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Riassunto Diritto Romano-M. Marrone (Senza Cap VII e VIII)
Riassunto Diritto Romano-M. Marrone (Senza Cap VII e VIII)
Riassunto Diritto Romano-M. Marrone (Senza Cap VII e VIII)
1. Diritto
Il concetto di diritto è diverso a seconda delle correnti di pensiero: secondo la concezione “normativa” è un complesso
organico di norme, secondo la concezione “istituzionale” invece è l’ordinamento giuridico (l’organizzazione sociale).
2. Diritto romano
Per diritto romano si intende il diritto di quella collettività politica organizzata di uomini liberi che è stata l’antica
Roma: 754 a.C. – 565 d.C. (morte Giustiniano).
Il diritto romano è, tra i diritti dell’antichità classica, l’unico che fu scientificamente elaborato, da veri giureconsulti.
Esso costituisce la base dei sistemi privatistici dei Paesi dell’Europa continentale e dell’America Latina.
3. Ius
Il termine latino che indica la nostra parola diritto è ius. Il suo significato è di “situazione giuridica soggettiva”, esso
indicava cioè diritto e dovere insieme.
Nelle fonti + antiche con ius si indica, + specificatamente, la situazione giuridica quale concretamente si realizzava in
dipendenza di determinati atti.
Monarchia 754aC-509aC
Repubblica 509aC-27aC
Principato 27aC-
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Fu emanata dai decemviri (magistrati straordinari appositamente eletti) x le prime 10 tavole, dai consoli Valerio e
Orazio le ultime 2.
Le vicende della formazione di questa legge vanno inquadrate nel contesto delle lotte tra patrizi e plebei.
Più impo delle leges datae ebbero le leges rogatae, che venivano proposte dal magistrato e votate dal popolo riunito in
assemblea (doveva cmq essere ratificato poi dal Senato).
Queste leggi, date e rogate, furono cmq poche: le fonti prevalenti del diritto restarono i mores.
5.1.4 L’età arcaica. I pontefici.
La conoscenza e l’interpretazione del diritto erano nelle mani di una classe sacerdotale, i pontefici, che gestivano il loro
ruolo in un’atmosfera di segretezza. Ad essi si rivolgevano i cittadini per sapere quale fosse il ius. Essi diedero un
impulso creativo x la crescita del diritto romano perché operavano tramite la interpretatio prudentia, interpretando cioè
istituti e precetti esistenti ne ricavavano di nuovi.
Il diritto di questo periodo si qualifica inizialmente come “ius Quiritium” poi come “ius civile”.
5.1.5. L’età arcaica. Il ius Quiritium.
Esso fu il nucleo + antico del dir romano, tutto di formazione consuetudinaria, erano riconosciute posizioni giuridiche
soggettive assolute: posizioni di potere su persone o cose. Es patria potestas, manus e mancipium.
5.1.6. L’età arcaica. Il ius civile.
Il diritto romano da un momento non precisabile si arricchisce di nuove prospettive e si qualifica come “ius civile”
perché riguarda solo i cittadini romani.
Le sue fonti sono i mores, le leges, l’interpretazione pontificale. Comprendeva il ius Quiritium ma era più ampio.
Furono riconosciute posizioni giuridiche, diritti e doveri, a carattere relativo. Es obbligazioni (oportere, verbo che
indicava la necessità giuridica del debitore di tenere il comportamento dovuto).
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La giurisprudenza andò via via attribuendo la qualifica iuris gentium a taluni negozi ed istituti del ius civile antico,
estendendone quindi la fruibilità anche ai peregrini.
5.2.6. L’età preclassica. Il ius honorarium.
Al ius civile si affiancò e contrappose in età preclassica il diritto onorario, per la massima parte opera del pretore. Era il
diritto risultante dall’attività creativa di alcuni organi come pretori, urbano e peregrino, edili cururi, governatori delle
province.
Il pretore urbano, magistrato cum imperio che avevano anche l’esplicito compito di “dicere ius”.
Gli edili cururi, magistrati “sine imperio” avevano poteri di vigilanza sui mercati e relativi giurisdizione.
Il pretore peregrino aveva il compito di “dicere ius” tra cittadini romani e stranieri oppure tra stranieri.
L’editto del pretore urbano fu la fonte prevalente del diritto onorario, gli editti del pretore peregrino e dei governatori
erano fondamentalmente uguali ad esso.
In forza dello “ius edicendi” all’atto di prendere possesso della carica, il pretore emanava un editto destinato a durare un
anno, in cui sostanzialmente prospettava un programma, attraverso promesse di strumenti giudiziari e con l’indicazione
dei modelli dei provvedimenti che avrebbe emanato (poteva cmq poi usare dei decreta). I pretori andarono via via
confermando, migliorando e accrescendo quella parte dell’editto precedente che aveva dato buon esito, si formò così
l’”edictum tralaticium”, la versione definitiva.
L’intervento pretorio si manifestava in tre direzioni: agevolare l’applicazione del ius civile, colmarne lacune,
correggerlo.
Il ius civile non era in sé iniquo: iniqua poteva risultarne l’applicazione. Il pretore, non potendo negare il ius civile,
poteva concedere gli strumenti x paralizzarne l’attuazione.
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La principale fonte di cognizione è il Corpus iuris civilis, cioè la grande compilazione di iura (giurisprudenza classica)
e leges (costituzioni imperiali) compiuta nel VI sec dC su iniziativa di Giustiniano, poi completata con le leges emanate
allo stesso imperatore dopo il 534.
È costituito di quattro parti distinte:
1. Istitutiones, in 4 libri, scritte in forma di discorso diretto che l’imperatore tiene ai giovani che si avviano agli
studi giuridici, hanno funzione didattica e ricalcano le Istituzioni di Gaio, a cui attingono largamente anche x il
contenuto.
2. Digesto (o Pandactae), in 50 libri, è una grande antologia giuridica che raccoglie brani tratti da opere di
giuristi classici organizzati per materia. Ai Digesta fu data forza di legge, anche per questo oltre che per
esigenze di compilazione i brani furono spesso modificati (“interpolati”), ed anche x adattare il brano allo stato
del diritto al tempo di Giustiniano. Fu emanato nel 533 con la costituzione “Tanta”.
3. Codex, già l’anno dopo l’ascesa al trono, Giustiniano ordinò la compilazione di un novus Codex che
raccogliesse costituzioni imperiali. Nel frattempo però Giustiniano aveva emanato altre costituzioni di diritto
privato, ordinò quindi un altro Codex (Codex repetitiae praelectionis) che comprendesse anche queste
(534dC). È diviso in 12 libri.
4. Novellae sono le costituzioni di Giustiniano emanate successivamente al Codex repetitiae praelectionis,
raccolte dopo la sua morte.
6.2. Le fonti di cognizione. Le fonti pregiustinianee.
Altre fonti di cognizione del diritto romano sono, soprattutto, le Istituzioni di Gaio (unica opera della giurisprudenza
classica giunta a noi quasi x intero e senza alterazioni intenzionali, e il Codice Teodosiano (non pervenuto direttamente
ma ricostruito, fatto compilare nel 438 da Teodosio II conteneva le istituzioni imperiali da Costantino)
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Capitolo II – IL PROCESSO
L’actio è lo strumento per l’esercizio del potere di promuovere un giudizio. Le actiones erano tipiche. V’era un elenco
di azioni, ognuna a difesa di una diversa posizione giuridica soggettiva attiva. Una ragione era tutelabile solo se v’era
un’apposita actio.
Per diritto romano il diritto soggettivo presupponeva l’azione.
L’ampiezza del diritto soggettivo tutelato e le facoltà che vi rientravano si desumevano, e cmq erano rigorosamente
condizionate, dalla struttura del relativo mezzo processuale (es. mutuo non dava luogo ad interessi x il creditore, poiché
relativa azione consentiva recupero solo di quanto mutuato).
8. Le legis actiones.
Nel corso dell’evoluzione giuridica romana si incontrano vari tipi di processo: le legis actiones, il processo formulare, le
cognitiones extra ordinem dell’età classica, il processo postclassico e quello giustinianeo.
Le legis actiones erano le più antiche, unico processo privato fruibile dai cives durante l’età arcaica.
Erano cinque riti processuali tra loro diversi x natura e struttura, ma con caratteristiche comuni.
L.a. DICHIARATIVE (accertamento di situazioni giuridiche controverse) --sacramenti --per iudici arbitrive
postulationem --per condictionem
L.a. ESECUTIVE (realizzazione di posizioni giuridiche certe, o cmq ritenute tali) --per manus iniectionem --per
pignoris capionem
Tutte erano accessibili solo ai cives, erano orali e avevano un rigido formalismo.
Era richiesta la partecipazione dei litiganti e di un magistrato con iuris dictio che dal 367 a.C. con le leges Liciniae
Sextiae fu il pretore.
I provvedimenti che poteva emanare erano: assegnazione del possesso provvisorio, nomina del giudice, addictio del
debitore… Il magistrato praticamente autorizzava la prosecuzione del procedimento, mostrando così di ritenere
legittimo il rito così come svolto fino a quel punto.
La in ius vocativo era un atto del tutto privato per cui una parte ingiungeva all’altra, mediante pronunzia di determinate
parole solenni, di seguirla dinanzi al magistrato. L’altra parte era autorizzata ad usare la forza per trascinare in giudizio
il recalcitrante.
Nelle l.a. dichiarative il procedimento era diviso in due fasi: in iure e apud iudicem.
La prima si svolgeva dinanzi al magistrato e serviva x fissare i termini giuridici della lite. In fine il pretore nominava un
giudice. I contendenti invocavano testimoni che attestassero il rito compiuto: litis contestatio.
La seconda fase si svolgeva dinanzi al giudice (o ad un arbitro, nel caso fossero necessarie particolari competenze
tecniche), un privato cittadino. Nelle liti di libertà si ricorreva a organi collegiali pubblici. Suo compito era raccogliere
le prove ed emanare la sentenza.
Le pretese azionabili con le l.a. erano poche, non poterono essere usate per la tutela di posizioni giuridiche non previste
dall’antico ius civile.
Con la l.a. sacramenti in rem il proprietario perseguiva la cosa che affermava appartenergli.
Procedimento: i contendenti si presentavano dinanzi al magistrato con la cosa contesa (o un suo simbolo), la parte che
aveva preso l’iniziativa della lita, tenendo in mano una bacchetta, affermava solennemente che la cosa gli apparteneva e
la toccava. L’altra parte compiva gli stressi genti.
Alla vindicatio di una parte seguiva la contravindicatio dell’altra.
Il pretore ingiungeva dunque ai litiganti di deporre la cosa. Essi si sfidavano poi al sacramentum.
Era questo un atto sacrale, divenne poi una scommessa di pagare all’erario, in caso di soccombenza, 50 o 500 assi a
seconda del valore della cosa.
Il pretore assegnava il possesso provvisorio ad una delle parti in lite, quella sostenuta da garanti più affidabili (praedes).
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Il giudizio continuava apud iudicem: ciascuna parte cercava di dimostrare che la cosa gli apparteneva, ma l’onere della
prova gravava su entrambe.
Il giudice si sarebbe pronunciato su quale dei sacramenta fosse iustum e quale iniustum.
Solo indirettamente, quindi, il giudice decideva in merito alla lite. Il soccombente pagava all’erario l’importo del
sacramentum.
La l.a. sacramenti in personam serviva per la tutela di posizioni giuridiche relative, con essa dunque si perseguivano
crediti.
Il creditore chiedeva al presunto debitore di ammettere o negare il debito. Se negava si sfidavano al sacramentum, in
modo analogo alla precedente.
La l.a. per iudicis arbitrive postulationem era esperibile per crediti nascenti da stipulatio, per la divisione di eredità, per
la divisione di beni comuni. Le parti dovevano, facendo riferimento alla fonte dei diritti vantati,rivolgersi al pretore
chiedendo la nomina di un giudice o un arbitro.
La l.a. per condictionem serviva per crediti aventi ad oggetto una somma determinata di denaro (certa pecunia), poi
estesa a cose determinate (certa res). L’attore usando certa verba affermava come proprio il credito senza precisarne la
fonte. La necessità di adempiere da parte del preseunto debitore era affermata in termini di oportere. Se il convenuto
negava si sarebbe richiesta la nomina di un giudice.
9. Il processo formulare
Con l’intensificarsi, a partire dal III sec a.C., delle relazioni commerciali con gli stranieri, e con lo sviluppo della stessa
società romana che reclamava il riconoscimento di nuove posizioni giuridiche, l’esigenza di strutture processuali
diverse.
Vi provvide il pretore urbano imponendo agli interessati di litigare per formulas. Il processo formulare si realizzava
quindi in forza dei poteri del pretore.
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9.3. La chiamata in giudizio.
Per assicurare la presenza in iure dell’avversario si provvedeva con in ius vocativo, ma contro il recalcitrante non si
sarebbe potuta usare la forza, ma il pretore poteva esercitare coazione indiretta (con l’immissione nel possesso di tutti i
beni).
Ad essa si affiancò in età preclassica il vadimonium, una stipulatio con cui il convenuto prometteva all’avversario di
comparire davanti al magistrato quando concordato.
Se la pretesa dell’attore era palesemente infondata, o emergeva che sarebbe stato iniquo perseguirla, il pretore avrebbe
negato l’azione (denegatio actionis) e il giudizio non aveva seguito.
Più spesso con la datio actionis il processo continuava. Essa presupponeva che le parti avessero concordato il testo della
formula da adottare nella specie concreta. Consisteva in un beve documento scritto in cui si indicava il giudice, e lo si
invitava a condannare o assolvere il contenuto a seconda che riscontrasse o meno le circostanze indicate nella formula
stessa.
Il pretore proponeva il testo della formula che le parti accettavano: litis contestatio. L’invocazione dei testimoni sarebbe
stata superflua, in quanto i termini della lite erano scritti.
La litis contestatio aveva effetti preclusivi, l’azione non avrebbe potuto essere ripetuta.
L’intentio, indispensabile, esprimeva la pretesa vantata dall’attore. Essa caratterizzava la formula, mostrandone la
natura ed eventualmente permettendo di stabilire il tipo dell’azione.
La demonstratio indicava la causa, la fonte, i fatti da cui derivava la pretesa dell’attore. Non tutte le formule avevano
questa parte, ce n’erano anche di astratte, dove la causa non era espressa.
L’intentio poteva essere certa o incerta: certa quando la pretesa era determinata.
Se la formula aveva demonstratio era sempre incerta, ed indicava ciò che, x i fatti indicati, il convenuto era tenuto a
fare nei confronti dell’attore.
Nelle azioni con intentio certa l’attore avrebbe potuto incorrere in pluris petitio, con la conseguenza di perdere la lite.
Pericolo non prospettabile nell’altro caso.
La condemnatio era la parte di formula con cui si invitava il giudice a condannare il convenuto se sussistevano le
condizioni indicate nella formula, diversamente, ad assolverlo.
Essa doveva precisare l’oggetto eventuale della sentenza di condanna e doveva essere necessariamente espressa in
denaro. Se si voleva che la condanna non superasse certi limiti si aggiungeva una taxatio.
La sentenza di condanna era anch’essa detta condemnatio.
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L’adiudicatio stava solo nelle formule delle azioni divisorie e per il regolamento dei confini. Autorizzava il giudice ad
aggiudicare ai partecipanti la comunione o confinanti parti definiti di quanto era oggetto della controversia.
9.7. La praescriptio.
Poiché la litis contestatio aveva effetto preclusivo, la prestazione dovuta poteva essere frazionabile, per evitare il rischio
di non ottenere tutta la prestazione, si poteva apporre una praescriptio, per cui oggetto dell’azione, e quindi effetto
preclusivo della litis contestatio, venivano limitati a quanto l’attore volesse intanto perseguire.
9.8. L’exceptio.
Era una condizione negativa della condanna: il giudice avrebbe potuto e dovuto condannare il convenuto solo se le
circostanze dedotte in questa parte non risultassero vere, diversamente avrebbe dovuto assolverlo. Questa parte era
inserita a richiesta del convenuto.
L’exceptio era un rimedio pretorio, con cui il convenuto era solitamente ammesso ad opporre circostanze iure civili non
rilevanti. L’exceptio rappresentava quindi un mezzo di attuazione dell’equità pretoria, un rimedio volto a correggere il
ius civile.
A fronte dell’exceptio del convenuto, l’attore poteva opporre circostanze per cui appariva iniquo dargli corso, inseriva
quindi una replicatio.
