Riassunto Diritto Romano-M. Marrone (Senza Cap VII e VIII)

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Capitolo I – IL DIRITTO ROMANO E LE SUE FONTI

1. Diritto
Il concetto di diritto è diverso a seconda delle correnti di pensiero: secondo la concezione “normativa” è un complesso
organico di norme, secondo la concezione “istituzionale” invece è l’ordinamento giuridico (l’organizzazione sociale).

Diritto oggettivo (norma agendi)e diritti soggettivi (facultus agendi)


Il diritto soggettivo è la pretesa di un soggetto riconosciuta e tutelata dal diritto oggettivo, cui corrisponde il dovere di
soddisfarla da parte di altro, o di altri soggetti, giusta quanto il diritto oggettivo (sistema di norme) esige.
Diritto soggettivo: “potestà” cioè i poteri che un soggetto può esercitare su altri soggetti indipendentemente dalla loro
volontà; “facoltà” cioè le possibilità riconosciute e garantite al titolare di un dir sogg, comprese nell’ambito di questo
(es. dir di proprietà, facoltà di usare il bene oggetto).
dovere giuridico: “obbligo” cioè dovere di fare o non fare qualcosa in relazione al dir sogg altrui; “soggezione” cioè
che si deve necessariamente sottostare all’altrui potestà; “onere” il sacrificio che il dir ogg addossa ad un soggetto.

2. Diritto romano
Per diritto romano si intende il diritto di quella collettività politica organizzata di uomini liberi che è stata l’antica
Roma: 754 a.C. – 565 d.C. (morte Giustiniano).
Il diritto romano è, tra i diritti dell’antichità classica, l’unico che fu scientificamente elaborato, da veri giureconsulti.
Esso costituisce la base dei sistemi privatistici dei Paesi dell’Europa continentale e dell’America Latina.

3. Ius
Il termine latino che indica la nostra parola diritto è ius. Il suo significato è di “situazione giuridica soggettiva”, esso
indicava cioè diritto e dovere insieme.
Nelle fonti + antiche con ius si indica, + specificatamente, la situazione giuridica quale concretamente si realizzava in
dipendenza di determinati atti.

4. Diritto privato e diritto pubblico


Il diritto privato regola i rapporti tra individui in quanto tali (interessi privati, individuali)  Ius privatum
Ad esso si contrappone il diritto pubblico, che regola l’organizzazione della collettività, oltre che i rapporti tra la
collettività unitariamente considerata e i singoli che la compongono  Ius publicum

5. Periodi della storia del diritto privato romano


Età Arcaica 754aC-242aC (vittoria guerre puniche - creazione pretore peregrino x legiferare su relazioni con stranieri):
principio della “personalità” del diritto, che vale solo x i cittadini romani.
Età Pre-Classica 242aC-82aC (assassinio Quinto Muzio Scevola): estensione dei commerci.
Età Classica 82aC-230dC (Morte di Modestino): si raffinano gli istituti giuridici.
Età Post-Classica 230dC-527dC (avvento al trono di Giustiniano): crisi economica e decadenza sociale.
Età Giustinianea 527dC-565dC (morte Giustiniano): rifioritura con la stesura del Corpus Iuris Civilis

Monarchia 754aC-509aC
Repubblica 509aC-27aC
Principato 27aC-

5.1 L’età arcaica


Il regime costituzionale è dapprima monarchico (rex, Senaato e assemblea popolare (comizi curiati)), e poi
repubblicano (magistrature, Senato e assemblee popolari (+comizi centuriati e tributi e concilia plebis)).
Roma da villaggio di pastori inizia ad espandersi nel Lazio e poi nel resto dell’Italia. Diventa una potenza militare e la
società si evolve, sviluppando attività commerciali.
5.1.1. L’età arcaica. I caratteri del ius
Il diritto privato, tuttavia, sino alla fine del periodo, mantiene i caratteri delle origini: è un diritto povero di strutture,
formalistico (la produz di effetti giuridici è subordinata alla pronunzia di determinate parole o al compimento di gesti
solenni), adeguato a soddisfare le esigenze poche ed elementari di una società rurale; è un diritto poi esclusivo dei
cittadini romani.
5.1.2. L’età arcaica. I mores. Il diritto è soprattutto di formazione consuetudinaria: fondato cioè sui mores, i costumi
dei + antichi Romani.
5.1.3. L’età arcaica. Le leges.
Presto però i mores poterono essere derogati o integrati da leggi (leges publicae: leggi del popolo), da provvedimenti
normativi, cioè che derivavano la loro efficacia dal fatto di essere collegati, direttamente o indirettamente, alla volontà
popolare.
La + famosa è la legge delle Dodici Tavole (450aC). Questa comunque fu probabilmente una lex data.

1
Fu emanata dai decemviri (magistrati straordinari appositamente eletti) x le prime 10 tavole, dai consoli Valerio e
Orazio le ultime 2.
Le vicende della formazione di questa legge vanno inquadrate nel contesto delle lotte tra patrizi e plebei.
Più impo delle leges datae ebbero le leges rogatae, che venivano proposte dal magistrato e votate dal popolo riunito in
assemblea (doveva cmq essere ratificato poi dal Senato).
Queste leggi, date e rogate, furono cmq poche: le fonti prevalenti del diritto restarono i mores.
5.1.4 L’età arcaica. I pontefici.
La conoscenza e l’interpretazione del diritto erano nelle mani di una classe sacerdotale, i pontefici, che gestivano il loro
ruolo in un’atmosfera di segretezza. Ad essi si rivolgevano i cittadini per sapere quale fosse il ius. Essi diedero un
impulso creativo x la crescita del diritto romano perché operavano tramite la interpretatio prudentia, interpretando cioè
istituti e precetti esistenti ne ricavavano di nuovi.
Il diritto di questo periodo si qualifica inizialmente come “ius Quiritium” poi come “ius civile”.
5.1.5. L’età arcaica. Il ius Quiritium.
Esso fu il nucleo + antico del dir romano, tutto di formazione consuetudinaria, erano riconosciute posizioni giuridiche
soggettive assolute: posizioni di potere su persone o cose. Es patria potestas, manus e mancipium.
5.1.6. L’età arcaica. Il ius civile.
Il diritto romano da un momento non precisabile si arricchisce di nuove prospettive e si qualifica come “ius civile”
perché riguarda solo i cittadini romani.
Le sue fonti sono i mores, le leges, l’interpretazione pontificale. Comprendeva il ius Quiritium ma era più ampio.
Furono riconosciute posizioni giuridiche, diritti e doveri, a carattere relativo. Es obbligazioni (oportere, verbo che
indicava la necessità giuridica del debitore di tenere il comportamento dovuto).

