
costituzione ha la specifica finalità di favorire gli studenti che si recano a Bologna per studiare diritto. Essa
contiene tutta una serie di privilegi di cui gli studenti possono usufruire se si recano a Bologna per
studiare diritto. Bologna adesso è un polo importantissimo dove si recano studenti provenienti da tutta
Europa appartenenti alle famiglie più facoltose per studiare diritto. Si tratta di una norma famosissima
che Federico Barbarossa volle fosse introdotta nel Codice giustinianeo al pari di una novella, e corredata
della qualifica di auithentica. Qui vediamo che si tratta di trattamento di favore:
- Salvacondotto per i dazi doganali;
- Un foro privilegiato;
- Il deterrente che se si rubasse allo studente bolognese era come rubare all’imperatore e quindi vi
erano pene molto gravi quindi ha un forte effetto deterrente nei confronti dei furti perpetrati nei
confronti degli studenti bolognesi;
- L’esonero del diritto di rappresaglia.

La Constitutio Habita di Barbarossa fornisce agli studenti un salvacondotto che permetterà loro di non
pagare dazi doganali nel viaggio.

Inoltre stabilisce in maniera simbolica molto forte, che chi ruberà ad uno studente che si reca a Bologna
per studiare sarà come se avesse rubato all’imperatore in persona e quindi sottoposti a pene gravissime.
Federico commina sanzioni a chi molesti maestri e allievi sia nei perigliosi viaggi intrapresi per
raggiungere la città degli studi, sia nella stessa Bologna, ove la folta schiera degli scolari sopportava male
le autorità cittadine.

Sempre Barbarossa e sottrarrà gli studenti di Bologna alla giurisdizione ordinaria, istituendo un foro
privilegiato: questi infatti saranno giudicati nel caso commettano un reato o dal foro o dal dominus che è
colui che forma lo studente, che lo ospita, quindi che ha con lo studente un rapporto abbastanza intimo
o, a scelta, dal vescovo. Quindi su avrà un trattamento di favore.

Come ultima cosa gli studenti bolognesi verranno anche esonerati dal c.d. diritto di rappresaglia in virtù
del quale, il creditore in caso di insolvenza del debitore, può soddisfarsi nei confronti di uno qualsiasi dei
componenti della stessa natio del debitore. Grazie appunto alla Constitutio Habita, tale potere sugli
studenti bolognesi non valeva: quindi è un diritto di credito in realtà, cioè è un diritto che, nei fatti, aveva
un creditore che nel caso in cui non viene pagato dal debitore principale si può rivolgere agli appartenenti
alla natio (la famiglia in senso allargato) del debitore, può rivolgersi a tanti soggetti come debitori
secondari. Il diritto di rappresaglia non poteva essere vantato sullo studente bolognese.

Che necessità ha l'imperatore di fare questo trattamento nei confronti degli studiosi bolognesi? Come
abbiamo visto nella prima parte della lezione, più che altro sul versante della Chiesa, in questo caso era
l'imperatore che si aspettava dal diritto romano giustinianeo delle risposte confacenti all'imperatore. Voi
immaginate che facevano riferimento alla normativa di un imperatore fortemente autocrate come era
Giustiniano. Da questo imperatore non potevano che giungere delle risposte in qualche modo confacenti
all’imperatore Federico Barbarossa e alla figura dell’imperatore in generale.
A quest'idea di impero di Barbarossa che era un imperatore accentratore, in qualche modo, da
Giustiniano non potevano che giungere risposte favorevoli alla fazione imperiale sia per la sua battaglia
perenne nei confronti della Chiesa ma anche nei confronti di altri organismi (anche interni all’interni
all’imperatore). Favorire lo studio di questo diritto romano giustinianeo era funzionale a questa idea, ad
ottenere da questo diritto risposte confacenti alle politiche imperiali. Questo si realizzò ben presto.
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GLI IURA REGALIA


Già abbiamo visto l'interesse dell’imperatore del 1155 con la Constitutio Habita. Vedete che Bologna è
nata veramente da poco tempo, è un studio ancora non istituzionalizzato, fatto fa privati, ma l’imperatore
già si interessa nel 1155.
Nel 1158 Barbarossa convoca i 4 allievi diretti di Irnerio, Martino, Bulgaro, Ugo e Jacopo, detti i “quattro
dottori” i quali assicurano veramente una continuità alla scuola, perché sono gli allievi diretti e
continueranno a loro volta l’insegnamento irneriano e poi fecero di Bologna un'istituzione fissa che si
elevò agli onori di massima gloria cittadina.

Approfondimento su Bulgaro e Martino


Nella scuola di Bologna l'interpretazione delle leggi divergeva su molti punti. Si individuano due opposte
linee facenti capo a due maestri diversi: Bulgaro e Martino.
Bulgaro sarebbe stato il difensore dell'interpretazione rigorosa della legge scritta, mentre Martino Gosia e
la sua scuola “gosiana” sarebbero stati più elastici.
Da sempre l'interpretazione dei giuristi ha oscillato tra i due poli del rigor iuris rappresentato dalla
'lettera' della legge astratta, e l'equità, principio razionale ed etico invocato da peculiarità della fattispecie
concreta. Alla corrente di Martino si oppongono Bassiano, Azzone e Odofredo che le imputano di trarre
l'equità arbitrariamente dalla propria coscienza, d'inventarla ex ingenio. Ciò tuttavia non è vero in quanto
leggendo le sue glosse Martino appare molto più fedele di Bulgaro al dettato normativo.
Bulgaro era affascinato dal miraggio di un ritorno al diritto romano e conscio che la propria missione
scientifica era rigorosamente limitata all'interpretazione dei libri giustinianei. Martino viene descritto
come spiritualis homo disposto a seguire la legge di Dio a costo di sacrificare Giustiniano, e la cui passione
per l'equità altro non era se non rispetto del diritto canonico cioè rimaneva fedele all’idea secondo cui le
due leggi ecclesiastica e romana dovevano procedere unite nella sintesi dell'utraque lex. Tuttavia egli non
s'intrometteva nei conflitti tra i due ordinamenti, non considerava l'ipotesi di deroghe al dettato delle
leges. Martino adottava le tesi canoniche in caso di lacune e questo non comportava alcun tradimento a
Giustiniano.

Barbarossa, convoca questi 4 giuristi nella Dieta di Roncaglia e chiede loro di risolvere il problema degli
iura regalia cioè di quei diritti che sono i diritti legati al fare leggi, imporre tributi, quei diritti di stampo
pubblicistico. Infatti con l'incoronazione del Sassone Ottone I, nel 962, si chiuse il periodo di vacanza
succeduto alla morte dell'ultimo carolingio nell'888 e un vento di germanizzazione sembrò abbattersi
sull'Italia (lo si sente nelle leggi emanate per ristabilire nella sua pienezza l'uso giudiziario del duello
barbarico). Ottone preparò nuove aperture alla romanità quando decise di unire in matrimonio a una
principessa bizantina il figlio Ottone II. Fu il figlio di costui, Ottone III, educato dalla madre greca alla
cultura di Bisanzio, a soggiornare a Roma, a dichiararsene affascinato, a dichiarare di preferirla alla
Germania e a passare alla storia per il restauratore della tradizione imperiale.
Qualche decennio dopo la morte di Ottone, intorno alla metà del XI secolo, si diede inizio alla politica del
recupero delle regalie ossia al restauro di tutti quei diritti sovrani che nello sfacelo postcarolingio l'Impero
aveva perduto: diritti esclusivi su tutti i beni della corona o demaniali, sui feudi maggiori, sulla nomina e il
controllo degli alti ufficiali e magistrati anche locali, sul conio della moneta, sui mercati, sull'esazione delle
imposte.

Questi iura regalia a chi spettano? Spettano all’imperatore come originariamente queste potestà di
stampo pubblicistico spettavano? Oppure spettano ai Comuni? Cioè a queste nuove organizzazioni
istituzionali e territoriali questi enti particolari a base territoriale che si vanno diffondendo specialmente
nell'Italia settentrionale (in tutta Europa ma soprattutto nell’Italia settentrionale) che vantavano una forte
autonomia. Essi dovevano essere organismi che erano all'interno dell’Impero però vantavano una così
ampia autonomia che in realtà esercitavano potestà pubblicistiche: facevano leggi, imponevano tributi,
creavano mercati, tutte attività che, in realtà, appartenevano a questi iura regalia, cioè componevano
questi diritti (regalìe).
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Barbarossa chiede ai 4 allievi di Irnerio a chi spettassero questi iura regalia ed essi rispondono in base al
diritto romano giustinianeo (che era quello che essi studiavano), infatti dicono che gli iura regalia
spettavano all’imperatore. Chiaramente era quello che l’imperatore si aspettava perché in una
legislazione filo-imperiale (fatta da un imperatore) come quella giustinianea, era chiaro che la risposta
fosse confacente alle pretese imperiali. Quindi, nei fatti, subito l’imperatore ebbe una risposta positiva in
questo senso, rispetto al responso richiesto ai 4 allievi di Irnerio. Vedete che rilievo che acquistano questi
insegnanti bolognesi (questi maestri, domini bolognesi) perché l'imperatore chiede un parere giuridico a
loro, sono loro i depositari del sapere e della compilazione giustinianea. Acquistano un rilievo importante
sin da subito Irnerio e poi i suoi 4 allievi a cui l’imperatore si rivolge. È come se oggi una figura simile
all’imperatore chiamasse i professori di storia del diritto per spiegargli il diritto e dare un responso di
importante rilievo.

L’INSEGNAMENTO BOLOGNESE
Questo insegnamento bolognese (perché non è ancora un’istituzione) gode di un immediato successo ed
immediato riconoscimento da parte degli imperatori. Poi, a poco a poco, la sede viene istituzionalizzata
nel corso del Duecento e viene istituzionalizzato anche il piano di studi, si fa una vera e propria sede
dell’Alma Mater e nel 1252 nascerà la prima università pubblica, statale; la prima volta che l’Occidente
conosce un’università di studenti sarà nell’ambito del diritto e sarà l’Università di Bologna.
Nel 200 iniziano ad istituzionalizzarsi i piani di studi, gli esame, i maestri inizieranno un rapporto organico,
non più con loro allievi, ma da parte c'erano gli allievi e dall’altra i maestri che sono stipendiati dal
Comune di Bologna. Quindi si viene a creare una struttura pubblica, un’istituzione. Ancor prima del 1252
in cui nasce l’Università di Bologna (siamo in un periodo tardo), già nel 1219 il pontefice Onorio III aveva
disposto che il coronamento degli studi venisse celebrato con una solenne discussione di laurea nella
cattedrale di San Pietro alla presenza dell’Arcidiacono.
La laurea agli inizi del 200, di Bologna fu una laurea con la quale fattualmente Bologna dava licentia
ubique docendicioè di insegnare, nell'ambito della giurisdizione universale della Chiesa e dell’Impero.
Chi usciva da Bologna era un docente in entrambi i diritti, sia il diritto canonico che il diritto civile.
Vi era un riconoscimento fin dagli inizi del 200 di questo discorso pubblico solenne dei laureati, addirittura
Onorio III istituisce questa discussione a San Pietro.
Queste sono testimonianze del fatto che dagli inizi del 1200 la scuola si va istituzionalizzando, cambia dal
rapporto privatistico passiamo ad un rapporto diverso in cui vi è il rapporto organico dei docenti col
Comune di bologna; viene istituzionalizzato il piano di studi dai 5 ai 7 anni; il maestro deciderà quando
l’allievo dovrà fare degli esami; gli allievi sosterranno degli esami e poi vi sarà un ultimo esame pubblico
superato il quale lo studente diventava anche lui doctor, riceveva l'anello, la toga e veniva abbracciato
dagli altri dottori perché diventava anche lui un dottore. Questo ultimo famigerato esame era davvero
complessissimo.

All’inizio del 200 si istituzionalizza lo studio bolognese e si istituzionalizza anche i piani di studi, la laurea, il
numero degli esami e nasce proprio un’istituzionel'Università degli Studi; quindi prima nasce in virtù di
un rapporto privatistico tra allievi e maestri e successivamente, dal 200 in poi, abbiamo la nascita
dell’istituzione Università degli Studi. La prima università che conosce l’Occidente sarà appunto
l’Università di Bologna legata all’insegnamento del diritto in particolare del diritto romano giustinianeo.

Sempre dagli inizi del 200 si iniziano a formare le prime descrizioni sulle lezioni bolognesi. Soprattutto
Giovanni Bassiano (giurista e insegnante di diritto a Bologna) alla fine del XII secolo, alla fine del 1100, ci
informa sullo svolgimento delle lezioni.
Quindi ci informa che il termine stesso lezione deriva dal latino lectio (che significa leggere). Infatti
dall’unico testo disponibile, il maestro dava lettura, si iniziava poi a spiegare il frammento mettendo in
evidenza, enucleando sotto forma di esempio il principio giuridico enucleato nella norma che prenderà il
nome di casus. Si analizzava linguisticamente e letteralmente il frammento da analizzare, si estraeva il
casus (il principio giuridico che veniva enucleata nella norma) e da questa prima sommaria analisi, seguiva
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l'esegesi vera e propria del testo attraverso la spiegazione delle singole parole o proposizioni del testo
stesso.

A questo punto si poneva il testo esaminato a confronto con altri frammenti paralleli che magari
contenevano lo stesso istituto giuridico, magari in un'altra parte della compilazione giustinianea. Molto
spesso le regole contenute, ad esempio, nei digesta erano in contrasto con quelle contenute nelle
Istituzioni o nel Codice; l’opera di interpretazione stava appunto nel cercare di fare combaciare e di
conciliare entrambe le norme. Per il glossatore, infatti, non vi possono essere discrepanze o antinomie del
corpus giustinianeo.

Successivamente venivano posti in evidenza i principi di carattere generale presenti nel frammento e poi
come ultima fase il frammento analizzato veniva assunto come spunto per proporre delle questioni
ipotetiche o concrete che riguardavano appunto fattispecie a cui il testo non dava diretta risposta. La
soluzione a questi quesiti era da ricercare o in altre fonti o attraverso artifizi interpretativi come
l’analogiasi doveva rispondere a testi, a domande che nel testo non erano previste da Giustiniano e per
via analogica si rispondeva a questi quesiti.
Giovanni Bassiano ci informa di come si svolgessero queste lezioni e ci informa anche, ad esempio, che la
mattina si svolgessero lezioni più pesanti legate ai Digesta che era la parte più complessa della
compilazione per poi il pomeriggio fare lezioni più leggere che riguardavano le Istituzioni, il Codex che
erano le parti più semplici. Quello che è più importante è che Giovanni Bassiano ci racconta come si
svolgeva la lezione bolognese. Inizialmente, alla fine XII secolo, in maniera privata ancora e poi queste
lezioni verranno istituzionalizzate.

Quello che noi stiamo dicendo sulla lezione poi lo vedremo nella prossima lezione, legato strettamente
anche ai generi letterari utilizzati per interpretare la compilazione giustinianea. C’è un legame forte tra
questi aspetti: i generi letterali rispecchiano la lezione.
La lezione, che abbiamo detto, viene fatta attraverso lectio che è la lettura ed interpretazione del testo
del frammento. Dunque c’era un testo al centro, che poteva essere una delle 5 parti dei libri legales che
contenevano la compilazione giustinianea.
Ad esempio si prendeva un frammento del Codex veniva letto questo frammento estrapolando il principio
giuridico enucleato dalla norma, poi si faceva un’interpretazione letterale, parola per parola (la glossa). La
glossa era la spiegazione parola per parola, della singola proposizione. Essa era quel genere letterario
legato a questa fase della lezione sarà la glossa che diede anche il nome alla stessa scuola (la scuola dei
glossatori). Questo è il carattere esegetico di questa spiegazione.

Poi si metterà in rapporto questo frammento con altri frammenti della compilazione contenuti in parti
diverse della compilazione (ad esempio un frammento del Codex con un frammento dei digesta) ma che
trattava lo stesso tema o che conteneva lo stesso istituto. Magari però capitava anche che la disciplina di
questo istituto contenuta nel Codex fosse diversa da quella contenuta nei Digesta perché le varie parti
della compilazione giustinianea rispecchiano momenti diversi del diritto romano.
I digesta, che raccolgono iura, trattano un istituto come sarebbe trattato nella Roma classica; il Codex
invece rispecchia il periodo post-classico. Quindi poteva capitare che le due parti della compilazione che
riguardavano uno stesso istituto fosse disciplinato in maniera diversa.
Per i glossatori questo era inconcepibile perché per loro il corpus unicum indivisibile non potevano esserci
antinomie. Ecco perché mettevano a confronto questi passi li legavano e cerchiamo di superare
attraverso interpretazione (vedete come l’interpretazione già crea) e cercavano di superare le possibili
antinomie che era ovvio che vi fossero nella compilazione giustinianea. Le superavano attraverso
l’argomentazione. Vedete il discorso che facevamo prima sull’interpretazione autorevole, logica, la forza
e l’autorevolezza dell’interprete.

Già in questa prima parte della lezione noi stiamo vedendo come loro cercavano di superare antinomie e
davano risposte creative qualche modo. Quindi un interesse esegetico e poi esegetico-sistematico cioè
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mettere in rapporto e ricreare una compattezza, uniformità in un testo che è uniforme non era perché le
varie parti della compilazione rispecchiavano eredità diverse del diritto romano (la Roma classica, la Roma
post-classica). Vedete come quest’altra parte della lezione era questa parte esegetico-sistematica, in cui
si spiega ma si mettono in rapporto e desumono le antinomie delle varie parti della compilazione. Poi si
proponevano anche dei quesiti che magari riguardavano delle fattispecie a cui magari in testo non dava
risposta, e anche qui l’intervento dell’interprete che faceva ricorso ad artifizi come l’analogia per
estendere il significato del testo a fattispecie che chiaramente Giustiniano non poteva prevedere 5 secoli
prima. si facevano rientrare si allargava, si estendeva il significato della norma fino a farci rientrare
fattispecie non previste.

Ricapitolando: La settimana prossima tradurremo tutto questo in generi letterari. Però già vedete che
ruolo ha l’interprete. Poi lo vedremo nei fatti e semplificheremo tutto quello che ci stiamo dicendo. Già
dalla lezione, Giovanni Bassiano (giurista della fine del 1100-inizi del 1200, uno dei docenti della scuola di
Bologna più rinomati), ci spiega benissimo come funziona la lezione. È già dal funzionamento noi capiamo
e questo ce lo portiamo dietro per capire anche i generi letterari della scuola di Bologna. La lezione
rispecchiava i generi letterari della scuola stessa cioè la lezione è il corrispettivo dei generi letterali che
verranno utilizzate per compiere l’attività interpretativa della compilazione giustinianea: l’interpretazione
letterale; trarre il principio giuridico, il casus; mettere a confronto l’istituto trattato in quel frammento
con altri interesse esegetico-sistematico. E quale interprete? Che interpreta letteralmente le singole
parole, che attraverso l’interpretazione mette in raccordo, cerca di restituire un’immagine di uniformità
ad una compilazione che uniforme non è, che ha le sue antinomie e cerca di superare le antinomie e poi,
anche, di estendere la portata della norma anche a fattispecie non previste. Già spiegando la lezione
abbiamo capito come si dipanava l’insegnamento bolognese e che ruolo ha l’interprete.
Quindi oggi siamo entrati dentro Bologna e abbiamo visto l’importanza che ha la riemersione del testo,
l’importanza della riforma gregoriana e del recupero delle versioni originali di alcuni frammenti della
compilazione giustinianea, poi abbiamo visto Irnerio. Inoltre ci siamo soffermati sull’insegnamento
bolognese, che è fatto inizialmente da un rapporto privatistico: i maestri, nei primi 30 anni del 1100,
accolgono a casa loro gli allievi e insegnano a costoro la compilazione giustinianea; Irnerio stesso
apprende la compilazione e la spiega, ricrea il sistema dei libri legales man mano che scoprendo i
manoscritti e ricostruisce l’integrità della compilazione stessa, questo imparando, ricomponendo la
compilazione giustinianea la spiega e la reinterpretano attraverso le loro lezioni. Quindi all’inizio nasce
come un’organizzazione privata, legata al rapporto della societas tra dominus e allievi; poi avviene il
primo intervento, nella metà del 1100, da parte di Barbarossa con la Constitutio Habita che riconosce
privilegi agli studenti bolognesi; poi la Dieta di Roncaglia ci conferma che gli interessi imperiali per lo
studio del diritto romano giustinianeo è legato alle risposte che questo diritto può dare e che sono
confacenti alle politiche imperiali. Poi abbiamo visto come nel 1252 la scuola diventa un’istituzione
pubblica ma già da prima il pontefice Onorio III aveva stabilito che la cerimonia finale avvenisse a San
Pietro in maniera rituale. Diciamo che già prima di arrivare al 1252, già dall’inizio del 200 iniziano ad
istituzionalizzarsi il rapporto tra i docenti e il Comune: quindi loro diventano non più stipendiati dai
discenti ma dal Comune stesso; iniziano ad istituzionalizzarsi i programmi, i piani di studio, gli esami, un
corso di studi dalla durata di 5-7 anni, un esame finale. Quindi inizia ad istituzionalizzarsi l'organizzazione
Università, e lì nasce un’istituzione pubblica che sarà la prima università che l’Occidente conosce che è
l’Università di Bologna legata al diritto. Da ultimo abbiamo visto, poi, la lezione bolognese che ci viene
descritta molto bene da Giovanni Bassiano e che si traduce, poi vedremo, nei generi letterari che
verranno utilizzati da questi giuristi per interpretare la compilazione giustinianea. Veramente abbiamo un
risvolto della lezione nei generi letterali.
STAMPARE A PARTE PAG 39 PARAFRAFO 9; PAG 45 PARAGRAFI 5-6-9-10-11;
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Lez. 9 – 28.10.2020
LA COMPILAZIONE GIUSTINIANEA COME UNICUM.
Oggi noi parleremo all’inizio della visione che avevano questi glossatori, questi studiosi della scuola di
Bologna che riguarda la compilazione giustinianea. Già lo abbiamo accennato: loro vedevano nella
compilazione realmente un testo sacro, un testo che, tramite l’imperatore, promanava direttamente da Dio
essenzialmente. Questa è la loro visione, un testo intangibile, un testo essenzialmente monolitico. Il testo
giustinianeo non era visto come quello che era, cioè come un insieme di opere distinte, le quali
rispecchiavano anche momenti diversi del diritto romano, perché ad esempio i 50 libri dei Digesta
racchiudono la giurisprudenza della Roma classica, gli iura della Roma classica, mentre ad esempio il codex,
le novelle rispecchiano il diritto giustinianeo postclassico. Nella visione di questi soggetti, dei glossatori, la
compilazione era un unicum, che è monolitico: non potevano esserci contraddizioni interne. Ma le
contraddizioni c’erano e non potevano che esserci: molti istituti potevano essere disciplinati in modo diverso
dal codice, dai Digesta, perché rispecchiavano dei diritti profondamente diversi. Ecco, quindi, nei fatti, questi
studiosi, con questa loro visione sacrale della compilazione giustinianea, avevano l’intento di rendere quella
compilazione che era valida, perché antica, autorevole e promanava dall’imperatore soprattutto, anche
efficace. Quindi dovevano cercare di inserire fattispecie che in realtà il diritto di Giustiniano non poteva
prevedere secoli prima. Quindi vediamo come in realtà questa opera di ammodernamento della
compilazione giustinianea, nei confronti della quale gli studiosi bolognesi, i glossatori avevano realmente
una venerazione, modifica profondamente il testo. Si crea qualcosa di nuovo, ad esempio, con lo strumento
analogico. Per risolvere le antinomie creano qualcosa di nuovo. Per adattare il testo alle loro fattispecie,
fattispecie che Giustiniano non poteva prevedere, creano qualcosa di nuovo. Qui siamo all’interno
dell’officina del diritto comune e questo è un aspetto importantissimo della creazione di questo diritto che si
crea a base essenzialmente dottrinale.
L’INTERPRETATIO.
Vedremo che in tutto il medioevo e anche in età moderna si parlerà di varie fonti del diritto e di varie fonti di
interpretazione del diritto. L’interpretazione del princeps, cioè del sovrano che dà una interpretazione
vincolante per tutti: l’interpretazione della legge è vincolante per tutti. La consuetudine stessa è stata vista,
soprattutto nell’alto medioevo, anch’essa come sia come fonte che come interpretazione: la consuetudine
dà un’interpretazione del diritto e della realtà che è anche questa vincolante per tutti. Poi abbiamo
l’interpretazione del giudice: abbiamo un’interpretazione vincolante, ma soltanto per le parti in
controversia. Ecco, in questo momento in cui il diritto comune si viene a creare, parliamo soprattutto di
interpretatio del giurista. Il termine interpretatio, interpretazione sarà un termine fondamentale in questo
momento. L’interpretatio del giurista non è una interpretatio vincolante, perché il giurista non è il principe
che dà una interpretazione vincolante o il giudice, che dà una interpretazione vincolante per le parti in
causa. È una interpretatio che viene definita probabilis, che però, in questo momento, è quanto mai
creatrice del diritto. Con l’interpretazione, in questo momento bolognese, si crea realmente il diritto. Il
modo per creare diritto è questa ricreazione della compilazione giustinianea. Quindi, se da una parte
abbiamo un vero ossequio nei confronti della compilazione, vista come momento sacrale, se scendiamo
nell’applicazione, nell’interpretazione, questi giuristi devono in qualche modo corrompere la compilazione
giustinianea e creare qualcosa di nuovo. È l’interpretatio che sta in mezzo tra la validità della fonte
normativa e la sua efficacia. È l’interpretatio che sta in mezzo e che colma questo gap che è normale, perché
comunque questi soggetti devono rendere la compilazione applicabile. Vedremo come in realtà estendono
in maniera analogica la portata della compilazione giustinianea per applicarla a fattispecie che Giustiniano
ovviamente non poteva prevedere 5 secoli prima. In questo modo modificano la compilazione, estendono il
significato della compilazione anche a fattispecie ovviamente non previste. Sono loro che creano qualcosa di
nuovo. Per questo quando ci siamo detti che le correnti della storiografia giuridica, i romanisti vedevano nei
secoli medievali un lungo passaggio del diritto romano giustinianeo nel periodo del diritto comune. Invece
no. Si crea qualcosa di nuovo.
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Il giurista è il creatore in questo momento. Siamo in un momento in cui ovviamente la consuetudine non
basta più, in un momento in cui sia le istituzioni imperiali, che in questo momento (900-1000-1100)
ritrovano la loro complessità, sia l’economia, la vita sociale ritrovano la loro complessità, rinascono i mercati,
le città etc. Quindi la consuetudine non basta più. Il potere politico continua a disinteressarsi in qualche
modo al diritto applicato. Un aspetto di istituzione, che è l’impero, ancora esiste. Il sacro romano impero
ancora esiste, però si disinteressa nei fatti al diritto applicato. Quindi, a chi rivolgersi? Non bastano più i
giudici e i notai di cui abbiamo parlato nell’alto medioevo: loro hanno fatto il loro dovere. Loro
maneggiavano quella fonte: la consuetudine, ma quello non basta più. Ecco quindi che andiamo a
riprendere questa fonte autorevole, antica, valida che è la COMPILAZIONE GIUSTINIANEA, che è veramente
l’eredità del diritto romano. Come abbiamo detto, la compilazione giustinianea, in Oriente, era applicata
anche nell’alto medioevo; in Occidente ha avuto la sfortuna di cadere un po’ nell’oblio. Si riprende questa
compilazione. A questo punto servirà qualcuno che prenda questa compilazione valida e la renda efficace,
applicabile alla realtà del XII secolo e questo lo fa il GIURISTA, con la sua INTERPRETATIO. Questo fa il giurista
in assenza dello Stato, che è il grande assente di tutti questi discorsi. Lo Stato, come dice Paolo Grossi, è
assente. Quindi è il giurista che deve compiere questa operazione.
LE ANTINOMIE E LA LORO RISOLUZIONE: IL RIFERIMENTO ALLA LEX DE IMPERIO VESPASIANI.
I giuristi bolognesi, i glossatori, vedono nella compilazione un unicum e non possono concepire le antinomie
all’interno del sistema, che è un unicum. Come le superano? Il più delle volte queste antinomie vengono
viste soltanto come apparenti, o quanto meno si cerca di farle vedere apparenti. Questa idea, ne
riparleremo quando parleremo di Graziano, del superamento delle antinomie all’interno di un sistema è
un’idea che, adesso vedremo come fa Irnerio in un esempio suo celebre, ma anche le modalità di superare
le antinomie e reputarle apparenti è un’idea che anche in questo caso viene dalla teologia. Vi era un grande
teologo in questo stesso momento che era Abelardo, anche lui operava in Francia e scriveva un’opera, il “sic
et non” di cui parleremo quando parleremo di Graziano, un’opera teologica che si occupa di superare le
antinomie all’interno delle Sacre Scritture. Anche lì ci sono le antinomie, le contraddizioni. In qualche modo
Abelardo cerca di superare le antinomie all’interno delle Sacre Scritture. Questa è un’opera teologica che
riguarda le sacre scritture e dà dei metodi, è uno strumentario e, come abbiamo sempre detto, la teologia è
strettamente legata al diritto: fornisce veramente dei modus operandi. Abelardo si occupa di teologia, ma
guarda caso questo stesso periodo è il periodo in cui vi è una ripresa forte dal punto di vista teologico, lo
studio della logica e della filosofia e questo arriva al diritto.
Un’antinomia importante, tornando al diritto, la più rilevante si trova in una glossa attribuita a Irnerio (è
molto probabile che sia di Irnerio effettivamente). Immaginiamo il percorso della lezione bolognese: c’è una
analisi testuale, si estrae in qualche modo il casus, il principio di diritto, ma anche l’istituto di cui parla quel
frammento che stiamo studiando. Immaginiamo che c’è questo maestro al centro, il testo nell’enorme
librone dei libri legales, che erano dei libroni costosi e c’era una sola copia. Gli studenti erano lì attorno che
studiavano. Quindi il frammento si prende, si interpreta letteralmente, si estrae in qualche modo il casus,
poi si mette a paragone con altri frammenti che trattano lo stesso tema. Perché si fa questo? Per superare le
antinomie eventualmente e restituire un’immagine quanto meno unitaria della compilazione. Questa è
l’immagine che volevano dare i glossatori. Ci si trova di fronte a una contraddizione: abbiamo di fronte 2
passi un passo dei Digesta che riporta il pensiero di un giurista dell’età di Ottaviano che è Salvio Giuliano,
che ammette la desuetudine delle leggi e quindi la capacità per le consuetudini di abrogare le leggi. Accanto
si mette un passo del Codex, di una costituzione di Costantino in cui Costantino dice appunto che la
consuetudine non può abrogare la legge, anche desueta. Quindi, due visioni diametralmente opposte: da
una parte Salvio Giuliano – giurista che rispecchia la Roma classica - che dice, in un passo dei Digesta, che la
CONSUETUDINE PUO’ ABROGARE LA LEGGE DESUETA. D’altra parte, abbiamo un passo di Costantino in cui
Costantino dice che NON E’ VERO. È un passo del Codex che riprende Costantino, in un periodo successivo a
quello di Salvio Giuliano, in cui si dice la cosa opposta, cioè che LA CONSUETUDINE NON POTRA’ MAI
ABROGARE LA LEGGE, ANCHE DESUETA.
Come risolvere questo problema? L’antinomia è chiara, è palese. Nei due passi si dicono cose diverse.
Irnerio la risolve in un modo: Irnerio fa riferimento alla lex de imperio vespasiani. Irnerio dice che l’antinomia
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è apparente o, quantomeno, è superabile perché Salvio Giuliano scriveva prima di quando è stata fatta la lex
de imperio vespasiani che è la legge, appunto la lex de imperio, con la quale il popolo aveva consegnato
tutto il potere all’imperatore, all’atto del suo insediamento. Quindi lui parlava prima: prima della lex de
imperio era ammissibile che la legge potesse essere abrogata con la consuetudine, dopo no. Dopo non era
assolutamente possibile questo discorso. Quindi l’antinomia è superabile, in quanto Salvio Giuliano scriveva
prima della lex de imperio, quindi era chiaro che dicesse questo; ma poi, dopo la lex de imperio il problema
non si pone più perché ovviamente la consuetudine non può più abrogare la legge. Era ovvio che Salvio
Giuliano scriveva dopo la lex de imperio. Irnerio lo sapeva? Si o no? È probabile di sì, come è probabile
anche di no. Irnerio, fregandosene del problema storico, aveva in testa un’idea: quella di restituire unitarietà
alla compilazione. Quindi gli serviva trovare un modo per superare questa antinomia e l’escamotage fu
questo. La visione astorica di questi glossatori nei confronti della compilazione, è una delle critiche più
profonde che verrà fatta ai glossatori stessi. Vengono accusati di aver tralasciato assolutamente il contesto
storico in cui la compilazione è stata fatta e in cui i glossatori stessi vivevano. In qualche modo, quindi, quella
di Irnerio è ignoranza? Non lo sapremo mai, però sicuramente a Irnerio faceva comodo. Magari
consapevolmente sapeva che Salvio Giuliano aveva operato dopo la lex de imperio, ma doveva trovare un
modo, un via d’uscita da questa antinomia. La via di uscita fu trovata dicendo che Salvio Giuliano scriverà
prima della lex de imperio vespasiani.
il contrasto sta tra due passi. L’esempio che facciamo è un esempio lampante perché sembra insuperabile
questa contraddizione. Salvio Giuliano, giurista, in un passo dei Digesta, che riprendono il pensiero dei
giuristi della Roma classica, dice che la consuetudine può abrogare la legge desueta. Un altro passo del
Codex, lo specchio del diritto postclassico, in cui si dice che la consuetudine non può mai abrogare la legge. I
due passi dicono una cosa diametralmente opposta. Come fare a superare questi problemi? Rispecchiano
due momenti diversi, anche istituzionalmente. Quando parla Salvio Giuliano, siamo in un momento in cui
l’imperatore è primus inter pares, mentre nella Roma postclassica l’imperatore ha cambiato e la sua fonte
del diritto che è la legge è cambiata nel suo ruolo: l’imperatore è centrale, la sua legge è centrale. Quindi è
impensabile che la consuetudine potesse abrogare la legge. A questo punto Irnerio che dice? Irnerio si lega
alla lex de imperio vespasiani, che è del 69 d.C., e dice che dalla lex de imperio vespasiani in poi la
consuetudine non può più abrogare la legge. Siccome Salvio Giuliano scrive prima della lex de imperio
vespasiani, allora era normale che dicesse quelle cose, ma con la lex de imperio vespasiani viene superato
questo discorso. Qui l’antinomia è solo apparente, l’abbiamo risolta dicendo che la consuetudine, dalla lex
de imperio vespasiani in poi, non può abrogare la legge. Quindi il problema è superato. Peccato che non è
così perché nei fatti Salvio Giuliano scrive dopo la lex de imperio vespasiani. Non c’entra la lex de imperio
vespasiani, è sicuramente un problema storiografico che Irnerio consapevolmente superava, non conosceva,
o se lo conosceva non gli interessava. Lui ha un obiettivo, l’obiettivo di questi glossatori è restituire
l’immagine di una COMPILAZIONE VISTA COME UN MONOLITE, come un unicum. In realtà la compilazione
giustinianea è fatta da più opere, le quali possono essere in contraddizione l’una con l’altra e spesso lo
erano. Possono disciplinare quindi in maniera diversa gli stessi istituti, perché rispecchiano momenti diversi
del diritto. Salvio Giuliano scriveva prima della lex de imperio per Irnerio però nella realtà ha scritto dopo.
Questo sarà un modus operandi contro il quale si scaglieranno profondamente gli umanisti in età moderna,
coloro che criticheranno fortemente questi glossatori, visti come degli invasati che erano forieri di
interpretazioni sbagliate, storiograficamente emendabili, quindi errate, perché loro mettevano tutto a
servizio di un’idea, erano fortemente ideologici: la loro idea era la compilazione al centro, la compilazione
vista come monolitica e per loro era difficile anche pensare che Giustiniano modificasse se stesso.
LE NOVELLE GIUSTINIANEE.
Conte parla della sorte delle novelle giustinianee. Queste novelle sono le costituzioni nuove che Giustiniano
fa dopo il Codex, quindi dal 535 in poi, e che poi Giustiniano modifica alcune discipline dettate nel Codex. Per
i glossatori le novelle sono difficili da accettare: i primissimi glossatori, Irnerio soprattutto, difficilmente le
accettavano. L’epitome iuliani no, che è quella collezione di novelle che nell’alto medioevo viene subito vista
come non veritiera, non riportante le costituzioni giustinianee, ma anche l’Authenticum. Poi verrà accettata
e verrà inserita nel Volumen, nell’ultimo dei 5 volumi dei libri legales. Anche l’Authenticum inizialmente
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faticherà ad essere accettato. Anche in quest’opera, Irnerio e i primi maestri bolognesi criticheranno il
carattere stilistico contenuto in queste novelle, dicendo che erano appunto troppo diverse dalle costituzioni
contenute nel Codex stilisticamente, quindi non erano delle fonti effettivamente risalenti a Giustiniano, ma
erano delle fonti edulcorate, fonti non veritiere. In realtà, poi, alla fine, accetteranno l’Authenticum, però
con fatica, perché dietro a questi dubbi stilistici che avanzarono rispetto alle novelle si ha in fondo un’idea
forte: l’idea di non accettare che Giustiniano modificasse sé stesso, che anche Giustiniano modificasse sé
stesso. Questa era un’idea che effettivamente andava circolando. Poi l’Authenticum verrà accettato, ma con
molta fatica.
Nella prima parte della lezione abbiamo visto la visione del testo che hanno questi i glossatori, questi
studiosi bolognesi della scuola dei glossatori. Abbiamo visto che l’oggetto di studio era la compilazione
giustinianea, ridistribuita nei 5 volumi dei libri legales e abbiamo visto che loro interpretavano realmente
questa compilazione come un unicum e non come tante opere diverse. Questo serviva a superare e a
mascherare le antinomie che ovviamente erano presenti nella compilazione. Abbiamo visto che esempio
emblematico di antinomia è quello presente in quei due passi, dei Digesta per quanto riguarda Salvio
Giuliano, e la costituzione Costantino nel Codex in cui si affermano due assunti completamente opposti: in
uno che la consuetudine può abrogare la legge e in un altro che la consuetudine non può mai abrogare la
legge. Irnerio supera questa visione dicendo appunto che l’elemento centrale è la lex de imperio, con la
quale, dal 69 d.C in poi, il popolo ha consegnato la sovranità all’imperatore e anche la facoltà di fare le leggi.
Salvo Giuliano scrive prima e quindi non sa che da questo momento in poi la consuetudine non potrà più
abrogare la legge. Così non è abbiamo detto. Però ad Irnerio serve quest’idea per fargli superare queste
antinomie.
Di questa visione del testo giustinianeo visto come un unicum fanno anche le spese le novelle giustinianee,
cioè di quelle costituzioni fatte dopo il Codex perché per i glossatori era difficile immaginare e accettare che
Giustiniano modificasse sé stesso. Era realmente difficile immaginare che Giustiniano stesso modificasse
quello che era stabilito nel Codex. Quindi, le novelle (l’Epitome Iuliani fu subito scartata, l’Authenticum che
poi entra a far parte dei libri legales) hanno difficoltà ad affermarsi. I primi glossatori, con Irnerio in testa,
attribuivano alle novelle l’idea di opera non autenticamente giustinianea. Si parla di costituzioni non
genuine, perché davano delle giustificazioni stilistiche che erano soltanto dei pretesti, cioè che erano più
brevi delle costituzioni contenute nel codice, erano troppo diverse stilisticamente. Nei fatti così era perché
magari da quando Giustiniano non ebbe più al suo fianco Triboniano si pensa che anche la qualità delle sue
costituzioni venne a scemare. Questo è verissimo, ma non mette in dubbio la paternità delle costituzioni
successive al Codex. Quindi comunque i bolognesi superarono questi fittizi problemi stilistici, per poi
accettare anche l’Authenticum.
L’INTERPRETAZIONE LETTERALE DI BULGARO E L’INTERPRETAZIONE ELASTICA DI MARTINO GOSIA.
I giuristi bolognesi non vedevano di buon occhio che Giustiniano stesso si modificasse, figuriamoci come
avrebbero visto qualcun altro che modificasse Giustiniano. Questa è una storia interessante, che si inquadra
anche all’interno della vita della scuola di Bologna stessa, nella quale c’erano varie anime. La scuola di
Bologna vivrà di 4 generazioni di glossatori: da Irnerio e poi i suoi 4 allievi, chiamati i 4 dottori per
antonomasia, Martino, Bulgaro, Ugo e Jacopo; poi avremo una terza generazione fatta da Piacentino,
Giovanni Bassiano, Pillio a Modena e poi lo stesso Azzone, per poi arrivare alla metà del 1200 con l’ultima
generazione con Accursio, che farà la magna glossa accursiana e raccoglierà circa 96.000 glosse. All’interno
di questa scuola vedremo che non vi fu sempre un percorso lineare. Ovviamente la scuola viveva anche di
correnti interne, di fazioni interne. Parecchie raccolte di dissensiones dominorum mostrano che la scuola era
tutt’altro che monolitica, in quanto su molti punti l’interpretazione delle leggi divergeva.
La prima diatriba che influenzò molto la vita della scuola fu quella tra 2 dei 4 dottori, allievi di Irnerio, che
erano Martino e Bulgaro, che erano le personalità rilevanti. Tra Bulgaro e Martino Gosia vi fu una diatriba
forte che influenzò la scuola. Bulgaro era sostenitore del rigor iuris, cioè dell’applicazione letterale della
legge, interpretazione letterale e applicazione del diritto strictu sensu: cioè del legicentrismo,
dell’interpretazione letterale della legge e l’applicazione letterale della legge in senso stretto; mentre
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Martino Gosia diede vita a una corrente interna alla scuola di Bologna, la corrente gosiana che prende il
nome proprio da Martino Gosia la quale sosteneva che nell’interpretazione della legge bisognava anche far
entrare degli elementi che giuridici non erano, ma erano degli elementi di giustizia, elementi che non erano
dentro l’ordinamento giuridico, come l’aequitas. Da sempre l'interpretazione dei giuristi ha oscillato tra i due
poli del rigor iuris rappresentato dalla 'lettera' della legge astratta, e l'equità, principio razionale ed etico
invocato da peculiarità della fattispecie concreta. All'equità può dare voce anche il legislatore che ponga
un’eccezione normativa, per casi particolari, in deroga alla 'regola' generale. Già Irnerio parlava di aequitas
la quale incarna un ragionamento molto forte all’interno della scuola di Bologna, ma anche nel diritto
romano. L’aequitas entra in causa quando noi distinguiamo (la distinzione che era nel diritto romano
giustinianeo, ma era anche fatta propria dei glossatori) tra diritto naturale e diritto civile. Diritto naturale è
diritto che sta dentro le cose, che sta nella natura e nel creato e al di sotto del quale vi è lo ius gentium,
comune a tutta l’umanità, con il merito di aver introdotto istituti come la proprietà privata, la schiavitù e i
contratti consensuali; il diritto civile è il diritto positivizzato, che aveva aggiunto alle figure giuridiche comuni
a tutta l’umanità, forme positive proprie di ciascun popolo. In teoria, il diritto positivo deve a rispecchiare il
diritto naturale, deve positivizzare i principi di diritto naturale il quale è visto come dispensatore di equità.
L’aequitas è quel principio che crea in qualche modo un ponte tra il diritto naturale e legge. È quel principio
di giustizia che si applica al caso concreto. È centrale nella riflessione di Irnerio e dei glossatori, cioè questi
concetti, come quello di aequitas, che creano un ponte tra il diritto civile e il caso concreto. Quindi è
praticamente un modo per fare entrare nel diritto civile il diritto naturale, il diritto sta nelle cose. Il diritto
naturale trovò la sua maggiore applicazione nel diritto del pretore romano. Molti frammenti del Digesto,
riproducendo passi del ius honorarium, definivano il pretore mosso dall'equità naturale. La restitutio in
integrum dei minorenni che avessero subito danni da improvvide alienazioni di beni, era ispirata dall'intento
d'impedire la sopraffazione dei deboli da parte dei più forti, ed era manifestazione di equità. Si risolve la
fattispecie concreta attraverso un principio che non è all’interno del sistema giuridico, ma che è un principio
di giustizia. L'equità animatrice del diritto naturale era una forza obiettiva insita nei rapporti e nei fatti.
Cicerone la dipinge come il principio di eguaglianza che richiede parità di trattamento giuridico in presenza
di pari fattispecie concrete. Nei più antichi trattatelli e nelle celebri Questiones de iuris subtilitatibus,
descrive l’equità come la corrispondenza dell'atto giuridico con la sua causa, ossia lo schema tipico della
fattispecie.

Irnerio parla in una famosa glossa, attribuita a Irnerio e che noi pensiamo sia di Irnerio e fa una distinzione
tra:
- Aequitas rudis  che è l’equità grezza che sta nella natura, sta nelle cose. I medievali dicono l’equità
che sta nel creato perché l’idea del creato medievale ha una sua natura provvidenziale, connaturata
nella grazia divina. Il legislatore deve trasformare questa aequitas rudis in aequitas constituta.
- Aequitas constituta  equità dentro la legge. Il legislatore deve porre l’equità della natura all’interno
della legge. Deve positivizzarla, deve darle una forma e caricarla di autorità, racchiudendola in un
atto volitivo che è la legge. In questo modo si trasforma il diritto naturale in diritto civile che
restavano, comunque, due ordini diversi.
Anche lo ius gentium ispirato com’era dalla naturalis ratio, si dimostrava spesso portatore di equità naturali;
vi erano istituti quali quello dei contratti consensuali e della loro causa naturale, oppure l’acquisto della
proprietà per accessione o per occupazione, quindi avvenuti mediante fatti naturali; in questi casi i due
diritti naturali e delle genti, tenderanno a sovrapporsi.

Il principio di equità o i principi etici, che richiamano profondamente al mondo della chiesa, al diritto
canonico, sono dei principi che spingono a non applicare soltanto lo stretto dettato normativo ma ad aprire
l’ordinamento ad altri principi: principio di equità o valori etici che riagganciano l’ordinamento a quel diritto
naturale a cui deve tendere. I glossatori misero come polo obiettivo l’equità, e il polo soggettivo nella
giustizia. La Chiesa insegnava che la giustizia era una delle virtù cardinali, e le arti liberali dicevano che la
virtù fosse un habitus animi, cioè una predisposizione soggettiva. Per Ulpiano la giustizia è quella volontà che
ha per oggetto specifico di dare a ciascuno il suo. Martino Gosia sosteneva questo: fare entrare all’interno
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dell’interpretazione della legge anche questi principi, i principi tratti dal diritto canonico, unire i due sistemi,
quello di diritto canonico e civile, che in realtà sarà un’idea che alla fine sarà vincente. Enrico da Susa,
cardinale Ostiense, descrive Martino come spiritualis homo disposto a seguire la legge di Dio a costo di
sacrificare Giustiniano, e la cui passione per l'equità altro non era se non rispetto del diritto canonico,
quando l'occasione lo imponeva. Preferire l’aequitas canonica al rigor secolare significava integrare il diritto
civile e il diritto canonico nel sistema unitario del diritto comune. Poi avverrà questa unione di entrambe
leggi, quella civile e canonica, all’interno della formazione stessa del pensatore bolognese. Questa è un’idea
che sta alla base del diritto comune. E vedremo meglio, quando parleremo del diritto canonico, che vi è una
compenetrazione tra i 2 sistemi, delle metodologie, degli schemi interpretativi, dei generi letterari e si
applicheranno ad una fonte o all’altra. Sono fonti distinte: fonti di diritto civile, come la compilazione
giustinianea o altre fonti di diritto vivo, contemporaneo. Il diritto canonico avrà altre fonti. La metodologia
interpretativa, però, si applicherà a entrambe.

Alla corrente di Martino si oppongono Bassiano, Azzone e Odofredo: le imputano di trarre l'equità
arbitrariamente dalla propria coscienza, d'inventarla ex ingenio suo, insomma, un'aequitas ficta bursalis, e
per di più capitanea perché destinata a dominare e prevalere sulla legge. Ciò tuttavia non è vero in quanto
leggendo le sue glosse Martino appare molto più fedele di Bulgaro al dettato normativo.
Ma dietro le polemiche stavano due mondi diversi: Bulgaro era affascinato dal miraggio di un antistorico
ritorno al diritto romano oppure più semplicemente conscio della propria missione scientifica rigorosamente
limitata all'interpretazione dei libri giustinianei; Martino invece non aveva tagliato ogni ormeggio al mondo
delle due leggi, ecclesiastica e romana, che dovevano procedere unite nella sintesi dell'utraque lex.

Il computo dei gradi di parentela diverso per diritto canonico e civile era terreno di battaglia. Sin dal 1045 si
è visto Pier Damiani polemizzare a Ravenna con una schiera di giudici che volevano applicare a tutti i costi il
computo romano. Più o meno cent’anni dopo, Martino mette gli occhi su una compilazione canonica
gregoriana e vi trova tre lettere papali in cui era presentata la soluzione proposta dalla Chiesa, ossia che il
computo dei legisti si applicasse nelle successioni mortis causa (materia temporale); mentre quello
canonico fosse preferito nel campo dei divieti matrimoniali (di competenza ecclesiastica). Martino adottava
le tesi canoniche in caso di lacune che non comportava alcun tradimento a Giustiniano.

IL RESCRITTO DI ALESSANDRO SEVERO.


Questi giuristi, che sono veramente invasati della compilazione giustinianea, a poco a poco, applicheranno
quell’armamentario interpretativo anche al diritto canonico. Già con Martino e Bulgaro (la prima
generazione di glossatori successivi a Irnerio), siamo all’inizio alla seconda metà del 1100. Con loro abbiamo
quest’idea di partenza, di distinzione tra 2 filoni: quello di Bulgaro, cioè applicazione dello stretto dettato
normativo e quello di Martino, che apre all’interpretazione dello stretto diritto della norma, interpretandola
anche alla luce di altri principi che non sono interni alla compilazione e che non sono comunque principi
giuridici strictu sensu, che sono equità, valori morali, che sono tipici del mondo canonico. Questo è un modo
in cui i due sistemi si vanno avvicinando fortemente. La diatriba fra i due ha anche delle ripercussioni.
Vediamone un esempio pratico: l’esempio pratico fu offerto dall’interpretazione di un rescritto di Alessandro
Severo, contenuto nel Codex in cui c’era un dubbio interpretativo. Si parlava in questo rescritto di contratti
annullabili, o più che altro del giuramento che era interno, il giuramento confirmatorio nel caso di contratti
annullabili. Ci si chiedeva: nel caso di contratto annullabile il giuramento confirmatorio, all’interno di un
contratto tipico e rafforzava il contratto con un giuramento, ha un suo rilievo giuridico autonomo e quindi
sopravvive anche all’annullamento del contratto, oppure viene a cedere anche lui con il contratto stesso? Il
caso era quello di un minore di 25 anni il quale, avendo alienato un bene e giurato di non mai contravvenire
al contratto, aveva deciso di invalidarlo chiedendo la restitutio in integrum che gli spettava in quanto
minorenne; ma l'imperatore gliel'aveva negata, dichiarando di non voler essere coinvolto in un caso di
perfidia e di spergiuro.
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Questo problema coinvolge anche da vicino la schiera della chiesa. Martino, da una parte, era colui che si
schierava a fianco della chiesa. Il giuramento ha un suo significato simbolico, che diventa giuridico ma che
arriva al mondo della chiesa perché si giurava sul testo sacro, sulla Bibbia, aveva un valore simbolico-
religioso che poi sta a rafforzare un atto giuridico ma ha un significato simbolico forte. Per Martino questo
significato simbolico è prevalente: anche un giuramento inserito in un contratto annullabile (ad esempio
contratto concluso con un minorenne) aveva un rilievo giuridico autonomo e comunque il giuramento
restava giuridicamente valido, tenendo conto dell’impegno morale. Mentre, l’altra fazione che sosteneva un
po’ la visione dell’applicazione rigida della norma, diceva invece che anche il giuramento apposto in un
contratto annullabile diviene invalido, tenendo conto della nullità formale. Sono due gli intenti opposti, sono
due interpretazioni opposte che nascono dall’interpretazione stessa norma che è un rescritto di Alessandro
Severo. Alessandro Severo non risolve questa cosa. Il problema resta aperto: e questo era il punto dolente
per i glossatori perché il rescritto non specificava se il minorenne avesse o no compiuto il contratto con le
forme dovute.
Quindi che succede? A quanto pare, si favoleggia che Martino, approfittando della discesa in Italia di
Federico I Barbarossa, pose il problema e riuscì ad ottenere una sua costituzione che è la constitutio
autentica Sacramenta Puberum. In questa costituzione si sanziona questo nuovo principio che Martino e la
chiesa volevano, cioè che il giuramento avesse una sua forza obbligatoria autonoma, svincolata anche dai
vizi di forma che potevano annullare il contratto che era la fonte del giuramento stesso. Questo è il principio.
In realtà Barbarossa diede ragione alla fazione di Martino (che sembrò confermare la fedeltà al magistero
religioso e, comunque, il rescritto di Alessandro Severo non escludeva affatto la sua tesi), alla fazione
appunto più vicina alla chiesa. Si capisce che l’opera piacesse alla Chiesa perché la Chiesa era
necessariamente più preoccupata di evitare spergiuri che dannassero le anime che non salvaguardare le
regole giuridiche.
La cosa interessante qui è, oltre alla risoluzione del problema, che questa divisione tra Bulgaro e Martino, tra
chi voleva applicare un’interpretazione rigida, strictu sensu della norma e tra chi, invece, come Martino,
voleva aprire a concetti diversi, concetti legati al diritto canonico, in realtà, vincola e indirizza
l’interpretazione della fonte normativa stessa. L’altra cosa interessante è che Barbarossa ovviamente,
avendo risolto un problema che nel rescritto di Alessandro Severo era visto come non risolto, pretendeva
che la sua costituzione fosse inserita nei libri legales, come un’autentica a margine della costituzione del
rescritto di Alessandro Severo, cioè come una costituzione modificativa, come una novella che modificava il
passo del codice che conteneva i rescritti di Alessandro Severo. Questa sembrava una richiesta anche
naturale, perché in realtà fu la scuola a interpellare l’imperatore per risolvere un problema che il passo del
codice non risolveva. La richiesta dell’imperatore incontrava una notevolissima resistenza perché nei fatti
sembrava difficile pensare per i bolognesi che Giustiniano, figuriamoci qualcun altro modificasse il Codex.
Però, alla fine, questa costituzione di Barbarossa verrà inserita come novella del rescritto di Alessandro
Severo, ma circolerà molto poco e verrà inserita in pochi manoscritti dei libri legales. Verrà inserita a
margine dei rescritti di Alessandro Severo e in alcuni manoscritti di libri feudorum. Alla fine fu accettata, però
con molta ritrosia, nonostante fosse stata la scuola stessa a interpellare Barbarossa per risolvere questo
problema che il rescritto di Alessandro Severo non risolveva.
I GENERI LETTERARI.
Abbiamo detto come era strutturata la lezione bolognese: l’interpretazione letterale del testo, poi abbiamo
visto l’estrazione del caso, quindi anche del principio contenuto nel frammento che si sta analizzando, poi
abbiamo visto che si metteva a confronto il passo con altri passi per dare una visione sistematica all’interno
della compilazione, per risolvere anche le antinomie e poi abbiamo visto che si risolvevano le questioni, cioè
verso la fine delle lezioni il maestro poneva un interrogativo che nasceva da quel passo che si era analizzato
e gli studenti incarnavano due fazioni e davano due soluzioni diverse solitamente e poi il maestro diceva
quale fosse la soluzione più giusta. Era un caso originato dal passo che si stava analizzando. Queste erano le
fasi della lezione bolognese. La prima fase della lezione era principalmente esegetica, cioè
un’interpretazione letterale; poi le lezioni avevano un fine esegetico ma anche sistematico, cioè di porre in
rapporto le varie parti della compilazione. Questo era il percorso seguito per interpretare un frammento
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della lezione. Questo si ripercuote anche sui generi letterari utilizzati da questi glossatori per compiere
questa interpretatio.
Con che generi letterari questi glossatori interpretavano la compilazione giustinianea?
Il genere letterario più diffuso che è l’eponimo della scuola, che dà il nome alla scuola, è quello della
GLOSSA. La glossa è una spiegazione verbale, grammaticale, linguistica, che serviva per facilitare la
comprensione del testo. Solitamente era parola per parola. Si spiegava la parola del frammento che si stava
studiando apponendo un’altra parola. La glossa ha origine antica e ne parla Isidoro di Siviglia nelle sue
Etimologie. Abbiamo visto che ci sono molte glosse pre-bolognesi: le glosse alla Bibbia, ai testi sacri. E’ lì che
si può dire che nasca l’idea stessa delle glosse, nell’interpretazione dei testi sacri. Abbiamo visto che ci sono
glosse pre-bolognesi alla compilazione stessa: glosse di Torino, di Casamari, di Colonia. Sono le glosse
ritrovate in frammenti della compilazione giustinianea, già precedenti a Bologna. La glossa è un genere
letterario comunque antico, pre-bolognese. A Bologna diventa una fonte interpretativa centrale
nell’interpretare la compilazione giustinianea. Noi abbiamo il testo della compilazione giustinianea, abbiamo
il foglio pergamenaceo di cui analizziamo un frammento. C’è il maestro, che ha questo enorme testo della
compilazione giustinianea, con i suoi discepoli attorno, il testo è uno solo soltanto, perché erano costosissimi
questi testi della compilazione giustinianea, quindi il testo è uno soltanto. Graficamente come erano fatte le
glosse? Vi era il testo giustinianeo al centro e poi tutto attorno c’erano le spiegazioni. Le glosse potevano
essere:
- GRAMMATICALI sono le prime glosse. Erano dei brevi chiarimenti a termini e a espressioni che erano
poco chiare e riprendevano la struttura delle glosse altomedievali e pre-bolognesi. Queste glosse erano, il
più delle volte, glosse interlineari, cioè messe così: c’era una parola della compilazione giustinianea, una
singola parola e sopra c’è il significato, la glossa. È la spiegazione. È una parola soltanto. Vi erano glosse
INTERLINEARI, brevi sopra le parole a cui si riferiscono.
Poi si va avanti con l’interpretazione dottrinale che diventa più complessa. A queste glosse da grammaticali
si affiancano le GLOSSE INTERPRETATIVE.
- GLOSSE INTERPRETATIVE  annotazione con contenuto interpretativo, mediante il quale si giunge alla
individuazione dell’istituto o della categoria giuridica descritta nel frammento che stiamo analizzando.
Queste glosse di tipo interpretativo presentano una trattazione più estesa rispetto a quelle grammaticali,
perché hanno proprio il compito, il fine di spiegare l’istituto e queste glosse sono dette GLOSSE MARGINALI,
perché solitamente sono messe a margine del foglio, cioè un richiamo alla parola che si sta spiegando. C’è
una spiegazione più lunga perché non spiega soltanto la singola parola, ma si cerca di spiegare anche l’intero
istituto di cui si sta parlando. Non possono stare sopra la parola, non c’è lo spazio. Sono a margine, nella
parte bassa del foglio. C’è un segnale di richiamo e poi c’è la glossa che spiega. Queste glosse interpretative
hanno una potenzialità maggiore: non solo spiegano il significato grammaticale, ma addirittura spiegano
l’istituto. Possono mettere in contatto il passo che stiamo analizzando con altri passi. All’interno di questa
grossa categoria di glosse interpretative abbiamo le glosse dei similia e contraria, cioè le glosse contenenti
citazioni di passi giustinianei di contenuto conforme o contrario al testo glossato. Questo è uno sforzo
sistematico. Abbiamo queste glosse similia e contraria, che sono una categoria di glosse interpretative, che
contengono e fanno dei richiami a testi, ad esempio giustiniane; che nell’interpretazione del testo che
stiamo studiando, dell’istituto si agganciano ad altri passi della compilazione che hanno contenuto simile o
contrario. È un modo per mettere in comunicazione parti della compilazione.
- SUMMULA altro tipo di glossa interpretativa, che nasce dalla redazione di liste di similia, cioè il
glossatore fornisce una disciplina unitaria, mettendo una lista di passi simili, di passi che disciplinano allo
stesso modo, rispetto al passo che si sta studiando, l’istituto giuridico contenuto in quel passo. Questa è una
raccolta di similia e sono glosse interpretative. Sono glosse interpretative che sono messe a margine, che
possono essere similia e contraria, che possono citare altri passi della compilazione in cui lo stesso istituto
giuridico di cui stiamo parlando ha una disciplina simile o contraria. Le summule, in realtà, sono raccolte solo
di similia in cui si citano passi della compilazione, dove l’istituto giuridico di cui stiamo trattando ha una
disciplina simile ad altri passi. Vi è la stessa disciplina dello stesso istituto giuridico.
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- NOTABILIA  che sono delle annotazioni a margine che con una parola o con una breve frase richiamano
al contenuto immediato del passo per consentire un immediato reperimento del testo, senza dover leggere
il contenuto più ampio. I notabilia sono appunto delle annotazioni in cui si riassume in una parola o in una
frase quello che è contenuto nel passo, sono messe a margine, cosicché il lettore non dovrà leggere tutto il
passo, ma sa benissimo di cosa parla quel passo lì.
Sempre all’interno della categoria delle glosse avremo:
- LE CONTINUATIONES TITULORUM il glossatore convinto dell’armonicità perfetta della compilazione
cerca di spiegare, in queste continuationes titulorum, la successione dei titoli e le ragioni di continuità che
hanno determinato quella disposizione delle materie. Ad esempio, nel titolo che parla dei contratti, lui
spiega perché i contratti sono inseriti nelle obbligazioni, spiega la successione dei titoli perché sono delle
azioni e perché sono messi in quel posto lì. È anche questa una spiegazione in fondo. Si spiega il perché vi è
questa disposizione di titoli all’interno della compilazione.
Sono tutte glosse queste: similia et contraria, summula, notabilia, le continuationes titulorum, sono tutte
spiegazioni che spiegano il singolo testo, che lo interpretano in qualche modo, che lo mettono in rapporto
con altre parti della compilazione. C’è un interesse esegetico, ma c’è anche un interesse sistematico, cioè di
mettere in rapporto le varie parti della compilazione, ma anche in qualche modo di spiegare perché il
legislatore, Giustiniano, ha fatto questa scelta, questa divisione dei titoli: perché i contratti vengono dopo le
obbligazioni, perché un singolo contratto è all’interno della categoria generale dei contratti, che è all’interno
delle obbligazioni. Perché c’è questa successione? Sono tutti modi per spiegare, per i quali è indispensabile il
testo. Sono le glosse che spiegano il testo.
All’interno del genere letterario della glossa un ruolo importante l’ha l’APPARATO, che è un tipo di glossa. Si
evolve con la scuola, nel senso che vi è questo unico testo dei libri legales che sta al centro, che serve al
maestro per spiegare agli allievi che sono attorno a lui e in questo modo il maestro spiega e appone la sua
glossa, la sua spiegazione. Questi testi si tramandano da maestro a maestro, da generazione a generazione e
questi testi si riempiono di glosse che sono il frutto di esperienze di vari maestri che avevano posseduto quel
testo. Quindi si riempiono veramente di glosse e alla fine del 1100-inizio 1200 vediamo che c’è il testo di
Giustiniano al centro e poi è contornato da glosse, da interpretazioni dei vari maestri, in un’opera non
autoriale perché spesso non è presente il nome del maestro, ma un’opera collettiva, che ricopre il testo. Le
interpretazioni ricoprono il testo giustinianeo. L’APPARATO è un genere letterario interno alla glossa, è una
raccolta di glosse. Dei soggetti in un certo momento scelgono (che poi sono gli autori dell’apparato) di
raccogliere alcune glosse e quindi si selezionano alcune glosse e si crea un apparato scelto che in quel passo
mette solo quelle glosse selezionate, non riportarle tutte, ma solo quelle selezionate. Questo è un apparato.
L’APPARATO è un genere letterario interno alle glosse. È una raccolta di glosse scelte. La più importante è la
MAGNA GLOSSA ACCURSIANA, quando alla fine delle quattro generazioni di glossatori, quasi a porre fine alla
scuola di glossatori, Accursio farà questo apparato che diventerà l’interpretazione ufficiale della
compilazione giustinianea e raccoglierà lui queste 96.000 glosse. Fa una raccolta scelta: sceglierà delle
glosse e sceglierà una tra le varie interpretazioni in quelle glosse. Quindi la magna glossa accursiana
diventerà la glossa ordinaria, quella che, con le dinamiche di meta-testo, entrerà a far parte della
compilazione giustinianea, diventandone l’interpretazione ufficiale. A parte l’apparato più importante che è
quello accursiano, l’apparato è un genere letterario. Capitava che degli autori, per porre fine alla
alluvionalità delle glosse, ne scegliessero qualcuna e facessero un apparato di glosse selezionate. Quello che
chiamiamo autore in realtà non è autore, perché non ha niente di autoriale, di nuovo; in realtà è colui che
raccoglie queste glosse.
Questo è il genere letterario della glossa. Dunque abbiamo:
- LE GLOSSE LETTERALI  che richiamano fortemente le glosse preirneriane, quelle alto-medievali. Sono più
semplici e spiegano grammaticalmente, linguisticamente una parola, sono poste sopra una parola e la
spiegano; e sono glosse solitamente interlineari, poste tra un rigo e l’altro del testo.
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- LE GLOSSE INTERPRETATIVE  danno una interpretazione del testo, sono marginali, sono poste a margine
e c’è un richiamo, a margine del foglio, in cui c’è questa glossa interpretativa, in cui appunto si interpreta il
testo con analisi profonda, che ha un carattere esegetico (di spiegazione) e sistematico, perché si spiega
l’istituto contenuto in quel frammento che si sta studiando, però hanno un carattere sistematico, perché tra
le glosse interpretative rientrano le similia et contraria, le summule, che mettono in rapporto il frammento
che si sta studiando con altri frammenti, con altri passi della compilazione che hanno una disciplina simile
rispetto a quell’istituto giuridico di cui il passo che si sta studiando parla.
Possiamo citare anche dei passi con l’interpretazione contraria. Il più delle volte ci troviamo di fronte a
summule, a raccolte di citazioni di passi che hanno un’interpretazione simile. È un modo per mettere in
rapporto varie parti della compilazione, è un modo per descrivere questa idea organicità. Spesso si spiegano
queste differenze di trattamento previste nei vari passi della compilazione, si spiegano e torna quella idea di
organicità della compilazione. Per facilitare la lettura abbiamo i NOTABILIA, che hanno carattere esegetico e
che sono glosse interpretative, che descrivono a margine il contenuto di quel passo che si sta studiando, lo
riassumono. Non c’è bisogno di leggere tutto il passo. Così come le continuationes titulorum che servono a
spiegare il perché c’è questa distribuzione. Quindi all’inizio di ciascun titolo, in cui è divisa la compilazione,
servono a giustificare la successione al precedente, perché è messo lì quel titolo, il legame con i titoli
precedenti e successivi. Serve per dare un ordine. È un modo per ordinare la compilazione. L’apparato, poi,
abbiamo visto è una raccolta scelta di glosse, perché solitamente avveniva che vi era un libro in cui era
contenuto il passo che si stava studiando, il maestro metteva le glosse, le sue spiegazioni e poi il libro veniva
tramandato di generazione in generazione e ciascun maestro metteva le sue spiegazioni. Vi era una
alluvionalità di queste glosse. Poteva capitare che qualcuno decidesse di scegliere, rispetto ad un passo della
compilazione, alcune glosse e trascrivere quelle, tralasciandone altre. Quindi, salvava alcune interpretazioni,
tralasciandone altre. Questi sono generi letterali che presuppongono il testo.
Ma accanto a questi generi letterari se ne affiancano altri, che non nascono a Bologna, ma in scuole minori
in cui i maestri bolognesi vanno a insegnare e che si diffondono in tutta Europa, in cui si diffonde il metodo
bolognese. Dette scuole minori rispetto a Bologna, ma erano molto importanti proprio perché ospitavano
docenti formatisi alla scuola di Bologna. I generi letterari che nascono nelle scuole minori e arrivano a
Bologna, e sono generi letterari diversi dalla glossa. Sono sempre dei metodi interpretativi della compilazione
giustinianea, ma sono generi letterari diversi e che hanno in comune l’idea di non riportare per forza il testo,
ma di darlo per presupposto. Queste opere si diffonderanno molto per la loro agilità. Il loro l'obiettivo era
quello di fornire a scolari e professionisti agevoli chiavi d'accesso a Giustiniano e instaurarono la moda delle
esposizioni sistematiche complete ma semplici e rapide: le SUMME. La summa, secondo Calasso, che è uno
dei più grandi storici del diritto del ‘900 italiano, è una trattazione sistematica e completa di un’intera parte
della compilazione, quindi un’esposizione organica ed esauriente delle materie contenute in una parte della
compilazione. La summa, la quale, adottata in Italia da canonisti e da longobardisti, si sviluppò molto nelle
prime scuole civilistiche in Francia. Le summae generali ebbero ad oggetto solitamente il Codex o le
Istituzioni. Con la summa non si ricorre ad un’esegesi testuale ma ad una riformulazione con nuovi costrutti
linguistici, e anche ad una nuova risistemazione concettuale della materia normativa. La summa si stacca
completamente dalla glossa e dal testo stesso. È, dunque, una sintesi e una trattazione sistematica e, al
contempo, sintetica di una parte della compilazione. Anche la scuola di Bologna non era indifferente a
questa organizzazione sistematica, ma la perseguiva con altri generi: le continuationes titulorum, oppure con
le distinctiones, un genere che prevedeva, in singole materie, la classificazione delle fattispecie normative
scendendo dalle più generali a quelle più specifiche in una serie di suddivisioni successive che obbedivano
alla regola logica secondo la quale la species può derogare al genus.
Avremo moltissime summe al Codex: una summa importante è quella di Piacentino, summe dei libri del
codice fatte da Pillio. Sono delle trattazioni. Nello specifico, Piacentino arrivò in Italia verso il 1162-1164
adottando la summa Codicis di Rogerio per i propri corsi per poi mandarla in desuetudine, creandone una
propria. Piacentino compose una Summa istitutionum: nel suo proemio spicca una dichiarazione polemica
nei confronti delle arti liberali che non quadra affatto con quanto si sa della mentalità del Piacentino. In
realtà, si tratta di un'invettiva nei confronti di un grammatico da non confondere con un attacco alla
grammatica, in quanto egli si dilettava a citare Ovidio, Lucano e Virgilio anche in discorsi tecnico-giuridici.
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BOX  questo proposito va ricordato un episodio: dopo un prolungato soggiorno a Montrepellier, tornò a
Piacenza e poco dopo si trasferì a Bologna. Il suo insegnamento ebbe tale successo che i suoi colleghi
finirono per detestarlo e gli chiesero di pronunciare un sermo sulle leggi. Piacentino affrontò l’argomento,
ritenuto scontato, in modo inconsueto e con evidenti intenti provocatori. Costruì il solito proemio retorico,
inventando un incontro con due donne: una giovane e bellissima, che incarnava l’Ignoranza; l’altra vecchia e
bruttissima che, invece, incarnava la scienza legale. La prima predicava lieta che lo studio delle leggi, oltre a
essere inutile, imbruttisce; la seconda controbatteva che a far nulla si butta via il tempo e non si colgono
frutti. I legami di Piacentino con la cultura delle arti liberali lo inducevano ad attingere dal patrimonio
filosofico delle arti stesse. Infatti, era usuale dire che scopo delle leggi fosse il conseguimento della virtù, ma
era del tutto eccezionale individuare la virtù, come fa appunto Piacentino, nella triade castità-liberalità-
coraggio, dichiaratamente tolta dall’Ethica vetus di Aristotele. Per definire la giustizia, Piacentino non si
accontenta della formula ulpiane, ma si rivolge alla tradizione platonica in cui la giustizia viene descritta
come la virtù che più giova a chi può meno.
Il taglio dei tradizionali ormeggi a questa sapienza delle arti non era in realtà cosa da scuole minori, ma si
verificherà a Bologna per mano di Azzone che rivendicherà l’autosufficienza del diritto. In una quaestio
criticherà Piacentino, legato alla vecchia ed enciclopedica cultura delle arti. La rivendicazione
dell'autosufficienza del diritto e delle sue tecniche aprirà la strada alla pretesa di condensare nel diritto la
nuova cultura del mondo comunale, una cultura autarchica e onnicomprensiva, una sorta di nuova filosofia
adatta alla figura del cittadino dedito ai traffici e partecipe della politica.