Tra le azioni civili, particolari erano i iudicia bonae fidei, in cui il dovere giuridico del debitore di adempiere fu in essi
espresso in termini di oportere ex fide bona, e con essi si diede sin dagli inizi tutela giudiziaria anche ai non cittadini.
Il giudice era invitato a stabilire secondo criteri di buona fede quali fossero gli obblighi a carico del convenuto. Buona
fede voleva dire correttezza nella vita di relazione.
Azioni di buona fede erano, ad es, quelle nascenti dai quattro contratti consensuali (compravendita, locazione, società e
mandato).
Le azioni civili in personam non caratterizzate da oportere ex fide bona, ma con un oportere puro e semplice si dissero
iudicia stricta.
Quanto alle azioni pretorie potevano essere utiles, con trasposizione di soggetti, e in factum, erano in ogni caso rimedi
volti a colmare lacune del ius civile.
Nell’intentio delle azioni utili e con trasposizione di soggetti non mancava il riferimento al ius civile: si operava con
esse un’estensione di azioni civili a situazioni iure civili non contemplate.
Nelle azioni in factum, invece, si prescindeva del tutto dal ius civile e si invitava il giudice a condannare o assolvere a
seconda che verificasse o non che certi eventi avevano luogo.
L’estensione della tutela civilistica si operava in vari modi, uno era la fictio. Le azioni utili in cui si usava erano dette
actiones ficticiae. Il giudice era invitato a giudicare sulla base di una finzione giuridica, come se non esistesse un
elemento o una circostanza in effetti mancanti ma che secondo il ius civile sarebbero stati necessari per dare luogo ad
una situazione tutelata.
Nelle azioni con trasposizione di oggetti, per dare modo al giudice di condannare nonostante il difetto di legittimazione
attiva dell’attore, si indicava nell’intentio il nome del soggetto effettivamente legittimato che non partecipava al
giudizio, e nella condemnatio il nome della parte che stava effettivamente in giudizio al posto del legittimato.
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La persona del convenibile è determinata sin da prima dell’esercizio dell’azione, sin dal momento in cui è sorta la
relativa obbligazione.
Azioni reali ed in personam avevano diverso regime processuale.
Il convenuto in un giudizio in personam che assumeva un atteggiamento passivo e rifiutava di difendersi, il pretore
poteva o dare corso all’esecuzione sulla persona, oppure all’esecuzione patrimoniale.
Il convenuto con azioni reali, invece, era libero di defendere o non defendere rem. In questo caso avrebbe però dovuto
consentire all’avversario l’esercizio del diritto che questi reclamava (translatio possessionis).
9.9.2. Le azioni arbitrarie. Temperamenti del principio della condanna in ogni caso pecuniaria.
Sono dette arbitrarie le azioni la cui formula conteneva una particolare clausola, la clausola restitutoria, o arbitraria, per
cui il giudice, prima di procedere a condanna pecuniaria, avrebbe dovuto invitare il convenuto a restituire, e
condannarlo solo in caso di mancata restituzione.
Se il convenuto invitato a restituire non lo avesse fatto, sarebbe stato l’attore a stabilire l’importo della condanna
pecuniaria, anche se sotto vincolo di giuramento.
Questa clausola aveva senso in tutte le azioni in cui l’attore avanzava una pretesa che non fosse in denaro. Ad avere la
clausola restitutoria erano solo le azioni reali.
Se mancava, il giudice avrebbe dovuto condannare il convenuto pure se dopo la litis contestatio avesse soddisfatto le
giuste pretese dell’avversario.
Riguardo ai iudicia bona fidei, tuttavia, si ammise che il giudice avrebbe dovuto assolverlo.
Dagli inizi del principato, e forse anche da prima, ha inizio un lento e graduale processo di depenalizzazione, e il
sistema delle azioni penali subisce forti temperamenti. In particolare:
a) riguardo l’intrasmissibilità passiva si rafforza il principio per cui contro gli eredi del colpevole può essere
proposta azione non penale nei limiti dell’arricchimento.
b) Si ammettono deroghe al principio del cumulo tra azione penale e reipersecutoria. Alcune delle prime
finiscono nella seconda categoria, e tante diventano mixtae.
c) Il criterio della nossalità cade in desuetudine rispetto ai filii familias (che risponderanno direttamente degli
illeciti commessi).
Nella maggior parte delle azioni penali la pena era maggiore rispetto al pregiudizio sofferto dalla vittima, più spesso un
multiplo.
L’esecuzione personale: il pretore pronunciava addictio del debitore a favore del creditore autorizzandolo a condurlo
nelle proprie carceri private e tenervelo assoggettato finché qualcuno non lo avesse riscattato, o finché non lo avesse
saldato col suo lavoro.
Il pretore da inizio età preclassica introdusse una particolare esecuzione patrimoniale: la bonorum venditio.
Con la missino in bona il pretore immetteva il creditore nel possesso di tutti i beni del debitore, con funzione di
custodia, e ne dava notizia a tutti gli altri eventuali creditori. Se il creditore non veniva soddisfatto entro 30gg, il
debitore diveniva infame.
A questo punto il pretore nominava un curator bonorum per gestire il patrimonio del debitore. I creditori designavano
un magistrer bonorum che avrebbe provveduto alla vendita all’asta del patrimonio. Vinceva la gara, acquistando in
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blocco il tutto, chi offriva di pagare la percentuale più alta di debiti, era detto bonorum emptor. Egli subentrava nel lato
attivo e passivo nella situazione giuridica patrimoniale del debitore. Fu considerato successore a titolo universale del
debitore, perché il pretore dava al bonorum emptor (che non diveniva proprietario iure civili) le azioni che sarebbero
spettate al debitore adattandole al caso.
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Alla sentenza extra ordinem erano attribuiti effetti pregiudiziali (un altro giudice avrebbe dovuto attenervisi).
Era assente ogni formalismo. La difesa del convenuto era detta praescriptio.
La condanna avrebbe potuto non essere espressa in denaro. Il giudice avrebbe potuto evitare esecuzione personale e
bonorum venditio disponendo il pignoramento e la vendita di singoli beni del soccombente in misura da soddisfare le
ragioni dell’altra parte.
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Capitolo III – GLI ATTI NEGOZIALI
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Non sempre la violazione di norme comportava nullità. Classificazione delle leges:
Le leges perfectae stabilivano un divieto e la nullità dell’atto compiuto nonostante il divieto.
Le leges minus quam perfectae stabilivano un divieto ed una sanzione ma non sancivano la nullità dell’atto compiuto
in difformità.
Le leges imperfectae stabilivano un divieto senza sancire né nullità né sanzioni x i trasgressori.
14.6.1. La mancipatio.
La mancipatio trovava fondamento negli antichi mores, era un atto che si compiva con il rame o bronzo e con la
bilancia, con la presenza di testimoni.
Le parti erano il emancipante, o mancipio dans, e il mancipio accipiens. Questo negozio comportava l’acquisto di un
potere su persone o cose in favore del mancipio accipiens e la perdita di un potere sulla stessa nel mancipio dans.
Era usata per l’acquisto, sulle res mancipi, di quella posizione giuridica soggettiva corrispondente alla proprietà. Ma era
utilizzata anche per la costituzione di servitù rustiche; per l’acquisto della manus sulla donna; per l’acquisto sui filii
familias altrui della potestà detta mancipium…
La mancipatio di beni mobili trasferiva nel contempo proprietà e possesso. Gli effetti della mancipatio di un fondo
inizialmente erano gli stessi, dall’età classica per questo caso non fu + necessario recarsi sui luoghi, ma non veniva
trasferito anche il possesso, per questo era necessario che il mancipio dans ne facesse ulteriormente consegna.
L’atto descritto era uno scambio immediato di cosa contro un corrispettivo in metallo che l’accipiens pagava al
mancipiante. E poiché prima dell’introduzione della moneta a coniata il metallo aveva la stessa funzione di merce di
scambio, la mancipatio era un scambio di cosa contro prezzo, quindi una vendita.
Col riconoscimento, agli inizi dell’età preclassica, del contratto consensuale di compravendita, la mancipatio perdette la
funzione di vendita. Fu definita imaginaria venditio. Essa tuttavia mantenne sia la struttura originaria che gli effetti.
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La mancipatio produceva i suoi effetti anche se non vi era una “causa” e poteva essere compiuta anche per cause
diverse dalla vendita, come donazione, dote…
14.9. L’errore.
La divergenza tra il dichiarato e il voluto può anche essere non consapevole, in conseguenza di un errore, potendo
taluno attribuire alla propria manifestazione di volontà un significato diverso da quello che essa obiettivamente ha.
L’errore può aversi anche per il fatto che una parte attribuisce alla manifestazione di volontà dell’altra parte un valore
diverso da quello obiettivo, o comunque diverso da quello che costei vi ha dato. Si avrà allora un dissenso.
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L’errore può dipendere da una svista, da cattiva conoscenza della lingua o, più in generale, da ignoranza del modo
comune di esprimersi e di comportarsi, da un fraintendimento, viene detto errore ostativo.
Da esso bisogna distinguere il cosiddetto errore-vizio (che di per sé non esclude la volontà) ovvero l’errore per cui uno
compie un negozio in quanto convinto di circostanze non vere.
I romani non fecero mai questa separazione tra errore ostativo ed errore-vizio.
Per quanto riguardava le parti fisse dei negozi formali del ius civile l’errore era irrilevante e il negozio ugualmente
valido. Ma molti di quei negozi formali avevano anche parti in bianco, da riempire ogni volta con i dati del negozio in
questione (es. oggetto della prestazione nella stipulatio, nome dell’erede…), e ad esse si riconobbe che l’errore potesse
causare la nullità.
Dalla ricca casistica delle fonti si possono ricavare talune direttive di massima.
L’errore di diritto, cioè l’errore che dipende da ignoranza o fraintendimento di norme, è solitamente irrilevante, e il
negozio valido.
L’errore su elementi di fatto, invece, fu solitamente ritenuto rilevante, con conseguente nullità del negozio.
Doveva trattarsi però di errore al contempo scusabile (non grossolano) ed essenziale (che riguarda il negozio nei suoi
aspetti fondamentali). Erano ritenuti essenziali: l’error in negozio (sull’identità del negozio da compiere), l’error in
persona (sull’identità del destinatario o dell’altra parte del negozio), l’error in corpore (sull’identità fisica dell’oggetto
del negozio), l’error in materia (sulla composizione materiale dell’oggetto; no invece l’error in qualitate).
14.10. Il dolo.
La parola “dolo” quale criterio di responsabilità esprime l’idea della volontarietà di un comportamento e delle relative
conseguenze per altri pregiudizievoli.
Il dolo negoziale è il vizio della volontà nei negozi giuridici, una macchinazione volta a trarre in inganno altra
persona così che compia un negozio per lei pregiudizievole che altrimenti non avrebbe voluto e quindi neanche
compiuto. Quando l’errore, quindi, non è imputabile all’autore del negozio ma è indotto dall’altrui inganno non si parla
di errore ma di dolo. Se l’errore di per sé non sempre era rilevante, l’errore indotto da dolo lo fu (età preclassica).
Per il ius civile il negozio viziato da dolo era inizialmente valido ed efficace. Il principio subì deroga nei negozi che
davano luogo a giudizi di buona fede, poiché dolo e buona fede si escludono a vicenda.
Nel I sec a.C. il pretore nel suo editto cominciò a promettere l’exceptio doli. Era uno strumento necessario per
invalidare in negozi dai quali nascevano azioni che non erano di buona fede; infatti la vittima dell’imbroglio sarebbe
potuto essere chiamata in giudizio per l’adempimento e, contro di lui la relativa azione sarebbe stata iure civili fondata.
Ma grazie ad essa, accertato l’inganno, il convenuto sarebbe stato assolto.
Ma cosa accadeva se la vittima, inconsapevole dell’inganno subito, avesse dato esecuzione al negozio?
Tra il 70-60aC fu introdotto l’actio de dolo, esperibile dalla vittima contro l’autore del dolo. L’importo della pena
corrispondeva al danno subito dall’autore. Questa azione era grave perché comportava anche l’infamia a carico di chi
fosse stato condannato.
Il pretore la concedeva solo in mancanza di altro mezzo giudiziario in favore dell’ingannato.
Il negozio già eseguito non veniva invalidato, ma l’ingannato poteva ottenere la condanna dell’autore del dolo.
Altro rimedio pretorio contro il dolo negoziale è l’integrum restitutio proprter dolum.
14.11. Il metus.
Altro vizio della volontà è il metus, il timore generato dall’altrui violenza, ovvero alla minaccia di provocare un male se
il minacciato non compia un certo negozio.
Deve trattarsi di una minaccia grave, delle minaccia di un pregiudizio maggiore di quello rappresentato dalla
conclusione del negozio, occorre inoltre che il male minacciato sia ingiusto e la minaccia seria.
Anche questo è un caso di vizio della volontà perché il negozio in sé è voluto ma la volontà si è fomata per effetto del
timore generato dalla vis.
In teoria il negozio era iure civili valido ed efficace. Tuttavia il convenuto,con una azione ex fide bona, avrebbe potuto
ottenere l’assoluzione senza bisogno di exceptio.
Nel I sec a.C. il pretore introdusse l’exceptio metus, grazie alla quale la persona convenuta per l’adempimento di un
negozio estorto con la violenza avrebbe ottenuto l’assoluzione. L’eccezione era opponibile anche a persona diversa
dall’autore della violenza.
Ancora pretoria era l’actio quod metus causa, che si dava a chi avesse dato esecuzione al negozio estorto con la
violenza prima ancora di essere chiamato in giudizio per l’adempimento. Poteva essere utilizzata non colo contro
l’autore della minaccia ma anche contro terzi che si fossero avvantaggiati da essa.
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Altro rimedio pretorio edittale era la integrum restitutio propter metum che tendeva a neutralizzare gli effetti che iure
civili si erano già prodotti.
14.12. La causa.
Chiunque compie un negozio giuridico non può non avere motivi propri, personali, per cui l’ha compiuto. Ogni
negozio è compiuto dal suo autore per una “causa”. Essa è la ragione d’essere oggettiva del negozio, l’ultima, la più
immediata in relazione agli effetti dell’atto, e pertanto la funzione che si intende realizzare attraverso gli effetti che il
negozio andrà a produrre (es la causa negoziale sarà in ogni caso lo scambio di cosa contro prezzo nella
compravendita).
Nel mutuo e nella compravendita la causa determina la struttura del negozio, ne rappresenta quindi un elemento
costitutivo. Essi sono quindi detti negozi causali.
Ad essi si contrappongono i negozi astratti, in cui la causa non è espressa, non emerge dalla struttura del negozio. Quel
che la struttura del negozio astratto esprime sono solo gli effetti giuridici, non la causa (mancipatio, in iure cessio,
stipulatio…).
Ad es la stipulatio era produttiva di obbligazioni. Questi erano gli effetti. La causa non vi compariva quindi gli stessi
negozi potevano essere compiuti per cause diverse.
I negozi astratti, in teoria, erano e restavano iure civili validi ed efficaci pure se la causa mancava o era illecita. Da età
preclassica però si ammise in casi del genere il ricorso alla condictio (per la restituzione di quanto già prestato) o alla
exceptio (per la neutralizzazione degli effetti che derivavano dal negozio).
14.12. La condictio.
Con la conditio si perseguivano crediti per cui l’attore pretendeva sussistere a carico dell’altra parte un obbligo di dare
espresso col verbo oportere, un dare che avrebbe potuto avere ad oggetto una certa pecunia o una certa res.
14.13.1. La condizione.
Per condizione di intende sia l’evento futuro e oggettivamente incerto dal quale si fanno dipendere gli effetti del
negozio sia la clausola, aggiunta al negozio, che contempla l’evento.
Le condizioni si distinguono in sospensive e risolutive. Le prime sospendono gli effetti del negozio (non produce i suoi
effetti finché l’evento non si verificherà), le altre lo risolvono (produce i suoi effetti che però finiranno automaticamente
se e quando l’evento si verificherà).
Non tutti i negozi giuridici tolleravano l’aggiunta di condizioni, es i cosiddetti actus legitimi (es macipatio, in iure
cessio). In essi l’aggiunta di condizione comportava l’invalidità dell’atto.
Erano tutti negozi che si compivano mediante la pronuncia di certa verba, tali da risultare logicamente incompatibili
con un rinvio, quale la condizione sospensiva avrebbe comportato, degli effetti loro propri.