5.2 L’età preclassica.


Corrisponde agli anni dell’apice e della crisi della repubblica, in cui Roma estende la sua influenza su tutto il
Mediterraneo e i territori fuori dall’Italia vengono organizzati in province.
La società romana si evolve ulteriormente arricchendosi e affinandosi. Si intensificano i commerci internazionali
5.2.1. L’età preclassica. I caratteri del ius.
La novità importante è il riconoscimento e la tutela di nuovi negozi giuridici, e il diritto romano perse così l’originaria
povertà di strutture. Il regime giuridico dei nuovi negozi rispondeva alle esigenze del commercio, erano quindi fruibili
anche dai non cittadini (peregrini); in questo ambito si diede importanza, nel determinare i diritti e i doveri delle parti,
alla buona fede (bona fides).
5.2.2. L’età preclassica. Le fonti.
In questo periodo mantennero importanza i mores e le leges (a cui vennero equiparati i plebisciti). I pontefici andarono
perdendo il monopolio del diritto.
Ad avere il ruolo maggiore nella crescita ed evoluzione del diritto privato furono il pretore e la giurisprudenza (laica).
5.2.3. L’età preclassica. La giurisprudenza.
Nell’antica Roma la giurisprudenza era fonte del diritto oggettivo.
Le opinioni, i punti di vista, i pareri espressi dai giuristi nelle loro opere venivano considerati ius.
Anche i giuristi, o giureconsulti, come già i pontefici, davano gratuitamente pareri (responsa) che, se emessi da giuristi
qualificati, godevano di tale considerazione che il giudice chiamato a decidere sulla questione x cui il responso era stato
emesse vi si sarebbe generalmente conformato.
Tra i giuristi più noti di questo periodo si ricordano Publio Mucio, Manlio Manilio, Quinto Muzio Scevola (propose per
primo una trattazione scientifica del ius civile) e Servizio Sulpicio Rufo.
5.2.4. L’età preclassica. Il ius civile. I iudicia bona fidei.
A partire dal III sec aC a Roma si diede tutela giudiziaria, quindi efficacia giuridica, a nuovi negozi, anche se compiuti
da non cittadini: a questi negozi si riconobbe sia l’effetto di dar luogo ad obblighi qualificabili come oportere.
Da qui due significati di ius civile: uno + stretto, con riferimento a negozi e istituti riservati ai cittadini romani; uno +
ampio riferito a negozi ed istituti estesi anche ai peregrini.
Erano negozi istitutivi di obbligazioni (compravendita, locazione… cioè contratti consensuali). L’oportere era
qualificati con l’aggiunta delle parole “ex fide bona”.
Il giudice doveva valutare secondo buona fede i doveri del debitore convenuto. I criteri di giudizio non erano
determinati ma rimandavano ai comuni criteri di correttezza nella vita di relazione. Tale metro di giudizio permetteva
un constante adeguamento a nuove realtà, nuovi modi di essere e di pensare, senza che servisse fare ricorso ad interventi
legislativi.
I giudici seguivano i punti di vista espressi dalla giurisprudenza. I giuristi quindi si sostituivano praticamente al
legislatore in modo da adeguare l’applicazione del diritto alle nuove realtà.
5.2.5 L’età preclassica. Il ius gentium.
Questi negozi furono presto qualificati come appartenenti al ius gentium in quanto essi erano riconosciuti e tutelati
anche nei confronti dei non cittadini.
Il ius gentium si contrapponeva quindi al ius civile. Ma dal punto di vista dell’oportere il ius gentium era parte
integrante del ius civile.

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La giurisprudenza andò via via attribuendo la qualifica iuris gentium a taluni negozi ed istituti del ius civile antico,
estendendone quindi la fruibilità anche ai peregrini.
5.2.6. L’età preclassica. Il ius honorarium.
Al ius civile si affiancò e contrappose in età preclassica il diritto onorario, per la massima parte opera del pretore. Era il
diritto risultante dall’attività creativa di alcuni organi come pretori, urbano e peregrino, edili cururi, governatori delle
province.
Il pretore urbano, magistrato cum imperio che avevano anche l’esplicito compito di “dicere ius”.
Gli edili cururi, magistrati “sine imperio” avevano poteri di vigilanza sui mercati e relativi giurisdizione.
Il pretore peregrino aveva il compito di “dicere ius” tra cittadini romani e stranieri oppure tra stranieri.
L’editto del pretore urbano fu la fonte prevalente del diritto onorario, gli editti del pretore peregrino e dei governatori
erano fondamentalmente uguali ad esso.
In forza dello “ius edicendi” all’atto di prendere possesso della carica, il pretore emanava un editto destinato a durare un
anno, in cui sostanzialmente prospettava un programma, attraverso promesse di strumenti giudiziari e con l’indicazione
dei modelli dei provvedimenti che avrebbe emanato (poteva cmq poi usare dei decreta). I pretori andarono via via
confermando, migliorando e accrescendo quella parte dell’editto precedente che aveva dato buon esito, si formò così
l’”edictum tralaticium”, la versione definitiva.
L’intervento pretorio si manifestava in tre direzioni: agevolare l’applicazione del ius civile, colmarne lacune,
correggerlo.
Il ius civile non era in sé iniquo: iniqua poteva risultarne l’applicazione. Il pretore, non potendo negare il ius civile,
poteva concedere gli strumenti x paralizzarne l’attuazione.