Summe ai Digesta ce ne saranno molto poche perché per la materia stessa è difficile riassumere i Digesta o,
quanto meno, offrirne una trattazione sistematica e anche una sintesi: si tentarono delle summulae di singoli
titoli. Mentre del Codice e delle Istituzioni si fanno queste summe di carattere scientifico, all’interno della
scuola di Bologna. La visione del testo è quella: qui non si sta a corrompere il testo giustinianeo, il quale è
dato per preposto. Viene superato nel senso che queste opere si staccano con una loro autonomia rispetto
ad esempio al codice e alle istituzioni, Le summe, cioè queste trattazioni sistematiche e sintetiche del codice
e delle istituzioni, sono delle opere che si distaccano dal testo giustinianeo, ripropongono la materia trattata,
quella parte della compilazione e del codice viene riproposta, ma con una visione linguistica nuova, con un
intento di sintesi, per essere realmente un prontuario. È tipico delle scuole minori e queste summe nascono
specialmente in Provenza e arrivano anche a Bologna con un genere letterario che, poi, si imporrà anche a
Bologna. Queste summe si diffondono molto perché sono dei testi molto più agili dei libri legales, del Codex,
delle Istituzioni, meno costosi che possono girare, ma in realtà sono una riscrizione, una datazione
sistematica. L’autore ridistribuisce la materia contenuta nel Codice e nelle Istituzioni. L’integrità e la sacralità
del testo è un’altra cosa, qui c’è un’altra opera in cui verrà fatta una sintesi del Codex, delle Istituzioni in
maniera scientifica. È un genere letterario che serve per spiegare la compilazione in testi più agili che si
staccano dalla compilazione stessa. Questo è l’aspetto più importante: si staccano dal testo, hanno una loro
indipendenza dal testo. È una spiegazione che presuppone la conoscenza, l’integrità del testo giustinianeo
etc., vi sono richiami puntuali a parti della compilazione, ma viene riscritta la summa codice, la summa
istituzione. Viene ridistribuita la materia contenuta in quella parte della compilazione giustinianea di cui si fa
appunto la summa, una trattazione sistematica seppur sintetica che nasce nelle scuole minori.

La successione delle summae provenzali del Codice e delle Istituzioni nel corso del XII sec. è impressionante.
In Provenza insegnò anche Rogerio che cominciò a scrivere la sua Summa Codicis. Non riuscì però a finirla, e
quando morì, lasciandola interrotta, si completò la parte mancante con quella della Trecensis (che Fitting
aveva prima pensato fosse di Irnerio, ma poi l’autore si è rivelato essere Geraud). In qualche scuola della
regione si giunse a redigere una summa Codicis in lingua provenzale conosciuta sotto il semplice titolo di Lo
Codi. Fu subito portata in Italia e Riccardo Pisano ne curò la traduzione latina, il che dimostra come la
letteratura del mezzogiorno francese passasse le Alpi e come fossero saldi i legami culturali tra Provenza e
Toscana.
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Un altro genere letterale molto importante è il genere della QUAESTIO, è un genere che ci spiega
l’evoluzione della scuola, è un passaggio fondamentale della scuola. Il presupposto è l’approccio critico a
Giustiniano che imponeva di passare dalla mera comprensione del testo alla discussione degli interrogativi
che le fattispecie normative prospettavano. Ogni scienza comincia da un quaerere, un perché. La quaestio
nasce come figura didattica che contribuì al progresso della scienza, in cui si ponevano le questioni, degli
interrogativi che poneva il maestro e poi i discenti di grandi fazioni davano due possibili soluzioni suffragate
da fonti giustinianee. C’è chi sosteneva la propria teoria per risolvere quel problema o quella questione e la
sosteneva con fonti giustinianee; e poi c’era l’altra fazione che sosteneva una propria teoria suffragata
appunto da altre fonti giustinianee, magari contrarie a quelle dell’altra fazione e poi il maestro dava la sua
soluzione di questo problema. Dunque si partiva dall’interrogativo posto da un casus dubbio, e si
opponevano due gruppi con argomenti contrari dai quali doveva dedursi la solutio.
La quaestio ha una sua evoluzione come genere letterario. La raccolta di quaestiones viene messa per
iscritto. All’inizio nasce a Bologna, a differenza della summa che si presume nasca nella zona francese. La
quaestio nasce già nel periodo di Bulgaro, quindi nel primissimo periodo bolognese in cui si discutevano testi
giustinianei discordanti per metterli d’accordo: e ai tempi di Bulgaro c’era una quaestio semplice che,
avendo finalità sistematiche ed esegetiche delle leges, fu detta legittima, in cui il caso in cui il casus da
risolvere veniva tratto dalla compilazione giustinianea: veniva tratto un problema e poi si cercava la
soluzione. Poi, con l’evoluzione della scuola, abbiamo la quaestio de facto, in cui la questione da dibattere
era inventata dal maestro, mettendo a fronte due gruppi di fonti normative prese come argumenta contrari,
e a cui la compilazione non dava risposta, ma faceva sì che discenti si dividessero in due fazioni (una fazione
difendeva la tesi, l’altra argomentava quella opposta) e poi il maestro, che guidava il dibattito, dava la
soluzione definitiva. Ebbe successo, nonostante venisse fatto fuori dalle ore di lezione, di solito il sabato,
perché era uno specchio del processo e dell’argomentare opposto delle due parti opposte con il giudice che
dirige e dà la solutio in forma di sentenza.
Un passaggio fondamentale, tra la fine del 1100 e l’inizio 1200, fu il passaggio della quaestiones ex facto
emergentes, cioè questioni che venivano tratte dalla realtà giuridica contemporanea. Quindi potevano
essere tratte da una sentenza contemporanea, o da altre fonti che non erano fonti giustinianee ma tratte, ad
esempio, dagli statuti comunali, dalle consuetudini feudali. Attingere dalla prassi significava inevitabilmente,
imporre di confrontarsi non soltanto con le vecchie leges di Giustiniano, ma con statuti, consuetudini,
capitoli barbarici, costituzioni di re e imperatori coevi e canoni della Chiesa, ossia con tutte le norme a
qualunque titolo vigenti che erano necessariamente richiamate nei processi. La solutio, solitamente, era
interna alla compilazione giustinianea. Con la quaestio arriviamo al livello massimo di interpretazione
analogica, perché riguarda anche un quesito non è disciplinato dalla compilazione giustinianea la quale dà
una risposta a questa interpretazione. Le quaestiones ex facto emergentes è un modo decisivo per inserire la
compilazione nella prassi, nel diritto vivo, nel diritto contemporaneo del 1200 e furono lo strumento più
idoneo per costruire il ponte tra le aule scolastiche e i tribunali. Quando le questioni vengono tratte dalla
prassi vivente, esistente, a questo punto realmente il diritto giustinianeo entra definitivamente nella prassi.
È un modo per aprire la scuola ad altre fonti e applicare la metodologia della compilazione giustinianea ad
altre fonti. È un modo per creare un ponte tra la scuola e la prassi perché la questione dibattuta si traeva da
fonti diverse dalla compilazione giustinianea: poteva essere una sentenza, uno stato comunale, poteva
essere una consuetudine feudale che davano luogo a questioni, interrogativi che non venivano direttamente
risolti, a questo punto l’interprete che fa? Va a cercare la risposta nella compilazione giustinianea. È un
genere letterario più rilevante, è quello che ci spiega meglio l’evoluzione della scuola, l’apertura della scuola
alla prassi vivente, al diritto vivente, l’inserimento della scuola nella prassi. Ci sono tantissimi autori
bolognesi, anche di scuole minori, che faranno anche raccolte di quaestiones: le quaestiones auree di Pillio
che insegnerà a Modena o le quaestiones sabatine di un altro grande giurista che è Roffredo di
Beneventano, che insegnerà ad Arezzo. Sono giuristi che si sono formati a Bologna e poi vanno a creare altre
scuole. Questo genere letterario delle quaestiones avrà molto successo in queste scuole, offrendo agli
studenti delle scuole minori che vogliono e hanno bisogno di un approccio più rapido alla professione legale.
La scuola di Bologna in confronto alle scuole minori è molto più formale. Gli studenti delle scuole minori
hanno bisogno di un’istruzione più rapida che gli dia un accesso più rapido alla professione legale. Vi
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saranno summe, raccolte di quaestiones, cioè raccolte casistiche in cui c’erano i casi che, dalla fine del 1100
all’inizio 1200, casi anche a loro contemporanei, dibattuti nei tribunali. Avevano un apporto pratico molto
rilevante. La quaestio ha un grosso successo: è un genere letterario che avrà un significato notevole.

Le quaestiones piacevano al cremonese Giovanni Bassiano che fu tra i primi ad utilizzarla nel corso della
lezione. Aperto alla prassi, esperto nelle arti liberali, fu il primo maestro a professare in utroque iure.
Restano comunque molte perplessità sul fatto che sia stato un vero professore canonista. Egli, piuttosto,
mostra affinità intellettuali con Pillio di Medicina. Questi doveva per forza condividere con Giovanni il gusto
per le quaestiones ex facto emergentes. Mentre del cremonese si conosce una silloge di quaestiones
limitata quantitativamente, invece Pillio lanciò una collezione estesissima che diventò un testo definitivo
tanto da diventare manuale didattico adottato persino a Bologna.

Un genere letterario gemello della quaestio che ebbe molto successo all’interno dell’insegnamento che, a
quanto pare, garantiva un apprendimento più rapido per i ragazzi è quello del brocardo. Il brocardo, il cui
termine deriva dalla funzione del brocardo stesso, è l’estrazione di una massima (principio generale) tratta
dalla compilazione giustinianea a cui si affiancavano dei passi pro (che suffragavano questa massima) e dei
passi contra (che contraddicevano la massima). Poi alla fine capitava che potesse essere data la soluzione,
anche se non era essenziale al genere originario anche se poi si ritenne utile per ristabilire l’immagine
armonica dell’ordinamento, cioè se fossero prevalenti i passi pro o i passi contra, che fossero più ragionevoli
se la massima fosse stata più veritiera quindi fossero più ragionevoli i passi pro rispetto ai passi contra. Il
brocardo, però, era un metodo di insegnamento, in cui si estraevano le massime della compilazione, tanto
che si parla di metodo brocardico: si trattava di un metodo di studio che puntava sul ragionamento anziché
sulla memoria, e Pillio si diceva sicuro che avrebbe abituato rapidamente gli studenti al dibattito sui principi
e alla tecnica dell'argomentazione, rendendoli idonei in 4 anni (anziché in 10) ad ottenere l’ammissione nelle
aule dei tribunali. Gli studenti imparavano quelle e ragionavano su quelle e poi venivano affiancate dai passi
pro e dai passi contra rispetto alla massima tratta da un passo che si stava studiando. I brocardi costituiscono
anch'essi un genere letterario non bolognese; vi furono serie di brocardi, oltre che canonistici, persino
longobardistici e la loro nascita al mondo del diritto va posta in quelle scuole minori che restarono
particolarmente legate alla cultura delle arti liberali. A quanto pare, il grande innovatore di questo metodo
fu Pillio della scuola bolognese che innovò lo studio a Bologna e poi lo portò a Modena, dove andò a
insegnare.

Dal metodo brocardico nacque una tecnica argomentativa esclusivamente giuridica; sfocerà nella specialità
nuova della catalogazione dei modi arguendi. Li si chiamava anche loci perché avevano sede tutti in qualche
parte del Corpus Iuris. C’erano argomenti che autorizzavano deduzioni delle quali la più rilevante è quella dal
simile al simile; quest’ultimo sarà l’argumenta principe perché vi si collocherà il procedimento analogico. Di
questi argumenta si faranno collezioni, rappresenteranno un nuovo genere letterario tra scienza e prassi.

RIEPILOGO DEI GENERI LETTERARI.


Sui generi letterari abbiamo vista la glossa, che è il genere letterario più importante. Le glosse possono
essere: letterarie (più brevi, spiegazione letterale) e interpretative (anche loro hanno un carattere esegetico,
di spiegazione, però più complesse, graficamente più grandi). Le glosse grammaticali sono interlineari,
mentre le glosse interpretative sono marginali, cioè sono poste a margine nel foglio di pergamena. Le glosse
hanno un intento esegetico ma all’interno delle glosse interpretative possiamo avere un intento sistematico:
si pongono in relazione varie parti della compilazione. Abbiamo visto le glosse interpretative denominate
similia et contraria, le summule, i notabilia, le continuationes titulorum che mettono in rapporto varie parti
della compilazione, semplificano l’apprendimento perché spiegano il contenuto di un intero passo, oppure
spiegano perché un titolo della compilazione all’interno del codice, delle istituzioni, dei Digesta è messo lì,
spiegano il rapporto con i vari titoli. Servono a restituire armonicità all’interno delle varie parti della
compilazione, ordine. Hanno un carattere esegetico, ma anche sistematico. Devono dispiegare la sistematica
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all’interno delle singole opere, ad esempio le continuationes titulorum, ma anche, per esempio le summule,
di superare le antinomie evidentemente, citando tutti quegli altri passi della compilazione che danno una
disciplina simile a quell’istituto giuridico trattato in quel passo che si sta studiando. Poi c’è l’apparato, che ha
anche un intento ordinante perché veramente sta a ordinare e l’autore raccoglie le glosse scelte e il
manoscritto passa da maestro a maestro. Dunque, nell’apparato vi è un soggetto che sceglie di fare una
raccolta di glosse e il componimento più importante di glosse era la magna glossa accursiana. Poi abbiamo
parlato degli altri generi letterari: mentre le glosse e le varie sottocategorie di glosse presuppongono il testo,
sono messe sul testo giustinianeo, c’erano generi letterari che si staccano dal testo che sono: le summe, che
davano trattazione in modo sistematico, completo, offrono una sintesi di un’intera parte di compilazione:
summa al codice, summa alle istituzioni. Hanno questo compito. Poi abbiamo visto le quaestiones, le quali
segnano veramente l’apertura della scuola nei confronti della prassi e abbiamo la quaestio legittima che era
tratta appunto esclusivamente dalla compilazione giustinianea, la ragione del quaerere era tratta dalla
compilazione giustinianea; la quaestio de facto in cui la quaestio veniva inventata dal maestro e le
quaestiones ex facto emergentes, che vengono tratte dalla realtà contemporanea. Vi era una sentenza di
particolare rilievo o dal diritto di altre fonti, come gli statuti comunali, il diritto feudale, il diritto
commerciale. Quindi aumentano gli statuti delle arti e delle professioni. Anche da queste fonti normative
può essere tratta una ragione, un quaerere, una questione, che non veniva direttamente risolta e poi veniva
risolta attraverso la compilazione giustinianea. La soluzione veniva tratta da lì. Questo mette in rapporto la
compilazione con la prassi e la scuola con la prassi. Questi generi letterali avevano molto successo nelle
scuole minori, in cui questo rapporto con la prassi è veramente molto vivo. Poi un altro genere letterario
molto importante è quello del brocardo, che è un genere letterario gemello della quaestio, in cui c’era una
massima della compilazione giustinianea e veniva posta a fianco di quelle fonti che suffragano e sostengono
quella massima e fonti, sempre tratte da altri prassi della compilazione giustinianea, che contraddicono
quella massima. Varie parti della compilazione offrono risposte diverse rispetto agli stessi istituti perché
rispecchiano momenti diversi del diritto romano. Può accadere che quella massima venga suffragata o che
venga smentita e poi, alla fine, poteva accadere che venisse data la soluzione sempre per superare anche
qui l’antinomia, sempre per dare quella immagine di armonia interna alla compilazione. Pillio, che insegnò a
Modena, fece un’opera molto importante, il Libellus Disputatorius, che raccoglie brocardi e lui lo usò per
l’insegnamento.
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Lezione 17/11/2021

Regno

Possiamo affrontare il discorso del regno, perché il diritto romano giustinianeo, così come lo aveva
risistemato Irnerio, con il suo apparato di glosse (glossa vuol dire “lingua” in greco), cioè il testo del diritto
romano interpretato, adattato, cioè reso capace di parlare, di dialogare anche con persone che agiscono e che
devono sistemare situazioni giuridiche molto differenti da quelle in uso quando Giustiniano fa la sua
compilazione.

La glossa è la lingua, lo strumento che consente al testo giustinianeo di farsi capire, di essere adattabile alle
nuove situazioni.
Quindi diritto romano con l’interpretazione + diritto canonico (cioè il decretum di Graziano
- che comincia a essere insegnato nelle scuole.
- Ha questo grande successo perché è un manuale scolastico- universitario.
- Non è un’opera ufficiale, ma gode di quell’accreditamento che proviene dalla fama dell’opera
stessa).

Poi le compilazioni che, con carattere di ufficialità, si aggiungono su tutto il Liber Extra vanno anch’esse
glossate
- con gli apparati di note,
- con la scienza giuridica che si sforza di armonizzare le previsioni del diritto canonico con quelle del
diritto romano.
Sono 2 ambiti differenti che in qualche modo diventano complementari, si muovono insieme, fanno quello
che i giuristi chiamano “ius commune” (diritto comune).

Lo ius commune è un diritto che si intende comune a tutti, cioè


- che si può utilizzare in ogni circostanza
- e che contrapponiamo logicamente e concettualmente con un diritto che comune non è, cioè un
diritto comune e un diritto proprio (ius proprium) proprio di qualcuno. Chi è questo qualcuno? È
una categoria di persone

 Abbiamo esempi di ius proprium su base personale per esempio il diritto feudale, il diritto dei
mercanti: i mercanti hanno un loro diritto.
Lo Ius mercatorum è un dritto che possono usare solo i mercanti, quindi è specifico di una
categoria di persone.

 Poi abbiamo esempi di ius proprium su base territoriale: tutti i soggetti che stanno in quel
determinato ordinamento territoriale hanno questo diritto.
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Ius proprium e ius commune:


- stanno insieme, non sono contrapposti non tanto in base a un principio di gerarchia delle fonti,
perché quello è un concetto troppo moderno.
(Se noi parliamo di gerarchia delle fonti abbiamo in testa un concetto che non è quello medievale.
Certo la gerarchia delle fonti c’era, ma era un po diversa e soprattutto molto variabile).

- stanno insieme perché lo ius commune ha l’autorità delle dignità che se ne sono fatte garanti, cioè
l’impero e il papato.
Sono diritti che
a) pretendono di essere universali
b) e entrambi sono considerati sempre vigenti nel Medioevo.

Il diritto romano giustinianeo


- è un diritto che i medievali considerano vigente (perché mai abrogato)
- è un diritto che semmai viene integrato con le norme dei nuovi imperatori (ma non è mai abrogato).

Il diritto romano viene abrogato nell’800 con l’entrata in vigore dei nuovi codici:
- in Francia nel 1804 con il code Napolèon
- nel regno delle 2 Sicilie nel 1819 con il codice per il regno delle 2 Sicilie

Questo
- non vuol dire che in tutti questi secoli si giudicava in base al diritto romano,
- ma vuol dire che i principi che servivano ai giuristi potevano anche essere presi dalla compilazione
giustinianea o dalle interpretazioni del Corpus iuris e lo stesso valeva per il diritto canonico, per le
compilazioni che poi diventeranno il Corpus iuris canonici.

La differenza tra i 2 diritti è che


- il diritto giustinianeo è chiuso, atemporale non è + un diritto positivo, viene positivizzato
dall’interpretazione dei giuristi, ma non è un diritto positivo.

- il diritto canonico è il vero diritto positivo dell’età medievale e anche dell’età moderna, anche se
nell’età moderna si affiancheranno altre legislazioni.
Il diritto canonico interviene nelle materie in cui viene divisa ogni compilazione di decretali cioè
1) iudex
2) iudicium,
3) clerus
4) connubia
5) crimen

le 5 grandi aeree di interventi del diritto canonico, quelle dove il diritto romano è + carente, quindi
tutta la parte del processo e delle procedure, la regolamentazione della vita degli enti ecclesiastici, la
materia matrimoniale (attraverso la quale il diritto canonico entra nella vita dei laici) e la materia del
diritto penale (fondamentale il crimen) quel momento in cui il peccato e il reato (che sono
considerate 2 entità sempre + distinte) hanno punti di contatto.
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La Chiesa si appalta quella materia che il diritto romano non aveva approfondito.
C’è un accenno nei Libri Terribiles del Digesto, però in realtà il diritto penale, così come passa nell’età
moderna, le legislazioni, che poi saranno le legislazioni laiche, è creazione della Chiesa, del diritto canonico.
Quegli ambiti sono utilizzabili, spendibili in tutta la cristianità.

Questa circolazione del diritto è fondamentale perché il mondo del diritto parla un’unica lingua quella latina,
a prescindere dai luoghi dove questa lingua viene utilizzata
Noi abbiamo una grande circolazione di idee, di testi, di interpretazioni e di opinioni vastissima perché tutti i
giuristi, anche quelli che lavorano nelle istituzioni di diritto proprio (es in Sicilia questi giuristi lavorano a
corte) hanno studiato quel diritto, quindi la formazione è la stessa.
Es. voi che studiate giurisprudenza a Palermo, andate a studiare a Milano: il diritto è lo stesso, la lingua è la
stessa.

Il diritto proprio dove interviene? Va a disciplinare ordinamenti particolari.


Quali sono questi ordinamenti particolari? Innanzitutto i regni, le monarchie che a partire dalla fine del XI e
poi dal XII si strutturano in Europa, quali? La monarchia inglese, normanna.
Nel 1066 Guglielmo il conquistatore
- va in Inghilterra dalla Normandia (dalla parte continentale della Francia)
- e sconfigge i Sassoni e inizia la monarchia normanna di Inghilterra

Francia

La Francia è una monarchia molto antica.


Carlo magno, morendo, divide il regno tra i suoi 3 figli e lì si ha un progressivo consolidamento e espansione
della monarchia francese.

Penisola Iberica

Nella penisola iberica


- rimane per molto tempo la presenza araba,
- ricomincia la “reconquista” tra XI e XII secolo
- e si completa la conquista con Ferdinando e Isabella alla fine del 400.

La struttura della monarchia iberica→ è una monarchia composita in cui


- varie entità si confederano sotto la Corona d'Aragona
- e il re non è il re d'Aragona, ma è il re di Valencia, Maiorca, conte di Barcellona ecc..

Col matrimonio di Ferdinando e Isabella si uniranno le corone di Castiglia e Aragona e nascerà la Spagna.
Ma in tutto il medioevo è una cosa molto strana questo regno: la Sicilia entrerà in un certo momento a far
parte della Corona d'Aragona, ma rimarrà regno di Sicilia
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Regnum Siciliae

L'altro grande regno è il Regnum Siciliae. (Regno di Sicilia)


- La denominazione "Regno delle due Sicilie" è molto più tarda.
- Si chiamerà Regnum Siciliae (cioè Regno di Sicilia) per la maggior parte della sua plurisecolare
storia.

Palermo è fin da subito capitale del regno.

Il regnum è un unicum assoluto nella civiltà occidentale europea.


Questa unicità e straordinarietà è conosciuta da tutti, ma sconta uno strano pregiudizio di realtà periferica.
In realtà la Sicilia nei secoli del Medioevo non è periferica ma centrale,
- non solo per la sua posizione geografica,
- ma perché è un luogo di elaborazione politica con contatti straordinari con il resto d'Europa e con la
monarchia francese, inglese e con tutta l'area dei sultanati del Nordafrica: regno di Gerusalemme,
l'impero d'Oriente ecc…
La sperimentazione giuridica che viene fatta in questa realtà del regno merita la nostra attenzione.

Questa prima immagine che vedete è uno dei nostri documenti in pergamena su cui stiamo facendo questo
progetto di cui vi parlavo con l'università di Palermo e di Oxford e vedete che è un documento bilingue non
si legge bene: la parte inferiore è una scrittura araba, la parte superiore è latina.
Questo è il simbolo di una formazione multiculturale.
È un documento pubblico, cioè viene fuori dalla cancelleria del re.
Quindi abbiamo una cancelleria, un ufficio preposto a fare documenti ufficiali che vengono dalla corte del re
che scrive in 2/3 lingue.
Io ho scelto un latino-arabo, abbiamo molti latino-greci e molti greco-arabi, qualcuno trilingue.
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Questa è un immagine simbolica, è anche una vera pergamena abbiamo questi documenti all’archivio di
Stato, alla biblioteca regionale, al museo diocesano di Palermo, alla Cappella Palatina e poi in vari archivi
diocesani della Sicilia: Cefalù, Catania, Agrigento…

La parola che identifica la Sicilia medievale è "varietà".


Perchè la centralità mediterranea fa sì che, in un'epoca di grandi mobilità, la Sicilia è centrale.
Che vuol dire che nel XII secolo la Sicilia è multiculturale? La Sicilia
- prima è Fenicia,
- poi diventa romana
- e all'inizio del Medioevo diventa ostrogota.(Teodorico, re degli ostrogoti, si annette la Sicilia nel 493)

 Fra IV e V secolo procede la cristianizzazione dell'isola.

 Quando, con la guerra greco-gotica, Giustiniano prova a riconquistare i territori d'Occidente, nel 554
riconquista tutta l'isola (quindi la Sicilia da ostrogota diventa bizantina).
E Giustiniano la considera un luogo fondamentale per muovere alla riconquista dell'Africa mediterranea.
Diventa un luogo strategico, uno dei caposaldi della presenza bizantina in Occidente e questo in parte spiega
un carattere spiccatamente insulare.

 Nella penisola arrivano i Longobardi, ma la Sicilia rimane bizantina.


Nella parte meridionale i Longobardi fondano il ducato di Spoleto e il ducato di Benevento che diventa il
cuore della Longobardia meridionale.
- La Campania, la Puglia e in parte la Calabria sono longobarde
- la Sicilia è bizantina. È talmente bizantina che tra il VII e VIII secolo la Chiesa Siciliana abbandona
l'obbedienza romana e viene posta sotto l'obbedienza del patriarca di Costantinopoli, quindi abbiamo
una chiesa che si bizantinizza precocemente.
Ancora oggi (al Martorana ad esempio) abbiamo paesi e chiese in cui si celebra in base al rito greco-ortodosso.

 Tra l'827 e il 976 la Sicilia è conquistata dagli arabi.


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La conquista della Sicilia è abbastanza tarda per l'espansione dell'islam.


L'espansione islamica inizia dopo la morte di Maometto.
Il primo califfo che è Abu Bakr che è il suocero di Maometto
Inizia l'espansione dell'islam su 2 fronti:
- da un lato cerca di andare verso Bisanzio,
- dall'altra si espande verso Oriente, verso la Persia (verso l'Iran per intenderci).

Nel 643-644 dall'Egitto inizia l'espansione verso il Maghreb (quindi verso l'Africa settentrionale).

Nel 711 viene conquistata Gibilterra.


La conquista della penisola iberica è velocissima.
Considerate che la battaglia di Poitiers (è sui Pirenei, alle porte del regno di Francia) quella vinta da Carlo
martello è del 723 quindi, in poco più di 10 anni, tutta la penisola iberica è musulmana.
Quando già tutta la Spagna è musulmana, dall'Egitto partono le prime spedizioni contro la Sicilia ed è una
conquista lunga e non ci stanno moltissimo tempo per conquistarla tutta.
Cioè conquistano dall'827, a poco a poco le città cadono e dal 910 la Sicilia diventa un califfato indipendente
si stacca formalmente dal Cairo
Diventa uno dei centri di potere del dar al-islam che vuol dire “paesi di stretta osservanza musulmana”
(parte dell’islam).

Gli studiosi calcolano che più di metà della popolazione si converta all'islam
Le modalità di conquista militare dei territori da parte dei musulmani non obbligano la conversione.
La conversione non è mai imposta, è sempre considerata un atto volontario.

Chi non si converte all'islam può continuare a osservare la sua religione, ma con un regime giuridico
speciale: il regime della Dhimma che è una protezione speciale che viene accordata agli uomini del libro:
le religioni del libro sono la religione cristiana, ebraica oltre a quella coranica.
Sono le 3 religioni monoteiste che hanno il libro sacro.
La specialissima protezione che l'islam accorda agli uomini del libro (cioè cristiani e ebrei) di potere
continuare a osservare la propria religione, sotto la Dhimma, sotto la protezione.

Lo status di "dhimmi" (cioè di "sottoposti alla Dhimma") è uno status di soggezione, bisogna pagare una
tassa che si paga per la religione diversa dall'islam e i dhimmi devono avere tutta una serie di limitazioni:
non possono avere cariche pubbliche, devono stare in alcuni luoghi
Quindi
- è vero che ognuno può professare la sua religione
- ma è anche vero che bisogna accettare una condizione di sottomissione a alcune regole precise.

Il pagamento di questa tassa che viene chiamata "gizia" consente il mantenimento, anche in Sicilia, di
qualche forma di cristianità organizzata.
Non abbiamo testimonianza, ma sappiamo che questa è la regola.
Che sappiamo del periodo musulmano? Le fonti sono solo cronache di viaggiatori che arrivavano in Sicilia e
descrivevano l'isola e attraverso queste cronache arabe noi siamo informati, non abbiamo altre testimonianze.
Dell'epoca araba abbiamo pochissime emergenze archeologiche.
Quelle più celebri non sono del periodo musulmano, ma del periodo normanno.

Normanni
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Arriviamo ai normanni. Chi sono questi normanni?


- Intanto non sono un popolo,
- sono dei cavalieri che scendono dal nord della Francia (non proprio dalla Normandia, ma da
quell’area che viene definita area dei Normanni) e vengono assoldati dai duchi longobardi per farsi
la guerra tra loro.

Sono cavalieri molto valorosi e effettivamente diventano l'arma vincente.


Hanno talmente tanto successo che sono dotati di terre e cominciano a fare matrimoni con le figlie dei nobili
longobardi.
Cominciano a prendere potere, tanto che uno di loro Roberto il Guiscardo diventa il più potente di tutti,
diventa principe di Capua.

Il papa non la vede bene questa storia dei Normanni e prova a sconfiggerli sul campo ed è costretto alla resa.
Ma li succede che Roberto il Guiscardo fa omaggio feudale al papa.
Il papa gli concede i suoi domini feudali e lui si dichiara vassallo del papa.
Ovviamente il papa non li avrebbe mai concessi, perché autorizzava, formalizzava la presenza normanna
nell'Italia meridionale.
Ma giuridicamente Roberto il Guiscardo presta omaggio feudale al papa e diventa suo vassallo, quindi il
papa è signore dell'Italia meridionale che concede in feudo a Roberto il Guiscardo .
Da questo momento in poi ci sarà un rapporto molto complicato tra il papato e i sovrani dell’Italia
meridionale e della Sicilia, in cui
- i sovrani si sentiranno reges in regno suo
- e il papa dirà che il re di Sicilia è suo vassallo.

Il papa ha pretese sull’Italia meridionale e l’Italia meridionale si atteggia a regno indipendente

Nel 1061 Roberto il Guiscardo riceve dal papa l'ordine, il comando, ma anche il beneficio di riconquistare la
Sicilia alla cristianità e il papa dice "se tu riconquisterai la Sicilia te la darò in feudo ancora una volta".
Il fratello di Roberto il Guiscardo (Ruggero d'Altavilla) è un personaggio che ci interessa molto.
I 2 fratelli nel 1061 iniziano la spedizione in Sicilia.
La riconquista militare della Sicilia dura 30 anni e sono 30 anni di guerra, ma anche di accordi e paci senza
battaglia.
Le cronache
- documentano molti accordi tra musulmani e normanni
- e ci raccontano che nell'esercito normanno c'erano esperti e interpreti di leggi musulmane, cioè gente
che parlava e capiva l'arabo e il greco, gente che conosceva le leggi dell'islam.

Fu una guerra sanguinosa, ma nell’idea dei normanni e dei musulmani c'era quella di rapportarsi alla cultura
che si trovava sul posto, di dotarsi di strumenti, in questo caso di uomini, in grado di rapportarsi con la gente
del luogo, di capirli, di capire la loro lingua e il loro assetto giuridico.

Abbiamo notizia di patti di resa, di città che si arrendono senza combattere.


Es. Palermo del 1073 è assediata dai normanni e dagli eserciti dei 2 fratelli d’Altavilla (quello di Roberto il
Guiscardo e quello di Ruggero). I 2 circondano Palermo e la stringono da terra e da mare.

I capi della città


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- decidono di arrendersi
- e chiedono di parlare con i 2 fratelli Altavilla
- e propongono un patto di resa che prevede che i palermitani, cioè i musulmani (Palermo è tutta
musulmana) manterranno le loro leges
- e chiedono di non subire leggi ingiuste, cioè che vadano contro la loro religione e in cambio la città
si arrenderà senza combattere e tutti i palermitani saranno sottomessi ai nuovi signori.

Questo patto è giurato dai capi di Palermo sul Corano e dai normanni sulla Bibbia.
Il giuramento, cioè l'impegno solenne a mantenere un accordo, viene giurato sul libro (ciascuno sul suo),
ovviamente non sarebbe stato accettabile che un musulmano giurasse sul Vangelo e viceversa.
Questa idea che 2 soggetti contraenti un patto, un patto presuppone che ci siano gli strumenti per la
contrattazione.
Un patto presuppone che 2 soggetti si pongano almeno formalmente sullo stesso piano (altrimenti è un
privilegio)
Patto è tra due soggetti che si accordano, che si scambiano qualcosa e come fanno a sugellarlo? Con la cosa
più sacra che esiste in quel momento: il giuramento, ognuno sul suo libro sacro.
Quella è garanzia di validità per entrambi.

Palermo viene divisa tra i 2 fratelli Roberto il Guiscardo e Ruggero d’Altavilla, poi Ruggero riscatta tutto e
Ruggero d’Altavilla diventa conte di Sicilia.
È indicato comunemente “comes” come Ruggero I o come Ruggero il conte.
Addirittura, usando una dizione un po forzata nei documenti “il gran conte”, perché in alcuni documenti è
detto “magnus comes” perché suo figlio si chiamerà Ruggero II e inizia a governare da conte (“magnus” vuol
dire “+ grande, + antico”)
La Sicilia è un’unica contea sotto un unico dominus.
Non è spezzettata, ma è tutto dominio feudale di Ruggero d’Altavilla. Che fa Ruggero?
Rifonda o fonda le diocesi, cioè divide il suo territorio in diocesi, perché i vescovi sono l’elemento +
affidabile per controllare il territorio.
Sono persone nominate da lui stesso, sono persone vicine al conte, suoi familiari, suoi soldati.

L’isola di Sicilia ha una storia sua, che è ben diversa da quella dell’Italia meridionale, pur facendo parte di
un medesimo organismo politico-istituzionale, ma questa nascita, questa compattezza sotto un unico
dominus la rende diversa dal resto del regnum.

Fra la fine dell’XI e i primi del XII secolo un viaggiatore arabo abbastanza famoso che si chiamava al-Idrisi
scrive un resoconto, il titolo tradotto è “Il libro di piacevoli viaggi in terre lontane” noto come +
comunemente come Il libro di Ruggero.
E al-Idrisi sentite cosa ci racconta di Ruggero: <<Ruggero occupò la Sicilia, la domò, la conquisto pezzo a
pezzo e se ne impossessò e espugnò una dopo l’altra le sue piazze di confine nel corso di 30 anni, ma
fattosene signore e assodatone il trono della sua regia potestà egli bandì giustizia ai popoli dell’isola,
confermò loro l’esercizio di loro religioni e loro leggi e concesse a tutti sicurezza della vita e delle sostanze
per loro, per le famiglie e per la loro discendenza>>
al-Idrisi guarda a Ruggero come a un buon signore.
al-Idrisi è musulmano, ma questo non lo esime dall’esaltare questo aspetto del governo di Ruggero, cioè fa
giustizia a tutta la popolazione, sia ai musulmani che ai cristiani che ai greci e consente a ciascuno di
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praticare secondo le proprie leggi, cioè le consuetudini e di avere beni per sé e per loro famiglie e per le loro
discendenze, cioè di avere beni di proprietà.
“La proprietà non è confiscata” così si leggono le fonti.

Il figlio di Ruggero I, che succede al padre nel 1112, con il nome di Ruggero II, con il titolo di conte anche
lui si espande, fa una serie di campagne militari e alleanze.
Egli arriva a cumulare nella sua persona tutti i feudi, anche dell’Italia meridionale, in primo luogo il
principato di Capua e nella notte di natale del 1130 in cattedrale viene incoronato re del del regnum Siciliae,
rex.
La cerimonia si svolge nella cattedrale di Palermo

Questa è una miniatura famosissima è tratta dal carmen "de rebus Siculis" di Pietro da Eboli
e rappresenta Palermo.
Questa è la cala, qui c'è scritto "portus Panormi", con i pesci, le reti, Castello a Mare.
Quello che oggi è Castello a Mare non c'è + niente.
Se voi guardate la cala verso il mare sulla sinistra sapete che li c’è "Castello a Mare", c'era già in questo
periodo.
Vedete le mura e le catapulte.
È un castello di difesa delle porte della città.
E poi i 4 quartieri: Kalsa, Seralcadio, il Cassaro... poi c’è il parco Genoardo, cioè il grande parco che sta
sopra palazzo dei normanni e che arriva a Altofonte.
I cittadini della città sono raffigurati
- coi turbanti e le barbe e questi sono i musulmani,
- le donne con i capelli sciolti,
- gli ebrei con i nasi lunghi e turbanti diversi da quelli dei musulmani e senza barba
- e i latini.
Questa è la cattedrale e il Palazzo dei Normanni, il castello, il castrum.
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Queste sono altre miniature da un codice greco che ci fanno vedere la conquista di Siracusa (araba questa volta)

Questa è Messina. La città fortificata e tutti questi arabi che sono raffigurati nel Codice dello Zilite, con le
facce scure, il turbante e le tende dell'accampamento.
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Questo è Ruggero, dux, cioè Ruggero II quando viene fatto duca di Puglia.

Questa è la miniatura del libro di al-Idrisi.


La raffigurazione delle cantine geografiche con l'Italia messa per lungo è una raffigurazione che non è
innocente, è molto più fedele questa, perché Palermo è più a est di Venezia.
Quindi quella raffigurazione dell'Italia che parte dalle Alpi e arriva in Sicilia è una raffigurazione figlia di
una visione politica dell'Italia in cui il regno parte dai Savoia e arriva fino a giù.
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Al Idrisi è un uomo del XII secolo, viene dal Maghreb e disegna le cose in questo modo. C'è la Spagna e c’è
la Sicilia e quella coricata è l'Italia

Torniamo all’incoronazione. Ruggero organizza l’incoronazione nella cattedrale di Palermo

La cupola fu fatta successivamente. Nel 1700 Ferdinando Fuga fa sia le 4 cupolette dietro il grande portico
sia la cupola grande.
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- distrugge la chiesa nell'interno. La cattedrale dentro è neoclassica.


- Fortunatamente lascia l'esterno anche se vi fa le cupolette, il cupolone.

È leggibile l'impianto normanno. Le chiese normanne sono chiese-fortezza.


Sia a Palermo sia a Monreale le chiese normanne sono luoghi fortificati.
In alto avete il camminamento con le feritoie perché li si combatteva, erano luoghi che resistevano agli
assedi e alle insurrezioni.
Quindi l'impianto normanno è leggibile anche nella parte delle absidi.
Vedete che è vicinissima a Palazzo dei normanni e Ruggero decide di incoronarsi in cattedrale.

La cattedrale di Palermo è al centro di una bellissima storia assurda che ci racconta una cronaca della fine del
X secolo. (Siamo in epoca araba il viaggiatore si chiama Ibnaucal (non ho trovato questo nome su google) fa
una strana descrizione della Sicilia e dice <<Palermo capitale della Sicilia è sulla costa, ha 5 quartieri uno
vicino all'altro e poi c’è accanto un'altra piccola città chiamata Bulum (non ho trovato su google)
circondato da mura (che è la parte del Cassaro alto, dove poi viene fatta palazzo dei normanni che poi si
chiamerà la "Galca" che è un quartiere che viene fortificato e che sta nella parte alta del Cassaro).

I mercanti vivono qui e c’è anche una grande moschea che prima era una chiesa bizantina.
Dentro questa chiesa c’è una grande urna sospesa e lì dentro alcuni dicono che c’è il grande filosofo greco
Aristotele.

È un'urna di legno e i cristiani usavano adorare questa tomba e pensano che sia miracolosa.
I cristiani usavano questa tomba per chiedere guarigioni perché sapevano quanto i greci avevano venerato
Aristotele e si dice che ora egli giaccia sospeso tra cielo e terra e possa mandare la pioggia e fare altre cose
importanti per le quali si è soliti rivolgersi a Dio>> e Ibnaucal dice <<io ho visto questa cassa dove
probabilmente c'era la tomba di Aristotele>>.

È una narrazione-leggenda ovviamente non ha alcun senso pensare che ci fosse la tomba di Aristotele dentro
la cattedrale di Palermo, dentro la chiesa bizantina e adorata come idolo per la pioggia o per altri miracoli.
Però è una storia che Ibnaucal prende da alcune fonti ellenistiche.

Allo Steri sul soffitto della sala magna una delle pitture è Aristotele che viene cavalcato dalla giovane serva.
La figura di Aristotele è al centro di un elaborato di leggende che circolano nel mediterraneo.

Ibnaucal voleva sottolineare che i cristiani erano stupidi e che la cristianesimo era politeista, loro hanno la
Trinità: Padre Figlio e Spirito Santo e già sono 3, mentre noi abbiamo solo Allah, quindi sono idolatri e
adorano gli idoli.
Mentre noi musulmani non dipingiamo immagini e non adoriamo nient'altro se non l'idea di Allah.

La cattedrale di Palermo è chiesa bizantina poi diventa la grande moschea della città di Palermo.
Quando Palermo viene riconquistata uno dei primi atti di cui abbiamo testimonianza è la concessione della
diocesi di Palermo a un certo Monaco greco che, dice Goffredo Malaterra, era già lì nella chiesa della città o
comunque ufficiava per conto suo.
Tutte le chiese che erano state templi es la cattedrale di Siracusa usa le colonne di un tempio che c'era stato
prima e la chiesa viene costruita lì.
Non è solo un fatto di riuso, perché i materiali es. le colonne che stanno nelle chiese medievali erano colonne
di templi romani che vengono riutilizzati.
Non è solo una questione di comodità e di economia ma anche di luogo sacro: il luogo sacro rimane luogo sacro.
E quindi questo cambiamento della religione è meno sconvolgente della distruzione del luogo.
Pensate alla comunità Camilla a Palermo, oltre a adorare le loro cose, vanno a santa Rosalia perché è un
luogo sacro, al di la del fatto che Santa Rosalia è una santa cristiana, per giunta della devozione palermitana.
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Non sappiamo come sia andata veramente l'incoronazione di Ruggero, le fonti sono contrastanti, ma sono
concordi che fu una cerimonia straordinaria molto musulmana.
Il palazzo venne rivestito di tappeti c’è oro dappertutto.
E Ruggero che viene molto attaccato dagli altri sovrani europei viene definito rex tirannus, perché Ruggero
viene incoronato dal vescovo di Palermo, su mandato di papa Anacleto che è considerato l'anti-papa e quindi
la sua incoronazione verrà ritenuta non valida, perché quello era l'anti-papa.
In realtà Ruggero aveva un grandissimo esercito e una potenza straordinaria quindi, quando il papa che vince
e prova a dirgli <<non sei tu il re>>, Ruggero va con l’esercito e il papa dice <<no sei tu il re>>.
Qual è l'ideologia che sta alla base di questo nuovo regno?
È un'ideologia esemplata sul modello della teologia del potere bizantina, cioè il regno viene da Dio senza
alcuna intermediazione.

Questa diapositiva ci porta a una simbologia musulmana del potere: le palme, i leoni, i pavoni.

Il soffitto della Cappella Palatina (lo vedete a sinistra) è un soffitto a cassettoni, come quello delle moschee
fatimide, ed è un soffitto dipinto. L'unico esemplare cosi completo.
Dipinto da maestranze musulmane.
I mosaici sono bizantini, ma le pitture del soffitto della Palatina sono musulmane e sono le uniche pitture, è
un ciclo straordinario ovviamente di pitture laiche.
I musulmani non dipingono immagini sacre, quindi sul soffitto della Palatina ci sono scene di banchetti di
caccia, non ci sono immagini sacre.
Questo è il sincretismo: quando avete nello stesso luogo questa cosa qui.

Il regno viene da Dio non c'è intermediazione.


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Martorana.

Mosaico di destra. La scritta è greco "Rogerios rex Jesus Christus".


Sono le didascalie come vedete perché i mosaici hanno uno scopo.

- Non è solo quello di abbellire


- ma è anche quello di insegnare.

Qui c'è un messaggio politico straordinario: c'è Gesù Cristo che mette una corona sul capo di Ruggero.
Le 2 figure sono della stessa grandezza più o meno, solo che Gesù Cristo sta più in alto, ma non è tanto più
grande di Ruggero.

Ruggero è re per volere di Dio, Ruggero dipende da Dio, risponde a Dio. Che vuol dire? Che non dipende dal
Papa, che non risponde al Papa, ne all'imperatore. È rex per volontà di Dio.

Il potere ha un'origine sacra, ha un'origine carismatica.


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I mosaici sono il modo + immediato di comunicare:

a) l’incoronazione di Ruggero

b) L'incoronazione di Guglielmo II la trovate a Monreale nel grande arco prima dell'altare in fondo.
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La Martorana è una chiesa che è fondata dall'ammiraglio Giorgio d'Antiò, infatti si chiama anche Santa
Maria dell'ammiraglio è un mosaico quello della Martorana fatto alla metà del 1100.

Torniamo un attimo indietro. Vediamo come è vestito Ruggero perché abbiamo detto che i mosaici
dobbiamo leggerli in chiave storico-giuridica, non solo artistica.

Allora come è vestito Ruggero? Ha una veste blu con i gigli dorati e una sciarpa a "Y" che scende davanti
(“loros”)

È una sciarpa tipica dell'abbigliamento degli imperatori bizantini. Vedete è una Y e poi una fascia in vita e
una sciarpa che poggia sul braccio.
Vediamo anche che il volto di Ruggero è anche molto somigliante a quello di Cristo

Quindi più che una raffigurazione dei tratti somatici, è una raffigurazione simbolica.
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Lo stesso abito ha Guglielmo, vedete il "loros".


Qui abbiamo il Cristo in maestà seduto in trono che incorona il re, però guardate quanto è proporzionato
anche Guglielmo alla grandezza della figura di Cristo
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Se guardiamo questo mosaico a sinistra che troviamo sempre alla Martorana è l'omologo di quello della
incoronazione di Ruggero. E li a terra, piccolo piccolo, c'è la faccia, le braccia, ha un mantello, quello è il
povero Giorgio di Antiochia che è un ammiraglio del regno, personaggio potentissimo, fondatore della
Chiesa che offre alla Madonna (che ha il "cartiglio") la Chiesa.

Stessa scena a Monreale ma questo è Guglielmo.


Tra le altre cose qui abbiamo la didascalia di Guglielmo in latino "rex Guglielmus secundus" e la scritta della
Madonna è in greco. Tutti e 2 le lingue stanno continuamente a rincorrersi.
Vedete come la figura di Guglielmo II, re di Sicilia, marito della figlia del re di Inghilterra, è grande più o
meno quanto la Madonna, se invece guardate Giorgio di Antiochia ve ne rendete conto immediatamente.
La corona, il re è in diretto rapporto con la fonte di legittimazione del suo potere.
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Questa è forse una raffigurazione di Ruggero, dal soffitto della Cappella Palatina.
Vedete come è cambiata la raffigurazione del sovrano: con le gambe incrociate, seduto, che beve e con
questa strana corona con 3 pizzi (che è diversa da quella che riceve da Cristo che è tipicamente bizantina) e
dietro no Madonne, ne Gesù Cristi, ma una scena di banchetto, con il sovrano-sultano.
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Questo è ancora Pietro da Eboli. È un’immagine che raffigura i notai greci, i notai saraceni e i notai latini.
(lasciate stare l’ultimo pezzetto che riguarda Tancredi e non ci interessa).
Nelle prime 3 lunette il disegnatore del carmen di Pietro da Eboli raffigura i notai greci con questa barba
lunga senza copricapo, i notai saraceni col turbante e i notai latini senza barba, a indicare che queste 3 lingue,
queste 3 religioni, queste 3 culture giuridiche , queste 3 strutture giuridiche, sono notai (non sono religiosi)
cioè è gente che scrive atti notarili, contratti e sono di 3 etnie diverse e stanno nello stesso edificio.
Abbiamo 3 sistemi giuridici che coesistono durante tutto il periodo normanno.
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Quella che vedete nell’estrema sinistra del vostro schermo è una giarida o platea in latino, è un documento
arabo con le traduzioni in greco lungo alcuni metri.

Sono 3 pergamene cucite e questi sono gli elenchi dei villani, cioè degli uomini arabi che stavano nelle terre
della Chiesa (in questo caso Monreale) e che passavano con la terra, non erano servi, ma villani che poi
verranno retti a scrittici.
E questi erano gli elenchi di nomi. Stavano a volte arrotolati questi elenchi. Abbiamo platee lunghe 3 o 4
metri.

Sono conservati alla biblioteca regionale dove, durante i bombardamenti della 2° guerra mondiale, fu
trasferito tutto il fondo pergamenaceo di Monreale, tutto il tabulario di Monreale fu trasferito lì e non è più
tornato (anche se la diocesi di Monreale lo reclama spesso).

Quello che vedete al centro è il mandato della contessa Adelasia (molto rovinato) moglie del conte Ruggero
ed è il + antico documento cartaceo che si conservi nel mondo occidentale.
La carta probabilmente viene importata dagli arabi ed è una carta di cotone che veniva chiamata “carta
bambagina” veniva fatta col cotone pressato. È molto rovinato, vedete ha dei pezzi che mancano. E questo è
un altro diploma greco-arabo.
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Lezione n. 10 – 29.10.2020

Chiarimento prof sul testo giuridico esempio di argomento per la relazione scritta L’argomento del
testo giuridico aperto e chiuso è parecchio importante in Conte. Però quello che abbiamo detto a lezione
è già tanto perché vedete quali siano i canoni del testo dell’alto medioevo, come vige l’idea di un’ottica di
un’utilizzatore, quindi chi stava lì a raccogliere i testi, chi faceva delle raccolte. La settimana prossima lo
vedremo nel diritto canonico che prosegue in parallelo a quello civile che noi abbiamo seguito. Nell’ottica
dell’utilizzatore vediamo come del testo viene tramandato soltanto ciò che serviva. È un’ottica che sarà
profondamente medievale. Lasciamo stare il formalismo così come anche il formalismo del testo per
andare a raccogliere e studiare solo ciò che serviva. Poi la riforma gregoriana è un passaggio importante
da questo punto di vista. Con Irnerio, nella scuola di Bologna si ottiene il testo chiuso fermo. Tant’è che
uno degli esponenti delle scuole minori che è Vacario ad Oxford fa un lavoro sul sul Liber pauperum nel
1100. In cui prende, dei principi, dei pezzi dal Codice o dal Digesto cercando di fare una sintesi e questo
viene visto già malissimo.
Vacario cerca di facilitare i suoi allievi che non potevano comprarsi quei tomi dei libri legales, e Vacario gli
fa una sintesi lui prendendo dei frammenti. Attenzione non stiamo parlando di una summa (Che è
un’operazione che si stacca dal testo, autoriale, in cui un professore di diritto si mette lì a scrivere con
termini diversi, a trattare quello che viene detto in una parte della compilazione sia al Codice che alle
Istituzioni. Infatti abbiamo summe al Codice, summe alle Istituzioni. Vacario fa un’operazione un po’
vecchio stampo, fa una sintesi prendendo pezzi di testo. Per questo verrà molto criticato Vacario perché
da Bologna in poi è inconcepibile tutto questo. Con Irnerio abbiamo una stabilizzazione del testo cioè la
creazione di un testo stabile. Irnerio Fra questi libri legales che poi verranno arricchiti dei suoi allievi, in
cui si cerca di recuperare il più possibile i testi originali i manoscritti originali, non seleziona delle parti che
gli interessano, ma nei libri legales mette tutto. In una distribuzione che è particolare: il Primo volume del
Codex, I volumi 2-3-4 sono occupati dai digesta, nel quinto abbiamo le novelle le istituzioni e gli ultimi tre
libri del Codex e anche il Liber feudorum e la Pace di Costanza. Questa distribuzione era particolare.
Odofredo ci dà informazioni su questo ritrovamento quasi eroico dei manoscritti che Irnerio andava
ritrovando e metteva lì man mano che li ritrovava e quindi l’ordine è dovuto a questo. Piú semplicemente
l’ordine è dovuto ad una facilità didattica sono messi in quest’ordine perché didatticamente gli conveniva
così, più che andare a ricercare la ragione dell’ordine nell’ordine di ritrovamento. Noi su questo certezza
non ne abbiamo, comunque quello che a noi interessa è che Irnerio fa un testo chiuso, un testo stabile
non c’è più quell’ondeggiamento che noi avevamo nell’Alto Medioevo, non vengono selezionate delle
parti ma viene fatta un’edizione critica della compilazione giustinianea, il testo è integrale della
compilazione e questa è l’idea che passa da Bologna in poi: il testo è chiuso, l’ottica del testo si rispetta
l’integrità del testo. È diversissimo dal testo aperto o dall’ottica dell’utilizzatore che era tipico dell’alto
medioevo. Questa è l’operazione che fa Irnerio che è un’operazione epocale. È un altro dei cambiamento
importante. Da Bologna in poi cambia tutto in quest’idea. Abbiamo avuto degli avvicinamenti con la
riforma gregoriana; con le raccolte canoniche si inizio a vedere la paternità del testo e a cercare di
rispettare quello. Però l’aspetto importante è l’aspetto che, da Bologna in poi passa, del testo chiuso che
sarà sia nei libri legales sia, poi, nell’ambito canonico passerà questa idea.

Chiarimento prof sulla Lex romana de imperio Molte fonti che vengono fuori in questo periodo
bolognese poi vengono usate per spiegare varie situazioni. Si crea un linguaggio comune. Si iniziano a
usare citazioni. Tendenzialmente è sempre Irnerio o lí sono i suoi allievi che utilizzano la Lex de imperio,
però io trovo la Lex de imperio che mi giustifica ad esempio la centralità del ruolo dell’imperatore perché
da è da quel momento in poi che la popolazione cede i poteri ed è un momento importante questo in cui
si cedono i poteri all’imperatore. Quindi tra tutti il potere di fare le leggi. Si ha questa antinomia tra
Costantino e Giuliano e da qui in poi, dice Irnerio, il Suo contenuto può servirci anche a giustificare la
risposta che danno i quattro allievi a Barbarossa i quali gli dicono che dalla Lex de imperio in poi le regalie
spettano all’imperatore. È questo il momento in cui il popolo cede all’imperatore la possibilità di fare le
leggi. Ed è letteralmente un momento rilevante e di passaggio nel il diritto romano.
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La Lex de imperio non è tanto la fonte centrale, ma alcune fonti hanno molto successo E iniziano a citarsi.
Un altro autore vede che Irnerio cita la Lex de imperio, allora la cita anche lui in un’altra glossa. Questo
tra i commentatori diventerà il modus operandi del diritto comune. Questo ci mostra un passaggio
fondamentale del diritto comune che è la dimensione autoritativa.
Poi, nei commentatori che porteranno all’extrema ratio questo discorso sarà ancora più forte ma già qui
iniziamo a vedere come - intanto l’operazione dei glossatori è un’operazione corale - una fonte che inizia
ad essere studiata, viene scandagliata e si trova a risolvere altri problemi. Vedete questo è un modo, un
esempio interessante di come viene estesa la portata della norma di una fonte: quella fonte viene
studiata in quel momento, quell’autore e studia una fonte E quindi la applica a vari aspetti. Questo è
interessantissimo. Ad esempio il frammento di Ulpiano che aveva risolto il placito di Maturi lo troviamo
anche in un’operetta pre-Irneriana e non è un caso che troviamo lo stesso frammento perché se iniziava a
studiare il frammento e poi l’informazione, la cultura da Bologna in poi circola. Ma anche da poco prima
di Bologna in poi abbiamo visto Marturi. Quindi il frammento in certi ambienti giuridici, in certi ambienti
di tecnici, prima, di giuristi, poi, da Bologna in poi, inizia a circolare. La Lex de imperio è importante. Rileva
un aspetto importante del diritto comune il suo aspetto autoritaritavo e le citazioni che si ripetono anche.
Questo è qualcosa che avrà la sua massima espansione nella scuola del commento in cui diventa
fondamentale l’interpretazione che dalla fonte si ripeterà in sede vincolante l’interpretazione del giurista,
del giurista autorevole. Nella scuola del commento arriveremo all’eccesso in cui non è più centrale il
testo. In questo momento centrale il testo, quindi ad esempio vediamo che la Lex romana de imperio
viene applicata in vari contesti, si estende la portata della norma però sempre di norma stiamo parlando.
Questa è una prima fase di crea un’autorità in questo caso l’autorità è la legge. Nei commentatori
l’autorità sarà più legata all’interprete, però sempre di percorso autoritativo si tratta. Nel diritto comune
questa è l’idea. La Lex romana de imperio veniva studiata e quindi applicata in vari in contesti.

Chiarimento del prof sulla distinzione tra glossa e summa La distinzione tra glossa e summa sta nel
rapporto col testo: mentre la summa ha un’autonomia rispetto al testo, la glossa dipende ed è legata
strettamente al testo. Vedete, le glosse presuppongono il testo, sono dentro il testo, graficamente non
possono staccarsi dal testo. Anche le notabilie e le summulae restano attaccate al testo, devono
camminare col testo, però teoricamente, le summulae, ad esempio, noi possiamo trovarle in un
frammento come in un altro. Le summulae sono citazioni di similia. Noi stiamo analizzando un
frammento, vediamo l’istituto che quel frammento analizza, raccogliamo le summulae, l’autore citava
altri passi in cui c’era la disciplina di quell’istituto conforme a quella vista nel frammento che stiamo
analizzando. Anche le summulae come le glosse, stanno attaccate al testo, però teoricamente possiamo
apporre quella summulae anche ad uno degli altri passi che vengono citati. Questo dà un’idea anche di
sistematicità, noi possiamo prendere quella summulae e metterla in un altro passo, in uno di quei passi
che dà una disciplina conforme dello stesso istituto giuridico, quelli che vengono citati, uno qualsiasi di
quei passi. Questo è un passaggio importante.
Ovviamente tutte le glosse sono attaccate al testo, vanno insieme al testo e non possono essere staccate,
non sono opere autonome ma sono le spiegazione del testo quindi vanno col testo stesso. La cosa
interessante da dire è che nel caso delle summulae sono degli elenchi, delle citazioni messe a margine in
cui si descrive la similia, e quegli altri passi della compilazione che danno un trattamento uniforme a
quella materia, a quell’istituto e questo lo si può staccare da un frammento e metterlo in un altro sempre
di similia, che è contenuto in maniera conforme.
Questa differenza tra i generi della glossa e gli altri generi letterali sta appunto in questo legame o
distacco dal testo. Questo è un discorso che riprenderemo quando parleremo dei commentatori.

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Oggi ci leviamo dei dubbi su Bologna e la settimana prossima partiremo coi post-accursiani e i
commentatori così prima della pausa finiremo il percorso civilistico. Riprendiamo da quello che avevo
detto ieri.
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Abbiamo visto le varie forme di GLOSSA: le glosse letterali, le glosse grammaticali danno
un’interpretazione parola per parola, spiegano il singolo lemma, la singola parola ponendola sopra la
parola da spiegare, cioè sono solitamente interlineari la spiegazione si pone tra un rigo e l’altro del
testo; mentre le glosse interpretative che sono le più lunghe che danno un’interpretazione più ampia,
profonda non soltanto letterale.
Questa è una pagina stampa del Digestum vetus con la glossa di
Accursio. Questa è l’edizione a stampa ma noi parliamo della
edizione del 1200 circa quindi manoscritta.
Questo è un frammento, al centro c’è il testo e di contorno sono
tutte glosse. Alle volte nelle glosse accursiane abbiamo anche
glosse a margine o sulla singola parola o anche sopra. Il testo al
centro è integro e poi c’è la spiegazione. Questa è la versione a
stampa accompagnata da quella che sarà la glossa ordinaria alla
compilazione giustinianea cioè la glossa accursiana (che è parte
finale del percorso dei glossatori, Accursio farà un apparato di
glosse (circa 96.000) e sceglierà delle glosse e contornerà i
singoli passi della compilazione con queste glosse.
In una pagina normale, nel periodo di cui stiamo parlando, 1100-
1200 quando ancora non c’è la magna glossa accursiana, il testo
giustinianeo è veramente contornato da molte glosse, in questo caso da quelle scelte da Accursio che
sarà l’interpretazione ufficiale quella di Accursio poi.
Ma, nei fatti, vi saranno varie glosse di vario tipo (grammaticali, interpretative) che saranno tutte al
contorno, il testo è al centro e tutte queste glosse stanno al margine o tra un rigo e l’altro, lateralmente,
in basso, marginali. La distinzione tra il testo e le glosse è chiara. Questa nell’immagine è la versione a
stampa del 1584, i bolognesi utilizzavano la versione manoscritta (perché la stampa ancora non la
conoscevano), la pagina manoscritta sarà così con il testo al centro e tutte queste glosse che lo
contornano e che incorniciano letteralmente il testo. Queste glosse non possono essere pensate
separatamente da questo testo, ne fanno da cornice. Questa è l’idea di com’era il testo, c’era un unico
librone al centro di questi libri legales (questo è il secondo dei libri legales, il Digestum vetus), tutti e i 5 i
libri legales erano così, contornati dalle loro interpretazioni, ciascuno dei maestri che maneggiava il libro
aggiungeva la sue glossa a quella del maestro precedente durante il periodo bolognese. Questo fino ad
Accursio che farà la versione definitiva: la glossa che Accursio seleziona, fanno la sintesi dell’operato di 4
generazioni di glossatori.

Invece la SUMMAE era diversa, era un’altra opera. Questa non si prendeva un singolo frammento o
un’intera parte della compilazione – il Codice, le Istituzioni, meno frequentemente si prendeva i digesta
perché sono più difficilmente sintetizzabili.

LE SCUOLE MINORI
Con la summae, la queastiones e anche i brocardi, introduciamo un altro tema interessante che è quello
delle SCUOLE MINORI. Noi già abbiamo accennato più volte a queste scuole minori e adesso ne parliamo
più approfonditamente.
Oltre alla Scuola di Bologna vi furono tante altre scuole che nel 12° secolo sono proliferate ovunque e
hanno costituito importanti centri di cultura giuridica. La qualifica data loro di “minori” non deve trarre in
inganno in quanto è dettata semplicemente da una formale reverenza nei confronti della scuola
primogenita.
Abbiamo detto che solitamente gli studenti si recavano a Bologna a studiare, spesso erano i rampolli delle
famiglie più importanti, poi tornavano nelle loro terre di origine ed esportavano il metodo bolognese.
Spesso, accadeva anche che maestri importanti iniziassero la loro carriera a Bologna e poi andassero
girando. Ad esempio:
- Rogerio (seconda metà del 1100), allievo di Bulgaro, fu un maestro importante che si formò
certamente a Bologna, ma fu docente di diritto oltre che a Bologna in moltissimi centri (in Italia
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abbiamo a Piacenza, a Mantova, poi in Provenza e soprattutto a Montpellier). Giurista di fama,
francese d'origine ma italiano di formazione che insegnò effettivamente in Provenza prima del
Piacentino, forse ad Arles o a Saint-Gilles.
- Così come il suo allievo Piacentino immigrato in Francia negli anni ’60, andò ad insegnare anche lui
a Montpellier dove si dice fosse stato preceduto da Rogerio;
- Pillio anche lui dopo essersi formato ed aver insegnato a Bologna si sposta poi a Modena;
- Vacario che andò ad insegnare ad Oxford.
Quindi si fondano nella penisola Italica, in Francia, in Inghilterra, delle scuole che prendono esempio da
Bologna ed esportano il metodo bolognese.
Però noi vediamo che queste scuole daranno un apporto originale a Bologna, il metodo bolognese arriva
in questi luoghi però poi si va specificando e modificando. Mentre Bologna resta il centro e l’ortodossia
dell’interpretazione della compilazione, va avanti tendenzialmente - anche se si accolgono gli influssi delle
scuole minori - questa idea ortodossa che poi sarà vincente e che porterà all’esito che stiamo vedendo
della magna glossa accursiana.

Queste scuole minori vivevano gomito a gomito con quelle del diritto longobardo a Piacenza e a Mantova
Uno di tali centri è proprio Mantova in cui si accoppiavano nella vita scolastica studi di diritto romano e
longobardo. Un longobardista Ugo, autore di uno scritto sul duello, se la prende con un Mantuanus e la
sua corte. In città dovrebbe insegnare il maestro Vaccella a cui vanno ricondotti quegli Argumenta atque
Contraria Lombardae, raccolti però da allievi, che colpiscono perché impostati come serie di fonti
normative contrapposte secondo il modello dei brocarda.
Scritti longobardistici si ritrovano anche a Piacenza e tra questi ritroviamo la più notevole tra le summae
della Lombarda. Evocare Piacenza e la locale scuola di diritto longobardo invita a evocare Carlo di Tocco,
che ha fama come longobardista.
La produzione longobardistica di summae, di glosse e di piccoli trattati (specialmente quelli sul duello, un
istituto che interesserà anche i civilisti) pur non essendo di grande pregio teorico, rivela tuttavia la vitalità
della dottrina pronta alla polemica.

I generi letterari delle scuole minori


Da altre parti, nelle scuole minori, si sviluppano altri generi letterari per esigenze diverse. Le opere che si
collegano alle cosiddette `scuole minori' mostrano alcune peculiarità. Queste scuole sono molto attente
all’aspetto stilistico.
La prima è l'atmosfera “grammaticale”. Molte opere curano l’eleganza della lingua latina, danno ai
discorsi tecnici una forma dialogica per meglio ravvivarli, fanno ricorso a personaggi allegorici.
Per esempio le opere di Piacentino, sermoni sulle leggi, sono scritte metà in versi e metà in prosa e così
anche le opere di Rogerio che saranno opere spesso fatte in prosa ma anche in versi ad esempio.
Le prime operette dal taglio elegante sono le Enodationes quaestionum super Codice e le Quaestiones
super Institutis di Rogerio. Le operette rogeriane ricordano le elegantissime Quaestiones de iuris
subtilitatibus* che, anche se è incerta la paternità, sono certo italiane.