Gli effetti di taluni atti erano di per sé subordinati al verificarsi di certi eventi (es. i legati sarebbero stati efficaci una
volta efficace il testamento,quindi non prima della morte del testatore). Si parla di condicio iuris.
Esistevano anche le condizioni cosiddette in praesens vel in praeteritum conlatae, che facevano dipendere gli effetti
del negozio da eventi attuali o passati, non quindi futuri e neanche oggettivamente incerti. Il negozio sarebbe stato
efficace subito se l’evento risultava verificato, altrimenti non avrebbe mai prodotto effetti.
L’evento dedotto in condizione poteva essere impossibile: materialmente impossibile o giuridicamente impossibile. La
conseguenza della condizione avrebbe dovuto essere in ogni caso l’invalidità del negozio.
Dei negozi mortis causa i giuristi di scuola sabiniana affermarono invece la validità ed efficacia pure se con condizione
impossibile, dovendosi questa considerare come non apposta.
Regime analogo si adottò, in definitiva, per le condizioni nei quali l’elemento dedotto fosse illecito.
Le condizioni possono essere positive o negative: le prime subordinano gli effetti del negozio al verificarsi dell’evento
posto in condizione; le altre al non verificarsi di esso.
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Le condizioni possono essere potestative, casuali e miste.
Potestative sono quelle il cui avveramento dipende da un atto volontario della persona interessata, causali quelle il cui
avveramento dipende dal caso o dalla volontà di terzi, miste quelle il cui avveramento dipende sia dalla volontà di
persona interessata sia dal caso o dalla volontà di terzi.
Si ritenne nullo il negozio con condizione potestativa il cui avveramento dipendesse dalla pura e semplice volontà della
parte che vi aveva interesse contrario (prometti di pagarmi 100 se vorrai? Prometto).
Le condizioni potestative possono essere negative, l’avveramento può cioè essere soggetto al fatto che la persona che
dal negozio trarrebbe vantaggio non adotti in futuro un determinato comportamento.
Il problema si pone quando la condizione non contempla un termine perché, per essere certi che si verifichi, bisogna
attendere la morte dell’interessato.
Condicio pendet: la condizione pende, non si è verificata ed è tuttora incerto se si verificherà. Il negozio, in sé valido,
non produce i suoi effetti e non si sa se li produrrà.
Il debitore, quindi, che avesse adempiuto la prestazione in pendenza della condizione avrebbe potuto pretendere la
restituzione.
Condicio deficit: la condizione viene a mancare. Il negozio si rivela destinato a restare senza effetti.
Condicio extitit: la condizione si è verificata. Il negozio comincerà a produrre i suoi effetti. Per diritto romano essi
decorrevano generalmente dal momento dell’avveramento della condizione.
Tutte queste erano condizioni sospensive. Alla condizione risolutiva si fece ricorso raramente, in eccezioni.
La regola era di non ammettere condizioni risolutive: non era congeniale alla mentalità giuridica romana che effetti
giuridici potessero cessare automaticamente per il fatto in sé di un evento qualsiasi solo perché pensato e voluto da
privati con efficacia risolutiva. Così era sia in materia di trasferimento della proprietà che in negozi come l’istituzione di
un erede o gli atti di liberazione dei servi.
14.13.2. Il termine.
Anche il termine è un elemento accidentale del negozio giuridico.
Riguarda un evento futuro ma si tratta di un evento che è certo che si verificherà. Il termine si definisce quindi come
una clausola che prevede un avvenimento futuro e certo dal quale si fanno dipendere gli effetti del negozio.
Nelle fonti romane ci si riferisce al termine col termine dies.
Poteva trattarsi di un evento per il quale c’era certezza sia che si sarebbe verificato sia quando (quest’ ultimo non
necessariamente).
Il termine poteva essere iniziale (dies a quo) o finale (dies ad quem).
Alcuni negozi non tolleravano l’apposizione di termini: in alcuni casi l’aggiunta dava luogo a nullità dell’atto.
14.3.3. Il modus.
Consiste nell’imposizione al destinatario di un atto di liberalità di adottare un comportamento determinato. A differenza
della condizione potestativa, che se la condizione non è verificata il negozio non produce effetti, il negozio modale è
immediatamente efficace e così rimane al di là dell’adempimento del modus. Solo che il beneficiario sarà obbligato a
compiere quanto il modus gli impone.
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Capitolo IV – LE PERSONE
16. Capacità giuridica. La dottrina dei tre status (libertatis, civitatis, familiare).
La parola status fa riferimento alla posizione giuridica della persona.
Piena capacità giuridica ha la persona che è al contempo libera, cittadina romana e pater familias, o comunque non
soggetta a potestà. La persona giuridicamente capace viene detta sui iuris, a cui si contrappongono gli alieni iuris,
persone giuridicamente incapaci e soggette ad altrui potestà.
16.1.1. I servi.
La schiavitù è un istituto antico del diritto romano. La diffusione su larga scala a Roma è però legata ai successi militari
e conseguente cattura di prigionieri che venivano ridotti in servitù.
Le cause di schiavitù più rilevanti furono la nascita da madre schiava e la cattura al nemico. Con la cattura il prigioniero
diventava schiavo. La regola valeva anche per i Romani catturati dai nemici.
Ma i Romani non tolleravano che cittadini romani diventassero schiavi in patria, venne così introdotto il ius postlimini,
per cui il cittadino romano catturato e diventato schiavo del nemico avrebbe riacquistato libertà e cittadinanza una volta
tornato in patria. Sarebbe stato inoltre reintegrato nella posizione giuridica personale e patrimoniale precedente alla
cattura.
In età postclassica fu consentita e regolamentata la vendita dei figli ancora neonati, che sarebbero divenuti schiavi del
compratore. Giustiniano limitò la possibilità di vendita ai soli casi di estrema povertà.
La posizione degli schiavi era complessa. Essi sono sia nella categoria delle personae, in quanto esseri umani, sia nella
categoria delle res, quali possibili oggetti di proprietà o di altri diritti soggettivi: più specificatamente res mancipi.
Non sono giuridicamente capaci e non possono quindi avere alcun diritto soggettivo o potestà. Le loro unioni non hanno
rilievo per il diritto e neanche i vincoli tra genitori e figli.
Gli schiavi erano persone alieni iuris perché assoggettati alla potestà del proprietario (dominus) che esercitava su di
essi, come su ogni cosa propria, un potere assolute, anche il diritto di vita e di morte.
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Ai servi, seppur privi di capacità giuridica, si riconobbe sin dall’età arcaica una specie di capacità d’agire: si diede cioè
rilevanza a certi loro comportamenti volontari.
Il criterio era che essi potessero solo migliorare, e non peggiorare, la posizione giuridico-patrimoniale del dominus.
Essi partecipavano quindi validamente a negozi che comportassero acquisto di diritti soggettivi; solo che ad acquistare
la proprietà, il credito… non era il servo che era stato parte del negozio ma il suo proprietario.
Contro il servo altrui responsabile di delicata, la vittima poteva esercitare vendetta direttamente, dalva la facoltà del
dominus di evitare sia l’impossessamento che la pena corporale col pagamento di una pena pecuniaria. Si parla di
responsabilità nossale.
16.1.1.1. Il peculio.
Gli atti di disposizione, se compiuti da schiavi, avrebbero dovuto essere del tutto inefficaci dal punto di vista del diritto:
il servo non aveva nulla di proprio quindi di nulla poteva disporre; non era giuridicamente capace e quindi non poteva
assumere obbligazioni; non poteva peggiorare la posizione patrimoniale del dominus, e quindi nessun suo negozio
avrebbe potuto generare obligatio a carico dello stesso dominus.
Già dall’età arcaica era uso concedere ai servi un “peculio”. Proprietario del peculio tuttavia era e restava il dominus ma
si ammise presto che essi potessero trasferire il possesso delle res peculiari, salva la facoltà del dominus di revocare il
peculio in ogni momento.
I servi che avevano un peculio potevano con esso trafficare con i terzi. Da qui il riconoscimento che i servi potessero
adempiere agli obblighi assunti con atto lecito e potessero farlo validamente anche se i terzi non avrebbero potuto
costringerveli.
Da ciò la negazione al dominus del diritto di pretendere dal terzo la restituzione di quanto il servo gli avesse dato in
adempimento di un proprio obbligo, ed inoltre il riconoscimento che il servo potesse assumere obligationes naturales
(non civiles; non davano luogo ad actiones).
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Manumissio vindicta: si svolgeva davanti al magistrato alla presenza di dominus e schiavo. In origine era una
finta vindicatio in libertatem: un adsertor in libertatem dichiarava libero il servo toccandolo con una bacchetta;
il dominus non si opponeva e il servo acquistava così la libertà.Nel corso del tempo il rito si semplificò sempre
più.
Manumissio censu: vi si ricorreva in occasione delle operazioni di redazione delle liste del censo. Il censore,
dietro autorizzazione del dominus, iscriveva il servo nelle liste del censo, quindi tra i cives Romani.
Manuomissio testamento (la + diffusa): era una disposizione testamentaria, aveva quindi efficacia dopo la
morte del testatore che l’aveva disposta. Vi si potevano aggiungere condizioni sospensive o termini iniziali.
Da fine età repubblicana si usò liberare i servi anche in forme diverse, tramite le manumissioni pretorie (es. Inter
amicos, per epistulam...). I manomessi in queste forme, non riconosciute dal ius civile, non acquistavano inizialmente la
libertà; il pretore tutelava la libertà di fatto del servo liberato, negando eventualmente al dominus la vindicatio in
servitutem.
Giustiniano li equiparò ai manomessi nelle forme civili.
La manumissio fideicommissaria era una manumissione indiretta; il testatore poteva far carico ad un erede di
manomettere un servo. In caso di rifiuto l’onerato avrebbe potuto esservi costretto.
Altra forma dell’età postclassica era la manumissio in sacrosanctis ecclesiis, dichiarazione di volontà di liberare il
servo resa dinanzi all’assemblea dei fedeli (cristiani) in presenza del vescovo.
I servi potevano acquistare la libertà anche diversamente che per manumissione, ad es diventava libera la schiava
venduta a patto che non venisse prostituita una volta che il patto fosse stato violato.
Il fenomeno dei servi liberati che diventavano liberi e cittadini romani aveva assunto al tempo di Augusto proporzioni
preoccupanti: si temette un’alterazione della compagine statale a causa dell’immissione di un eccessivo numero di
schiavi liberati. Con la lex Fufia Caninia e la lex Aelia Sentia si pose, con la prima, un limite alle manumissioni
disposte in testamento, con l’altra veniva vietata la manumissione di schiavi di cattiva condotta e manumissioni in frode
ai creditori; subordinò a speciali garanzie le manumissioni compiute da domini minori di vent’anni e di servi di età
inferiore a trent’anni.
16.1.2. I liberti.
Gli schiavi liberati acquistavano la libertà e con essa, di solito, la cittadinanza romana. Diventavano anche sui iuris e
quindi giuridicamente capaci. Essi erano chiamati “liberti”.
I liberti avevano una scarsa considerazione sociale e subivano discriminazioni per il diritto pubblico (in teoria erano
esclusi dalle cariche pubbliche).
L’ex dominus assumeva la qualifica di “patrono” che inizialmente poteva imporgli vari obblighi (prestazioni di operae,
cioè servizi giornalieri domestici e artigianali), che col tempo si andarono attenuando fino al dovere del liberto di
prestare al patrono o suoi discendenti obsequium e reverentia.
Nel ius patronatus rientravano le aspettative successorie del patrono sui beni del liberto, nonché il diritto del patrono
alla tutela legitima.
Un esempio è il colonato. I coloni erano persone libere di umile condizione, piccoli affittuari di terre; oppure umili
liberi lavoratori giornalieri dei campi.
In età postclassica, in un contesto di irrigidimento delle classi sociali, i coloni furono vincolati alla terra che
coltivavano, al punto che nnon potevano esserne distaccati neanche dai proprietari, e venivano alienati insieme al fondo.
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Subirono gravi limitazioni della capacità giuridica e di agire: i loro beni furono considerati quasi come un peculio
servile, alienabile solo col consenso del proprietario del fondo. Su di essi il proprietario poteva esercitare
legittimamente atti di coercizione fisica.
I peregrini erano invece persone libere ma non cives. Per i rapporti privati a loro si applicava il ius gentium.
A volte si concedeva ad essi, singolarmente o a comunità, il ius commercii o il ius connubii.
Al gradino più basso stavano i peregrini dediticii, membri di collettività straniere che si erano arrese a Roma senza
condizioni e all’interno delle quali il vincitore aveva abrogato ogni ordinamento nazionale. Negata quindi loro ogni
capacità di diritto privato nazionale, vi si applicava lo ius gentium.
Le diverse categorie di peregrini all’interno del territorio romano scomparvero poco a poco, gradualmente uguagliate ai
cives.
16.5.2. Il matrimonio.
Presupposto per la costituzione di una familia proprio iure dicta era il matrimonio legittimo, o iustae nuptiae, per le
quali era richiesto il connubium, che gli sposi fossero almeno in età pubere e il consenso reciproco degli sposi.
Il connubium era l’attitudine a vivere in matrimonio legittimo con l’altro coniuge. La regola era che esso sussistesse tra
cittadini romani.
L’antico divieto di connubium tra patrizi e plebei fu rimosso dalla lex Canuleia nel 445 a.C.
I classici collegavano a tale requisito anche il divieto di matrimonio tra parenti.
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Se la violazione di una delle clausole predette era di impedimento all’esistenza del matrimonio, non lo era invece il
lutto vedovile. Era fatto divieto alla vedova di risposarsi prima del decorso del tempus lugendi, dieci mesi dalla morte
del marito.
La violazione del lutto vedovile comportò, con l’editto pretorio, l’infamia e successivamente anche la perdita dei lasciti
disposti in suo favore nel testamento del primo marito, e anche della capacità di acquistare mortis causa da terzi.
Al matrimonio poteva accompagnarsi la conventio in manum, per cui la moglie cadeva sotto la manus del marito. La
conseguenza era che la moglie veniva incorporata nella famiglia del marito, mutava lo status familiae e perdeva iure
civili ogni legame con i parenti di prima.
Tuttavia la conventio in manum poteva non avere luogo. Il matrimonio poteva essere cum manu e sine manu. Nei
matrimoni sine manu la moglie manteneva lo status familiae di prima.
In età arcaica e preclassica i matrimoni cum manu costituivano la regola, gli altri l’eccezione. Poi i matrimoni liberi si
andarono diffondendo sempre più in linea con una maggiore indipendenza che le donne andavano acquistando nella
società e nel diritto.
I matrimoni cum manu, ormai rarissimi in età classica, scomparvero del tutto nell’epoca successiva.
Per la costituzione del matrimonio non si esigeva alcun rito; oltre ai requisiti di validità era sufficiente che tra due
persone di sesso diverso si stabilisse convivenza, con la volontà di vivere come marito e moglie.
Questo atteggiamento soggettivo era definito affectio maritatis. Ma come provare l’esistenza di un tale dato soggettivo?
Essa poteva desumersi, ad esempio: dalla preesistenza di sponsali; dalla circostanza che si era proceduto a costituzione
della dote; o a conventio in manum; che si erano svolti i festeggiamenti tipici delle nozze; dell’avvenuta benedizione
nuziale in Chiesa (con diffusione del Cristianesimo).
Nessuna di queste circostanze era necessaria dal punto di vista del diritto per l’esistenza del matrimonio ma ognuna di
esser avrebbe potuto essere utilmente invocata quale prova.
16.5.4. Il divorzio.
Se il matrimonio era convivenza e insieme affectio maritatis esso si scioglieva, oltre che per morte (o perdita della
libertà/cittadinanza) del marito o della moglie, anche per il fatto che in uno o in entrambi i coniugi fosse venuta meno
l’affectio maritatis e si fosse quindi interrotta la convivenza. Si parlò di divortium, se era unilaterale di repudium.
Non erano richieste formalità per il divorzio, esso determinava lo scioglimento del matrimonio qualunque fosse la
causa. Solo il comportamento del coniuge che vi avesse dato causa veniva talora sanzionato: es età repubblicana con la
nota censoria.
In età postclassica per influsso del Cristianesimo il regime classico del matrimonio subì trasformazioni notevoli, tuttavia
il diritto romano non arrivò mai ad abolire il divorzio. Lo ostacolò, non lo abolì.