5.3 L’età classica.


Inizia con la fine della repubblica romana e l’avvento del principato, fondato da Ottaviano Augusto (27 a.C.).
Si ha un regime ibrido, non + repubblicano ma non ancora monarchico.
5.3.1. L’età classica. Le fonti.
Nuove fonti si aggiungono alle precedenti: senatoconsulti e costituzioni imperiali; si estingue però l’attività legislativa
del popolo e il pretore perde il ruolo innovatore del ius.
5.3.2. L’età classica. L’editto perpetuo.
Intorno al 130 dC il giurista Salvo Giuliano, su incarico di Adriano, stabilì il testo definitivo dell’editto pretorio (che il
Senato approvò). Si ebbe così l’Editto perpetuo e finì l’impulso creativo del pretore nell’evoluzione del diritto romano.
5.3.3. L’età classica. La giurisprudenza.
I primi tempi dell’età classica furono caratterizzati dall’antagonismo tra due scuole di giuristi: i sabiniani e proculiani.
I sabiniani ebbero come maggior esponente Masurio Sabino, da cui la scuola prese il nome (capostipite fu Ateio
Capitone).
Capostipite dei proculiani fu Labeone, ma la scuola prese il nome da Proculio.
A fine II sec dC fu Salvo Giuliano a risolvere il conflitto tra le due scuole.
In questo secolo vissero anche due noti giuristi come Gaio e Pomponio, oltre a Papiniano, ritenuto a lungo il maggior
giurista romano.

5.4. L’età postclassica.


L’attività giurisprudenziale si inaridì quasi improvvisamente durante la prima metà del III sec dC in concomitanza con
una delle tante crisi dell’impero romano.
L’età classica finisce con l’abdicazione di Diocleziano (305 dC) e con l’ascesa al trono di Costantino si parla di età
postclassica del diritto romano.
Si consolida un sistema di governo assoluto e dispotico, il dominato, guidato dall’imperatore. L’impero viene diviso in
due parti.
L’età postclassica è per il diritto romano un’età di decadenza. L’imperatore rimane l’unica fonte viva del diritto ma le
costituzioni imperiali, ora chiamate leges, rivelano un deciso imbarbarimento del livello tecnico e stilistico.
Sopravvive tuttavia lo studio del diritto.

6. Fonti di produzione e fonti di cognizione. Le fonti di produzione.


È fonte di produzione ogni atto o fatto da cui scaturisce il diritto (oggettivo). Furono soprattutto: giurisprudenza (prima
pontificale e poi laica) ed editti del pretore.
È fonte di cognizione ogni materiale che ci consenta di conoscerne forme e contenuti.
La consuetudine.
Alle leges i classici equipararono anche la consuetudine, intesa come l’osservanza generale e costente da lungo tempo
di un comportamento da parte di una collettività con la convinzione della sua necessità, con la convinzione, quindi, di
obbedire ad una norma giuridica.
Dei mores non si mise mai in discussione l’efficacia. Assai minore fu l’importanza che si diede alle consuetudines, di
cui fu riconosciuto il carattere vincolante purché al di fuori della leffe.
6.1. Le fonti di cognizione. Il Corpus iuris civilis.

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La principale fonte di cognizione è il Corpus iuris civilis, cioè la grande compilazione di iura (giurisprudenza classica)
e leges (costituzioni imperiali) compiuta nel VI sec dC su iniziativa di Giustiniano, poi completata con le leges emanate
allo stesso imperatore dopo il 534.
È costituito di quattro parti distinte:
1. Istitutiones, in 4 libri, scritte in forma di discorso diretto che l’imperatore tiene ai giovani che si avviano agli
studi giuridici, hanno funzione didattica e ricalcano le Istituzioni di Gaio, a cui attingono largamente anche x il
contenuto.
2. Digesto (o Pandactae), in 50 libri, è una grande antologia giuridica che raccoglie brani tratti da opere di
giuristi classici organizzati per materia. Ai Digesta fu data forza di legge, anche per questo oltre che per
esigenze di compilazione i brani furono spesso modificati (“interpolati”), ed anche x adattare il brano allo stato
del diritto al tempo di Giustiniano. Fu emanato nel 533 con la costituzione “Tanta”.
3. Codex, già l’anno dopo l’ascesa al trono, Giustiniano ordinò la compilazione di un novus Codex che
raccogliesse costituzioni imperiali. Nel frattempo però Giustiniano aveva emanato altre costituzioni di diritto
privato, ordinò quindi un altro Codex (Codex repetitiae praelectionis) che comprendesse anche queste
(534dC). È diviso in 12 libri.
4. Novellae sono le costituzioni di Giustiniano emanate successivamente al Codex repetitiae praelectionis,
raccolte dopo la sua morte.
6.2. Le fonti di cognizione. Le fonti pregiustinianee.
Altre fonti di cognizione del diritto romano sono, soprattutto, le Istituzioni di Gaio (unica opera della giurisprudenza
classica giunta a noi quasi x intero e senza alterazioni intenzionali, e il Codice Teodosiano (non pervenuto direttamente
ma ricostruito, fatto compilare nel 438 da Teodosio II conteneva le istituzioni imperiali da Costantino)

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Capitolo II – IL PROCESSO

7.Processo privato e diritto sostanziale


Per processo privato si intende il complesso di attività volte all’accertamento e alla realizzazione di diritti soggettivi; a
darvi impulso è il singolo, soggetto privato, e vi interviene comunque un organo pubblico, specificatamente un organo
giudiziario.
Il diritto sostanziale fissa le condizioni in cui trova riconoscimento un dato diritto soggettivo, dunque, una volta
verificate, a colui che del diritto soggettivo è divenuto titolare ne viene perciò solo assicurata la tutela giudiziaria. Egli
avrà cioè il potere di promuovere un giudizio per far valere le proprie ragioni, potere detto “azione”. Ad ogni diritto
soggettivo corrisponde quindi l’azione.