Approfondimento Quaestiones de iuris subtilitatibus


Il proemio è costruito intorno all’allegoria del templum iustitiae costruito sulla vetta di un monte.
Varcata la porta d'ingresso, si incontra una parete vitrea sulla quale è trascritto in lettere d'oro
l'intero testo dei libri legales; su quella parete si riflette come in uno specchio l'immagine della
Giustizia che tiene in grembo l'equità ed è circondata da tutte le sue figlie, la religio, la pietas, la
gratia, la vindicatio, l'observantia e la veritas. Un gruppo di persone dall’aspetto onorevole si
preoccupa di cancellare dalla parete vitrea le parole dissonanti con l’equità. In un’apposita sede
esterna appoggiata alla parete si trova un venerabile personaggio che risponde alle domande che
gli vengono poste: le prime questioni riguardano il misterioso interferire tra loro dei diritti naturale,
delle genti e civile. Segue un’impetuosa invettiva a sfondo politico: sovrani transalpini hanno invaso
le nostre terre nei secoli passati e hanno imposto precetti per diritto di conquista; sebbene lo ius
gentium consenta di resistere agli occupanti, i vinti hanno finito col subire la legge del vincente. Non
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vi può essere dubbio che i re transalpini, bersaglio del disprezzo dell'autore, siano i Longobardi e i
re d'Italia. In un punto, l’alunno chiede se quei sovrani non avessero avuto il diritto di derogare alle
leggi romane. Gli statuta tanto disprezzati non possono essere che gli Editti e il Capitolare italico,
definiti dalle questiones un’accozzaglia di norme nefande.

Oltre che dall’attenzione per l’aspetto stilistico, le opere delle scuole minori si caratterizzano per una
cultura che ha più un carattere generale. Più che una cultura giuridica specialistica, la didattica tipica
bolognese era finalizzata ad impartire una formazione giuridica non specialistica ma più generale.
Solitamente in questi casi si tratta di scuole vescovili in cui si formano spesso gli esponenti del clero ai
quali serve un approccio al diritto più generico. Queste scuole minori hanno un legame con le vecchie
scuole di arti liberali, il sapere è generico e non specialistico destinato agli esponenti del clero; ma anche
destinato a quei soggetti che dovevano andare ad esercitare la pratica del diritto, quindi soggetti che poi
dovevano diventare funzionari di Stato, giudici ecc., questi soggetti hanno bisogno di una preparazione
che sia impartita in meno tempo e che li prepari subito ad intraprendere le funzioni legali. Quindi
vediamo come questi soggetti, in realtà, avevano questo tipo di cultura, una cultura più generica non
proprio specialistica e approfondita come era l’ortodossia bolognese.

Da qui i generi letterali che abbiamo visto ad esempio le summae che offrono trattazioni più sintetiche si
staccano dal testo, costituiscono delle opere autonome e sono trattazioni agili che circolano. Gli autori
sono soggetti formatisi a Bologna, dei grandi maestri. Ad esempio, tra le summae più importanti abbiamo
la Summae codicis che farà Piacentino che addirittura era stata iniziata da Rogerio (che era il suo maestro)
a Montepellier. Rogerio farà un’opera di carattere molto elegante e anche nella forma, sia in prosa che in
versi, poi non riuscirà ad ultimarla lui farà soltanto un embrionale raccolta di quaestiones sul codice che
costituiranno l’embrione dell’opera che verrà ultimata dal suo allievo, Piacentino, che farà questa
summae codicis quest’opera notevole che è una trattazione sul codice fatta da Piacentino. Sono opere
che sono destinate a circolare e circolano profondamente, hanno molto successo. Sono indirizzate,
certamente, agli allievi e a soggetti che hanno bisogno di un sapere non profondo ma di una conoscenza
della compilazione giustinianea: ormai siamo dopo Bologna quindi è ineludibile questo aspetto cioè la
conoscenza del diritto romano giustinianeo e dei i canoni scientifici con i quali viene studiato.
Solo che nelle scuole minori si incontrano anche altre esigenze, l’esigenza di una cultura sempre
scientifica ma più “spicciola”, cioè che si avvale si questi generi letterari come la summae ad esempio,
oppure sono molto diffuse le raccolte di quaestiones perché hanno un sapere casistico che si apre molto
alla realtà contemporanea. Noi abbiamo visto ieri che le quaestiones ex facto emergentes sono
quaestiones che si aprono alla prassi contemporanea. Sono molto importanti da questo punto di vista.
Noi vedremo delle raccolte di quaestiones fatte da Pillio le quaestiones aure, da Roffredo il
Beneventano il quale insegnava ad Arezzo e fa le sue quaestiones sabatine.

Sono raccolte di quaestiones, sia quelle di Pillio che di Roffredo il Beneventano, che servono per
l’insegnamento. Abbiamo detto che tutti questi generi letterali dobbiamo raccordarli con l’insegnamento,
con la lezione bolognese. Però, in qualche modo, hanno un risvolto anche notevolmente pratico. Il genere
della quaestio che abbiamo detto nasce a Bologna e poi si diffonde e ha un successo notevole nelle scuole
minori, per questo legame con la prassi perché si apre alla prassi contemporanea.
Nelle quaestiones noi troviamo un lemma, un richiamo, ad una parola della compilazione ma poi si
prescinde dal testo: sono testi più agili che non devono riportare per forza questi volumoni dei libri
legales. Si prescinde anche in queste dal testo e hanno molto successo.

Le scuole minori hanno come caratteristica principale questa attenzione alle opere che sono di carattere
dotto e che si legano alla retorica alto-medievale e alle arti liberali. Stiamo parlando di scuole che
solitamente sono, specialmente in Francia, in sedi vescovili. Si riconnettono un po’ al sapere delle scuole
di arti liberali e sono scuole che hanno questo gusto stilistico dotto e raffinato, in cui si impartisce un
sapere generale e non essenzialmente specifico, una cultura non specialistica come quella della
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Bolognese, quindi più generica; in cui c’è un’apertura per la prassi e anche i generi letterali sono destinati
alla prassi perché i fruitori sono spesso i soggetti che poi devono andare ad esercitare le professioni legali
quindi a cui serve questo legame con la prassi.
Un altro aspetto importante è che spesso trattano temi che a Bologna vengono trascurati: o legati alla
prassi (vedremo un esempio importante con Pillio da Medicina) oppure temi che a Bologna non vengono
trattati (ad esempio quello delle procedure che è un tema che nella compilazione giustinianea non sono
oggetto di una trattazione dettagliata, mentre qui le procedure sono trattate e con attenzione notevole
da parte di queste scuole). Quindi si può dire che si tratta di un sapere che completa il sapere bolognese,
non siamo in contrapposizione con Bologna ma si tratta di un sapere diverso.

STAMPARE PARTE SUGLI STUDI PROCESSUALI DA PAG 50 PARAGRAFO 6-7-8-10

PILLIO DA MEDICINA PARAGRAFI


Tra gli esponenti delle scuole minori molto importante è PILLIO DA MEDICINA che opererà nella seconda
metà del 1100, che è di formazione bolognese. Per dissidi con alcuni bolognesi dice che migrò, andò via
da Bologna e andò ad insegnare a Modena e diede lustro allo studio modenese. Vedete che questi
soggetti formati a Bologna se ne vanno. Sono dei VIP del mondo giuridico, dell’insegnamento dell’epoca.
Questa casta dei giuristi che adesso va di università in università, comincia ad acquistare, a parte un
potere, anche una celebrità. Chi studia e si laurea a Bologna poi può andare ad insegnare dove vuole,
sono contesi questi maestri che si laureano a Bologna. Quando scelgono di andarsene da Bologna, vanno
a dare lustro ad altre scuole. L’insegnamento di Pillio dà lustro a Modena. Teniamo presente questo
aspetto di questa casta di giuristi che già acquista da Bologna in poi, dalla metà del 1100 in poi, un rilievo
e un prestigio notevole. In questo caso si trattava di giuristi che erano concentrati sull’insegnamento
prevalentemente poi vedremo che anche loro si dedicheranno alla prassi. Per il momento sono soggetti
dedicati all’insegnamento e tutt’al più a svolgere qualche ruolo nell’alta amministrazione nei Comuni.
Però comunque Pillio da Medicina è un esempio di soggetto che si forma a Bologna e poi va a Modena ad
insegnare.

Lui è un grande innovatore del metodo di insegnamento: farà una poderosa raccolta di brocardi, infatti
sarà un grande fruitore di questo genere letterario che nasce nelle scuole minori e come abbiamo detto
L ieri è un genere letterario gemello rispetto alla quaestio. Queste massime di diritto, questi brocardi, in
I teoria dovevano servire per facilitare l’apprendimento, l’esigenza nelle scuole minori è quello di rendere
B più rapido l’apprendimento agli studenti delle scuole minori.
E
La sua opera più importante è una raccolta di brocardi che prende il nome di LIBELLUS DISPUTATORIUS
L
che è un’opera mastodontica, una raccolta di brocardi poderosa fatta da Pillio. Si tratta di un originale,
L
U lungo elenco di principi teorici tratti dalla compilazione giustinianea e corredate fonti normative sia
S favorevoli sia contrarie.
Questa raccolta è destinata anche all’insegnamento però vista la mole, nei fatti, riuscì poco a facilitare la
D situazione perché realmente aveva una mole imponente, però comunque era un tentativo, l’obiettivo era
I sicuramente un obiettivo dottrinale. Si tratta di un’opera eruditissima.
S In realtà l’opera era stata concepita inizialmente all’uso dei pratici, ma Pillio si rese conto che essa era
P vantaggiosa anche per la formazione degli studenti e quindi intorno al 1195 ne fece una seconda
U redazione ampliata che usò come strumento di una riforma didattica intesa a introdurre appunto il
T metodo brocardico. Si trattava di un metodo di studio che puntava sul ragionamento anziché sulla
A memoria, e Pillio si diceva sicuro che avrebbe abituato rapidamente gli studenti al dibattito sui principi e
T
alla tecnica dell'argomentazione, rendendoli idonei in 4 anni, invece di 10, ad ottenere l’ammissione nelle
O
R aule dei tribunali.
I Vedete come anche nel brocardo – quest’opera del Libellus disputatorius ne è un esempio – ci si distacca
U dal testo, cioè si estrae una massima dalla compilazione giustinianea e questa massima viene poi
S contornata da fonti pro che sostengono questa massima tratta dalla compilazione giustinianea e fonti
contra cioè che contrastano quello che viene detto in questa massima giuridica tratta dalla compilazione
giustinianea, e poi si dà la solutio (la soluzione).
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È un’opera che ha un carattere dottrinale importante, è un’opera di dottrina che fu fatta per facilitare
l’insegnamento anche se la sua mole è realmente mastodontica, quindi si dubita che facilitava
effettivamente l’insegnamento. Quindi lo scopo dei brocardi è questo: estrarre delle massime. Anche qui
ci si distacca dalla lettera del testo, il testo si presume, è sempre lì ma non è dentro l’opera, si richiama il
testo ma è un’opera diversa, ci si distacca in qualche modo. I brocardi si diffusero rapidamente e non ci
misero molto a entrare nella scuola bolognese.
Quindi Pillio lo abbiamo visto come grande innovatore attraverso l’utilizzo del genere lettario del
brocardo.

A Abbiamo visto che farà le sue AUREE QUAESTIONES quindi farà questa raccolta di quaestiones molto
U
R importanti che saranno destinate ad essere utilizzate come prontuario perché le quaestiones per loro
E natura hanno carattere casistico cioè parlano di casi. Quando questi qui si mettono a raccogliere casi
E (nella seconda metà del 1100 in poi e tutto il 1200), perché in realtà le quaestiones questo sono: raccolte
di casi che sono tratti ormai per la maggior parte dalla prassi attuale. Quindi questi sono i casi, che poi
Q nella prassi attuale vengono risolti attraverso la compilazione giustinianea, attuali che possono capitare
U
A nei tribunali e quindi sono importanti anche per i pratici perché possono ritrovarsi dei casi simili. Quindi le
E quaestiones sono veramente le raccolte di quaestiones e circoleranno in forma manoscritta nel 1200
S perché ancora la stampa non era stata inventata, però farà una copia, un manoscritto di una raccolta di
T quaestiones è più facile che ricopiare i libroni dei libri legales. Veramente hanno il succo dentro di loro
I della compilazione giustinianea e quello che serve anche dal punto di vista del prontuario.
O
N Quello che ci siamo detti all’inizio sostanzialmente ce lo ripetiamo e lo semplifichiamo: questo è un modo
E per attualizzare la compilazione giustinianea e la quaestio è importantissima da questo punto di vista
S perché attualizza realmente la compilazione giustinianea, la mette in correlazione alla prassi vivente.

Pillio è importante per questo ma anche perché è un grande feudista cioè è un grande conoscitore del
mondo feudale. Il suo più grande contributo sarà quello di introdurre tra le materie di studio a Modena il
L diritto feudale e introdurrà i LIBRI FEUDORUM che sono una raccolta di consuetudini feudali, fatta in una
I forma (vedete è tipico delle scuole minori quello di avere queste figure retoriche, ragionare per allegorie)
B un po’ inventata, la storiella può essere inventata, è un’allegoria: nel senso che si dice che Oberto
R dall’Orto fosse l’autore di questa e indirizzata al figlio Anselmo dall’Orto verso la metà del 1100. Oberto
I era giudice a Milano, quindi un esperto della prassi; Anselmo era studente a Bologna. Oberto scrive delle
lettere al figlio in risposta perché questo gli aveva scritto lamentandosi che nell'alma mater non si
studiavano a sufficienza le consuetudini feudali. Allora Oberto che è un giudice risponde al figlio
descrivendo in maniera dettagliata le consuetudini feudali. In due lettere di mole sostanziosa descrive
queste consuetudini feudali, lui che era giudice a Milano, quindi un esperto della prassi che applicava ogni
giorno il diritto feudale. Quindi descrive al figlio le consuetudini feudali.
Probabilmente dietro le epistole obertine stava anche il progetto milanese della redazione scritta delle
F
consuetudini, di cui sempre più si sentiva l’esigenza in quanto il comune si ingrandiva e rafforzava.
E
U
Questa “codificazione” delle consuetudini dovette avere una gestazione lunga, dato che un testo ufficiale
D
ne venne promulgato solo nel 1216.
O
Avranno tre redazioni questi libri feudorm: questa è la prima redazione è questa Obertina e poi avranno
R
altre due redazioni il cui contenuto è molto simile.
U
M
1. La prima redazione è detta Obertina in quanto imperniata sulle due lettere del giudice milanese al
figlio nonostante contenesse anche altre lettere di giudici.
2. La seconda redazione fu fatta dopo la Dieta di Roncaglia e con l’aggiunta di alcune costituzioni di
Barbarossa, quindi fu detta Ardizzoniana dal giurista e messo bolognese duecentesco Jacopo
d’Ardizzone. In realtà il contenuto è lo stesso della redazione obertina ma contiene qualche
costituzione di Barbarossa emanata dopo la dieta di Roncaglia del 1158 e ciò mutò la condizione
consuetudinaria innalzandola al rango normativo di parente delle sublimi leggi imperiali.
3. Poi c’è una terza redazione che viene detta Accursiana oppure Vulgata perché ebbe l’onore di
essere inserita all’interno dei libri legales nel Volumen (V libro) e di essere stata glossata
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addirittura da Accursio che poi vedremo è l’autore della Magna Glossa, un glossatore di
primissimo piano. La glossa ordinaria che accompagna quest’opera si pensa che l’autore fu
Accursio.

I Libri feudorum, quindi, furono inseriti nel Corpus Iuris giustinianeo. La giustificazione del loro ingresso
nel tempio giustinianeo si trovava nella presenza di costituzioni imperiali nelle due ultime redazioni del
testo. I monarchi pretendevano infatti che le loro leggi fossero equiparate alle Novelle di Giustiniano. Fu
forse Ugolino Presbiteri (un allievo di Giovanni Bassiano insegnante a Bologna per 30anni) a trascrive nel
Corpus iuris non solo altre costituzioni ma gli interi Libri feudorum, facendone una DECIMA COLLATIO in
appendice alle nove collationes in cui erano state suddivise le novelle dell’Authenticum.
Dovette trascorrere molto tempo prima che fosse istituzionalizzata e prendesse residenza stabile nel
Volumen parvum, l'ultimo dei cinque libri in cui era diviso il corpus iuris.
Lo stesso Odofredo (testimone degli eventi) tiene a precisare che erano pochi i manoscritti che la
contenevano. Uno dovette averlo il cardinale Ostiense: egli mette infatti Libri feudorum e Pace di
Costanza tra le fonti della legalis sapientia.

La cosa importante di Pillio (che anche lui glossa i libri feudorum) è che inserisce i libri feudorum tra le
materie di studio dell’università a Modena ma poi da qui verranno studiati anche a Bologna.
Vedete come l’allegoria di questa lettera con cui Oberto dell’Orto risponde al figlio Anselmo può essere
anche una storia verosimile, quello che a noi interessa è il contenuto che è pregevole perché veramente
sono racchiuse le consuetudini feudali in maniera puntuale. Anselmo può essere un vero o un
immaginario studente a Bologna, ed è verosimile che descrive una realtà esistita cioè di uno studium
bolognese che ancora a metà del 1100 trascura la prassi e in particolare il frutto più maturo della prassi
giurisprudenziale, cioè la prassi applicata nei tribunali, cioè il diritto feudale che rimane perché il feudo è
ancora esistente.
Si denota invece la differenza e il distacco con la prassi effettiva che Oberto che è giudice a Milano quindi
è un esperto di prassi e conosce perfettamente perché la applica.

Questi libri feudorum saranno oggetto di glosse, di summe (Pillio scriverà anche una summa sui libri
feudorum), di quaestiones, di tutto quell’armamentario interpretativo, di quei generi letterali che noi
abbiamo visto. Fino alla metà del 1100 magari poco, ma dalla metà del 1100 in poi - come abbiamo detto
vedendo l’evoluzione della quaestio ecc. – vediamo come la scuola si apra alla prassi, si crea un ponte con
la prassi perché i libri feudorum che vengono inseriti da Pillio come materia di studio a Modena alla fine
del 1100, la realtà di cui ci parlano i libri feudorum, quando Oberto descrive le consuetudini feudali a suo
figlio Anselmo è la realtà della metà del 1100.
Quindi nella metà del 1100 abbiamo che ancora questa apertura della prassi nella scuola non c’è o c’è
poco, quindi i libri feudorum, ad esempio, non vengono studiati, le consuetudini feudali non vengono
studiate (infatti Anselmo lo dice al padre, che poi Anselmo sia esistito o no poco importa però la
situazione è verosimile. È un escamotage narrativo, un’allegoria però è verosimile la situazione).
A Bologna ancora nel metà del 1100 l’apertura alla prassi ancora non è avvenuta infatti ai tempi dei
generi della quaestio non abbiamo una diffusione massiccia delle quaestiones ex facto emergentes. Poi
soggetti come Pillio aprono magari nelle scuole minori alla prassi: quindi si aprono con le quaestiones
fatte da Pillio dedicate alla prassi, mettendo come oggetto di studi i libri feudorum (quindi consuetudini
feudali) noi vediamo che questo dalla scuola minore diventa oggetto di studio anche a Bologna. Quindi un
altro filone alternativo a Bologna: oltre al filone che voi vedete in questa pagina al centro, con questa
interpretazione letterale della compilazione. Ecco si apriva un filone che inizia ad applicare insieme alla
prassi e che a Bologna applicava lo stesso armamentario interpretativo, con qualche differenza, anche ad
altre fonti, noi abbiamo fatto l’esempio dei libri feudorum, ma possiamo fare l’esempio anche di degli
statuti comunali o ad esempio Carlo di Tocco che a metà del 1200 fa un apparato di glosse: la glossa
ordinaria alla Lombarda.
Quindi vediamo come anche altre fonti (la Lombarda che è una fonte pavese, della scuola di Pavia) qui
viene glossata secondo i canoni bolognesi (il testo, la glossa,).
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Carlo di Tocco che è un grande giurista duecentesco farà la glossa alla Lombarda, ad esempio. Quindi lo
stesso armamentario interpretativo, i generi letterari, che si applicano alla compilazione, a poco a poco si
vanno applicando anche ad altre fonti. Usando questa cultura giustinianea, questa formazione bolognese,
questi generi letterari si applicheranno anche ad altre fonti. Quindi vedete questa apertura in qualche
modo.
S
Pillio è un protagonista da questo punto di vista, ha fatto quaestiones, i brocardi, una raccolta di brocardi
U
M (Libellus disputatorius), e anche una importante SUMMA AGLI ULTIMI TRE LIBRI DEL CODICE che come
M ricordate durante l’Alto Medioevo erano scomparsi, questi poi vengono inseriti nei libri legales e noi lì
A capiamo che il codice era fatto da 12 libri e non da 9.
E Infatti alla fine del secolo ritorna l’interesse per i Tres Libri del Codice giustinianeo. Ai tempi della pace di
Costanza, quando l'Impero era uscito sconfitto dalla battaglia per il recupero delle regalie e i Comuni
D trionfavano, i Tres Libri esibivano la normazione imperiale sul fisco e sul demanio, sulle concessioni dei
E beni pubblici e sulle magistrature locali, dovevano perdere in attualità e sembrare superati ma in realtà
I ne cominciò la divulgazione. La scomparsa del Piacentino segnò la brusca interruzione dell'ultima
coraggiosa impresa del maestro: aveva intrapreso da poco la redazione della summa dei Tres Libri. Ai
T tempi dell'imperatore Enrico 4° un giudice lucchese Rolando affrontò un'analoga impresa dichiarandosi
R
E convinto di essere il primo a tentarla. È strano comunque che non fosse trapelata notizia dell’iniziativa del
S Piacentino e che Pillio l’aveva portata avanti.
In questa summa si nota il tratto originale di Pillio il quale anziché incontrare templi della giustizia e
L signore affascinanti come il Piacentino, preferiva invece sognare: in uno dei suoi sogni, gli apparve il
I Piacentino e lo sollecitò a continuare l'opera sui Tres Libri che aveva lasciata incompiuta. Tuttavia
B
R neppure Pillio riuscì a completare l'opera, e dunque quella di Rolando da Lucca tornò buona.
I
Visti i problemi di connessione fermiamoci qui e ricordiamoci che siamo arrivati a Pillio.
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Lezione n. 11 – 04.11.2020

PILLIO E LA TEORIA DEL DOMINIO DIVISO.


Pillio è un personaggio molto importante che incarna il filone dell’apertura e segna l’innovazione dei metodi di
insegnamento perché, ad esempio, il Brocardo è un genere letterario a cui Pillio dà molto rilievo e lo inserisce
nel metodo di insegnamento.
L’intento di Pillio è quello di facilitare l’apprendimento del diritto per i suoi allievi anche se non si sa se ci riuscì
considerato che la sua enorme raccolta di brocardi, il Libellus Disputatorius, è una mole ragguardevole; quindi
quanto abbia facilitato lo studio degli allievi non si sa ma sicuramente è un tentativo di innovare. Il Brocardo in
genere è gemello della quaestio e si apre molto alla prassi.
Pillio è importante per questo, per il suo contributo ai Libri Feudorum e perché è un grande feudista, cioè si
occupa di Libri Feudorum, li studia e li interpreta.
Inoltre Pillio fu uno dei tanti ad elaborare la teoria del dominio diviso. Ancor più dei pratici medievali,
sicuramente questi giuristi si pongono anche l’obiettivo di dare definizioni alla realtà che stavano vivendo e
questo nell’alto medioevo non interessava in quanto interessava di più l’aspetto pratico. E questi giuristi
cercano di incasellare la realtà e la prassi che stavano vivendo in schemi che si riconducono al diritto romano e
farli entrare, seppur estensivamente, a quelli romanisti della compilazione giustinianea.
Pillio prese spunto proprio dai suoi studi sui libri feudorum per dare un contributo essenziale alla figura tecnico-
giuridica del feudo lombardo. Nella sua summa si trova la definizione di actio rem o rei vindicatio utilis come
azione spettante al vassallo e il dominium utile come suo diritto al beneficio.
Pillio inquadra e vede la realtà feudale come un dominio diviso, che spaccava la proprietà feudale in due
sottospecie: Pillio parla di un dominio diviso in dominio diretto e dominio utile:
- Il signore, cioè colui che è il titolare formale del feudo, del bene ha un dominio diretto, cioè una titolarità
solo formale sul bene: il dominio diretto spettava a chi aveva la titolarità astratta del bene  nudo
proprietario;
- Il vassallo, cioè colui che gode del bene, avrà un dominio utile, cioè sarà colui che semplicemente gode del
bene: il dominio utile spettava a chi aveva il godimento concreto del bene, configurandosi come un diritto
reale su cosa altrui di particolare intensità.

Pillio aveva preso spunto da Oberto dall’Orto il quale, nel dare una definizione del beneficium feudale, lo
tratteggiava prima come uno strano usufrutto trasmissibile agli eredi e, poi, lo proteggeva dando al vassallo una
reivindicatio che si avvicinava più ad una proprietà che ad un usufrutto. Quest’immagine quasi proprietaria del
vassallo venne costruita sulla costituzione di Corrado II del 1037 che ebbe notevole rilievo sulla storia del feudo
italiano: assicurando la stabilità del beneficio, purché il vassallo non incorresse nella colpa dell’infidelitas, e la
trasmissibilità ereditaria ai discendenti diretti, la costituzione in questione aveva disegnato i contorni di un
diritto reale molto intenso quanto quello spettante agli enfiteuti definito, da una costituzione di Teodosio e
Valentiniano, feudorum domini.
Ai tempi di Oberto, l’accostamento tra feudo ed enfiteusi era stato sancito dalla consuetudine: nella prassi
lombarda, infatti, l’investitura era diventata un contratto agrario gemello di enfiteusi, livello e precaria. Quando
Pillio compì l’opera di assimilazione del feudo ad una specie di proprietà, era circondato dalla consuetudine ma
i romanisti svolgevano i loro ragionamenti sul filo delle fonti giustinianee: Pillio, allora, prese spunto da quelle
che attribuivano al superficiario, al conduttore a lungo termine e all’enfiteuta un’actio in rem per spiegare come
fosse naturale assegnarla per analogia anche al feudatario. Dato che si trattava di azioni che le fonti definivano
utiles, dal piano formale passò a quello sostanziale dei corrispondenti diritti soggettivi e parlò di dominium utile.

Vediamo dunque lo sdoppiamento della categoria romana del dominium, importante e centrale nel diritto
romano perché identifica la proprietà. Essa è sdoppiata da Pillio in due categorie, il cosiddetto dominio diviso,
perché sarebbe stato difficile spiegare ed inquadrare nel dominio romano questa situazione feudale che è
diverso: abbiamo due soggetti, il titolare formale del bene (dominio diretto) e il soggetto che effettivamente usa
il bene (dominio utile). Il suo maestro, Piacentino, aveva rifiutato di ammettere lo sdoppiamento della
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proprietà, che riteneva indivisibile e unitaria. Pillio è importante anche per questo ed è uno di quei tanti giuristi
della fine del 1100 e inizio 1200 che segnano dei percorsi nella scuola di Bologna.

Bulgaro affermava che la prescrizione ventennale o trentennale non aveva efficacia acquisitiva della proprietà e
attribuiva un semplice effectus domini; Martino, sosteneva il contrario, e faceva della prescrizione un modo di
acquisto del pieno dominio. Giovanni Bassiano avrebbe precisato che l’effectus domini di cui parlava Bulgaro, altro
non era che il dominium utile.

LA MAGNA GLOSSA ACCURSIANA: L’APPARATO DI SINTESI.


Veniamo adesso a questo 1200 il cui punto di arrivo sarà la Magna Glossa Accursiana. Sarà Accursio a comporre
questo apparato.

Il prof ha condiviso la magna glossa accursiana sullo schermo in due versioni: la versione manoscritta contenuta nel
collegio di Spagna, complessa per chi non conosce le sue fonti, l’altra è la versione a stampa del ‘500 più
comprensibile.

La scuola bolognese conservò nella prima metà del Duecento anche la propria tradizione di tempio della glossa,
e ne celebrò il rito con le grandi imprese di Azzone e di Accursio. Azzone scrisse quaestiones e rilasciò qualche
consilium per il foro. Importanti furono le sue summae che brillano come novità all’interno della scuola di
Bologna, dedita a produrre apparati di glosse. È un fenomeno singolare il fatto che le due summae Codicis e
Institutionum escano dalla penna del maestro bolognese. Tentò anche di redigere una summa del Digesto.
L’opera riuscì a metà e fu proseguita da Ugolino, ma restò comunque incompleta. Addirittura, Azzone scrisse la
Summa Authenticorum, riguardante le Novelle, e avrebbe anche compilato una summa dei libri feudorum,
completando la summae bolognese ai libri legales. Perché questo interesse per le summae, genere sistematico
per eccellenza? Sostanzialmente Azzone avvertì i pericoli insiti nel metodo di commentare le parole:
frammentava la visione sistematica del Corpus iuris e rischiava di tradirla.

Accursio, già in età giovanile, proseguì il lavoro del suo maestro e, dapprima, i legami delle glosse di Azzone e
Accursio apparvero come un’operazione unica. Ma presto, il nome di Accursio restò il solo ad indicare la
paternità dell’opera. Raccoglierà circa 96mila glosse, corredando l’intero corpus iuris, e farà un apparato che è
quel genere letterario della glossa, è una raccolta di glosse scelte. E Accursio farà un lavoro monumentale
quando farà la sua Magna Glossa.
La Magna Glossa in versione manoscritta si va formando alluvionalmente: le diverse versioni manoscritte della
Magna Glossa dimostrano il lavorio di Accursio. Le versioni manoscritte della Magna Glossa sono tante, magari
dello stesso passo vediamo manoscritti con più glosse e questo ci fa capire che Accursio è in una fase successiva
del suo lavoro. Accursio probabilmente portava avanti questo lavoro per circa 30 anni.
È un personaggio molto discusso della storiografia; nacque in Toscana, si pensa vicino Firenze o addirittura a
Firenze, intorno al 1181 e visse oltre 70 anni. Pare che da giovanissimo avesse frequentato la scuola dei
glossatori, fu allievo di Azzone, si laureò con Balduino e insegnò diritto civile a Bologna nel 1221. Accursio ebbe
numerosi allievi e scolari, tra i quali il figlio Francesco che fu chiamato poi dal re Enrico I per insegnare ad
Oxford; ebbe tra gli allievi anche Vincenzo Ispano e forse anche Sinibaldo Fieschi che sarà il futuro pontefice
Innocenzo IV.
Diciamo che quest’uomo fu un importante e autorevole insegnante bolognese anche se le testimonianze
relative al suo stile di vita sono incerte:
- c’è chi lo descrive come un uomo ascetico, dedicato allo studio e maestro di buone maniere;
- ci sono teorie più recenti che ritengono che questa descrizione non corrisponda al vero e dicono che sia un
personaggio ricchissimo non tanto per l’insegnamento e l’avvocatura, ma per la pratica dell’usura con gli
studenti e della corruzione degli esami, pratica confermata dal ritrovamento di testi e testimonianze degli
studenti.
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Sicuramente è un personaggio molto ricco tanto che la sua casa a Bologna è oggi incorporata nel palazzo
comunale, detto palazzo di Accursio. Pare inoltre che la sua biblioteca fosse la più importante raccolta privata di
libri giuridici del medioevo, conteneva circa 63 volumi in folio che è una cifra ragguardevole per un privato.
Quindi Accursio raccoglie quasi 97mila glosse e compone la sua opera, la Magna Glossa Accursiana, in tre
decenni. Glossa tutti i Libri Legales: dal Codex ai 3 libri dei Digesta contenuti nei Libri Legales, al Volumen e si
pensa che anche i Libri Feudorum abbiano avuto l’onore di essere glossati da Accursio.
Compone un’opera che è la sintesi di 4 generazioni di glossatori: Accursio sceglie le glosse da salvare e ne fa
una raccolta, a volte in manoscritti nuovi in cui va scegliendo le glosse, altre volte in manoscritti già usati dove
veniva cancellato il precedente e viene messa la glossa accursiana.
Nel corso del ‘200 a Bologna si sentiva l’esigenza di fare un’opera di sintesi e di riassunto dell’operato di 4
generazioni di glossatori, di dare una rotta identificativa e interpretativa a 4 generazioni di glossatori. E Accursio
fa questo: raccoglie le glosse. In gran parte si rifà all’opera del suo maestro Azzone che già aveva iniziato
un’opera di raccolta, un apparato di glossa.
Accursio fa un’opera mastodontica, seppur si dubita dell’originalità poiché non appone molto di nuovo, ma si
limita a raccogliere le glosse già esistenti, sceglie quelle delle quali condivide l’interpretazione e le mette in
questo apparato. Accursio così come quelli che fanno gli apparati viene definito come autore di esso,
nonostante non vi aggiunge nulla, perché sceglie quale materiale salvare, le glosse da salvare nei singoli passi
della compilazione; il testo c’è ed è sempre integro ma delle varie interpretazioni di 4 generatori di glossatori,
Accursio sceglie quale glossa salvare nei singoli passi della compilazione. E fa la magna glossa, detta anche
GLOSSA ORDINARIA, cioè da questo momento in poi la magna glossa realmente si ingloba nel testo,
accompagna stabilmente il testo giustinianeo nei manoscritti e, dal 1469, in tutte le stampe. Nessun giurista
poté farne a meno. La versione a stampa inizierà a circolare a partire dalla seconda metà del ‘400 in moltissimi
esemplari, talvolta anche diversi l’uno dall’altro.
Le versioni manoscritte della Magna Glossa hanno un contenuto fluido: infatti lo stesso Accursio formerà la
Magna Glossa in 30 anni, per cui vi sono manoscritti in cui vi è una prima parte della Magna Glossa, altri
manoscritti in cui più tardi aggiunge altre glosse che man mano ha raccolto, quindi va completando
quest’opera. Spesso può capitare anche che altri autori facciano delle additiones, cioè aggiungono del loro.
La magna glossa accursiana accompagnerà il testo dei Libri Legales e verrà vista come un tutt’uno con loro. Sarà
veramente la forma ufficiale che accompagnerà i libri Legales, sarà inglobata nel testo e sarà l’interpretazione
ufficiale e la glossa ordinaria.
La Magna Glossa è detta anche glossa ordinaria: è la glossa definitiva e che ordinariamente accompagna un
testo, per cui la glossa accursiana accompagna il testo dei libri Legales e l’accompagnerà nella versione
manoscritta ma anche nella versione a stampa. La glossa ordinaria esiste di vari testi anche Carlo di Tocco ha
fatto la glossa ordinaria alla lombarda.
Quindi, la magna glossa è un’opera rilevante. Da Accursio in poi, quindi dalla metà del 1200 in poi, i libri Legales
cammineranno sempre con la magna glossa accursiana che è un meta-testo, cioè un testo nel testo: la glossa
presuppone il testo che è presente e prevale l’idea della cornice di glosse che accompagnano il testo.
Dal 1250 in poi circa, con Accursio si arriva alla sintesi di 4 generazioni di glossatori: la magna glossa è la
raccolta e l’apparato di glosse che sintetizza le 4 generazioni di glossatori.

Se era uso che il discepolo proseguisse il lavoro del proprio maestro, stona invece che Accursio abbia ripreso in mano
e rifinito la glossa ai Libri feudalis di Pillio da Medicina che non solo non era suo maestro ma non doveva nemmeno
esercitare molta simpatia visto che era seguace dell’avversa scuola piacentina e che abbandonò Bologna per
Modena. In effetti l’apparato ordinario del codicetto feudale era assegnato a Iacopo Colombi, un giurista scolaro di
Pillio.

Cerchiamo di riassumere Bologna attraverso dei importanti spot che faremo sul ‘200.
Nel corso della metà del ‘200 Accursio farà quest’operazione di sintesi delle 4 generazioni glossatori, la magna
glossa accursiana.
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Questo rispecchia la Bologna e lo studio bolognese più ortodosso legato alla glossa, questo studio a cornice nel
senso che le glosse sono interpretazioni che accompagnano il testo che è presente fisicamente ed è
fondamentale per l’attività di interpretazione che è inscindibile dal testo stesso. Questa corrente ci fa
conoscere personaggi come Irnerio, Bulgaro, Azzone e poi anche Accursio.
Tra la fine del 1100 e all’inizio del ‘200, oltre Azzone, Ugolino Presbiteri e Accursio c’erano anche altri
personaggi, cioè la scuola di Bologna era molto animata anche dagli influssi delle scuole minori. All’interno della
scuola di Bologna avevano insegnato importanti docenti come Pillio, Ugolino Presbiteri, Roffredo Beneventano,
Odofredo, Iacopo Balduini, personaggi che si erano formati a Bologna e che poi erano andati ad insegnare nelle
scuole minori; questi personaggi, come dice Mario Bellomo, incarnavano una visione non contrapposta ma
alternativa rispetto a quella più ortodossa della scuola di Bologna che Accursio incarna.
[Quindi distinguiamo la scuola ortodossa di Bologna legata al testo (Irnerio, Bulgaro, Azzone ad Accursio) da un
filone non contrapposto ma alternativo e sempre collegato al primo (Pillio, Odofredo, Roffredo).]
Da Irnerio, Bulgaro, Azzone ad Accursio c’è un filo. Pillio, Odofredo, Roffredo incarnano in qualche modo una
corrente non contrapposta ma alternativa.

LA CORRENTE ORTODOSSA DI ACCURSIO E LA CORRENTE ALTERNATIVA DI ODOFREDO.


Odofredo racconta molti stralci della scuola. Fu allievo di Giacomo Balduino, importante professore della scuola
di Bologna del 1100, divenne professore a Bologna dopo aver fatto l’avvocato sia in Francia che in Italia.
Restano celebri alcune sue frasi e rispecchia molto il giurista duecentesco. Quando qualcuno si lamentava che i
suoi insegnamenti fossero costosi, rispondeva che “tutti vogliono istruirsi ma nessuno vuol sapere il prezzo del
sapere”. Diceva questo per difendersi dalla critica a questi professori bolognesi che vivevano tra privilegi e
ricchezza notevoli per cui i loro insegnamenti erano molto costosi e se li potevano permettere solo poche
famiglie importanti, i rampolli europei.
All’inizio del ‘200 a Bologna serpeggiava l’idea di fare un’opera che mettesse ordine a tutte queste innumerevoli
interpretazioni, glosse e quaestiones che andavano ad affollare la compilazione. Però vi erano vari modi per
farlo e ne erano consapevoli.
Uno di questi personaggi fu Accursio che in circa 30 anni si mise a lavorare alla sua magna glossa; ma anche
Odofredo che scelse una via diversa e alternativa per riassumere la scuola di Bologna; tra l’altro i due si
conoscevano e si diceva fossero anche in competizione tanto che Accursio diceva che Odofredo non avesse mai
finito la sua opera, cioè le Praelectiones, a causa di alcune infermità, ma ciò non è vero. Vivono nello stesso
periodo bolognese dove a Bologna, accanto a questa corrente più ortodossa legata al testo esisteva una
corrente alternativa; anche gli odofreiani erano legati al testo, ma esprimono una corrente alternativa.
Lo vediamo anche vedendo le Praelectiones, un’opera che secondo Odofredo avrebbe dovuto riassumere le 4
generazioni di glossatori e la vita della scuola di Bologna dal suo sorgere, composta da una raccolta di lezioni
scolastiche sui testi giustinianei.
Odofredo mostra un approccio esegetico diverso da quello accursiano ortodosso:
- l’opera di Accursio è caratterizzata dalla cornice di glosse che inquadrano il testo dei Libri Legales e formano
una pagina nitida ed ordinata data da un costante confronto fra il testo e l’interpretazione letterale che
entra a far parte del testo, distinta graficamente ma che incornicia il testo;
- la visione odofrediana è diversa: nelle Praelectiones si susseguono senza soluzione di continuità sia
quaestiones che glosse che aneddoti. L’elemento importante è che in questa opera si prescinde dalla fonte
legislativa di cui si citano solo gli incipit, cioè le prime parole della fonte giustinianea sufficiente ad
identificarla. È un modo diverso di interpretare la compilazione giustinianea perché si prescinde dal testo
del quale si citano solo gli incipit e si susseguono quaestiones e glosse in maniera disordinata.
L’interpretazione diventa centrale e si prescinde dal testo. Questo ci lega molto a quelle correnti di pensiero
e a quei generi letterari che nascono a Bologna e prescindono dal testo.

In queste lunghe pagine dell’esegesi fatta da Odofredo, che a tratti è particolareggiata e contiene concretissimi
aneddoti e squarci di vita dello studio bolognese, del foro, del tribunale, della città stessa, l’autore si riconnette
con le quaestiones ex facto emergentes che aprono la scuola alla prassi. Realmente abbiamo una connessione
tra le Praelectiones che rappresentano il manifesto di qualcosa di alternativo rispetto all’opera vincente
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accursiana. Si riconnette di più alle quaestiones di quei due grandi dottori che erano Pillio che scrive le sue
quaestiones auree a Modena intorno alla fine degli anni ‘90 del XII sec e alle quaestiones sabatine di Roffredo
Beneventano che, invece, nascono nel contesto di Arezzo negli anni ‘60 del 200. Queste raccolte offrono, per
più di un secolo, una ricchissima casistica sulla quale saggiare la preparazione del diritto a generazioni di
studenti attratti dalle professioni legali.
Pillio, Roffredo, Ugolino da Presbiteri, Jacopo Balduini, Odofredo, Guido da Suzzara ma anche altri autori come
Carlo di Tocco che farà la Glossa Ordinaria alla Lex Lombarda, si aprono alla prassi e c’è un filo di continuità
rispetto alla versione più ortodossa di Accursio e Azzone. Questi altri mostrano una ben più spiccata attenzione
per la realtà e per le sue variabili e se c’è un filo che lega l’ortodossia bolognese da Irnerio, Bulgaro, Azzone ad
Accursio, c’è un filo che lega Pillio, Roffredo Beneventano, Carlo di Tocco, Ugolino Presbiteri, Odofredo, Jacopo
Balduino, legati da quest’altra visione alternativa che non sarà vincente perché il modello accursiano sarà
quello destinato ad imporsi, come dice Mario Bellomo nel suo interessantissimo libro. Mario Bellomo è il
fondatore di una rivista di diritto comune e ogni anno fa una riunione organizzata dai suoi allievi ad Erice in cui
si parla ancora tuttora del diritto comune. Mario Bellomo dice che alla fine la corrente accursiana fu quella
destinata ad imporsi in quanto Accursio è vincente perché raccoglie l’interpretazione ufficiale della
compilazione giustinianea fatta dai glossatori ma pone anche fine all’opera dei glossatori civili. È l’ultimo dei
glossatori civili anche se avremo anche suo figlio Francesco. In qualche modo con Accursio che, insieme ad
Azzone, era ansioso di accreditare la cultura giuridica come la nuova filosofia della pratica che nobilita i suoi
studiosi, li rende meritevoli di onori e li colloca tra i prìncipi del mondo, una cultura capace di aprire ai giuristi le
porte dell’aristocrazia cittadina, e di fargli attribuire il titolo di “nobiltà di toga” (il diritto svolgeva in effetti una
funzione sociale elevatissima: era il veicolo che faceva scendere la giustizia dalle vette etiche delle virtù
cardinali sul terreno concreto delle attività dell'uomo-cittadino. Il giurista del tempo era propenso a ricercare
l'intima ratio di norme, atti e negozi, i loro contenuti e il loro spirito, guardando dall'alto in basso ai quesiti
letterali e di forma), termina la grande stagione dei glossatori.

La corrente alternativa incarna le esigenze a cui magari la corrente ortodossa non è riuscita a dare risposta.
Quell’altro di alternativo che c’era in quello stesso periodo nelle scuole minori ma a Bologna stesso sarà legato
alla linea di continuità e lo vedremo con la scuola dei commentatori perché molti di questi vanno a Bologna, in
Francia ad Orleans e lì imparano un metodo nuovo e portano dei contributi bolognesi e portano questa eredità
legata a questo filone alternativo cioè l’apertura per la prassi, la visione del testo giustinianeo come sacro e
inviolabile, però porta con sé opere e generi letterari che adesso presuppongono il testo, lo danno per
assodato, ma non devono, come la magna glossa accursiana che è l’emblema della bologna ortodossa, portarlo
con sé; i generi letterari presuppongono il testo ma sono indipendenti da esso, fanno una ricerca che va oltre
l’indagine letterale.

La vita bolognese del 200 era fatta da Azzone e Accursio ma lato sensu, quindi in generale, l’emisfero bolognese
non era fatto solo da Bologna ma anche dalle scuole minori perché il metodo interpretativo è quello: noi le
chiamiamo scuole minori per distinguerle da Bologna, ma il metodo interpretativo è quello; non c’è solo
l’ortodossia cioè questo filone ortodosso bolognese ma c’è anche altro. Ad esempio, i Libri Feudorum possono
incarnare questo altro.
In quello che abbiamo detto oggi e ieri si può fare un collegamento con i Libri Feudorum: per esempio la lettera
di Oberto dall’Orto al figlio in cui racconta le consuetudini feudali, ora sicuramente è verosimile o comunque
può anche essere un espediente narrativo, però sicuramente è verosimile che tra la fine del 1100 accanto
all’Alma Mater a Bologna vi fosse anche uno studio più aperto alla prassi e quindi uno studente a caso a
Bologna, che in questo caso è Anselmo, può lamentarsi del fatto che a Bologna non si studiasse a sufficienza la
prassi applicata nei tribunali e gli risponde un giudice milanese che gli racconta questa prassi.
Quest’apertura per la prassi è un filone alternativo per la scuola di Bologna che possiamo legare alle scuole
minori dove c’era un’attenzione particolare per la prassi e anche al genere letterario della quaestio che ci
riassume anche questa apertura della scuola o di parte di essa alla prassi.
La quaestio è un genere letterario bolognese che si fa risalire a Bulgaro e incarna anche l’apertura della scuola
alla prassi. Le quaestiones ex facto emergentes descrivono come questo impianto casistico, dell’interpretazione
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casistica che è molto utile per chi deve fare pratica forense e per chi deve esercitare la professione ed è il
prendere la quaestio, il querere, il casus, la questione anche dalla realtà contemporanea e quindi da altre fonti
provenienti da enti particolari e quindi provenienti dagli studi comunali, dai libri Feudorum, da una sentenza
attuale. Spesso la soluzione viene trovata all’interno della compilazione giustinianea e quindi vediamo come si
estende e si inizia ad estendere l’interpretazione della compilazione ad altre fonti e ad attualizzare la
compilazione e aprire la scuola alla prassi.
Questo era molto utile per chi voleva fare le professioni legali ed è molto applicato nelle scuole minori da
Roffredo Beneventano ad Arezzo, da Pillio a Modena, sono tutte raccolte di quaestiones che hanno un grande
successo. Il testo giustinianeo viene interpretato partendo dai casi, non c’è una riproposizione così del testo.
Il testo è presupposto e si conosce, così come anche nelle summe. Si presuppone il testo giustinianeo integro e
ricomposto, è un testo chiuso; però è un’interpretazione diversa quella delle glosse perché è un indirizzo più
aperto alla prassi, sono testi più agili che presuppongono la fonte normativa e quindi non la citano
completamente. Spesso mettono solo l’incipit della fonte, come fa Odofredo nelle sue Praelectiones.
Odofredo incarna questa volontà di riassumere la scuola di Bologna secondo questa visione alternativa,
partendo da questi generi letterari altri o mescolandoli. Le Praelectiones di Odofredo sono un’opera che,
rispetto alla visione ortodossa, è perdente perché per i posteri il riassunto delle 4 generazioni di glossatori e
l’opera che mette punto alla scuola di glossatori è sicuramente la magna glossa accursiana, opera che
rispecchia l’ortodossia bolognese: con la cornice di glosse che in maniera ordinata danno l’interpretazione che
trae il frutto più maturo delle 4 generazioni di glossatori. È questa l’eredità ufficiale e l’interpretazione ufficiale
della compilazione giustinianea, la magna glossa o glossa ordinaria di Accursio, il filone vincente all’interno della
scuola dei glossatori ma c’è il filone alternativo che è altrettanto importante.
Vedremo, parlando della scuola di Orleans e della scuola dei commentatori, come anche la storiografia in
qualche modo sta rivedendo questo ‘200: il il ‘200 bolognese non è soltanto da una parte Accursio e, poi, nella
seconda metà del ‘200 in poi, nasce la scuola dei commentatori; c’è un trait d’union, c’è un’unione fatta da
personaggi come, ad esempio, Guido di Como. Egli studia a Bologna, fa un’opera esegetica alle istituzioni di
Giustiniano. È stato a Bologna allievo di Jacopo Balduino, il quale era stato maestro anche di Odofredo. Proprio
Balduino aveva salvato Guido da Como dalle ire di Francesco, figlio di Accursio, perché aveva dato
un’interpretazione alternativa della compilazione giustinianea rispetto all’interpretazione pomposa e ufficiale
contenuta nella magna glossa accursiana. Guido da Como è un personaggio emblematico. Va in Francia, ad
Orleans dove nascerà qualcosa di nuovo rispetto a Bologna: lì ci sono i germi della scuola del commento che
verrà dopo e in alternanza rispetto alla scuola dei glossatori alla quale Accursio pone un punto.
C’è un legame tra la scuola dei commentatori, che avrà successo in Italia con la scuola di Orleans, ma c’è un
legame tra questa scuola e questo filone alternativo che a Bologna già dall’inizio del ‘200 aveva proliferato. Il
‘200 non è solo la fine dei glossatori e l’inizio dei commentatori, ma c’è qualcos’altro. La storiografia da poco si
sta rendendo conto di questo aspetto e di questi legami sotterranei tra questi percorsi, questo filone alternativo
di Bologna incarnato da Odofredo ma non solo da lui, il quale si lega a stretto raggio con Pillio, con Roffredo
Beneventano, Guido da Tocco, soggetti che pongono attenzione alla prassi e sono protagonisti di generi
letterari quali la quaestio, le quaestiones ex facto emergentes e di queste quaestiones aperte verso la prassi.
Anche il modo stilistico, vedendo le Praelectiones di Odofredo e i generi letterari successivi che
caratterizzeranno la scuola del commento, questo distacco dal testo e questa interpretazione diventa centrale,
perché distaccarsi dal testo e fare semplicemente un’interpretazione significa porre l’accento su qualcos’altro.
Ma già questo nasceva a Bologna stesso e rispondeva ad esigenze a cui il filone ordinario di Bologna non
riusciva più a rispondere e si esaurisce con Accursio che mette in luce anche le esigenze nuove e l’evoluzione
della scuola dei glossatori che con lui si chiude e il passaggio a qualcos’altro, cioè la scuola del commento con il
tramite di Orleans.

Recenti ricerche vedono l’incompiutezza dell’attuale stato dell’arte sul ‘200 e che nell’ambito giuridico è molto
vivace: rispetto ad Accursio e la scuola del commento, ci sono tanti altri personaggi come Odofredo. Odofredo è
un personaggio simpatico anche se definito come un cialtrone che dà spesso informazioni non vere.
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Ci sono molti legami tra questi personaggi - Odofredo, Balduino, Pillio, Roffredo Beneventano- e la scuola di
Orleans cioè la scuola del commento. In realtà questi sono grandi innovatori dello studio e dell’insegnamento
bolognese e dei generi letterari e di questo fanno tesoro anche altri studiosi.
Le Praelectiones di Odofredo sono una visione alternativa rispetto a quella Accursiana che incarna il formalismo,
la glossa, l’interpretazione testuale formale. Odofredo è altro e cerca di riassumere le 4 generazioni e mettere
anche un punto ai glossatori e all’interpretazione ai Libri Legales, ma lo fa in maniera diversa da Accursio. Le
Praelectiones vedono immischiate glosse, quaestiones, racconti aneddotici sulla scuola di Bologna, lecture, cioè
spiegazioni della compilazione fatte da più interpretazioni in cui il testo è presupposto e si mette l’incipit per
richiamare una norma; questo ricorda, per esempio, i notabilia ovvero un genere letterari o quella glossa che
richiama il contenuto del testo. Qui, invece, si mette solo l’incipit per richiamarlo e poi tutta interpretazione, a
differenza di Accursio che nella glossa riporta l’integrità del testo. È un altro modo di interpretare la
compilazione giustinianea che non sarà vincente, in quanto sarà vincente quella di Accursio, però interpreta
esigenze che poi saranno prese anche da altri. E con questo chiudiamo la scuola dei glossatori.

RICAPITOLANDO SULLA SCUOLA DI BOLOGNA.


Le lezioni sulla scuola Bologna, sulla scuola dei glossatori, sono fondamentali perché stiamo capendo l’officina
del diritto comune.
Abbiamo visto come e da dove nasce Bologna, che non è una nascita miracolista ma è legata ad alcuni fattori di
ripresa economica e sociale ma vi sono dei sentori: anche qui bisogna rispondere a delle esigenze, esigenze più
complesse perché la società è cambiata ed è più complessa nell’anno 1000 per cui bisogna ricercare un diritto
più complesso che è il diritto romano giustinianeo, un diritto valido ma che deve diventare efficace. E qui c’è
l’interpretatio dei giuristi, rinasce la classe dei giuristi. La casta dei giuristi si evolve fino al ‘400 dalla nascita
della scuola di Bologna fino alla fine della scuola del commento. L’interpretatio è un termine essenziale per
capire come si interpretava la compilazione giustinianea, da lì si parte per rendere questa fonte valida anche
efficace.
Poi abbiamo visto i generi letterari della scuola bolognese che ci dicono tanto sull’evoluzione della scuola e
sull’interpretazione fatta dalla scuola. Un dato importante è che quell’armamentario interpretativo verrà
applicato anche non soltanto nella compilazione giustinianea ma anche altre fonti, come fonti che provenivano
dagli statuti comunali, dalle fonti feudali come i Libri Feudorum; ma anche all’altra branca fondamentale del
diritto che è il diritto canonico. In questo stesso periodo fioriscono le fonti di diritto canonico. Dal decreto in poi
si viene a creare il diritto canonico classico che si forma nello stesso periodo e i protagonisti saranno giuristi che
applicheranno l’armamentario interpretativo, applicato alla compilazione giustinianea, anche alle fonti del
diritto canonico. Questa è l’officina del diritto comune che si fonda sull’interpretatio. Questi giuristi applicavano
alle fonti normative attuali questo armamentario interpretativo che avevano già testato nell’interpretazione
giustinianea. Daremo effettivo significato al termine “giurista laureato in entrambe le branche del diritto”, civile
e canonico. Quella corrente che da Martino Gosia, uno dei 4 allievi di Irnerio, ci porta fino all’apertura a quei
concetti presi dal diritto canonico fino ad applicare, con Baldo Iubaldi, nel ‘400 in maniera agile e naturale i
metodi interpretativi e i generi letterari applicati nella compilazione anche al diritto canonico. Ecco come si
forma questo sistema di diritto comune.

Stampare dal Cortese pag. 56 par. 11


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In questo periodo fiorisce la letteratura messianica che fa le previsioni sull’avvento dell’anticristo e


Papa Gregorio IX dice che l’anticristo sia proprio Federico II.
Alla scomunica, Federico II risponde con una lettera nella quale dice: “Colui che ha solo il nome di
Papa ha scritto che noi siamo la bestia che se ne va dal mare, maculata come una pantera. Ma noi
diciamo che è lui quella bestia di cui si legge. Al momento della creazione, Dio pone nel cielo due
luci: una più grande ed una più piccola. La più grande illumina il giorno, la più piccola la notte e
così le due luci per onorare il loro compiti si guardano in obliquo, così da non disturbarsi a
vicenda. La più grande manda luce sulla più piccola. Analogamente Dio ha posto in terra due
governi, due regimina, il papato e l’impero. Il primo ad cautelam e l’impero ad tutelam degli
uomini”.

Questa è la teoria dei due Soli, delle due luci che Dio mette e che vediamo raffigurata a Monreale:

Nella miniatura si vede Dio che mette le due luci nel firmamento, il Sole e la luna, e ha di base
questa concezione politica delle due autorità che Dio dà all’umanità, l’una per cautela, l’altra per
tutela (termini tratti dal vocabolario giuridico).
L’imperatore è il tutore dell’umanità, deve occuparsi e agire per conto dei suoi sudditi. Si capisce,
dunque, che nello scontro tra Federico II e il Papa si annida lo scontro tra una concezione laica
nella sua realizzazione, ma comunque teocratica, e tra l’idea del Papa il quale, poggiandosi
sull’idea del vicariato, consolida la sua autorità suprema.

Federico II e Gregorio IX muoiono quasi contemporaneamente e la storia cambia perché, infatti,


alla morte di Federico II le corone del regno di Sicilia e dell’impero si separeranno per non unirsi
mai più.
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Dalla seconda metà del ‘200, la storia della Sicilia sarà un po’ diversa. I successori di Federico II
sono Manfredi, figlio naturale illegittimo che non viene mai riconosciuto anche se si nomina re, e
Corradino che viene ucciso in guerra.
Il papato, in uno spirito di rivalsa, assegna il regno di Sicilia a Carlo D’Angiò, mettendo un
principe francese sul trono del regno di Sicilia, grazie anche ai legami che la Francia (già dai tempi
di Carlo Martello e Pipino il Breve) ha con il papato stesso.

 Alla morte di Federico II, come fa il Papa ad assegnare il regno di Sicilia agli Angiò? Che
autorità ha?

La glossa del Liber Augustalis fatta da Marino da Caramanico, un giurista meridionale, afferma una
massima famosa, ovvero “rex in regno suo est imperator, superiorem non recognoscens”, cioè
l’idea che il potere del re all’interno del regno sia lo stesso dell’imperatore nei confini dell’impero,
non riconosce un’autorità superiore, è un’autorità piena.

Sono due teorie che si contrappongono e che vincono a seconda dell’effettivo potere politico
dell’una sull’altra.

Il Papa non ha mai smesso di sentirsi il signore del regno. Quando muore Federico II, non avendo
eredi legittimi e non avendo preparato la sua successione al trono di Sicilia, la situazione si
complica perché Manfredi, pur essendo figlio naturale non viene riconosciuto come erede legittimo
perché non è stato riconosciuto dal padre e, quindi, è un bastardo che non può salire sul trono per
problemi di legittimazione e legittimità.
Questo indebolisce moltissimo l’apparato di governo perché è vero che Manfredi prova a resistere,
ma è altrettanto vero che il potere si gestisce con il consenso e con il supporto dei nobili. C’è una
feudalità all’interno del regno, ogni nobile ha i suoi cavalieri, non esiste un esercito di Stato.
Quindi, se i feudatari non danno il supporto militare alla corona, la corona non può fare nulla.
E se i feudatari capiscono che la figura del re vacilla, si mettono al servizio del Papa. Quindi, è una
partita politica in cui il Papa, approfittando di quella debolezza e della morte di Corradino, riempie
il vuoto perché, dai tempi della conquista normanna, aveva dato in feudo il regno ai normanni e,
dunque, è lui il signore di questo regno e può mettere sul trono chi preferisce e mette Carlo
d’Angiò.
È un problema di gioco politico vero e proprio in cui però dobbiamo guardare anche all’aspetto
giuridico.

Ma il 31 marzo 1282, la Sicilia si ribella agli Angiò con il vespro, cacciandoli dall’isola e da quel
momento il regno si divide in due parti:
- La parte continentale che rimane sotto il governo angioino;
- E l’isola che si affida, invece, al sovrano aragonese Pietro I, chiamato dai nobili siciliani a
prendersi la corona.

Fino alla fine del ‘300 si ha un periodo di monarchia indipendente in Sicilia, cioè i sovrani sono re
di Sicilia.
Alla fine del ‘300 avviene il matrimonio tra Maria –ultima erede di Federico IV- e Martino Di
MontBlanc, che poi diventa re della corona d’Aragona e questo segna l’inizio di un’altra fase che
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culmina con Alfonso V, detto il Magnanimo, che dalla Sicilia comincia la riconquista di tutto il
regno di Napoli portando all’unificazione dell’isola con la parte continentale alla metà del ‘400.
Alfonso si caratterizzerà per essere il sovrano rinascimentale per eccellenza e Napoli diventerà il
centro dell’umanesimo meridionale.

Federico II fonda la prima Università di Stato che è Napoli, fonda lo studium a Napoli, in cui
obbligatoriamente devono andare a studiare tutti i sudditi dell’impero che vogliono studiare. Si
parla di un’università statale perché anche gli stipendi dei professori sono pagati dalla corona,
mentre nelle altre università sono pagate dagli studenti con le loro collette (rette).
A Napoli si studia ciò che si studia nelle altre università, cioè il ius commune. I giuristi ricevono la
stessa preparazione, ma poi diventano il braccio legislativo della corona, sono straordinariamente
inventivi, scrivono le norme al re, i provvedimenti, amministrano la giustizia.
Sicuramente, è vero che Bologna è la più antica università, ma anche quella di Napoli è molto
potente e importante. (NELLA SBOBBINA DI DI CHIARA)

BOX: La iurisdictio, che è un termine che non possiamo tradurre con giurisdizione la quale ha per
noi un significato molto preciso, dirà Bartolo da Sassoferrato è l’insieme dei poteri di governo in
un ordinamento. È tutto: dare leggi, riscuotere le tasse etc.
Bartolo dice che c’è una iurisdictio maxima, che si esercita in mundo, e poi ci sono iurisdictiones
minori, fino alla più piccola che è quella del proprietario di un fondo che esercita sulla sua terra;
all’interno di quel fondo, lui è dominus.
Marino da Caramanico dice “rex in regno suo est imperator”.
Quindi ci sono tutta una serie di teorie politico-giuridiche volte a spiegare la legittimazione del
potere di governo.

Il Papa dice che tutti gli ordinamenti sono legittimati perché lui lo vuole e lo stabilisce attraverso
l’incoronazione, cioè ognuno di questi re viene incoronato con una cerimonia sacra da un suo
rappresentante o da lui stesso. Agendo direttamente come vicario di Cristo, sono a lui tutti
sottoposti. E questa è espressione della teoria che, a partire da Gregorio VII con il Dictatus Papae,
si era affermata: il Papa è superiore a tutti, nessuno è superiore a lui, può giudicare tutti e nessuno
può giudicare lui e può scomunicare tutti che gli devono obbedienza.

Federico Barbarossa aveva detto che era l’imperatore l’autorità superiore perché lo dice il diritto
romano stesso tanto che fa tutti quei provvedimenti per incentivare lo studio del diritto romano
perché nel corpus iuris c’è scritto che l’imperatore è lex animata in terris, è la legge. Quello che
l’imperatore decide ha forza di legge perché lui è la legge animata in terra. È anche legibus solutus,
quindi non è stretto dall’obbligatorietà di osservare le leggi perché lui è l’imperatore. E questa e la
teoria imperiale.

Lo scontro tra la teoria imperiale e quella papale anima gran parte dell’XI-XII sec.

In questo scacchiere si inserisce e si consolida, con la stessa dottrina giuridica, politica e teologica
la monarchia che non è né l’uno nell’altro, perché il re non è nessuna delle due autorità che si
pongono come universali (i due Soli).
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Quella di Sicilia è particolarissima e l’unico corrispondente è quella inglese che con essa ha diversi
punti in comune. Infatti, non a caso, ad un certo momento, il re d’Inghilterra, con Enrico VIII,
diventa capo della Chiesa, in particolare della Chiesa anglicana perché il Papa non gli concede il
divorzio da Caterina d’Aragona.

Sono tutte teorie che vengono messe sul tavolo e non sono molto differenti tra di loro. C’è sempre il
problema della legittimazione. È chiaro che se questa ha un gradino intermedio, dovrà dipendere da
quel passaggio; se, invece, la legittimazione dipende da Dio, bisogna dimostrare che Dio l’ha tolta.
Se la legittimazione dipende dal Papa, come egli l’ha data, la leva. Quindi, ognuno agisce per conto
di Dio, poi le realizzazioni variano a seconda dei contesti politici.
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Lezione n. 12 – 5.11.2020

All’interno della scuola bolognese, all’inizio del 1200, vi era un filone alternativo rispetto a quello formale
di Azzone e Accursio il quale, in prima battuta, può risultare “perdente” perché effettivamente l’eredità dei
glossatori sta nella Magna Glossa, in quel tipo di opere formali. Molti di questi studiosi che facevano capo
ad Odofredo e Balduini crearono questo filone alternativo; e tra alcuni bolognesi spicca Guido da Cumis
(Guido da Como), allievo di Balduini, che si trasferì a Orleans, e, come lui, molti altri dell’ateneo bolognese
si trasferirono ad Orleans dove trovarono un ambiente fertile in cui c’erano dei maestri tra i quali Revigny o
Belleperche che troveranno un modo nuovo di interpretare il diritto e la compilazione giustinianea.

LA SCUOLA DI ORLEANS
Orleans è sede vescovile alla quale è affidata la formazione dei chierici. Dunque è una scuola vescovile.
L’insegnamento del diritto romano giustinianeo viene autorizzato ad Orleans nel 1235 dal pontefice
Gregorio IX. Da qui si aprono le porte per far entrare i bolognesi il quale non è un fatto ovvio perché, poco
prima, nel 1219, il predecessore di Gregorio IX, che è Onorio III, aveva vietato lo studio del diritto romano
giustinianeo nella facoltà di teologia alla Sorbona di Parigi. Sul perché Onorio III avesse vietato lo studio è
molto interessante.
Secondo la storiografia più datata, si pensa che fosse stato il sovrano di Francia a far pressione sul
pontefice per vietare lo studio del diritto romano giustinianeo a Parigi. Infatti, guardando dalla prospettiva
dell’assetto istituzionale, ci rendiamo conto che siamo nel Sacro Romano Impero, la Francia è all’interno di
tale sacro romano impero ma è un regno. In questo periodo, già nel 1200 ma anche prima, verso l’anno
1000, inizia a formarsi in Francia un’importante monarchia che, per tutta l’età moderna, sarà il filo
conduttore degli studi dell’età moderna. Quando si parlerà di monarchia, in particolare di assolutismo,
l’esempio sarà proprio la Francia. La Francia è una monarchia di antica costituzione perché inizia a formarsi
già dal 900 in poi con i Capetingi che iniziano già questa politica di riappropriazione del territorio e delle
regalie del sovrano.
Questo è il periodo in cui, in parte d’Europa, iniziano a svilupparsi le monarchie: Francia, Inghilterra, Sicilia
(la monarchia normanna del 1100 con sede a Palermo). In Francia è un periodo in cui il sovrano vede di
cattivo occhio l’intromissione di un diritto altro, di matrice imperiale; non vuole un’intromissione imperiale
nel suo regno. È il momento in cui inizia a svilupparsi una dottrina politica in virtù della quale il sovrano
non riconosce altri soggetti superiori a sé all’interno del suo regno. Questa è un’idea che la storiografia
più datata, legata agli assetti istituzionali, ha giustamente anche elaborato.
Per Cortese, vi erano altri fattori: infatti egli sostiene che lo stesso pontefice, Onorio III, scelse a Parigi di
vietare l’insegnamento del diritto per non far subire la concorrenza alla scuola teologica, la scuola più
importante, degli studi legati al diritto.
Quale che sia la motivazione abbiamo come dato che il pontefice Onorio III vieta lo studio del diritto
romano giustinianeo a Parigi. Mentre, pochi anni dopo, nel 1235 Gregorio IX autorizza lo studio del diritto
romano giustinianeo a Orleans, alla sede vescovile.

Anche qui dobbiamo impadronirci di un altro concetto: Orleans è sede vescovile a Nord di Parigi. La
Francia, l’Orleans appartiene a quella parte del paese in cui predominante in qualità di fonte del diritto è la
consuetudine: questo è il diritto visto come vincolante, il diritto consuetudinario.
Il diritto romano giustinianeo si innesta all’interno del diritto consuetudinario e viene visto come
vincolante non tanto perché promanante dall’imperatore, non ratio imperii ma imperio rationis per essere un
diritto razionale, per la sua ratio, cioè per la superiorità dogmatica, razionale e non già perché è un diritto
imperiale.
Questo è il panorama in cui si forma e prospera lo STUDIO ORLEANESE che avrà grande successo e sarà
antecedente importante per la Scuola del Commento italiano.

LA RISCOPERTA DI ARISTOTELE E IL METODO ARISTOTELICO


Un altro aspetto culturale molto importante è il seguente. Ad Orleans siamo in una sede vescovile in cui si
coltiva lo studio della teologia e in cui, comunque, si formano i chierici. Anche qui si ha un sapere di
carattere generale. E poi la teologia fornisce degli strumenti ermeneutici che diventano in questo caso
fondamentali.
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In questo momento che chiamiamo momento della scolastica è un momento in cui a Orleans, in ambito
teologico e poi anche nell’ambito del diritto, si riscoprono le OPERE DI ARISTOTELE. Siamo della
seconda metà del XIII secolo - inizio XIV secolo: siamo un momento in cui ci sono le Crociate, in cui in
Spagna la corona spagnola inizia a riconquistare i territori che prima erano appannaggio degli Arabi (la
Spagna è stata dall’Alto al Basso Medioevo sotto il dominio arabo) e c’è questo collegamento tra Oriente e
Occidente e da Oriente arrivano testi filosofici e testi di Aristotele.
Viene riscoperto il c.d. ARISTOTELE MAGGIORE con opere come la Logica, detta la Logica nova,
opere che vengono immediatamente tradotte in latino. Quindi Aristotele, il grande filosofo greco, entra nel
grande bagaglio culturale europeo.