Nessun ostacolo si oppose mai fondamentalmente al divorzio per mutuo consenso.
Il ripudio fu invece ritenuto lecito solo in alcuni casi (detti di divortium bona gratia), in presenza di motivi ritenuti
validi e non imputabili ad alcuno dei coniugi (impotenza, scomparsa, deportazione…).
Il divorzio era inoltre consentito in altre ipotesi di comportamento gravemente colpevole dell’altro coniuge (adulterio,
aver tentato di prostituire la moglie, tenere una concubina, essersi macchiati di gravi crimina).
In ogni altra ipotesi il ripudio sarebbe stato sine causa e quindi illecito: il matrimonio si scioglieva ugualmente ma il
coniuge che avesse divorziato sarebbe stato colpito da sanzioni che andavano dalla perdita della dote alla deportatio in
insulam.
Erano questi i primi avvisi dell’idea del matrimonio come vincolo giuridico che, una volta costituito, può durare a
prescindere dalla persistente volontà di marito e moglie di vivere in matrimonio.
16.5.5. La dote.
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È un istituto romano arcaico. Consisteva in una o più cose o diritti che la moglie, il di lei pater familias o un terzo
conferivano al marito espressamente come dote. Profeticia se costituita dal pater, adventicia negli altri casi.
La funzione originaria della dote era, in relazione ai matrimoni cum manu, di compensazione x la figlia delle
aspettative ereditarie che ella perdeva rispetto alla famiglia di origine per il fatto di uscire da essa e di entrare a far parte
della famiglia del marito.
Con l’affermarsi dei matrimoni liberi, la dote rappresentò un contributo ad sustinenda onera matrimonii.
Poiché, inoltre, al divorzio la dote andava di norma restituita alla moglie, essa aveva anche la funzione di mantenimento
della moglie una volta divorziata/vedova.
La dote poteva essere costituita sia prima del matrimonio e in previsione di esso sia durante il matrimonio stesso. Se
costituita prima, dotis dictio e promissio dotis si intendevano compiute sotto condizione sospensiva (tacita) che avessero
dato effetto a matrimonio avvenuto.
La datio dotis, invece, produceva immediatamente gli effetti traslativi del dominio. Ma il costituente, se le nozze non
avessero avuto luogo, avrebbe potuto pretendere la restituzione di quanto dato.
Il marito diventava titolare dei beni e diritti dotali. Tuttavia la dote era costituita a favore della moglie.
Questo punto di vista sociale aveva riscontro a livello giuridico: fu presto sancito l’obbligo del marito (o degli eredi) di
restituire la dote, solitamente alla moglie, dopo lo scioglimento del matrimonio.
In età classica fu fatto divieto al marito di alienare beni immobili dotali senza il consenso della moglie.
Era uso frequente che il marito si assumesse espressamente l’obbligo di restituire la dote, all’atto della costituzione,
mediante stipulatio.
L’actio rei uxoriae cmq prescindeva da tale eventuale promessa. Presupponeva che il matrimonio fosse stato sine manu
ed era esperibile una volta sciolto il matrimonio.
L’azione era intrasmissibile, non si trasmetteva cioè agli eredi della persona legittimata ad esperirla.
In alcuni casi particolari il marito avrebbe potuto trattenere parte della dote, come sanzione del cattivo comportamento
della moglie o a carattere patrimoniale, riguardo le cose che la donna avesse sottratto al marito in vista del matrimonio,
le cose donate alla moglie durante il matrimonio, le spese erogate dal marito sui beni dotali.
L’adrogatio si compiva con la partecipazione dei comitia curiata x l’occasione presieduti dal pontefice, il quale
interrogava i due soggetti interessati circa la volontà di adrogare e di essere adrogato. Avuta risposta positiva, il
pontefice chiedeva al popolo il proprio assenso.
In età classica si riconovve per certi casi particolari che l’adrogatio potesse compiersi mediante scritto dell’imperatore.
Questa forma si diffuse rapidamente.
L’adrogato diventava filius familias e con lui andavano sotto la stessa potestas le persone libere, filii familias e donne in
manu, eventualmente già sotto la potestà dell’adrogato.
I beni e i diritti soggettivi che facevano capo all’adrogato erano acquistati dall’adrogante.
I debiti in precedenza contratti si estinguevano, ma il pretore intervenne in materia concedendo ai creditori un’actio
ficticia per cui il giudice avrebbe giudicato come se non ci fosse stata l’adrogatio.
L’adoptio riguardava un alieni iuris filius familias il quale passava dalla famiglia di origine alla famiglia dell’adottante,
spezzando iure civili ogni vincolo con la famiglia d’origine. L’adottante prendeva su di lui patria potestas.
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L’effetto si conseguiva tramite un complesso procedimento che permetteva di superare il precetto per cui la patria
potestas si perdeva solo con la morte del pater. I pontefici sfruttarono il precetto che puniva con la perdita della patria
potestas il padre che avesse per tre volte venduto il figlio.
Il padre emancipava per tre volte il figlio all’adottante il quale, acquistandolo in causa mancipii, dopo la prima e la
seconda mancipatio lo manometteva. Con la terza mancipatio il padre perdeva la patria potestas quindi l’adottante
glielo rimancipava: questa volta il padre naturale acquistava l’adottando non più come filius ma come persona in causa
mancipii. A questo punto dinanzi ad un magistrato l’adottante rivendicava come propria la persona che voleva adottare
affermando che fosse un proprio filius e il padre non obiettava.
Giustiniano semplificò il procedimento con una semplice dichiarazione di volontà di dare e ricevere in adozione.
Da età postclassica i figli nati fuori dal matrimonio diventavano figli legittimi una volta che i genitori si fossero uniti in
iustae nuptiae.
Augusto concesso ai filii familias militari di potere disporre per testamento dei proventi del servizio militare e dei beni
con tali proventi acquistati peculio castrense. Il pater non avrebbe potuto farlo suo.
Peculio quasi castrense: guadagni ed ai beni acuistati dal filius coi proventi derivanti dall’esercizio di funzioni civili a
servizio dello Stato, dall’esercizio di attività forense e del sacerdozio.
La patria potestas si estingueva solitamente con la morte del pater familias. Con essa i filii, maschi e femmine,
immediatamente soggetti alla sua patria potestas cessavano di essere filii e diventavano sui iuris.
Gli altri filii familias, i nipoti cioè figli di filii ancora sotto la potestà del padre, con la morte di quest’ultimo restavano
alieni iuris stto la patria potestas del loro genitore divenuto a sua volta pater familias.
Alla norma delle XII Tavole per cui il padre che avesse per tre volte mancipato il filius perdeva su di lui la sua patria
potestas, si fece ricorso anche per consentire che un filius familias uscisse dalla famiglia diventando sui iuris ancora
vivo il pater. Il procedimento fu detto macipatio, ed era molto simile a quello usato per l’adoptio.
Il figlio emancipato cessava di appartenere alla famiglia di origine spezzando anche ogni vincolo di agnatio e subiva
captis deminutio minima.
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Confarreatio: era un arcaico solenne rito religioso. Esigeva la pronuncia di parole determinate in presenza di
dieci testimoni. Si consumava un sacrificio a Giove nel quale era consumato, fra l’altro, pane di farro (panis
farreus da cui il nome).
Coemptio: era una mancipatio adatta al fine dell’acquisto della manus.
La moglie in manu nell’ambito della famiglia era considerata come una figlia rispetto al marito; quindi, eventualmente,
come una nipote rispetto al suocero pater familias, come una sorella rispetto ai suoi stessi figli…
I modi di estinzione della manus erano quindi gli stessi per la cessazione della patria potestas, solo che vi era un
ulteriore rito, la difarreatio, rito uguale e contrario rispetto alla confarreatio.
L’affinità (adfinitas) è il legame che unisce un coniuge con i parenti dell’altro coniuge. Anche l’adfinitas può essere in
linea retta e in linea collaterale a seconda che il rapporto del coniuge con la persona sia in linea retta o collaterale.
16.7.1. L’infamia.
Le persone che, per comportamenti riprovevoli loro imputabili, per l’esercizio di determinate attività o per la condanna
subita in certi giudizi, andavano incontro a disistima sociale erano state colpite da infamia o ignominia. Ad es le
persone dedite a mestieri indecorosi (prostitute, gladiatori, commedianti…) o i condannati per taluni crimina (crimina
capitalia, calumnia, praevaricatio) e quanti avessero subito condanna per responsabilità propria in determinate actiones
infamanti, oppure i debitori che persistessero nell’inadempimento.
Gli infames e gli ignominiosi andavano incontro a gravi incapacità di diritto pubblico (incapacità di rivestire cariche
pubbliche.
17.1. L’età.
La distinzione fondamentale al riguardo era tra impuberi, che non avevano ancora raggiunto la capacità fisiologica di
generare, e puberi. Vi era differenza con le femmine.
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Scuola sabiniana: maschi decidere caso per caso in base a caratteri esteriori connessi alla capacità di generare; femmine
al compimento del 12° anno d’età.
Scuola proculiana: maschi al compimento del 14° anno; femmine al compimento del 12° anno.
Gli impuberi erano infantes (fanciulli non ancora in grado di un eloquio ragionevole, minori di 7anni) o infantia
maiores.
La capacità di agire era riconosciuta ai puberi. Era riconosciuta solo in parte agli impuberi infantia maiores, che erano
ammessi a compiere senza assistenza di alcuni, quei negozi giuridici che comportavano l’acquisto di un diritto, non
invece degli atti dispositivi e di assunzione di obbligazioni.
Problemi di gestione patrimoniale, oltre che di assistenza personale, si posero per gli impuberi sui iuris, per cui essi
furono soggetti a tutela impuberum. Ad esercitarla era il tutore, l’impubere tutelato era chiamato pupillo.
La tutela impuberum poteva essere: legitima, tutela cui le XII Tavole chiamavano l’agnatus proximus dell’iimpubere
(es. il fratello); testamentaria, se il pater familias, temendo di morire prima che il figlio raggiungesse la pubertà, avesse
nominato nel suo testamento un tutore; dativa, dal 210 aC il pretore poteva nominare, su istanza della madre o di altri
congiunti, anche estranei, un tutore all’impubere sui iuris che non ne avesse alcuno.
Il tutore esercitava un potere nell’interesse della familia per la buona conservazione del patrimonio familiare, allo stesso
tempo adempiva ad un dovere assicurando al pupillo assistenza e protezione.
Sino a tutta l’età classica questo istituto era riservato ai cittadini romani maschi, dall’età postclassica la madre
dell’impubere, rimasta vedova, poté esercitare la tutela a condizione che non si risposasse.
Prerogativa del tutor impuberum era l’auctoritas; egli era legittimato ad intervenire nei negozi compiuti dal pupillo
infantia maior che non poteva compiere da solo (atti dispositivi e di assunzione di obbligazioni) apponendovi la sua
auctoritas.
Gli infantes invece non erano capaci di compiere alcun atto giuridicamente rilevante, con o senza auctoritas.
Il tutore era ammesso a gestire da solo il patrimonio pupillare, ma i suoi poteri diminuirono finché in età postclassica,
egli poteva alienare liberamente solo beni pupillari di scarsissimo valore.
Gli atti compiuti dal solo tutore nell’interesse dell’impubere avrebbe avuto effetti in capo allo stesso tutore che poi,
cessata la tutela, avrebbe compiuto gli appositi atti di trasferimento.
La tutela cessava, solitamente, al raggiungimento del pupillo dell’età pubere.
Finita la tutela il tutore poteva essere chiamato a rendere conto della sua gestione. Alle XII Tavole risaliva l’actio
rationibus retribuendi, in età preclassica al pupillo fu concessa l’actio tutelae, infamante.
Al tutore era concessa invece un’actio tutelae contraria contro il pupillo per il rimborso delle spese, non infamante.
Il pretore provvide anche all’istituzione della figura del curatore del minore adolescente (curator minoris) con il
compito di assisterlo nella gestione degli affari. Il consenso del curatore era una garanzia per i terzi perché al minore
sarebbe stato poi praticamente impossibile invocare la propria inesperienza e pretendere di vanificare gli effetti del
negozio compiuto.
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Sordi, muti ed altri soggetti colpiti da certe malattie croniche invalidanti erano, per il diritto, di per sé capaci di agire ma
erano ovviamente impediti in pratica ad operare nel mondo del diritto ed a gestire autonomamente i propri affari. Il
magistrato, sollecitato dagli interessati, provvedeva dunque a nominare loro curatori speciali.
18.1. Le corporazioni.
Fenomeni di corporazioni furono riconosciuti dai Romani nel populus Romanus, nelle civatates e nei collegia.
Per populus Romanus si intendeva la collettività dei cittadini romani politicamente organizzati, tutto ciò che lo
riguardava era considerato appartenente alla sfera pubblica, quindi estranea al diritto privato.
La capacità giuridica di civitates e collegia invece fu anche di diritto privato.
Civitates fu un termine generale per designare municipia e colonie, agglomerati urbani fuori dalle città di Roma e con
autonomia amministrativa, erano composti dai cittadini romani (le colonie da Latini coloniarii).
I collegia erano associazioni di minore importanza. Potevano avere scopi di culto, ma anche corporazioni di artigiani e
commercianti, di congregazioni di povera gente col fine di provvedere ai riti funebri e al seppellimento dei propri
membri.
Le XII Tavole lasciavno agli associati la libertà di decidere uno statuto col solo limite che fosse conforme alle leggi.
Augusto sciolse i collegi esistenti che non fossero di antica e solida tradizione e stabilì la necessità dell’approvazione
preventiva del Senato o dell’imperatore.
A civitates e collegia si riconobbe capacità giuridica di diritto privato, potevano compiere compravendite, locazioni,
mutui, mancipationes, stipulationes; il pretore concesse loro di stare in giudizio tramite actores.
Civitates e collegia avrebbero potuto avere beni in proprietà e in possesso e ad essi avrebbero potuto fare capo debiti e
crediti.
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Capitolo V – LE COSE
19.1. Res corporales e res incorporales.
Per indicare le entità materiali i romani parlarono di res corporales, cui contrapposero le res incorporales, ovvero:
eredità, usufrutto, obbligazioni, servitù prediali. Erano cioè taluni diritti soggettivi.
Il diritto di proprietà, identificandosi col suo oggetto, era esso stesso considerato res corporalis.
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19.8. Cose divisibili e indivisibili.
19.9. Cose semplici, cose composte, cose collettive.
Erano considerate semplici le cose che costituivano un’unità naturale (es una pietra), composte le cose costituite da più
cose semplici congiunte tra loro artificialmente, le collettive erano cose semplici non congiunte e tuttavia considerate
unitariamente (un gregge).
19.10. I frutti.
Divenivano propriamente frutti una volta separati dalla cosa madre. Prima della separazione ne erano partes.
Come i frutti furono considerate le attività lavorative dei servi ed anche i frutti civili, cioè il corrispettivo che si ottiene
concedendo una cosa in godimento. Così anche il corrispettivo nel caso della locazione di una cosa.
20.1. La proprietà.
La proprietà è un diritto soggettivo di natura reale per cui al proprietario (che ne è titolare) si riconosce sulla cosa che ne
è oggetto una signoria generale.
Non è possibile elencare le facoltà in astratto spettanti al proprietario: rientrano tutte nell’idea del godimento e della
disponibilità pieni ed esclusivi della cosa.
Queste facoltà possono in concreto subire limitazioni di varia ampiezza. Quelle imposte dall’ordinamento giuridico
sono dette limitazioni legali. Ma sono pure possibili limitazioni volontarie ad opera del proprietario, per effetto della
costituzione, sulla cosa stessa, di diritti reali limitati (servitù, usufrutto…).
Una volta che questi diritti si siano estinti le facoltà di godimento del proprietario tornano ad espandersi sino a
riacquistare pienezza.
Il diritto di proprietà non si perde per il fatto in sé che non venga esercitato ma sussiste sin quando non si verifichi, e
sempre che non si verifichi, un fatto che ne determini l’estinzione.
Di norma il proprietario è anche possessore della cosa propria, ma può non esserlo e tuttavia restare proprietario. La
proprietà è un diritto imprescrittibile.
20.1.3.2. La rappresentazione del dominium ex iure Quiritium come potere assoluto e illimitato.
Era un potere assoluto e illimitato, da cui l’idea della proprietà come ius utendi et abutendi re sua, cioè diritto di usare
ed abusare della cosa propria.
L’orientamento che emerge dalle fonti è che ci esercita un proprio diritto non lede nessuno.