L’actio è lo strumento per l’esercizio del potere di promuovere un giudizio. Le actiones erano tipiche. V’era un elenco
di azioni, ognuna a difesa di una diversa posizione giuridica soggettiva attiva. Una ragione era tutelabile solo se v’era
un’apposita actio.
Per diritto romano il diritto soggettivo presupponeva l’azione.
L’ampiezza del diritto soggettivo tutelato e le facoltà che vi rientravano si desumevano, e cmq erano rigorosamente
condizionate, dalla struttura del relativo mezzo processuale (es. mutuo non dava luogo ad interessi x il creditore, poiché
relativa azione consentiva recupero solo di quanto mutuato).

8. Le legis actiones.
Nel corso dell’evoluzione giuridica romana si incontrano vari tipi di processo: le legis actiones, il processo formulare, le
cognitiones extra ordinem dell’età classica, il processo postclassico e quello giustinianeo.
Le legis actiones erano le più antiche, unico processo privato fruibile dai cives durante l’età arcaica.
Erano cinque riti processuali tra loro diversi x natura e struttura, ma con caratteristiche comuni.
L.a. DICHIARATIVE (accertamento di situazioni giuridiche controverse) --sacramenti --per iudici arbitrive
postulationem --per condictionem
L.a. ESECUTIVE (realizzazione di posizioni giuridiche certe, o cmq ritenute tali) --per manus iniectionem --per
pignoris capionem
Tutte erano accessibili solo ai cives, erano orali e avevano un rigido formalismo.
Era richiesta la partecipazione dei litiganti e di un magistrato con iuris dictio che dal 367 a.C. con le leges Liciniae
Sextiae fu il pretore.
I provvedimenti che poteva emanare erano: assegnazione del possesso provvisorio, nomina del giudice, addictio del
debitore… Il magistrato praticamente autorizzava la prosecuzione del procedimento, mostrando così di ritenere
legittimo il rito così come svolto fino a quel punto.
La in ius vocativo era un atto del tutto privato per cui una parte ingiungeva all’altra, mediante pronunzia di determinate
parole solenni, di seguirla dinanzi al magistrato. L’altra parte era autorizzata ad usare la forza per trascinare in giudizio
il recalcitrante.
Nelle l.a. dichiarative il procedimento era diviso in due fasi: in iure e apud iudicem.
La prima si svolgeva dinanzi al magistrato e serviva x fissare i termini giuridici della lite. In fine il pretore nominava un
giudice. I contendenti invocavano testimoni che attestassero il rito compiuto: litis contestatio.
La seconda fase si svolgeva dinanzi al giudice (o ad un arbitro, nel caso fossero necessarie particolari competenze
tecniche), un privato cittadino. Nelle liti di libertà si ricorreva a organi collegiali pubblici. Suo compito era raccogliere
le prove ed emanare la sentenza.
Le pretese azionabili con le l.a. erano poche, non poterono essere usate per la tutela di posizioni giuridiche non previste
dall’antico ius civile.

8.1. La legis actio sacramenti.


Era qualificata generalis perché utilizzabile x ogni pretesa (riconosciuta dal ius civile) per cui non fosse prescritto
l’utilizzo di un’altra l.a. Poteva essere in rem o in personam.

Con la l.a. sacramenti in rem il proprietario perseguiva la cosa che affermava appartenergli.
Procedimento: i contendenti si presentavano dinanzi al magistrato con la cosa contesa (o un suo simbolo), la parte che
aveva preso l’iniziativa della lita, tenendo in mano una bacchetta, affermava solennemente che la cosa gli apparteneva e
la toccava. L’altra parte compiva gli stressi genti.
Alla vindicatio di una parte seguiva la contravindicatio dell’altra.
Il pretore ingiungeva dunque ai litiganti di deporre la cosa. Essi si sfidavano poi al sacramentum.
Era questo un atto sacrale, divenne poi una scommessa di pagare all’erario, in caso di soccombenza, 50 o 500 assi a
seconda del valore della cosa.
Il pretore assegnava il possesso provvisorio ad una delle parti in lite, quella sostenuta da garanti più affidabili (praedes).

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Il giudizio continuava apud iudicem: ciascuna parte cercava di dimostrare che la cosa gli apparteneva, ma l’onere della
prova gravava su entrambe.
Il giudice si sarebbe pronunciato su quale dei sacramenta fosse iustum e quale iniustum.
Solo indirettamente, quindi, il giudice decideva in merito alla lite. Il soccombente pagava all’erario l’importo del
sacramentum.

La l.a. sacramenti in personam serviva per la tutela di posizioni giuridiche relative, con essa dunque si perseguivano
crediti.
Il creditore chiedeva al presunto debitore di ammettere o negare il debito. Se negava si sfidavano al sacramentum, in
modo analogo alla precedente.