Questa filosofia scolastica sarà incarnata da Tommaso d’Aquino il quale sarà il più grande studioso
aristotelico che applicherà i dettami aristotelici alla teologia, ma questi vengono applicati anche al diritto
in quanto c’è un rapporto tra Chiesa e diritto, tra teologia (non diritto canonico ma teologia) e diritto.
La teologia non si occupa del diritto; è il diritto canonico ad occuparsene. La teologia si occupa
dell’interpretazione delle Sacre Scritture, del dogma. La teologia ha influenzato il diritto, anche in questo
momento di profonda rinascita del diritto da Bologna in poi. Qui, in questo caso, realmente la teologia
fornisce apporti importante. Anche la filosofia aristotelica, in particolare, fornisce dei canoni ermeneutici
fondamentali per il diritto e per la scuola di Orleans, favorita anche da questa osmosi tra Oriente e
Occidente e dall’arrivo delle opere di Aristotele, in particolare la Logica o Logica Nova, le quali sono state
immediatamente tradotte in latino.
E al metodo dialogico e dicotomico tipico dei glossatori, che portava alla frammentazione e suddivisione
delle norme in più passi – interpretazione letterale – si affiancò il METODO DEL SILLOGISMO
ARISTOTELICO.

Il metodo del sillogismo si snodava attraverso il quarere, la quaestio, la discussione di questiones che
tendeva all’individuazione non già di differenze ma di analogie tra postulati, in questo caso postulati
giuridici. Veniva utilizzato questo metodo per conseguire l’obiettivo di ricerca della ratio legis: la ragion
d’essere della legge, la sua causa, la causa legis.
Si cerca la ratio della legge, il significato più riposto che stava al di là della lettera della legge, del suo testo.
Si viene a creare quasi una distinzione tra il testo (lettera della legge) e il suo significato. Si crea questa
distinzione e questa ricerca, questo obiettivo, attuato attraverso il metodo del sillogismo aristotelico, porterà
a risultati realmente rivoluzionari nel diritto.
Dobbiamo immaginare questo discorso ad un brocardo che circolava a Orleans e poi nella scuola dei
commentatori: “dove vi è la medesima ratio vi è anche la medesima disposizione di legge”.

Mentre i glossatori estendevano il significato della compilazione giustinianea all’interno, comunque, di un


contenitore delimitato che era il testo il quale era un limite oltre al quale non può estendersi il significato;
invece, con la Scuola del Commento - e prima ancora grazie al metodo orleanese -che sta maturando in
questo periodo, il contenitore diventa tendenzialmente illimitato perché se trovo la ratio di una norma nella
compilazione giustinianea e una fattispecie esterna alla compilazione, non prevista né prevedibile nella
compilazione, ma in fattispecie attuali del 200-300, ha la stessa ratio, allora quella norma si può applicare a
fattispecie che non sono né previste né prevedibili dal dettato normativo.
Le rationes si ricercheranno anche nelle fonti del diritto attuale: nella prassi, nel diritto feudale, nel diritto
statutario dei comuni, nelle normative dei regni ma soprattutto nella compilazione giustinianea.

Si riuscirà ad estendere la compilazione in modo pressoché illimitato grazie all’opera dell’INTERPRETE.


È l’interprete che va a trovare le rationes, la ratio della singola norma. E se si trova un’altra fattispecie che
ha la stessa causa, che obbedisce alla stessa ratio, anche se si tratta di una fattispecie attuale non prevista e
non prevedibile, si può attuare la stessa norma: dove vi è la medesima ratio vi è anche la medesima
disposizione di legge. Si crea un sistema di creazione completamente dottrinale. Questo è l’aspetto
rivoluzionario che ci fa affermare che gli orleanesi e poi gli studiosi del commento sono davvero gli
architetti del diritto, creano il diritto in questo periodo del Basso Medioevo.
Questa creazione avrà esiti che estenderanno la compilazione giustinianea; questo diritto dottrinale –
DIRITTO COMUNE verrà esteso a gran parte d’Europa e avremo una metodologia che va oltre il
Medioevo.
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Anche i GENERI LETTERARI che adopereranno, specialmente in Italia, sono generi che richiamano al
testo della norma per incipit o comunque solo per singole parole pur avendo un ossequio formale nei
confronti della norma, della compilazione giustinianea ma poi sarà tutta una creazione dell’interprete,
dottrinale.
Ad esempio, lo strumento didattico utilizzato specialmente a Orleans sarà quella della “repetitio”, che è trait
d’union tra la glossa e il commento, che aveva ad oggetto non la singola littera, un singolo passo, ma
un’intera legge della compilazione e ne analizzava il contenuto in una lezione monografica, la Repetitio
Questio: di un’intera norma si estrapolava la ratio e la si applicava, attraverso il quarere (il porre questioni),
ad altre fattispecie non previste e non prevedibili perché avevano la stessa ratio.

Dunque ad Orleans si svilupperà uno studio che applicherà il sillogismo aristotelico, partendo dalla teologia,
anche al diritto creando esiti rivoluzionari. Si tratta di scuole vescovili, continuatrici delle scuole minori
già viste, il sapere è quello: qui si formeranno gli esponenti del clero che hanno bisogno di conoscere il
diritto anche per essere inseriti nell’organigramma monarchico dello Stato, avere rapporti con lo Stato.
L’obiettivo è quello di un sapere generale e non per forza specialistico come a Bologna. Ma si creano a
Orleans dei germi nuovi per quanto riguarda il diritto grazie all’applicazione del sillogismo aristotelico
anche al diritto.

Professori di Orleans come Jaques De Revigny e Pier De Belleperche avranno enorme successo. Loro
erano francesi, ma in quella scuola ci saranno anche personaggi come Guido da Como e anche altri che
vengono da Bologna ma insegnano ad Orleans. Ma vi erano anche questi maestri francesi che spesso
venivano in Italia, tenevano convegni, discussioni pubbliche in piazza ad esempio a Bologna. Guido da
Como entrò in dibattito con Francesco Accursio circa l’interpretazione dissenziente di una glossa
accursiana, ma anche Jaques de Revigny entrò in contrasto con gli ultimi glossatori, anche con Francesco
d’Accursio, perché loro forniscono interpretazione eterodossa. Non essendo vincolati in maniera letterale al
testo, avendo un oggetto di ricerca diverso e avendo un metodo diverso, loro forniscono interpretazioni
eterodosse anche dalla stessa compilazione. Questi professori tenevano discorsi pubblici in piazza.

E qui si narra che CINO DA PISTOIA avesse conosciuto Jaques de Revigny e ne sia rimasto affascinato da
una lezione tenuto dallo stesso a Bologna e si dice che proprio lì scoppiò la passione di Cino per poi studiare
e portare in Italia il metodo orleanese e fondare la scuola del commento. Se Cino ha incontrato o meno De
Revigny non lo sappiamo, sicuramente non ha bisogno di questo in quanto il metodo orleanese in Italia era
molto conosciuto perché i rapporti con la Francia c’erano:
- Nel Meridione c’era il regno Angioino, regno comunque francese;
- La Curia papale aveva rapporti con Avignone.
Quindi le modalità e i percorsi attraverso i quali il metodo orleanese fosse conosciuto potevano essere tanti.
Nessuno saprà mai se realmente Cino da Pistoia sia rimasto folgorato da quel discorso fatto a Bologna da
Jaque De Revgny e lo abbia conosciuto. Cortese dice che in molti punti ne saccheggiò le opere e attinse
dalle idee degli Orleanesi. Il suo commentario sul Codice e sull'inizio del Digesto non fu una lectura
scolastica ma un commentario vero e proprio. Quando più tardi si diede all'attività didattica, la svolse
essenzialmente per il tramite di aggiunte alla glossa accursiana: il genere nuovo delle additiones
rappresentava solo in apparenza una continuazione della glossa, mentre in realtà erano pezzi di
considerevole mole in cui venivano trattati casi o problemi complessi collegati con le singole leggi. Il resto
della produzione di Cino consistette in quaestiones e consilia.

Però, sicuramente, si sa che gli orleanesi ebbero un grosso impatto perché fornivano interpretazioni
eterodosse della compilazione, interpretazioni che dissentivano parecchio da quelle letterali che provenivano
da autorità quasi intoccabili che erano ad esempio Accursio. E questo è ovvio perché il metodo è diverso in
molti aspetti, proprio il metodo scolastico è diverso. Vedremo come effettivamente, portata in Italia, la
scuola del commento, da un punto di vista puramente didattico, continua sotto certi aspetti la scuola dei
glossatori; ma c’è un cambio di metodo e cambia anche lo scopo. Lo scopo centrale non è più soltanto
interpretazione letterale e ne sono esempio anche i generi letterali che si distaccano dal testo e riportano
l’incipit e anche graficamente questo cambia. L’interpretazione del giurista va oltre il testo diventando
interpretazione libera e inizia a pensarsi che sia vincolante non tanto la norma, ma l’interpretazione
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che dà il giurista della norma stessa perché è lui che crea il sistema. In realtà l’aspetto sistematico è
opera del giurista: lui trova le rationes e lega la norma con fattispecie non previste dalla norma perché hanno
la stessa ratio.

JAQUES DE REVIGNY E PIER DE BELLEPERCHE


Abbiamo pensatori orleanesi che diventano veramente famosi in gran parte d’Europa.
JAQUES DE REVIGNY fu il primo dei maestri francesi. Fa parte delle gerarchie ecclesiastiche, infatti fu
vescovo a Verdun, maestro intorno agli anni ’70. Di lui si ricordano le sue maestose letture, le sue
repetitiones cioè queste lezioni fatte fuori dall’orario didattico in cui vi era un’esegesi che applicava il
metodo del sillogismo anche al diritto alla ricerca di queste rationes. Quindi le repetitiones sono lezioni che
prendono di mira l’intera norma o di paragrafi importanti. Queste sue maestose lecturae, spesso andate in
stampa sotto altri nomi: quella sulle Istituzioni è finita negli opera omnia di Bartolo da Sassoferrato,
quella sul Codice si è vista attribuire a Pierre de Belleperche.
Di lui ci rimangono opere importanti come numerose questiones da lui elaborate, ma anche un’opera che è il
De significazione verborum (o dictionarium iuris o Alphabetum) opera che rientra nel genere lessico-
grafico tipico delle arti liberali, un’opera che è legata essenzialmente alla definizione e spiegazione delle
voci giuridiche. Ci ricorda le Etymologiae di Isidoro di Siviglia. Il genere è appunto spiegare il diritto
attraverso la spiegazione delle voci, delle parole del diritto. Ha la peculiarità di non essere un’enciclopedia
generale di tutto il sapere ma di essere un lessico specialistico, circoscritto a voci giuridiche. Il fatto che
fosse libro d'uso nella scuola di Orleans ne ispirò aggiornamenti successivi che comportano aggiunte o
sottrazioni di pezzi.

Poi De Revigny ci lascia anche delle teorie e degli approdi dottrinali come ad esempio il concetto di
PERSONA RAPPRESENTATA, quello di persona ficta.
Si tratta di un concetto che nella tarda scuola dei glossatori Sinibaldo Fieschi, futuro pontefice Innocenzo
IV, aveva già elaborato. Abbiamo visto già questo personaggio: è un aspetto importante in cui
contestualmente si sviluppa il diritto classico e in cui molti pontefici saranno di formazione giuristi.
Sinibaldo Fieschi, futuro Innocenzo IV, sarà di formazione giurista e sarà tra i primi ad elaborare quella
teoria ripresa poi da De Revigny, ovvero quella della persona rappresentata.
Il concetto di persona ficta ripercorre un po’ l’idea di persona giuridica: quindi di un soggetto, non
persona fisica ma persona giuridica, che è titolare di beni e di poteri. E questa ratio della persona ficta,
queste norme sulla persona giuridica si applicano all’impero: l’impero è, in realtà, è una persona ficta che
è divisibile dall’imperatore che è la persona fisica. Quindi, l’impero è la persona rappresentata che può
essere titolare di beni e di poteri, poteri straordinari che ad esempio discendevano dal potere di essere al di
sopra delle leggi, l’absolutio legis, che sta, dunque, all’impero (alla persona rappresentata) e non
all’imperatore: la persona fisica del singolo monarca potrà accedere alla potestas absoluta solo
momentaneamente, in via straordinaria e in presenza di una giusta causa; di regola dovrà assoggettarsi alle
leggi esercitando quella semplice administratio che la dottrina chiamerà potestas ordinaria o ordinata.
Questo impero come persona rappresentata si distingue dagli altri enti collettivi astratti quali l’eredità
giacente perché mentre l’eredità perde la personificazione quando viene adita dall’erede, invece l’Impero è
eterno e la sua personificazione non svanisce quando l’imperatore sale al trono: questi si limita a gestirne gli
affari come un semplice amministratore.

Quindi vediamo come c’è questa distinzione tra la persona giuridica (impero) e la persona fisica
(imperatore). Questa è un’idea che già era presente nella scuola tarda dei glossatori e che si rifà al concetto
di persona giuridica tipica del diritto romano ma che viene applicata a una fattispecie diversa cioè
all’impero, che non era prevista: si applica questa idea di persona rappresentata, di persona ficta, persona
giuridica titolare di beni e di poteri.
Era la prima volta che si rappresentava lo Stato come persona giuridica centro di imputazione del potere,
fino ad allora infatti ogni potestà era stata sempre concentrata nella persona del principe.

Anche Pier de Belleperche, allievo di Jaques de Revigny, fu autore di letture, repetitiones, questiones, e
anche lui ebbe un metodo di insegnamento che diffuse notevolmente il pensiero orleanese. Egli cominciò a
insegnare negli ultimi anni '70 del Duecento.
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Verso il 1296 entrò al servizio di Filippo il Bello di cui divenne uno dei principali consiglieri; dopo il 1306
fu vescovo di Auxerre e cancelliere di Francia. Anch'egli fu autore di grosse lecturae e di repetitiones,
compose una raccolta di quaestiones che contiene soltanto distinctiones.
Anche a lui è stata attribuita una summa dei libri feudorum lombardi, ma erroneamente.
La scuola di Orleans tenne anche insegnamenti canonistici e sembra che i contatti tra maestri di leggi e di
canoni fossero frequenti. Si comprende allora come il civilista orleanese fosse aperto a tutte le novità
culturali maturate fuori dall’ager Iustiniani.

Quindi, Orleans diventa davvero un centro importante per svariati motivi: ricerca della ratio legis, utilizzo
del metodo del sillogismo aristotelico. Sono ragioni legate alla filosofia che provengono anche dalla teologia
e dalla scolastica, legate anche alla Francia dove, grazie all’autorizzazione del pontefice Gregorio IX, si
studia la compilazione giustinianea.
Orleans è a Nord di Parigi e la Francia è divisa in 2 parti distinte:
- PAYS DE DROIT COUTUMIER: paesi di diritto consuetudinario a nord di Parigi dove c’è
Orleans;
- PAYS DE DROIT ECRIT: paesi del diritto scritto in cui si applica per lo più il diritto romano
giustinianeo in quanto diritto che proviene dall’alto, in quanto diritto imperiale.
Mentre al nord, dove è predominante il diritto consuetudinario, invece il diritto romano giustinianeo non si
applica ratio imperi cioè in quanto diritto imperiale, bensì imperio rationis cioè in quanto diritto razionale in
quanto serbatoio di ratio che si applica unito al diritto consuetudinario.

Ricapitolando: Prima ancora della Scuola del Commento portata in Italia da Cino da Pistoia, abbiamo questi
studiosi orleanesi tra i quali, non a caso, vi saranno maestri anche formati a Bologna che insegnano lì (come
Guido da Como). Quindi non è causale questa unione del metodo alternativo bolognese che si innesterà ad
Orleans che sarà il centro di questi avvenimenti. E fondamentale sarà la riscoperta delle opere aristoteliche,
in particolare dell’Aristotele maggiore. Questo sarà veramente lo strumento per il metodo innovatore, un
metodo che crea le analogie tramite la ratio, la causa legis, il significato più riposto della legge. Vediamo
che in questo modo l’interprete crea il sistema.
Se il glossatore aveva il contenitore che lo imbrigliava e lo teneva legato al significato del testo, qui le
potenzialità interpretative sono infinite: basta che due fattispecie, due norme abbiano la stessa ratio
affinché vi sia il medesimo diritto, si applica la stessa legge.

LA SCUOLA DEL COMMENTO IN ITALIA


Abbiamo parlato del metodo orleanese che avrà ripercussioni importanti nell’ambito del diritto che
arriveranno in Italia. I commentatori italiani prenderanno molto da questo metodo della scolastica cioè dello
studio della filosofia aristotelica. Si apre con Cino anche in Italia, dunque, l'epoca dei commentatori.

La SCUOLA DEL COMMENTO nasce in Italia tra la seconda metà del 1200 e l’inizio del 1300.
Prenderanno molto del metodo orleanese perché il centro della ricerca è la ratio legis cioè il principio
giustificativo della legge. I commentatori, piuttosto che il metodo della distinzione, cercano il principio
generale che sta al di sopra delle norme e questo è visto come necessario per creare un sistema giuridico
efficace. Quindi la finalità della ratio legis serve a creare questo sistema efficace e il metodo giusto per
trovare queste rationes va ricercato nella metodologia del sillogismo aristotelico.
E in questa ricerca i commentatori utilizzeranno tanto le fonti giustinianee quanto altre fonti, e l’interprete
svolge un’attività concettuale libera e autonoma dai lacci della interpretazione letterale, dunque è
svincolato dal testo.
Abbiamo visto le diatribe che spesso questi orleanesi hanno avuto con Francesco di Accursio che
rappresenta l’autorevolezza degli ultimi glossatori. I commentatori avevano un approccio indipendente e
critico nei confronti anche dei glossatori. L’interpretazione è diversa, va al di là del dettato letterale della
legge.
In Italia il primo a portare il metodo del commento, il grande continuatore del pensiero orleanese, fu il
giurista e poeta del dolce stilnovo Cino da Pistoia che fu allievo di Dino del Mugello e amico di Dante
Alighieri, come lui sostenitore del potere imperiale nella divisione aspra tra guelfi e ghibellini che lacerava i
comuni italiani.
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La sua grande opera è la Lectura codicis ultimata e pubblicata nel 1314, opera che segna l’introduzione in
Italia del metodo orleanese che appunto prenderà il nome della scuola del commento. Cino da Pistoia si
dichiara subito indipendente dagli accursiani e la sua lettura era concepita mettendo al centro criteri di
sistematicità nel commento del testo romano del codice giustinianeo. L’intento dell’autore era quello di
sottoporre ogni passo del codice a delle operazioni:
1. lettura: lectio;
2. esegesi testuale: expositio;
3. la formulazione di esempi: il casus;
4. indicazione dei punti rilevanti: i notabilia;
5. la discussione dei possibili contrasti tra passi paralleli: le oppositiones;
6. la proposizione e soluzione delle questioni: le questiones.

Nessuna di queste tappe interpretative è nuova, le abbiamo già viste quando abbiamo parlato della lezione
bolognese. Quello che cambia è il rilievo attribuito a ciascuna di queste fasi. Rispetto all’interpretazione
letterale centrale nella Scuola di Bologna, qui il ruolo centrale è affidato alle questiones le quali sono
fondamentali: partendo da fattispecie non previste, trovare un’identica ratio per farle rientrare nella stessa
norma.
Il metodo dei commentatori consentiva di ricondurre fattispecie concrete nuove sotto le ali di vecchie
fattispecie giustinianee ovunque le unisse l’identità della ratio. Ciò sollecitava a procedere a colpi di
interpretazione estensiva e di analogia. Il fatto che per secoli la tecnica dei commentatori sia stata qualifica
‘dialettica' e `dialettici i commentatori, ha indotto a ritenere che appunto l’uso della dialettica, ossia
dell'argomentazione, costituisse la novità con cui essi rivoluzionarono la scienza giuridica.

La ricerca delle rationes era centrale per creare il sistema per i commentatori; nel quarere vi era un aspetto
centrale e rilevante.
La scuola del commento, che segue quella dei glossatori, non va in contrasto pieno ma va a porre rilievo a
una finalità diversa: non prioritariamente l’interpretazione testuale ma, in questo caso, la ricerca delle
rationes. Cino da Pistoia, colui che porta il metodo orleanese in Italia, nella sua opera dà un esempio del
metodo del commento, descrive le tappe a cui sottopone le varie parti del Codex. È una lectura codicis, è un
commento del Codex. Lui sottopone le varie parti del Codex a questa interpretazione: l’interpretazione
letterale, l’estrazione del casus, la formulazione di esempi, l’indicazione dei notabilia, la discussione dei
possibili contrasti tra passi paralleli e la proposizione di quaestiones. Questi sono i passaggi cui sottopone
l’interpretazione della compilazione giustinianea. Si tratta di operazioni non nuove al meccanismo
bolognese.

Cino obbedisce, però, a quei dettami che sono legati a quel filone alternativo che faceva capo a Odofredo
cioè della norma veniva riportato solo incipit perché poi era tutto un’interpretazione, una spiegazione.
Queste fasi costituivano il commento che veniva fatto dall’interprete.
Il commento diventa il genere più importante, cioè sottoporre la fonte normativa a questi passaggi e non
necessitava essenzialmente della presenza di tutto il testo della norma in quanto era dato per
presupposto. Questa influenza parte dalla scuola tarda bolognese che qui continua; dalla fine del 1100 e
l’inizio del 1200 vediamo questo alternarsi del metodo del commento, ma Cino fa diventare questa idea
alternativa, che già era presente a Bologna con i glossatori, scuola diversa: la Scuola del Commento. Cino
sarà il primo a portare il metodo del commento in Italia dove avrà molto successo, l’Italia sarà il luogo
privilegiato per la diffusione del metodo orleanese.

GLI STUDIA
Avremo delle università, degli STUDIA molto importanti: la scuola di Padova o quella di Perugia furono il
palcoscenico del nuovo modo di fare scuola.
- Il palcoscenico di Padova era più antico, in quanto nacque nel 1222, e destinato ad avere lunga
gloria. Era sorto spontaneamente da una secessione di studenti che veniva da Arezzo, dove aveva
insegnato Roffredo Beneventano che fa parte di questa corrente alternativa. Vi si formò Alberico
da Rosciate, autore di un’imponente esagesi del Corpus Iuris, compilatore sulle orme del Revigny di
un grosso dizionario giuridico e commentatore degli Statuti di Bergamo alla cui revisione aveva
partecipato.
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E’ venuto così maturando il modello della scuola istituzionalizzata a cui è attribuita la prestigiosa
etichetta di “Studio Generale” che è un marchio di qualità, richiesto in via privilegiata a papi e
imperatori. Il termine di studium generale è stato oggetto di discussioni. La tesi più accolta è quella
che ricollega la qualifica di generalis all’autorità universale della Chiesa e dell’Impero, le due fonti
dei diplomi istitutivi: erano in effetti le sole potestà che consentivano di dare ai gradi conseguiti
efficacia sovranazionale.

- Il palcoscenico di Perugia era più giovane, fondato all’inizio del 1300, con una bolla papale, da
Clemente V che aveva mandato alla città la patente di Studium generale. Qui emerge la figura di
Cino da Pistoia, primo portatore dei metodi nuovi da Orleans.

Altri studia: In Toscana fiocca il maggior numero di diplomi di Studia generalia:


Pisa vantava tradizioni scolastiche antiche e aveva un centro di studi professionali nel quale giudici e
giuristi locali si erano impegnati a glossare statuti cittadini.
Nel 1343 il papa avignonese Clemente 6° diede a Pisa l’agognata patente di Studium generale ma
non portò fortuna all’istituzione.
Lo Studio di Siena aveva già buon nome quando l’imperatore Carlo 4° lo fece Studium generale nel
1357.
Firenze decide d’istituire una scuola di diritto e di medicina nel 1321 e verso la metà del secolo ebbe
due diplomi di Studium generale, uno dal papa e l’altro dall’imperatore.
Per la Lombardia, Galeazzo 2° Visconti fece la scelta significativa di collocare a Pavia e non a
Milano il centro scolastico dello Stato; Carlo 4° imperatore concesse a Pavia nel 1361 il privilegio di
erigere uno Studium generale.

Le scuole del commento che nasceranno saranno segnate da una forte competitività nei confronti
dell’Alma mater di Bologna.

BARTOLO DA SASSOFERRATO E IL BARTOLISMO


Nella Scuola del Commento ci sarà occasione di lancio di queste scuole anche a livello europeo. Qui si
formano giuristi rilevanti. Il più importante giurista del Medioevo è Bartolo da Sassoferrato, il più
importante esponente della scuola del commento nonché il giurista che identifica il Medioevo e allievo di
Cino da Pistoia. Ora cercheremo di capire quello che Barolo è quello che rappresenta. Questo periodo è
anche conosciuto come periodo del “Bartolismo”.
Bartolo da Sassoferrato si forma a Perugia e si laurea intorno al 1333-1334, a soli 20 anni, con maestri
importanti come Iacopo Bottrigari, Ranieri Arsendi che sono importanti maestri bolognesi. Impara a
Bologna i dettami della scuola dei glossatori, la sua formazione affonda lì le radici.
Fin da giovane entra nel circuito delle amministrazioni comunali: fu assessore a Todi, avvocato generale a
Macerata, fu chiamato come assessore anche a Pisa e qui fu incaricato intorno al 1339, si pensa,
dell’insegnamento del diritto civile. Concluderà la sua carriera a Perugia dove insegnerà tutta la vita, muore
a 43 anni.
La sua dottrina gli diede fama straordinaria. Nel 1355 il Comune lo mandò a Pisa ambasciatore presso Carlo
4°, disceso in Italia per farsi incoronare imperatore, il monarca lo gratificò della nomina a proprio
consigliere, gli conferì il potere di legittimare gli scolari di natali illegittimi e concesse a lui e agli eredi il
diritto di fregiarsi di un blasone.
Gli si diede l'epiteto di lucerna iuris, lo si chiamò «specchio del diritto» e “oracolo di Apollo” lo si
accostò a Omero, a Virgilio e a Cicerone. Nel cinquecento si istituirono addirittura corsi su Bartolo nelle
Università di Padova, di Torino, di Bologna, in Spagna e in Portogallo e si giunse a sancire legislativamente
che i giudici, nel caso di disparità di opinioni, dovessero scegliere quella di Bartolo, una sorta di nuova
“legge delle citazioni”.

Si è fatto merito a Bartolo di avere introdotto la distinzione tra statuto reale e statuto personale. La
storiografia gli riconosce una notevole predisposizione al diritto pubblico ed in particolare al piccolo
mondo comunale in declino, ormai dominato dall’arroganza delle signorie. Non è un caso che il suo
interessamento ai temi della crisi del Comune maturò dopo aver incontrato a Pisa il monarca, da cui aveva
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ottenuto privilegi e aveva così visto ravvivarsi all’improvviso innanzi agli occhi l’immagine aureolata
dell’Impero. Un’immagine che al giurista serviva per riproporre la dialettica Impero-città, orbis et urbes,
come sostrato politico della dialettica tra l’universalità del diritto romano imperiale e la specialità del diritto
statutario.

LA PRODUZIONE DI BARTOLO
La produzione di Bartolo è sterminata: scrive circa 10 volumi in folio che corrisponderebbero, oggi, a 100
volumi in forma stampata. Di questi 10 volumi in folio ovviamente manoscritti:
- 6 sono dedicati al commentario delle 3 parti del Digesto (Vetus, Infortiatum, Novum),
- 2 al commentario del Codex,
- 1 al commentario del Volumen.
- E poi avremo 1 raccolta di consilia, questiones, trattati. Si tratta di una produzione sterminata.
Bartolo padroneggia tutti i generi della scuola del commento. Abbiamo visto che scrive trattati,
consilia, commentari.

Bartolo si occupa di vari argomenti: ad esempio, nei suoi trattati si occupa sulla tirannide. Il suo Trattato de
tyrannide è uno dei primi trattati.
Il TRATTATO è una trattazione monografica volta a contemplare in forma specifica, sistematica e
organica un determinato settore del diritto e la sua relativa prassi, o su un argomento singolo o una
singola figura giuridica. Ad esempio, Bartolo scrive molto sulla tirannide, fu il primo ad identificare il
marchio di fabbrica, a parlare del marchio come elemento identificativo dei manufatti.
Sulla tirannide Bartolo scrive un trattato che è profondamente inserito nel suo tempo, che prende veramente
riferimento dalla prassi che lui vive. È, infatti, anche amministratore nella tarda esperienza comunale. I
comuni operano dal 1100 e originano come insigniti di ideali di libertà; Bartolo, che vive all’inizio metà
‘300, vive i comuni nel periodo in cui iniziano a asservirsi a un signore: inizia quel traghettamento da
comune a signoria. Si pensa che quando parlò di tirannide si riferisse a questa fase di traghettamento. Nel
medioevo la figura del tiranno è vista come figura esterna all’ordinamento.

Bartolo descrive molto bene due tipi di tirannidi:


- Tiranno ex de facto tituli: soggetto che governa e che prende il potere senza averne titolo;
- Tiranno ex facto exercitii: il soggetto ha un titolo che lo legittima a governare ma che esonda i limiti
dei poteri attribuitigli.

Questo è un potere extra ordinem che sta fuori dall’ordinamento. Per i medievali, la tirannide è una
degenerazione del potere monarchico. Bartolo identifica queste due tipologie: tiranno che non ha
legittimazione a governare e tiranno che, nonostante l’abbia, va oltre i poteri conferitigli. Secondo molti,
Bartolo, in questo trattato, sta descrivendo la realtà 300esca in cui il comune si sta trasformando in qualcosa
di diverso, sta andando nelle mani di un soggetto extra ordinem, si tratta di una sorta di degenerazione: la
signoria.
Bartolo scrive su molti argomenti: la tirannide, il marchio; infatti teorizza il marchio di fabbrica come
elemento identificato e differenziativo dei manufatti. Scrive anche trattati di diritto internazionale tanto da
essere considerato uno dei padri del diritto internazionale.

Il trattato stesso è una trattazione monografica di un ambito del diritto (trattati di diritto penale o di diritto
commerciale). Per tutto il tardo Medioevo e per tutta l’età moderna si moltiplicheranno i trattati sulle
branche di diritto lasciate scoperte dalla compilazione giustinianea (diritto penale, diritto commerciale).
Ma è Bartolo a dare una connotazione a questo genere letterario perché, prima di Bartolo, c’erano stati altri
trattati anche contemporanei a Bartolo; ma i trattati a lui precedenti sono semplicemente delle raccolte di
quaestiones su un argomento, mentre da Bartolo in poi il trattato assume la sua veste definitiva e si
intravede all’interno dell’opera una continuità, un ordine interno: è una trattazione teorica mista alla
casistica, alla prassi, quindi a quaestiones tratte dalla prassi. Si intravede, da Bartolo in poi, un genere
letterale che avrà una disciplina organica: vi è un progetto dell’autore all’interno del trattato, prima erano
raccolte di quaestiones anche disordinate.
Con Bartolo il trattato assume la connotazione di opera monografica che tende a dare una
preparazione teorica ma che si lega anche alla prassi.
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GLI ENTI PARTICOLARI, LA POTESTAS STATUENDI E LE VARIE TEORIE.


Bartolo si esprimerà anche su problematiche attuali al suo tempo, ad esempio la giustificazione della
potestas statuendi cioè la potestà di fare leggi degli enti particolari: sarà un problema su cui molti pensatori
medievali si interrogheranno. Dove sta l’origine dei poteri di questi enti particolari? Dove sta l’elemento
giustificativo della potestà normativa di questi enti, cioè della loro potestà di fare leggi? Si alternano varie
teorie in questo periodo:
- Teoria della permissio: identifica con la Pace di Costanza, firmata da Federico I Barbarossa,
l’origine della potestà normativa degli enti particolari. La pace di Costanza pone fine alla diatriba tra
Impero e Comuni con la sconfitta dell’imperatore, intorno al 1183-1186, quindi con il
riconoscimento delle entità giuridiche, i Comuni, e anche la loro potestà statuendi. Da qui nasce e si
giustifica la potestas statuendi dei Comuni. Ma la teoria presenta un limite: poiché la potestas è stata
concessa, può anche essere revocata dall’imperatore;
- Teoria della iurisdictio: elaborata da Bartolo, il quale paragona il sistema giuridico al sistema
tolemaico, cioè al sistema solare. Secondo Bartolo esiste una iurisdictio massima, che è quella
dell’imperatore, dalla quale discendono varie iurisdictiones minori fino ad arrivare alla iurisdictio
minima, che è quella del possessore o coltivatore del fondo. Ciascuna di queste giurisdizioni è al suo
interno piena; e tutte le giurisdizioni qualitativamente non si distinguono al loro interno. Il rapporto
che lega la iurisdictio massima alle altre, fino alla minima, è un rapporto di genus a species. Si
arriva dalla iurisdcitio massima alla iurisdictio minima attraverso un processo di successive
specificazioni. Quindi tra le varie giurisdizioni non vi è differenza qualitativa, sono tutte piene al
loro interno, hanno tutte la stessa materia. La potestà dei Comuni sta in mezzo: tra la massima
dell’imperatore e la minima del coltivatore ci sono varie giurisdizioni intermedie, quantitativamente
inferiori a quella dell’imperatore ma, da un punto di vista qualitativo, tendenzialmente uguali.

La iurisdictio è un fascio di poteri che stanno in capo ad un governante che nel medioevo è legato al ius
dicere: dare diritto e in particolare dare giustizia. Il sovrano medievale si identifica con un soggetto che dà
giustizia. Mentre in età moderna, in questo fascio di poteri avremo sia il potere di dare giustizia sia la potestà
legislativa che i sovrani dell’età moderna eserciteranno molto più dei sovrani medievali. Comunque la
iursdictio è questo fascio di poteri in mano a chi governa e possono andare dalla iurisdictio massima
dell’imperatore a quella minima di chi governa semplicemente il proprio fondo; in mezzo, vi sono le
giurisdizioni intermedie che sono quelle dei Comuni.

La teoria di Bartolo, seguita anche da altri giuristi medievali, però aveva un riscontro pratico molto limitato:
perché la giurisdizione imperiale, il potere imperiale era poco visto perché l’imperatore difficilmente si
interessava al diritto; quindi è una potestà che non viene esercitata dal punto di vista dell’applicazione del
diritto. E anche la giurisdizione del proprietario terriero sembra più una creazione di scuola che qualcosa che
possa avere un riscontro pratico. Anche se si tratta di un giurista autorevole come Bartolo, la sua teoria nei
fatti non è stata del tutto accettata.

La Teoria della iurisdictio, elaborata da Baldo degli Ubaldi allievo di Bartolo. Tendeva a legittimare la
potestà normativa deli enti particolari per il fatto stesso della loro esistenza. Erano enti di diritto naturale che
esistevano e la loro stessa esistenza giustificava la loro potestas statuendi. La teoria è molto semplice e
incontrò molto successo, anche se ha un’impronta spiccatamente teorica.

Baldo degli Ubaldi fu allievo di Bartolo, insegnò a Siena, Perugia, Pisa, Firenze.
Godette di grande fama, fu autore di consilia, commentari anche a fonti non giustinianee. Infatti farà un
commento ai Libri feudorum, alla Pace di Costanza e farà anche commentari a fonti canoniche (Liber
Extra, di Gregorio IX, Liber Sextus di Bonifacio VIII, alle Clementine). Baldo muore nel ‘400.
Baldo apparteneva a una grande famiglia di giuristi suo padre Francesco era docente di medicina e ben tre
dei suoi figli non solo si dedicarono al diritto, ma furono tutti professori eccellenti: Baldo e Angelo
principalmente civilisti, Pietro canonista.
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Contribuì al lancio del nuovo Studio generale. Gli furono affidate ambascerie presso la curia pontificia
perché Gregorio 11° era stato suo allievo e gli aveva aperto canali privilegiati di contatti, mentre il
successore Urbano VI gli era grato per due celebri scritti composti da Baldo in suo favore.
Se l'esegesi dei tre Digesti (Vetus, Infortiatum e Novum) taglia molti dei titoli di queste collezioni, in
compenso l'esegesi del Codice è estesissima. Quanto alla lettura delle Istituzioni, che compare nei suoi
Opera Omnia a stampa, Domenico Maffei ha dimostrato che essa va ascritta a Bartolomeo di Novara.
Analogo episodio coinvolge la lectura Institutionum pubblicata come bartoliana ma in realtà uscita da
Orleans, il che ci fa notare la scarsa attenzione dedicata dai nostri grandi maestri trecenteschi alle Istituzioni.
Il fenomeno, tipicamente italiano, suggerisce il perdurare nel nostro insegnamento civilistico delle tradizioni
esegetico- erudite a scapito di più moderni intenti sintetico-sistematici. Baldo fu autore di consilia, un
genere che cominciava a interessare la scienza dei tribunali più dei commentari. Egli trovò nell’attività
consiliare l'occasione per fabbricare diritto nuovo intorno alle fattispecie presentate dalla prassi, con una
libertà se non incontrollata certo talvolta ardita.

Era giurista pratico, perché era anche avvocato impegnato nelle questioni comunali. E questo applicare i
generi letterali del diritto civile anche a fonti di diritto canonico, questa apertura di Baldo, questo suo
continuo ricorso all’equità e a concetti canonistici anche nell’interpretazione del diritto civile segnano il
punto di arrivo di quella preparazione in utruque iure, di entrambi i diritti, che abbiamo visto partire dalla
Bologna di Martino Gosia, ma qui abbiamo il punto di arrivo del percorso che vede il giurista 400esco, e
Baldo ne è un esempio importante, come un esperto di utroque iure: nell’uno e nell’altro diritto, diritto
romano giustinianeo e diritto canonico. Qui abbiamo il diritto comune: abbiamo due basi normative dei due
enti universali - Impero e Chiesa – ma il diritto comune ha la sua base autoritativa nell’interpretazione che il
giurista dà a queste due basi normative solide che sono il diritto romano giustinianeo, per l’Impero, e il
diritto canonico per la Chiesa.

E qui c’è l’interpretatio. Questo significa che un giurista come Baldo, esperto in utroque iure, applicherà il
medesimo armamentario interpretativo non solo al diritto civile ma anche al diritto canonico. Baldo ne
è un esempio ma si tratta di un percorso che abbiamo iniziato dalla Scuola di Bologna che fatica ad
affermarsi lì ma che aggiungerà la sua effettiva compiutezza nel ‘400, quando giuristi come Baldo saranno
esperti in entrambe le sfere del diritto, maneggeranno entrambe le fonti del diritto comune: il diritto romano
giustinianeo, scriverà consilia e trattati sul diritto romano giustinianeo ma anche su altre fonti che sono i
Libri feudorum, fare dei commentari alla pace di Costanza.
Colpisce l'impegno di Baldo sui feudi. I Libri feudorum avevano avuto una notevole popolarità nelle scuole
agli inizi del Trecento. Dovette essere Giangaleazzo Visconti a ispirare a Baldo l'opera feudale. Inconsueto è
anche il commento di Baldo alla Pace di Costanza, il privilegio che Federico Barbarossa, sconfitto dalla
Lega lombarda, aveva dovuto rilasciare nel 1183 alle città vittoriose. Ai feudi, la Pace di Costanza era legata
dalla tradizione, e già Odofredo aveva dedicato glossa all'una e una summa agli altri. Baldo è il primo, tra i
maestri delle leges, a dedicarsi al diritto canonico e a trasformarsi da civilista in giurista in utroque. Il suo
commento alle Decretali di Gregorio 9°, i manoscritti del Sextus ed in particolare del titolo de reguils iuris e
delle Clementine sono appunto il segno del suo interessamento al diritto canonico.

Se il diritto comune ha le sue basi normative forti nel diritto romano giustinianeo e nel diritto canonico, però
in maniera più ampia, nel sistema del diritto comune verranno interpretate con lo stesso armamentario
interpretativo anche le fonti del diritto canonico.
Abbiamo ultimato il percorso civilistico con Baldo.

I GENERI LETTERARI
Cerchiamo di comprendere il termine BARTOLISMO e l’importanza di Bartolo da Sassoferrato. Abbiamo
accennato alle opere di Bartolo: egli scrive trattati, commentari e consilia.
Vediamo un po’ i generi letterari di questa scuola del commento.

Il commentario è un commento di una norma giuridica. La normativa è sottoposta all’interpretazione, al


commento del giurista. Di solito, della norma si riporta l’incipit o un breve riferimento, quindi si tratta di
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una norma che viene data per conosciuta, e poi c’è l’interpretazione del giurista che spiega la norma in modo
letterale, ne estrae gli elementi importanti.

Il trattato è una trattazione sistematica monografica di una intera branca del diritto o di singole
figure, come ad esempio il marchio di fabbrica o la tirannide. Si tratta di genere letterario indirizzato alla
scuola o alla pratica forense perché serve al pratico (giudice, avvocato) in quanto dà una spiegazione teorica
ma anche una spiegazione casistica in quanto offre una disamina della prassi di quell’istituto che ne
costituisce l’oggetto. Avranno una lunga diffusione in età moderna.
Nascono tra fine medioevo e inizio età moderna e per tutta l’età moderna si avrà lo studio legato a branche
del diritto essenzialmente nuove, come la branca penalistica (la scienza che studia il diritto penale) che
fiorirà durante l’età moderna perché fioriranno i trattati su questa materia.
Infatti, i trattati riguardano gran parte degli argomenti del diritto, ma soprattutto quelle parti del diritto
trascurate dal diritto romano giustinianeo: diritto penale, diritto commerciale, procedure sia civile che
penale.

Da Bartolo in poi si inaugurerà questo genere letterario, che prima esisteva ma sicuramente non aveva
questo carattere sistematico e definitivo. Il trattato non sarà più una raccolta di quaestiones che affrontava
solo l’aspetto casistico, ma da Bartolo abbiamo l’idea di unitarietà della narrazione, della trattazione in
quest’opera monografica che racchiude sia l’aspetto teorico che la prassi, lavoro in cui è chiara l’idea e il
progetto dell’autore di quest’opera.

Altro genere utilizzato dai commentatori sarà quello del consiulium che è un genere che nasce per la pratica.
I consilia sono dei pareri che il giurista può dare in due ipotesi:
- Consilia sapientis iudicialia: pareri che i giudici erano soliti richiedere ai fini della definizione della
causa al giurista dotto;
- Consilia pro veritate: pareri emessi dai giuristi, non per i giudici, ma perché richiesti dalle parti in
causa e che poi venivano inserite nelle difese.

I consilia ebbero una notevolissima diffusione, le loro raccolte circolarono per tutto il medioevo e
identificano il diritto di questo periodo. Questi pareri dei giuristi, dati al giudice o alle singole parti,
formeranno delle raccolte. I pratici trovano fattispecie simili a quelle che incontravano nella vita dei
tribunali; vedere come era stata risolta quella controversia mediante il parere di un eminente giurista poteva
indirizzare la loro opera.
Questi appena descritti sono i generi letterali che caratterizzano la scuola del commento.

BARTOLO E L’OPINIO BARTOLI.


Bartolo utilizza tutti e tre i generi. Lui è l’emblema del giurista medievale, del periodo basso medievale dal
‘300 in poi. È una figura che prevaricherà nel periodo medievale e la scuola del commento avrà anche i suoi
esiti ed esagerazioni per tutta l’età moderna. Bartolo segna vari aspetti. Intanto partiamo dal fatto che a
Bartolo sono attribuiti circa 10 volumi in folio; pur riconoscendo la grandezza di questo giurista, la
storiografia sostiene che sia innegabile che non possano essere di sua mano tutte le opere a lui attribuite. Il
fatto che a lui vengano attribuite ne accresce la sua autorevolezza.

Siamo partiti da Orleans, abbiamo visto l’interpretazione del giurista che diventa centrale ancora più della
norma: è l’interpretazione la fonte del diritto. Quindi le interpretazioni di un giurista come Bartolo
diventano fonti del diritto nei tribunali. In particolare Bartolo sarà fonte del diritto nella Penisola Italiana, in
Francia, e, tramite Spagna e Portogallo che si apprestano dal ‘400 in poi a diventare potenze coloniali, anche
nelle colonie trans oceaniche.
L’OPINIO DI BARTOLO sarà fonte vincolante anche nelle aule dei tribunali . Bartolo è il più
importante esempio di un giurista la cui interpretazione diventa essa stessa vincolante, ancora più della
norma giuridica. E noi l’abbiamo visto a partire dalla nascita del filone alternativo bolognese, poi Orleans,
anche dai generi letterari, i quali non citano più interamente la norma ma soltanto una piccola parte: il
giurista non è più vincolato dal dettato della norma, fa riferimento alla norma, ma la autorevolezza e la
vincolatività è legata alla interpretazione che ne dà il giurista.
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Questo per dire che sicuramente Bartolo non avrebbe potuto scrivere tutta quella mole di opere ma attribuire
a lui quelle opere serviva per dare soluzioni alle controversie, per rendere certe opinioni vincolanti.
L’interpretazione del giurista dotto e autorevole è vincolante, ha la forza di legge, diventa come il
precedente: per il giudice discostarsi dall’opinio Bartoli è quanto meno imprudente.

Questo ha la sua base nell’EXEMPLUM romano. Già nel diritto romano, l’exemplum era dato dal
precedente giurisprudenziale: quindi il giudice si atteneva alla sentenza precedente.
Già Giustiniano aveva avvertito l’esigenza di limitare l’utilizzo dell’exemplum perché diceva che era la
legge a essere vincolante non già il precedente.
Nel medioevo, in questo periodo, si passa dall’exemplum costituito dal precedente giurisprudenziale,
all’exemplum costituito dall’opinione dottrinale. Vi è questo passaggio: l’exemplum non è più vincolante
come lo era nel mondo romano in qualità precedente sentenza, ma come opinione del giurista dotto.

BOX SULL’EXEMPLUM: L'exemplum era una teoria romana che consisteva nell'utilizzare la precedente
soluzione di giudici e giuristi, cui si poteva adeguare o ispirare la propria soluzione di casi simili, oggi
chiameremo questo "precedente" in quanto si trattava di decisioni giudiziali.
L'efficacia dell'exemplum si dilatò fino a Giovanni Bassiano, il quale introdusse un nuovo concetto, ossia
quando si trattava di una sentenza singola era ammissibile il carattere non vincolante, quando erano
numerose, queste si trasformavano in una consuetudine diventando legge obbligatoria.
Giustiniano inoltre indicava che lo si doveva disattendere quando appariva inadeguato al caso in esame,
questo presuppone che tutte le volte che esprimeva rationes adeguata andava osservato, quindi nasceva il
dovere morale di attenervisi ogni qual volta che vi si riscontrava una buona ratio che gli dava forza
vincolante, almeno sul piano etico di valore universale .Oltre al giudice cercatore di rationes per le sue
sentenze vi era il sapiente, che di questo tipo di ricerca era il massimo esperto, di solito un professore.
In forza della ratio servivano da exempla le decisioni dei giudici che avevano per definizione la potestà
pubblica, allo stesso modo le opinioni dei dottori potevano servire da exempla in virtù del peso della loro
dottrina.

Bartolo identifica questo periodo, si parla del periodo del BARTOLISMO e i giuristi di questo periodo
sono detti “bartolisti”. L’opinione vincolante del giurista è detta opinio Bartoli, opinione di Bartolo. Ma
Bartolo è solo un esempio di questa visione autoritativa: diventa vincolante l’autorevolezza del giurista
dotto.
Si porta alle estreme conseguenze quell’idea di interpretazione creativa. Qui abbiamo un’applicazione
pratica: adesso abbiamo che questa idea, che abbiamo visto ad Orleans e nella scuola del commento, viene
trasportata nella pratica. E la pratica, cioè l’opinione del giurista dotto, diventa opinione vincolante.

Dal ‘400 poi il giurista sfrutta la sua autorevolezza accademica nella prassi, infatti si dedicano ai generi
letterari destinati alla prassi giurisprudenziale, al processo: trattati ma soprattutto consilia.
Diventano giuristi autorevoli come professori universitari, per poi sfruttare la loro autorevolezza anche
nell’ambito della prassi dando pareri ai giudici e alle parti che rappresentavano una fonte di guadagno
notevolissima per questi soggetti.
Abbiamo dei giuristi che oramai si dedicano prevalentemente alla prassi; solitamente sono professori
universitari che acquistano prestigio accademico e poi sfruttano questo prestigio nell’ambito della prassi.

Ma abbiamo altri esponenti, altri giuristi tra cui Alberico da Rosciate il quale fu magnus praticus, si è
formato a Padova che non fu mai professore. Scrisse delle opere esegetiche, quaestiones, consilia, destinante
totalmente alla prassi. La prassi era il luogo d’arrivo. A Bologna, il luogo d’arrivo era essere professore
all’università bolognese; l’attività preponderante era quella dedicata all’insegnamento. Adesso, la cattedra
universitaria era più un trampolino di lancio per poi dedicarsi alla pratica perché era lì il guadagno. E da qui
anche la fortissima critica mossa in età moderna a questo mos italicus iura docendi.

Questo porta a delle degenerazioni: infatti lascia l’interprete totalmente libero. Spesso, Bartolo si
esprimeva in maniera diversa sulla stessa fattispecie a seconda che scriva un commentario destinato
all’insegnamento o consilium che è destinato alla pratica perché ovviamene il consilium deve spesso anche
obbedire alle pretese della parte che l’ha richiesto e che lo ha pagato, deve piegarsi alla prassi.
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Quello che importa è che il ragionamento sia razionale: può portare ad esiti opposte in opere dello stesso
autore. Si sottopone la fattispecie, un problema al giurista e questi lo può risolvere in maniera diversa a
seconda che l’opera sia destinata all’insegnamento o alla prassi. L’importante è che il discorso sia
razionale. Quel fenomeno costruttivo dei commentatori che creano diritto arriva, dunque, realmente alle
estreme conseguenze, ad un qualcosa di altro.

Quindi, Bartolo esprime tutto questo: la pragmatizzazione della scientia iuris cioè il dedicarsi dei giuristi
alla prassi, i generi letterari destinati alla prassi e, soprattutto, il potere autoritativo della dottrina e delle
interpretazioni dei giuristi. Questo porterà a forti critiche perché, in età moderna, per il giudice sarà
complesso maneggiare queste moli di interpretazioni perché ciascun giurista dava la sua interpretazione, lo
stesso giurista dava interpretazioni diverse della stessa fattispecie in quanto non si è più ancorati alla norma.
L’ancoraggio alla norma è labile; vi è un richiamo alla norma, ma la costruzione è interamente dottrinale.
Quindi, vi sono pareri diversi dei giuristi autorevoli.
Ad esempio, vi sono dei rimedi endo-procedimentali che vengono dal basso che si uniformeranno
all’opinione più autoritativa, che proviene da Bartolo o da altri giuristi dotti.
Oppure il riferimento alla COMMUNIS OPINIO: cioè su certi argomenti si formeranno più opinioni di
diversi giuristi autorevoli che concordano sulla stessa soluzione di un problema giuridico. A questo
punto, il giudice si uniformerà all’opinione della maggioranza dei giuristi, adottando un punto di vista
meramente quantitativo. Ma sono rimedi endo-procedimentali che non nascondono quello che avviene in
epoca moderna, cioè il particolarismo giuridico.

In età medievale abbiamo visto un insieme di centri di produzione del diritto, di normativa che promana da
più soggetti e però nel Medioevo si riusciva a ridurre a un sistema: si parlava di pluralismo delle fonti, più
fonti provenienti da centri diversi e si metteva l’accento sulla la ricchezza in numero di queste fonti. In età
moderna si pone accento sul particolarismo giuridico, sulla confusione di queste fonti.
Questo modus operandi della tarda scuola del commento che sarà dominante anche nell’età moderna creerà
incertezza nella norma, e anche l’esito di un processo sarà sempre incerto perché l’aggancio alla normativa
sarà sempre più labile. Quello che decide la controversia sarà l’opinione di un giurista, quindi il giudice si
uniformerà all’opinione di quel giurista.
Ma i giuristi spesso esprimono opinioni diversi, loro stessi ma anche più giuristi potevano avere opinioni
contrastanti. Il giudice trova la soluzione nei trattati, nei commentari, nelle raccolte di consilia e, spesso, si
potevano esprimere soluzioni diverse. Allora, il giudice si atterrà all’opinione del giurista più autorevole
come Baldo o Bartolo, oppure all’opinione di più giuristi, alla communis opinio, che concordano su quella
stessa soluzione. Si tratta di rimedi endo-procedimentali che ci fanno capire il particolarismo e la confusione
del diritto della fine del medioevo e inizio età moderna. I sovrani dell’età moderna si dedicheranno
maggiormente a cercare la certezza del diritto; sarà la meta a cui ambiranno perché il diritto è fortemente
incerto anche a causa della degenerazione della scuola del commento.

Questo è un sistema che perdurerà oltre i confini territoriali e oltre i confini spaziali del Medioevo. Quindi
vediamo come il sistema autoritativo del diritto comune, la direzione che prende questo percorso: noi siamo
partiti da Irnerio, dalle legis doctor glossatore, con la sacralità della norma e l’interpretazione letterale della
norma; poi abbiamo visto il passaggio ad Orleans che è fondamentale con la creazione del sistema affidata al
giurista che ricerca la ratio legis.
Abbiamo visto poi questa corrente alternativa, che era già a Bologna, di distacco dal testo della norma con le
opere di Odofredo, di Pillio e l’apertura alla prassi, l’indipendenza dell’opera interpretativa dal testo della
norma giuridica. E questo verrà arricchito dalle portate teoriche e filosofiche della scuola di Orleans, dove si
riscoprirà l’Aristotele maggiore, e avrà il suo risvolto nel diritto con i commentatori, nel diritto applicato dai
commentatori. E con Bartolo toccheremo le vette più alte di questo discorso.

Da Bartolo in poi parleremo dell’OPINIO AB AUCTORITATE, l’opinione dell’autorità la quale (autorità)


non era, com’era nel mondo romano, l’exemplum dato dal precedente giurisprudenziale; qui l’autorità sarà il
giurista che esprime la sua opinione nei trattati e nei consilia dati o al giudice o alle parti. E solitamente, i
pareri di Bartolo erano costosi. I pareri a Bartolo o Baldo li chiedevano gli imperatori, i sovrani ma anche i
pontefici. Quindi immaginiamo la rilevanza e il costo di questi pareri.
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Il giudice deve attenersi all’opinione data dal giurista e quindi ottenere il consilium da parte di un giurista
autorevole e dotto assicurava la vittoria in giudizio.

Arriviamo all’autorevolezza, al valore autoritativo dottrinale autoritario del diritto comune, e alla
pragmatizzazione della scientia iuris dove la culla privilegiata è registrata nella prassi, nell’aula di
tribunale non più università: i professori diventano autorevoli in università e spendono la loro autorevolezza
nella prassi per dedicarsi alla prassi giurisprudenziale, alle opere dedicate alla prassi per ricavarne soldi. Lì
ci sono fonti di arricchimento notevoli per questi giuristi che si dedicano alla prassi.
Un collega interviene ponendo un paragone con la legge delle citazioni: il prof dice che dalla legge delle
citazioni dobbiamo prendere l’autorevolezza, ma qui c’è un’applicazione maggiore data nella prassi. Lì, nel
mondo romano vi era idea del responso chiesto al giurista, ma qui diventa proprio centrale nell’applicazione
del diritto ancor più della norma.

I Maestri del Quattrocento


Perugia non osservò nel Quattrocento la posizione di assoluto spicco che aveva avuto nel Trecento. Allievo
di Baldo, Paolo di Castro, autore di estesi commentari e di pregiati consilia, girovagò e illustrò molte scuole,
ma non Perugia. Del resto nel quattrocento si era consolidata l’abitudine dei professori di passare da uno
studio all’altro secondo la convenienza di offerte fatte in regime di concorrenza. Vi sono tuttavia nel
quattrocento nomi che continuano a identificarsi con una sede: Siena celebrerà i suoi Sozzini, Padova avrà i
suoi eroi, Pavia, tra il quattro e il primo Cinquecento, si glorierà di Gaison del Maino, maestro di Andrea
Alciato. La scienza giuridica nel Quattrocento comincia però a declinare. Aveva preteso nel Duecento di
rappresentare la nuova sapienza del mondo comunale e la cultura specifica dell'alta amministrazione; era
giunta al punto da gabellarsi per la nuova filosofia fondata su quel libro giustinianeo.
Dal Quattrocento comincia a soffrire la concorrenza della brillante cultura umanistica. Le chiamate degli
umanisti di grido presso le corti principesche e da lì su cattedre nuove delle facoltà di arti, come avviene a
Roma, a Ferrara, a Napoli appannano la luce delle facoltà di giurisprudenza. Per il diritto criminale, il
trattato di Angelo Gambiglioni sembra preannunciare la grande stagione penalistica cinquecentesca. Il gusto
nascente per la sistematica condurrà dall’inizio del secolo XVI, a moltiplicare le cattedre di Istituzioni anche
in Italia. Il civilista si fa partecipe del fenomeno e smette di resistergli. E il sistema del diritto comune si
completa.

NON SONO RIUSCITA A METTERE PER INTERO UN PARAGRAFO SE SI VUOLE SI STAMPA A PARTE
(PAG. 69 N.1)
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Storia del diritto medievale, lezione n. 13 – 18.11.2020 pag 3 da par. 5 a 13

La volta scorsa abbiamo finito quel percorso legato al diritto civile. Abbiamo analizzato il diritto romano nella
sua volgarizzazione, nel suo incontro con la prassi e con la prassi romano-germanica; abbiamo visto l’oblio
del diritto romano giustinianeo nell’Alto Medioevo e la sua rinascita nel periodo bolognese e, infine, nel
periodo della scientia iuris.

IL DIRITTO CANONICO DELLE ORIGINI.


Il diritto romano rimarrà come diritto dell’impero, viene visto come diritto dell’impero. Ma vi è un’altra
entità universale. L’impero è una delle due entità universali, l’entità universale-temporale; l’altra entità
universale però in spiritualis, dunque nell’aspetto spirituale, è la CHIESA. La chiesa l’abbiamo già incontrata
in vari aspetti: abbiamo cercato di sottolineare la sua rilevanza nella storia del diritto europeo perché così è.
Quindi, abbiamo visto diversi incontri istituzionali importati (la notte di Natale dell’800), l’influsso della
chiesa nel diritto europeo, e l’importanza della chiesa nel tramandare la cultura europea e anche la cultura
romana. Quindi abbiamo visto l’importanza della Chiesa nel preservare questa cultura e, oggi, la vedremo
anche come colei che tramanda la romanità, specialmente in Occidente.
Adesso affrontiamo il diritto della Chiesa dalle sue origini in modo più lineare e vedremo che ha molti aspetti
in comune con il diritto civile. L’aspetto di incontro più importante è quello che lega i due diritti – diritto
civile, dunque diritto romano giustinianeo e diritto canonico – all’interno delle scuole di diritto, all’interno
della scientia iuris. Quello stesso percorso compiuto dal diritto civile da Irnerio in poi, verrà percorso anche
dal diritto canonico nel periodo del diritto canonico classico, così definito da Padoa-Schioppa e anche da uno
storico del diritto, oggi scomparso, Gian Savino Pene Vidari, i quali parlano appunto di questo periodo del
diritto canonico classico che coincide realmente con il periodo della scuola di diritto dei glossatori e dei
commentatori in cui si uniscono entrambi i diritti (diritto civile e diritto canonico) e in cui c’è questa
compenetrazione nel grande bacino che è il diritto comune che è formato, appunto, dai diritti delle due
entità universali – diritto romano giustinianeo e diritto canonico – insieme all’interpretatio del giurista.
Però andiamo alle origini della Chiesa, cavalcando la scelta del diritto da parte della chiesa. La chiesa sceglie
il diritto e questo fin dalle sue origini. Diciamo che l’idea dei primi 3 secoli della Chiesa di una
contrapposizione netta tra cristianesimo e istituzioni romane, quindi di una storia fatta soltanto di
persecuzioni, è un dato storiografico oramai superato. I primi 3 secoli furono secoli non solo di persecuzioni,
ma anche di osmosi. L’interpretazione tradizionale vedeva soltanto una sterile contrapposizione tra Chiesa e
Impero, in particolare con imperatori come Diocleziano*, contrapposizione che cesserà solo con Costantino.

*L’immagine di Diocleziano è arrivata con un accento fortemente negativo, così caricata dalla Chiesa con il
suo astio nei confronti dell’imperatore. Non poteva essere diversamente visto che il grande riformatore che
aspirava alla conservazione del passato divenne il difensore della romanità pagana. Agli occhi dei Persiani,
l’impero romano appariva un mondo sostanzialmente cristiano ma guidato da un pagano; e questa è una
curiosa contraddizione storica.
Tale mondo, in realtà, non era pacifico né spiritualmente né politicamente: il cristianesimo era percorso da
una corrente di fanatismo anti-romana apocalittica (l’Apocalisse, infatti, era stata scritta negli anni della
persecuzione di Domiziano, 81-96). L’intolleranza cristiana urtava contro le aspirazioni pagane che, invece,
volevano armonizzare le fedi religiose, sfruttando i tanti elementi comuni.
Tra il 303-304 Diocleziano emanò 4 editti dell’ultima persecuzione, anche se non nutriva particolare astio.
Probabilmente fu spinto da Galerio, uno dei Cesari e forte nemico dei seguaci di Cristo. Si pensa che fu
talmente ostile a Cristo, da irritare Dio che lo colpì con una malattia. Spaventato, Diocleziano, nel 311 emanò
un editto di tolleranza (che anticipa di 2 anni quello di Costantino) ma era troppo tardi perché morì poco
dopo.

Questo però non è del tutto vero perché, nei primi 3 secoli, vi è anche un rapporto osmotico tra Chiesa e
Impero. Il cristianesimo prende le mosse dal terreno romano e, d’altra parte, anche il diritto romano prende
molti aspetti della sua etica dalla Chiesa e dal diritto canonico. Questi primi 3 secoli rappresentano il
momento in cui la cultura romana e quella cristiana assorbono i fermenti circolanti in età ellenistica nel
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mondo mediterraneo; è il momento in cui la Chiesa si dà un’organizzazione anche territoriale che ricalca
quella dell’impero. Ma oltre all’aspetto esterno, vi sarà anche l’osmosi tra Chiesa e impero che coinvolge i
linguaggi, gli schemi e le impostazioni delle idee, anche liturgiche. In particolare, ad esempio, è forte
l’influenza del pensiero stoico (da Scirone a Seneca) sull’idea di eticità del diritto; quindi l’idea di virtus, di
fides sono presupposti della giuridicità che stanno alla base anche del pensiero cristiano. E l’idea stessa di
diritto naturale, che in questo periodo si fa largo nel mondo romano ma anche nel cristianesimo, viene
ereditata dalle definizioni dello stoicismo: un diritto naturale diverso dal diritto civile. Da qui, a partire dal II
sec., si svilupperà la dottrina relativa a Cristo come sommo legislatore e quindi l’esistenza di una legge divina
che coincide con il diritto naturale. È dal II sec., quindi, che nasce questa idea del diritto naturale, che si
sviluppa nel mondo romano ma anche nel mondo cristiano, questo sistema del diritto naturale che è
sovraordinato anche rispetto al diritto reggente, al diritto civile e che, nella trasposizione cristiana, vede la
nascita di questa dottrina di Cristo come sommo legislatore e quindi l’esistenza di una legge divina che
coincide con il diritto naturale. Vediamo, dunque, che in quei secoli, più in Occidente che in Oriente, verrà
utilizzato il linguaggio giuridico a servizio non solo del diritto canonico, del cristianesimo in generale, ma
anche a favore della teologia.
Dunque i primi 3 secoli che, secondo la storiografia, erano soltanto di contrapposizione, in realtà sono i
secoli in cui il diritto romano permette alla comunità cristiana di organizzarsi in società. E questo proseguirà
lungo tutti i secoli di storia della chiesa. È in questo momento che nasce una Chiesa Cattolica che, in un certo
senso, verrà vista come la più antica erede del diritto romano. Da qui si capisce che osmosi vi fosse tra
queste due entità fin dai primi tre secoli, che non sono solo contrapposizione e persecuzioni. Anche dal
punto di vista dei concetti filosofici, Chiesa e Impero recepisco dall’ellenismo e dallo stoicismo l’idea stessa
di diritto naturale, il linguaggio giuridico che viene messo a servizio del diritto della Chiesa e della teologia.

LA TERRITORIALIZZAZIONE DELLA CHIESA.


E poi abbiamo anche gli aspetti esteriori in quanto la Chiesa si va territorializzando, rifacendosi alle strutture
dell’impero. Anche la Chiesa capisce che deve territorializzarsi e istituzionalizzarsi: ecco che le diocesi,
affidate al vescovo, si rifanno alla civitas romana. La diocesi è retta dal vescovo, sopra il quale c’è il
metropolita, che è titolare dell’episcopato (che corrisponde alla sede del capoluogo della provincia
imperiale), e presiede il concilio provinciale che ha ampie attribuzioni di carattere disciplinare. Al di sopra dei
metropoliti, vi sono i vescovi delle maggiori città dell’impero, denominati patriarchi di città importati
dell’impero come Alessandria, Antiochia, Costantinopoli, Roma. E in questi secoli inizia a svilupparsi
all’interno della Chiesa il primo diritto disciplinare della chiesa, visto come elaborazione dei poteri ricevuti da
Cristo ed esercitati dai vescovi non per aspetti legati al divino, ma per ufficio, dunque legato ad un aspetto
istituzionale, più prettamente laico. Già dal III sec., infatti, questo diritto correttivo attribuito al vescovo
costituisce l’inizio di un processo penitenziale con il duplice scopo di ristabilire la giustizia e convertire il
peccatore.
Da qui nasce il primo foro dipendente dal vescovo, per adesso con norme interne alle Chiesa, che è
l’Episcolapis Audentia che avrà successivamente uno sviluppo enorme. Nasce come ambito di composizione
dei conflitti fra cristiani per evitare, sulla scorta dell’insegnamento di San Paolo, di ricorrere ad un foro
esterno alla comunità; ma poi da organismo interno in cui giudica il vescovo avrà uno sviluppo espansivo
notevole, sarà la base del foro privilegiato per i cristiani. Da qui prende avvio il sistema penitenziale come
fonte di prescrizioni, di procedure necessarie per la riconciliazione e il reinserimento del colpevole
convertito nella comunità. Questo è il primo barlume di quel processo penitenziale che poi avrà un suo
sviluppo in età costantiniana.
Ed in questo periodo, nel III-IV-V sec., si sviluppa l’idea di una chiesa come corpo mistico e la duplice natura
dei suoi componenti che sono sudditi dell’impero e fedeli di Cristo. Quindi, anche il diritto si divide in due
categorie:
- diritto divino positivo, fatto dalla rivelazione, la parola di Cristo e il diritto divino naturale che sta
nell’ordine del creato;
- il diritto umano che è il diritto ecclesiastico, il diritto secolare.
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Tra il III e il IV sec. si differenziano notevolmente i destini della Chiesa in Occidente e in Oriente e il rapporto
fra paganesimo e cristianesimo. In Occidente la chiesa tenderà, per tutto il corso del Medioevo, a sostituirsi
allo Stato, diventando strumento culturale per la romanizzazione delle popolazioni barbare. La chiesa
diventerà collettiva; mentre in Oriente, si identifica con lo Stato. Sono due destini diversi che
radicalizzeranno sempre di più le differenze tra Occidente e Oriente. Nei primi 3 secoli si formano tutti
questi concetti che poi saranno fondamentali nella costruzione della Chiesa come corpo mistico.
L’idea invalsa nella storiografia tradizionale era quella di contrapposizione soltanto nei primi 3 secoli,
specialmente con gli imperatori conosciuti come grandi persecutori di cui Diocleziano è un esempio, e poi,
invece, il periodo della pacificazione con Costantino. Tendenzialmente, però, non è così perché, per i primi 3
secoli vi è stata un’osmosi tra Chiesa e impero e molti dei concetti che abbiamo richiamato si sono formati
grazie a questa osmosi, osmosi anche tra diritto che fornisce il linguaggio stesso alla teologia e al diritto
canonico, il diritto divino positivo.

COSTANTINO E L’EDITTO DI MILANO.


E poi abbiamo Costantino che, nei fatti, è visto come fondamentale per l’emancipazione del cristianesimo;
l’immagine che ci ha dato la chiesa è circondata da leggenda perché con Costantino ha inizio la storia
dell’impero cristiano bizantino. La sua immagine luminosa viene ridimensionata dalla critica moderna. Opere
risalenti al 1766-1788, hanno mostrato Costantino come un politico attento e capace di sfruttare i culti
religiosi per il proprio tornaconto e non particolarmente fanatico della fede cristiana.
In realtà, Costantino intervenne a favore di tutti i culti, non soltanto di quello cristiano, ed era ancora forte la
componente del paganesimo: ad esempio, nel 321 istituì le festività del Dies Soli, il culto solare che era
appunto un culto pagano; si trasformò in dies domenica più tardi. La nascita della festività fu un tributo reso
al culto solare, legato alle credenze dell’Oriente, diffuso anche in Occidente. Il sole doveva piacere
personalmente a Costantino visto che, fino al 325, egli continuò a farne scolpire il simbolo sulle proprie
monete e nel 330, si fece rappresentare con le fattezze della divinità solare in una gigantesca statua posta a
Costantinopoli.