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Fino al III sec d.C. la proprietà civile imobiliare era esente da tributi. Diocleziano, nel 292, le introdusse quando
vennero parificati i fondi italici e quelli provinciali.
Distinzione tra modi di acquisto a titolo originario e a titolo derivativo. I primi prescindono da ogni relazione tra chi
acquista e il precedente proprietario. Possono avere ad oggetto una cosa di nessuno, ma possono anche avere ad oggetto
una cosa altrui. Rilevante è che l’acquisto abbia luogo indipendentemente da ogni relazione col precedente proprietario.
Sono invece derivativi quei modi in cui l’acquisto dipende dalla trasmissione che ne fa il titolare, la proprietà viene
acquistata così com’era presso colui che l’ha trasmessa.
Nessuno può infatti trasferire ad altri più di quanto egli stesso non abbia.
Ai modi di acquisto derivativi sono accostati quelli costitutivi, per cui taluno diventa titolare di un diritto soggettivo che
si costituisce ex novo, ma che ha tuttavia radice nel più ampio diritto del soggetto che lo costituisce (es costituzione
usufrutto).
Il dominio quiritario si acquistava a titolo originario per occupazione, accessione, specificazione; si acquistava a titolo
derivativo per mancipatio, in iure cessio, traditio, legato per vindicationem, adiudicatio.
Ai modi di acquisto a titolo particolare, cioè gli acquisti di uno o più beni individuati e determinati, si contrappongono i
modi di acquisto a titolo universale, quelli in cui l’acquisto di beni consegue all’acquisto di complessi patrimoniali dalle
componenti di per sé non necessariamente definite.
20.1.3.4.1. L’occupazione.
L’occupazione consisteva nella presa di possesso di cose che non appartenevano a nessuno (es animali allo stato
selvatico, cose sottratte al nemico in guerra…). Per occupazione poteva essere acquistato anche il dominio quiritario
sulle cose abbandonate (res derelictae), purché res nec mancipi. Delle res mancipi il proprietario manteneva il dominio
finché un eventuale occupante ne fosse divenuto egli stesso proprietario per usucapione.
20.1.3.4.2. L’accessione.
Con questo termine si fa riferimento ai fenomeni accomunati dalla circostanza che una cosa corporale subisce un
incremento, un completamento, un arricchimento per l’aggiunta di un’altra che non appartiene allo stesso proprietario.
La cosa che subisce l’incremento viene detta principale, l’altra, che si aggiunge, accessoria.
L’incremento si verifica a vantaggio del proprietario in quanto tale della cosa principale.
Un caso di accessione è quello dell’unione di cose di qualità diversa. L’unione si dice organica quando ha luogo per
compenetrazione di corpi così che la cosa accessoria diventa tutt’uno con la cosa principale.
La inaedificatio consiste nella costruzione di un edificio con materiale appartenente a persona diversa dal proprietario
del suolo.
Il proprietario del suolo diveniva automaticamente proprietario anche dell’edificio, ma non necessariamente dei
materiali con cui era stato costruito.
Se qualcuno costruiva su terreno proprio con materiali altrui, il proprietario del suolo lo diveniva anche dell’edificio, ma
i materiali di costruzione separatamente considerati avrebbero continuato ad appartenere a colui a cui già
appartenevano.
Per riaverli, però, avrebbe dovuto attendere che l’edificio venisse demolito. Demolizione che, cmq, non avrebbe potuto
pretendere.
Nell’ipotesi, invece, di costruzione con materiali propri su terreno altrui, il proprietario dei materiali manteneva la
proprietà quiescente su di essi solo se all’atto della costruzione fosse stato in buona fede.
20.1.3.4.3. La specificazione.
Era la trasformazione di una cosa altrui sino a farne altra cosa che, nel comune apprezzamento, appare nuova.
In età classica emerse la distinzione a seconda che la specificazione fosse o meno reversibile: se lo era il dominus
materiae ne avrebbe mantenuto la proprietà, altrimenti lo specificatore avrebbe acquistato la res nova.
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Esse avevano una struttura poco adatta per atti traslativi perché era solo chi acquistava ad avere un ruolo attivo. Una
volta emersa l’idea di proprietà come diritto soggettivo che prescinde dal possesso, si affermò anche il principio per cui
l’acquisto da parte del macinio accipiens o del cessionario di quel potere che fu detto dominium, fosse subordinato
all’esistenza dello stesso potere rispettivamente nel emancipante e nel cedente.
Questi negozi comportavano anche passaggio di possesso solo quando erano beni mobili, altrimenti era richieso che
l’alienante ne facesse anche traditio.
20.1.3.4.5. La traditio.
Era un negozio bilaterale che si compiva con la consegna di una cosa, poteva avere ad oggetto sia mobili sia immobili e
trasferiva comunque il possesso.
Riguardava soltanto le res corporales, le sole suscettibili di possesso.
Quando ne erano oggetto res nec mancipi la traditio trasferiva anche la proprietà.
La consegna materiale della cosa poteva mancare: bastava che il tradens facesse conseguire all’accipiens la
disponibilità della cosa. Traditio symbolica (es merci contenuto magazzino, chiavi), traditio longa manu (es fondo,
indicazione dei confini ad alienante e dichiarazione di volontà trasferimento), traditio brevi manu (quando acquirente
teneva già la cosa che l’alienante gli trasmetteva).
Non ogni consegna era traditio in senso proprio, ma solo quella per cui la persona che riceveva acquistava il possesso.
Per il passaggio del possesso occorreva la concorde volontà di tradens e accipiens di fare acquistare a quest’ultimo una
posizione indipendente in ordine ala cosa consegnata. Per il passaggio della proprietà si richiedeva, specificatamente, la
volontà delle parti di fargli acquistare il possesso uti dominus, cioè quale proprietario.
Per il trasferimento della proprietà occorreva una iusta causa traditionis, cioè la ragione per la quale si procedeva a
traditio e giustificava l’acquisto della proprietà.
Le iuste causae erano in numero definito: causa vendendi (venditore che consegnava a compratore la cosa venduta),
causa donandi (donante che consegnava al donatario la cosa donata), causa solvendi (debitore che adempiva
l’obbligazione di dare) etc.
È incerto se, ai fini dell’effetto traslativo, la iusta causa dovesse effettivamente sussistere o se bastava che le parti la
credessero esistente.
Certo è che, quando la proprietà passava nonostante mancasse una iusta causa effettiva, il tradens avrebbe potuto
pretendere la restituzione mediante condictio.
20.1.3.4.7. L’adiudicatio.
Era la pronunzia del giudice formulare che traeva fondamento da quella parte della formula pure detta adiudicatio, che
si trovava nei giudizi divisori e per il regolamento dei confini.
In virtù di essa il giudice assegnava a ciascuna delle parti (o una soltanto) una o più res tra quelle comuni oggetto della
divisione.
I comproprietari cessavano di essere tali e diventavano proprietari esclusivi di beni determinati.
20.1.3.4.9. L’usucapione.
Trovava fondamento nelle XII Tavole e comportava l’acquisto del dominium ex iure Quiritium, ed era quindi riservata
ai cittadini romani.
Erano usucapibili le cose suscettibili di dominium ex iure Quiritium che fossero anche habiles, idonee cioè ad essere
usucapibili.
Non erano res habiles le res furtivae e le res vispossesae. Le cose rubate mantenevano la non usucabilità anche presso
eventuali terzi acquirenti in buona fede.
Non ogni possesso conduceva all’usucapione, ma solo quello di chi teneva la cosa come propria.
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L’usucapione, a norma delle XII Tavole, si compiva col decorso di due anni per gli immobili, di un anno per le altre
cose.
Con la morte del possessore il tempus usucapionis non subiva interruzioni perché l’erede subentrava nel possesso al
posto dell’ereditando e nella sua stessa posizione possessoria.
È di età classica avanzata il principio dell’accessio possessionis, per cui il compratore avrebbe potuto sommare il
proprio possesso a quello del dante causa.
Per l’usucapione si richiese presto il titulus o iusta causa, tale da giustificare l’acquisto della proprietà per effetto del
possesso continuato per il tempo stabilito.
Il titolo nella pratica più ricorrente era quello del pro emptore, cioè il compratore cui il venditore avesse trasmesso il
possesso della cosa venduta ma non la proprietà.
Erano iuste causae usucapionis pure il titolo pro legato e quello pro derelicto. Possedeva pro legato il legatario di un
legato per vindicationem cui la cosa fosse stata legata da un testatore non proprietario; pro derelicto l’inventore di una
res mancipi derelicta.
Verso la fine dell’età repubblicana, ai fini dell’usucapione, si richiese anche la buona fede, la convinzione cioè del
possessore di non recare ad altri, col proprio possesso, ingiusto pregiudizio. La buona fede doveva sussistere al tempo
dell’acquisto del possesso.
Con l’usucapio pro erede la persona che avesse preso possesso anche di una sola cosa ereditaria, purché appartenente
ad un’eredità giacente, trascorso un anno avrebbe acquistato l’eredità nel suo complesso pure in difetto di titolo ed
anche in mala fede.
Rispondeva all’esigenza che un’eredità non restasse a lungo deserta, in quanti in mancanza di eredi non vi sarebbe stato
nessuno che pagasse i creditori ereditari e provvedesse ai sacra.
In età preclassica furono limitati gli effetti di questa usucapio alle singole cose ereditarie possedute.
Poteva accadere che il convenuto possessore, prima della lite, avesse erogato sulla cosa delle spese. Il convenuto, se
possessore in buona fede, avrebbe potuto opporre l’exceptio doli chiedendo almeno che prima fosse rimborsato di
queste spese. Dovevano però essere spese necessarie, o utili.
Nessun rimborso era dovuto al possessore in mala fede.
Il convenuto, per essere assolto, avrebbe dovuto risarcire anche i frutti percepiti dopo la litis contestatio e risarcire gli
eventuali danni subiti dalla cosa per suo dolo o colpa.
Il possessore che avesse usucapito dopo la litis contestatio avrebbe dovuto ritrasferire all’attore la proprietà, compiendo
l’idoneo atto traslativo.
Le azioni negatorie spettavano al dominus ex iure Quiritium, contro quanti esercitassero illegittimamente sul bene
servitù o usufrutto.
L’actio aquae pluviae arcendae si dava al proprietario del fondo rustico contro il proprietario del fondo vicino nel caso
in cui questi o altri ne avessero alterato lo scorrere naturale delle acque piovane, con la conseguenza che queste
confluissero più copiose e oltre misura nel fondo dell’attore.
La cautio damni infecti era una stipulatio pretoria con la quale il proprietario di un fondo che temeva un danno dal
proprietario del fondo adiacente, si faceva promettere che, se il danno si fosse verificato, quest’ultimo lo avrebbe
risarcito.
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Contro il vicino che negava di prestare la cautio il pretore emetteva decreto di missio in possessionem, con la quale il
missus acquistava la detenzione ai fini di sorveglianza e prevenzione.
Quando sul fondo del vicino erano in corso opere di costruzione o demolizione che si ritenevano lesive di un proprio
diritto, l’interessato poteva ricorrere all’operis novi nuntiatio.
Es proprietario del fondo vicino gravato da servitù di non sopraelevare che inizi a costruire. Proprietario del fondo
dominante poteva intimare la sospensione dei lavori prima che fossero conclusi. Se l’avesse continuata il pretore
l’avrebbe costretto alla demolizione.
Con l’interdictum quod vi aut claum il proprietario del fondo avrebbe ottenuto la rimozione della costruzione che taluno
avesse realizzato vi (nonostante il suo divieto) o clam (senza chiedere autorizzazione) sul fondo dello stesso attore.
Circa i modi di acquisto sbiadì la distinzione tra negozi astratti di trasferimento e relative causae esterne, così che
vendita e donazione furono considerate sia cause che atti causali di trasferimento della proprietà.
Abolita la differenza tra res mancipi e res nec mancipi come negozio per il trasferimento della proprietà rimase la
traditio.
Constantino istituì una longissimi temporis praescriptio, quarantennale, opponibile, a prescindere da titolo e buona fede,
dal possessore di un immobile. Giustiniano dispose la fusione dell’usucapio e longi temporis praescriptio, riferendo la
prima ai soli beni mobili, l’altra ai beni immobili.
I termini si stabilirono in 3 anni per i mobili e 10 o 20 per gli immobili.
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La comunione di proprietà poteva essere volontaria o incidentale (es per legato per vindicationem).
Ciascun partecipante, socius, era titolare di una quota ideale del bene.
Ogni comproprietario poteva alienare la propria quota, ma nulla di più; partecipava alle spese e faceva suoi i frutti nella
misura corrispondente alla sua quota.
Ciascun proprietario poteva da solo operare nella gestione e fruizione della cosa comune, ma per innovazioni spettava a
ciascuno il diritto di veto.
Se un socius avesse rinunciato alla sua quota, questa si sarebbe accresciuta agli altri, a ciascuno in proporzione della
misura del suo diritto sulla cosa comune.
La manomissione del servo comune da parte di uno dei socii non lo rendeva libero ma dava luogo ad accrescimento in
favore degli altri. Era necessario perché acquistasse la libertà che tutti compissero l’atto di affracazione.
Il rimedio per la divisione dei beni comuni era l’actio communi dividendo. Se la cosa comune era indivisibile nella
formula vi era una condemnatio per procedere a conguagli in denaro.
Con Giustiniano questa azione si poté usare anche per ottener dai contitolari il dovuto in relazione alla gestione della
cosa comune.
La servitù deve essere utile al fondo dominante, non quindi utile in sé, al proprietario attuale, ma oggettivamente al
fondo. I due fondi, quindi, se non contigui devono essere almeno vicini.
La servitù non può consistere in un fare. Il proprietario del fondo servente potrà essere tenuto solo a pati (tollerare) o
non facere (non fare).
Le servitù si distinguono in positive o negative in relazione al lato attivo del rapporto. Positive sono le servitù per il cui
esercizio il proprietario del fondo dominante deve tenere un comportamento attivopati del proprietario servente.
Negative sono le servitù il cui esercizio non comporta alcuna attivitànon facere.
Non si pervenne mai nel diritto romano ad individuare una categoria unitaria di servitus, ma si riconobbero
gradualmente singole figure di servitù. Esse erano quindi tipiche.
Temperamento a questo principio era il modus servitutis, una precisazione eventuale delle modalità di esercizio della
servitù (es passaggio consentito solo in alcune ore).
Le servitù rustiche rientravano tra le res mancipi, quelle urbane tra le res nec mancipi.
Nel diritto giustinianeo anche usufrutto ed uso furono inserite tra le servitutes, dette servitù personali.
Le servitù si costituivano mediante negozi con effetti reali: con mancipatio le servitù rustiche, in iure cessio entrambe.
Altro modo di costituzione è il patio et stipulatio, un patto accompagnato da stipulatio con oggetto il contenuto di una
servitù.
Altro modo era l’exceptio servitutis. Aveva luogo quando il proprietario di due fondi, nell’alienarne uno mediante
mancipatio, d’accordo con l’acquirente costituiva tra essi servitù a carico del fondo che alienava.
Altro modo era l’adiudicatio, rientrando tra i poteri del giudice dei giudizi divisori stabilire servitù tra fondi che, con la
divisione, venivano assegnati a comproprietari diversi.
Le servitù non si costituivano mediante traditio, perché erano res incorporales, non suscettibili di possesso. Fu quindi
escluso per esse anche l’usucapione.
Le servitù si estinguevano: per confusione, rinunzia o remissio servitutis, non usus (mancato esercizio continuato per
due anni). Per le servitù negative si considerò non esercitata dal momento in cui il proprietario del fondo servente
avesse tenuto un comportamento incompatibile con l’esercizio della servitù (es avesse sopraelevato).
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A difesa delle servitù vi era la vindicatio servitutis, ogni volta adattata al tipo di servitù in questione, poi detta anche
actio confessoria.
20.3. L’usufrutto.
Altro diritto reale limitato di godimento su cosa altrui è l’usus fructus.
Era un diritto soggettivo reale di usare e percepire i frutti di una cosa altrui senza alterarne la destinazione economica.
Il titolare è detto usufruttuario, il proprietario della cosa gravata, nudo proprietario.
Fu riconosciuto come diritto autonomo per esigenze legate alla diffusione dei matrimoni sine manu, per conservare
intatto ai figli il patrimonio della famiglia e assicurare al contempo alla propria vedova un dignitoso sostentamento. Dal
II sec a.C. si diffuse la prassi di legare alla moglie l’usufrutto così che ne godesse in vita e la proprietà restasse ai figli
(istituiti eredi).