8.2. La l.a per manus iniectioem.


Con essa si agiva per la realizzazione di posizioni giuridiche soggettive per le quali una legge vi avesse fatto rinvio.
Poteva essere esperita, anzitutto, per l’esecuzione di un giudicato.
Al iudicatus era parificato il confessus, il convenuto cioè che in iure avesse ammesso il proprio debito. Con la manus
iniectio si procedeva talore pure in difetto di iudicatum, in ipotesi relative a situazioni riconosciute a propri come certe:
manus iniectio pro iudicato (es sponsor a cui debitore non avesse rimborsato la garanzia) e manus iniectio pura (erede
che agisce contro legatario che avesse percepito più di mille assi).
Il procedimento si svolgeva dinanzi al magistrato alla presenza dei presunti creditore e debitore.
Il creditore affermava spettargli un credito, ne indicava l’importo e dichiarava di manum inicere, mentre afferrava il
preteso debitore. Questi poteva indicare un vindex, che poteva negare il debito per sottrarlo al creditore si istituiva
quindi un’altra l.a., per cui se il vindex avese perso sarebbe stato condannato al doppio del debito riconosciuto esistente.
Se nessun vindex fosse intervenuto in favore del debitore, il pretore pronunciava l’addiectio del debitore in favore del
creditore, che poteva tenerlo presso di sé in prigione x 60gg, durante i quali avrebbe dovuto condurlo in 3 mercati
proclamando l’importo del debito in modo che si potesse riscattare il debitore. Se ciò non avveniva sarebbe stato
venduto come schiavo fuori Roma.
Il debitore avrebbe potuto da sé negare il debito affermato dall’attore, con il rischio della condanna al pagamento del
doppio.

8.3. Le altre legis actiones.


La l.a. per pignoris capionem, che non richiedeva la presenza né del magistrato né dell’avversario, prevedeva che il
creditore, pronunciando certa verba, prendesse possesso di cose appartenenti al debitore e le tenesse in pegno (pigus).

La l.a. per iudicis arbitrive postulationem era esperibile per crediti nascenti da stipulatio, per la divisione di eredità, per
la divisione di beni comuni. Le parti dovevano, facendo riferimento alla fonte dei diritti vantati,rivolgersi al pretore
chiedendo la nomina di un giudice o un arbitro.

La l.a. per condictionem serviva per crediti aventi ad oggetto una somma determinata di denaro (certa pecunia), poi
estesa a cose determinate (certa res). L’attore usando certa verba affermava come proprio il credito senza precisarne la
fonte. La necessità di adempiere da parte del preseunto debitore era affermata in termini di oportere. Se il convenuto
negava si sarebbe richiesta la nomina di un giudice.

9. Il processo formulare
Con l’intensificarsi, a partire dal III sec a.C., delle relazioni commerciali con gli stranieri, e con lo sviluppo della stessa
società romana che reclamava il riconoscimento di nuove posizioni giuridiche, l’esigenza di strutture processuali
diverse.
Vi provvide il pretore urbano imponendo agli interessati di litigare per formulas. Il processo formulare si realizzava
quindi in forza dei poteri del pretore.

9.1. L’abolizione delle legis actiones.


Le l.a. erano sempre più inadeguate alla nuova realtà, insofferente al rigido formalismo. Furono quindi gradatamente
soppresse: 130 a.C. una lex Aebutia abolì la l.a. per condictionem, poi una lex Iulia iudiciaria di Augusto del 17 a.C:
abolì le restanti.
Così il processo formulare divenne il processo privato ordinario dell’età classica.

9.2. I caratteri del processo formulare.


Il processo formulare aveva carattere unitario: era un solo procedimento che poteva essere usato per l’esercizio delle
varie actiones. Per ciascuna di esse era prevista nell’editto una diversa formula: le azioni erano tipiche, ma erano molte.
Il procedimento era diviso in fase in iure e apud iudicem. Anche nella prima fase, davanti al magistrato, le parti erano
ammesse ad esprimere liberamente le loro ragioni.
Le formulae erano redatte per iscritto. Il ruolo del magistrato era più attivo.

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9.3. La chiamata in giudizio.
Per assicurare la presenza in iure dell’avversario si provvedeva con in ius vocativo, ma contro il recalcitrante non si
sarebbe potuta usare la forza, ma il pretore poteva esercitare coazione indiretta (con l’immissione nel possesso di tutti i
beni).
Ad essa si affiancò in età preclassica il vadimonium, una stipulatio con cui il convenuto prometteva all’avversario di
comparire davanti al magistrato quando concordato.

9.4. La fase in iure.


In questa prima fase venivano fissati i termini giuridici della lite. La iuris dictio del magistrato si esplicava qui con la
datio actionis, con essa, approvato il testo della formula concordata tra le parti, concedeva l’azione richiesta, dando così
seguito al procedimento.
In iure le parti manifestavano le proprie ragioni. L’attore indicava all’avversario la formula dell’azione che intendeva
promuovere. Alla editio seguiva la postulatio actionis rivolta al pretore con cui chiedeva l’azione. Dopo aver illustrato
le sue pretese, se il convenuto non le ammetteva, aveva luogo un dibattito informale nel corso del quale ogni parte
esponeva il proprio punto di vista.

Se la pretesa dell’attore era palesemente infondata, o emergeva che sarebbe stato iniquo perseguirla, il pretore avrebbe
negato l’azione (denegatio actionis) e il giudizio non aveva seguito.

Più spesso con la datio actionis il processo continuava. Essa presupponeva che le parti avessero concordato il testo della
formula da adottare nella specie concreta. Consisteva in un beve documento scritto in cui si indicava il giudice, e lo si
invitava a condannare o assolvere il contenuto a seconda che riscontrasse o meno le circostanze indicate nella formula
stessa.

Il pretore proponeva il testo della formula che le parti accettavano: litis contestatio. L’invocazione dei testimoni sarebbe
stata superflua, in quanto i termini della lite erano scritti.
La litis contestatio aveva effetti preclusivi, l’azione non avrebbe potuto essere ripetuta.