È strano che il monarca non ricordasse che ai tempi delle persecuzioni alcuni imperatori, tra cui Massimino,
nel chiedere l’abiura (costrizione alla ritrattazione della fede) di Cristo, avevano preteso l’adorazione del sole
quindi il simbolo solare ai cristiani doveva risultare ripugnante.

Il paganesimo rimane incorporato nel diritto pubblico romano anche con Costantino. Dunque,
quest’immagine luminosa di Costantino a favore della religione cristiana viene ridimensionata; però
sicuramente Costantino fa provvedimenti di favore per il cristianesimo e per le chiese in generale: ad
esempio, l’Editto di Milano del 313 d.C., del cui testo originale curiosamente si sono perse le tracce,
stabilisce la libertà di culto. In realtà, per smentire l’idea di contrapposizione tra Diocleziano e Costantino, si
dice che questo Editto di Milano, questo editto di tolleranza fosse già stato previsto durante il periodo
dioclezianeo. In questo Editto di Milano, di cui parlano Eusebio da Cesarea e Lattanzio, si stabilisce
genericamente la libertà di culto non solo del culto cristiano ma di tutti i culti. Però Costantino emette un
provvedimento oggettivamente di favore nei confronti del cristianesimo.
Il 313 d.C. è l’anno di svolta nella vita dei cristiani: già nella primavera di quell’anno, Costantino restituì i beni
confiscati in Africa e in Calabria, senza però toccare gli obblighi fiscali di cui la Chiesa fu esentata solo dai figli
di Costantino; concesse l’esenzione dai munera, cioè i regali personali, affermando di voler venire incontro
alla Chiesa cattolica già vessata dalle fazioni ereticali; era costume concedere tale esenzione ai sacerdoti, ma
Costatino la elargì anche ai funzionari di palazzo. Specialmente tra 318 e 321 videro la luce una serie di
provvedimenti che introdussero istituti nuovi nella Chiesa.
Ad esempio, nel 318 d.C. istituzionalizza il privilegio dell’Episcopalis Audentia, il quale disponeva che i giudici
ordinari lasciassero le cause, al giudizio vescovile, qualora le parti l’avessero richiesto, che nasce con norme
interne della chiesa e viene successivamente istituzionalizzata da Costantino in poi, viene riconosciuta
dall’imperatore. Essa è stata interpretata come l’origine del foro privilegiato, la costituzione che la introduce
si rifà ai termini dell’arbitrato accordato ai vari culti, se ne specifica l’origine come compromissum e nasce
solo per le cause civili, ma progressivamente i cristiani ne fanno sempre più ricorso tanto che l’Episcopalis
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Audentia si trasforma come un vero e proprio giudizio penale. Quindi nasce semplicemente come un
compromissum, come un arbitrato. La costituzione di Costantino che istituzionalizza l’Episcopalis Audentia
(già esistente nei primi 3 secoli all’interno del mondo cristiano) la prevede come semplice arbitrato, un
arbitrato che veniva accordato ai vari culti; però poi ha potere espansivo notevole: nasce come arbitrato nel
diritto civile ma si estende facilmente anche al diritto penale. E nasce qui il foro ecclesiastico privilegiato. In
realtà non è sicuro che Costantino volesse creare una giurisdizione speciale affidata alla Chiesa.

Nel 452 Valentiniano III insisterà sull’esigenza del previo compromesso che escluderà le cause penali,
mostrando di voler usare l’udienza episcopale come una delle forme d’arbitrato che il diritto romano usava
riconoscere a vari culti.

E venne istituita la manumissio in ecclesia che stabilisce che la liberazione dello schiavo abbia la stessa
efficacia dell’affrancazione solenne, cioè che non solo venga liberato lo schiavo ma che gli venga anche
attribuita la cittadinanza. Quindi la manumissio in ecclesia conferisce anche la cittadinanza, a differenza della
manumissio inter amicos che non la prevede. È possibile che l’imperatore, più che creare una forma
totalmente nuova di affrancazione dei servi, non avesse fatto altro che adattare al mondo cristiano la
manumissio inter amicos celebrata dai pagani alle feste e nei banchetti (che conferiva la latinità giuniana, ma
escludeva una serie di rapporti con i Romani quali connubium, ricevere eredità e trasmettere il proprio
patrimonio mortis causa).
E poi la chiesa si vede riconosciuto il diritto di essere istituita erede o legataria, non la chiesa universale ma
le singole chiese. Ciò aprì la strada all’arricchimento ed alla potenza della Chiesa; non fu elargito ai cristiani,
ma ai Cattolici; a eretici e scismatici era negata la capacità patrimoniale.
Con Costantino abbiamo queste riforme di favore nei confronti della Chiesa, ma comunque vedremo che
continueranno ad esserci elementi di paganesimo. Questo è un altro aspetto che va di pari passo con
l’affermazione di questa normativa di privilegio fatta da Costantino a favore dei culti e della Chiesa in
particolare.
Tuttavia la fede cristiana di Costantino resterà sempre incerta. Anche quando, nel 330, nacque
Costantinopoli, la nuova Roma, essa ebbe il marchio di una città pagana.

IL CONCILIO DI NICEA E L’EDITTO DI TESSALONICA.


Siamo proprio entrati nella Chiesa partendo dalle origini. Di pari passo, sempre in nel IV sec., accanto a
questa territorializzazione, la Chiesa dovrà chiarire gli elementi del dogma. Quindi, al suo interno devono
essere chiariti elementi fondamentali; difatti, nel 325 d.C. ci sarà il concilio di Nicea, il primo concilio
ecumenico cristiano, in cui è chiaro il bisogno della chiesa di auto-affermarsi e precisare il dogma e ci si
chiede se la partecipazione di Costantino non sia stata dettata più dall’interessamento politico alle religioni
dell’Impero che all’entusiasmo di cristiano. Vanno chiariti i germi dell’organizzazione gerarchica della chiesa.
In questo concilio di Nicea abbiamo il riconoscimento della supremazia del Vescovo di Roma rispetto ai
patriarchi di Alessandria o Antiochia. Questo è un riconoscimento che nel Medioevo verrà messo più volte in
discussione, ma in questo momento inizia l’ordinazione gerarchica della Chiesa ponendovi a capo il Vescovo
di Roma rispetto agli altri vescovi e patriarchi. Sempre nel concilio di Nicea, si chiariscono anche questioni
fondamentali non giuridiche ma teologiche, che riguardano il dogma: si enunciò infatti “l’identità della
sostanza divina” di Padre e Figlio, della loro consubstantia divina* e di qui, nel 381, nel concilio di
Costantinopoli, il dogma della trinità cioè la consubstantia tra Padre, Figlio e Spirito Santo. Viene inserito
quello che è eretico, quello che è al di fuori della cristianità, come ad esempio l’eresia ariana. La teoria di
Ario insegnava che solo il Padre aveva natura divina, mentre il Figlio era creato come il “primogenito della
creazione” destinato ad incarnarsi temporaneamente in Cristo, quindi Cristo era un uomo.

*Questo dogma si prestava, nel mondo bizantino, a generare una folla di precisazioni, invenzioni ed eresie
che il cattolicissimo Teodosio II, nel 438, represse con la sua Costituzione e dovette redigerne un lungo
elenco variegato.
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Da una parte, la chiesa si territorializza e ha un’affermazione esterna; ma dall’altro, si dedica a definire il
dogma e a difendersi dal pericolo delle eresie. Da corpuscoli con proprie differenti interpretazioni, con il
pericolo anche di cesaropapismo (cioè l’intromissione degli imperatori nei confronti delle questioni inerenti
al dogma), dal 300 in poi la Chiesa inizia a definirsi anche al suo interno: definisce ciò che è ortodosso da ciò
che è eretico, in tema di dogma soprattutto. E anche di difesa dall’esterno, dall’intromissione da parte degli
imperatori nelle questioni teologiche, di dogma, di fede. Quindi, la definizione dell’indipendenza delle
questioni di dogma tra la Chiesa che deve essere l’unica a gestirle rispetto all’imperatore. Questo è marcato
in Occidente. In Oriente, invece, ci si avvia alla strada del cesaropapismo cioè di questo coincidere della
Chiesa con lo Stato e dell’imperatore che è anche realmente capo della Chiesa.
Molti di questi pericoli tramontano nel 380 d.C. con Teodosio I il Grande che emana l’Editto di Tessalonica in
cui viene riconosciuto che il cattolicesimo niceano-romano, che viene fuori dal concilio di Nicea che chiarisce
molti concetti in tema di dogma, diventa RELIGIONE DI STATO, cioè viene recepito nell’ordinamento
giuridico. Infatti questo editto entrerà anche a far parte del Codice Teodosiano. Tra il 325 (Concilio di Nicea)
e il 381 (Concilio di Costantinopoli) viene stabilita la consubstantia tra Padre, Figlio e Spirito Santo, il primato
papale romano e, nello stabilire una gerarchia delle sedi principali, il Concilio di Costantinopoli collocò Roma
al primo posto e Costantinopoli al secondo. Ma poiché l’imperatore l’imperatore d’Oriente era considerato
collega maior di quello d’Occidente (collega minor che nemmeno risiedeva a Roma), la dignità del patriarca
di Costantinopoli risultava maggiore visto che godeva della vicinanza del monarca; infatti nel concilio di
Calcedonia del 451, mise allo stesso livello le due sedi per dignità togliendo al papa il suo primato. E con
l’Editto di Tessalonica viene chiarito che il cattolicesimo niceano-romano diventa religione di Stato, viene
recepito all’interno dello Stato e viene affermata sempre la supremazia di Roma, anche se è ancora viva la
concorrenza con alcune città dell’Oriente (Alessandria, Costantinopoli). Quindi, il Vescovo di Roma dovrà
sgomitare tanto per affermare la sua supremazia anche nei confronti delle grandi sede cristiane orientali,
come Costantinopoli che sarà la sede dell’imperatore d’Oriente con una visione cesaropapista per la quale
l’imperatore è capo della Chiesa; mentre in Occidente vi sarà un’indipedenza della Chiesa rispetto
all’imperatore.

Sul cesaropapismo e l’arianesimo.


Costantino assistette al concilio di Nicea nel 325 e fu allora che si cominciò a parlare di cesaropapismo. Esso
è un principio che legittima le intrusioni del monarca nelle verità di fede. Ad alimentare il cesaropapismo
contribuì l’arianesimo che, anziché uscire sconfitto dal concilio, ne risultò fortificato. Crebbe e si diffuse
tanto da essere adottato, dal 330, dalla sede di Antiochia, che pure a Nicea era entrata nella triade delle
guide spirituali del mondo cattolico. Si fecero ariani i Goti, Visigoti, Ostrogoti d’Italia. Ariano diventò anche lo
stesso Costantino che si fece battezzare sul letto di morte dal vescovo Eusebio di Nicomedia. Quando nel 337
la morte colse l’imperatore, dovette coglierlo da eretico. Eretico fu anche Costanzo II, il figlio di Costantino, il
quale si adoperò per trasferire alla Chiesa Ariana la qualifica di Cattolica, e poco mancò che ci riuscisse. Gli
Ariani nominarono Costanzo II, che li proteggeva, “vescovo dei vescovi”, titolo che apriva spiragli
cesaropapismi.

La questione dell’Altare della Vittoria.


Nel Senato di Roma vi erano i rappresentanti di un estremo conservatorismo pagano, aperto a tutte le
culture ma comunque forte dell’amicizia accordata ai senatori dei monarchi, indifferenti agli obblighi
derivanti dall’Editto di Tessalonica. Nell’Aula in cui si tenevano le sedute senatorie, vi era l’Altare, collocato da
Augusto, con la statua della Vittoria, venerata in quanto simbolo degli antichi destini della Roma antica: era
un simbolo glorioso la cui paganità, però, si “scontrava” con la legge teodosiana che imponeva il
cattolicesimo come religione di Stato.
Quando Graziano, collega di Teodosio I, rimosse l’altare nel 382, dietro le pressioni del vescovo di Milano
Ambrogio, vi furono delle resistenze senatorie. Nel 383, infatti, Graziano venne assassinato e il suo
successore, Valentiniano II, ricevette pressioni insistenti affinché ripristinasse l’altare della curia; ma non lo
fece.
Dietro tale episodio, in realtà, risiede l’ultimo tentativo di restaurazione pagana, che culminò in una guerra.
Con la vittoria di Teodosio contro l’usurpatore Eugenio, nel 394, vicino ad Aquileia, si spense il ritorno di
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fiamma del paganesimo.
Tale altare non venne però dimenticato: quando nel 410 Alarico saccheggiò Roma, lasciando profondo
sgomento, circolò la leggenda che tale assedio altro non era che la vendetta degli dei per il sacrilegio
compiuto 30 anni dagli imperatori con la violazione dell’altare.

IL RAPPORTO STATO-CHIESA E IL DUALISMO GELASIANO.


Però, dall’Editto di Tessalonica in poi, il riconoscimento della religione cristiana niceana come religione di
Stato si è creata un’endiadi, cioè un’idea di cattolicesimo e Stato. Dunque, qual è il rapporto tra
cattolicesimo, Chiesa e Stato? Religione di Stato vuol dire la Chiesa nello Stato. Specialmente in Occidente,
questo ha bisogno di una sistematizzazione da un punto di vista dottrinale. Questo riguarderà gran parte del
Medioevo.
Nell’Alto Medioevo, tra il IV-V sec., avremo il pensiero di Sant’Ambrogio e Teodosio che vedranno la Chiesa
come istituzione che fa parte dell’impero, quindi è un organo dello Stato e in quanto tale deve sottomettersi
alle sue leggi. Ma l’imperatore e non l’impero, in quanto fedele, sta dentro la Chiesa e non sopra di essa.
Sant’Ambrogio* afferma “imperator inter ecclesiam”: cioè vi un’idea di complementarietà e non di
opposizione, non vi è una supremazia ma una coesistenza. La Chiesa, in quanto istituzione, è all’interno
dell’Impero e deve sottomettersi alle sue leggi, ma l’imperatore, in quanto cristiano, fedele, sta dentro la
Chiesa e non sopra di essa e quindi solo la persona in quanto individuo cristiano e fedele, deve obbedire a
vescovi e papa. Quest’idea che matura da Sant’Ambrogio cerca di far coesistere due entità fra le quali in
questo momento, come dice Cortese, non vi è l’idea di supremazia della Chiesa nei confronti dell’impero e
neanche una forte contrapposizione. Però, già in questo periodo dell’Alto Medioevo, si percepisce l’idea di
queste due entità universali che effettivamente devono coesistere in qualche modo. Da una parte, dunque,
la Chiesa è all’interno dell’impero, è organo dello Stato e deve sottomettersi alle sue leggi; dall’altra, c’è
l’imperatore che deve essere cristiano e fedele e, dunque, è dentro la Chiesa e non al di sopra di essa.

*La forte personalità di Sant’Ambrogio costrinse Graziano e Valentiniano II ad interrompere i rapporti


amichevoli con l’aristocrazia pagana e Graziano dovette rinunciare al titolo di “pontefice massimo”. Riuscì ad
imporre una clamorosa penitenza pubblica a Teodosio, apparsa come inaudita lesione alla maestà imperiale
tanto che i fedeli piansero nel vedere il loro imperatore così umiliato: durante un tumulto popolare a
Tessalonica, nel 390, era rimasto ucciso il capo del presidio militare di Teodosio che, per punizione, aveva
fatto uccidere uomini e donne. Ambrogio, per assolvere l’imperatore da tale crimine e riammetterlo
all’eucaristia natalizia, volle e ottenne che Teodosio, privo delle insegne imperiali, si pentisse pubblicamente
del proprio peccato e chiedesse perdono in chiesa. Per la prima volta, il più grande dei sovrani si sottomise
alla chiesa.

Queste che sembrano endiadi inconciliabili, in realtà sono dei modi per far coesistere queste due entità.
Queste idee che maturano da Ambrogio, da Teodosio e da Sant’Ottato di Milevi il quale scrive un’opera
molto importante in cui descrive queste teorie di coesistenza e, nello specifico, afferma che l’organizzazione
ecclesiastica è pubblica istituzione dell’Impero e quindi ne fa parte (cosa che tutti i cattolici sapevano), sono
delle premesse di quella che sarà la tesi che reggerà per gran parte dell’Alto Medioevo i rapporti fra la
Chiesa e l’impero, ovvero la tesi di Gelasio I.
Gelasio I è un pontefice, il cui pontificato fu brevissimo (492-496), nato probabilmente a Roma da famiglia
africana, fu l’appassionato difensore dei diritti della Chiesa su due punti fondamentali:
- il primato del papa  dopo il concilio di Calcedonia (451), la dignità suprema del pontefice sembrava
insidiata visto che assicura pari dignità e privilegi sia alla sede di Roma che a quella di Costantinopoli.
A Roma c’era la tendenza di spostare il problema dal piano politico al piano teologico e il primato del
papa derivava dal primato che Cristo aveva attribuito a Pietro. È questo il principio insegnato da
Gelasio contenuto nel c.d. Decretum Gelasianum per il quale è dubbia la paternità attribuita al papa
ma riflette il suo pensiero;
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- l’invadenza imperiale nelle verità di fede, il c.d. cesaropapismo  Gelasio proclama il famoso
dualismo delle dignità e della divisione delle competenze tra i due poteri, spirituale e temporale.

La sua definizione marca profondamente la storia della Chiesa e dei rapporti tra Chiesa e impero. E’ un
periodo in cui il Papa rivendica il primato di Roma rispetto al patriarcato di Costantinopoli e, quindi, anche
rispetto all’Oriente dove vi era l’idea che l’imperatore era capo della Chiesa. Marcare la sua supremazia
come Vescovo di Roma da parte del pontefice rispetto alle sedi del patriarcato di Costantinopoli, riguarda da
vicino i rapporti tra Chiesa e impero perché in Oriente l’imperatore veniva visto e vedeva sé stesso come
capo della chiesa. La tesi gelasiana viene esposta in una lettera, scritta nel 494, che il Papa invia
all’imperatore Anastasio e questa lettera passa dalle Decretali pseudo isidoriane e arriverà fino al Decretum
di Graziano, entrando nel patrimonio della scienza giuridica medievale. Vista la vivacità, generalmente
questa lettera viene riconosciuta come la testimonianza principe del pensiero di Gelasio, nella quale si legge:
“il mondo è retto da due dignità somme, l’una chiamata da Cristo a guidare le anime, l’altra a governare i
negozi temporali; nel secolo è il sacerdote a seguire le leggi dell’imperatore, ma nelle cose di religione è
l’imperatore a dover seguire il sacerdote”.
Gelasio sostiene che il mondo è retto da due entità: da una parte, l’auctoritas sacrata del Pontefice mentre,
dall’altra, la regalis potestas dell’imperatore. Sono due poteri che coesistono ed assicurano la pace in terra e
la salvezza delle anime. Sono poteri diversi:
- l’auctoritas è attribuita al Pontefice, è un potere di legittimità: è un potere di garanzia e conformità
che riconosce gli altri e li legittima.
- Il principe, l’imperatore è titolare della potestas che è la forza giuridicamente vincolante che riguarda
comportamenti esterni.

Sono due sfere diverse. E lo scopo non è quello di rivendicare supremazia da parte della Chiesa. Lo scopo di
Gelasia è uno, che poi è quello che tormenta la Chiesa dalle origini: impedire che l’imperatore possa
decidere o immischiarsi nelle decisioni sul dogma. Non c’è nessuna idea di supremazia. Gelasio I elabora
questa teoria, il c.d. pluralismo gelasiano, i due soli ma, nei fatti, non c’è nessuna idea di supremazia della
Chiesa. Cortese lo sostiene chiaramente. Alcuni hanno visto nel dualismo gelasiano un’idea ierocratica, cioè
una visione della supremazia del Pontefice rispetto all’imperatore. Cortese dice chiaramente di no perché è
ancora troppo presto. Siamo alla fine del 400 e non siamo nemmeno vicini al contesto che animerà le idee
della riforma gregoriana. Gelasio parla di due entità, i due soli (Pontefice e imperatore) e li vuole fare
coesistere attribuendo loro poteri diversi. Da una parte, l’auctoritas del pontefice che è questo potere di
legittimità e garanzia, un potere che non ha aspetti concreti ma è un potere legittimante degli altri poteri;
mentre la potestas che spetta all’imperatore è una forza giuridicamente vincolante che riguarda
comportamenti esterni. Questa è l’idea che ha Gelasio I e fa coesistere i due poteri e, soprattutto, vi è l’idea
che abbiamo già visto espressa nel concilio di Nicea, cioè la chiesa cerca di impedire che l’imperatore possa
decidere ed intromettersi nelle decisioni sul dogma. In Occidente questa idea è centrale e guida il cammino
del diritto canonico, mentre in Oriente questa intromissione è più tollerata. Il dualismo gelasiano reggerà la
Chiesa per gran parte dell’Alto Medioevo, fino alla riforma gregoriana.

LE FONTI DEL DIRITTO CANONICO.


Quindi, dall’editto di Tessalonica in poi, si fa formando questa Chiesa che diventa Chiesa di Stato. E si vanno
anche arricchendo le prime fonti del diritto canonico. Abbiamo fonti esterne, quali le costituzioni imperiali:
la Chiesa riceve molte norme specifiche dagli imperatori da Costantino in poi. Ma in questi stessi secoli si
sviluppano le fonti interne alla Chiesa, le fonti normative autonome della chiesa. E queste fonti sono:
- Canoni: le deliberazioni che derivano dai Concili. Nei primi periodi, sono fonti che si occupano poco o
sporadicamente del giuridico, concentrandosi più sull’aspetto teologico, sul dogma.
- Decretali pontificie: assumono un loro rilievo nella storia medievale. Riguardano più che altro
l’Occidente, perché in Oriente non verrà mai riconosciuto il potere universale del pontefice. Infatti, le
decretali sono normative che fanno riferimento all’altro polo di produzione del diritto della Chiesa
che è, appunto, il pontefice.
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Da una parte abbiamo i canoni conciliari che sono le risultanze normative di quell’organismo collegiale della
Chiesa che è il concilio e, dall’altro, le decretali pontificie le quali sono lettere decretali che vengono
paragonate spesso ai rescritti imperiali perché sono lettere con cui la cancelleria pontificia risponde a dei
quesiti di diritto su casi specifici e, almeno originariamente, non apportano principi generali ma sono
risposte a quesiti specifici di diritto. Quindi hanno dei destinatari specifici, cioè coloro che hanno posto il
quesito. Ma vista l’autorevolezza del soggetto da cui promanano, fin da subito acquistano un rilievo
generale. E il rapporto tra canoni conciliari e decretali pontificie sarà mutevole che cambierà anche rispetto
alla personalità e alla tempra dei pontefici. Pontefici come Gregorio VII o Gregorio IX, che sono pontefici
fortemente autocrati, che usano in maniera incisiva il diritto, useranno molto l’arma normativa delle epistole
decretali. Quindi, in questo caso, il potere legislativo dell’organismo monocratico della Chiesa, che è il
pontefice, avrà un rilievo maggiore rispetto a quello che è l’altro organismo che produce diritto all’interno
della chiesa, cioè il concilio. D’altra parte, avremo dei pontefici che meno utilizzeranno il diritto e dunque
avremo una maggiore produzione di canoni conciliari. È un rapporto mutevole quello tra le due fonti
normative interne del diritto canonico.

RIEPILOGO DELLA LEZIONE.


Abbiamo parlato dei primi cinque secoli della Chiesa e abbiamo visto come nei fatti va maturando la scelta
della Chiesa per il diritto. Questo si avrà essenzialmente con la territorializzazione della Chiesa nei primi 3
secoli, che deciderà di rifarsi alle istituzioni dello dell’impero (diocesi che corrispondono alla civitas romana).
E poi questa osmosi con il diritto. Contestualmente, dal IV sec. in poi, la Chiesa chiarirà gli elementi del
dogma. Il concilio di Nicea, in tal senso, è fondamentale perché chiarisce il dogma. E qui ci sono due direttrici
fondamentali: da una parte, chiarire quello che è il cattolicesimo niceano da ciò che è eretico e dunque
proteggersi dal pericolo delle eresie, come l’arianesimo. Si chiariscono in maniera forte gli elementi del
dogma. In Occidente, si cercherà di evitare il cesaropapismo, cioè l’intromissione dell’imperatore nelle
questioni relative al dogma. Dall’editto di Tessalonica in poi, la religione cattolica niceana diventa religione di
Stato: la chiesa nello Stato. E da qui il rapporto tra queste due entità che sono entità universali che devono
coesistere. Da qui in poi, ci sarà l’idea di Ambrogio e Gelasio I di far coesistere la Chiesa come istituzione
dell’impero e l’imperatore, in quanto fedele, subordinato in qualche modo alla chiesa. E poi il dualismo
gelasiano con questi due soli che garantiscono la salvezza in cielo e la convivenza in terra: da una parte, il
Pontefice e dall’altra, l’imperatore. I due soli che hanno poteri diversi: auctoritas del pontefice da un lato, e
potestas dell’imperatore dall’altra. E quindi non vi è un’idea ierocratica, cioè l’idea di affermare la
supremazia del pontefice ma vi è un modo per far coesistere questi due poteri e di evitare l’intromissione
dell’imperatore nelle questioni di dogma.
In questo periodo maturano e ad affollarsi le varie fonti; non solo le costituzioni imperiali dedicate alla
Chiesa, diventata religione di Stato, ma anche le fonti interne della Chiesa che promanano da due entità che
in qualche modo sono fonti di produzione del diritto: da una parte i concili i cui risultati giuridici sono i
canoni e, dall’altra, i pontefici i cui risultati giuridici sono le decretali pontificie, cioè lettere che i pontefici
fanno in risposta a quesiti giuridici posti da soggetti cui la cancelleria pontificia risponde. E vengono visti
spesso come rescritti imperiali, come degli atti amministrativi. Ma vista l’autorevolezza del pontefice, queste
decretali acquistano portata generale, una portata erga omnes.
E sempre in questo periodo si va sempre biforcando la strada dell’Oriente e dell’Occidente. In Occidente, la
Chiesa tende e tenderà a sostituirsi allo Stato diventando lo strumento culturale per la romanizzazione, già
siamo nel V-VI sec., delle popolazioni barbare istillando un sentimento di appartenenza e di identità
collettiva. La Chiesa sarà la grande erede, lo strumento culturale per la romanizzazione dei barbari. Mentre
in Oriente la Chiesa si identifica con lo Stato, l’imperatore è visto come capo della Chiesa secondo le correnti
cesaropapiste.
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L’esempio emblematico che vi ho fatto in questi giorni è stato vedere come negli istituti comunali vi è la
previsione del diritto comune come diritto a carattere suppletivo, ma non è importante questo per dire che il
diritto comune continua ad essere applicato, perché a poco a poco gli spazi si riducono molto, rispetto al
diritto positivo vivo (che nel medioevo sono gli stati comunali, in età moderna saranno le normative dei
sovrani), il diritto comune avrà sempre meno spazio dal punto di vista normativo, perché gli spazi vengono
colmati da queste fonti nuove.

Spesso era prevista una gerarchia in molti statuti comunali, per esempio noi troviamo fino al 700 in molte
fonti di diritto proprio, così come in molte leggi dei sovrani troveremo che sarà sempre presente il diritto
comune con carattere suppletivo, ma ad un certo punto non sarà questo carattere suppletivo che sarà sempre
ancillare, perché normative particolari gli statuti comunali, poi vedremo in età moderna le leggi dei sovrani,
sempre + materie saranno inglobate in questa legislazione e sempre meno spazio vi sarà per il diritto
comune.
Però non è tanto il carattere suppletivo, ma è il ragionamento giuridico che resta del diritto comune, la
metodologia che resta, questo mettere l’interprete al centro, prima ancora della fonte; questo riempire la
fonte con l’interpretazione.

Es. Legge sullo stupro, legge fatta dalla Sicilia, nella prima metà del 400, da Alfonso V il magnanimo,
quando la Sicilia già era entrata era nell’orbita dei regni spagnoli, ecco la legge era chiarissima, che diceva
- cosa era lo stupro,
- come era fatta la condotta: poteva essere o il ratto della donna o la violenza sulla donna;
la normativa è chiara, ma le decisiones dei tribunali siciliani si interrogavano e quasi mai citavano la
normativa, ma citavano l’interpretazione dei giuristi, per risolvere i nodi che l’interpretazione risolveva, cioè
cos’era il ratto e cos’era la violenza; questo faceva l’interpretazione: completava la norma, la riempiva di
significato e gli operatori del dritto conoscevano l’interpretazione, i commentari alle norme, quelli citavano
(magari conoscevano anche le norme, ma quello che era visto come fondamentale era il commentario fatto
dai giuristi alla norma).

L’ambito della vigenza del diritto comune si restringe sempre di più perché le normative particolari erano
sempre più penetranti in più discipline. Tuttavia, il diritto comune rimarrà sempre una fonte suppletiva che
andrà a supplire nel caso in cui non ci siano disposizioni di diritto positivo o di diritto proprio che
disciplinino una certa materia, rimanendo fondamentale dal punto di vista culturale.

Se guardiamo solo l'ambito della vigenza il diritto comune restringe sempre di più i suoi ambiti di
applicazione perché normative particolari erano sempre più penetranti in più discipline (il diritto dei comuni,
anche le normative dei sovrani saranno in età moderna sempre + frequenti e ingloberanno sempre + materie)
Ma nonostante ciò il diritto comune rimarrà sempre una fonte suppletiva (con ambiti sempre più ristretti) che
andrà a supplire nel caso in cui non ci siano disposizioni di diritto positivo, di diritto proprio che
disciplinano una certa materia, però lì gli ambiti si restringono sempre di +.
Ma il diritto comune resterà sempre fondamentale da un punto di vista culturale; perché queste fonti degli
iura propria verranno sempre create, applicate, interpretate, nell’ottica del diritto comune: il linguaggio sarà
sempre quello, i generi letterari saranno sempre quelli.
I commentari si applicheranno sia alla compilazione giustinianea sia agli statuti comunali, il commento è
sempre quello, il commento è una fonte normativa però fa diventare creativo il commento del giurista.
Vedete come nei fatti vari generi letterari si evolvono quindi dai consilia si passerà, nel corso del 500, alle
decisiones dei tribunali che sono molto simili, ma i consilia sono pareri dei giuristi, sono spesso raccolte di
consilia, quindi raccolte di pareri che stanno sul tavolo del giudice per decidere le controversie.
Da li poi nel 500 ci saranno le decisiones dei tribunali che sono fonti dottrinali che serviranno sempre a
risolvere controversie.
È un aspetto autoritativo e questo è un meccanismo di diritto comune.

Vorrei che vedeste come tutto quello che abbiamo detto si riconnette.
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Anche alle fonti canoniche si applica lo stesso ornamentario interpretativo che avete visto applicato alla
compilazione giustinianea.
Man mano che la scuola bolognese va avanti questo impianto interpretativo, gli stessi generi letterari si
applicheranno anche a altre fonti, alle fonti vive e il diritto canonico è una fonte viva, perché è in fase di
formazione in questo periodo, coincide grosso modo col periodo bolognese, il decretum di Graziano, liber
extra, le clementine. Anche il diritto canonico è vivo e si applica l’oramentario interpretativo che si
applicava alla compilazione giustinianea e si applicherà anche agli iura propria, alla prassi.

Il diritto comune prima era interpretazione letterale di un testo giuridico, di una fonte normativa, che era
fondamentalmente la compilazione giustinianea, poi a poco a poco questo bagaglio interpretativo, fatto di
generi letterari, ma anche di modus operandi anche mentali della scientia iuris, va ad applicarsi ad altre fonti.
Quello che resta, che andrà a esportare a altre fonti e che prevaricherà i confini, prevaricherà anche l’aspetto
cronologico, perché arriverà fino a 800 inoltrato, ciò che resterà sarà proprio questa mentalità interpretativa
che verrà applicata anche ad altre fonti normative (si parte dalla compilazione giustinianea e si applica anche
a altre fonti) anche al diritto attuale, senza confini territoriali.

Anche quando si formano le varie monarchie, anche quando l’impero si fraziona e si formano le varie
monarchie questo non ha rilievo per iL diritto comune.
Si applicherà la mentalità interpretativa e i generi letterari del diritto comune, che vanno cambiando.
All’inizio c’era la glossa, poi la summa, le quaestiones, i commentari, i trattati, i consilia, tutti momenti di
passaggio della scientia iuris che segnano i momenti della scientia iuris.
- La glossa segnava il momento di interpretazione letterale.
- I consilia rappresentano il momento della pragmatizzazione della scientia iuris.

Ciò che resterà sarà questo armamento interpretativo che prevaricherà sia i confini territoriali che
cronologici, andrà oltre il periodo normativo del diritto comune che era una fonte normativa primaria che era
il periodo bolognese.
A poco a poco gli iura propria tendono a colmare l’impianto del diritto comune e tendono essenzialmente a
legiferare sempre su + ambiti, il diritto comune diminuisce il suo ambito di applicazione normativa come
fonte vincolante, ma come fonte dottrinale resta la stessa, come modo che da soluzioni un ragionamento,
come sistema autoritativo.

Con questo abbiamo chiuso il discorso sul diritto comune, ora introduciamo l’età moderna.

Età moderna

Come dicevo il diritto comune varrà per gran parte del diritto dell’età moderna, è un elemento di continuità.
Ce lo troviamo nel medioevo e anche in età moderna.

Il passaggio epocale tra un’epoca e l’altra solitamente dai contemporanei non è così percepito, chi vive a
metà della fine del 1400 non percepisce il passaggio epocale, ma anche nell’ambito del diritto fu un
momento più percepito quello della nascita della scuola di Bologna, lì davvero possiamo dire che nel diritto,
da Bologna in poi, c’è una cesura netta.
Così come vedremo in età moderna anche la rivoluzione francese segna un prima e un dopo, è un momento
di cesura.

Il passaggio epocale dal Medioevo all’età moderna non segna questa cesura, sono molti gli elementi di
continuità che vedremo in età moderna: il diritto comune è uno di questi.
Ma cambia qualcosa, le fonti si complicano: interviene la normativa dei sovrani, fonte che complica il
sistema, perché le normative dei sovrani entrano nel sistema delle fonti innovandole, i sovrani cercheranno
di innovare il diritto degli Stati (questo anche con la conseguenza di un mutamento istituzionale).

Compare in età moderna un soggetto che nel medioevo era assente: lo Stato.
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Lo Stato è nuovo soggetto istituzionale e questo rompe la mentalità medievale.
Grossi definisce i secoli medievali come <<i secoli senza stato>>.
a) Il sovrano medievale vedeva se stesso come un giustiziere, ma nei fatti usava molto poco la legislazione,
innovava poco il diritto, vedeva se stesso come un tutore del diritto esistente.

b) In età moderna no, i sovrani delle nascenti monarchie (francese, inglese che già dal 1000 erano operative,
ma anche le nuove monarchie come quella spagnola per esempio che nascerà dall’unione delle corone di
Castiglia e Aragona) in queste monarchie i sovrani
- tendono a incarnare nello Stato che loro rappresentano un potere pubblico
- e tendono a impadronirsi del diritto, del fenomeno giuridico
- tendono a innovare il diritto degli Stati,
- tendono a far diventare la legge la fonte predominante.
- tendono a controllare l’interpretazione delle leggi attraverso la creazione di Corti sovrani di tribunali di
ultima istanza che esercitano la giustizia in nome del sovrano.

Parleremo nella seconda parte delle nostre lezioni dello Stato moderno e il governo più diffuso resterà
l’assolutismo che i sovrani incarneranno. Si tratta di un sistema di potere in cui i sovrani sciolgono se stessi
dall’obbedienza delle leggi che loro stessi fanno.
Affronteremo le teorizzazioni dell’assolutismo.
Vi saranno vari pensatori come Machiavelli che ad esempio inquadrerà l’aspetto burocratico della nascita
degli Stati.
Analizzeremo queste correnti e questi pensatori che rifletteranno su questa nuova forma di sovranità.
Sicuramente avremo degli elementi istituzionali come lo Stato, avremo la normativa dei sovrani che tenderà
a stagliarsi come fonte predominante.
Tanti saranno gli elementi di continuità: il diritto comune.
Nel diritto comunque applicato il cambiamento epocale non è fortemente avvertito.
Una cesura netta si è avuta con la scuola di Bologna, lo vedremo anche con la rivoluzione francese.
Nei fatti tra il Medioevo e l’età moderna, dal punto di vista del diritto, c’è una continuità data da questa
dinamica persistente del diritto comune e degli iura propria.
La dinamica sarà sempre quella: diritto comune e iura propria.
Però cambiano e direi che il passaggio epocale si avverte nel cambiamento che non riguarda solo il diritto,
ma nel cambiamento di visione.

Non abbiamo date certe del cambiamento di epoca, però dalla metà della fine del 400 avvengono degli
eventi che modificano profondamente il modo di pensare medievale.
E saranno cambiamenti ideali del diritto medievale.
Nella applicazione poco cambia, ma nella visione ideale, nella concezione, dell’uomo e del diritto qualcosa
cambia.
- Eventi come la scoperta dell’America nel 1492 fa cambiare la prospettiva eliocentrica.
- D’altro canto fondamentale è la riforma luterana.
Le 95 tesi di Lutero scardinano l’unità cristiana.
La riforma protestante scardina quello che era un assunto assodato per il Medioevo, connaturato nel mondo
medievale: l’unità cristiana;
adesso dalla riforma protestante questo aspetto cambia.
Non c’è + un’Europa cristiana, c’è un’Europa cattolica e c’è un’Europa protestante, una parte cattolica e una
parte protestante.

Qui si sfalda un altro assunto, perché l’Europa medievale è un’Europa cristiana.


Il mondo medievale coincideva con l’Europa, quello era conosciuto, il Sacro Romano Impero era l’impero
che aveva dominato tutto il mondo, perché tutto il mondo era l’Europa o quasi.
Il mondo della cristianità era un mondo unico.
L’uomo medievale era abitante dell’impero ed era cristiano.
Ora questo cambia.
Le due entità universali diventano sempre meno universali:
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- l’impero (ora gli Stati nazionali iniziano a staccarsi dall’impero, ma ora c’è anche un nuovo mondo)
- e l’unità cristiana (anche la Chiesa è meno universale, si rompe con l’unità cristiana, poi c’è il Concilio di
Trento, la controriforma, ma certamente l’unità cristiana si rompe)
Inizieranno le guerre di religione nei vari stati es. Francia, questo è un evento sconosciuto per i medievali.
La religione diventa uno strumento legato al diritto, ma anche strumento di potere.
In Francia vi saranno guerre di religione laceranti.
La riforma protestante ha una portata davvero dirompente.

Ecco oltre questi eventi, anche l’aspetto culturale, di cultura tout court del diritto, c’è l’aspetto
dell’umanesimo, questa corrente che pone al centro l’uomo e rende l’uomo indipendente dalla tradizione.
L’uomo ha una libertà di pensiero, è autonomo rispetto a quelle istituzioni e questo aspetto culturale
trova nella riforma protestante dei legami importanti.
Questa idea dell’uomo messo al centro rende l’uomo interprete e interprete anche della Bibbia.
Nella riforma protestante non è necessaria l’intermediazione della Chiesa per interpretare le Sacre scritture.
L’umanesimo avrà grande successo nei paesi protestanti.
Questa differenza tra Europa cattolica e protestante è rilevante, perché nel Medioevo non era nemmeno
pensabile una differenza all’interno della cristianità. La cristianità era una, adesso tutto questo cambia.

Quindi ci sono degli eventi:

- Il 1492 (la scoperta dell’America) è un momento che segna un passaggio epocale non avvertito dai
contemporanei però cambia mentalità.
- Il 1517 la riforma protestante scardinava l’unità cristiana che è un’unità costitutiva del Medioevo: l’impero e
la Chiesa. L’uomo era abitante dell’impero, ma cristiano, sono 2 aspetti legati.
Ora questo aspetto non c’è +. Le entità universali sono meno universali.

- Altri aspetti importanti sono la rottura di alcune istituzioni millenarie, es. nel 1453 la conquista da parte dei
turchi di Costantinopoli, dell’impero romano d’Oriente. Era n’istituzione millenaria, anche se non abbiamo
parlato.
Quando nel 476 viene a crollare l’impero romano d’Occidente, resta solo l’impero d’Oriente che, con sede a
Costantinopoli, è rimasto per mille anni.
Ecco viene a crollare anche l’impero romano d’Oriente.
Questo è un aspetto che ha un suo rilievo nel cambiamento geopolitico.

- Poi fondamentale da un punto di vista culturale è nel 1455 l’invenzione della stampa a caratteri mobili.
Gutemberg inventa la stampa.
Questa ha una portata dirompente per la diffusione delle idee.
La stampa è diretta ancora solo a quei soggetti che sanno leggere e scrivere (che ancora non solo moltissimi)
ma rende più accessibili i testi.
Rende più semplice la divulgazione delle idee.
E in questo aspetto culturale i libri di diritto sono tra i più diffusi (3 sono gli ambiti dell’editoria che in età
moderna sono dominanti: diritto, teologia e medicina).
Tutti i pensatori che studieremo avranno una diffusione delle idee diversa rispetto al Medioevo:
il manoscritto ha una sua diffusione, la stampa tutt’altra, quindi l’invenzione della stampa alla metà del 1400
ha una portata rivoluzionaria.

Quindi nell’ambito del diritto applicato gli elementi di continuità tra medioevo ed età moderna sono indubbi.
L’età moderna non segna una cesura (come avviene con la scuola di Bologna e con la rivoluzione francese).
Questo fa sì che i contemporanei non avvertissero il passaggio epocale, ma certi cambiamenti introducono
veramente un’era nuova e in generale cambiano la visione globale e scardinano le certezze medievali:
- la scoperta dell’America,
- la riforma protestante. (Proprio scardinano la visione dell’uomo medievale abitante dell’Europa e cristiano).
- Da un punto di vista culturale sarà importante l’umanesimo e per la diffusione delle idee: l’invenzione della
stampa.
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- Poi abbiamo altri eventi che rompono col passato es. la caduta dell’impero romano d’Oriente e a poco a
poco avremo l’ascesa degli Stati nazione e l’ingresso dello Stato in monarchie vecchie e nuove.
Emblematicamente il 1492 è l’anno della scoperta dell’America, ma è anche l’anno in cui è ultimata la
reconquista della Spagna con la cacciata degli arabi e viene a formarsi con l’unione delle corone di Castiglia
e di Aragona, attraverso il matrimonio di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, si creerà la corona
spagnola.
Il 500 sarà influenzato dai cattolicissimi sovrani spagnoli.

Certamente la scoperta dell’America e la riforma protestante minano profondamente la visione medievale


del mondo e anche la visione degli enti universali. Nel caso della Chiesa ad es. viene rotta l’unità cristiana.
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Lezione n. 14 – 19.11.2020

Ieri abbiamo visto la scelta del diritto effettuata dalla chiesa ed abbiamo visto come in Oriente la chiesa si
muove fin da subito sull’aspetto teologico, in particolare sulla definizione del dogma, di cui ne discute nei
concili orientali. Mentre in Occidente nei concili (oggi vedremo le raccolte di questi canoni conciliari gallici,
iberici) vengono analizzate questioni legate più al mondo giuridico che al mondo teologico. Quindi, da una
parte abbiamo la definizione del dogma, dall’altra parte il tentativo di escludere l’imperatore rispetto a
questioni di fede e di dogmi. Ieri abbiamo visto come intorno al IV-V secolo le fonti della chiesa si
specificano, a questo proposito abbiamo parlato di fonti esterne che sono le costituzioni imperiali che
disciplinano la vita dell’istituzione ecclesiastica, cioè della chiesa vista come istituzione e poi abbiamo visto
proprio le fonti interne alla chiesa che sono i concili, canoni e le lettere decretali, queste sono fonti che
provengono dal Papa che sarebbe l’organo monocratico che produce diritto della chiesa.
Questo quadro normativo già alla fine del V sec. è ampio, variegato e disordinato. Da qui nascono le prime
raccolte private di canoni e decretali, quindi a scopo personale, fatte da singoli enti ecclesiastici. Siamo
nell’Alto Medioevo, quindi dobbiamo metterci nell’ottica del testo: si tratta comunque di testi giuridici
perché si tratta di raccolte di canoni e decretali che rientrano pienamente nell’ambito di raccolte di fonti
normative, fonti di diritto.

DOMANDA DELLA COLLEGA: come è possibile che tra le fonti del diritto canonico, possano rientrare
costituzioni imperiali, se abbiamo detto che si tende ad allontanare l’imperatore dai dogmi di fede?
RISPOSTA DEL PROF: le costituzioni imperiali, i canoni conciliari e le decretali riguardano il diritto canonico,
sono inerenti alla chiesa come istituzione dell’impero. Le costituzioni imperiali NON entrano nei dogmi e le
decretali solitamente nemmeno. Invece, i canoni conciliari entrano nei dogmi. Dobbiamo specificare però
che: soprattutto i concili ecumenici orientali si concentrano molto sul dogma e fanno dei canoni sui dogmi,
mentre i concili occidentali il più delle volte trattano questioni giuridiche che non riguardano i dogmi, ma
riguardano le norme sull’ordinazione dei sacerdoti, le condizioni economiche-giuridiche dei vescovi e dei
chierici; quindi si tratta di regole esterne al culto, ma non i dogmi. Quindi, ricordiamo che i dogmi vengono
disciplinati all’interno dei concili, in particolare i canoni che derivano dai concili orientali hanno risultanze
legate sia al diritto che al dogma. Solitamente la chiesa sta ben attenta a non far intromettere l’imperatore
all’interno dei concili che sono la sede deputata per parlare di dogmi.
NB: La teologia ed il diritto canonico sono due cose diverse. Il dogma attiene alla teologia, il diritto canonico
riguarda aspetti esteriori. Ovviamente nelle opere canoniche questi due aspetti vengono trasfusi, infatti,
riguardo ciò possiamo citare il Decretum di Graziano, del quale ancora nel 1100 ci si chiede se sia un’opera
di teologia o di diritto canonico, perché vengono trasfuse entrambe le materie al suo interno; però la
distinzione per noi deve essere chiara:
- LA TEOLOGIA: riguarda gli aspetti del dogma e le Sacre Scritture;
- IL DIRITTO CANONICO: riguarda il diritto positivo, ossia l’aspetto esteriore della chiesa, i
possedimenti della chiesa, la vita monastica, l’ordinazione dei chierici e dei sacerdoti (come ad
esempio le decretali).

Chiarita la differenza fra queste due, ribadiamo che le costituzioni imperiali NON andranno mai a disciplinare
i dogmi; piuttosto si occuperanno di aspetti del diritto canonico, aspetti esteriori, inerenti al diritto positivo.
La chiesa diventa istituzione dell’impero, cioè diventa entità giuridica ed i suoi appartenenti sono visti come
appartenenti ad un’istituzione giuridica. Tutto ciò rientra nel discorso della chiesa da Tessalonica in poi, in
cui si ha: la religione cattolica niceana come religione di Stato, una chiesa-istituzione all’interno dello Stato,
l’imperatore è fedele, credente e subordinato alla chiesa ed anche al pontefice, esso si occuperà della
chiesa-istituzione. Quindi, da Tessalonica in poi la situazione dottrinale un po' si complica perché la chiesa
viene vista come istituzione dello Stato, quindi concependo due istituzioni universali. Ma già da Costantino
in poi le costituzioni che si occupavano della chiesa riguardavano aspetti esteriori e giuridici della chiesa
stessa, come il fatto che esse potessero ricevere legati o che potessero esseri eredi (manumissio in ecclesia,
episcopalis audientia). Tutti questi NON sono aspetti del dogma. Fu proprio grazie a queste costituzioni,
riguardanti l’aspetto giuridico della chiesa, che essa acquistò la dimensione di istituzione e non più di
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semplici gruppetti di credenti. Anche se poi le raccolte (la più importante è il Decretum di Graziano)
conterranno un po' tutto, cioè sia teologia che diritto, in quanto all’interno vi finiranno tante fonti, ma i due
ambiti dal punto di vista teorico sono ben distinti.

LE RACCOLTE
Alla fine del V secolo questo panorama normativo diventa variegato e disordinato. Le prime raccolte sono
private, fatte a scopo personale anche da singoli enti ecclesiastici. Vi erano tante raccolte, ne menzioneremo
solo qualcuna.
LA RACCOLTA DEI CANONI DEGLI APOSTOLI: fra le raccolte, questa è importante per il suo carattere generale
e per essere stata molto menzionata. Siamo nell’Alto Medioevo, quindi vi è un’incertezza su data e autori.
Sono raccolte private. Si pensa che questa sia stata fatta nella zona della Siria, quindi in Oriente, tra il IV e il V
sec. Essa comprende norme sull’ordinazione sacerdotale, sulla condizione di vescovi e chierici, alcune regole
di culto, al suo interno vi sono sia canoni conciliari che decretali pontificie (molte raccolte di questo periodo
contengono sia decretali che canoni).

Anche in Occidente, vennero fuori molte raccolte organiche che univano spesso, così come in Oriente, sia
canoni conciliari che decretali pontificie. Quindi il materiale era molto vario. Tra queste raccolte occidentali,
un ruolo molto importante ebbene la c.d. COLLECTIO DIONYSIANA. Questa è una raccolta organica realizzata
in Occidente dal monaco sciita Dionigi il “piccolo”, in segno di umiltà, che giunse a Roma subito dopo la
morte di Gelasio I, quindi siamo all’inizio VI sec. Dionigi era un dotto, un monaco di rilievo, a lui si deve
anche il computo degli anni dell’era cristiana che ancora oggi usiamo. All’inizio del VI secolo il monaco ebbe
tra le mani una versione latina di canoni orientali che lo disgustò per il disordine. La sua raccolta contiene:
38 decretali pontificie che vanno dalla fine del 300 alla fine del 400 (quindi circa un secolo di decretali che
riguardano i pontefici da Siricio ad Anastasio II, successore di Gelasio) ed anche una traduzione dal greco di
canoni dei concili orientali. Quindi, si tratta di un’opera che circolerà in Occidente, lui è uno sciita che va a
Roma, quindi in occidente, ed inserisce sia decretali pontificie che erano fonti tipiche occidentali; ma la sua
opera contiene anche traduzioni dal greco molto accurate di canoni che provengono dall’oriente. Nella
Dionysiana è molto chiara la distinzione fra le due fonti interne al sistema normativo della chiesa, distinzione
che era basata sulla diarchia tra papa e concili. Il rilievo delle due fonti nel corso degli anni varierà anche in
base ai fatti storici medievali e alle contingenze politiche e anche in base alle personalità di vari pontefici. La
Dionysiana non è una raccolta ufficiale in quanto è privata, ma diventerà raccolta ufficiosa della chiesa di
Roma, con notevole rilievo e riconoscimento; e nonostante si tratti di una raccolta risalente al VI sec, ancora
nel 774 il papa Adriano la darà a Carlo Magno per farla applicare come diritto della chiesa all’interno
dell’impero. Dalla prima redazione del VI sec a quella della 774 cioè di fine VIII sec, l’opera sarà stata
sottoposta a modifiche e aggiunte tipiche della visione dell’utilizzatore; in questi anni, dall’inizio del VI sec.
fino al 774, l’opera arriva al pontefice che la consegna a Carlo Magno come diritto della chiesa pur sempre
ufficioso, ma l’opera è diversa tanto che il nome di Dyonisiana è parso non convenirgli più, e l’opera passerà
alla storia con il nome Collectio Dionysio-Hadriana. La parte importante riprende la Dionysiana, ma l’opera
arriverà notevolmente modificata. Ovviamente il corpo centrale rimane lo stesso però ci sono notevoli
modiche. Tutto ciò è tipico dell’ottica dell’utilizzatore di questo periodo: nel corso del VI-VIII sec.
quest’opera è stata oggetto di modifiche e aggiunzioni perché chi la utilizzava o la trascriveva la modificava,
aggiungendo ciò che gli serviva. Ne abbiamo parlato nelle precedenti lezioni riguardo il diritto civile, ma lo
possiamo dire anche per il diritto canonico: il testo era fluido e aperto.
Accanto ad essa vi erano altre raccolte che nascevano spontaneamente. La più celebre di questo periodo è
LA COLLECTIO HISPANA, concorrente della Dionysio-Hadriana. Nasce in Spagna un secolo dopo la
Dionysiana. La struttura di questa opera presenta tante analogie con la struttura delle Etymologiae di Isidoro
di Siviglia; infatti, spesso la storiografia la attribuisce proprio a lui, ma Cortese dubita fortemente di questa
attribuzione. Comunque per noi l’autore resta anonimo. Questa è un’opera nuova ed originale, che ebbe
molto successo: essa contiene canoni di concili gallici e iberici, quindi concili Occidentali che, a differenza dei
concili orientali che si occupavano di dibattiti teologici, rappresentano le officine normative per la chiesa
d’Occidente e si occupano di problemi giuridici concreti, del diritto: da questi concili occidentali vengono
fuori dei canoni che riguardano il diritto. Anche questa raccolta, tipicamente altomedievale, venne molto
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modificata, rimaneggiata e trasposta da cronologica a sistematica, si pensa che fu anche falsificata verso la
metà del IX sec. Quindi, anche quest’opera è un esempio di ottica dell’utilizzatore e di testo aperto e fluido,
non c’è una stabilità del testo; essa rappresenta molto il contesto giuridico altomedievale ed è anch’essa
una raccolta privata.
Quando era stata scritta l’Hispana nel VII secolo, quel regno era infatti nel pieno del fulgore. L’alleanza con la
chiesa romana però era molto recente: i visigoti ariani si erano convertiti al cattolicesimo quando l’aveva
fatto il buon Recaredo nel 587, e solo nel 589 il concilio III di Toledo aveva celebrato con solennità
l’avvenimento. Recaredo e la moglie vi avevano recitato il credo niceno secondo una formula
sostanzialmente analoga a quella odierna; la partecipazione era stata, come in tutti i concili visigotici, di
chierici e di laici; fervore religioso ed entusiasmi nazionalistici si erano fusi insieme.

SCENARIO DELL’IMPERO CAROLINGIO


Quando in Italia l’impero romano d’Occidente cade, arrivano i longobardi e la chiesa, in Occidente, si ritiene
erede della romanità, incarna lei l’idea della romanità rispetto alle ondate germaniche ed ariane. Nelle
lezioni precedenti abbiamo analizzato tutto ciò dal punto di vista del diritto civile, ora ci troviamo nel
versante canonico, però ovviamente la storia istituzionale è sempre questa. L’apice di questa costruzione
simbolica fatta dalla chiesa si avrà nella notte di natale dell’800 quando la chiesa nomina un suo imperatore
in Occidente, ossia Carlo Magno, che darà vita al sacro romano impero. Dunque, vi è questa idea
istituzionale di renovatio imperii, cioè di nascita del sacro romano impero e di Stato creato dalla chiesa. A
fianco di questa idea istituzionale, poi dal punto di vista del diritto, emerge anche l’idea che la legge della
chiesa sia legge superiore rispetto a quella dello Stato, perché emanata da un’autorità superiore.
Ci troviamo nel IX sec, in quel periodo delle falsificazioni e del testo aperto (nelle lezioni precedenti abbiamo
fatto l’esempio delle decretali pseudo isidoriane) vediamo come anche nella chiesa ci saranno delle raccolte
durante questo periodo carolingio come la Collectio Anselmo dedicata e poi nell’XI sec ci sarà un’opera di
grande successo il Decretum di Burcardo di Worms.

DECRETUM DI BURCARDO DI WORMS


Opera forse più importante del periodo carolingio. Si tratta di un’opera divisa in 20 libri. Qui si parla delle
gerarchie ecclesiastiche, dei beni ecclesiastici, dei sacramenti, dei peccati e, dunque, anche del diritto
penale. Il quadro contenuto in Burcardo è un quadro in evoluzione, perché:
- Da una parte fotografa uno scenario “vecchio”, in quanto parla di una chiesa ancora imperiale e affidata
al controllo del sovrano. Per quanto riguarda questo primo aspetto: ci troviamo nell’età carolingia, nella
quale la chiesa è artefice dell’impero, il pontefice nomina l’imperatore e c’è una subordinazione
dell’imperatore nei confronti della chiesa. Tuttavia, ricordiamo che per Carlo Magno e per i suoi
primissimi successori, gli imperatori erano visti come dei protettori-custodi della chiesa, per questo
motivo la chiesa tollerava l’intromissione degli imperatori in faccende esteriori, infatti, Carlo Magno
stesso fu anche ammesso a partecipare al concilio di Francoforte. Quindi, la chiesa tollerava la
protezione degli imperatori e l’opera di Burcardo designa proprio questo assetto. Questo rappresenta un
raro momento storico in cui la chiesa si mostra tollerante.
- Dall’altra parte l’opera cavalca bene i tempi, e presenta elementi base per la successiva riforma
Gregoriana. Essa, infatti, contiene un netto rifiuto nei confronti dell’ingerenza degli imperatori nella
nomina delle cariche ecclesiastiche. Quindi, per questa parte di contenuto, l’opera avrà successo, sarà
utilizzata ai fini politici per la riforma Gregoriana e sarà anche utilizzata fino a Graziano.

Questo scenario che abbiamo appena descritto, va collegato con l’età carolingia che abbiamo analizzato
nelle precedenti lezioni. Ci troviamo in rette parallele e questi discorsi vanno necessariamente uniti. In
occidente c’è questa idea della chiesa come erede della romanità, essa prende il posto della romanità e
viene vista come lo strumento culturale per la romanizzazione delle popolazioni germaniche, essa si
sostituisce quasi allo Stato. Poi questa idea che va maturando nei secoli arriverà all’apice dal punto di vista
istituzionale con la nascita del sacro romano impero. La chiesa riempie di connotati simbolici (di cui abbiamo
parlato ampiamente) l’incoronazione di Carlo Magno e la nascita di questo nuovo impero, mentre per Carlo
Magno si trattava semplicemente un’unione di territori longobardi franchi. È la chiesa che vede la nascita
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dell’impero sacro e romano come l’apogeo e la concretizzazione di questa sua idea fortemente simbolica,
cioè l’idea secondo la quale essa stessa era custode della romanità.

Tutte queste raccolte di cui abbiamo parlato fino a Burcardo, rispondono all’ottica dell’utilizzatore e del
testo aperto, infatti, sono stata rimaneggiate modificate ecc. la Dionysiana ne è un palese esempio. È
importante ricordare che queste opere di diritto canoniche seguono il fenomeno della falsificazione che
riguarda il testo giuridico.

RIFORMA GREGORIANA
La riforma Gregoriana avviene intorno al 1070-75 e ruota intorno al pontefice Gregorio VII, che fu
importantissimo ed incarnò la figura di un monarca. La riforma Gregoriana parte da piccoli monasteri, come
il monastero di Cluny in Borgogna, che diventa il cuore della nuova spiritualità europea. La riforma segna un
momento di profonda rinascita della spiritualità, la chiesa torna alle sue origini, specialmente in Francia nei
monasteri ritorna la purezza della fede e del culto. Ovviamente a noi interessa più l’aspetto istituzionale
legato al diritto. Riguardo ciò dobbiamo specificare che la riforma avviene nel corso di un periodo in cui vi
era una diatriba fra chiesa ed impero, legata alla lotta per le investiture. Già nel Decretum di Burcardo
abbiamo notato che nell’aria vi era un rifiuto da parte della chiesa all’intromissione degli imperatori alle
nomine delle cariche ecclesiastiche, in particolare dei vescovi. Da qui possiamo rintracciare un parallelismo e
richiamare l’alto medioevo: infatti, nel feudalesimo i vescovi erano visti come funzionari statali, interni
all’organigramma statale e nominati dall’imperatore. Essi erano vescovi-conti e a loro veniva attribuito
anche un feudo da parte dell’imperatore; poi alla morte del vescovo, visto che esso non aveva eredi, il feudo
tornava all’imperatore. Qui abbiamo la visione imperiale legata strettamente all’aspetto feudale. Dunque, il
pontefice non poteva tollerare questa ingerenza dell’imperatore e da qui si forma un punto di rottura
notevole fra impero e pontefice. Addirittura nel 1077 Gregorio VII arriverà a scomunicare l’imperatore
Enrico IV. Gregorio VII, pontefice autoritario, utilizzò la scomunica come arma di potere nei confronti
dell’imperatore.
Scomunicare vuol dire: mettere quel soggetto al di fuori della collettività e sciogliere anche i sudditi
dall’obbligo di obbedienza nei confronti dell’imperatore. L’atto di scomunica chiaramente non riguardava
solo l’aspetto canonico, del diritto della chiesa, in quanto nel medioevo questi aspetti rappresentavano un
tutt’uno: l’uomo medievale era sia suddito dell’imperatore che cristiano. La scomunica veniva usata anche
nei confronti delle persone normali, dei sudditi. Scomunicare una persona significa porla al di fuori della
collettività. L’uomo medievale esiste in quanto è un membro della comunità, la società medievale è divisa in
status e ciascuno appartiene ad uno di questi e conta per il semplice fatto di appartenere ad uno status.
Mettere un soggetto al di fuori della collettività, vuol dire anche poterlo liberamente uccidere. La scomunica
è un’arma importantissima. Papa Gregorio VII la userà nei confronti di Enrico IV, poi in un periodo successivo
verrà usata anche da Federico II, in generale fu un’arma molto utilizzata in questa lotta politica che la
riforma Gregoriana incarna.
La lotta delle investiture terminò solo nel 1122 col Concordato di Worms, secondo il quale l’investitura
episcopale (nomina dei vescovi) doveva essere fatta dall’autorità ecclesiastica secondo la procedura
canonica. Con il concordato di Worms si ebbe una vittoria da parte della chiesa e da quel momento in poi la
procedura seguita fu quella canonica. Tutto questo discorso serviva per descrivere proprio la contesa che ci
fu fra stato ed impero.
L’idea istituzionale che passa nella riforma Gregoriana grazie a Gregorio VII e tutto il suo manifesto è
contenuto nel Dictatus Papae.

DICTATUS PAPAE
È un’opera breve (che sarà uno dei più celebri documenti della politica gregoriana), fatta da Gregorio VII, si
pensa fra il 1075 e il 1080. A noi ne rimane molto poco, secondo alcuni ciò che è arrivato oggi a noi è solo un
indice (ai tempi si diceva capitulatio) di una raccolta normativa andata perduta. L’opera che abbiamo oggi è
formata da 27 brevi proposizioni tutte rivolte ad esaltare, con audacia e quasi arroganza, la dignità e i poteri
del pontefice romano. Le proposizioni sono secche e autoritarie: tutte le norme canoniche debbono essere
approvate dal papa, a lui compete la giurisdizione nelle cause maggiori, non è lecito impedire che ci si appelli
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a lui, nessuno ha diritto di giudicarlo, egli è al di sopra del concilio che spetta a lui convocare e le cui
decisioni sono sottoposte alla sua ratifica. Per quanto riguarda i rapporti con l’Impero: tutti i prìncipi della
terra baciano il piede al papa, nessun contatto si può avere con gli scomunicati dal pontefice, il quale può
sciogliere i sudditi dal giuramento ai re e deporre questi ultimi. Il Dictatus Papae, in cui fissò delle norme
per regolare i rapporti gerarchici all‘interno della Chiesa e i rapporti con l‘imperatore, ha un programma di
una monarchia universale retta dal papa, lui è vescovo di Roma ed erede diretto di Pietro, secondo questa
visione tutti sono subordinati a lui, persino l’imperatore. Vediamo come da questa opera emerge proprio
l’idea ierocratica e il programma politico della riforma Gregoriana, che in realtà è essa stessa un evento
politico. Mai prima di allora tutto ciò era stato affermato così nettamente e convintamente ed in maniera
politicamente rilevante.
Il pontefice, ossia il vescovo di Roma, è un monarca all’interno e all’esterno. Esso è il capo della gerarchia
ecclesiastica, ma anche dell’imperatore, tutti sono subordinati a lui.
Il prof dice di guardare a questo proposito il Conte.
Dunque, attraverso la riforma vengono in rilievo vari aspetti:
- Aspetto politico-istituzionale incarnato da Gregorio VII: nonostante del Dictatus Papae a noi arrivi
pochissimo (ciò che è giunto fino a noi pensiamo possa essere l’indice di questa opera) già da ciò che
abbiamo a disposizione possiamo ben notare la portata dirompente della riforma gregoriana, ossia l’idea di
questa monarchia universale retta dal papa, la sua potenza e la sua idea sono fortissime.
- Il rinnovamento della vocazione della fede e della spiritualità: tutto ciò parte dai conventi, con la riforma la
chiesa cerca di recuperare la sua purezza delle origini, essa combatte contro le vendite delle cariche
ecclesiastiche, che erano delle eresie che circolavano a quei tempi. Inoltre la chiesa combatte la venalità ed
il lusso che a quei tempi caratterizzavano la chiesa stessa, tutto ciò allo scopo di tornare alle origini.
- Da qui si avranno anche tutta una serie di risvolti culturali: questi risvolti sono legati alla diatriba tra chiesa
ed impero prodotta nella lotta per le investiture, quindi per l’affermazione delle prerogative di questi due
enti universali. Riguardo questo punto possiamo dire che i pontefici utilizzeranno tantissimo l’arma del
diritto, tanto che ci sarà una proliferazione di decretali pontificie (nonostante la chiesa abbia già fatto la sua
scelta riguardo il diritto). Il successore di Gregorio VII, ossia Urbano II riformerà la cancelleria pontificia ed
utilizzerà il diritto come strumento efficace per applicare la riforma gregoriana. La società dei fedeli si
organizzerà giuridicamente. Vediamo come dalla riforma gregoriana in poi avremo anche pontefici-giuristi,
ossia soggetti esperti di diritto, qui il diritto diventa fondamentale per attuare l’idea della riforma stessa.
Inoltre, dal punto di vista culturale con la riforma vi fu l’idea importantissima di riscoperta del diritto romano
giustinianeo, questo era visto come uno strumento che serviva a legittimare le pretese dell’una e dell’altra
fazione. Questo ritorno al diritto romano giustinianeo fu favorito dall’accesso alle biblioteche, in cui era
conservato il sapere e sia gli esponenti della fazione imperiale, ma soprattutto gli esponenti della fazione
papale avranno accesso diretto alle biblioteche. Ci troviamo già all’XI sec e tutto il nostro discorso va a
coincidere con ciò che abbiamo detto nelle lezioni precedenti sull’anno 1000, ossia la ripresa culturale,
economica, demografica, ricordiamo che ci stiamo avvicinando alla scuola di Bologna. La chiesa, che prima
non vedeva come un peccato la falsificazione, adesso cambia decisamente rotta. Ovviamente ancora non ci
troviamo nell’ottica di testo stabile, ma notiamo come in questo periodo si cerca quanto meno di avere testi
autentici e di salvaguardarne la paternità.
Il prof dice di rivedere questa ottica del testo anche nel libro Conte.

Sulla natura del Dictatus Papae, secondo padre Borino, si tratterebbe dell'elenco dei titoli o capitulatio di
una collezione canonica. Il Dictatus papae fu e rimane il manifesto della riforma e del mutamento della
Chiesa in un organismo centralizzato.

Riguardo la riforma Gregoriana abbiamo delle raccolte canoniche che portano avanti le idee della stessa
riforma, tra queste:
COLLECTIO CANONUM ANSELMO: composta da Anselmo da Lucca, lui era amico fedelissimo di Gregorio VII,
infatti, questa opera è maggiormente legata all’insegnamento di Gregorio VII. Questa collezione avrà tanto
successo e sarà utilizzata anche da Graziano. L’aspetto importante è che all’interno di questa collezione ci
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sono parecchie citazioni dell’Authenticum (ricordiamo che queste sono novelle giustinianee), notiamo come
sta ritornando il diritto romano.

Dopo la morte di Gregorio VII abbiamo altre raccolte volte a ribadire i principi della riforma, come per
esempio IL LIBER DE VITA CHRISTIANA, opera di Bonizzone di Sutri, del 1087.
Oltre questa appena menzionata, avremo soprattutto le opere di Ivo di Chartres
IVO DI CHARTRES: fu un personaggio importantissimo durante questo periodo successivo alla riforma
Gregoriana. Ivo fu allievo di Lanfranco di Pavia, quindi anche lui circolò nell’ambiente di Pavia e fu
importante perché ebbe una grande influenza su Graziano, quest’ultimo prenderà molto dalle raccolte di
Ivo. Ivo fu vescovo a Chartres e la tradizione racconta che durante questo periodo in cui fu vescovo, curò tre
collezioni: la Panormia, il Decretum, e la Tripàrtita. Sulla Panormia non ci sono dubbi; invece, come sostiene
anche Cortese, riguardo il Decretum e la Tripàrtita la paternità rimane dubbia. Tuttavia entrambe le opere
richiamano molto la Panormia e rimane comunque certo il fatto che Ivo le abbia ispirate e conosciute
direttamente. Queste tre raccolte ebbero grande influenza nei confronti di Graziano.