Oggetto dell’usufrutto potevano essere cose mobili e immobili, mancipi e nec mancipi, purché in consumabili e
fruttifere. Dovevano essere res corporales.
L’usufruttuario poteva usare la cosa e percepirne i frutti, i quali diventavano suoi dal momento dell’effettiva percezione.
L’usufruttuario poteva a sue spese curare la manutenzione ordinaria della cosa, e doveva, quindi, avere cura che la cosa
non perisse o si deteriorasse, né poteva mutare la destinazione quale era al momento della costituzione dell’usufrutto.
A garanzia dell’adempimento dei suoi obblighi all’usufruttuario si imponeva la prestazione della cautio fructuaria, una
stipulatio pretoria con la quale l’usufruttuario prometteva al nudo proprietario sia la restituzione del bene una volta
estinto l’usufrutto sia un uso della cosa con criteri di correttezza.
L’usufrutto aveva carattere personale, era quindi inalienabile e intrasmissibile agli eredi. L’usufruttuario poteva tuttavia
cederne l’esercizio. L’usufrutto aveva durata limitata nel tempo, essendo destinato ad estinguersi al più tardi con la
morte dell’usufruttuario.
L’usufrutto si estingueva in ogni caso con la morte dell’usufruttuario. Alla morte era equiparata la capitis deminutio,
anche minima.
Poteva estinguersi anche prima della morte per: avveramento della condizione risolutiva o scadenza del termine finale
eventualmente contemplati; perimento della cosa; trasformazione della cosa sì da risultarne mutata la destinazione
economica, rinunzia, consolidazione e per non usus (1anno mobili, 2anni immobili).
L’usus era un diritto reale di godimento su cose altrui. Il titolare, usuario, avrebbe avuto il diritto di usare direttamente e
personalmente la cosa, ma non di percepirne i frutti (es usuario di edificio poteva abitarci).
Diversamente dall’usufrutto, non era divisibile, ma per il resto erano uguali.
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20.7. Gli agri vectigales.
Erano le terre pubbliche che i censori prima e anche i municipia poi erano usi dare in concessione a privati; vectigal era
il canone periodi che erano tenuti a pagare i concessionari, detti possessores, i quali erano tutelati contro turbative e
spossessamenti.
Le concessioni potevano essere a termine e revocabili per mancato pagamento del canone.
A fine I sec a.C. il pretore concesse un’azione reale per il recupero del possesso. Si ammise che fosse trasmissibile e che
su di esso fosse possibile costituire diritti reali limitati a favore di terzi, e che il concessionario potesse esercitare talune
delle azioni spettanti al dominus.
20.8. L’enfiteusi.
Venute meno in età postclassica le concessioni di agri vectigales, si svilupparono altri tipi di concessioni di terre
pubbliche: ius perpetuum e ius emphiteutitcum, unificate nel V sec d.c. e chiamate enfiteusi.
L’enfiteuta era tenuto solitamente al miglioramento del fondo e cmq tenuto al pagamento di un canone annuo, avrebbe
potuto alienare il fondo ma avrebbe dovuto, a parità di condizioni, preferire il concedente (a cui cmq andava poi il 2%
del fondo).
L’enfiteusi si estingueva per mancato pagamento del canone o dell’imposta fondiaria per 3 anni, per alienazione del
fondo a terzi senza cura verso il concedente, per confusione.
La datio pignoris, del III sec a.C., era il pegno manuale, la consegna cioè di una cosa al creditore in modo che la tenesse
finché il debito non fosse stato saldato; la proprietà restava però al debitore.
La conventio pignoris, II sec a.C., era una patto tra creditore e proprietario di una cosa, suo debitore, con cui, pur
restando la cosa presso il proprietario, si conveniva che il creditore ne avrebbe preso possesso in caso di
inadempimento, tenendola fino all’avvenuta estinzione del debito.
I giuristi configurarono il pegno come istituto unitario. In età classica, riguardo alla conventio pignoris venne però usato
il termine hypotheca.
Il pegno era validamente costituito da chi avesse la cosa in bonis, quindi sia proprietario quiritario che pretorio.
Il creditore pignoratizio una volta possessore della cosa, non ne avrebbe potuto godere, altrimenti avrebbe commesso
furtum usus. Il creditore tratteneva la cosa finché il debito non fosse estinto.
Da fine età repubblicana si riconobbero validi sia il patto commissorio, per cui il creditore avrebbe acquistato la
proprietà del bene dal debitore inadempiente, sia il patto x cui egli aveva facoltà di vendere la cosa e soddisfarsi col
ricavato, restituendo l’eccedente al debitore (ius vendendi).
Da fine età classica quest’ultimo si ritenne tacitamente stabilito per ogni pegno.
Se il creditore non trovava compratori, gli si riconobbe il diritto di acquistare la proprietà del pegno.
La conventio pignoris non comportava il passaggio immediato del possesso al creditore, la stessa cosa poteva essere
convenuta in pegno (ipotecata) a più creditori, x obbligazioni diverse.
Era considerato di rango maggiore, e aveva quindi ipoteca di primo grado, il creditore in favore del quale l’ipoteca fosse
stata convenuta prima (non necessariamente il credito più antico).
Il pegno si estingueva per effetto dell’adempimento, ma anche per perimento della cosa, per confusione, per vendita in
esecuzione del ius vendendi, fino a Costantino x vendita in virtù del patto commissorio, per rinunzia del creditore.
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Gli ager publicus erano lasciati all’occupazione o in concessione dietro corrispettivo. I concessionari erano detti
possessores, il loro potere sulle terre possessio.
In età arcaica il pretore cominciò a proteggere questi contro le molestie e spossessamenti, poi anche quanti avessero
l’usus ai fini dell’usucapione, poi anche i creditori pignoratizi, sequestratari e quanti tenessero come propria una cosa
mobile.
Era assicurata la difesa possessoria e attribuita la relativa qualifica a soggetti che avessero della cosa una posizione
indipendente, o cmq il controllo. Restavano esclusi coloni, inquilini e altri che la tenevano in virtù di contratto di
locazione, ma anche depositari, comodatari, usufruttuari e schiavi e filii familias. Questi ultimi soggetti erano detti
detentori.
Più antico era l’interdictum uti possidetis: riguardava gli immobili, tendeva a far cessare turbative e molestie, e doveva
essere esperito entro l’anno dal giorno in cui queste avessero avuto inizio.
Grazie ad una exceptio prevaleva dei due litiganti quello che possedeva la cosa in modo non violento, non clandestino,
non precario.
Quindi chi aveva acquistato il possesso con violenza, godeva sì della difesa possessoria, ma non nei confronti della
persona che aveva spossessato.
L’interdictum utrubi si applicava a schiavi, animali e altre cose mobili. Prevaleva quello dei due litiganti che avesse
posseduto la cosa per maggiore tempo durante l’ultimo anno.
L’interdictum unde vi riguardava i beni immobili, e si dava alla persona che avesse subito spoglio violento del possesso.
Anche qui era tutelato solo il possessor iustus.
L’interdictum de vi armata spettava alla vittima di uno spoglio violento contro la persona che l’avesse commesso
avvalendosi di una banda armata.
21.4. Corpus possessionis e animus possidenti. Acquisto, conservazione e perdita del possesso.
La possibilità di disporre della cosa non poteva prescindere dall’intenzione di tenere la cosa per sé. I giuristi
individuarono nel possesso un corpus possessionis e un animus possidenti.
Il primo si riconobbe a quanti avessero un contatto materiale con la cosa ma soprattutto a quanti ne avessero il controllo.
L’animus possidendi non era inteso come animus domini, ma come intenzione di tenere la cosa per sé, nel proprio
interesse.
A questi concetti i Romani diedero importanza a proposito di acquisto, conservazione e perdita del possesso. Perché il
possesso di una res si acquistava dal momento in cui taluno, con animus possidendi, aveva possibilità di disporne e si
conservava finchè tale possibilità perdurava senza smettere l’animus.
Il senso è che chi ha iniziato a tenere una cosa in forza di un titolo, di una causa, non può pretendere di possederla ad un
altro titolo per avere mutato da sé il proprio animus (es detentore che vuole diventare possessore).
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Il possesso di una cosa composta non comportava possesso anche delle singole partes che la componevano, così che il
possessore dell’intero non le avrebbe usucapite.
Il possesso riguardava le res corporales. Da qui la negazione che fosse concepibile il possesso di usufrutto e servitù.
Il diritto di proprietà non fu concepito come ius: si identificava con la cosa che ne era oggetto; pertanto chi teneva la
cosa come propria possedeva direttamente la cosa stessa.
Quanti esercitavano usufrutto e servitù non furono ritenuti possessori: non possedevano la cosa perché il possesso
restava al nudo proprietario e al proprietà del fondo servente.
Il pretore intervenne in età classica concedendo a quanti, titolari e non, esercitavano usufrutto su immobili, gli interdetti
uti possidetis e unde vi che, per la mancanza di possesso, non potevano competere loro in via diretta; e tutelò con
speciali interdicta coloro che esercitavano talune servitù.
Si parlò quindi di “quasi possesso”.
Capitolo VI – LE OBBLIGAZIONI
22. Il concetto di obligatio.
Per obbligazione si intende un vincolo giuridico per cui un soggetto, detto debitore, è tenuto a un determinato
comportamento nei confronti di altro soggetto, detto creditore.
Il comportamento cui è tenuto il debitore è la prestazione; il dovere giuridico del debitore è il debito, il corrispondente
diritto soggettivo del creditore, il credito.
Caratteristica dell’obbligazione è che si tratta sempre di persone determinate.
L’azione che si dà all’occorrenza al creditore/i contro il debitore/i sarà pertanto un’actio in personam.
La prestazione del debitore consiste in un comportamento determinato, che spesso è un comportamento positivo. La
realizzazione del credito esige in ogni caso la collaborazione del debitore.
Se l’inadempimento è imputabile al debitore, egli incorre in responsabilità, cioè la posizione di chi deve render conto,
ed è perciò esposto al rischio di subire una sanzione.
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Il nexum è un atto cui si ricorreva (con 5testimoni e un libripens con bilancia) in relazione a prestiti di denaro, o cmq di
metallo usato come merce di scambio.
Con il nexum il debitore, divenuto nexus, pur restando persona libera, non serva, era subito assoggettato al creditore, il
quale lo teneva presso di sé, esercitava su di lui coercizione e lo utilizzava per attività lavorative; ciò sin quando il
nexus non avesse con il suo lavoro scontato il debito.
Il nexum fu abolito dalla lex Poetelia Papiria, del 326 a.C.
Il negozio più antico da cui deriva l’obligatio è la sponsio, a cui partecipavano interrogante e promettente: questi restava
vincolato alla promessa, e quindi ad una prestazione futura, ed era egli stesso responsabile in caso di mancato
adempimento.
La stessa struttura del rapporto che nasceva dalla sponsio si andò estendendo ad altri rapporti da atto lecito. Si parlò di
obligatio.
Il fenomeno interessò poi gli atti illeciti, da cui la pena pecuniaria come riscatto x liberare l’offensore
dall’assoggettamento fu configurato come il contenuto di una prestazione cui era tenuto l’autore dell’illecito in favore
della vittima.
Quanto alla responsabilità, agli inizi, quando l’esecuzione per debiti si effettuava per mezzo della legis actio per manus
iniectionem, il responsabile era esposto al rischio dell’assoggettamento personale al potere del creditore. Venute meno
le legis actiones, l’esecuzione personale rimase, e con essa il rischio dell’addictio del debitore.
Per intervento del pretore, in alternativa all’esecuzione personale, il creditore avrebbe potuto procedere a esecuzione
patrimoniale.
Con l’andare del tempo, riconosciuti altri tipi di esecuzione patrimoniale meno gravosi per il debitore, all’esecuzione
personale si dovette fare ricorso solo contro debitori del tutto privi di mezzi.
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Facere comprendeva ogni comportamento diverso da dare, poteva essere un’attività materiale o il compimento di un
negozio giuridico: vi rientrava anche il non facere.
Non è chiaro il significato di praestare: nelle fonti talvolta è usato per ogni possibile prestazione.
L’ostacolo poteva essere aggirato col ricorso a una stipulazione penale, una stipulatio con la quale una parte prometteva
all’altra di pagare una certa somma di denaro, per l’eventualità che la prestazione non venisse effettuata come e quando
convenuto. In questo modo si aggirava il principio per cui le prestazione doveva essere suscettibile di valutazione
pecuniaria.
Affinché nascesse obbligazione si richiedeva che il creditore ne avesse interesse. Da qui il divieto di contratti in favore
di terzi.
La prestazione doveva essere possibile. Era quindi nullo il negozio giuridico che ponesse a carico del debitore una
prestazione rivelatasi impossibile. La prestazione poteva essere impossibile materialmente o giuridicamente (es
trasferire proprietà di un uomo libero).
Era invece valido il negozio che facesse carico al debitore di trasferire la proprietà di cosa non sua.
Il principio per cui si negava valore ad un’obbligazione con prestazione impossibile, dunque, faceva riferimento
all’impossibilità assoluta, non relativa.
La prestazione doveva essere lecita, pena la nullità. Non era lecita la prestazione contraria al diritto oggettivo o al buon
costume.
La prestazione doveva essere determinata o determinabile. Poteva essere determinabile anche con rinvio a elementi
esterni rispetto al negozio che si compiva (es in compravendita parti convenivano che prezzo fosse uguale a quello a suo
tempo pagato dal venditore).
Era pure determinabile la prestazione la cui precisazione fosse affidata ad alcuna delle parti o a un terzo.
Il negozio era nullo qualora fosse strutturato in modo che la relativa obligatio nascesse, dal lato attivo e passivo,
direttamente in capo all’erede di una delle parti (es stipulatio x cui promettente promette di adempiere all’erede dello
stipulante).
I giuristi classici proposero accorgimenti che eludevano questo principio. Si fece ricorso alla figura dell’adstipulator e
si ritenne valida una stipulatio per la quale il promettente avrebbe adempiuto in punto di morte.
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31. La (cosiddetta) responsabilità contrattuale.
L’inadempimento poteva dipendere da impossibilità sopravvenuta della prestazione.
Il debitore ne era responsabile se l’impossibilità fosse stata a lui imputabile.
Il debitore in alcuni casi (in particolare se il debitore teneva la cosa a proprio vantaggio) rispondeva per custodia, un
criterio molto rigoroso, il debitore era liberato solo se la prestazione diveniva impossibile per caso fortuito o forza
maggiore, in dipendenza quindi di eventi che sfuggivano a ogni sua possibilità di controllo.
Il depositario rispondeva solo per dolo, perché era a vantaggio del deponente, non proprio, che egli teneva la cosa
depositata.
Per dolo si intese la volontarietà del comportamento, e insieme la volontarietà dell’evento dannoso da esso provocato.
Nell’ambito dei iudicia bonae fidei l’ampia discrezionalità attribuita al giudice nella formula consentiva di adeguare la
decisione alle circostanze del caso concreto.
Per altre ipotesi il grado di responsabilità del debitore fu limitato ora al dolo soltanto (es mandato) ora anche per colpa,
cioè un comportamento negligente e imprudente.
Culpa lata è la colpa grave nella quale incorre il debitore che non intende quel che tutti intendono e, quanto agli effetti,
è equiparata al dolo. Ad essa viene contrapposta la culpa levis che consiste nel non adoperare la diligentia propria
dell’uomo medio.
Culpa in concreto è quella di chi non cura le cose altrui come le proprie.
Ai criteri di imputazione dell’inadempimento si poteva, nelle obbligazioni da contratto, derogare con patto contrario.
Sarebbe stato in tal modo possibile estendere alla forza maggiore la responsabilità di ogni debitore, ovvero limitare al
dolo la responsabilità del comodatario.
Il rischio dipendente da un evento pregiudizievole per taluno e non imputabile a nessuno è detto periculum. Esso era
generalmente a carico del creditore, proprietario o meno della cosa perita.
Il fatto che il debitore cui fosse imputabile la impossibilità sopravvenuta della prestazione fosse ritenuto di ciò
responsabile comportava che, contro di lui, il creditore avrebbe potuto esercitare ancora l’azione propria del rapporto tra
le parti, la stessa esperibile se la prestazione fosse stata ancora possibile (perpetuatio obligationis).