9.5. La fase apud iudicem.


Questa fase aveva luogo dinanzi al giudice che avrebbe deciso la lite, era un privato cittadino che riscuoteva la fiducia
delle parti. V’erano anche collegi giudicanti, i recuperatores, che giudicavano in alcuni processi più importanti.
Il procedimento si svolgeva senza alcuna formalità. Ciascuna parte esponeva liberamente le proprie ragione e addiceva
le prove, non v’erano regole al riguardo.
Si giungeva quindi alla sentenza, che era definitiva. La sentenza di condanna era sempre espressa in denaro e dava
luogo ad obligatio iudicati: l’attore vittorioso avrebbe potuto procedere contro l’avversario soccombente che non vi si
adeguasse con l’actio iudicati.

9.6. Le parti ordinarie della formula.


La formula constava di più partes, anzitutto la nomina del giudice, seguivano poi quattro parti ordinarie: intentio,
demonstratio, condemnatio, adiudicatio. Non tutte erano necessarie.

L’intentio, indispensabile, esprimeva la pretesa vantata dall’attore. Essa caratterizzava la formula, mostrandone la
natura ed eventualmente permettendo di stabilire il tipo dell’azione.

La demonstratio indicava la causa, la fonte, i fatti da cui derivava la pretesa dell’attore. Non tutte le formule avevano
questa parte, ce n’erano anche di astratte, dove la causa non era espressa.

L’intentio poteva essere certa o incerta: certa quando la pretesa era determinata.
Se la formula aveva demonstratio era sempre incerta, ed indicava ciò che, x i fatti indicati, il convenuto era tenuto a
fare nei confronti dell’attore.
Nelle azioni con intentio certa l’attore avrebbe potuto incorrere in pluris petitio, con la conseguenza di perdere la lite.
Pericolo non prospettabile nell’altro caso.

La condemnatio era la parte di formula con cui si invitava il giudice a condannare il convenuto se sussistevano le
condizioni indicate nella formula, diversamente, ad assolverlo.
Essa doveva precisare l’oggetto eventuale della sentenza di condanna e doveva essere necessariamente espressa in
denaro. Se si voleva che la condanna non superasse certi limiti si aggiungeva una taxatio.
La sentenza di condanna era anch’essa detta condemnatio.

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L’adiudicatio stava solo nelle formule delle azioni divisorie e per il regolamento dei confini. Autorizzava il giudice ad
aggiudicare ai partecipanti la comunione o confinanti parti definiti di quanto era oggetto della controversia.

9.7. La praescriptio.
Poiché la litis contestatio aveva effetto preclusivo, la prestazione dovuta poteva essere frazionabile, per evitare il rischio
di non ottenere tutta la prestazione, si poteva apporre una praescriptio, per cui oggetto dell’azione, e quindi effetto
preclusivo della litis contestatio, venivano limitati a quanto l’attore volesse intanto perseguire.

9.8. L’exceptio.
Era una condizione negativa della condanna: il giudice avrebbe potuto e dovuto condannare il convenuto solo se le
circostanze dedotte in questa parte non risultassero vere, diversamente avrebbe dovuto assolverlo. Questa parte era
inserita a richiesta del convenuto.
L’exceptio era un rimedio pretorio, con cui il convenuto era solitamente ammesso ad opporre circostanze iure civili non
rilevanti. L’exceptio rappresentava quindi un mezzo di attuazione dell’equità pretoria, un rimedio volto a correggere il
ius civile.
A fronte dell’exceptio del convenuto, l’attore poteva opporre circostanze per cui appariva iniquo dargli corso, inseriva
quindi una replicatio.

9.9. Classificazione delle azioni. Azioni civili e azioni pretorie.


Erano civili le azioni fondate sul ius civile, onorarie (o pretorie) quelle fondate sul diritto onorario.
Erano civili le pretese che si risolvevano in affermazioni: a)di appartenenza ex iure Quiritium, b) di spettanza di un ius
(servitù prediali, usufrutto etc); c) di obbligazione a carico del convenuto espressa col verbo oportere. Ogni altra pretesa
era di diritto onorario.
Il pretore riproduceva nell’editto i modelli delle formule-tipo, sia delle azioni civili sia di quelle pretorie. Ogni azione
pretoria presupponeva una promessa edittale.

Tra le azioni civili, particolari erano i iudicia bonae fidei, in cui il dovere giuridico del debitore di adempiere fu in essi
espresso in termini di oportere ex fide bona, e con essi si diede sin dagli inizi tutela giudiziaria anche ai non cittadini.
Il giudice era invitato a stabilire secondo criteri di buona fede quali fossero gli obblighi a carico del convenuto. Buona
fede voleva dire correttezza nella vita di relazione.
Azioni di buona fede erano, ad es, quelle nascenti dai quattro contratti consensuali (compravendita, locazione, società e
mandato).

Le azioni civili in personam non caratterizzate da oportere ex fide bona, ma con un oportere puro e semplice si dissero
iudicia stricta.

Quanto alle azioni pretorie potevano essere utiles, con trasposizione di soggetti, e in factum, erano in ogni caso rimedi
volti a colmare lacune del ius civile.

Nell’intentio delle azioni utili e con trasposizione di soggetti non mancava il riferimento al ius civile: si operava con
esse un’estensione di azioni civili a situazioni iure civili non contemplate.
Nelle azioni in factum, invece, si prescindeva del tutto dal ius civile e si invitava il giudice a condannare o assolvere a
seconda che verificasse o non che certi eventi avevano luogo.

L’estensione della tutela civilistica si operava in vari modi, uno era la fictio. Le azioni utili in cui si usava erano dette
actiones ficticiae. Il giudice era invitato a giudicare sulla base di una finzione giuridica, come se non esistesse un
elemento o una circostanza in effetti mancanti ma che secondo il ius civile sarebbero stati necessari per dare luogo ad
una situazione tutelata.