Facendo un quadro della situazione: ci troviamo nel periodo in cui Urbano II rinnova la cancelleria pontificia,
ci si organizza secondo i dettami del diritto. Come abbiamo detto sopra il diritto viene usato come mezzo per
riorganizzare la chiesa secondo i dettami della riforma gregoriana.
Ed in questo periodo, proprio tra XI e XII sec, nel pensiero canonico si fa chiara l’idea della distinzione netta
fra:
- ius canonicum visto come fonte principale, in quanto è la trasposizione in norme dello ius divinum o
naturale che, dunque, coincidono;
- diritto romano visto come suppletorio, questo è visto come subordinato rispetto alla lex divina/legge
naturale che sarebbe il diritto canonico. Quindi, possiamo notare che all’interno del pensiero canonico vi
è un ritorno del diritto romano a carattere suppletorio. Tutto ciò lo avevamo già visto nella scuola di
Pavia, in particolare nell’expositio ad librum papiensem e nella definizione di diritto romano come lex
generalis omnium (riguardare la settima lezione), come possiamo notare tutto fa parte dello stesso
contesto culturale.

DIRITTO CANONICO CLASSICO


Entriamo nel periodo del diritto canonico classico che va dal 1100 fino a 1300-1400, qui si ha la formazione
del diritto canonico classico e delle raccolte più importanti. In questo periodo fu importantissima l’opera di
Graziano ossia il Decretum, il cui titolo originario è Concordia discordantium canonum (concordia dei canoni
discordanti), comunque l’opera passerà alla storia con il nome semplificato di Decretum grazie agli allievi.
Mentre il decretum rimarrà un’opera privata con rilievo notevole, dopo il Decretum abbiamo anche raccolte
di decretali, cioè di diritto della chiesa in cui la chiesa seguirà la strada dell’ufficialità. Gradualmente si va
formando il Corpus Iuris Canonici, questo è un corpus di raccolte che ha formato l’ossatura del diritto
canonico e che ha retto la chiesa fino al 1900. Un aspetto importante per gli storici del diritto è l’ingresso del
diritto canonico nel mondo della scienza iuris. In questo periodo formativo del diritto canonico classico
avremo due strade parallele che si incontrano: quella del diritto civile, ossia la riscoperta del diritto romano
giustinianeo; e quella del diritto canonico, ossia tutte le raccolte dal Decretum in poi, che andranno a
formare il Corpus Iuris Canonici. Queste due strade che si incontrano diventano rispettivamente i diritti
universali delle due entità universali che li rappresentano, esse si incontrano nella scienza iuris a Bologna e
formano proprio l’ossatura del diritto comune.

GRAZIANO
Graziano ed Irnerio sono uno l’alter ego dell’altro, essi vivono in un contesto che tendenzialmente è molto
simile. Ciò che fa Irnerio nel diritto civile, lo fa allo stesso modo anche Graziano nel diritto canonico, infatti,
anche lui darà una idea di stabilizzazione del testo e segue anche lui l’ottica del testo e NON quella
dell’utilizzatore. Come abbiamo visto nelle precedenti lezioni con i libri legales (che poi sono stati aggiornati
e sono stati aggiunti altri pezzi legati alla pace di Costanza, ai libri feudorum) si dà una intagliatura scientifica
alla materia che riesce a rendere il testo stabile; infatti, le fonti interne ai libri legales sono riportate per
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intero, seguendo appunto l’ottica del testo, stessa cosa avviene nel Decretum di Graziano; per questo noi
diciamo che i due personaggio sono l’uno l’alter ego dell’altro: Irnerio per il diritto civile, Graziano per il
diritto comune.
Le notizie inerenti la vita di Graziano sono poche, esso nacque tra Orvieto e Chiusi, alla fine dell’XI sec e fu
un monaco dell’ordine camaldolese. Tra il 1130/40 (in grandi linee lo stesso periodo di Irnerio) fu attivo a
Bologna nel monastero dei Santi Neborre e Felice, qui compose intorno il 1140/42 il Decretum. È singolare la
quasi contemporaneità della nascita, nella medesima città delle due scienze giuridiche che il destino unirà
più tardi con l’utrumque ius.
Riguardo la sua vita conosciamo un solo episodio che è testimoniato all’interno di un documento notarile:
questo episodio risale all’agosto del 1143, dove a San Marco, il patriarca di Venezia all’atto di emanare una
sentenza in tema di decime ecclesiastiche (tasse) volle sentire il parere di alcuni autorevoli esperti di diritti e
la scelta in questione ricadde su Gualtiero che era un legis doctor e consigliere dell’imperatore Lotario II, poi
su Graziano e anche sul dotto Mosè. Il quesito era il seguente: il lascito dei beni se un convento fosse stato
abbandonato a chi sarebbe toccato? Al patrono da cui il convenuto li aveva avuti? Oppure bisognava
considerarli vacanti, assegnandoli quindi al fisco pontificio? A narrare la polemica è Giovanni Bassiano. I
contendenti sono Gualfredo il quale riteneva che poiché i monaci erano i veri proprietari e possessori, la loro
mancanza comportava che i beni diventati vacanti fossero assegnati al fisco papale (soluzione logica
condivisa da Giovanni, Azzone e Accursio), e Mosè il quale sosteneva che proprietà e possesso spettassero
alle mura stesse del convento, all’edificio materiale per evitare che le istituzioni ecclesiastiche,
momentaneamente deserte, perdessero il patrimonio e, una volta ripopolate, non potessero più assicurare
la vita dei monaci. Una tesi molto ardita che cominciò a raccogliere grandi adesioni, fra cui quella di Bartolo
da Sassoferrato.
La tesi di Mosè fu opposta ai feudatari che spogliavano i villaggi dei loro demani quando venivano
abbandonati (per peste, guerre, brigantaggio e altre calamità) e poi non volevano restituire demani e usi
civici, necessari alla sopravvivenza, ai nuovi abitanti che si fossero decisi a ripopolare quei villaggi.
La tesi di Mosè fu ripresa in una sentenza della Commissione feudale napoletana del 1818, su tema di
demani comunali dopo l’abolizione della feudalità; fu ripresa anche dalla nostra Corte di Cassazione, nel
1953, in tema di usi civici.
Graziano appare come l’esponente di un giro di giuristi bolognesi che sono alternativi ai fanatici del diritto
giustinianeo. Ricordiamo sempre che dobbiamo entrare nell’ottica bolognese per comprendere il discorso
che stiamo facendo, ci troviamo nel periodo post-Irneriano, in cui da una parte ci sono gli allievi sostenitori
della visione di Bulgaro, dall’altra parte ci sono personaggi, come Martino Gòsia, che aprono
l’interpretazione della compilazione giustinianea ad altri principi e che vanno al di là del rigor iuris. Magari
Graziano apparteneva proprio a questa corrente alternativa e a questi giuristi che ovviamente partecipano
alla riscoperta del diritto romano giustinianeo, ma che allo stesso tempo aprono l’interpretazione del testo
ad altre componenti, basti pensare che ad esempio si aprono ai contributi che vengono dal diritto canonico.

IL DECRETUM
Il nome originale dell’opera è Concordia discordantium canonum (concordia dei canoni discordanti) e, pur
essendo un’opera privata sprovvista di approvazione papale, compì un passo in avanti verso l’unificazione
normativa. Il Decretum è stato redatto tra il 1140 e 1142 circa. A questo proposito Padoa Schioppa segnala
ricerche molto recenti che vedono il Decretum come un’opera in formazione progressiva: ciò vuol dire che
l’autore dell’opera è sicuramente Graziano, ma essa è stata poi completata dai suoi allievi, soprattutto per
quello che attiene il versante del diritto. Essi, infatti, hanno incrementato di più questo aspetto rispetto a
quello teologico (questo punto è spiegato meglio sotto). L’opera di Graziano contiene circa quattromila testi.
Graziano si rifà tantissimo alle raccolte precedenti, come quella di Ivo Di Chartres specialmente la Panorma,
oppure anche alla Collectio Canonum Anselmo di Anselmo da Lucca; inoltre cita tantissime altre fonti
promananti da tempi e luoghi diversi. Si tratta di fonti prese da sacre scritture, da costituzioni imperiali, da
canoni conciliari, da decretali pontificie. Graziano fu molto influenzato anche da Abelardo, un teologo che
operò in ambiente francese tra la fine dell’XI sec e l’inizio del XII sec, che scrisse il “sic et non” e che di fronte
alla sacra pagina assume, per la prima volta, un atteggiamento critico segnando la trasformazione della
reverente e arrendevole conoscenza altomedievale dei testi sacri in vera scienza “teologica” preda della
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dialettica, all’occasione polemica e aggressiva; lo stesso termine “teologia” può dirsi abelardiano. Abelardo,
essendo teologo, nella sua opera mise a confronto i passi delle sacre scritture contrastanti. Graziano fu
anche influenzato da Urbano II, che era un pontefice esperto di diritto, e dalla sua teoria della derogabilità
delle norme in relazione ai tempi e alla qualità delle persone. Dunque, Graziano fu influenzato dalle raccolte
precedenti e per quanto riguarda la metodologia fu influenzato da Abelardo e Urbano II.
L’intento di Graziano è quello di dare una disciplina unitaria al diritto della chiesa, esso vuole mettere
concordia tra i canoni discordanti, cercando di evitare lo scandalo che inevitabilmente Abelardo nel suo
campo suscitava. Programma evidenziato anche dal titolo della sua opera “Concordia discordantium
decretum”.
Il campo dei canoni non appariva minato come quello teologico: un papa autorevole come Urbano II aveva
ammesso che non sempre i canoni andavano considerati immutabili poiché ve ne erano di derogabili in base
alle esigenze del tempo e alla qualità delle persone. NB: in questo caso la parola “canoni” è usata in senso a-
tecnico, perché qui il termine sta ad indicare non solo i canoni conciliari, ma anche tutte le norma
canoniche.

Intanto Graziano nella disposizione di tutte queste fonti divide nettamente ius divinum e ius umanum:
- Ius divinum: questo può essere ius divinum positivum che è costituito dagli insegnamenti di Gesù e delle
sacre scritture; e ius divinum naturale che coincide col diritto naturale che sta nel creato.
- Ius umanum: è costituito dalle fonti normative della chiesa, quindi dai canoni, dai decretali, ma anche da
fonti laiche, quindi costituzioni imperiali ed anche da opere di dottrina.
Così come Irnerio mise ordine e superò le antinomie presenti all’interno della compilazione giustinianea per
renderla efficace, allo stesso modo Graziano ordinò più di quattromila fonti promananti da luoghi e tempi
diversi, con lo scopo di dare concordia, razionalità ed una effettiva applicabilità tra queste fonti, esso vuole
dare un diritto alla chiesa.
Graziano riesce a raggiungere il suo scopo di porre concordia tra i canoni discordanti attraverso i DICTA:
questi rispecchiano il pensiero di Graziano, o meglio, il suo metodo di armonizzazione delle antinomie. Dal
momento che Graziano cita tantissime fonti canoniche e della compilazione giustinianea, spesso queste
prevedevano discipline diverse per la stessa fattispecie, e a questo proposito i dicta rappresentavano
proprio il pensiero di Graziano ed il modo che lui usava per superare queste antinomie.
Graziano usa quattro modi per superare le antinomie: (alcune fra queste le usiamo anche oggi)
- Ratio temporis: in virtù della quale la norma successiva abroga la norma precedente.
- Ratio loci: in virtù della quale la norma speciale deroga alla norma generale
- Ratio significationes: questa veniva utilizzata nel caso in cui le prime due (ratio temporis e loci
rappresentano i due criteri oggettivi) non fossero state sufficienti a superare le antinomie. Qui Graziano
dice che spesso guardando due norme che sembrano antinomiche, ossia in contrasto fra loro, poi
andando ad analizzare il significato più riposto di queste, allora si scoprirà che l’antinomia è solo
apparente. Questo è un metodo utilizzato anche da Irnerio.
- Ratio dispensationis: qui Graziano dice che nel caso in cui l’antinomia non venisse superata con i primi
tre metodi, allora bisognava ricorrere al metodo delle eccezioni, cioè alla dispensa canonica-
ecclesiastica. Quando due norme sono in un contrasto insuperabile, vuol dire che una norma presenta
una portata/una disciplina generale, mentre l’altra norma rispecchia una dispesa/un’eccezione/un
trattamento speciale. La dispensa canonica: era molto usata dalla chiesa, in quanto, quando venivano
stabilite le norme generali, potevano essere presenti anche delle dispense, cioè delle eccezioni, dei
trattamenti normativi diversi rispetto al trattamento generale, questo in termini romanistici possiamo
definirlo come uno ius singulare.

EVOLUZIONE DEL PENSIERO DELLA STORIOGRAFIA SU GRAZIANO E SUL DECRETUM


Vediamo come il Decretum diventa la pietra miliare della chiesa. Ovviamente stiamo parlando sempre di
un’opera privata, che NON ha il carattere di ufficialità, nonostante ciò diventerà ugualmente centrale per il
diritto canonico.
La visione tradizionale della storiografia ha attribuito un ruolo centrale a Graziano e al Decretum. La figura di
Graziano è stata esaltata, ed è stato visto come colui che diede il metodo principale per la distinzione tra
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diritto e teologia, anche se si deve riconoscere che la sua opera resterà sempre in bilico tra teologia e diritto.
La sua opera ebbe una fortuna immensa, tanto che Dante aveva anche nominato Graziano nella Divina
Commedia ed addirittura lo aveva collocato nel paradiso. Graziano ha distinto anche reato e peccato, di cui il
primo attiene al diritto ed il secondo alla teologia.
Noi oggi sappiamo che, proprio dal punto di vista teorico, la distinzione fra i due ambiti è chiara, in quanto la
teologia si occupa del culto e del dogma, mentre il diritto canonico riguarda aspetti esteriori della chiesa,
inerenti alla sua organizzazione. Però, abbiamo anche visto più volte che il diritto canonico entra in rapporto
col diritto civile, infatti, il diritto canonico NON disciplina solo aspetti legati all’organizzazione della chiesa,
ma esso darà apporti importanti al diritto civile. A questo proposito, nel corso del medioevo e dell’età
moderna i due ambiti del diritto civile e canonico, costituiscono realmente un tutt’uno. Quindi, da un punto
di vista dottrinale ed anche da un punto di vista legato agli apporti dati, molti aspetti del diritto civile
derivano dal diritto canonico, ad esempio: nell’ambito delle procedure, il processo romano canonico si
applica anche nel processo civile, oppure gli aspetti legati alla volontà nel contratto o alla gestione
economica della famiglia, dei diritti dei coniugi, del matrimonio, buona fede ecc.. tutto ciò deriva dal diritto
canonico ed arriva al diritto civile.
Ritornando a Graziano, la storiografia tradizionale riconosce che sia stato proprio lui a distinguere i due
ambiti del diritto canonico e della teologia, tuttavia, se si guarda con attenzione il Decretum in realtà la
situazione NON È COME SEMBRA. A questo proposito possiamo fare riferimento ad una famosa quaestio del
giurista Giovanni Ispano, di inizio 200. La quaestio parla di un testamento che dispone due lasciti distinti:
uno riguardante i libri del diritto e l’altro riguardante i libri di teologia. Ed a questo proposito ci si chiede ma
il Decretum a quale dei due ambiti appartiene? Ai libri di diritto o ai libri di teologia? La risposta è che il
Decretum sia in comune fra i due ed addirittura si aggiunge che esso va collocato fra i libri teologici.
Se guardiamo la situazione da questo punto di vista, possiamo ben notare che la distinzione fra teologia e
diritto NON viene fatta da Graziano. Dobbiamo anche specificare che il Decretum fu fatto in più redazioni e
nella prima redazione, ossia quella attribuita a Graziano, ancora NON ERA PRESENTE la distinzione fra diritto
e teologia, in quanto erano presenti entrambe le fonti ed addirittura quelle teologiche erano in numero
maggiore rispetto alle altre.
Ad enfatizzare più che altro l’aspetto del diritto e a completare il Decretum con norme e fonti riguardanti il
diritto canonico saranno poi gli allievi, la cui cerchia è immersa nell’ombra. Quindi, Graziano in realtà non ha
questo merito di aver distinto i due ambiti. Paucapalea, mentre aggiornava il decreto, ne redasse una
summa edita cent’anni fa sotto il suo nome ma si dubita, incerta è la sua vita e chi fosse e nessuna ipotesi
convince. Una seconda summa del decreto nota col nome di Stroma, uscì dalla penna di un Rolando. Si è
pensato che fosse da riferire al Rolando Bandinelli divenuto nel 1159 papa Alessandro III, l'avversario di
Federico Barbarossa, ispiratore della Lega Lombarda e il legislatore fecondissimo che sfornava decretali a
ritmi sorprendenti. Non è così. Il maestro di diritto era un omonimo magister Rolando di cui sono state
pubblicate serie di glosse. Il francese Rufino, vescovo di Assisi, arcivescovo di Sorrento, scrisse la prima
summa di soddisfacente ampiezza; il suo allievo Stefano d’Orléans, vescovo di Tournai, redasse negli anni
sessanta una summa che fu il maggior veicolo della diffusione del Decreto grazianeo in Francia.
Quando sopra abbiamo parlato di Graziano, abbiamo specificato che esso per la redazione della sua opera,
fu influenzato dalle raccolte precedenti e per quanto riguarda la metodologia abbiamo detto che fu
influenzato da Abelardo e Urbano II. Da qui, allora, possiamo affermare che il suo metodo di superamento
delle antinomie, ossia i dicta, NON si rivelò così originale, poiché si trattava di metodi già presenti a Bologna.
Arrivati a questo punto possiamo notare come la storiografia passa da un eccesso all’altro, cioè: prima
enfatizza la figura di Graziano e dopo mette in dubbio tutti questi aspetti. La storiografia arriva a chiedersi se
effettivamente Graziano possa avere un suo rilievo autonomo o se possa esistere davvero una differenza fra
Graziano e i compilatori precedenti a lui, come per esempio Ivo o Anselmo, dai quali, tra l’altro, Graziano
prende molto.
Nei fatti NON si riscontrano tutte queste novità, e NON si giustifica il fatto di avere messo al centro della
storiografia canonica e del diritto medievale la figura di Graziano.

IL VERO MERITO ATTRIBUITO A GRAZIANO


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Tuttavia, di recente la storiografia ha individuato un vero merito indiscusso di Graziano. Il suo vero merito è
stato quello di aver inserito il Decretum, e quindi il diritto canonico, tra le materie di studio dell’università.
Dalla sua opera in poi, infatti, il diritto canonico entra nella scienza iuris. Il Decretum entrerà nello strato
culturale e diventerà oggetto di studio, così come aveva fatto anche la compilazione giustinianea nell’ambito
del diritto civile. L’opera, concepita da Graziano non come una collezione per la prassi ma come un manuale
per la didattica, venne usata nella scuola di Bologna. Questo è il grandissimo merito di Graziano: aver fatto
entrare il Decretum nella scienza giuridica.

Furono gli allievi e i successori a rifinire il testo del maestro. Ne completarono la sistemazione in tre parti: la
prima e la terza divise in distinctiones, la parte centrale in cause e le cause in questioni. Il trattatello De
consecratione, dedicato ai sacramenti e a questioni liturgiche, è un’utile integrazione dell’insegnamento per
discepoli destinati alla vita sacerdotale e conta di ben 166 fonti aggiuntive tolte da collezioni precedenti e
vennero chiamate “paleae”.

Una volta entrato nella scienza iuris, il Decretum sarà oggetto di summe, glosse, quaestiones, brocardi, cioè
verrà sottoposto allo stesso armamentario interpretativo già esistente. Da questo momento in poi, tutte le
raccolte canoniche entreranno a fare parte del sistema del diritto comune e anche queste verranno
sottoposte all’armamentario interpretativo che veniva usato per il diritto romano giustinianeo: glosse,
summe, questiones ecc.
Vi sarà anche la glossa ordinaria al Decretum, ad opera di Giovanni Teutonico. Riguardo ciò, dobbiamo
specificare che quello che fece Giovanni Teutonico per il Decretum, lo fece allo stesso modo Accursio per i
Libri Legales. Quindi, il Decretum rappresenta un vero e proprio alter ego dei Libri Legales. Il prof dice di
guardare questo aspetto anche nel Conte. Così come nei Libri Legales erano stati aggiunti in tempi diversi la
Pace di costanza e Libri Feudorum, allo stesso modo nel Decretum poi verranno aggiunte parti dagli allievi e
dobbiamo ricordare sempre che, in entrambe le opere che abbiamo citato, si segue l’ottica del testo chiuso,
in quanto le fonti vengono riportate per interno.
Vi saranno anche gli studiosi del Decretum chiamati appunti i DECRETISTI, essi non erano ben visti dagli
esponenti del diritto civile puro, ma anche dai teologi. I decretisti avevano una scuola, che era sempre
interna alla scienza iuris bolognese/all’orbita dell’università degli studia generalia, ed essi studiavano il
Decretum con la metodologia dei glossatori, dei commentatori, quindi utilizzavano lo stesso armamentario
interpretativo. Dal Decretum in poi l’interpretatio unirà il diritto civile giustinianeo ed il diritto canonico.
I quattro pontefici di Anagni, cioè Innocenzo III, Gregorio IX, Alessandro IV e Bonifacio VIII, favoriranno lo
sviluppo di studia generalia, ossia lo sviluppo di scuole in cui si studiava diritto civile e diritto canonico con lo
stesso metodo. Vediamo come il diritto canonico classico, nel corso di questo periodo, è caratterizzato da
questa osmosi, ed i giuristi sono degli esperti di entrambe le leggi. Già quando abbiamo parlato di Bologna,
abbiamo analizzato il percorso seguito dall’ utrumque ius-utraque lex, che inizia con Martino Gòsia ed arriva
fino al 400 a Baldo degli Ubaldi. Ricordiamo che con Baldo ci troviamo alla fine del periodo dei
commentatori, e alla fine del periodo del diritto canonico classico, infatti, esso incarna perfettamente il
classico giurista alla fine di questo percorso, poiché Baldo sarà in grado di maneggiare sia la scienza
canonistica, che quella civilistica. Esso realizzerà delle opere di dottrina sul Liber Extra, Liber Sextus.

Ribadiamo che Sebbene il Decretum abbia avuto una di notevolissima importanza, si tratta sempre di
un’opera privata e NON ufficiale. Invece, per quello che riguarda le opere successive a Graziano, vediamo
come saranno create delle raccolte decretali ufficiali di diritto canonico. In particolare esse verranno
pubblicate ufficialmente attraverso l’invio ad scolas, cioè l’invio a Bologna. L’inserimento delle opere
all’interno della dottrina giuridica e della scienza iuris, è un elemento che va a caratterizzare la formazione
stessa dell’opera e la sua pubblicazione. Tutto questo discorso serve a dimostrare come dal Decretum in poi
avremo un inserimento del diritto canonico all’interno della scienza iuris.

RACCOLTE DI DECRETALI DOPO IL DECRETUM


Il Decretum rappresenta un’opera importante, anche perché dà il via alla produzione di decretali da parte
dei pontefici. Già a partire dal periodo di Alessandro III, vengono prodotte tantissime decretali. Da qui
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possiamo vedere come il Decretum comincia ad “invecchiare”, divenendo deposito di ius vetus, poiché vista
la nuova produzione di decretali, e cioè di un diritto “nuovo” della chiesa, l’opera di Graziano viene
considerata quasi come un diritto vecchio. Quindi, vista la consistente mole di decretali, vengono create
delle raccolte di decretali. In un primo momento, queste sono posizionate in appendice al Decretum, e
furono chiamate extravagantes perché extra Decretum vagabantur (cinque di esse ebbero particolare
fortuna e furono chiamate le Quinque Compilationes Antiquae), ma, quando successivamente cominciano ad
aumentare notevolmente di numero, diventano vere e proprie opere autonome. A riguardo, fra le raccolte
di decretali più importanti successive al Decretum, quindi risalenti alla seconda metà del 1100 in poi e fino
alla metà del XIII sec, possiamo menzionare:

QUINQUE COMPILATIONES ANTIQUAE: (le cinque compilazioni antiche)


- La prima: è composta da Bernardo Balbi di Pavia, che era un giurista della fine del XII sec ed anche un
professore, infatti, l’opera venne anche studiata nella scuola. In questo caso però si tratta ancora
compilazione privata. Non si contentò di aggiornare Graziano con nuovo materiale pontificio, ma si
preoccupò di completarlo con vecchio materiale, canoni di concili, frammenti di scritti patristici e persino
leggi germaniche e romane. Bernardo introduce all’interno di questa prima compilazione antica la
divisione della materia canonica in cinque parti che da questo momento in poi sarà costante: la prima
parte tratta delle fonti delle cariche ecclesiastiche, la seconda parte tratta del processo canonico, la terza
del clero e dei beni ecclesiastici, la quarta del matrimonio e la quinta tratta del diritto penale canonico. In
latino le cinque parti si chiamano: iudex, iudicium, clerus, connubia e crimen. Da questa prima
compilazione in poi lo schema di divisione in cinque parti della materia canonistica resterà costante
anche per le restanti quattro compilazioni che circoleranno. Completò l’opera intorno al 1191, prima di
diventare vescovo di Faenza e alla propria raccolta dedicò anche una summa, segno che l’adoperava
anche nella didattica;
- La terza: dobbiamo citare questa terza compilazione proprio per la sua importanza, poiché essa è la
prima raccolta ufficiale della storia della chiesa. Questa opera, voluta dal pontefice Innocenzo III
nell’estate del 1209 e pubblicata nel 1210, viene subito resa pubblica ed inviata a Bologna, inoltre essa
viene subito glossata da Giovanni Teutonico (che come abbiamo detto prima aveva anche fatto la glossa
ordinaria al Decretum). Riguardo le raccolte canoniche, vediamo come NON si parla mai di
promulgazione, ma di pubblicazione, ed a questo proposito la terza compilazione viene subito mandata
alla scuola di Bologna. Qui possiamo ben notare l’importanza della scienza iuris, considerata davvero
come un tramite ufficiale per la recezione di queste norme. Cronologicamente è la seconda compilatio e
conteneva materiale anteriore, qualche testo antico e decretali degli immediati predecessori
d'Innocenzo III. La redasse Giovanni di Galles e rimase collezione privata.
- Il grande evento del IV Concilio Lateranense del 1215 sollecitò la Compilatio Quarta. La compose
Giovanni Teutonico, e la presentò a Innocenzo III per averne l'approvazione. Ma non l'ebbe e venne alla
luce come opera privata. Vi erano contenuti quasi tutti i canoni del IV Concilio Lateranense e qualche
altra decretale di Innocenzo III. Le norme erano state predisposte da Innocenzo III e lette in assemblea,
per cui avevano sostanzialmente la natura di decretali “pubblicate” nell’adunanza ecumenica;
- Il successore Onorio III promulgò la quinta e ultima delle Compilationes antiquae: della sua redazione
aveva incaricato Tancredi.

Quindi, abbiamo queste 5 compilazioni antiche, che circolano separatamente. Fra queste abbiamo citato la
prima perché fornisce la divisione in cinque parti della materia canonica, queste suddivisione rimarrà
costante nelle raccolte successive. Poi abbiamo citato la terza perché rappresenta la prima raccolta ufficiale
della chiesa.
E’ importante sapere che queste raccolte inizialmente circolano separatamente, ma poi vengono riunite nel
Liber Extra.

LIBER EXTRA
Rappresenta un'altra pietra miliare del diritto della chiesa. L’opera fu voluta dal pontefice Gregorio IX (un
personaggio forte che abbiamo già incontrato quando abbiamo parlato della scuola del commento e
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dell’autorizzazione dello studio del diritto romano giustinianeo ad Orleans, ne abbiamo parlato anche
riguardo la scomunica che fece nei confronti dell’imperatore Federico II) che non aveva mai nascosto di
voler fare una grande raccolta di decretali. Gregorio IX nel 1234 con la sua Bolla di promulgazione Rex
Pacificus incaricò Raimondo di Peñafort (pronuncia:pànfort) di redigere l’opera. Raimondo era un professore
di diritto canonico che, non a caso, insegnava a Bologna e che per le sue virtù fu fatto santo. Le fonti erano
tante e disordinate. Non mancavano contraddizioni tra le decretali nuove e l’invecchiato Decreto; vi erano
disarmonie persino tra le Quinque Compilationes Antique che non erano coordinate tra loro e, dato che
nessuna bolla papale ne aveva riconosciuto l'efficacia esclusiva, esse entravano in collisione con altre
collezioni private. Il primo passo fu dunque di fare una cernita accurata del materiale delle cinque
compilazioni antiche recependo tutto quello che si poteva organizzare in un'architettura armoniosa, anche a
costo d'introdurre modifiche ai testi. Poi si dovette completare la massa delle fonti selezionate sia con le
nuove decretali di Gregorio IX, sia con materiale antico: Raimondo ricorse ai Canoni degli Apostoli, a concili
ecumenici d'Oriente e d'Occidente, a fonti germaniche e a poche leggi romane, che trasse però solo
dall'Epitome luliani e dalla tradizione teodosiana.
Il Liber Extra riordina davvero il diritto prodotto in tutti quegli anni dopo il Decretum; ricordiamo che venne
composto nel 1234, ossia ben 100 anni dopo il Decretum. L’opera contiene le 5 compilazioni antiche ed
anche le decretali di Gregorio IX. Il Liber Extra riorganizza, integra, completa e rielabora tutto il materiale
utilizzato, seguendo la suddivisione in 5 parti: iudex, iudicium, clerus, connubia e crimen. Il Liber Extra
assume efficacia esclusiva, poiché viene fatto divieto di utilizzare altre raccolte o di redigerne nuove senza
l’autorizzazione ed il parere del papa. Anche questa opera rappresenta la colonna portante del diritto
canonico poiché, come aveva fatto il Decretum 100 anni prima, anche il Liber Extra risponde alle esigenze di
certezza del diritto canonico.
La collezione non ebbe altro titolo se non quello di Decretales Gregorii IX, ma nel linguaggio corrente si finì
col parlare di Liber Extravagantium, poi Liber Extra.

Da qui si diede vita alla scuola dei DECRETALISTI, ossia coloro che studiavano le decretali e le raccolte di
decretali, qui ci troviamo sempre all’interno della scienza iuris bolognese, ossia ai glossatori e ai
commentatori.

I primi decretalisti e l’affacciarsi di idee ierocratiche.


Fu quando i canonisti si misero a glossare le compilazioni di decretali che cominciarono a echeggiare le
prime idee ierocratiche: Cristo ha trasmesso a Pietro le due potestà, spirituale e temporale, sicché il
pontefice vicario di Pietro è il vero titolare anche del potere secolare che, solo per sua delega, esercitano
imperatori e principi.
Uguccione da Pisa, rivendicando la soggezione di tutti i popoli europei al diritto romano perché tutti erano
soggetti all'Impero, aveva lasciato intendere che, se qualcuno non voleva sottostare all’impero, era
comunque soggetto al diritto romano perché così voleva il papa.
Il principio di Gelasio fu forzato quando gli ierocratici ridussero il dualismo delle due dignità distinte al solo
piano dell'esercizio del potere, unificando la titolarità di entrambe nella persona del papa.
Alano Anglico, redattore di una collezione di decretali e glossatore della prima Compilatio antiqua, usa
questo strattagemma per pagare a Gelasio il tributo dovuto. Ma, in una sua glossa databile 1208, la sostanza
del nuovo messaggio è che al papa Cristo ha consegnato, per il tramite di Pietro, entrambi i gradi e dal papa
imperatori e re ricevono per delega quello temporale. Dalla metà del duecento le tesi ierocratiche si
diffonderanno fino a toccare il culmine al tempo di Bonifacio VIII e dopo la caduta dell’impero svevo e la
vittoria del guelfismo saranno condivise persino da qualche civilista.

LIBER SEXTUS
L’opera ha uno scopo politico, fu voluta nel 1298 dal pontefice Bonifacio VIII con la Bolla Sacrosanctae.
Anche questa opera è divisa in 5 parti e viene chiamato “Liber Sextus” proprio per il fatto che riprende e
continua i 5 libri del Liber Extra. Raccoglie la grande collezione di decretali di Bonifacio VIII. Anche questa
opera avrà efficacia esclusiva, motivo per il quale andrà ad abrogare tutte le raccolte ufficiali intermedie tra
il Liber Extra ed il Liber Sextus. Ha un forte significato politico, in quanto l’opera è voluta da Bonifacio VIII
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quasi per rinvigorire la sua forza politica. L’opera doveva proseguire e aggiornare il Liber Extra e comportò il
completamento della selezione delle decretali di Gregorio IX, nonché l’utilizzazione di novelle emanate da
Innocenzo IV, Gregorio X e Niccolò III. In fondo al Liber Sextus compare, per la prima volta in una
compilazione canonica, un titolo de regulis iuris che imita quello con cui termina il Digesto. La tradizione
ritiene che a comporlo sia stato Dino del Mugello, maggior civilista del tempo, anche se Giovanni d’Andrea
lo farà passare per ignorante del diritto della chiesa in quanto il Liber Sextus appare come opera
sostanzialmente civilistica al punto da sembrare un corpo estraneo inserito innaturalmente nella legislazione
pontificia.
Ricordiamo che Bonifacio VIII nel 1302 con una sua Bolla Unam Sactam aveva affermato che il papa NON
poteva essere giudicato da nessuno, e per contro lui poteva giudicare tutti. Comunque, in generale il
pontificato di Bonifacio VIII fu molto discusso sia dai cardinali della famiglia dei Colonna (questa famiglia
romana fu molto importante in quanto diede natali a molti pontefici), sia da altri prelati della chiesa che
avevano messo in stato d’accusa Bonifacio VIII. In particolare, i cardinali Giacomo e Pietro Colonna divulgano
tre manifesti nei quali portano inauditi attacchi al papa. Nel primo, sostenevano che la rinuncia al soglio
pontificio da parte di un papa fosse illegittima e per questo motivo ritenevano illegittima la rinuncia fatta da
Celestino V, il papa “angelico”, in quanto sopraffatto dalla Curia, e di conseguenza nulla la nomina di
Bonifacio VIII che, appunto, era subentrato dopo Celestino V. Dunque, Bonifacio VIII fu accusato di nullità
della sua elezione. I due cardinali avevano tentato di impostare la controversia su un punto essenzialmente
teologico: la consacrazione pontificale aveva impresso un character od ordo indelebile. Ma questa strada fu
loro poco favorevole perché le dimissioni di Celestino V erano già state discusse e ritenute legittime. Fu
accusato anche di aver sovvertito l’ordine e lo status della chiesa, fu accusato anche di simonia, cioè di
vendita di cariche ecclesiastiche, fu accusato di essere un pontefice scismatico ed eretico. Tale ultima accusa
si rivelò la più pericolosa.
In tutti questi capi d’accusa, mossi proprio dai cardinali esponenti della famiglia Colonna, si chiedeva di
convocare un concilio per giudicare il pontefice. Vediamo come la condizione in cui viveva il pontefice era
molto particolare, per questo lui aveva bisogno di un’opera che dal punto di vista politico e del diritto
potesse dare una risposta a queste accuse. Il ruolo svolto dal diritto in questa opera è importantissimo, la
forza di Bonifacio VIII si dimostra nel diritto, ossia nel fare una raccolta di decretali.
Esercitava pressioni il grande avversario del Caetani (Bonifacio VIII), il re di Francia Filippo il Bello. Dopo alti
e bassi di scontri e di tregue allo schiaffo di Anagni' del 1303, inferto dal Nogaret inviato da re Filippo, seguì
la morte del papa. Dietro l’urto politico naturalmente si agitavano questioni ideologiche. Le tesi
ierocratiche apparivano al sovrano francese una pericolosa ed insopportabile manifestazione di mania di
potenza. La celebre bolla Unam Sanctam del 1302, non poteva non infastidire un re che vi leggeva, non
solo di essere subordinato alla Sede Apostolica, ma che questa non poteva essere giudicata da alcuno e
aveva il diritto di giudicare tutti. Dalla lotta tra Filippo il Bonifacio discesero conseguenze notevoli per la
chiesa.
La frattura che si era creata influì sul trasferimento della Sede Apostolica da Roma ad Avignone pochi anni
dopo la scomparsa del papa. Al tempo del Grande Scisma (1378-1417), quando a un papa ritornato da
Avignone a Roma se ne contrappose un altro rimasto ad Avignone, si apri l'era di drammatici concili che
ottennero il risultato di nominare accanto ai due contendenti un terzo papa, come fece il concilio di Pisa
nel 1409.
Dal tempo di Bonifacio comincia l'ascesa dei poteri del collegio cardinalizio; al pontefice fece comodo
richiamare le decisioni dei fratres cardinali a convalida della propria elezione e il conciliarismo finì col dargli
grandi poteri quando rese necessario che fossero i cardinali a convocare i concili chiamati a mettere ordine
tra i papi. Il grande canonista Zabarella, cardinale e padre conciliare a Costanza, non ebbe remore a
insegnare che se nessuno poteva disconoscere al pontefice la plenitudo potestatis che Graziano gli
riconosceva, ciò non significava che egli fosse il solo ad esserne investito perché in realtà la potestas
risiedeva nella Chiesa e se andava principalmente al papa che ne era il capo, toccava in parte anche ai
cardinali che ne costituivano le membra.

LE CLEMENTINAE
La guerra del re di Francia contro Bonifacio VIII contribuì al trasferimento della Sede pontificia ad Avignone.
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Lo decise il francese Clemente V che diede cosi inizio alla cosiddetta ‘cattività avignonese’ (paragonata
‘cattività babilonese’) che durerà fino al 1378. La corte di Avignone fu a tratti splendida; ad Avignone
risiedette il Petrarca e Simone Martini ne affrescò i palazzi. La mentalità e la politica della chiesa cambiò e
si preferì all'atto pratico seguire strade realistiche e moderate con crescente attenzione al concreto ed in
particolare all’amministrazione.

Opera iniziata dal papa Clemente V, che raccolse una serie di decretali proprio e che, nel maggio del 1312,
fece leggere nel concilio di Vienne, nel Delfinato. Sottopose tale complesso al concistoro nel 1314 in
ossequio alla nuova autorità assunta dai cardinali nella Chiesa, ma morì proprio mentre stava per
pubblicare l’opera. Essa fu poi ultimata e pubblicata da Giovanni XXII nel 1317 il quale conservò il nome di
Clementinae. Opera di mole modesta, ma importante per aver fissato regole processuali molto importanti.
Le Clementinae contengono un intervento del papa nella questione dibattuta della povertà dei francescani
e fissano le regole processuali. La Dispendiosam e la celebre Saepe fissarono le regole, seguite nei tribunali
civili (processo civile) e ecclesiastici (processo canonico), di quel processo 'sommario'. Viene snellito il rito:
cadeva il requisito del libellus introduttivo, cadeva la litis contestatio, si limitavano eccezioni e appelli
incidentali per sventare manovre dilatorie, si riducevano all'essenziale il contraddittorio tra le parti e
l'escussione dei testimoni. Vediamo ancora una volta come i due ambiti dialogano tra loro.
Con le Clementinae si esaurisce l’era e l’aspetto formativo del diritto canonico classico. Seguirono solo
raccolte private di modeste dimensioni.

LE EXTRAVAGANTES
Dopo le Clementinae avremo una raccolta di decretali di Giovanni XXII chiamata le extravagantes.

Il tribunale della Sacra Rota e le sue decisiones.


La prima raccolta privata riunì una ventina di decretali di Giovani XXII; ebbe natura privata ma godette di
autorevolezza tanto da essere corredata da un apparato nel 1325. Anche questa raccolta entrerà nel Corpus
Iuris Canonici. Non conteneva la bolla Ratio iuris emanata da Giovanni XXII nel 1331 né una delle norme più
importanti dalla quale si fa discendere la nascita della SACRA ROTA, il massimo tribunale della Chiesa. Essa fu
eretta ad organo istituzionale autonomo con propria sede nel palazzo apostolico. Si volle che il relatore
raccogliesse i pareri scritti dei colleghi investiti della causa cosicché la sentenza apparisse come il risultato
dell’incontro di opinioni scientifiche. Uno degli uditori, su iniziativa propria o per incarico affidatogli, prenderà
nota del confronto dei pareri distillandone le rationes. Da questo germoglieranno le grandi raccolte delle
decisiones, un genere letterario nuovo che entrerà nel circuito accademico tanto che, nel Trecento, le
decisiones saranno già usate dalla scuola canonistica bolognese. Le decisiones non sono dispositivi di sentenze
da usare soltanto come “precedenti giudiziali”: raccolgono pareri scientificamente motivati sulla trama di
rationes teoriche, strutturalmente vicine ai consilia rilasciati da professori ed esperti a giudici e parti.
Le raccolte delle decisiones della Rota rappresentarono un modello per i grandi tribunali laici. Fu il Parlamento
di Grenoble, nel Delfinato, a trovare in Gui Pape un raccoglitore di una folta collezione di decisiones che
costituivano opere di scienza. L’autorità di queste decisiones, che si identificava con l’autorità del sovrano nel
cui nome il sommo tribunale si esprimeva, fu tale che ad esse venne data forza normativa generale e si
consentì, nei casi dubbi, di allegarle pro legibus in giudizio.
Guglielmo Durante vi dedicò un’opera che intitolò Speculum iudiciale (lo specchio del processo); ma il titolo fu
cambiato in Speculim iuris, specchio del diritto e ne fece due redazioni.

IL CORPUS IURIS CANONICI:


Nel 1500 tutte queste opere verranno raccolte dal giurista Giovanni Chappuis (pronuncia:giappuì), il quale
aggiungerà ad esse anche una raccolta di decretali chiamate le Extravagantes Communes.
Tutte queste opere insieme formeranno il corpus iuris canonici:
- Il Decretum di Graziano
- Il Liber Extra di Gregorio IX nel 1234
- Il Liber Sextus di Bonifacio VIII nel 1298
- Le Clementinae volute da Clemente V e promulgate da Giovanni XXII nel 1317
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- Le Extravagantes di Giovanni XXII
- Le Extravagantes Communes queste sono una collezione di decretali del tardo 1400 raccolte da
Chappuis, che poi metterà insieme tutte queste opere per formare il Corpus Iuris Canonici.

Notiamo che il nome richiama il Corpus Iuris Civilis.


Il Corpus Iuris Canonici rappresenterà il diritto della chiesa, fino a quando poi nel 1917 verrà emanato il
codice di diritto canonico. Si tratta di opere create durante il periodo del diritto canonico classico. Così
completato, il corpus non mutò più, le nuove norme ne rimasero fuori e vennero conservate nel Bullarium
pontificio, aggiornato periodicamente fino ai giorni nostri.
Come possiamo ben notare, tutte queste opere venivano richieste da papi-giuristi (essi erano soggetti che
usavano il diritto, e di conseguenza erano anche esperti di diritto), e poi queste opere venivano elaborate da
giuristi, e per quanto riguarda il processo di pubblicazione esse venivano inviate alla scuola e all’interno della
scuola venivano studiate. Inoltre, molti pontefici stessi favorivano la nascita di scuole dedicate al metodo dei
glossatori e commentatori, quindi proprio allo studio del diritto romano giustinianeo e del diritto canonico.
Dal Decretum fino alle Clementinae ci troviamo in pieno diritto canonico classico, qui venivano formate
queste raccolte che diventavano oggetto di studio nelle scuole. Una volta inserite queste opere all’interno
della scienza iuris, ad esse veniva applicato lo stesso armamentario interpretativo usato anche per la
compilazione giustinianea. Dalla fine del 1100 in poi ci saranno pontefici che utilizzano il diritto
nell’organizzazione della chiesa, fra questi ricordiamo per esempio Sinibaldo Fieschi (che sarebbe Innocenzo
IV) oppure Innocenzo III, Gregorio IX, Alessandro II.
Questo periodo è importante anche perché la chiesa ha dato tanti suoi contributi al diritto civile, per questo
motivo parliamo proprio di un rapporto di osmosi fra i due, che si stavano sviluppando gradualmente nello
stesso periodo ed all’interno della stessa scienza iuris.
A partire da questo incontro fra diritto civile e diritto canonico, si sono formati tanti istituti, o meglio, grazie
agli apporti che il diritto canonico ha dato al diritto civile, fra questi istituti ricordiamo: disciplina dei rapporti
personali fra coniugi, volontà nei contratti, successione testamentaria, idea di equità rispetto alla rigor iuris,
istituto dell’arbitraggio, processo inquisitorio. In particolare, gran parte della disciplina del matrimonio
nasceva proprio dal diritto canonico. Anche gli elementi della volontà nel contratto e della buona fede
furono presi dal diritto canonico.
Ribadiamo ancora una volta che i due ambiti maturano nella stessa culla culturale, che è la scienza iuris.
Entrambe le leggi si uniscono in un unico sapere, nella scienza iuris, tanto che entrambe saranno oggetto di
summe, glosse ecc.. quindi di tutto l’armamentario interpretativo applicato già al Corpus Iuris Civilis.
Dunque, entrambi i due ambiti sono due rette parallele che si incontrano e riescono a costituire il diritto
comune utrumque ius.

Da stampare a parte dal Cortese: pag. 60 (paragrafo 7); pag. 62 (paragrafi 2-3-4-11-12)
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Umanesimo giuridico

La scuola culta è stata una scuola dal carattere europeo che si diffonde soprattutto in quei territori dove le
monarchie cominciano ad essere forti (es. Francia) e dove i sovrani cominciano ad esercitare il potere
assoluto e a far valere il potere dello Stato di stampo pubblicistico rispetto all’interpretazione dei giuristi.
Infatti, la storiografia ha visto nell’assolutismo una delle ragioni della diffusione in vari paesi
dell’umanesimo (nell’assolutismo francese, ma anche nell’assolutismo in piccoli territori) e questo
spiegherebbe la diffusione dell’Umanesimo giuridico anche in territori frastagliati che non formano una
corona unitaria, come nel caso della Germania, divisa in più autonomie locali.

In Italia, uno dei più grandi esponenti della scuola culta è il suo fondatore, Andrea Alciato che diffonderà i
dettami dell’umanesimo giuridico più che altro in Francia. Dunque, in Italia resterà dominante la scuola del
commento ma i giuristi avranno una formazione di mezzo tra mos italicus e mos gallicus perché cominciano
a comprendere che è necessario emendare la propria cultura anche con cognizioni filologiche e storiche.

Un esempio è

Un esempio è Alberico Gentili che


- era uno studioso italiano che per problemi religiosi e accusato di eresia, scapperà nella protestante
Inghilterra.
- era un esponente del mos italicus, fieramente convinto di essere del mos italicus che però dice
“effettivamente è vero, la critica che fanno a noi gli umanisti cioè di avere questa scarsa conoscenza da un
punto di vista filologico e storico è un dato vero. Però conclude dicendo non confondiamo
- l’aspetto principale che è l’interpretazione della legge come la fanno gli esponenti del mos Italicus
- con l’orpello che è la visione umanista che riconosce anche ideologie filologiche e storiche.

In Italia avremo questa formazione un po’ di mezzo, sarà dominante la scuola del commento.

Poi l’umanesimo giuridico avrà la scintilla in Francia, legata agli insegnamenti di Andrea Alciato che
insegnerà a Bourges e lì effettivamente i suoi allievi porteranno avanti varie correnti umaniste (la Francia
sarà centrale da quel punto di vista)
Dal 600 quando la Francia sarà coinvolta (tra 500-600) dalle guerre di religione, molti di questi
umanisti ,spesso protestanti, scapperanno dalla cattolica Francia e andranno verso i territori tedeschi e dei
Paesi Bassi e anche lì vi sarà la diffusione dell’umanesimo in questi luoghi: Paesi Bassi e area tedesca.

Andrea Alciato è tra i fondatori, tra i più equilibrati degli umanisti,


- nasce a Milano nel 1492 da una nobile famiglia milanese
- cerca di riscrivere una storia di Milano,
- si formerà a Pavia, poi studierà a Bologna, studia diritto, quindi sarà nel cuore del mos italicus a Bologna
- sarà dottore a Ferrara. (Pur avendo studiato a Bologna, avendo avuto tra i maestri pure un grande esponente
del mos gallicus come Giasone del Maino si dottorerà a Ferrara perché gli costava meno dottorarsi lì)

- eserciterà la professione di avvocato, ma molto presto passerà all’insegnamento a Pavia, a Bologna, e poi
alla fondazione della sua scuola a Bourge, dove nasce la scuola culta e la scuola dell’umanesimo giuridico. .
- È un grande umanista, il quale però ha uno stile equilibrato anche nelle critiche nei confronti degli esponenti
del mos italicus (rispetto a quello che abbiamo visto in Valla o vedremo nei francesi), le sue critiche sono
molto + pacate, lui dice <<è vero i glossatori, i commentatori non avevano una conoscenza filologica
storica, ma anche noi dobbiamo storicizzarlo, cioè dobbiamo dire loro erano soggetti nel loro tempo, quindi
nel loro tempo non c’era questa esigenza di conoscenza storica e filologica, quindi ci sta che loro avessero
altre conoscenze e oggetti di studio>>.
(Quindi certo è che non avevano queste competenze)
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Però d’altra parte dobbiamo storicizzare anche loro, dobbiamo collocarli nel loro tempo e vi erano altre
esigenze e quindi anche questa conoscenza filologico-storica poteva essere richiesta, quindi una visione
molto equilibrata.

- Scrive molte opere su molti aspetti,


- si dimostra un po’ refrattario al genere dei commentari: lui scrive dei commentari dedicati anche alla
compilazione giustinianea, ma il genere del commentario non è quello che predilige, ma predilige quello dei
trattati: scriverà vari trattati su vari temi (“De singulari certamine” dedicato al duello e in qualche modo al
diritto d’onore; questo è un tema che affronterà quando sarà alla corte di Francesco I di Francia) il tema
dell’onore e del duello richiamano la sfera sociale, ma anche del diritto in Europa in età moderna.

- Una sua opera fondamentale è il De verborum significatione, dedicato a un passo dei Digesta che si
intitolava in questo modo appunto “sul significato delle parole”.

Un umanista come era lui non poteva che essere attratto dal commentario, dallo spiegare,
dall’interpretare un passo che riguardava il significato delle parole.
Le sue opere avranno un successo notevole.
Della sua opera De verborum significatione
a) farà prima un commentario,
b) poi non era soddisfatto e allora farà anche un trattato su questo passo che avrà un notevole successo a livello
europeo e spiega il modo di interpretare il diritto degli umanisti: mettere al centro l’interpretazione del
giurista (Alciato era un giurista).
(siamo nel 500 tempo in cui i soggetti sono filologi, ma sono anche dei giuristi.
Alciato sicuramente si è formato nel diritto comune prima a Pavia poi a Bologna e quindi da giurista spiega
il metodo umanista nella sua opera + importante)

- Vi dicevo Alciato sarà legato al suo insegnamento di Bourge.

Lì vi sarà anche Budè, che è anche un altro esponente dell’umanesimo francese che è + filologo che giurista
e fonderà il collège de France che è un importante centro di diffusione della cultura.
Vi sarà come allievo di Budè anche Cuiacio in Francia.
Tutti i soggetti (soprattutto Cuiacio) impegnato a fare commentari sia al Codice sia ai Digesta e anche agli
ultimi 3 libri del Codice (dedicati al diritto pubblico).

In Francia l’Umanesimo riassumerà i vari filoni dell’umanesimo da una arte avremo i raffinati filologi come
Budè, Cuiacio, quindi nelle loro opere lo studio storico e filologico saranno messi al centro, loro
interpretazione delle parole del testo.

In Francia poi si avrà questa idea di critica profonda nei confronti della compilazione giustinianea:
- prima di tutto nei confronti di glossatori e commentatori,
- e poi in alcuni pensatori anche nei confronti della compilazione giustinianea.
In Francia viene approfondita l’idea che la compilazione giustinianea è una compilazione del suo tempo
dunque non può essere applicata a un periodo diverso.

Da qui gli studiosi come Charles Dumoulin, che dice dal momento che non si può applicare il corpus
giustinianeo, allora perché, anche in Francia, non si crea un corpus iuris, una raccolta di leggi francesi?
La compilazione giustinianea non possiamo applicarla perché deve essere collocata nel suo periodo storico,
ma inizia l’idea di una compilazione, di un codice.
Siamo lontanissimi dalla codificazione, però in Francia dove c’è una monarchia forte, dove le consuetudini
francesi hanno rilievo centrale, si inizia a parlare di un codice.

In Francia un altro che inizierà a parlare di codici sarà uno dei maggiori esponenti della critica oltre ai
glossatori e ai commentatori anche a Giustiniano: Francois Hotman, il quale scrive un’opera in cui si
scaglierà contro Triboniano che ha redatto il codice giustinianeo, ma poi nella realtà la critica sarà contro
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Giustiniano.
Criticherà direttamente Giustiniano perché, da umanista, aveva attenzione non solo per la compilazione
giustinianea ma anche per le altre fonti del diritto romano infatti la sua critica
- non sarà contro il diritto romano
- ma contro il diritto romano-giustinianeo.

Hotman dice che Giustiniano con la sua opera, con il Digesto in particolare, ha scelto alcune opere da
mettere all’interno dei Digesta e le altre le ha condannate a morte, quindi assume una difesa delle altre opere
che restano fuori dalla compilazione giustinianea.
Anche quelle fonti inserite all’interno della compilazione vengono manipolate per interessi politici propri di
Giustiniano.

Quindi la critica di Hotman non è soltanto diffusa nei confronti di glossatori, commentatori ma anche nei
confronti di Giustiniano.
Egli dice che per la Francia è necessario un nuovo codice per i francesi, fatto in francese che raccolga le
consuetudini francesi.
In Francia questo filone critico, ma anche costruttivo perchè trova una soluzione, che è quella di un nuovo
corpo normativo dei francesi.
Nell’area francese quindi l’umanesimo è molto diffuso: l’insegnamento di Alciato, Budè, Dumoulin
Hotman.

In Spagna avremo solo Augustin e pochi altri come pensatori dell’umanesimo giuridico.

Verso la fine del 500 molti di questi pensatori (quando la Francia sarà dilaniata dalle guerre di religione) si
sposteranno verso l’area tedesca e dei Paesi Bassi.

Nei Paesi Bassi nascerà (dopo l’indipendenza delle 7 repubbliche protestanti rispetto alla corona spagnola)
l’università di Leiden nella quale si riprenderanno molti dei dettami dell’umanesimo come l’abbiamo visto
in Francia. Avremo anche molti francesi che dalla Francia andranno in Olanda.

Ma l’umanesimo olandese ha dei tratti particolari: l’Olanda (che si è appena staccata dal dominio spagnolo)
ha bisogno di un proprio diritto che legittimi dei territori ,i Paesi Bassi, che si avviano a diventare grande
potenza coloniale e mercantile.
Hanno esigenze pratiche (non che la Francia non ne avesse).
L’Olanda ha bisogno di un diritto da applicare. Allora cosa fanno?
Si muovono in un ambito in cui iniziano a parlare di ius odiernum, ius modernum, di un diritto attuale in
cui la compilazione giustinianea ha un proprio ruolo.
I francesi pur essendo molto critici nei confronti della compilazione giustinianea, quantomeno ne avevano
salvato la struttura. Questo è un aspetto sistematico, generale, l’interesse che viene in rilievo è sistematico.

Dagli umanisti della scuola di Leiden nei Paesi Bassi si vede come le Istituzioni saranno un’opera che sarà
molto studiata dagli umanisti, perchè suscita molto interesse.
Le Istituzioni sono interessanti per la loro struttura.
Le istituzioni nascono come opera che è destinata alla fonte normativa, ma nascono nelle scuole quindi li è
molto chiara la divisione della struttura del diritto.
La stessa tripartizione del diritto civile in persone, cose (diritti reali e proprietà) e azioni (obbligazioni e
contratti) è considerata molto importante e arriverà fino ai codici moderni.

Secondo la visione data dagli umanisti dei Paesi Bassi noi mettiamo il diritto giustinianeo al suo posto, come
diritto storico, ma ci portiamo per l’oggi la struttura, e la riempiamo di materiale nostro, nuovo, di ius
odierno, moderno, ad esempio di consuetudini olandesi, di diritto locale olandese.

In questa griglia il più importante umanista è Arnold Vinnen che farà un commentario ai 4 libri delle
Istituzioni di Giustiniano in cui salverà la tripartizione in persone, cose e azioni, però i contenuti saranno
tratti dalla consuetudine vigente, dai diritti locali.
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Le Istituzioni si prestano molto a questo filone sistematico, a dare una struttura perché descrivono questa
tripartizione e poi sono contenute di diritto nuovo.
Quindi l’umanesimo nei Paesi Bassi assume questo tratto peculiare, che un po’ diversifica da quello
francese, anche se, attenzione, siamo sempre in linea di continuità, si privilegia quel filone sistematico che è
tipico dell’umanesimo giuridico, ma qui si inizia a parlare profondamente di ius modernum o odiernum.

L’idea è quella di preservare la struttura della compilazione, di riempirla comunque di contenuti nuovi e più
legati al diritto dei Paesi Passi e dei diritti locali.
Quindi anche in Olanda abbiamo queste declinazioni dell’Umanesimo giuridico.

Ultima area territoriale importante per l’umanesimo, un’area in cui l’umanesimo ha avuto degli esiti
peculiari fu l’area tedesca.
I territori tedeschi vivono una situazione del diritto molto peculiare: nell’area tedesca il diritto romano
giustinianeo
- penetrò prima in via indiretta cioè attraverso studenti che studiavano il periodo bolognese (tra il 1100 e il
1200), studenti che andavano a studiare a Bologna e poi tornavano e portavano il sapere.
- Ma la penetrazione vera e propria, diretta, la recezione del diritto romano-giustinianeo e del diritto comune
si ebbe, in Germania, in un periodo molto tardo e qui c’è una data che è il 1495.

Nel 1495 in Germania fu formato il tribunale camerale dell’impero.


In questo tribunale
- è fatto obbligo di giudicare in base al diritto comune,
- i suoi componenti sono esperti di diritto comune, lasciando uno spazio minimo alla consuetudine (cioè se
voglio invocare in giudizio la consuetudine devo provarne l’esistenza, cosa molto difficile: è difficilissima la
probatio diabolica delle consuetudini, che spesso sono orali , per cui provarne l’esistenza è complesso).
Quindi il tribunale, nella maggior parte dei casi, giudica secondo il diritto comune.

Ecco e qui vedete come effettivamente la Germania ha una situazione particolare.


Nel 1495 il diritto comune aveva superato la sua fase aurea e andava decrescendo il suo rilievo normativo,
invece in Germania diventava centrale.
Quello che in altre parti era avvenuto tra il 1100 e il 1200, qui stava avvenendo nel 1495.

Però la Germania è un luogo in cui penetrano le idee dell’umanesimo giuridico e come facciamo a conciliare
queste cose?
Gli umanisti tedeschi, come Zasio, si muoveranno in una linea di moderato conservatorismo: saranno
conservatori e non criticheranno profondamente ne commentatori ne glossatori, perché vanno storicizzati, e
non capiranno, come in Francia, la compilazione giustinianea.

I dettami dell’umanesimo penetrano in un periodo in cui sono fiorentissime le scuole di diritto comune, se
voi pensate che nei tribunali si applica il diritto comune, quindi nascono le scuole di diritto comune,
l’insegnamento di diritto comune
- Se in Olanda fioriscono le cattedre di diritto moderno,
- in Germania fioriscono le cattedre di diritto comune sullo studio delle pandette.
Tanto che Samuel Stryk parlerà di usus modernum pandectarum per definire questo fenomeno (un uso
moderno delle pandette di Giustiniano, dei Digesta). In questa opera appunto viene descritto questo
fenomeno, questa recezione tardiva del diritto romano giustinianeo, nel 1495 a seguito della formazione del
tribunale camerale dell’impero (nel quale è fatto obbligo di giudicare in base al diritto comune) e la fioritura
delle scuole e delle cattedre di diritto comune.

Da qui si ha una fusione tra gli studi del diritto comune e il diritto tedesco e i diritti territoriali tedeschi

Qui, come in Olanda, alcune parti del diritto giustinianeo vengono salvate, ma i contenuti sono in gran parte
dalle consuetudini tedesche, dai diritti territoriali.
Peculiarità che porterà (essendo la Germania territorio di grande penetrazione del umanesimo giuridico)
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anche allo studio di fonti: fonti consuetudinarie originarie della Germania, ci sarà sempre questa visione di
tenere queste fonti originarie e + genuine del diritto tedesco, soprattutto le consuetudini e le diritti
territoriali.

Si andavano a studiare fonti medievali che non fossero soltanto la compilazione giustinianea, ma che fossero
anche fonti romano-germaniche es. la lex romana visigothorum.
Sono umanisti e come gli altri umanisti, cercano fonti al di fuori del diritto romano giustinianeo, come i
codici teodosiani e altre fonti che erano state trascurate dai glossatori e commentatori.
Verranno studiate parti della compilazione giustinianea che erano state trascurate come ad es. quelle relative
al diritto pubblico.

Quindi l’umanesimo si muove in varie aree territoriali es. la Francia le abbraccia tutte: il filone storico,
sistematico, filologico
L’area olandese in cui si sviluppa il filone sistematico, un indirizzo nuovo che verrà portato avanti anche
nell’area dei Paesi Bassi e anche in Germania.
In Germania, in un particolare contesto, dato dalla recezione tardiva del diritto romano-giustinianeo.

Ricapitoliamo
Fino a ieri abbiamo affrontato il mos italicus iura docendi, il modo italiano di insegnare diritto.
In Italia e in gran parte d’Europa il diritto comune resterà un sostrato generale che uniformerà la cultura
giuridica in tutta l’età moderna.
Il diritto comune fatto, soprattutto in quest’ultima fase, dallo studio dei commentatori e dai bartolisti in cui
l’aspetto delle auctoritates è un aspetto centrale, quindi diventa fonte del diritto l’interpretazione che un
giurista dà rispetto al testo.
Da qui le profonde critiche nei confronti degli esponenti del mos licus iura docendi,
- perchè si erano prestati per interesse alla prassi
- ma soprattutto perché in questo sistema del diritto comune, con queste interpretazioni che si affastellavano
nei generi letterari (come i consilia), facevano si che il diritto fosse incerto.
Questo è il mos italicus che continuerà nel diritto applicato in particolar modo.

A questa corrente del mos italicus iura docendi si affianca quella del mos gallicus iura docendi, cioè del
modo francese di fare diritto.
Si rifà ai dettami dell’umanesimo, i dettami rinascimentali, l’interesse per la cultura, per la lettera, per il
linguaggio, per la parola.

Il secolo dell’Umanesimo giuridico è il 500, ma già dal 400 ci sono degli incontri tra umanesimo e diritto.
- Abbiamo parlato di Poliziano con l’edizione critica dei Digesta, opera che sarà ultimata da Torelli nella metà
del 500.
- Lorenzo Valla è un umanista che farà una critica profonda nei confronti del mos gallicus iura docendi,
scriverà una grammatica latina destinata agli studi superiori.

Una cosa che non abbiamo detto è che il successo degli umanisti, dell’umanesimo giuridico è l’assoluto
predominio della cultura umanista nell’ambito dell’insegnamento superiore.
Immaginate la grammatica latina di Valla sarà la prima a essere usata dagli studenti delle scuole superiori.
Questi studenti che saranno infarciti dalle opere degli umanisti.
Gli umanisti hanno il predominio nell’ambito del sapere delle scuole superiori e continueranno a portare
questo sapere anche nell’ambito degli studi universitari.

Questa formazione dell’umanista se la portano dietro anche negli studi di vario tipo e anche negli studi
giuridici.
In fondo l’umanista non è un giurista, ma è colui spiega al giurista come interpretare il testo della
compilazione giustinianea e le altre fonti, quindi è un sapere generale che avrà una sua diffusione negli studi
superiori e poi una diffusione massiccia negli studi universitari.
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Lorenzo Valla il quale in profondo spirito umanista, grazie ai 2 i due pilastri, la filologia e la storia le due
scienze ancillari che gli umanisti utilizzano: sono tutti dei filologi, profondi conoscitori della parola, da qui
scoprono anche le parole dei documenti, dei manoscritti.
Quindi scoprono anche eventualmente la falsità di alcuni manoscritti che in passato erano stati dati per certi.

Invece sono liberi da vincoli di subordinazione, c’è l’interprete e il testo quindi loro possono anche dire “no
questo testo è falso” oppure “è lontano dall’originale”, mettevano a confronto questi manoscritti.
Mentre a Bologna nessuno aveva criticato la Vulgata, che è un manoscritto dei Digesta contenuto nella
littera boloniensis, arrivano gli umanisti e lo criticano .. no, no.. mettendolo a confronto con un altro
manoscritto (la littera pisana-fiorentina) dicono no, voi avete studiato cose diverse rispetto a quelle che
potrebbero essere originali.
Vedete è un rapporto diretto: l’interprete col testo.

Questo passa anche dall’idea protestante del rapporto diretto tra l’interprete e le Sacre Scritture, tra credente
e le Sacre Scritture: non c’è bisogno dell’interprete che medi in questo rapporto, è un rapporto diretto.
E ciò passa anche nella cultura umanista.
La riforma protestante ha molti risvolti religiosi ma anche culturali

Questa idea del rapporto diretto tra credente e le Sacre Scritture, tra il giurista e il testo è abbastanza
automatico, direi.
Valla era uno di quelli che andava dai preti e dai prelati a chiedere l’origine delle preghiere e se erano vere
oppure no, se erano conformi all’originale oppure no.
Gli umanisti hanno poi questo spirito critico.
Lorenzo Valle fa della polemica un genere letterario fondamentale nel suo pensiero.
Lui fa una polemica nei confronti del mos gallicus, lui rimane sconvolto dall’ignoranza di Bartolo e dei
bartolisti.
Lui scoprirà la falsità della donazione di Costantino.

Quindi abbiamo analizzato il secolo del 500, il secolo dell’umanesimo giuridico, e abbiamo visto Alciato,
personaggio fondamentale, per la sensibilità culturale.
- È italiano,
- nasce da una famiglia nobile,
- si forma nel cuore del mos gallicus,
- studia a Bologna, poi a Pavia ,
- si dottorerà a Ferrara
- eserciterà anche l’avvocatura (come dice lui “per avere uno stile di vita + agiato”), ma ben presto andrà a
insegnare a Pavia, Bologna e a e poi a Bourges in Francia, dove scatta la scintilla della scuola culta.
Alciato, si era è italiano , ma il contesto favorevole per esprimere le idee della scuola culta è la Francia. da
qui il legame con l’aspetto politico e la Francia per gran parte del 500 è stata il contesto politico ideale per lo
sviluppo dell’umanesimo giuridico.

La Francia è una monarchia forte che cerca di imporre il potere pubblico e di fare applicare la legge del
sovrano senza intermediazione dell’interpretazione dei giuristi.
Quindi lì certamente le critiche contro le autorità del il diritto comune, le interpretazioni spesso arzigogolate,
fantasiose del diritto comune, lì trovano piede.
Il contesto politico è importante, perché in Francia le guerre di religione faranno si che la Francia cattolica
vedrà molti di questi esponenti protestanti spostarsi nei Paesi Bassi e nell’area tedesca.

Quindi abbiamo visto che Alciato incarna veramente la figura dell’umanista, ma è anche un giurista, invece
nel 400 personaggi come Valla, Poliziano non sono giuristi, ma umanisti
Invece Alciato, ma anche Budè e Zasio, sono umanisti ma anche giuristi, quindi si occuperà della
compilazione giustinianea, ma scriverà anche commentari e soprattutto il trattato “De verborum
significatione” che prima nasce come commentario a un passo del Digesto intitolato “De verborum
significatione” e poi diventerà un trattato.
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Per un umanista un passo del Digesto intitolato “De verborum significatione” è interessantissimo (“lo studio
delle parole, del testo”) quindi lì Alciato può dare sfogo a tutta la sua cultura di giurista-umanista.
Egli storicizza glossatori e commentatori e quindi va perdonata qualche dèfaillance da un punto di vista
filosofico, storico e culturale.

In Francia abbiamo personaggi come Budè, Cuiacio, Dumoulin, Hotman che incarnavano vari filoni
dell’umanesimo giuridico

- da parte di Dumoulin abbiamo l’esempio, l’idea di storicizzare la compilazione giustinianea di restituirla al


suo tempo, al suo contesto storico.
Non si può più applicare alla Francia del 1500.
È una fonte di soluzione per alcuni aspetti, ma è una fonte del su tempo.
Quindi per Dumoulin come per Hotman la soluzione è creare (come aveva fatto Giustiniano) un corpo
normativo per i francesi, un corpus iuris francese, come dice Dumoulin, fatto dalle consuetudini francesi.

- Hotman incarna il filone critico nei confronti non solo di commentatori e glossatori, ma anche di
Giustiniano.
La sua opera (“Antitribonian”) è un manifesto dell’anti-tribonianesimo, cioè la critica nei confronti di
Triboniano, ma in realtà Triboniano è un ministro di Giustiniano, quindi la critica è nei confronti di
Giustiniano, perché ha condannato a morte le fonti che sono altro rispetto alla compilazione giustinianea e
che invece gli umanisti hanno molto a cuore es. le fonti del diritto dell’età classica.
Ha fatto una cernita dei Digesta ad es. e quello che è dentro è diritto.
Questo non viene perdonato da Hotman a Giustiniano: l’aver piegato il diritto romano a una logica politica,
quindi in Francia vi è questo aspetto della critica feroce nei confronti dei glossatori e di Giustiniano.