32. La mora.
Il ritardo colpevole nell’adempimento della prestazione dava luogo a mora.
Il debitore cadeva in mora quando, consapevolmente e senza alcuna giustificazione, non adempiva il proprio debito.
Affinché fosse evidente, si invitava il debitore ad adempiere (interpellatio).
Essa si ritenne superflua in due casi: a) obbligazioni con termine iniziale previsto nel negozio costitutivo, b)
obbligazioni nascenti da furto.
Il debitore moroso era responsabile per l’impossibilità sopravvenuta della prestazione qualunque ne fosse stata la causa,
tranne nei iudicia bona fidei, nei quali si ammise che il debitore moroso fosse liberato se avesse provato che, eseguita
tempestivamente la prestazione, la cosa sarebbe perita ugualmente.
Altro principio è quello per cui il debitore moroso deve corrispondere al creditore anche i frutti della cosa dovuta dal
momento in cui sia caduto in mora: o, nel caso di debiti pecuniari, gli interessi.
Cadeva in mora (mora accipiendi) il creditore che rifiutasse la prestazione che il debitore gli offriva. Con la mora del
creditore il debitore, divenuta impossibile la prestazione, sarebbe stato in ogni caso responsabile per dolo soltanto.
La mora accipiendi cessava una volta che il creditore concretamente manifestasse disponibilità a ricevere la
prestazione.
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obbligatori non classificabili tra i contratti per difetto di accordo volto a far nascere l’obbligazione (es. tutela, legati,
solutio indebiti. Inoltre vi inserì certi illeciti pretori sanzionati da azioni penali, ma non così gravi da essere classificati
tra i delitti.
Nelle Istitutiones di Giustiniano si propone una quadripartizione delle fonti delle obbligazioni: contratti, delitti, quasi
contratti e quasi delitti.
34. I contratti.
Erano i negozi giuridici (almeno) bilaterali con effetti obbligatori.
I contratti erano tipici, tipiche essendo le fonti delle obbligazioni perché erano tipiche le azioni (in personam) che le
sanzionavano.
Correttivi potevano essere posti con l’aggiunta di patti o nelle azioni di buona fede.
I contratti del diritto romano avevano effetti soltanto obbligatori. Effetti reali si riconoscevano a negozi quali:
mancipatio, in iure cessio, traditio.
I contratti si distinguono in unilaterali e bilaterali, a seconda che da essi sorgano obbligazioni a carico di una sola parte
o di entrambe. Categoria intermedia è quella dei contratti bilaterali imperfetti, nei quali ad essere obbligata è in ogni
caso una sola parte, ma eventualmente può nascere obbligazione anche a carico dell’altra.
Altra fondamentale classificazione dei contratti è quella per cui si distingue tra contratti reali, verbali e consensuali.
Nei contratti consensuali il consenso, comunque manifestato, era elemento necessario (come in tutti i contratti) ma
anche sufficiente. Compravendita, locazione, società, mandato, tutti sanzionati da azioni di buona fede.
Nei contratti reali gli effetti obbligatori si producevano per effetto della consegna di una cosa e a partire da quel
momento. La consegna poteva essere una traditio come nel mutuo (proprietà) e nel pegno (possesso). Depositario e
comodatario, con la consegna, diventavano solo detentori.
Nei contratti verbali l’obbligazione nasceva per effetto della pronunzia di parole determinate. Nei contratti letterali
l’obbligazione nasceva con la materiale registrazione per iscritto di certe operazioni contabili.
34.1. Il mutuo.
Il mutuo è un contratto reale unilaterale, per cui una parte, detta mutuante, consegna all’altra, detta mutuatario, una
somma di denaro o altre cose fungibili con l’impegno del mutuatario di restituire al mutuante altrettanto dello stesso
genere.
Con la consegna, traditio, il mutuatario acquistava la proprietà, si trattava quindi di una datio.
Ne nasceva un’obbligazione soltanto a carico del mutuatario, che avrebbe dovuto restituire l’equivalente di quanto
ricevuto.
Per la restituzione il mutuante avrebbe agito con la condictio, l’azione per la restituzione del dato.
Essa, quando aveva ad oggetto una somma di denaro era detta actio certae creditae pecuniae; se l’oggetto era diverso,
actio certae rei.
Il mutuo era riconosciuto e tutelato anche nei confronti dei peregrini. Il debitore era così tenuto a restituire l’equivalente
di quanto ricevuto, nulla di più. Non era tenuto pertanto al pagamento di interessi, onde la gratuità del contratto.
Per gli interessi, se voluti, si faceva ricorso, contestualmente al mutuo, ad una distinta stipulatio.
Numerose leggi si preoccuparono di stabilire limiti massimi agli interessi. Si va dal fenus unciarum delle XII Tavole
pari ad 1/12 del capitale per ogni mese (100%annuo), a Giustiniano che lo ridusse al 6%annuo.
34.2. Il deposito.
Era un contratto reale bilaterale imperfetto. Una parte, il deponente, consegnava all’altra, depositario, una cosa mobile
con l’intesa che il depositario la custodisse gratuitamente e la restituisse al deponente a semplice richiesta.
Il depositario acquisiva la detenzione, non avrebbe potuto usarla, altrimenti avrebbe commesso furtum usus.
Il deponente era tenuto a rimborsare al depositario le eventuali spese che questi avesse erogato su quanto depositato, e a
risarcirgli i danni che la cosa gli avesse procurato.
Il contratto era per sua essenza gratuito.
Al deponente si diedero x la restituzione della cosa un’actio depositi in factum, e al depositario per eventuali spese e
danni, un’actio depositi contraria.
Al sequestro si faceva ricorso quando sull’appartenenza della cosa v’era controversia e le parti preferivano intanto
affidarla ad un terzo perché la custodisse, per poi consegnarla alla parte riconosciuta come proprietario.
L’azione contro il sequestratario era l’actio sequestrataria in factum.
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Talune fonti classiche qualificano deposito anche l’affidamento ad altri di denaro contante, gli interpreti lo denominano
deposito irregolare.
34.3. Il comodato.
Era un contratto reale e bilaterale imperfetto.
Il comodante consegnava all’altra parte, il comodatario, una cosa mobile con l’impegno di quest’ultima di restituire la
stessa cosa.
Il comodatario acquistava la detenzione e poteva usare la cosa, senza corrispondere alcun compenso.
Poiché il contratto era a vantaggio del comodatario, questi, perita o deteriorata la cosa, rispondeva per custodia.
34.5. La fiducia.
Il risultato pratico di deposito, comodato e pegno si conseguiva inizialmente col ricorso alla fiducia: una parte,
sfiduciante, trasferiva all’altra, fiduciario, la proprietà di una cosa (generalmente res mancipi) col patto che, verificate
certe condizioni, gliela avrebbe ritrasferita in proprietà.
La fiducia poteva essere cum creditore e cum amico.
Il fiduciante, poiché mancipatio e in iure cessio di immobili non comportavano anche il passaggio del possesso, avrebbe
potuto nella fiducia cum creditore, trattenere il possesso e avrebbe riacquistato la proprietà tramite usureceptio.
Al fiduciante non possessore doveva dapprima bastare, ai fini della restituzione, fare affidamento sul vincolo che
nasceva dalla fides.
Col processo formulare al sfiduciante si diede un’actio fiduciae per il riacquito di proprietà e possesso. L’azione era
reipersecutoria e infamante.
Pure riguardo alla fiducia, come per il pegno, si diffuse la prassi per cui al creditore fiduciario si attribuiva il ius
vendendi.
Questo negozio dovette andare gradualmente decadendo, fino a scomparire in età postclassica.
L’adstipulator era invece un secondo stipulante che, avendone avuto incarico dal primo, vi si affiancava rivolgendo
pure lui al promissor invito a compiere in suo favore la stessa prestazione promessa all’altro. Per il fenomeno della
solidarietà il promittente era liberato con una prestazione soltanto.
Al promettente potevano affiancarsi uno o più adpromissores, che promettevano di prestare quanto già promesso allo
stipulante da altro promettente. Aveva funzioni di garanzia.
L’azione dello stipulante contro il debitore inadempiente era l’actio ex stipulatu. Nel processo formulare aveva formule
diverse a seconda che la stipulatio fosse di dare o di facere.
Le formalità della stipulatio erano verbali ma, sin dall’ultima età repubblicana, si usò attestarne il compimento in
documenti scritti: questi avevano valore solo probatorio.
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Solo in età postclassica si finì per riconoscere efficacia al documento in sé, purché vi si dichiarasse che le formalità
erano state adempiute.
Nel 472 Leone dispose che la stipulatio potesse compiersi con l’impiego di parole qualsiasi.
Giustiniano stabilì che i verba della stipulatio, in presenza del relativo documento che ne attestasse la pronunzia,
dovessero presumersi pronunziati, salvo prova contraria.
34.8. La compravendita.
In età arcaica la sua funzione si realizzava mediante mancipatio, con lo scambio immediato della cosa contro prezzo.
Dal III sec a.C. per la stessa funzione si riconobbe validità, ma con effetti solo obbligatori, al mero consenso.
La compravendita, nel diritto romano può essere definita come un contratto consensuale in cui una parte, il venditore, si
obbliga a fare conseguire all’altra, il compratore, il pacifico godimento di una cosa (merx), e dal canto suo il compratore
si obbliga a pagare al venditore un corrispettivo in denaro (pretium) nella misura convenuta.
Era fruibile da cittadini e peregrini, era sanzionato da azioni in ius di buona fede.
Il consenso doveva essere manifestato, non importa come. Fu solo per esigenze probatorie che si usò redigere per
iscritto un documento (instrumentum).
Da età postclassica, in relazione alla vendita di immobili, esso fu ritenuto necessario.
Non era raro il ricorso ad una caparra (arrha) col valore di conferma del consenso prestato.
L’oggetto della vendita era detto merx, più spesso si trattava di cose corporali, ma la vendita poteva avere ad oggetto
anche eredità, superficie, servitù, usufrutto, crediti etc.
Era ammessa anche la vendita di cose future.
Il prezzo doveva essere espresso in denaro, solo in questo modo sarebbe stato possibile distinguere quale delle due
prestazioni fosse il prezzo e quale la merce, e pertanto chi fosse il compratore e chi il venditore. Distinguerlo era
necessario perché diverse erano le azioni che spettavano all’uno e all’altro.
La misura del prezzo era quella liberamente concordata tra le parti. Che il prezzo dovesse corrispondere al valore della
cosa venduta è principio estraneo al diritto classico.
Il compratore era tenuto a pagare il prezzo, e quindi a fare traditio delle monete sì da farne conseguire la proprietà al
venditore.
Contro il compratore inadempiente il venditore avrebbe esercitato l’actio venditi, di buona fede.
Il venditore era tenuto, anzitutto, a fare conseguire al compratore il pacifico godimento della merx.
Contro di lui il compratore aveva l’actio empti, di buona fede.
Se la merce non consegnata contestualmente alla vendita periva, il venditore rispondeva per custodia; ma il rischio era a
carico del compratore, poiché avrebbe dovuto cmq pagare il prezzo.
Il venditore che aveva venduto cosa non propria non era di per sé responsabile, purché avessa fatto conseguire al
compratore il pacifico godimento della cosa venduta. Una responsabilità del venditore poteva sorgere se il compratore
subiva evizione, cioè il fatto del terzo che rivendicasse con successo, presso il compratore, la cosa venduta.
La prassi frequente era che il venditore di res mancipi, pur non avendone l’obbligo, ne facesse mancipatio.
Ecco che il venditore mancipante, allora, incorreva in responsabilità già per il fatto della minacciata evizione, perché era
tenuto a prestare auctoritas (assistere il compratore) nel giudizio di rivendica promosso dal terzo.
Contro il mancipante che non avesse evitato l’evizione, si dava al compratore l’actio auctoritatis, per il doppio del
prezzo.
In età classica, in assenza di mancipatio, divenne prassi che il venditore prestasse la stipulatio duplae. Il venditore, per
l’evizion e subita dal compratore, poteva essere chiamato direttamente a rispondere con l’actio empti.
Anche in ordine ai vizi occulti il punto di partenza è che la responsabilità del venditore non discendeva di per sé dal
contratto di vendita.
Il venditore che, comer era uso, avesse promesso con stipulatio che la cosa venduta possedesse certe qualità, o era
esente da certi vizi, sarebbe stato convenibile dal compratore (stipulante) con l’actio ex stipulatu una volta verificata
l’assenza delle qualità promesse o la presenza di vizi.
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Il regime di vendita poteva essere integrato o derogato mediante patti aggiunti.
I più frequenti erano il patto commissorio, l’in diem addictio, il pactum dispicentiae. I primi due a favore del venditore,
l’ultimo del compratore.
Erano patti risolutivi sospensivamente condizionati, la vendita era dunque soggetta a condizione risolutiva. Al
verificarsi di una certa condizione, la vendita doveva considerarsi come non avvenuta.
Nel patto commissorio la condizione era che il compratore non pagasse il prezzo entro il termine convenuto; nell’in
diem addictio, che il venditore entro un certo termine ricevesse una migliore offerta, nel pactum displicentiae, che nel
termine convenuto il compratore dichiarasse di non aver trovato la cosa di suo gradimento.
34.9. La locazione.
La locazione era un contratto consensuale bilaterale, con l’esplicita previsione di un corrispettivo, mercede; una parte, il
locatore, si impegna a mettere a disposizione dell’altra, per un periodo di tempo limitato e con uno scopo preciso, una
cosa, mobile o immobile, e l’altra parte, il conduttore, si impegna a prenderla in consegna, per poi restituirla una volta
scaduto il termine convenuto o raggiunto lo scopo previsto.
Le obbligazioni reciproche delle parti erano sanzionate dalle actiones locati (favore del locatore) e conducti
(conduttore).
La locatio rei poteva avere ad oggetto cose mobili o immobili: il conduttore di immobili urbani era detto inquilinus, di
fondi rustici colonus.
Il conduttore acquistava la detenzione, ed era responsabile per custodia. Per il mancato godimento della cosa dipendente
da caso fortuito o forza maggiore il locatore non era responsabile, ma il conduttore sarebbe stato liberato dall’obbligo di
pagare la mercede.
Pure la locatio operis poteva avere ad oggetto cose mobili o cose immobili. Il locatore si impegnava a consegnare una
cosa, il conduttore a esercitare autonomamente ma nell’interesse del locatore una certa attività relativamente alla stessa
cosa, così da raggiungere il risultato convenuto, per poi restituirla al locatore.
Nella locatio operis si fanno rientrare anche fattispecie in cui il conduttore assumeva l’impegno di trasformare la res
che gli sarebbe stata consegnata, all’occorrenza impiegando materiali propri.
La mercede in questo caso era dovuta dal locatore.
Con la locatio operarum un uomo libero assumeva l’impegno di mettere la propria attività lavorativa (operae) alle
dipendenze di un’altra persona, la quale si obbligava a pagare, come corrispettivo, una certa mercede.
Il datore di lavoro avrebbe dovuto pagare la mercede anche se il lavoratore non avesse prestato le opere per cause a lui
non imputabili.
Tra le attività lavorative prestate nell’interesse di terzi erano considerate degne di uomini liberi solo le cosiddette artes
liberales, tra cui gli avvocati che, però, non erano in posizione di subordinazione e si esercitavano gratuitamente.
34.10. La società.
Era un contratto consensuale bilaterale, eventualmente plurilaterale, per cui due o più persone, i socii, convenivano di
mettere in comune beni e attività di lavoro al fine di conseguire un lucro per tutti previa divisione di profitti e perdite.
Spesso si conveniva di mettere in comune e di svolgere nell’interesse di tutti determinate attività, commerciali o
industriali; né era escluso che un socio assumesse impegni solo in ordine a beni, un altro solo all’opera utile al
conseguimento dei fini sociali.
Le parti si obbligavano in virtù del semplice consenso cmq manifestato, ma era altresì necessaria la perseveranza nel
consenso. La società si scioglieva anche x il dissenso di uno solo.
Si scioglieva altresì per esaurimento dello scopo, per l’impossibilità sopravvenuto di raggiungerlo, per morte e capitis
deminutio anche di un solo dei soci.
Profitti e perdite andavano divisi in parti uguali se nulla era convenuto in proposito. Era valido un patto per cui un socio
partecipasse solo agli utili, era nullo se un socio partecipava solo alle perdite.