Nelle azioni con trasposizione di oggetti, per dare modo al giudice di condannare nonostante il difetto di legittimazione
attiva dell’attore, si indicava nell’intentio il nome del soggetto effettivamente legittimato che non partecipava al
giudizio, e nella condemnatio il nome della parte che stava effettivamente in giudizio al posto del legittimato.

9.9.1. Actiones in rem e actiones in personam.


Da questa classificazoine deriva la distinzione dei diritti soggettivi patrimoniali in diritti reali e diritti di credito.
Nelle azioni reali la pretesa è erga omnes affidandosi al giudice, nell’intentio della formula, il compito di accertare la
spettanza dell’attore di un potere assoluto sulla cosa per cui si controverte. La persona del convenibile con azioni reali
non è determinata a priori, ma si determina al momento dell’azione.
Nelle azioni in personam l’attore si afferma creditore ed assume che l’avversario, suo creditore, è tenuto verso di lui ad
un certo comportamento. La pretesa dell’attore è specifica verso un soggetto determinato, ha pertanto carattere relativo.

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La persona del convenibile è determinata sin da prima dell’esercizio dell’azione, sin dal momento in cui è sorta la
relativa obbligazione.
Azioni reali ed in personam avevano diverso regime processuale.
Il convenuto in un giudizio in personam che assumeva un atteggiamento passivo e rifiutava di difendersi, il pretore
poteva o dare corso all’esecuzione sulla persona, oppure all’esecuzione patrimoniale.
Il convenuto con azioni reali, invece, era libero di defendere o non defendere rem. In questo caso avrebbe però dovuto
consentire all’avversario l’esercizio del diritto che questi reclamava (translatio possessionis).

9.9.2. Le azioni arbitrarie. Temperamenti del principio della condanna in ogni caso pecuniaria.
Sono dette arbitrarie le azioni la cui formula conteneva una particolare clausola, la clausola restitutoria, o arbitraria, per
cui il giudice, prima di procedere a condanna pecuniaria, avrebbe dovuto invitare il convenuto a restituire, e
condannarlo solo in caso di mancata restituzione.
Se il convenuto invitato a restituire non lo avesse fatto, sarebbe stato l’attore a stabilire l’importo della condanna
pecuniaria, anche se sotto vincolo di giuramento.
Questa clausola aveva senso in tutte le azioni in cui l’attore avanzava una pretesa che non fosse in denaro. Ad avere la
clausola restitutoria erano solo le azioni reali.
Se mancava, il giudice avrebbe dovuto condannare il convenuto pure se dopo la litis contestatio avesse soddisfatto le
giuste pretese dell’avversario.
Riguardo ai iudicia bona fidei, tuttavia, si ammise che il giudice avrebbe dovuto assolverlo.

9.9.3. Azioni penali e azioni reipersecutorie.


Con le azioni penali il privato, vittima di un illecito, perseguiva dall’autore di esso una pena che aveva funzione
punitiva, affittiva. La pena poteva essere corporale o pecuniaria (poi solo pecuniaria).
Con le azioni reipersecutorie si perseguiva la res. La funzione era quindi risarcitoria.
Le azioni reali erano tutte reipersecutorie, le azioni in personam no. Le azioni penali nascevano tutte da atto illecito, ma
da un delictum poteva nascere pure un’azione reipersecutoria (es furto).
Le azioni penali, al contrario delle reipersecutorie, erano passivamente intrasmissibili, potevano cioè essere esercitate
solo contro l’autore dell’illecito, non contro i suoi eredi.
Le azioni penali si cumulavano. Se nascenti dallo stesso illecito, azione penale e reipersecutoria erano cumulabili.

Dagli inizi del principato, e forse anche da prima, ha inizio un lento e graduale processo di depenalizzazione, e il
sistema delle azioni penali subisce forti temperamenti. In particolare:
a) riguardo l’intrasmissibilità passiva si rafforza il principio per cui contro gli eredi del colpevole può essere
proposta azione non penale nei limiti dell’arricchimento.
b) Si ammettono deroghe al principio del cumulo tra azione penale e reipersecutoria. Alcune delle prime
finiscono nella seconda categoria, e tante diventano mixtae.
c) Il criterio della nossalità cade in desuetudine rispetto ai filii familias (che risponderanno direttamente degli
illeciti commessi).
Nella maggior parte delle azioni penali la pena era maggiore rispetto al pregiudizio sofferto dalla vittima, più spesso un
multiplo.

9.10. L’actio iudicati.


Per l’esecuzione della sentenza occorreva l’actio iudicati, un’actio in personam che aveva come presupposti: a)una
sentenza di condanna espressa in denaro, b)che il debitore non avesse adempiuto entro 30gg.
Se il convenuto negava che vi fosse stata tale sentenza ai suoi danni, o sosteneva di aver adempiuto, o che i limiti non
fossero ancora trascorsi, si procedeva con un azione di accertamento.
Se la contestazione si rivelava infondata il convenuto era condannato al doppio e il pretore dava corso all’esecuzione.

9.11. Procedure esecutive contro il iudicatus.


L’esecuzione poteva essere personale o patrimoniale.

L’esecuzione personale: il pretore pronunciava addictio del debitore a favore del creditore autorizzandolo a condurlo
nelle proprie carceri private e tenervelo assoggettato finché qualcuno non lo avesse riscattato, o finché non lo avesse
saldato col suo lavoro.