Abbiamo visto poi come questi soggetti si spostano nell’area Paesi Bassi che diventano indipendenti nel
1575 e lì nasce l’università di Leiden in cui vi sarà la scuola elegante olandese in cui arrivano questi
personaggi che spesso sono in fuga dalla cattolica Francia e cercano approdo in un paese protestante.
Ecco i Paesi Bassi che poi diventeranno l’Olanda sono il posto ideale.
Qui abbiamola penetrazione dell’umanesimo giuridico che deve corrispondere a esigenze della pratica.
I Paesi Bassi hanno bisogno di un diritto da applicare che legittimi anche le loro aspirazioni coloniali,
mercantili.
Loro enfatizzano l’aspetto sistematico e salvano la struttura della compilazione, nel caso delle Institutiones
la ripartizione gaiana e giustinianea del diritto civile in persone, cose e azioni e poi lo riempiamo di
contenuti tratti dal diritto olandese, quindi consuetudini, diritti territoriali.
Qui la scuola elegante sarà interessante per l’approdo che avrà l’umanesimo.

Infine l’umanesimo giuridico declinato nell’area tedesca, lì l’umanesimo penetra ma deve fare i conti con un
altro fenomeno che avviene nel 1495: la recezione tardiva del diritto romano giustinianeo .
Quando viene istituito il tribunale camerale dell’impero si stabilisce che esso debba decidere in base al
diritto comune.
Si potrà anche far valere la consuetudine, ma dipende dalla probatio diabolica: la consuetudine deve essere
provata.
In Germania si ha questo incontro:
- la recezione tardiva del diritto romano-giustinianeo (nascono nuove scuole dedicate alle pandette di
Giustiniano)
- e dall’altro abbiamo l’umanesimo che è penetrato e si creerà questo fenomeno dell’<<usus modernum
pandectarum>> che vede da una parte con l’Olanda che vede confluire nella compilazione giustinianea il
diritto consuetudinario territoriale tedesco.
E anche degli studi che vanno oltre la compilazione che riguardano il diritto proprio tedesco, le consuetudini
germaniche, le leggi romano-germaniche: tutte fonti trascurate da glossatori e commentatori e queste sono
fonti originarie del diritto tedesco, proprie del diritto del popolo e quindi l’incontro tra ricezione tardiva
delle diritto romano-giustinianeo e umanesimo ha degli esiti particolari in Germania, questo usus modernum
pandectarum che fa i conti con l’umanesimo.
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Storia del diritto medievale, lezione n. 15 – 25.11.2020

Il diritto della Chiesa è un’altra branca importante. Noi siamo arrivati nella culla dell’utrumque ius, del diritto
di entrambi gli ambiti, di quello che è il diritto comune. Il diritto comune è l’unione del diritto romano
giustinianeo così come del diritto canonico, nel periodo della scientia iuris a partire da Bologna in poi che
l’officina dell’utrumque ius. Due percorsi paralleli: diritto romano giustinianeo e diritto canonico così come
reinterpretati dall’interpretatio dei giuristi. Da Bologna in poi, dal 1100, avviene questo percorso di
utrumque ius, di entrambi gli ambiti del diritto (civile e canonico) che per trovare vigenza ed effettività
hanno bisogno di un supporto fondamentale e creativo: l’interpretatio del giurista. Sono i diritti promananti
dai due enti universali, Impero e Chiesa.
Enfatizziamo questo aspetto: siamo partiti dalle origini del diritto della Chiesa però poi ci siamo concentrati
su quel diritto canonico classico, dalla riforma gregoriana in poi, e abbiamo visto che il percorso dottrinale
della scientia iuris si unisce: quindi, nello stesso momento in cui c’era Irnerio a Bologna, nel diritto canonico
c’era Graziano. Il percorso è sempre quello della scientia iuris. Hanno materiale normativo diverso, ma
l’interpretazione si fonda sugli stessi metodi. Nell’XI sec. in cui c’è la rinascita economica, la rinascita del
diritto, riforma gregoriana inizia il percorso comune, questo utrumque ius. Da un lato abbiamo da Irnerio in
poi; dall’altro lato, nello stesso periodo, avremo il diritto canonico classico in cui andranno a formarsi le
opere che comporranno il Corpus iuris canonici di cui parla Cortese. Dobbiamo capire in che periodo siamo e
collegare tutto.
Da ultimo ci siamo staccati dall’Alto Medioevo e siamo entrati nel Basso Medioevo con la rinascita del diritto
in senso lato, con l’officina del diritto comune che ha basi normative ma che è formato anche
dall’interpretatio dei giuristi che si svolge nel medesimo ambito.

GLI ENTI PARTICOLARI E LO IUS PROPRIUM.


Oggi introdurremo l’argomento degli ENTI PARTICOLARI.
Un aspetto sul quale dobbiamo soffermarci è la struttura della società medievale la quale era divisa in CETI.
Abbiamo parlato dell’aspetto della comunità nel Medioevo, cioè una società in cui l’individuo è rilevante in
quanto appartenente alla comunità. L’individuo medievale, in questa società divisa per ceti e status, come
dice Le Goff in una sua opera, deve obbedire ai due diritti universali perché in Europa, che costituisce il
perimetro del mondo conosciuto, c’è ancora il Sacro Romano Impero e dunque è sicuramente abitante
dell’impero. L’uomo medievale è sicuramente all’interno dell’impero ed è sicuramente cristiano, quindi
obbedisce al diritto degli enti universali, cioè Impero e Chiesa. Certamente abbiamo che l’uomo medievale
obbedisce al diritto dell’impero e della chiesa, al diritto comune essenzialmente; ma non ci sono soltanto gli
enti universali.
Sempre a partire dall’XI sec. in cui abbiamo visto la rinascita delle città, la rinascita dei mercati e, di
conseguenza, la rinascita del ceto dei mercanti, nascono anche, tra l’XI e l’inizio del XII sec., varie monarchie.
Immaginiamo che c’è l’Impero ma nascono le monarchie. Prendiamo ad esempio l’Italia dove, a Nord, sarà
sottoposta direttamente all’impero, il c.d. Regnum Italiae, apparterrà al Sacro Romano Impero divenendone
una delle gemme più luminose; mentre al Sud inizia a nascere, agli inizi del 1100-1130, il Regnum Siciliae,
ovvero la monarchia normanna che unirà la parte continentale dell’impero con l’isola e nascerà questo
regno, il regno di Sicilia da non confondere con il Regno delle due Sicilie che è un’altra cosa. Questo è
Regnum Siciliae, cioè regno di Sicilia e comprende la Sicilia e la parte continentale del meridione. Ma
abbiamo anche altre monarchie: nasce e si consolida, ad esempio, la monarchia francese o quella in
Germania che sono comunque sempre all’interno dell’impero. Sono monarchie all’interno dell’impero.
Questi enti sono enti particolari, che non ambiscono ad essere universali e che portano un diritto proprio,
cioè applicabile a quella città (ad esempio il diritto dei Comuni), a quel regno ma anche a quella categoria di
soggetti interna al Comune o al regno. Ad esempio la categoria dei mercanti: il diritto dei mercanti è uno ius
proprium dei mercanti, diritto creato dalle associazioni di mercanti per i mercanti. Sono diritti fatti da questi
enti particolari che possono essere a:
- base territoriale, cioè lo ius proprium che è proprio del Comune – indistintamente per chi abita nel
Comune – o del Regno, per chi abita in quel Regno;
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- base personale, cioè lo ius proprium di una categoria di persone: ad esempio, lo ius proprium dei
mercanti o degli artigiani.

Quindi si tratta di diritti promananti da enti particolari e possono essere a base territoriale come il diritto dei
Comuni o a base personale come, ad esempio, il diritto fatto dalle corporazioni dei mercanti applicabile ai
mercanti. Quindi sono diritti diversi, status diversi; nella società medievale, non ci sarà un soggetto unico di
diritto né tantomeno un soggetto unico che produce diritto ma avremo più soggetti che producono diritti
diversi per determinati status e ceti. La società medievale è una società cetuale.

IL PLURALISMO DELLE FONTI MEDIEVALI.


Vi è una ricchezza di fonti in questo periodo. Un soggetto può essere obbligato a rispettare, in primis, il
diritto dell’impero e della chiesa. E il diritto canonico non riguarda i sacramenti, quello è ambito teologico; il
diritto canonico regge il matrimonio, le destinazioni post mortem. Quindi, veramente il diritto canonico fa
parte del diritto che influenza la vita dei soggetti. Quindi il soggetto deve obbedire, in quanto abitante
dell’impero, al diritto dell’impero, al diritto della chiesa, cioè quei diritti promananti dagli enti universali. Ma
questo soggetto può essere anche un abitante del Comune e, dunque, dovrà obbedire al diritto degli statuti
comunali; può essere che sia un mercanto o un artigiano, e quindi obbedire al diritto che viene dalle
corporazioni dei mercanti o degli artigiani. Può essere abitante di un regno e, dunque, obbedire al diritto del
regno. Può anche essere un soggetto che abita in un feudo, quindi deve obbedire anche alle consuetudini
feudali di quel luogo in quanto anche il diritto feudale è un diritto proprio: è un diritto che viene dettato per
chi abita in quel feudo. La realtà feudale, infatti, non è scomparsa. Ad esempio, il diritto longobardo: se il
soggetto è longobardo, dovrà obbedire anche alla normativa longobarda che lo segue, in quanto diritto a
base personale. Questi diritti non sono scomparsi.
Sono tutti diritti particolari, diritti propri di determinati soggetti, che promanano da enti particolari e
possono essere a base territoriale (perché si fondano sul Comune o sul regno, sul territorio) o personale
(riferibili a categorie di persone). E questo costituisce il pluralismo delle fonti medievali. Nel periodo
medievale, si riusciva a ridurre a sistema tutto questo. Vi erano più fonti di produzione del diritto (diritto
imperiale, diritto della chiesa, del Comune, del regno), la consuetudine che continuava a restare all’interno
di tutti questi diritti ed era fondamentale nel diritto feudale e anche nel diritto dei Comuni. Tutte queste
fonti coesistono e si riesce a ricondurle a sistema: abbiamo più fonti di produzione del diritto e poi diritti
diversi per soggetti diversi, per categorie e ceti diversi. Non abbiamo una normativa per un unico soggetto di
diritto, ma diritti diversi con più fonti di produzione del diritto e rivolti ad una società cetuale. Non vi è l’idea
di soggetto unico di diritto, che sta alla base del fenomeno ottocentesco delle codificazioni. Nel Medioevo,
tutto questo riusciva ad essere ridotto a sistema. Si parla infatti di pluralismo delle fonti per sottolineare la
ricchezza delle fonti medievali. Nell’età moderna si parla di particolarismo giuridico perché queste fonti
vanno in una sorta di cortocircuito e non si riesce più ad avere una certezza delle fonti, del diritto. Con
l’espressione “particolarismo giuridico” si vuole enfatizzare la confusione tra queste fonti, l’impossibilità di
trovare la risposta alla controversia perché avremmo una serie di fonti che si affastellano, generando
incertezza del diritto. Adesso noi parliamo di pluralismo giuridico medievale, per indicare questa ricchezza di
fonti e la diversità di produttori di fonti del diritto. La società medievale era cetuale, quindi vi erano
normative diverse per ceti diversi. Era una società divisa in status.
Gli enti particolari veramente rispecchiano quest’aspetto della società. Ricordiamoci sempre che siamo
all’interno della stessa culla, che ha un limite cronologico di partenza che è l’XI sec. E proprio mentre si
sviluppa il diritto comune (periodo dell’interpretatio, riscoperta del diritto romano giustinianeo, creazione
del diritto canonico classico), sempre in quella culla si sviluppano gli enti particolari: nascono le prime
monarchie, come ad esempio quella francese che è la più antica e ci accompagnerà per tutta l’età moderna,
ma ora getta le sue basi; o quella tedesca che è rilevante perché è quella che elegge l’imperatore. Dopo la
fine della dinastia dei Franchi, il Sacro Romano Impero continuerà ad esistere ma si sposterà in Germania,
dove chi è anche un regno, il Regno di Germania. Avremo anche la nascita a Sud d’Italia del Regnum Siciliae.
Le monarchie sono a base territoriale. Ma avremo anche dei diritti propri di alcune categorie di soggetti: e in
questo periodo avrà un notevole rilievo con la rinascita dei mercati e il fiorire del ceto dei mercanti lo ius
mercatorum, cioè il diritto dei mercanti.
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I COMUNI.
E poi sempre a base territoriale, come i regni, legato alla rinascita delle città, avremo il fiorire di quegli enti
particolari a base territoriale che sono i Comuni cittadini. Essi si svilupperanno in gran parte di Europa in
quanto legati strettamente alla rinascita delle città e dei mercati. Rinascono città che erano più antiche di
fondazione romana, come Napoli, Genova o Roma; città che, nell’Alto Medioevo, avevano vissuto uno
spopolamento perché gran parte della popolazione si era trasferita nel contado, nelle campagne, nei feudi.
Nell’XI sec., in Italia, ma anche in Francia e Germania, le città ricominciano a popolarsi tornando a diventare
grandi centri in cui rifioriscono i mercati. In gran parte d’Europa, dunque, abbiamo la rinascita delle città. Ma
parleremo soprattutto dei Comuni, che vanno a crearsi all’interno delle città, dell’Italia centro-settentrionale
che vanteranno un livello di autonomia, un livello di auto-governo che non sarà paragonabile con
nessun’altra realtà europea. Avremo le realtà francesi, soprattutto della Francia del Sud, che avranno
rapporti commerciali con il Nord Italia che cercheranno di emulare i Comuni nord-italiani per quanto
riguarda il livello di auto-governo e di autonomia raggiunto. Ma in realtà tali Comuni dell’Italia centro-
settentrionale non avranno pari, in quanto rappresentano un unicum, sono emblematiche per il livello di
autonomia raggiunto e anche per i loro rapporti con l’impero che, alla fine, vedrà questi Comuni vincenti.
Questi Comuni verranno riconosciuti dall’imperatore come entità giuridiche all’interno dell’impero, vi sarà
un riconoscimento del loro diritto a seguito non di un privilegio concesso dall’imperatore (Pace di Costanza),
anche se formalmente lo è, bensì a seguito di una sconfitta dell’imperatore.

Ma il diritto degli enti particolari obbedisce al diritto comune, dunque al diritto degli enti universali quali Chiesa
e Impero? Gli storici del diritto, da Calasso in poi, tuttora si interrogano. La risposta la darà nella lezione n. 16.
Ma adesso parleremo dei Comuni e inizieremo a vedere il rapporto tra il diritto dei Comuni e il diritto comune,
fatto dal diritto romano giustinianeo, diritto canonico e scientia iuris. Iniziamo a capire tale rapporto tra diritto
comune e diritti particolari e vedremo se c’è questo problema di obbedienza del diritto degli enti particolari al
diritto comune.

Iniziamo a parlare di questo diritto degli enti particolari. Gli enti particolari sono enti che universali non sono
e che sono portatori di un diritto proprio, applicabile all’interno di questi enti particolari. Quindi è un diritto
non universale. Il diritto comune, il diritto degli enti universali, è il diritto universale per eccellenza che ha
una sua estensione universale.
Questi enti particolari si sviluppano intorno all’XI sec. nel momento in cui abbiamo la rinascita economica. I
Comuni coincidono tendenzialmente con la rinascita delle città, sono strettamente legati a questa rinascita.
Però il Comune – che nel mondo romano corrispondeva al municipium - non è la città. Il Comune è
un’istituzione che nasce all’interno della città, nel territorio della città. Il Comune è un’istituzione in cui
intercorrono rapporti giuridici, uno spazio di libertà di auto-governo che ha una sua base in un rapporto
privato: cioè vi è un patto, il c.d. patto di creazione del Comune, sancito da un giuramento (iuramentum
Communis) stretto tra le classi dominanti che vogliono creare l’istituzione Comune e che vogliono auto-
governarsi. Poi questa istituzione ha una portata espansiva che riguarda tutta la città. Quindi, il Comune
fisicamente è all’interno delle città, ma teoricamente e giuridicamente non è la città, non è la stessa cosa. Il
Comune è un’istituzione che nasce all’interno della città dall’accordo delle classi dominanti, accordo che
viene sancito dal iuramentum Communis. Quindi, è un fatto privato con il quale si formano delle
associazioni, in particolare un’associazione di coniuratores, un’associazione giurata, di coloro che hanno
fatto il patto di costituzione del Comune sancito dal giuramento. Le associazioni giurate sono un tipico
esempio medievale di creazione di istituzioni: cioè fare associazioni giurate, cioè sancite da un giuramento.
Anche qui, il diritto romano fornisce uno schema a queste associazioni giurate, dette appunto coniuratores.
Sono patti rinnovabili attraverso i quali si crea l’istituzione Comune. Quindi si fa un patto tra privati, tra i
rappresentanti dell’élite economica, delle famiglie più rilevanti che vogliono creare tale istituzione e
vogliono auto-governarsi. Tanto che il Comune viene visto, dalla mitologia storiografica, come uno spazio di
libertà e di auto-governo.
La nascita dei Comuni è diversa città in città, ma noi ci soffermeremo su quelli dell’Italia centro-
settentrionale. Tra l’XI e il XII sec. nascono i Comuni di Genova, di Milano, a Firenze, Brescia, Bergamo. E
anche a Bologna nasce un Comune intorno al 1116. E anche le fasi di formazioni dei Comuni nonché le classi
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dominanti cambiano da Comune a Camune perché i comuni potevano nascere in città che erano sedi
vescovili di cui un esempio è Genova. Il comune di Genova nasce dal contrasto tra cittadinanza e vescovo
che deteneva il potere, il quale concede la nascita del Comune; e da lì si forma quell’associazione volontaria,
giurata che elegge dei consoli, con la rinuncia del vescovo all’esercizio della giurisdizione temporale.
Possono nascere anche in città di antica e nuova fondazione, oppure in città che sono all’interno di una
realtà feudale: in questo caso, i ceti dominanti, che faranno il patto, protagonisti di questa associazione
giurata, saranno le élite feudali. Le città hanno tutte una loro storia da cui nasce il Comune.
Come comune denominatore abbiamo, dunque, il patto giurato fra le componenti sociali di potere politico
ma anche economico, ad esempio i vescovi, la componente feudale, la piccola o grande feudalità. Quindi i
ceti dominanti creano questo patto, che è un patto privato: anche qui lo schema dell’associazione giurata è
uno schema che può essere fatto risalire al diritto romano, ma il Comune è tipicamente medievale perché
l’idea stessa che da un accordo privato nasca un’istituzione pubblica, non essendoci una vera e propria
distinzione tra pubblico e privato, è un’idea tipicamente medievale. Nel medioevo non interessava tanto la
distinzione tra pubblico e privato, quindi la distinzione formale perché aveva interesse per l’aspetto
sostanziale. Siamo noi che facciamo questa distinzione tra pubblico e privato, la facevano anche i romani;
ma nel Medioevo no. Tanto che, abbiamo visto, il contratto feudale è un contratto molto particolare in
quanto da un’attribuzione territoriale nasce anche uno status personale. Qui, questo aspetto è ancora più
evidente perché da un accordo privato tra i potentati, tra le famiglie più rilevanti che danno vita al Comune,
nasce un’istituzione pubblica. Dunque la distinzione pubblico-privato ai medievali non importava, tanto che
nascevano così queste associazioni giurate e veniva fatte davanti ai notai che sono molti importanti in
quanto sono professionisti che ricominciano ad usare gli schemi del diritto romano. Queste associazioni
nascono veramente dai notai. È una nascita molto particolare che è diversa in alcune città, ma il comune
denominatore è il patto istitutivo, la previsione delle magistrature che inizialmente saranno consoli in
numero pari che eserciteranno il potere esecutivo ma, per certi aspetti, anche il potere giudiziario, ma anche
la presenza di un’assemblea cui è demandato parte del potere legislativo ed è formata dai rappresentanti di
quei ceti, di quelle famiglie dominanti che hanno creato il Comune stesso. Questi sono i connotati comuni di
questa istituzione Comune che, però, nasce in maniera diversa nelle diverse città perché possono cambiare i
ceti dominanti che formano il Comune perché può essere una città vescovile o una città feudale (come per
esempio il Comune di Milano che, come ceto dominante, avrà quello dei feudatari maggiori e minori).

LA QUESTIONE DELLE REGALIE E LA PACE DI COSTANZA.


Questi Comuni iniziano ad operare dall’inizio del 1100 (fine XI sec. - inizio XII), iniziano a fare questo: a fare
questi patti, auto-costituirsi, a crearsi uno spazio di auto-governo, ad eleggere magistrati, a creare un
proprio diritto. Però c’è un fatto: questi Comuni formalmente sono all’interno dell’impero, sono entità
interne all’impero e inizia una diatriba tra impero e Comuni che si protrarrà 30 anni, nel senso che
l’imperatore si chiedeva a chi spettassero questi diritti che i Comuni, formalmente all’interno dell’impero,
esercitavano di fatto senza alcun tipo di riconoscimento. Da qui avremo la famosa Dieta di Roncaglia nel
1158 con la costituzione che ne verrà fuori, cioè la constitutio de regalibus, sulle regalie. L’imperatore del
Sacro Romano Impero, Federico Barbarossa, dopo aver chiesto ai 4 allievi di Irnerio (Martino, Bulgaro, Ugo e
Iacopo) a chi spettassero le regalie, questi diritti di fare i magistrati, di fare normative, di dare giustizia,
ottenne risposta. E molti ritengono che vi fosse un legame diretto fra questa risposta favorevole
all’imperatore e la Constitutio Habita che concede dei privilegi notevoli a chi si recava a Bologna per
studiare. In base al diritto romano, gli allievi di Irnerio diedero una risposta favorevole a Barbarossa: questi
diritti, le regalie spettano all’imperatore. Da qui questa costituzione con la quale viene fatto un censimento
dei diritti spettanti all’Imperatore. Questo è un fatto interessante perché lo abbiamo ricollegato fin da subito
con la scuola di Bologna perché l’imperatore ha emanato, in questo stesso periodo, la constitutio habita
nella quale riconosceva un trattamento di favore agli studenti che si recavano a Bologna per studiare, cosa
che aiutò molto lo studium bolognese a crescere. L’imperatore sapeva che dallo studio della normativa
giustinianea non potevano che nascere risposte favorevoli all’imperatore. E qui ne abbiamo un esempio: i 4
allievi di Irnerio, nella Dieta di Roncaglia che vedrà la nascita della Constitutio de regalibus, danno una
risposta favorevole all’imperatore riconoscendolo come titolare delle regalie.
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Dunque, l’imperatore chiederà ai Comuni la dismissione delle facoltà di auto-governo e di autonomia che già
da tempo fattualmente questi esercitavano. I Comuni reagiranno molto violentemente e, a sua volta,
l’imperatore farà un gesto molto importante cioè l’assedio e distruzione di Milano nel 1162. Barbarossa farà
quest’atto che avrà un forte eco all’epoca. E subito, nel 1167, seguì la costituzione della Lega Lombarda:
alcuni comuni lombardi si unirono (Milano, Bergamo, Brescia, Verona, Bologna che da questo momento è un
Comune in prima linea contro l’imperatore, Mantova, Cremona). D’altra parte, altri Comuni rimasero fedeli
all’imperatore (Pisa, Genova) che ebbero un riconoscimento di alcune autonomie da parte dell’imperatore.
Però gran parte dei Comuni dell’Italia centro-settentrionale si unirono nella Lega Lombarda, sconfiggendo
l’imperatore, nella battaglia di Legnano, nel 1176. L’imperatore fu costretto a concedere la PACE DI
COSTANZA nel 1183 con la quale si riconosceva, in primis, l’esistenza di queste entità giuridiche che erano
appunto i Comuni, e poi la vigenza delle consuetudini comunali. Dunque, il diritto che i Comuni già
esercitavano veniva riconosciuto come diritto vigente. Anche dal punto di vista della giustizia, essa veniva
gestita in gran parte dai magistrati comunali e l’imperatore lasciò per sé solo l’esame delle sentenze in grado
di appello, quindi la giustizia di ultima istanza che era comunque esercitata dai messi imperiali, cioè
rappresentanti imperiali che venivano mandati in quel Comune e che esaminasse le cause di appello ma
seguendo sempre leggi e consuetudini locali del singolo Comune. Quindi, nei fatti, con la Pace di Costanza
viene riconosciuta l’esistenza giuridica dei Comuni e la loro normativa, soprattutto le consuetudini comunali
nonché la possibilità di nominare magistrati ed esercitare giustizia. All’imperatore restava la giustizia, sia in
ambito civile che in ambito penale, di ultima istanza per le cause più rilevanti (cause superiori a 25 lire
bolognesi), mentre per tutto il resto la giustizia era amministrata dai Comuni.

STRUTTURA FORMALE E SOSTANZIALE DELLA PACE DI COSTANZA.


La Pace di Costanza formalmente è molto importante perché è un privilegio, difatti si parla del PRIVILEGIO
DELLA PACE DI COSTANZA. Nei fatti, è una resa dell’imperatore e non una sconfitta, però formalmente, per
non avere una deminutio dell’auctoritas imperiale, viene visto come un privilegio che unilateralmente
l’imperatore concede ai Comuni. Questa è la sua veste formale: un privilegio che l’imperatore concede ai
Comuni della Lega Lombarda, il privilegio della pace di Costanza. Nei fatti è una resa, è una pace che
l’imperatore deve concedere perché segna la sua sconfitta militare.
La Pace di Costanza viene interpretata come una CARTA DEI DIRITTI nei rapporti fra imperatore e comunità
locali. La Pace di Costanza verrà corredata dalle glosse di Odofredo ed entrerà, nel corso del 1200, nei Libri
Legales, in particolare nell’ultimo libro cioè il Volumen, per il suo ruolo fondamentale di carta dei diritti dei
rapporti tra impero e comunità locali.
Questa carta dei diritti estenderà la sua portata anche al di là del suo significato letterale perché, in realtà,
viene vista come una generale carta dei diritti che riguarda l’imperatore e TUTTI i Comuni dell’Italia centro-
settentrionale. Dal punto di vista formale, la pace di Costanza, il privilegio di Costanza fu concesso tra gli
organismi in guerra: l’imperatore e i Comuni della Lega Lombarda; ma in realtà, la portata simbolica forte di
questo documento ha fatto in modo che venisse esteso non soltanto ai Comuni della Lega Lombarda ma a
tutti i Comuni dell’Italia centro-settentrionale, cioè sarà proprio vista come una Carta dei diritti che regola i
rapporti tra imperatore e comunità locali, quantomeno dell’Italia centro-settentrionale. Quindi abbiamo
un’estensione dal punto di vista soggettivo venendo applicata a tutti i Comuni dell’Italia centro-
settentrionale. Da un punto di vista contenutistico, ricordandoci che la Pace di Costanza riconosceva le
consuetudini già esistenti, la parte che riguardava la potestas statuendi, cioè la capacità di far leggi, viene
estesa anche alle successive normative comunali.
Quindi la Pace di Costanza viene davvero vista come la Carta dei diritti nei rapporti fra imperatore e
comunità. Il nipote di Federico I Barbarossa, che sarà Federico II di Svevia, cercherà di fare un tentativo
velleitario di rivedere gli accordi della pace di Costanza ma anche lui, nel 1226, avrà una reazione forte dei
Comuni che formeranno una seconda Lega Lombarda e Federico II abbandonerà il tentativo di porre nel
nulla gli accordi della pace di Costanza. Federico II, imperatore del Sacro Romano Impero e Re del Regno di
Sicilia, cercherà di rispondere ad alcuni Comuni, in particolare a Bologna che frattanto era uno dei Comuni
protagonisti della prima Lega Lombarda e anche della seconda, fondando l’università di Napoli (1224) che
sarà la prima universitas studentium pubblica voluta da un sovrano. Federico II fonderà questa università per
fare concorrenza a Bologna, impedendo addirittura agli studenti regnicoli di andare a Bologna. Il risultato
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non fu tanto quello di creare un metodo alternativo rispetto a Bologna, quindi lo smacco che Federico II
voleva fare a Bologna; ma fu l’opposto perché anche all’Università di Napoli, dal 1224 in poi, si applicherà il
metodo bolognese. Oramai quel metodo era troppo diffuso per essere abiurato. Quindi, Federico II crea
questa università per fare concorrenza al metodo bolognese ma non vi riesce perché anche a Napoli verrà
applicato tale metodo.

IL DIRITTO DEI COMUNI: CONSUETUDINI, BREVIA E STATUTI COMUNALI.


Ora vediamo qualche aspetto del diritto dei Comuni. Abbiamo visto i rapporti tra questi enti particolari e
impero che è un rapporto molto importante che porta al riconoscimento, nel 1183 con la pace di Costanza,
di questo ente particolare, il Comune, e del suo diritto.
Ma com’era fatto il diritto dei Comuni? È un diritto essenzialmente a base consuetudinaria, si basa sulle
consuetudini comunali di quel territorio. Accanto a questa direttrice consuetudinaria, nascono anche dei
fenomeni normativi nuovi: ad esempio, gli statuti comunali. In senso tecnico, il termine statuto indica le
deliberazioni dell’assemblea. L’assemblea rappresenta l’élite dominante nel Comune che ha, dunque, una
base oligarchica. L’assemblea, dunque, rappresenta questi ceti che, almeno originariamente, erano quelli
che avevano fondato il Comune, partecipi di quell’accordo che aveva fondato il Comune. L’assemblea fa
delle deliberazioni di carattere legislativo che saranno, appunto, legge nel Comune e che formeranno gli
statuti comunali.
Tra le altre fonti normative avremo anche i brevia iuramentorum cioè statuizioni che fanno i magistrati, che
sono i consoli o podestà, e la loro squadra di governo nel momento in cui entrano in carica. Sono
manifestazioni di principi, indicano il programma che questi magistrati si impegnano a realizzare nel
momento in cui entrano in carica. Anche i brevia sono giurati, sono oggetto di un giuramento e
rappresentano dei patti giurati stretti tra magistratura di governo e cittadini. Anche questi sono diritto.
Dunque abbiamo le consuetudini che vengono anche messe per iscritto, venendo stabilizzate; abbiamo i
brevia iuramentorum cioè questo patto tra magistrature e la collettività, i cittadini; e poi gli statuti, cioè le
deliberazioni dell’assemblea che rappresenta l’organo legislativo del Comune.
Tra il 1200 e il 1300 vengono formate delle apposite commissioni, le c.d. COMMISSIONI STATUTARIE, cioè
soggetti che hanno il compito di mettere per iscritto gli statuti comunali. Il termine statuto ha un significato
sia tecnico che generale. In senso tecnico, gli statuti sono le deliberazioni dell’assemblea; ma, in generale,
con il termine “statuto comunale” possiamo intendere tutto il diritto comunale. Quindi, questi soggetti
statutari mettono per iscritto, in questi libri, tutto il diritto comunale: quindi mettono per iscritto le
consuetudini, i brevia ioramentorum e gli statuti in senso tecnico, cioè le deliberazioni dell’assemblea.
Questi sono gli statuti comunali che racchiudono il diritto del Comune. I primi statuti comunali del 1110-
1200 riguardano quelle materie che il diritto romano giustinianeo lasciava scoperte, quindi il diritto penale e
la procedura penale soprattutto.
Questi statutari, cioè queste commissioni di soggetti che hanno il compito di mettere per iscritto già dalla
fine del XII sec. in poi il diritto comunale, come si sono formati? Questi statutari solitamente sono dottori in
legge, cioè soggetti che si sono formati nel diritto romano giustinianeo. Sono loro che mettono per iscritto gli
statuti che strutturalmente sono divisi ratione materiae, cioè per materia: tutto questo materiale, le
consuetudini messe per iscritto, i brevia e gli statuti visti come deliberazioni dell’assemblea sono divisi
ratione materiae, per materia ad imitazione della compilazione giustinianea. Anche se la risposta definitiva
alla domanda della collega verrà data successivamente, ora importa capire che teoricamente i due ambiti,
quello del diritto comune e quello del diritto degli enti particolari, sono molto divisi; ma, nei fatti, sembra
quasi che appartengano ad un unico sistema. I soggetti sono gli stessi, i protagonisti sono gli stessi perché gli
statutari sono soggetti che si formano nel diritto romano giustinianeo. Questi soggetti, nel mettere per
iscritto il diritto comunale, seguono gli schemi, lo scheletro dato dal diritto romano giustinianeo; o
quantomeno lo presuppongono. E questo diritto messo per iscritto dagli statutari in un unico libro prende il
nome di STATUTO COMUNALE. Come abbiamo visto per i canoni conciliari, i canoni in senso tecnico sono le
deliberazioni dei concili ecumenici; però, progressivamente, con il termine canone si intenderà tutta la
normativa di diritto canonico tanto che Graziano parlerà indifferentemente di concordia discordantium
canonum, cioè la concordia dei canoni discordanti e per canoni lui intende, in senso generico, sia i canoni
conciliari che i decretali, le costituzioni imperiali che riguardano il diritto della chiesa. Quindi è diventato un
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termine onnicompresivo. Con il termine statuto, la situazione è molto simile perché, in senso tecnico, con il
termine statuto si intendono le deliberazioni dell’assemblea; ma, in generale, dalla fine del XII sec. e all’inzio
del 1200 in poi, queste commissioni mettendo per iscritto il diritto comunale in questi libri che sono,
appunto, gli statuti con il termine statuto intenderemo tutto il diritto comunale: consuetudini che vengono
messe per iscritto, ma accanto a queste – ratione materiae - vengono messi sia i brevia iuramentorum che le
deliberazioni dell’assemblea che sono esse stesse statuti.
Questo è il diritto comunale. La pace di Costanza, in realtà, prevedeva soltanto un filone ovvero le
consuetudini comunali che potevano essere liberamente applicate ai Comuni. In realtà, poi, quando si
faranno questi statuti comunali e verrà messa per iscritto, nel 1200, la normativa dei vari Comuni con
caratteristiche proprie per ciascun Comune (perché ogni Comune ha il suo diritto, ha il suo statuto), passerà
l’interpretazione secondo la quale tutto questo diritto è riconosciuto dall’imperatore, quando nei fatti nella
pace di Costanza viene riconosciuta solo la consuetudine. Quindi vi sarà un’interpretazione estensiva di
questo privilegio della pace di Costanza.
Il diritto comunale è costituito da queste varie direttive:
- Consuetudine;
- Brevia iuramentorum;
- Deliberazioni assembleari, ovvero gli statuti.

Questo è il diritto comunale che verrà raccolto in questi libri del diritto del Comune che sono, appunto, gli
statuti che, intorno alla fine del 1110 e inizi del 1200, i vari Comuni si vanno dando. E questo è il diritto
comunale che viene messo per iscritto dagli statutari che, guarda caso, sono soggetti formatisi nel diritto
giustinianeo. Lo ius proprium del Comune è racchiuso negli statuti comunali.

DAL COMUNE CONSOLARE AL COMUNE PODESTARILE E IL COMUNE DI POPOLO.


Da un punto di vista istituzionale, i Comuni nascono, nell’XI sec., all’interno di città preesistenti o sedi di
mercati, o in città che, vista l’evoluzione dei mercati, diventano potenze del mercato marittimo (Genova,
Venezia).
La prima forma istituzionale, la cui base è sempre il patto, questo iuramentum communis, la prima forma di
governo comunale è quella affidata ai consoli. In questo patto vengono nominati i consoli, ovvero i
magistrati, che esercitano un potere esecutivo; ma sono anche magistrature che esercitano la giustizia e
saranno affiancati dall’assemblea, espressione dei ceti dominanti che, almeno all’inizio, sono coloro che
hanno creato il Comune, le parti di questo patto di diritto privato. I consoli sono in numero pari e durano in
carica non più di 1 anno, anche se tale limite temporale dipende da Comune a Comune. Tendenzialmente si
tratta, però, di magistrature temporanee che sono uomini nati nel Comune e che vivono nello stesso.
Però dopo una prima fase, che è la fase intorno al 1110-1200, qualcosa inizia a cambiare. Nel senso che
chiedono rappresentanza anche quei ceti che, in realtà, non sono quelli originari. Quindi cambia anche la
ricchezza all’interno del Comune: all’aristocrazia fondiaria, quella dei grandi e piccoli signori feudali, si
affianca un’altra ricchezza che è quella dei mercanti. Con il cambiamento della ricchezza, da immobiliare a
mobiliare, esce fuori prepotentemente un’altra caratteristica tipica del Comune: la litigiosità. I Comuni sono
storicamente visti come luoghi di libertà, di auto-governo; ma in realtà sono a base oligarchica e le varie
oligarchie che cambiano perché magari cambia la ricchezza iniziano a farsi la guerra tra di loro.
Ecco che, a questo punto, è necessario passare ad un’altra fase istituzionale: dal Comune consolare al
Comune podestarile, cioè il potere politico del Comune, il potere di governo è affidato ad un soggetto
esterno, visto come soggetto imparziale tra quelle che ormai sono parti dominanti ma belligeranti l’una con
l’altra. Questo soggetto è il podestà il quale è un professionista della politica, dell’esecutivo diremmo oggi,
che deve essere necessariamente forestiero per garantire l’imparzialità. Non deve avere alcun interesse
interno al Comune, non deve essere proprietario di terre né prendere moglie nel Comune. Queste
caratteristiche di esteriorità del podestà garantiscono formalmente l’imparzialità perché si tratta di un
soggetto esterno alla cosa comune, al Comune, quindi non può parteggiare né per l’una né per l’altra parte.
Si porta il suo drappello di magistrati, il suo esercito. Questi soggetti, questi professionisti della politica
girano spesso da Comune in Comune, hanno una carica temporanea. Il potere del podestà, per come lo
abbiamo descritto, sembrava che potesse facilmente esondare perché era un potere molto penetrante (il
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podestà poteva esercitare la giustizia, esercitava il governo), era demandata a lui la gestione del Comune;
ma vi erano vincoli formali, che non lo facevano degenerare nel despotismo o tirannide, quali temporaneità
della carica e la valutazione del suo operato, e quello dei suoi magistrati, ad un sindacato. Quindi i podestà
solitamente chiudevano le controversie nel giro di pochi mesi perché i processi dovevano durare il tempo
della loro carica, ad esempio. E tutto questo veniva valutato dai sindacatori (altra magistratura presente in
molti Comuni) che valutavano l’operato del podestà. Dunque i podestà erano soggetti esterni al Comune,
che giravano di Comune in Comune andando in altri Comuni rispetto a quello di appartenenza a gestire per
un tempo limitato (1 anno o 2 a seconda del Comune) la cosa comunale esercitando un potere esecutivo ma
anche giudiziario insieme al drappello di magistrati che si portavano dietro, ed erano dottore in legge, si
formavano nell’università di Bologna o altre università che studiavano il metodo bolognese. Anche qui gli
ambiti del diritto comune e degli enti particolari si incontrano. Questa, dunque, è un’altra fase del Comune:
la fase podestarile.
Frattanto, in molti Comuni, quegli organismi che non si sentono rappresentati (artigiani o mercanti) formano
un’istituzione parallela: dobbiamo immaginare il Comune come un’istituzione che vive all’interno della città
e, spesso, si forma anche questo COMUNE DI POPOLO, che è un’altra istituzione interna alla città, che
rivaleggia e si contende il potere con l’istituzione comunale, che ha una base più democratica, più aperta e
che dà voce, dà un riconoscimento istituzionale alle classi che nel Comune originario non hanno alcun
riconoscimento. Quindi si formano questi Comuni di popolo, queste istituzioni parallele, un Comune ombra.

IL TRAMONTO DEI COMUNI: LA FASE SIGNORILE.


Però, tra il 300-400 l’istituzione comunale si avvia alla sua fine.
Gran parte di questi Comuni avevano avuto una grande potenza espansiva perché il Comune nasce come
patto tra privati ma si estende anche a tutta la città, quindi va a coincidere con la città, e spesso anche nel
contado. Il Comune estende la sua gerarchia anche nel contado circostante, esterno alla città. Viene visto
come uno spazio per garantire la pace e l’auto-governo, ma questo è un aspetto molto fiabesco perché il
Comune è anche luogo di belligeranza (guelfi, ghibellini, fazioni filo-imperiali). Però il Comune è visto come
uno spazio di pace e libertà. Nei fatti, è uno spazio di auto-governo, perché i Comuni dell’Italia centro-
settentrionale hanno uno spazio di auto-governo rispetto all’impero; non nasce con una base democratica,
ma con una base oligarchica, cioè l’istituzione Comune rappresenta e dà potere non a tutti ma, innanzitutto,
a chi ha il CENSO, cioè a chi ha capacità contributiva e capacità di fare ricchezza e poi anche alle famiglie di
volta in volta dominanti che sono, prima, l’aristocrazia fondiaria e, poi, tale ricchezza fondiaria verrà
sostituita da soggetti che non hanno ricchezza immobiliare ma mobiliare, fatta di capitali (i mercanti). Quindi
il Comune rappresenta la parte dominante, ma comunque il Comune è visto come spazio di auto-governo
perché l’autonomia che ebbero tali Comuni è molto ampia.
Tra il 300 e il 400 queste forme di auto-governo cessano e i Comuni si consegnano ad un signore, entrando a
far parte di una SIGNORIA: in Toscana nasce la signoria dei Medici, in Lombardia quella degli Sforza. I vari
signori iniziano ad inglobare i Comuni all’interno dei loro possedimenti. Il Comune cessa di essere un luogo
di auto-governo e si consegna al signore, divenendo un suo possedimento. E nasce la fase signorile in cui il
Comune muore e si consegna ad un altro capo, esterno all’ordinamento comunale, che è il signore. È quella
fase di cui si pensa che parli Bartolo quando, nel suo trattato sulla tirannide, parla dei tipi di tiranni. Si pensa
che Bartolo si riferisse a questa situazione, tra il 300 e il 400, cioè il passaggio dai Comuni alle Signorie: viene
a cessare lo spazio istituzionale del Comune.
Anche nella fase podestarile, il Comune era gestito dal podestà che era un’autorità parecchio penetrante e
che, comunque, realmente governa in maniera autonoma. Però il podestà è una magistratura interna al
Comune, prevista dall’ordinamento comunale, ha dei limiti che la fanno rientrare nell’ordinamento. Nella
fase podestarile, quindi, sopravvive il Comune.
Con il passaggio alla signoria cessa l’istituzione comunale: governa un soggetto che è esterno a cui il Comune
si consegna, ed entra a far parte della signoria. C’è un grande signore che, appunto, governa il Comune
senza limiti stabiliti dall’ordinamento.
Mentre il Comune è visto, nella ricostruzione storiografica, come spazio di libertà e pace anche se nei fatti lo
è relativamente, benché sia uno spazio di auto-governo rispetto all’impero, la Signoria viene interpretata dai
contemporanei e anche da Bartolo come un aspetto deteriore, come un lento morire e degradare del
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Comune verso un’altra istituzione che è la signoria; quindi non ha niente più a che fare con l’auto-governo
perché il Comune si consegna ad un signore.
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Lezione n 16 26/11/2020
Iscrivetevi al corso per ricevere le informazioni sul corso. Anche i risultati delle prove saranno
comunicate così. Studiate i libri.
Riepilogo della lezione di ieri sui comuni:
Ieri abbiamo introdotto gli enti particolari portatori di uno ius proprium, sistema opposto al diritto
comune cioè utrumque ius che promana dagli enti universali, diritto romano giustinianeo
dell’impero e diritto canonico della chiesa. Per formare il diritto comune è fondamentale
l’interpretatio dei giuristi. Uno ius proprium degli enti particolari, che non è universale. Abbiamo
parlato dei comuni, enti particolari a base territoriale che nascono sulla base di patti privati, sulla
base di oligarchie. Creano un’istituzione, un indistinto tra pubblico e privato. Abbiamo analizzato i
rapporti tra i comuni dell’Italia centro settentrionale e l’impero. I comuni autogovernano, esercitano
i poteri già alla fine dell’XI secolo, li esercitano prepotentemente all’interno delle città. La loro
formazione coincide con la rinascita delle città. È un istituzione all’interno della città, che non
coincide necessariamente con la città stessa. Rinascita delle città, dei mercati, dei commerci. I
comuni nascono in città di antica formazione, città vescovili, che si ripopolano. Attraverso patti
privati giurati nasce l’istituzione comune. Abbiamo visto i rapporti con l’imperatore, il diritto dei
comuni, racchiuso negli statuti comunali, libri di raccolte normative che erano messe insieme da
varie direttrici: il diritto comunale a base consuetudinaria, fonti normative vive come i brevi
regolamentorum , le deliberazioni dell’assemblea. Raccolti negli statuti comunali, sono raccolte
intorno al 1110- 1200 da magistrati. Abbiamo visto l’aspetto istituzionale dei comuni, nascono
come comuni consolari, retti da un console, poi diventa comune podestarile e poi il comune di
popolo, comune ombra che nasce all’interno della città stessa insieme al comune che considereremo
ufficiale. Frutto dell’accordo tra altre entità che non riescono a trovare riconoscimento
nell’istituzione comunale ufficiale, ha quindi una base più larga. Rappresenta altre classi sociali che
non sono rappresentate nel comune e cerca di compartecipare all’amministrazione del comune. Si
raggiunge l’apogeo del comune con la signoria. Il comune si consegna al signore. Questo
comprendeva spesso anche il contado, un esempio il comune di Milano, vi si applicava lo ius
proprium del comune. Quindi li comune è un ente particolare a base particolare portatore di uno ius
proprium, che sta all’interno degli statuti comunali.
Il regno di Sicilia
I regni sono enti particolari a base territoriale. Dall’XI secolo in poi all’interno dell’impero, nascono
dei regni. Si sviluppano delle monarchie di antiche formazione, che vedremo poi nell’età moderna.
Nel 1066 nasce la monarchia inglese, con Guglielmo il conquistatore. La monarchia francese che
inizia il suo percorso e la monarchia in Germania, che è rilevante perché il re di Germania è anche
l’imperatore. Il sacro romano impero sta a cornice del nostro discorso ma è sempre esistente. Si è
spostato con la fine della dinastia carolingia, il suo cuore si è spostato in Germania. In Italia
settentrionale nel 568 i longobardi si stanziano e al sud hanno le roccaforti dei ducati di Salerno e di
Benevento. Nella parte continentale Campania, puglia, Calabria rimane bizantine sotto il dominio
dell’impero romano d’oriente. La Sicilia dal X secolo soggiace al dominio degli Arabi. Intorno
all’anno 1000, nel nord Italia si forma il regno d’Italia che dipende dall’impero e al suo interno ci
sono i comuni, formalmente dipendenti all’imperatore. Nella parte continentale c’è il dominio
bizantino con le roccaforti dei ducato di Salerno e Benevento e infine in Sicilia gli arabi. Nel 1130
nasce il regno di Sicilia, da non confondere con il regno delle due sicilie. È il primo regno di cui
parliamo, una tappa fondamentale. Regno che con gli illuministi ha avuto una rilettura mistica: il
regno degli Altavilla prima e Federico II di Svevia poi si sono visti dei connotati che vedremo nei
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regni dell’età moderna. È un discorso complesso, astorico perché non possiamo attribuire a
un’istituzione nata nel 1130 dei connotati di modernità ma sicuramente il regno dei normanni,
fondato dalla famiglia degli Altavilla, ha qualcosa di particolare. Peculiari rispetto ad altre
istituzioni di regni, adesso vedremo perchè. In Italia intorno al 1130 scendono dei cavalieri
normanni, soprattutto del clan degli Altavilla, chiamati spesso come mercenari ma che da molto si
erano stanziati in Francia e avevano acquisito molto della cultura europea e del regno carolingio.
Scendono in Italia e due fratelli Roberto il Guiscardo e Ruggero il Gran conte ottengono facilmente
la conquista dell’Italia meridionale e proprio Roberto il Guiscardo ottiene nel 1059 dal pontefice
Niccolò II il titolo di Duca di Puglia e della Calabria mentre il fratello assume l’incarico datogli dal
pontefice di riconquistare la Sicilia che già dal X secolo era soggetta al dominio degli arabi.
Conquista che verrà ultima dal figlio di Ruggero il gran conte, cioè Ruggero II, il quale nel 1130 è
nominato, da un messo pontificio, re di Sicilia. Sarà il primo re del regno di Sicilia. Incoronato la
notte di Natale del 1130. Nasce il regno di Sicilia normanno. Già dall’incoronazione c’è un forte
richiamo simbolico all’incoronazione di Carlo Magno. Nasce una monarchia che avrà un rapporto
osmotico con la Chiesa. Nasce la legazia apostolica: questi sovrani sono legati del pontefice in
Sicilia. Rapporto di subordinazione vassallatica al pontefice, il sovrano è incoronato dal pontefice.
È un rapporto rilevante che legittima il potere del sovrano, in quanto rappresentante del pontefice.
Legazia apostolica richiamata spesso dai sovrani sia in età medievale sia moderna, per sottolineare
la loro legittimazione anche rispetto agli altri signori feudali in Sicilia e dell’Italia meridionale.
Ruggero II infeuda l’isola, ristruttura le diocesi in quanto rappresentante del pontefice. La legazia
apostolica acquista un significato fortissimo. Non è un simbolismo fine a se stesso ma è legittimante
del potere. Ruggero II esercita un vasto potere, riconquista la Sicilia dagli arabi e si trova a far
convivere pacificamente cinque popoli: normanni, longobardi, arabi, greci ed ebrei. A far convivere
tre religioni: cristiana divisa tra cattolica e ortodossa, musulmana ed ebraica. Nella politica si pone
subito al di sopra di tutto questo. Il multiculturalismo c’è ma è limitato alla corte, utilizzerà
sicuramente i modi di amministrare arabi, si avvale soprattutto del personale arabo per la gestione
delle finanze. Ma per il resto sarà effettuata una pulizia etnica degli arabi che si trovano in sicilia.
Le tracce storiche legate agli arabi confermano ciò. La mitologia nata con ruggero II da parte degli
illuministi deve essere ridimensionata. Ruggero II si trova difronte ad un regno multiculturale,
multietnico e multi religioso ma sicuramente la repressione sarà la strada più seguita per governare.
Con la professoressa pasciuta abbiamo vinto un concorso e stiamo studiando delle pergamene del
periodo normanno, pergamene latine, arabe e greche. Abbiamo un legislazione che risente molto di
questi apporti anche arabi e greci ma la cifra della repressione è presente. Ruggero II non anticipa
connotati dell’età moderna ma il suo regno ha caratteri peculiari per il legame con la chiesa.
Legame della chiesa con gli Altavilla e ruggero II. Nel momento in cui Ruggero il gran conte
assume l’incarico di riconquistare la sicilia dagli arabi diviene legato a una stabile legazia
apolostica con la chiesa. Aspetto fondamentale che dà al sovrano di sicilia dei connotati simbolici,
Ruggero II esercita un potere che avrà lo sfarzo orientale, seguendo il modello giustinianeo di porsi
al di sopra delle leggi. Un sovrano che è una divinità, lo sfarzo della corte. Vedremo il reato della
violazione del sovrano, che può consistere in un’inottemperanza, ribellione al sovrano è visto come
sacrilegio. Il sacrilegio richiama la divinità. All’inizio del corso abbiamo richiamato il vento
d’oriente che si era diffuso in occidente, a distanza di sei secoli, la visione orientale del sovrano
come divinità si rispecchia chiaramente in Ruggero II. Natura quasi mistica del sovrano, messo del
pontefice. L’incoronazione richiama componenti della storia occidentale dell’Europa. È fortissimo
il richiamo all’incoronazione di carlo nella notte di natale dell’800. Anche dal punto di vista
dell’iconografia nell’immaginario. Nasce un potere con caratteri peculiari. Ruggero inizia una
politica di riconquista del meridione e dell’isola e l’infeudazione, la creazione di feudi affidati sia a
credenti sia laici del territorio. Lui nomina anche membri della gerarchie ecclesiastiche perché è un
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rappresentante del pontefice, li nominati come signori feudali. Può farlo grazie alla legazia
apostolica. Crea nuove diocesi e mette persone di fiducia a capo di queste diocesi. Ruggero II
riorganizza la chiesa in sicilia. È il primo tra i signori feudali dell’impero. La legge era vista come
esclusiva dell’emanazione imperiale. Crea un genus nuovo di feudi, non ereditari, che alla morte del
signore non vengono ereditati dai figli ma ritornano al sovrano. Questo esercizio nuovo della
sovranità nel medioevo anche in rapporto con la legge, inizia a legiferare. Nel 1140 in un’assise,
una riunione di notabili, di feudatari maggiori del regno, in puglia ad Ariano Irpino emana l’”assisi
di ariano”, raccolta di normative composta da 44 paragrafi precedute da un preambolo in cui con
norme nuove ma anche con consuetudini, cerca di disciplinare vari ambiti del diritto. Disciplina la
giurisdizione ecclesiastica grazie alla legazia, il diritto pubblico, il diritto privato come l’istituto del
matrimonio strettamente legato al diritto ecclesiastico, il diritto penale, l’amministrazione fiscale e
in maniera dettagliata i regolamenti commerciali. Disciplina il modo di accesso alla professione del
farmacista, del medico. Cerca di fare un sintesi tra tradizioni franche (che erano ormai quelle del
popolo normanno che aveva abitato in francia), tradizioni bizantine perché l’italia era stata dominio
bizantino e trazioni arabe perché l’isola era stata appannaggio dei musulmani. Già dalla lettura del
prologo dell’”assise di ariano” abbiamo l’idea di questo sovrano semidivino. Idea forte di
sovranità. Anche nel diritto penale che prevede tre tipi di pene: pecuniarie, corporali e privative
della libertà. Il reato del sacrilegio è un reato punito anche solo se si criticata la volontà del sovrano.
Reato che deriva dalla compilazione giustinianea e dalla lex Iulia de Maiestate e dal periodo
classico romano. Principio della equivalenza del sovrano con la divinità. Il reato di lesa maestà,
commesso da chi non onora una divinità. Sono puniti comportamenti ostativi della volontà del
sovrano anche in età moderna. È stringente la repressione penale. Lesa maestà paragonata al
sacrilegio, ruggero II è da considerarsi come anello di congiunzione con l’impero romano e la
cristianità. L’aspetto sacrale del sovrano deriva sia dall’oriente sia perché deriva il suo potere dal
pontefice. Il reato può essere punito ad arbitrio del giudice fino alla pena di morte. Norma che
chiarisce i canoni della sovranità nel regno di sicilia. L’assise di ariano disciplina molti aspetti della
vita, della società normanna. Vi è un’economia agricola, vi è una tutela della produzione agricola.
Così chi incendiava i raccolti,danneggiava la produzione agricola era punito duramente. Vi era il
divieto di abbandonare le terre perché un aspetto endemico era la crisi della manodopera. Vi è una
normativa a richiami moraleggianti ed etici legati con la religione, visto il legame con la chiesa. Un
assise molto lunga riguarda il matrimonio il sovrano raccomandava di non omettere i riti
solennizzanti lo stesso e di conseguenza dichiara illegittimi i figli nati fuori dal matrimonio. Il re
ingerisce su queste materie il che è peculiare essendo una materia che riguarderà da sempre fino
all’età moderna la chiesa . Viene punito il degrado dei costumi con il taglio del naso alla prostituta,
l’adultera può essere uccisa dal marito, puniti gli spacciatori di stupefacenti, hashish e oppio, punite
le falsificazione delle monete con la pena di morte. Tutto questo ci restituisce l’immagine del regno.
Viene disciplinata la professione del medico, esame di fronte funzionari regi. E anche per il
farmacista. Ribadiamo la difesa della religione cattolica , a cui sono dedicate 13 assise essa è
fondamento del potere regio. Ruggero disciplina la religione vista la legazia apostolica che lo lega
al papa.
Esame giorno 16 ore 9.00.
Federico II di Svevia
Siamo entrati nel regno di sicilia. L’assisi di ariano, complesso normativo che ruggero II propone.
Esso farà parte sempre dello ius prorium del regno, ente particolare a base territoriale. Altro
complesso normativo che dal 1221 avrà vigenza è il liber costitutionum meglio conosciuto come
liber agustalis. Fondamentale opera di federico II, figlio di costanza di altavilla (a sua volta figlia di
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ruggero II) e dell’imperatore Enrico VI. Quindi federico II sarà re di sicilia e imperatore del sacro
romano impero. Inizierà ad esercitare il potere nel 1222, una volta raggiunta la maggiore età. Dopo
l’ultimo re normanno Guglielmo II, i signori nobili avevano usurpato i poteri regi e così federico II
riconquista il potere. Il sovrano ritorna al centro del sistema . La storiografia ne ha trattato molto,
egli è stato protagonista di crociate e venne scomunicato ben due volte. Vi consiglio di leggere
riccardo roviz che con fedrico II identifica l’atto di nascita dello stato moderno. Noi però diciamo
che non possiamo anticipare connotati moderni, ma sicuramente esercita in modo forte la sovranità.
Riconquista i territori. Come imperatore prova a mettere nel nulla la pace di costanza, provocando
la reazione dei comuni dell’italia settentrionale. E inibisce la formazione dei comuni nell’italia
meridionale. I rapporti con le città saranno regolati da patti giurati, chiamati carte di resa.
Documenti notarili dove si stabiliscono privilegi, concissioni e deroghe da parte dell’imperatore.
Ma sono concessioni limitate. In puglia e in sicilia vi erano città molto floride come trani e bari e
poi messina, catania, siracusa. Grandi centri dove federico II agisce con singoli patti con le città che
comunque rimangono sotto il dominio accentrato dell’imperatore. Vi sarà un restringimento dei
poteri dei signori feudali. Tende ad eliminare i corpi intermedi attraverso l’affermazione che tutti i
cittadini erano uguali di fronte la legge. Questo è un elemento di grande modernità. Il suo interesse
non era garantire l’eguaglianza dei cittadini quanto limitare il potere dei signori e del clero.
Riorganizza la magistrature, che sono magistrature accentrate. Organi centrali politici: il parlamento
e la magna regia curia, ovvero la corte di giustizia. Ultimo depositario del potere giudiziario è il
sovrano. A lui spetta l’ultima istanza. La giustizia penale appartiene al re. L’ambito giudiziario
viene fatto ricadere al di sotto del re, che determina le procedure, i crismi di un potere inquisitorio.
La curia esercita la giustizia perché delegata dal sovrano. Questi sono giudici regi,. Tutto il potere
giudiziario è posto sotto il re. Tutto questo discorso, riguarda l’ambito istituzionale. Per quanto
riguarda l’ambito normativo, emana il liber augustalis, testo di ius proprium del regno. Esso venne
emanato dal sovrano per il regno di sicilia. Lui è sovrano e imperatore. Ma demarca la distinzione
del testo emanato solo per la sicilia dal sovrano di sicilia. Però il liber sarà costituito da costituzioni,
che erano appunto il modo di legiferare tipico degli imperatori. Esso sarà conosciuto infatti anche
come liber constitutionum. Costituzioni Valide solo per il regno di sicilia. Normativa che reggerà
per cinque secoli, abrogava le normative precedenti ma salverà circa 65 assise di Ruggero II e
Guglielmo. La fonte consuetudinaria verrà accolta se non configgente con la normativa del sovrano.
Sarà accompagnato fin quasi da subito dall’apparato di glosse di Marino da Caramanico e dai
commentari di Andrea di Isernia e altri giuristi. Quest’opera di ius proprium, verrà sottoposta
all’armamentario interpretativo della compilazione giustinianea e del diritto canonico. Opera che
diventerà centrale e oggetto di studio della dottrina. Nell’età moderna verranno studiati i
commentari di Andrea d’isernia più che il testo del liber augustalis. Modus operandi tipico del
diritto comune. Acquista rilievo più l’interpretazione del giurista che la fonte normativa stessa .
L’opera disciplina molti aspetti della vita del regno: il diritto pubblico, il diritto penale, il diritto
privato e vari aspetti del processo penale e civile. Processo penale di stampo inquisitorio. Nel liber
augustalis sarà molto importante la constitutio puritatem, interna al liber augustalis ma verrà poi
ampliata e comincerà anche a circolare autonomamente dal 1246. Questa constitutio avrà molto
rilievo. Per la prima volta un sovrano stabilisce una gerarchia delle fonti all’interno del regno di
sicilia. Al primo posto pone il liber augustalis, se i giudici non trovano qui la risposta alla
controversia possono ricorrere alle consuetudini approvate ( la storiografia si è molto divisa su cosa
fossero, sono consuetudine che non contrastano con la normativa del sovrano, sia che siano
approvate esplicitamente o implicitamente). Se anche così non viene rinvenuta la risposta alla
controversia in via suppletiva si può ricorrere agli iura comuna, il diritto comune. Federico II
intende per diritto comune il diritto romano giustinianeo ma anche il diritto longobardo. Invito a
leggere il cortese sulle tante interpretazioni date. Il diritto longobardo era molto diffuso e applicato
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nel regno soprattutto nella parte continentale del regno come a salerno e benevento. Il diritto
longobardo era penetrato fortemente e quindi era in grado di colmare le lacune. Pur essendo il
diritto comune, il diritto romano giustinianeo.la gerarchia prevede 1. il liber augustalis, 2. le
consuetudini approvate, 3. Gli iura comuna.
Le due fonti normative di ius proprium del regno sono: l’assise di ariano di ruggero II e il liber
augustalis di federico II. Deve restare ben chiaro che il liber augustalis è di ius proprium, destinato
solo al regno di sicilia. Pur essendo formato da costituzioni e pur essendo presente il richiamo ad
augusto, imperatore.
REGNO IN GERMANIA
Il regno inglese presenta elementi di comunanza con il regno di sicilia. Dal 1066 incomincia ad
evolversi. Al regno di germania, dopo la fine della dinastia dei carolingi, l’impero vi sposta il suo
cuore. Il re di germania è anche imperatore. ad Esempio federico II di svevia è sovrano di germania,
sicilia e imperatore. In germania viene affermato il principio elettivo della successione al trono.
Elezione del sovrano. Gruppo di elettori formato dai grandi signori feudali ed ecclesiastici, che
sceglievano il re. Dapprima facendo capo ad una designazione compiuta dal re stesso, tra i suoi
discendenti, dal 1438 in poi il successore è sempre scelto all’interno della stirpe regia degli
Asburgo. Ma permane l’elezione. Questo rapporto si ha anche con i comuni, le città. Barbarossa
concesse molti privilegi ai comuni tedeschi come lubecca, brena, autonomia riconosciuta, concessa
dal sovrano. Non raggiungeranno mai il livello di autogoverno dei comuni dell’italia settentrionale.
Privilegi limitati. La monarchia tedesca si caratterizza dal 1356 con bolla d’oro, in cui viene
riconosciuta la natura della monarchia fortemente controllata dalle gerarchie feudali, ed
ecclesiastiche, dalle borghesie cittadine, mercantili ed artigiane. La forza degli apparati locali
caratterizza la monarchia tedesca.
REGNO IN FRANCIA
Tra il 900 e il 1000, si ha il regno di Francia dal 987 con Ugo Capeto. Dopo gli ultimi re carolingi,
il sovrano è alla stregua degli altri signori feudali. Ugo capeto, capostipite della dinastia dei
capetingi deve cosi ergersi al di sopra degli altri signori feudali e lo farà tramite politiche
matrimoniali, guerre e alleanze, la diplomazia. Tende a raggiungere il suo obiettivo: riconquistare il
suo regno. Anche grazie a una rigida successione al trono basata sul principio ereditario della
primogenitura maschile. È il primo dei signori territoriali. Il sovrano francese si staglia sugli altri
signori. Il monarca francese, inizia a non riconoscere altre autorità al di sopra di lui all’interno del
suo regno, dal 1202 papa innocenzo III aveva espresso il principio che il sovrano di francia non
riconosceva superiori per gli affari temporali, quindi non riconosce nemmeno l’imperatore. Il regno
di francia formalmente fa parte dell’impero. Già dal 1100 c’è questa idea ad esempio il re onorio III
aveva vietato lo studio di diritto romano giustinianeo alla Sorbona perché voleva evitare l’ingresso
di un diritto di matrice imperiale nel suo regno. La francia era divisa in due parti: i pays de droit
coutumier a nord di parigi dove erano diffuse la consuetudini e i pays de droit écrit dove era
diffuso il diritto scritto, il diritto romano giustinianeo. A nord città e comuni con autonomia
limitata. Nel sud della francia, legami con i comuni dell’italia settentrionale e quindi appunto sono
realtà più simili ai comuni italiani, godono di autonomia. Esempi sono Montpellier e Avignone.
La normativa del sovrano anche in germania e francia costituisce fonte di diritto proprio,
promanante dal regno e indirizzato al regno. Iura propria degli enti particolari.
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LO IUS MERCATORUM
Vi erano iura propria emanati da enti a base personale. Dimensione cetuale della società medievale.
Lo ius mercatorum, il diritto dei mercanti. Economia curtense, il commercio era limitato. Erano
presenti solo mercanti di merce preziosi, che nei vari castelli portavano merci preziosi dall’oriente.
Con la rinascita delle città, i mercati all’interno del comune rinascono. Corporazioni di mercanti
confraternite, associazioni formano lo ius mercatorum. Un diritto a base personale. Si diffonde una
consuetudine transnazionale, che ha notevole forza espansiva per garantire la certezza del diritto.
Nei vari luoghi di mercato, parigi, venezia deve esserci un diritto costante nelle varie sedi di
commercio. Un diritto proprio dei mercanti per garantire la sicurezza dei commerci. Consuetudini
comuni. Si forma una giurisprudenza comune e anche dei tribunali mercantili, un foro privilegiato
dei mercanti, retti dai mercanti la controversa deve essere risolta in modo semplice e veloce con
una procedura semplificata. Si ha il contaratto di assicurazione per i viaggi sul mare in caso di
naufragio delle merci, la cambiale, la girata. Consuetudine internazionale. Disciplina uniforme.
Nasce in un luogo per poi espandersi. Verrà applicato nei rapporti mercante e non mercante, che
entra in contatto con un mercante. Diritto autoformato e da loro gestito e interpretato. In età
moderna i sovrani inizieranno a statalizzare il diritto dei mercanti e si passerà da uno ius
mercatorum alla lex mercatoria, si inizia a legiferare anche sull’essere mercante. Prima si diventava
mercanti per cooptazione, lo diventavano i figli dei mercanti poi dal 1600 i sovrani davano delle
autorizzazioni per diventare mercanti. si appropriano di questo diritto, diventerà una branca del
diritto dei sovrani. Le società dei mercanti saranno protagoniste per conquistare il nuovo mondo, le
compagnie delle indie sovvenzionano i viaggi di scoperta e dopo la colonizzazione dei nuovi
territori, i sovrani attribuiscono loro dei monopoli su certe merci. Nel periodo medievale invece è
ancora uno ius proprium gestito dai mercanti. la figura del mercante avrà una grande evoluzione. La
chiesa non vede di buon occhio i mercanti almeno ancora fino al 1110. In francia nel 1016 in una
costituzione Alberone, un vescovo scrive che la società medievale era divisa tra coloro che pregano,
coloro che combattono e coloro che lavoravano. Il mercante era visto come colui che accumulava
denaro, una visione negativa. La chiesa Condannava il prestito ad interesse, visto come peccato. La
chiesa accetterà il ruolo del mercante. In molti manoscritti si evince che, i mercanti si arricchiscono
e diventano punti di rifermiento dei comuni sovvenzionano i sovrani. Spesso in punto di morte i
mercanti davano i loro beni agli enti ecclesiastici e muoiono poveri in convento proprio per espiare
la loro colpa. Poi con i viaggi di colonizzazione, i mercanti vengono visti come dei pellegrini che
viaggiano per andare a convertire. Nel comune podestarile, la classe mercantile sarà il ceto
fondamentale.
Lo ius mercatorum, si applica ai mercanti. è uno ius proprium, a base personale. Lo è anche il
diritto longobardo. Tutti i diritti non promanati dai due enti universali chiesa e impero sono diritti
propri.
LO IUS COMUNE
Coloro che lo rilevano dal 1110 nel periodo bolognese, non vi era una definizione di ius comune.
Perché non c’era una definizione nel mondo romano. C’era un diritto comune associato ad altri e
per distinzione dagli altri capiamo cosa fosse. Per Gaio tutti i popoli che sono retti da leggi
utilizzano il proprio diritto e il diritto comune a tutti i popoli. Quindi un diritto civile, dei romani e
uno ius gentium, di tutti gli uomini, ovvero lo ius comune. Poi vi era Salvo giuliano che sosteneva
che da una parte esisteva lo ius comune e dall’altra lo ius singulare di alcuni categorie di soggetti.
come lo ius militare e fa un esempio nel caso in cui un tribuno militare faccia un testamento
nell’accampamento e poi arriva un altro tribuno che lo sostituisce quindi lui non è più tribuno.
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Questo testamento non avrà più rilievo come ius singulare. Ma avrà rilievo solo per il diritto
comune. Anche lui vede il diritto dei romani che si contrappone al diritto particolare, dei militari.
Quindi non esiste una definizione di diritto comune. Officina di diritto comune è quella bolognese e
abbiamo visto come fonti: il diritto romano giustinianeo, il diritto canonico e la interpretatio del
giurista che rende attuabili queste fonti. La storiografia fin all’800-900 vedeva il diritto comune
come diritto romano ammodernato nei secoli medievali. A partire da francesco calasso nel 1900 si
parla del diritto comune come creazione tipicamente medievale, non si trattava di un diritto romano
ammodernato. Calasso afferma: “il diritto comune è il grandioso fatto storico dell’età intermedia,
per cui il diritto romano giustinianeo e il diritto canonico restituito proprio dalla scuola di bologna
fu considerato come diritto vigente fino alla pubblicazione delle codificazioni dell’età moderna.”
Calasso è siciliano e ad erice ogni anno si fa un convegno sul diritto comune, nel 1978 lo storico
tedesco peter weimar sostiene calasso sulla centralità del diritto comune nel medioevo però afferma:
“c’è un malinteso da dissipare che il diritto comune abbia avuto vigore normativo e che questo
vigore gli sia stato tolto dalle codificazioni. Non è così. Il diritto comune non ha mai avuto vigore.
E non è mai stato abrogato”. Non è un’affermazione in contrasto con calasso, il diritto comune vive
al di là della sua vigenza. Il diritto comune durante il periodo dei comuni, disciplina quegli aspetti
del diritto lasciati vuoti dagli statuti comunali che si occupavano inizialmente di diritto penale.
Aveva carattere supplitivi, quando non si riusciva a risolvere una controversia vi si faceva ricorso.
Gli statuti comunali poi iniziano disciplinare sempre più materie. Ma dopo il periodo di auge del
diritto comune tra 1100 e 1400 rimane il modus operandi del diritto comune anche se non più come
dirittomvigente perché disciplina sempre meno materie ma resta il metodo del diritto comune.
Possiamo dire che se il diritto comune ha le basi sul diritto romano giustinianeo, il diritto canonico e
come dice paolo grossi anche sull’interpretatio dei giuristi, che rende le fonti vigenti e applicabili,
efficaci. Grossi, Calasso parlano di un sistema di diritto comune. Si hanno Due entità quasi
contrapposte il diritto proveniente dagli enti universali e il diritto che proviene dagli enti particolari.
Il ragionamento del diritto comune resta. Le scuole del diritto comune, i glossatori, i commentatori
si occupano del diritto comune. Rientrano nello stesso sistema:la scientia iuris. La distinzione per
materie degli statuti è tipica del diritto comune. Si occupano di queste fonti i giuristi che si sono
formati a Bologna. Il commentario di andrea d’isernia circolerà più del testo del liber augustalis
perché l’opera acquista così efficacia. Le normative del sovrano poi discipliranno sempre più
ambiti. Le decisioni dei tribunali sono anche fonti del diritto comune, ne riprendono il ruolo di
precedenti giudiziari. Il giudice sceglieva le opinioni dei giuristi più importanti, come Baldo e altri
giuristi, da ciò deriva la valenza autoritativa della scientia iuris, dei consilia che si formano in
queste università di diritto comune. Il diritto comune dà lo scheletro del ragionamento, raccoglie
soluzioni insieme alla interpretatio è tutto questo il diritto comune per comprenderlo abbiamo il
macrosistema diritto comune e diritti particolari uniti dai giuristi nella scientia iuris.
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LE SCUOLE

Nell’Alto Medioevo la cultura è di tipo enciclopedico, che ricomprende anche il diritto e in cui si davano
nozioni generali frutto di un sapere generalistico. Il testo usato per l’insegnamento e la formazione scolastica
erano le ETIMOLOGIE di Isidoro da Siviglia che davano nozioni generiche in quanto il diritto era poco
tecnico.
I pratici del diritto (notai e giudici) maneggiavano la consuetudine in quanto il diritto dei testi giustinianei
era troppo complesso; infatti, i Digesta scompaiono, venivano usati un po’ i 9 libri del Codex, un po’ le
Novellae, ma soprattutto le Istituzioni che erano un testo più semplice, adatto ad una società semplice, una
società curtense in cui le esigenze erano veramente semplici e bastava questo diritto.