La società consensuale romana non dava luogo alla costituzione di un patrimonio autonomo distinto da quello personale
dei singoli soci, né la societas assumeva rilevanza esterna, verso i terzi.
Per limitare la responsabilità verso i terzi nell’esercizio di un’attività comune,si ricorreva all’espediente di svolgerla x
mezzo di schiavi. La responsabilità sarebbe quindi stata limitata al valore del peculio.
34.11. Il mandato.
È un contratto bilaterale imperfetto per il quale una parte conferisce un incarico all’altra, che si impegna ad eseguirlo.
Le parti sono dette mandante e mandatario. Per diritto romano a quest’ultimo non era dovuto alcun compenso. Il
mandato poteva essere nell’interesse del solo mandante (mandatum mea gratia) o nell’interesse anche di terzi
(mandatum alieni gratia), mentre fu vietato in linea di principio il mandato nell’interesse del mandatario (mandatum
tua gratia), qualificato cm suggerimento.
Contro il mandatario il mandante aveva l’actio mandati directa, e viceversa l’altro l’actio mandati contraria.
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Il mandatario aveva l’obbligo di eseguire fedelmente l’incarico e trasferire al mandante beni, diritti e crediti acquistati
in relazione al mandato espletato.
Sul mandante gravava l’obbligo di rimborsare al mandatario le spese e risarcire i danni occorsi, e sollevarlo dai debiti
assunti.
Per l’inadempimento, o anche per la cattiva esecuzione del mandato, il mandatario rispondeva solitamente solo per
dolo.
Il mandato si estingueva per revoca del mandante, per rinunzia del mandatario e per morte di una delle parti, per
reciproco dissenso e una volta espletato l’incarico.
Ancor prima del ricorso a questa azione, la parte che avesse compiuto una datio avrebbe potuto esperire la condictio x
ripetere quanto prestato nel caso in cui la controprestazione fosse mancata (condictio causa data causa non secuta).
Il precario consisteva nella concessione di un bene che una parte, precario dans, faceva all’altra, precario accipiens,
perché ne godesse gratuitamente e lo restituisse a semplice richiesta.
In età postclassica si faceva fatica a distinguere tra precario e comodato.
35. I patti.
Erano convenzioni, accordi, in qualsiasi forma manifestati, che non rientravano nello schema di alcun contratto tipico.
Ad essi non si attribuì inizialmente alcun effetto, se non in caso di iniuria e furto.
In età repubblicana il pretore promise che avrebbe tutelato i patti concordati senza dolo dell’una o dell’altra parte, non
contrari a leggi, né in frode ad esse. Essi ebbero però efficacia limitata, mediante l’exceptio pacti conventi. A differenza
dei contratti, cioè, non davano luogo ad obbligazioni, perché nn avrebbero potuto promuovere il giudizio.
Giustiniano diede diretta efficacia obbligatoria al patto (extragiudiziario) con cui due parti convenivano di rimettere
all’arbitrato di un terzo scelto di comune accordo la decisione di una controversia tra loro.
Ciascuna parte prometteva all’altra una pena pecuniaria se la parte promettente non si fosse poi adeguata alla pronunzia
dell’arbitro. Si parlò di compromissum.
Compilatori giustinianei estendono l’efficacia obbligatoria dei patti aggiunti contestualmente (in continenti) ai contratti,
anche se non di buona fede.
Ogni accordo, purché lecito, avrebbe potuto essere detto contratto e avere effetti obbligatori.
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36.3. I legati obbligatori e i fedecommessi.
I legati per damnationem e sinendi modo davano luogo ad obbligazioni tra erede e legatario.
Nei primi il testatore onerava l’erede di compiere una prestazione determinata in favore del legatario.
Nei secondi il testatore poneva a carico dell’erede un obbligo di non facere così da consentire al legatario di fare
alcunché.
Ai legati possono essere accostati i fedecommessi, disposizioni di ultima volontà in favore di terzi che il testatore
rimetteva per l’esecuzione alla fides dell’erede o del legatario.
Giustiniano equiparò legati e fedecommessi.
37. I delitti.
Obligationes derivavano pure dai delicata, o maleficia, atti illeciti, comportamenti volontari riprovati dal diritto.
I delitti erano tipici; sono detti delitti i comportamenti che l’ordinamento riprovava, rientrano tutti tra gli atti illeciti
extracontrattuali.
L’obligatio che derivava specificatamente dai delicta era rappresentata dal vincolo giuridico che era riconosciuto
esistente tra offensore ed offeso per cui l’uno era tenuto verso l’altro al pagamento di una pena pecuniaria perseguibile
con un’azione penale nell’ambito del processo privato.
Le azioni penali riguardavano inizialmente solo fattispecie presenti nel ius civile, ma col processo formulare il pretore
usò concedere azioni penali in factum per fattispecie diverse e tuttavia tali che appariva equo comminare per esse una
sanzione.
Il criterio generale circa l’imputabilità del delitto al suo autore fu generalmente quello del dolo. Con riguardo al
damnum iniura datum si giunse a parlare di colpa e si imputò così il danneggiamento anche a chi l’avesse provocato per
negligenza e imprudenza.
A fronte dei delicta, o maleficia, civili e pretori, stavano i crimina: erano comportamenti più direttamente lesivi degli
interessi della comunità, e pertanto più gravemente riprovati.
Si assiste ad un graduale processo di attrazione di illeciti privati tra i crimina.
Il fenomeno si andò svolgendo parallelamente alla graduale depenalizzazione degli illeciti privati.
37.1. Il furto.
È la sottrazione illecita di cosa altrui.
Successivamente si qualificò furto ogni comportamento doloso che, non integrando gli estremi di altri delitti,
provocasse ad altri una perdita, o anche solo uno svantaggio relativamente ad una cosa, mobile od immobile.
Da fine età repubblicana la nozione subì un ridimensionamento: si ritenne cmq sufficiente il contatto fisico con la cosa
pur senza la materiale sottrazione (es. furtum usus).
Riguardo l’aspetto soggettivo doveva essere compiuto contro la volontà del proprietario della cosa o anche per
conseguire un lucro, o cmq di contractatio fraudulosa.
Distinzione tra furtum manifestum, furto commesso dal ladro preso sul fatto e furtum nec manifestum.
Secondo le XII Tavole il fur manifestus poteva essere fustigato ma, se preso di notte, anche ucciso.
Da prima età preclassica si sostituì l’actio furti manifesti, tramite la quale il derubato perseguiva il quadruplo del valore
della cosa rubata.
Per il furtum nec manifestum era stabilita una pena pecuniaria per il doppio del valore della cosa (actio furti nec
manifesti). Ad entrambe le azioni era legittimato non tanto il derubato, quanto chi avesse un interesse giuridicamente
apprezzabile che la cosa non venisse rubata.
Alla condictio ex causa furtiva era ammesso il proprietario della cosa rubata e rappresentava per lui una garanzia
maggiore.
Poiché se il ladro fosse stato onerato di debiti oltre il suo attivo patrimoniale, egli avrebbe potuto usare la rei vindicatio.
Ma se il ladro fosse stato persona solvibile la condictio sarebbe stata esperibile contro il ladro pure se non più
possessore o se la cosa fosse perita.
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37.3. Il danneggiamento (damnum iniura datum).
Per il danneggiamento si prende le mosse dalla lex Aquileia del III sec a.C.
Era articolata in tre capitoli: il primo riguardava l’uccisione iniura di schiavi e pecudes altrui; il secondo l’adstipulator
il quale, in frode allo stipulante, avesse estinto il credito mediante acceptilatio; il terzo si riferiva al ferimento si schiavi
e animali, alla distruzione o danneggiamento di cose inanimate.
A carico dell’autore del fatto illecito era prevista una poena, nella semplice stima del pregiudizio arrecato. Il pretore
estesa la tutela aquiliana anche ai non proprietari.
La legge Aquilia puniva il damnum iniuria datum, intendendosi per danno arrecato iniuria il danno ingiusto (contra
ius). Ma la giurisprudenza attribuì molto spetto a iniuria una valenza soggettiva.
Nel diritto della compilazione giustinianea, si diede un’actio in factum di carattere generale a copertura di ogni ipotesi
di danno cmq inerente a cose.
37.4. L’iniuria.
Le XII Tavole prevedevano pene diverse per determinate offese arrecate alla integrità fisica di altra persona: membrum
ruptum (lesione fisica con perdita definitva della funzionalità di un organo), os fractum, lesioni e violenze fisiche
minori.
Per il primo caso era prevista le legge del taglione, per gli altri pene pecuniarie.
Il pretore, intorno alla metà del II sec a.C. istituì, per la persecuzione degli atti dolosi e ingiusti di violenza fisica alle
persone, tutti qualificati iniuriae, l’actio iniuriarum aestimatoria. In seguito con essa furono punite pure le offese
morali.
L’actio iniuriarum era diffamante. La pena era pecuniaria, nella misura di volta in volta stabilita a seconda dell’offesa.
A giudicare erano i recuperatores.
Il debitore doveva eseguire esattamente la prestazione dovuta. Avrebbe potuto al posto di essa compiere una prestazione
diversa solo col consenso del creditore.
Se l’atto costitutivo non li prevedeva, i tempi di esecuzione della prestazione dovevano desumersi dalle circostanze o
dal tipo di prestazione. In difetto di indicazioni la prestazione era dovuta immediatamente.
39.2.2. L’acceptilatio.
Era l’atto contrario alla stipulatio: il debitore chideva ‘hai ricevuto quello che ti ho promesso?’ e il creditore rispondeva
di sì.
L’obbligazione si estingueva verbis.
In età arcaica si estinguevano non per il fatto in sé dell’adempimento della prestazione, ma bisognava anche fare
acceptliatio.
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Il creditore poteva rimettere il debito impegnandosi con un patto a non pretendere l’adempimento della prestazione.
39.4. La novazione.
È la sostituzione di una obbligazione con un’altra così che la prima si estingue ed al suo posto ne sorge una nuova.
Si effettuava fondamentalmente con una stipulatio che, avendo ad oggetto la stessa prestazione, facesse espresso
riferimento al rapporto obbligatori che si voleva estinguere.
‘Prometti di darmi i X sesterzi che mi devi per la compravendita effettuata?’ ‘Prometto’. Si estingueva il debito da
compravendita e ne sorgeva uno nuovo con fonte nella stipulatio.
La prima obbligazione si estingueva, e con essa, se non rinnovate, anche eventuali garanzie personali e reali.
Requisiti: idem debitum, aliquod novi (doveva esserci qualcosa di nuovo rispetto alla vecchia obbligaz), animus
novandi (intenzione delle parti a procedere a novazione).
Nella novazione l’elemento nuovo faceva generalmente seguito a una delegatio promittendi, un’autorizzazione
unilaterale e informale.
In quella attiva il creditore invitava il proprio debitore a promettere con stipulatio ad un terzo lo stesso che doveva a lui,
e la sua si estingueva. Mutava così la persona del creditore.
In quella passiva il terzo, su invito del debitore, prometteva al creditore la stessa obbligazione.
La litis contestatio aveva l’effetto di estinguere l’obbligazione. Non per questo, però, il debitore convenuto doveva
considerarsi liberato, poiché era ancora tenuto in virtù di un vincolo di natura processuale, per cui si parò di condemnari
oportere. La sentenza di condanna l’avrebbe poi estinta e dato vita a obligatio iudicati (coercibile con actio iudicati).
Con la litis contestatio si verificava quindi una specie di novazione e di nuovo con la condanna.
39.5. La compensazione.
È il fenomeno per cui se il creditore è anche debitore del proprio debitore, crediti e debiti reciproci si estinguono nella
misura in cui concorrono. Oggi c’è compensazione legale e giudiziale.
La prima è estranea al diritto romano. Inizialmente era esclusa anche la seconda, poiché le strutture del processo
ordinario non permettevano che si mescolassero nell’ambito dello stesso giudizio questioni attinenti ad actiones diverse.
Da età repubblicana si ammisero alcune deroghe. Principalmente riguardo le obbligazioni perseguibili con azioni di
buona fede, poiché non si ritenne conforme a buona fede chiedere l’adempimento di una prestazione se prima non si
adempiva la propria.
Il giudice poteva quindi tenere conto dei controcrediti del convenuto e procedere a compensazione.
Si richiedeva che i due crediti dipendessero dalla stessa fonte (causa).
Altra deroga riguardò gli argentarii, in banchieri, i quali disponevano di sicuri strumenti di riscontro contabile e ai quali
pertanto si impose l’onere, se erano sia creditori che debitori dei propri clienti, di agire contro di essi cum
compensatione, dovevano però avere entrambi ad oggetto cose fungibili.
Con Giustiniano la compensazione si generalizzò, era permessa solo che i crediti in questione fossero di facile
accertabilità, e avveniva ipso iure,venne quindi riconosciuta la compensazione legale.
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Non era riconosciuta, a Roma, la possibilità giuridica di procedere a cessione di crediti e trasferimento di debiti. A
quest’esigenza si faceva ricorso, da età preclassica, con alcuni espedienti.
Per la cessione di crediti, anzitutto con la novazione: cambiava la persona del creditore, ma il cessionario non
subentrava nell’identica posizione del cedente (si estinguevano infatti anche le relative garanzie e decorsi di interessi)
ed inoltre il debitore si sarebbe potuto opporre.
Per l’ipotesi di vendita dell’eredità e cessione dei crediti ereditari, Antonino Pio stabilì che la compratore si dessero,
contro i debitori ereditari, actiones utiles proprio nomine, in modo che egli potesse agire come per un credito proprio.
Successivamente si diedero anche al cessionario di singoli crediti.
Si diffuse la pratica di notificare con denutiatio al debitore l’avvenuta cessione, in modo che egli non potesse più pagare
al cedente con efficacia liberatoria.
Nel 422 fu vietata la cessio in potentiorem, la cessione del credito a persona più potente, tale per posizione personale e
ceto sociale di appartenenza.
L’obbligazione solidale elettiva si estingueva per tutti, con creditori o condebitori, con l’adempimento della prestazione.
Confusione e captis deminutio estinguevano l’obbligazoine solidale elettiva solo nei confronti di quel creditore o
debitore cui quei fatti si riferivano.
Quanto alla litis contestatio si distingue tra iudicia strica e iudicia bonae fidei: nei primi l’azoine promossa da un con
creditore o contro un condebitore estingueva l’obbligazione nei confronti di tutti, l’azione successiva sarebbe stata
quindi non permessa.
Nei giudizi di buona fede, invece, si ritenne che finché il creditore nella solidarietà passiva non fosse stato soddisfatto,
sussistesse obbligazione a carico dei condebitori non ancora convenuti in giudizio. Soluzione analoga si adottò per la
solidarietà attiva.
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Doveva essere prestata subito dopo la promissivo del debitore principale, intervenendo lo sponsor, o gli sponsores, quali
adpromisssores accanto al promissor.
L’obbligazione di garanzia si estingueva con la morte dello sponsor.
Contro il debitore che entro sei mesi non avesse rimborsato allo sponsor quanto prestato al creditore, egli avrebbe
potuto, grazie ad una lex Publilia del III sec a.C., procedere direttamente con la l.a. per manus iniectionem pro iudicato,
e successivamente con l’actio depenni.
Più recente è il modello della fidepromissio di età preclassica, una vera e propria stipulatio.
Nel 180 a.C. una lex Furia de sponsu stabilì che trascorsi due anni dall’assunzione della garanzia, i garanti erano
liberati.
Sul finire della repubblica fu riconosciuta la fideiussione. Pure questa una stipulatio, a cui però non si estesero le
garanzie predette. Con la morte del fideiussore l’obbligazione relativa passava agli eredi. Si potevano garantire anche
obbligazioni diverse da quelle contratte verbis e non necessariamente nello stesso tempo e luogo.
Erano nulle le stipulazioni prestate per importi superiori a quelli del debito principale. L’estinzione dell’obbligazione
comportava l’estinzione delle garanzie.
L’unica azione di regresso in favore dei garanti per ripetere quanto prestato al creditore era l’actio depenni, riguardo la
sponsio. La fidepromissio e fideiussio fu inquadrata nel mandato, quindi i garanti ebbero l’actio mandati contraria.
Il età classica il creditore, nell’esigere la prestazione, cedeva contestualmente l’azione contro il debitore principale
(beneficium cedendarum actionum).
In età postclassica rimase solo la fideiussione.
Giustiniano introdusse il beneficium excussionis per cui si riconobbe ad ogni garante il diritto di pretendere che venisse
prima escusso il debitore principale.
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