L’ANNO MILLE.

L’anno mille segna un momento di rinascita demografica ed economica. Infatti, aumentano le nascite e
rifioriscono i commerci non solo di beni di lusso –come nell’Alto medioevo- ma di tutti i tipi di beni
(commercio su vasta scala). Si sviluppa un’agricoltura di stampo intensivo e questo ha comportato un
miglioramento della produttività.
È dunque necessario un diritto più complesso per far fronte a queste nuove esigenze, soprattutto quelle dei
mercanti, ceto in ascesa in questo periodo.

Da un punto di vista istituzionale, l’impero ritrova la sua unitarietà transitando verso l’area germanica-
tedesca, dopo i secoli di sgretolamento successivi alla morte di Carlo Magno quando i territori dell’impero
erano stati divisi tra i vari eredi.

Da un punto di vista psicologico, si avverte l’idea di uno scampato pericolo vista la credenza diffusa dalla
chiesa che l’anno mille avrebbe portato alla fine del mondo.

Tutti questi cambiamenti fanno sì che il diritto fatto di costumi che si trasformano in consuetudini vincolanti
non sia più sufficiente, per cui è necessario un nuovo diritto. Ma quale?
Intorno al 1100, con la Scuola di Bologna, si andò a ripescare il diritto giustinianeo, diritto antico,
autorevole e valido in quanto promanante da un imperatore, e che verrà reso anche efficace.
Però la scuola di Bologna non nasce dal nulla; infatti, ci saranno una serie di eventi che riporteranno alla
rinascita del diritto e alla riscoperta del diritto bolognese. Tra questi, la scuola di Pavia.

LA SCUOLA DI PAVIA.

Ci troviamo in un periodo di grosso fervore teologico e la scienza teologica ha dei risvolti nel diritto. Infatti,
siamo nel periodo della Riforma gregoriana in cui vi è una profonda rinascita anche nella chiesa e una
battaglia tra chiesa e Impero in cui sia l’una che l’altro saccheggiano le biblioteche per trovare fonti romane
che legittimino le loro pretese.
Da questo punto di vista, ci sono importanti scuole teologiche (come la Scuola di Chartres o la Scuola di
Parigi) in cui si inizia un’attività esegetica sulla Bibbia, utilizzando le glosse ad opera di personaggi quali
Fulberto di Chartres o Lanfranco da Pavia.

In questo periodo nascono raccolte canoniche che contengono varie citazioni della compilazione
giustinianea; ad esempio, il c.d. Brachylogus iuris civilis (detto anche Corpum legum), raccolta di diritto
che è una summa (cioè una sintesi) alle Istituzioni, probabilmente nata in ambiente ecclesiastico intorno
all’XI sec.

Dal punto di vista dell’insegnamento, l’unica scuola preirneriana di cui abbiamo certezza è la SCUOLA DI
PAVIA, il cui grande studioso è Merkel, citata da Lotario già nell’825 nel capitolare olonese, un capitolare
ecclesiastico che riorganizza gli studi nelle sedi ecclesiastiche; quindi è certo che era una scuola di arti
liberali.
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Questo ci dimostra che, fino all’anno mille, l’insegnamento era prerogativa degli ecclesiastici che lo
praticavano nelle cattedrali in città e nelle sedi monastiche in campagna, trattandosi dunque di un
insegnamento pur sempre religioso.

Pavia era una città importante, capitale del regno italico con i Longobardi e che continuò la sua funzione
anche sotto i Franchi. Era la sede del palatium, sede amministrativa dove si amministrava la giustizia.

Accanto alla scuola di arti liberali si venne a formare un insegnamento che definiamo scuola perché nel
1800 sono stati trovati dei manoscritti da uno studioso tedesco che hanno fatto propendere per affermare
l’esistenza di questa scuola di diritto.
Questo insegnamento pavese aveva però ad oggetto diritto germanico, in particolare diritto franco-
longobardo, e non diritto romano giustinianeo.
Ciò è dimostrato da tre opere fatte a Pavia che contengono diritto franco-longobardo, che sono:

 Il Liber Papiensis  chiamato Libro di Pavia, risalente alla fine dell’XI sec., conteneva editti dei re
longobardi – da Rotari fino agli editti di Astolfo, fino alla metà del 700 – e capitolari franchi,
contenuti nel capitolare italicum destinato alla penisola italica, ed erano capitolari che andavano da
Carlo Magno fino ad Enrico II (fino al 1014). Tutto il materiale era organizzato secondo un ordine
cronologico, dal più antico al più recente.

 La Lombarda  vedeva la distribuzione dello stesso materiale in ordine sistematico e non


cronologico; quindi schematizzava la materia per argomenti. L’ordine sistematico utilizzato richiama
la distribuzione sistematica che Giustiniano fece nel Codex (obbligazioni, contratti, ecc.).
Quest’opera ebbe un grande successo tanto da soppiantare il Liber Papiensis, pur avendo lo stesso
contenuto, perché l’ordine sistematico rendeva più aderente l’opera alle esigenze della pratica.

 L’Expositio ad librum papiensem  capolavoro della scuola longobardistica, si tratta della


spiegazione del Libro di Pavia. Databile attorno al 1070, è un’opera di carattere esegetico cioè
destinata prioritariamente alla scuola. L’opera è un commento analitico e tecnico dove vengono
spiegate le norme del Liber papiensis, dove l’autore anonimo (expositor) dà informazioni sul diritto
romano e il suo ruolo; infatti, parla di tre generazioni di studiosi e dei loro orientamenti: gli
antichissimi, che conoscevano il diritto romano, gli antichi che iniziavano a conoscerlo e i moderni
che cominciarono nuovamente ad applicarlo.
Inoltre, dice quale sia il diritto longobardo e che, laddove tale diritto nulla disponga, si potrà usare il
diritto romano che è da considerarsi lex generalis omnium (legge generale di tutti). Quindi, il diritto
romano è visto a Pavia come un diritto a carattere suppletivo che colmava le lacune del diritto
franco-longobardo.
Sempre all’interno di quest’opera troviamo anche alcune citazioni della compilazione giustinianea, in
particolare delle Istituzioni e dell’Epitome codicis (altra prova che il Digesto è scomparso).

Grazie a quest’opera, conosciamo l’insegnamento del diritto a Pavia, di questa scuola dedicata ex professo al
diritto dove il diritto acquista il ruolo di scienza autonoma. Quindi è effettivamente possibile parlare di
scuola perché ha una sua continuità -dove è importante il ruolo riconosciuto al diritto romano- perché
addentrandoci nello studio dell’Expositio, vi è un arco cronologico di circa 70 anni in cui l’autore parla di tre
generazioni di studiosi, la più vecchia delle quali risale a circa 70 anni prima dell’opera, un evento
continuativo della scuola. È una scuola sempre di diritto franco-longobardo, una scuola preirneriana, prima
di Irnerio e prima di Bologna. Pavia è una di quelle lucette che poi ci avvicina alla scuola di Bologna, è uno
di quei sintomi culturali dell’insegnamento.

Non si sa per certo se accanto a Pavia vi fossero altre scuole di diritto pre-irneriane. Si è parlato di una
scuola di Ravenna o Roma, ma non si sa se siano scuole realmente esistite.
Certamente si sa che è esistita la scuola di Pavia dove vi era uno studio autonomo del diritto, accanto alla
famosa scuola di arti liberali.

Il Placito di Marturi.
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Ci stiamo avvicinando al grande evento del RINASCIMENTO GIURIDICO in cui viene riscoperto il
diritto romano giustinianeo a Bologna.

Il ritorno più luminoso nella prassi giurisprudenziale e del diritto vivo riguarda quella parte della
compilazione che nel Medioevo è stata più trascurata e non studiata: i Digesta.
Ritornano per risolvere una controversia nel Placito di Marturi, importante processo tenutosi intorno al
1076 a Marturi (odierna Poggibonsi, in Toscana), nei possedimenti dei Canossa presso il tribunale feudale
dove vi era il giudice Nardilo, messo alle dipendenze dei Canossa.
Il monastero di San Michele rivendicava dei possedimenti, ricevuti 80 anni prima dal marchese Ugo di
Toscana, che erano stati usurpati dal marchese Bonifacio (vassallo dei Canossa) che amava spogliare chiese
e conventi a vantaggio proprio e dei propri vassalli.
Il monastero aveva sollecitato invano la restituzione ed era scattata la prescrizione quarantennale per cui il
possessore si riteneva al riparo da qualsiasi azioni di rivendica.
Rimasta reggente la vedova Beatrice di Canossa, sapendola più propensa a favorire i conventi, il monastero
ritenta la sorte, dopo tanti anni non avendo mai trovato un giudice disposto a risolvere la controversia, nel
Placito di Marturi nel 1076.
Il giudice Nardilo aggira l’ostacolo della prescrizione, invocando un passo inconsueto di Ulpiano contenuto
nei Digesta in cui si nominava l’istituto della restitutio in integrum (il ripristino della situazione giuridica
precedente al sopruso in oggetto).
L’istituto era previsto per i minorenni, ma anche per i maggiorenni in soli due casi:
 Assenza prolungata nell’esercizio di un ufficio pubblico;
 Mancanza dei giudici a cui ricorrere, cioè la denegata giustizia che il monastero aveva patito in
questa fattispecie.

Il ricorso a questo passo di Ulpiano, contenuto anche nel Brachylogus iuris civilis, è sintomo della
riemersione della compilazione giustinianea.

Nel Placito di Marturi troviamo la figura di Pepo, identificato come legis doctor (qualifica che designerà i
professori di diritto romano), che siede accanto al giudice Nardilo fra i consulenti del tribunale feudale.
Per la storiografia giuridica Pepo diventa il simbolo della cultura preirneriana perché oltre a trovarlo a
Marturi, Odofredo (giurista duecentesco che è la memoria storica di questo periodo pre-bolognese) ci dice
che Pepo fu il primo ad insegnare il diritto romano giustinianeo a Bologna ancor prima di Irnerio. Tuttavia
non abbiamo la certezza che sia lo stesso Pepo di Marturi.

Sempre questo Pepo ricompare, citato in un manoscritto di una summa al Codex del 1200, un’operetta di
scarso rilievo di ambiente francese, come un soggetto che insegnò diritto a Bologna e che spiegò il contratto
di mutuo. Il manoscritto dice, appunto, che Pepo spiegò il mutuo come “quello che è mio diviene tuo”,
spiegandolo dunque con parole molto semplici.
Di questo Pepo bolognese ci parla anche Rodolfo il Nero, un teologo normanno, il quale afferma che Pepo in
un processo importante, in cui era presente anche l’imperatore Enrico IV, sostenne la pena di morte nel caso
del reato di uccisione del servo (tale pena era prevista nel diritto romano giustinianeo) in luogo, invece, della
composizione pecuniaria che era prevista nel diritto germanico.

È lo stesso di quello di Marturi? Non lo sappiamo, ma secondo Cortese no.


Ciò che importa sottolineare è che già in periodo preirneriano ricompaiono i Digesta. Non si sa se questi
professionisti li conoscessero integralmente o meno, ma ciò che importa è che il diritto romano giustinianeo
viene ripreso e utilizzato già in questo periodo preirneriano, dimostrandoci che la rinascita del diritto romano
giustinianeo a Bologna non sia un evento miracolistico.

LA SCUOLA DI BOLOGNA.

La nascita della Scuola di Bologna è avvolta nel mistero. Si parla di un insegnamento bolognese datato fra
il 1102 e il 1128. Bologna sarà la prima università laica dedicata al diritto, dotata di un’organizzazione
stabile.
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Il suo fondatore è Irnerio, primo maestro di diritto romano giustinianeo sul quale sappiamo molto poco
perché i documenti che lo riguardano coprono pochi anni della sua vita.
Sappiamo che aveva discendenze teutoniche (di origine germanica), confermate anche dal fatto che
l’imperatore Enrico V lo avesse nominato giudice imperiale e lui era solito scegliere come persone di fiducia
solo i connazionali.

Fu maestro di arti liberali e, forse, anche un chierico.

Secondo alcune fonti recenti, citate anche da Padoa Schioppa, Irnerio operò fra il 1112 e il 1125 come
avvocato e giudice nell’area bolognese ed emiliana sotto il dominio della famiglia dei Canossa.
Da qui il rapporto di Irnerio e Matilde di Canossa che incontrò personalmente in un placito nel 1113, in cui
Matilde di Canossa gli fece la proposta (petitio) di renovare i testi delle leggi e, dunque, di rinnovare la
compilazione giustinianea.

 Cosa si intendeva per renovare?

Sul contenuto di questa petitio la storiografia si è molto interrogata.


Tra le varie interpretazioni, quella che è maggiormente accreditata è quella secondo la quale Matilde chiede
ad Irnerio di riportare i testi giustinianei al loro antico splendore e, quindi, nella loro versione
originale, sfrondandole da quelle versioni epitomate, riassuntate, corrotte che circolavano nell’Alto
Medioevo e di fare per quanto possibile un’edizione critica, ovvero un’edizione il più possibile vicina
all’originale.

Questa petitio è sicuramente verosimile per una serie di ragioni:


- Irnerio è un pratico che opera veramente nell’area territoriale dei Canossa;
- È un insegnante di arti liberali;
- E l’oggetto dello studio di Irnerio sarà veramente la compilazione giustinianea: egli la studia, la
ricompone e mentre la spiega, apprende lui stesso e riporta la compilazione alla sua integrità
originaria.

Irnerio e i suoi allievi, prima di tutto, ricomporranno la compilazione giustinianea: ritroveranno


manoscritti dei Digesta, del Codex e delle Novelle, li metteranno insieme per restituire integrità al testo e li
distribuiranno in una forma di libri legales, detti anche Vulgata o littera bulugnensis.
I libri legales sono oggetto di studio della scuola di Bologna e di Irnerio e sono quei libri sui quali, i
giuristi bolognesi a partire da Irnerio insegnando studiano anche. Imparano e riscoprono la
compilazione giustinianea.

Questo grosso libro manoscritto veniva messo al centro in una sola copia –in quanto molto costosi- e il
maestro spiegava.

Irnerio risistema la compilazione, nella struttura dei libri legales, in 5 volumi scritti su pergamena:

1) nel primo volume vi sarà il Codex che comprendeva i soli primi 9 libri del codice di Giustiniano;
2) poi avremo Digestum vetus che comprendeva i libri del Digesto da 1-24;
3) il Digestum inforitiatum che conteneva i libri dalla fine del 24-38;
4) il Digestum novum che conteneva i libri dal 39-50;
5) poi avremo il V volume detto appunto Volumen che conteneva - le restanti parti della compilazione - le
Istituzioni, le Novelle giustinianee suddivise in 9 collezioni nell’edizione dell’Authenticum* (edizione
reputata autentica dagli studiosi bolognesi), poi avremo anche i libri dal X al XII del Codice. Più tardi si
inseriranno in questi libri legales anche (testi di cui ancora non abbiamo parlato) i libri feudorum e il
testo della Pace di Costanza del 1183 e alcune costituzioni imperiali dei secoli XII e XIII.

 Come nasce la scuola di Bologna?


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La scuola di Bologna non nasce subito come un’istituzione universitaria (questa sarà tarda, intorno al 1200).
Inizialmente, lo studium bolognese era organizzato secondo il rapporto di stampo privatistico: qui si fa
riferimento al contratto di societas del diritto romano, in virtù del quale vi erano dei maestri (dominus)
che accoglievano dei discepoli (soggetti che volevano studiare i testi della compilazione giustinianea) presso
il proprio domicilio, li ospitavano e insegnavano loro la compilazione, ricevendo in cambio una colletta,
ovvero il pagamento di una somma di denaro.

Bologna nasce così e fino agli inizi del ‘200 opera in questa forma privatistica: ci sono vari maestri e vari
insegnamenti, ma non abbiamo programmi ufficiali né esami. Il maestro, quando riteneva l’allievo
meritevole, lo introduceva nella cerchia dei docenti di diritto, facendolo diventare a sua volta dominus, dopo
una pubblica dissertazione, magari nella cattedrale.

Irnerio è il primo maestro, ma ci saranno 4 generazioni di glossatori –tanto che questa scuola prende il
nome di scuola dei glossatori- che insegneranno dal 1100 fino alla metà del 1200.

Questo modo di studiare bolognese acquista in poco tempo notorietà tanto che i rampolli delle famiglie più
importanti d’Europa vanno a studiare diritto a Bologna; poi tornano al paese d’origine dove tramandavano lo
studio bolognese e creavano nuove scuole, diffondendo così la cultura e il metodo bolognese e la
conoscenza della compilazione giustinianea.

La notorietà di questo studio è tale che se ne interessa anche l’imperatore Federico Barbarossa che nel
maggio 1155 emana una costituzione, la Constitutio Habita, con lo scopo di favorire gli studenti che vanno
a studiare diritto a Bologna, prevedendo per costoro una serie di privilegi.
Si tratta di un trattamento di favore che prevedeva:

- Un salvacondotto per i dazi doganali che permetteva loro di non pagare i dazi doganali nel viaggio;
- Istituzione di un foro privilegiato che sottraeva gli studenti di Bologna alla giurisdizione ordinaria
facendo sì che questi venissero giudicati o dal foro o dal proprio dominus (che è colui che forma lo
studente, lo ospita e ha con lui un rapporto intimo);
- Istituzione di un deterrente per il quale se si rubava allo studente bolognese era come rubare
all’imperatore stesso e, dunque, questi soggetti venivano sottoposti a pene gravissime;
- Istituzione dell’esonero del diritto di rappresaglia in virtù del quale il creditore in caso di insolvenza
del debitore può soddisfarsi nei confronti di qualsiasi componente della stessa natio del debitore. Tale
diritto di rappresaglia non poteva essere vantato nei confronti dello studente bolognese.

L’imperatore fa questo trattamento di favore nei confronti degli studenti bolognesi perché si aspettava dal
diritto romano giustinianeo risposte confacenti alle politiche imperiali, dato che si trattava di un diritto
promanante da un imperatore fortemente autocrate quale era Giustiniano.

Questo si realizza ben presto. Infatti, nel 1158, Federico Barbarossa convoca i 4 allievi diretti di Irnerio
(Martino, Bulgaro, Ugo e Jacopo), detti i quattro dottori, nella Dieta di Roncaglia per chiedere loro di
risolvere il problema degli iura regalia, cioè di quei diritti di stampo pubblicistico legati al fare leggi ed
imporre tributi.
La domanda era se questi iura regalia spettassero all’imperatore oppure ai Comuni, cioè a questi enti
particolari a base territoriale, diffusi soprattutto nell’Italia settentrionale. I Comuni dovevano essere
organismi all’interno dell’impero, ma avevano una così ampia autonomia che, in realtà, esercitavano potestà
pubblicistiche.
Barbarossa chiese ai 4 allievi e questi risposero sulla base del diritto romano giustinianeo che queste
regalìe spettassero all’imperatore.
Ovviamente la risposta, derivante da una legislazione filo-imperiale, non poteva che essere confacente alle
pretese imperiali.
Ciò dimostra il rilievo che acquistano questi insegnanti bolognesi, considerati depositari del sapere e della
compilazione giustinianea.
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Nel corso del ‘200, gradualmente, la sede viene istituzionalizzata e nasce l’Alma mater con un piano di
studi ed esami istituzionalizzati. Quindi nel 1252, in Occidente, nasce la prima università pubblica, statale
e laica.
Anche i maestri inizieranno ad avere un rapporto organico, ma non più con gli studenti; difatti, da un lato
abbiamo gli studenti e, dall’altro, i maestri stipendiati dal Comune di Bologna. Quindi nasce una
struttura pubblica.

Ma ancor prima, nel 1219, papa Onorio III dispose che il coronamento degli studi venisse celebrato con una
solenne discussione di laurea nella cattedrale di San Pietro alla presenza dell’arcidiacono.
Quindi, la laurea – agli inizi del 200- fu tale per cui fattualmente Bologna dava licenzia ubique docendi,
cioè chi usciva da Bologna era docente di entrambi i diritti (canonico e civile), riceveva l’anello, la toga e
diventava doctor.

Giovanni Bassiano, giurista e insegnate di diritto a Bologna, alla fine del XII sec., ci informa su come si
svolgevano le lezioni a Bologna.
Il termine “lezione” deriva dal latino lectio, ovvero leggere. Infatti, il maestro dava lettura dell’unico testo
disponibile, si analizzava linguisticamente e letteralmente il frammento e da questo si estraeva il casus,
ovvero il principio giuridico enucleato nella norma, e da questa prima sommaria analisi seguiva l’esegesi
vera e propria del testo con l’interpretazione letterale, parola per parola, della proposizione  la glossa, che
è, appunto, una spiegazione parola per parola della proposizione e che dà il nome alla scuola dei glossatori.

A questa attività esegetica seguiva un’attività esegetico-sistematica dove il testo esaminato veniva messo a
confronto con altri frammenti che contenevano lo stesso istituto giuridico, presi da altre parti della
compilazione che potevano però disciplinarlo in modo diverso in quanto ogni parte della compilazione
rappresenta un momento diverso del diritto romano.
Attraverso l’opera di interpretazione si cercava di far combaciare e conciliare le varie norme perché per il
glossatore non potevano esservi discrepanze o antinomie all’interno del corpus giustinianeo –visto
come testo sacro che, tramite l’imperatore, promanava direttamente da Dio- che veniva inteso come un
unicum monolitico –e non, invece, come un insieme di opere distinte- e, dunque, si ricorreva
all’argomentazione per superare possibili antinomie.

Il frammento analizzato veniva poi preso come spunto per porre questioni ipotetiche o concrete che
riguardavano fattispecie non previste da Giustiniano nella sua compilazione. La soluzione a tali quesiti era
da ricercare in altre fonti oppure attraverso artifizi interpretativi, quali l’analogia.

L’obiettivo dei glossatori era quella di rendere questa compilazione che per loro era valida in quanto
autorevole, anche efficace. Per fare ciò dovevano inserire fattispecie che Giustiniano non poteva prevedere
secoli prima e ammodernare la compilazione attraverso l’interpretazione e lo strumento analogico,
modificando profondamente il testo e creando qualcosa di nuovo. Qui siamo all’interno dell’officina del
diritto comune.

In questo contesto, il grande assento è lo Stato che si disinteressa del diritto. Quindi, il giurista si trova nella
condizione di dover rendere la compilazione applicabile, estendendo in maniera analogica il significato della
compilazione a fattispecie non previste, creando qualcosa di nuovo.
L’interpretatio del giurista non è un’interpretazione vincolante in quanto il giurista non è né principe né
giudice, ma è probabilis ed è creatrice di diritto; quindi, se da un lato ha una forma di ossequio nei confronti
della compilazione, dall’altro lato deve corromperla per renderla applicabile, creando diritto nuovo.

Le antinomie e la lex de imperio Vespasiani.

I glossatori vedono la compilazione come un unicum e non concepiscono antinomie all’interno del sistema.
Quando le antinomie si presentano, cercano di superarle considerandole apparenti o rendendole tali.
Un’antinomia importante è contenuta in una glossa attribuita ad Irnerio. Vi sono due passi:
 Uno dei Digesta che riporta il pensiero di Salvio Giuliano il quale ammette la desuetudine delle
leggi, ovvero la capacità delle consuetudini di abrogare le leggi;
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 E un altro del Codex che riporta una costituzione di Costantino il quale afferma che la
consuetudine non può abrogare la legge, anche desueta.

L’antinomia è palese e Irnerio la risolve facendo riferimento alla lex de imperio Vespasiani del 69 d.C.
ovvero quella lex con cui il popolo aveva consegnato tutto il potere all’imperatore, anche il potere di fare le
leggi. Irnerio, per superare l’antinomia, dice che Salvio Giuliano scrive prima di questa lex e, dunque, era
ammissibile che la consuetudine potesse abrogare la legge. Dopo la lex de imperio, questo non era più
possibile.
Ovviamente, Salvio Giuliano scrive dopo la lex de imperio e se Irnerio lo sapesse o meno, noi non lo
sappiamo. Usa però questo escamotage per superare l’antinomia in quanto l’obiettivo dei glossatori era
quello di restituire unitarietà alla compilazione.

Questo sarà un modus operandi contro il quale si scaglieranno profondamente gli umanisti in età moderna,
coloro che criticheranno fortemente questi glossatori, visti come degli invasati che erano forieri di
interpretazioni sbagliate, storiograficamente emendabili, quindi errate, perché loro mettevano tutto a servizio
di un’idea, erano fortemente ideologici: la loro idea era la compilazione al centro, la compilazione vista
come monolitica e per loro era difficile anche pensare che Giustiniano modificasse se stesso.

Di questa visione del testo giustinianeo come unicum fanno le spese anche le novelle giustinianee, cioè le
costituzioni nuove che Giustiniano fa dopo il Codex e con cui modifica alcune discipline dettate nel Codex
stesso.
Per i glossatori le novelle sono difficili da accettare perché non accettavano l’idea che anche Giustiniano
modificasse sé stesso.
L’Epitome Iuliani non viene accettato perché già da subito viene considerato non veritiero; ma anche
l’Authenticum faticherà ad essere accettato. Infatti, Irnerio e i primi maestri bolognesi criticheranno il
carattere stilistico di queste novelle rispetto a quelle contenute nel Codex (perché più brevi o troppo diverse
stilisticamente) e, dunque, difficilmente risalenti a Giustiniano, considerandole come fonti non veritiere e
non genuine.
Quando poi, con molta fatica, verrà accettato l’Authenticum, esso verrà inserito nel Volumen, ultimo dei 5
volumi dei libri legales.

La scuola di Bologna, in realtà, non era monolitica; infatti, vi erano diverse generazioni di glossatori
all’interno delle quali vi erano diverse fazioni interne in contrapposizione che divergevano
nell’interpretazione delle leggi.

La più nota diatriba è quella tra due allievi di Irnerio: Bulgaro e Martino Gosia.

Bulgaro era sostenitore del rigor iuris, cioè dell’interpretazione e applicazione letterale della legge in
senso stretto (legicentrismo); Gosia, invece, diede vita ad una corrente, la c.d. CORRENTE GOSIANA, e
sosteneva che nell’interpretazione della legge bisognasse far entrare anche altri elementi non giuridici, ma
elementi di giustizia come l’aequitas, o i valori etici tratti dal diritto canonico al fine di unire i due sistemi di
diritto.

L’aequitas è quel principio che, in qualche modo, crea un ponte tra il diritto naturale e la legge, ovvero quel
principio di giustizia che si applica al caso concreto. È semplicemente un modo per far entrare nel diritto
civile (diritto positivizzato) il diritto naturale (diritto che sta nella natura, nel creato al di sotto del quale vi è
lo ius gentium, ovvero il diritto comune a tutta l’umanità).

Irnerio distingueva tra:


- Aequitas rudis  è l’equità grezza che sta nella natura e il compito del legislatore è quello di
trasformarla in aequitas constituta;
- Aequitas constituta  Il legislatore dare una forma all’equità della natura e caricarla di autorità,
racchiudendola in un atto volitivo che è la legge. In questo modo si trasforma il diritto naturale in
diritto civile, pur restando comunque due ordini diversi.
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Alla corrente di Gosia si opposero Bassiano, Azzone e Odofredo che lo accusavano di trarre l’equità
arbitrariamente dalla propria coscienza e di farla dominare e prevalere sulla legge.
In realtà, leggendo le sue glosse, ciò non è vero perché Gosia appare più fedele al dettato normativo rispetto
a Bulgaro.
Questa diatriba ebbe delle ripercussioni pratiche per quanto riguarda l’interpretazione di un rescritto di
Alessandro Severo contenuto nel Codex.

Il rescritto parlava del giuramento confirmatorio all’interno di contratti annullabili e ci si chiedeva se


questo giuramento mantenesse un rilievo giuridico autonomo e quindi sopravvivesse nel caso di
annullamento del contratto oppure se venisse a cedere lui stesso con il contratto. Il rescritto non risolveva
questo problema.

 Martino Gosia, più vicino alla chiesa, sosteneva che il giuramento avesse un suo significato
simbolico (perché si giurava sulla Bibbia) e, dunque, anche se inserito in un contratto annullabile,
restava giuridicamente valido tenendo conto dell’impegno morale;
 L’altra fazione, invece, sosteneva che il giuramento apposto in un contratto annullabile diviene
invalido, tenendo conto della nullità formale.

Si dice che il problema fu risolto da Federico Barbarossa, interpellato da Gosia, con la Constitutio autentica
Sacramenta Puberum, in cui si dice che il giuramento avesse una sua forza obbligatoria autonoma,
svincolata anche dai vizi di forma che potevano annullare il contratto che era la fonte del giuramento stesso.
Avendo risolto un problema che non era stato risolto nel rescritto di Alessandro Severo, Barbarossa voleva
che questa costituzione fosse inserita nei libri legales a margine della costituzione del rescritto di Alessandro
Severo come costituzione modificativa, cioè come una novella che modificava il passo che conteneva il
rescritto.
Dopo una prima resistenza, questa costituzione verrà inserita come novella ma circolerà molto poco e in
pochi manoscritti dei libri legales perché per i glossatori bolognesi era impensabile non solo che Giustiniano
modificasse sé stesso, ma che potesse farlo qualcun altro.

I generi letterari.

Il genere letterario più diffuso che dà il nome alla scuola è la glossa, ovvero una spiegazione verbale,
grammaticale e linguistica parola per parola che serviva a facilitare la comprensione del testo.

La glossa non nasce a Bologna; difatti, ha un’origine antica e ne parla Isidoro da Siviglia nelle sue
Etimologie. Ci sono fatti glosse pre-bolognesi sia ai testi sacri sia alla compilazione stessa, come le glosse di
Torino, Casamari e Colonia. Ma a Bologna diventa fonte interpretativa centrale.

Graficamente vi era il testo giustinianeo al centro e tutto attorno vi erano le spiegazioni, appunto le glosse.

Le glosse potevano essere:

 Grammaticali  sono le prime glosse, ed erano brevi chiarimenti ad espressioni o termini e spesso
erano glosse interlineari, messe sopra la parola cui si riferiscono;

 Interpretative  si affiancano alle glosse grammaticali man mano che l’interpretazione dottrinale
diventa più complessa. Si tratta di annotazioni con contenuto interpretativo mediante le quali si giunge
all’individuazione dell’istituto o della categoria giuridica descritta nel frammento analizzato. Si tratta di
glosse più estese rispetto a quelle grammaticali perché hanno il fine di spiegare l’istituto e non la
singola parola. Sono glosse marginali perché sono messe a margine del foglio con un segno di richiamo
alla parola cui si riferiscono. La loro potenzialità è maggiore perché permettono di mettere in contatto
diversi passi in quanto non si limitano alla spiegazione grammaticale, quindi hanno un carattere sia
esegetico (di spiegazione) che sistematico.
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All’interno della categoria delle glosse interpretative abbiamo:
 Glosse dei similia e contraria  sono glosse contenenti citazioni di passi di contenuto conforme
o contrario al testo glossato.
 Summulae  nascono dalla redazione di liste di similia. Il glossatore fornisce una disciplina
unitaria mettendo insieme una lista di passi simili che disciplinano allo stesso modo l’istituto
giuridico contenuto nel passo che si sta studiando e sono messe a margine.
 Notabilia  servono per facilitare la lettura. Sono glosse interpretative che descrivono a margine
il contenuto del passo che si sta studiando e lo riassumono in modo che non ci sia bisogno di
leggere tutto il passo.

 Le continuationes titulorum  il glossatore, convinto dell’armonicità della compilazione, cerca di


spiegare la successione dei titoli e le ragioni di continuità che hanno determinato quella disposizione
delle materie.

 Apparato  nasce dalla necessità di porre fine all’alluvionalità di glosse ed è infatti una raccolta di
glosse. Gli autori degli apparati decidono di raccogliere alcune glosse, selezionando soltanto alcune
delle glosse che riguardano quel passo non riportandole tutte ma solo quelle selezionate. La più
importante raccolta di glosse sarà la Magna Glossa Accursiana, che diventerà l’interpretazione
ufficiale della compilazione giustinianea.

Tutti questi generi letterari presuppongono il testo.

SCUOLE MINORI E I LORO GENERI LETTERARI.

Oltre a Bologna, nel XII sec. nacquero le c.d. scuole minori perché gli studenti si recavano a Bologna ed
esportavano il metodo bolognese nella loro terra d’origine, oppure iniziavano la loro carriera a Bologna e
poi giravano. Ad esempio:
- Rogerio (seconda metà del 1100), allievo di Bulgaro, si formò sicuramente a Bologna e poi insegnò
a Piacenza, a Mantova e in Provenza;
- Piacentino, suo allievo, insegnò a Montpellier;
- Pillio che insegnò a Bologna e poi a Modena;
- Vacario che insegnò ad Oxford.

Le opere delle scuole minori si caratterizzano per un carattere più generale, hanno un legame con le
vecchie scuole di arti liberali perché più che una cultura giuridica specialistica tipica bolognese impartiscono
un insegnamento più generico e non specialistico perché gli studenti hanno bisogno di una preparazione
che sia impartita in meno tempo e che li prepari subito ad intraprendere le funzioni legali.

Funzionali a questa esigenza sono dei nuovi generi letterari che nascono in queste scuole minori e arrivano a
Bologna. Sono sempre dei metodi interpretativi della compilazione diversi dalla glossa e che hanno l’idea
di fondo di non riportare per forza il testo ma di darlo per presupposto e per questo motivo avranno una larga
diffusione. Questi sono:

 Summa  è una trattazione sistematica e completa di un’intera parte della compilazione. Con la
summa non si ricorre ad un’esegesi testuale ma ad una riformulazione con nuovi costrutti linguistici, e
anche ad una nuova risistemazione concettuale della materia normativa. La summa si stacca
completamente dalla glossa e dal testo stesso. È, dunque, una sintesi e una trattazione sistematica e, al
contempo, sintetica di una parte della compilazione.
Avremo tantissime summe al Codex (ricordiamo le summe di Piacentino e Pillio), e pochissime summe ai
Digesta in quanto erano più difficili da riassumere.
Le summe sono delle opere che si distaccano dal testo giustinianeo, ripropongono la materia trattata ma
con una visione linguistica nuova, con un intento di sintesi, per essere realmente un prontuario cioè per
spiegare la compilazione in testi più agili che si staccano dalla compilazione stessa. Hanno una loro
indipendenza dal testo ma ne presuppongono comunque la conoscenza.
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 Quaestio  nasce come figura didattica e successivamente si evolve come genere letterario.
La quaestio nasce nel periodo di Bulgaro, e fu chiamata legittima dove il casus da risolvere veniva tratto
dalla compilazione giustinianea e si cercava la soluzione.
Poi, con l’evoluzione della scuola, si ha la quaestio de facto in cui la questione da dibattere era inventata
dal maestro e a cui la compilazione non dava risposta, ma faceva sì che discenti si dividessero in due
fazioni e poi il maestro dava la soluzione definitiva.
Tra la fine del 1100 inizio 1200, nascono le quaestiones ex facto emergentes dove le questioni venivano
tratte dalla realtà giuridica contemporanea o da altri fonti che non erano giustinianee come, ad
esempio, consuetudini feudali e statuti comunali. La solutio, solitamente, era interna alla compilazione
giustinianea, ma anche quando un quesito non era disciplinato dalla compilazione, si trovava una
soluzione attraverso l’interpretazione analogica. Lo scopo di queste quaestiones era quello di creare un
ponte tra scuola e prassi. In questo modo il diritto giustinianeo entra definitivamente nella prassi.
Ci sono tantissimi autori bolognesi, anche di scuole minori, che faranno anche raccolte di quaestiones: le
quaestiones auree di Pillio che insegnerà a Modena o le quaestiones sabatine di un altro grande giurista
che è Roffredo di Beneventano, che insegnerà ad Arezzo.

 Brocardo  genere letterario gemello della quaestio, che consisteva nell’estrazione di una massima
(principio generale) tratta dalla compilazione e alla quale si affiancavano passi pro (che la suffragavano)
e passi contra (che la contraddicevano). Lo scopo del brocardo era quello di estrarre massime. Ebbe
molto successo nell’insegnamento tanto che si parla di metodo brocardico, ovvero un metodo di studio
che puntava sul ragionamento anziché sulla memoria. Il grande innovatore di questo metodo fu Pillio che
innovò lo studio a Bologna per poi portarlo a Modena.

Esponente di spicco delle scuole minori è Pillio Da Medicina che opera nella seconda metà del 1100 e come
molti studiò a Bologna per poi dar lustro ad altre scuole, come ad esempio quella di Modena.
È un grande innovatore del metodo di insegnamento perché farà un grande uso di brocardi e quaestiones.

 La sua opera più importante è una raccolta di brocardi, il Libellus disputatorius, opera di grande mole
che consisteva in un lungo elenco di principi teorici tratti dalla compilazione, corredato da fonti
normative pro e contra. Era destinata all’insegnamento, ma vista la sua poderosa mole non riuscì a
facilitarlo.

 Altra opera importante è una raccolta di quaestiones, le c.d. Auree quaestiones, destinate ad essere usate
come prontuario in quanto le quaestiones hanno carattere casistico. Quest’opera di Pillio circolerà in
forma manoscritta e hanno al loro interno il vero cuore della compilazione giustinianea. Il loro scopo era
quello di attualizzare la compilazione giustinianea mettendola in correlazione alla prassi vivente.

 Pillio è anche un grande feudista, esperto di diritto feudale. Il suo più grande merito è stato quello di
aver introdotto tra le materie degli studi modenesi il diritto feudale, introducendo i Libri Feudorum, una
raccolta di consuetudini feudali.
Per scrivere quest’opera, Pillio ricorre ad un’allegoria: infatti, l’opera racconta che un certo Anselmo
dall’Orto si lamenta che all’Alma mater non si studiavano a sufficienza le consuetudini feudali e suo
padre, Oberto dall’Orto, giudice a Milano e dunque esperto di prassi, in due lunghe lettere descrive
minuziosamente al figlio le consuetudini feudali.

I Libri feudorum avranno tre redazioni:


1) La prima è detta Obertina poiché imperniata sulle lettere del giudice al figlio;
2) La seconda redazione è detta Ardizzoniana perché fatta da Jacopo d’Ardizzone e ha lo stesso contenuto
della precedente, ma in più contiene qualche costituzione di Barbarossa emanata dopo la Dieta di
Roncaglia del 1158;
3) La terza redazione è detta Accursiana o Vulgata ed inserita all’interno del Volumen (V libro) ed è stata
glossata da Accursio.
Pur non sapendo se Anselmo dall’Orto sia esistito davvero o no, la storia comunque è verosimile perché
fotografa la realtà dello studium bolognese del 1100 che trascurava la prassi, in particolare quella
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applicata nei tribunali (diritto feudale). Poi ci sarà un’apertura della scuola alla prassi e allora anche a
Bologna si studieranno i Libri feudorum.

Anche i Libri feudorum, come la compilazione giustinianea, saranno oggetto di glosse, summe e
quaestiones; così come altre fonti che verranno glossate secondo i canoni bolognesi: ad esempio, gli
statuti comunali e la glossa alla Lombarda ad opera di Carlo di Tocco nel 1200.

 Pillio farà una summa agli ultimi 3 libri del Codex, scomparsi nell’Alto medioevo. Grazie a quest’opera
si scopre che i libri del Codex erano 12 e non 9.

Inoltre, Pillio elaborò la teoria del dominio diviso secondo la quale la realtà feudale è divisa in dominio
diretto e dominio utile.
- Il signore ha sul feudo un dominio diretto, cioè una titolarità solo formale sul bene;
- Il vassallo ha un dominio utile perché è colui che gode del bene.

Il merito di Pillio è quello di aver sdoppiato la categoria romana del dominium (che nel diritto romano
identifica la proprietà) in due categorie (parlando, appunto, di dominio diviso) senza il quale sarebbe stato
difficile spiegare ed inquadrare la situazione feudale nel dominium romano.

Accursio e la Magna Glossa.

Il punto di arrivo del 1200 è la Magna Glossa Accursiana, fatta da Accursio, un glossatore di primissimo
piano, raccogliendo circa 96.000 glosse, corredando l’intero corpus, e facendo un apparato, ovvero una
selezione di glosse scelte.

Compone la sua opera in 30 anni: glossa tutti i Libri legales e probabilmente anche i Libri feudorum.
La sua opera è una sintesi di 4 generazioni di glossatori: infatti, sceglie le glosse da salvare e ne fa una
raccolta, a volte in manoscritti nuovi scegliendo le glosse, altre volte in manoscritti già usati, cancellando il
precedente e sostituendolo con la glossa accursiana.
Si è dubitato dell’originalità della sua opera perché non appone nulla di nuovo, ma si limita a raccogliere
glosse già esistenti delle quali condivide l’interpretazione.

La magna glossa verrà chiamata glossa ordinaria e sarà la glossa definitiva che accompagnerà il testo dei
Libri legales, sarà inglobata nel testo e sarà l’interpretazione ufficiale.
La magna glossa accursiana è un meta-testo, cioè un testo nel testo: questo rispecchia la Bologna e lo studio
bolognese più ortodosso legato alla glossa, questo studio a cornice nel senso che le glosse sono
interpretazioni che accompagnano il testo che è presente fisicamente ed è fondamentale per l’attività di
interpretazione inscindibile dal testo stesso.

Accursio incarna un filone più ortodosso della scuola di Bologna. Accanto a questo filone, se ne forma uno
alternativo incarnato da Odofredo.
Quindi distinguiamo la scuola ortodossa di Bologna legata al testo (Irnerio, Bulgaro, Azzone ad Accursio)
da un filone non contrapposto ma alternativo e sempre collegato al primo (Pillio, Odofredo, Roffredo).
Odofredo e Accursio sono contemporanei e rivaleggiano l’uno con l’altro, incarnando due modi diversi di
interpretare la compilazione giustinianea. Accursio, infatti, sparse la maldicenza che Odofredo fosse
infermo e non potesse finire la sua opera, anche se ciò non era vero.

Accursio incarna un filone più ortodosso, legato al testo; infatti, la sua opera è caratterizzata da una cornice
di glosse che inquadrano il testo dei Libri legales. Il testo rimane al centro e l’interpretazione letterale, che
entra a farne parte, è distinta graficamente perché lo incornicia.
La visione di Odofredo è ben diversa. Infatti, nella sua opera – le Praelectiones- si susseguono
disordinatamente quaestiones, glosse e aneddoti. L’elemento centrale è che in quest’opera si prescinde
dalla fonte normativa di cui si cita solo l’incipit, cioè le prime parole della fonte giustinianea sufficiente ad
identificarla. È l’interpretazione che diventa centrale.
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La corrente alternativa incarna esigenze a cui la corrente ortodossa non è riuscita a dare una risposta.
Tuttavia, tale corrente non sarà vincente in quanto ad imporsi sarà il modello accursiano perché raccoglie
l’interpretazione ufficiale della compilazione fatta dai glossatori, ponendo fine all’opera dei glossatori civili.
Con Accursio termina la stagione dei glossatori.

La visione alternativa di Odofredo non è strettamente legata al testo come quella ortodossa, ma è aperta alla
prassi e porta con sé una serie di opere e generi letterari che presuppongono il testo ma sono da questo
indipendenti, come le opere delle scuole minori.
Questo filone alternativo di Bologna, incarnato da Odofredo, non sarà quello vincente ma avrà dei legami
con la scuola di Orléans, e in generale con Pillio, Roffredo Beneventano, Guido da Tocco e tutti quei
soggetti che pongono attenzione alla prassi e fanno uso di quei generi letterari come le queastiones, aperte
verso la prassi.

LA SCUOLA DI ORLEANS.

Orléans è una sede vescovile alla quale è affidata la formazione dei chierici, quindi è una scuola vescovile.
L’insegnamento del diritto romano giustinianeo viene autorizzato ad Orléans nel 1235 dal pontefice
Gregorio IX, mentre prima Onorio III aveva vietato tale studio.
Secondo la storiografia più datata, si pensa che fosse stato il sovrano di Francia a fare pressione sul
pontefice per vietare tale studio a Parigi perché si sviluppa una dottrina politica per cui il sovrano non
riconosce altri soggetti superiori a sé all’interno del suo regno. Quindi vede di cattivo occhio
l’intromissione di un diritto di matrice imperiale nel suo regno.
Secondo Cortese, invece, fu lo stesso Onorio III a vietare l’insegnamento del diritto romano giustinianeo a
Parigi per non far subire la sua concorrenza alla scuola teologica che era la scuola più importante legata agli
studi del diritto.

Bisogna tenere presente però che Orléans è una sede vescovile a Nord di Parigi dove la fonte del diritto
predominante era la consuetudine. Infatti la Francia è divisa in due parti:

- PAYS DE DROIT COUTUMIER: paesi di diritto consuetudinario a nord di Parigi dove c’è
Orleans;
- PAYS DE DROIT ECRIT: paesi del diritto scritto in cui si applica per lo più il diritto romano
giustinianeo in quanto diritto che proviene dall’alto, in quanto diritto imperiale.

Nei paesi di diritto consuetudinario, il diritto romano giustinianeo si innesta all’interno del diritto
consuetudinario (visto come vincolante) impero rationis in quanto diritto razionale e dalla superiorità
dogmatica e non, invece, ratio imperii, cioè in quanto diritto imperiale promanante dall’imperatore.

In questo panorama si innesta lo studio orleanese che sarà un antecedente importante per la scuola del
commento in Italia.

La riscoperta di Aristotele.

Intorno al XIII-IX sec. vengono riscoperte le opere di Aristotele e i dettami aristotelici verranno applicati
tanto al diritto quanto alla teologia. Si riscopre l’Aristotele maggiore con opere quali la Logica, detta
Logica nova, tradotta in latino.
Quindi, al metodo dialogico e dicotomico tipico dei glossatori che portava alla frammentazione e alla
suddivisione delle norme in più passi si affiancò il metodo del sillogismo aristotelico.

Tale metodo si snodava attraverso il quaerere, la quaestio, la discussione di quaestiones che tendeva ad
individuare non le differenze ma le analogie tra postulati che, in questo caso, erano giuridici al fine di
individuare la ratio legis: la ragion d’essere della legge.
Si va a ricercare il significato più riposto che stava al di là della lettera della legge, venendosi dunque a
distinguere il testo dal suo significato.
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Mentre i glossatori estendevano il significato della compilazione giustinianea entro il limite del testo (cioè il
significato non poteva estendersi oltre il testo), nella scuola del commento, grazie anche al metodo
orleanese, trovando la ratio di una norma nella compilazione, anche se la fattispecie è esterna alla
compilazione, non prevista perché magari è contemporanea, se ha la stessa ratio, allora quella norma si può
applicare anche a fattispecie che non sono né previste né prevedibili dal dettato normativo.
Le rationes si ricercheranno anche nelle fonti del diritto attuale: nella prassi, nel diritto feudale, nel diritto
statutario dei comuni, nelle normative dei regni ma soprattutto nella compilazione giustinianea.

La compilazione si estende in maniera illimitata grazie all’opera dell’interprete che trova le rationes delle
singole norme. Per cui se si trova un’altra fattispecie che ha la stessa ratio, anche se è una fattispecie non
prevista e non prevedibile, si applica la stessa norma perché dove vi è la medesima ratio, vi è anche la
medesima disposizione di legge.

Si forma un sistema di creazione completamente dottrinale che rappresenta l’aspetto rivoluzionario che ci fa
dire che gli orleanesi e poi gli studiosi del commento sono gli architetti del diritto in questo periodo del
Basso Medioevo.

I generi letterari utilizzati richiamano il testo della norma per incipit o, comunque, per singole parole pur
avendo un ossequio formale nei confronti della compilazione.
Ad Orléans si utilizzerà lo strumento della repetitio, che è un’unione tra la glossa e il commento, che aveva
ad oggetto non la singola littera, un singolo passo ma un’intera legge della compilazione, analizzandone il
contenuto in una lezione monografica, la Repetitio Quaestio: di un’intera norma si estrapolava la ratio e la si
applicava, attraverso il quaerere, ad altre fattispecie non previste né prevedibili che avevano la stessa ratio.

Alcuni studiosi bolognesi, come Guido da Como, si trasferirono ad Orléans dove vi era un ambiente fertile
e c’erano maestri come De Revigny e Belleperche, allievo di Jaques de Revigny, autore di letture,
repetitiones, questiones, che ebbe un metodo di insegnamento che diffuse notevolmente il pensiero
orleanese, che troveranno un nuovo modo di interpretare il diritto e la compilazione giustinianea.

De Revigny fu il primo dei maestri francesi e faceva parte delle gerarchie ecclesiastiche in quanto vescovo a
Verdun. Di lui si ricordano le sue maestose letture, le sue repetitiones cioè queste lezioni fatte fuori
dall’orario didattico in cui vi era un’esegesi che applicava il metodo del sillogismo anche al diritto alla
ricerca di queste rationes.
Ci restano opere importanti: numerose questiones da lui elaborate, ma anche un’opera che è il De
significazione verborum, opera che rientra nel genere lessico- grafico tipico delle arti liberali, un’opera che
è legata essenzialmente alla definizione e spiegazione delle voci giuridiche. Ci ricorda le Etymologiae di
Isidoro di Siviglia. Il genere è appunto spiegare il diritto attraverso la spiegazione delle voci, delle parole
del diritto.

A De Revigny si deve l’elaborazione del concetto di persona rappresentata, di persona ficta che era già
stata elaborata nella tarda scuola dei glossatori da Sinibaldo Fiesci, futuro pontefice Innocenzo IV.
Tale concetto ripercorre l’idea di una persona giuridica tipica del diritto romano vista come una persona non
fisica ma giuridica titolare di beni e di poteri. Queste norme sulla persona giuridica si applicano
all’impero: l’impero è, in realtà, è una persona ficta che è divisibile dall’imperatore che è la persona
fisica.

Gli orleanesi ebbero un grosso impatto nella scuola del commento italiano perché fornivano interpretazioni
eterodosse della compilazione che si allontanavano di molto da quelle letterali dei glossatori. Ciò perché il
metodo è diverso: lo scopo centrale non è più solo l’interpretazione letterale, perché l’interpretazione del
giurista va oltre il testo diventando interpretazione libera e inizia a pensarsi che sia vincolante non tanto
la norma, ma l’interpretazione che dà il giurista della norma stessa perché è lui che crea il sistema.
Anche i generi letterari utilizzati ne sono una prova in quanto si distaccano dal testo.

LA SCUOLA DEL COMMENTO.


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Si narra che Cino da Pistoia avesse conosciuto de Revigny e ne sia rimasto talmente affascinato da voler
studiare e portare il metodo orleanese in Italia, fondando la scuola del commento.
Se ciò sia vero o meno non lo sappiamo, anche perché il metodo orleanese in Italia poteva essere conosciuto
in quanto i rapporti con la Francia c’erano: infatti, nel meridione c’era il regno Angioino, regno francese, e
la Curia papale aveva rapporti con Avignone.

I commentatori italiani prenderanno molto da questo metodo della scolastica cioè dello studio della filosofia
aristotelica. Si apre con Cino anche in Italia, dunque, l'epoca dei commentatori.

La scuola del commento nasce in Italia tra la seconda metà del 1200 e l’inizio del 1300.
Prenderanno molto del metodo orleanese perché il centro della ricerca è la ratio legis cioè il principio
giustificativo della legge. I commentatori, piuttosto che il metodo della distinzione, cercano il principio
generale che sta al di sopra delle norme e questo è visto come necessario per creare un sistema giuridico
efficace. E in questa ricerca i commentatori utilizzeranno tanto le fonti giustinianee quanto altre fonti, e
l’interprete svolge un’attività concettuale libera e autonoma dai lacci della interpretazione letterale,
dunque è svincolato dal testo.

L’opera più importante di Cino da Pistoia è la Lectura codicis, pubblicata nel 1314 e che segnerà l’ingresso
in Italia del metodo orleanese.
L’autore si dichiara indipendente dagli accursiani e la sua lettura era concepita mettendo al centro criteri di
sistematicità nel commento del testo della compilazione.

L’intento dell’autore era sottoporre ogni passo del codice alle seguenti operazioni:
 Lettura: lectio;
 Esegesi testuale: expositio;
 Formulazione di esempi: casus;
 Indicazione dei punti rilevanti: notabilia;
 Discussione dei possibili contrasti tra passi paralleli: oppositiones;
 Proposta e soluzione delle questioni: quaestiones.

Tutte queste tappe erano già presenti nelle lezioni bolognesi, ma cambia il rilievo dato a ciascuna: in questo
caso, il ruolo centrale è affidato alle quaestiones (e non più all’interpretazione letterale, com’era a
Bologna), che sono fondamentali perché si parte da fattispecie non previste per trovare una ratio identica e,
dunque, farle rientrare nella stessa norma.
Ciò dimostra che per i commentatori per creare il sistema la ricerca della rationes era un aspetto centrale e
rilevante.

La scuola del commento non è in contrasto con quella dei glossatori, semplicemente ha una finalità
diversa: non guarda tanto all’interpretazione testuale, ma va alla ricerca delle rationes e Cino da Pistoia dà
un esempio del metodo del commento nella sua opera che è un commento al Codex, indicando i passaggi cui
sottopone l’interpretazione della compilazione.

Tuttavia, Cino si ricollega ai dettami legati al filone che faceva capo ad Odofredo: dunque, della norma
veniva riportato solo l’incipit e tutto il resto era una spiegazione.
Il commento diventa il genere più importante e consisteva nel sottoporre la fonte normativa a tutti questi
passaggi e non necessitava della presenza di tutto il testo della norma poiché era dato per presupposto.
Quindi, si vede come questo filone alternativo presente a Bologna, con Cino, diventa una vera e propria
scuola, la scuola del commento appunto.

In questo ambiente, avremo degli studia (università) molto importanti:


- La scuola di Padova è la più antica, nata nel 1222 e destinata ad avere lunga gloria. Sorse
spontaneamente da una secessione di studenti provenienti da Arezzo dove aveva insegnato Roffredo
Beneventano;
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- La scuola di Perugia era più “giovane”, fondata agli inizi del 1300 con una bolla papale da parte di
Clemente V.
Tutte le scuole del commento che nasceranno sentiranno una forte competitività con l’Alma mater di
Bologna.

I generi letterari
I generi letterari di questa scuola del commento sono:

 Il COMMENTARIO è un commento di una norma giuridica. Di solito la norma viene data per
conosciuta, di questa si riporta l’incipit o un breve riferimento, poi viene sottoposta
all’interpretazione del giurista che spiega la norma in modo letterale, estraendone gli elementi
importanti.

 Il TRATTATO è una trattazione sistematica monografica di una intera branca del diritto o
di singole figure. I trattati riguardano gran parte degli argomenti del diritto, ma soprattutto quelle
parti del diritto trascurate dal diritto romano giustinianeo (diritto penale, diritto commerciale,
procedure sia civile che penale).

Nascono tra fine medioevo e inizio età moderna e per tutta l’età moderna avranno una notevole diffusione
in relazione allo studio di branche del diritto nuove (come la branca penalistica che fiorirà durante l’età
moderna perché fioriranno i trattati su questa materia).
Questo genere letterario, esisteva già prima ma non aveva ancora questo carattere sistematico e definitivo:
da Bartolo in poi il trattato non sarà più una raccolta disordinata di quaestiones che affrontava solo
l’aspetto casistico, ma un’opera monografica caratterizzata da una unitarietà nella trattazione, organica, che
racchiude sia l’aspetto teorico che la prassi, per tale ragione si tratta di genere letterario indirizzato alla
scuola e alla pratica forense.

 CONSIULIUM è un genere che nasce per la pratica e che ebbe una notevole diffusione. I pratici
trovano fattispecie simili a quelle che incontravano nella vita dei tribunali; vedere come era stata
risolta quella controversia mediante il parere di un eminente giurista poteva indirizzare la loro opera.
I consilia sono dei pareri che il giurista può dare in due ipotesi:
- Consilia sapientis iudicialia: pareri che i giudici erano soliti richiedere ai fini della definizione della
causa al giurista dotto;
- Consilia pro veritate: pareri emessi dai giuristi, non per i giudici, ma perché richiesti dalle parti in
causa e che poi venivano inserite nelle difese.
Questi pareri dei giuristi, dati al giudice o alle singole parti, formeranno delle raccolte che circoleranno per
tutto il medioevo e identificano il diritto di questo periodo.

Bartolo da Sassoferrato
Il più importante esponente della scuola del commento è Bartolo da Sassoferrato (allievo di Cino da
Pistoia). È uno dei più importanti giuristi del Medioevo pertanto questo periodo è anche conosciuto come
periodo del “Bartolismo” e i giuristi di questo periodo sono detti “bartolisti”.

Si forma a Perugia e si laurea intorno al 1333-1334, a soli 20 anni. Impara a Bologna i dettami della scuola
dei glossatori, fin da giovane entra nel circuito delle amministrazioni comunali (assessore a Todi e Pisa;
avvocato generale a Macerata), fu incaricato dell’insegnamento del diritto civile a Pisa. Concluderà la sua
carriera a Perugia dove insegnerà tutta la vita, muore a 43 anni.

Bartolo padroneggia tutti i generi della scuola del commento: scrive trattati, consilia, commentari.
Ha una produzione sterminata scrive circa 10 volumi in folio manoscritti:
- 6 sono dedicati al commentario delle 3 parti del Digesto (Vetus, Infortiatum, Novum),
- 2 al commentario del Codex,
- 1 al commentario del Volumen.
- 1 raccolta di consilia, questiones, trattati.
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Bartolo si occupa di vari argomenti: ad esempio, nei suoi trattati si occupa della tirannide o del marchio di
fabbrica (fu il primo ad identificare il marchio di fabbrica come elemento identificativo dei manufatti).
Il suo Trattato de tyrannide è uno dei primi trattati e in esso Bartolo descrive due tipi di tirannidi:
- Tiranno ex de facto tituli: soggetto che governa e che prende il potere senza averne titolo;
- Tiranno ex facto exercitii: il soggetto ha un titolo che lo legittima a governare ma che esonda i limiti
dei poteri attribuitigli.

Questo è un potere extra ordinem che sta fuori dall’ordinamento. Per i medievali, la tirannide è una
degenerazione del potere monarchico. Secondo molti, Bartolo, in questo trattato, sta descrivendo la realtà
300esca in cui il comune si sta trasformando (degenerando) in qualcosa di diverso: la signoria.

Bartolo si esprimerà anche su problematiche attuali al suo tempo, come ad esempio la giustificazione della
potestas statuendi cioè la potestà di fare leggi degli enti particolari. Si alternano varie teorie in questo
periodo:
-Teoria della permissio: identifica con la Pace di Costanza, firmata da Federico I Barbarossa, l’origine della
potestà normativa degli enti particolari. La pace di Costanza pone fine alla diatriba tra Impero e Comuni,
che termina con la sconfitta dell’imperatore, intorno al 1183-1186, e con il riconoscimento dei Comuni, e
della loro potestà statuendi. Ma la teoria presenta un limite: poiché la potestas è stata concessa, può
anche essere revocata dall’imperatore.

-Teoria della iurisdictio: elaborata da Bartolo, secondo il quale esiste una iurisdictio massima, che è quella
dell’imperatore, dalla quale discendono varie iurisdictiones minori (fino ad arrivare alla iurisdictio
minima, che è quella del possessore o coltivatore del fondo). Il rapporto che lega la iurisdictio massima
alle altre, fino alla minima, è un rapporto di genus a species. Si arriva dalla iurisdcitio massima alla
iurisdictio minima attraverso un processo di successive specificazioni . Quindi tra le varie giurisdizioni
non vi è differenza qualitativa, sono tutte piene al loro interno, hanno tutte la stessa materia. La potestà
dei Comuni sta in mezzo: tra la massima dell’imperatore e la minima del coltivatore ci sono varie
giurisdizioni intermedie, quantitativamente inferiori a quella dell’imperatore ma, da un punto di vista
qualitativo, tendenzialmente uguali.

La iurisdictio è un fascio di poteri che stanno in capo ad un governante che nel medioevo è legato al ius
dicere: (dare diritto e in particolare dare giustizia) quindi il sovrano medievale si identifica con un
soggetto che dà giustizia. Mentre in età moderna, in questo fascio di poteri avremo sia il potere di dare
giustizia sia la potestà legislativa.

La teoria di Bartolo, seguita anche da altri giuristi medievali, però aveva un riscontro pratico molto limitato:
perché la giurisdizione imperiale difficilmente si interessava al diritto; la giurisdizione del proprietario
terriero sembra più una creazione di scuola.

Invece la Teoria della iurisdictio, elaborata da Baldo degli Ubaldi* allievo di Bartolo, tendeva a
legittimare la potestà normativa deli enti particolari per il fatto stesso della loro esistenza. Erano enti di
diritto naturale che esistevano e la loro stessa esistenza giustificava la loro potestas statuendi. La teoria è
molto semplice e incontrò molto successo, anche se ha un’impronta spiccatamente teorica. Con Baldo
termina il percorso civilistico.

Baldo degli Ubaldi*


Insegnò a Siena, Perugia, Pisa, Firenze; godette di grande fama, fu autore di consilia, commentari anche a
fonti non giustinianee. Infatti farà un commento ai Libri feudorum, alla Pace di Costanza e farà anche
commentari a fonti canoniche (Liber Extra, di Gregorio IX, Liber Sextus di Bonifacio VIII, alle
Clementine). Baldo muore nel ‘400. Era giurista pratico, perché era anche avvocato impegnato nelle
questioni comunali.

Inoltre il fatto che applicava i generi letterali del diritto civile anche a fonti di diritto canonico, e che faceva
ricorso all’equità e a concetti canonistici anche nell’interpretazione del diritto civile ci consentono di
individuarlo come un esperto di utroque iure: nell’uno e nell’altro diritto, diritto romano giustinianeo e
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diritto canonico. Questo segna il punto di arrivo di quella preparazione in utruque iure (di entrambi i diritti)
vista a Bologna con Martino Gosia. Qui abbiamo il diritto comune: abbiamo due basi normative dei due
enti universali - Impero e Chiesa – ma il diritto comune ha la sua base autoritativa nell’interpretazione
che il giurista dà a queste due basi normative solide che sono il diritto romano giustinianeo, per l’Impero, e
il diritto canonico per la Chiesa.

BARTOLO E L’OPINIO BARTOLI.


Bartolo è una figura estremamente importante che esprime: il potere autoritativo della dottrina e delle
interpretazioni dei giuristi e la c.d. pragmatizzazione della scientia iuris cioè il dedicarsi dei giuristi alla
prassi.

Grazie a lui notiamo infatti che l’interpretazione del giurista diventa centrale ancora più della norma
giuridica: è l’interpretazione la fonte del diritto nei tribunali. Bartolo è il più importante esempio di
giurista la cui interpretazione diventa essa stessa vincolante. L’OPINIO DI BARTOLO sarà fonte
vincolante anche nelle aule dei tribunali (nella Penisola Italiana, in Francia, e, tramite Spagna e Portogallo
che si apprestano dal ‘400 in poi a diventare potenze coloniali, anche nelle colonie trans oceaniche).

Tutto ciò è evidente già a partire dalla nascita del filone alternativo bolognese, poi con Orleans, ed infine
anche dai generi letterari, i quali non citano più interamente la norma ma soltanto una piccola parte: vi è un
richiamo alla norma, ma la costruzione è interamente dottrinale. Il giurista non è più vincolato dal dettato
della norma, fa riferimento alla norma, ma la autorevolezza e la vincolatività è legata alla interpretazione
che ne dà il giurista dotto nei trattati e nei consilia dati o al giudice o alle parti. Da Bartolo in poi si parlerà
di OPINIO AB AUCTORITATE.
L’interpretazione del giurista dotto e autorevole (opinio bartoli) è vincolante, ha la forza di legge, diventa
come il precedente: per il giudice discostarsi dall’opinio Bartoli è quanto meno imprudente.

Questo ha la sua base nell’EXEMPLUM romano. Nel diritto romano, l’exemplum era dato dal precedente
giurisprudenziale: quindi il giudice si atteneva alla sentenza precedente. Nel medioevo, in questo periodo, si
passa dall’exemplum costituito dal precedente giurisprudenziale, all’exemplum costituito dall’opinione
dottrinale.

Dal 400 i giuristi autorevoli (come professori universitari) cominciano a sfruttare la loro autorevolezza
anche nell’ambito della prassi dando pareri ai giudici e alle parti e infatti i generi letterari di spicco saranno
quelli destinati alla prassi giurisprudenziale, al processo: trattati ma soprattutto consilia
Se all’inizio l’attività preponderante, il punto di arrivo della carriera era l’insegnamento, adesso, la cattedra
universitaria era più un trampolino di lancio per poi dedicarsi alla pratica perché era lì il vero guadagno
(pragmatizzazione della scentia iuris).

Tutto questo porta a delle degenerazioni: infatti lascia l’interprete totalmente libero. Spesso si giungeva a
esiti opposti in opere dello stesso autore a seconda che l’opera fosse destinata all’insegnamento o alla
prassi. L’importante per i commentatori era che il discorso fosse razionale. L’idea che i commentatori
creano diritto arriva, dunque, realmente alle estreme conseguenze.

Questo modus operandi della tarda scuola del commento (che sarà dominante anche nell’età moderna)
creerà incertezza nella norma, e anche nell’esito di un processo perché l’aggancio alla normativa sarà
sempre più labile. Quello che decide la controversia sarà l’opinione di un giurista, però questi spesso
esprimono opinioni diverse o contrastanti. Il giudice trova la soluzione nei trattati, nei commentari, nelle
raccolte di consilia e, a volte accadeva che esprimessero soluzioni diverse. Allora, il giudice si atteneva
all’opinione del giurista più autorevole come Baldo o Bartolo, oppure all’opinione di più giuristi, alla
communis opinio, che concordano su quella stessa soluzione. Si tratta di rimedi endo-procedimentali che
ci fanno capire il particolarismo e la confusione del diritto della fine del medioevo e inizio età moderna.

I sovrani dell’età moderna si dedicheranno maggiormente a cercare la certezza del diritto; sarà la meta a
cui ambiranno perché il diritto è fortemente incerto anche a causa della degenerazione della scuola del
commento.

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