Il pretore da inizio età preclassica introdusse una particolare esecuzione patrimoniale: la bonorum venditio.
Con la missino in bona il pretore immetteva il creditore nel possesso di tutti i beni del debitore, con funzione di
custodia, e ne dava notizia a tutti gli altri eventuali creditori. Se il creditore non veniva soddisfatto entro 30gg, il
debitore diveniva infame.
A questo punto il pretore nominava un curator bonorum per gestire il patrimonio del debitore. I creditori designavano
un magistrer bonorum che avrebbe provveduto alla vendita all’asta del patrimonio. Vinceva la gara, acquistando in

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blocco il tutto, chi offriva di pagare la percentuale più alta di debiti, era detto bonorum emptor. Egli subentrava nel lato
attivo e passivo nella situazione giuridica patrimoniale del debitore. Fu considerato successore a titolo universale del
debitore, perché il pretore dava al bonorum emptor (che non diveniva proprietario iure civili) le azioni che sarebbero
spettate al debitore adattandole al caso.

9.13. Cessio bonorum e distractio bonorum.


In virtù di una lex Iulia al debitore insolvente, la cui insolvenza era a lui imputabile giuridicamente ma non sotto
l’aspetto morale, si consentì la cessio bonorum, la cessione volontaria di tutto il patrimonio ai creditori. Gli venivano
risparimiati proscriptio e infamia.
In favore di taluni incapaci si risparmiarono infamia ed esecuzione personale, venivano venduti singoli beni
patrimoniali x soddisfare i creditori: distractio bonorum. Così anche per i senatori.

9.14.1. Gli interdicta.


Erano ordini processuali che vietavano determinati comportamenti. Erano emessi su domanda di un privato contro un
altro privato. Potevano essere oltre che prohibitoria anche restitutoria ed exhibitoria.
Il pretore procedeva ad esame sommario delle ragioni degli interessati ma l’ordine che emanava era molto articolato. Se
l’intimato avesse riconosciuto l’esistenza dei presupposti e avesse obbedito all’ordine del magistrato il procedimento si
sarebbe chiuso, viceversa si sarebbe accertato se le condizioni cui l’ordine era subordinato effettivamente sussistessero.
Se l’esito era contrario all’intimato contro di lui si realizzava l’interdictum.

9.14.2. La in integrum restitutio.


Essa comportava il sostanziale ripristino della situazione giuridica quale era prima dell’evento i cui effetti giuridici il
pretore, per motivi di equità, voleva rimuovere. Il procedimento si svolgeva in contraddittorio tra le parti per verificare
se sussistessero o no le ragioni per la concessione.
Il pretore non avrebbe mai potuto rendere nulli effetti giuridici già iure civili prodotti, all’occorrenza concedeva alla
persona mezzi giudiziari per neutralizzarne gli effetti.
I casi per cui il pretore avrebbe fatto ricorso ad in integrum restitutio erano solitamente indicati nell’editto.

9.14.3. Le cautiones, o stipulationes praetoriae.


Erano questi espedienti pretori per colmare lacune di ius civile. Vi si ricorreva in casi determinati per i quali mancava
un obbligo giuridicamente sanzionato al compimento di una certa prestazione e il pretore riteneva invece equo che
quell’obbligo vi fosse, oppure se c’era si riteneva opportuno tutelarlo in maniera più congrua.
Il pretore imponeva alla parte contro cui era stata avanzata l’istanza di obbligarsi con stipulatio e con questa promettere
all’avversario la prestazione del caso.

9.14.4. Le missiones in possessionem.


Erano disposte dal pretore con decretum. In forza della missio, l’istante era autorizzato ad immettersi in possessionem
ora di un singolo bene ora di un complesso patrimoniale.
Solitamente il missus non acquistava il possesso ma la semplice detenzione. Acquistava il possesso nella missio in
possessionem ex secundo decreto per il danno temuto.
Erano date solo per le ipotesi per cui l’editto le avesse previste. La loro funzione era di custodia e conservazione, o di
pressione al compimento di un atto.

9.15. La scomparsa del processo formulare.


Il processo formulare andò subendo sempre più il concorso di cogniziones extra ordinem. Fu definitivamente e
formalmente abolito, essendo intanto venuta meno la magistratura pretoria, dai figli di Costantino, gli imperatori
Costanzo e Costante, nel 342 d.C.

10. Le cognitiones extra ordinem.


Augusto riconobbe il valore giuridico dei fedecommessi e stabilì, al contempo, per le relative controversie, la
competenza dei consoli. Fu il primo caso di cognitiones extra ordinem.
Riguardo gli organi competenti a giudicare extra ordinem, nelle provincie era competente il governatore; a Roma sia i
magistrati dell’ordine costituzionale repubblicano, sia funzionari direttamente nominati e dipendenti dal principe.
Prese avvio anche la prassi per cui il princeps, su istanza degli interessati, interveniva nei giudizi privati: dava pareri
vincolanti ed emanava rescritti (costituzioni con cui risolveva una questione propostagli). Il principe decideva sia in
prima istanzia sia, più spesso, in grado di appello.
Altri giudici di appello furono il Senato, il praefectus praetorio e il praefectus urbi.
Nella chiamata in giudizio interveniva un organo pubblico, così che il convenuto che non si presentava era considerato
contumace e il giudizio si sarebbe svolto nonostante la sua assenza.
Il procedimento non era diviso in due fasi e il giudizio non spettava ad un giudice privato, ma si svolgeva dinanzi ad un
organo pubblico appositamente investito.

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Alla sentenza extra ordinem erano attribuiti effetti pregiudiziali (un altro giudice avrebbe dovuto attenervisi).
Era assente ogni formalismo. La difesa del convenuto era detta praescriptio.
La condanna avrebbe potuto non essere espressa in denaro. Il giudice avrebbe potuto evitare esecuzione personale e
bonorum venditio disponendo il pignoramento e la vendita di singoli beni del soccombente in misura da soddisfare le
ragioni dell’altra parte.

11. I processi postclassico e giustinianeo.


Venuta meno ogni residua applicazione delle formule, il processo si unifica.
Gli organi preposti alle nuove circoscrizioni territoriali (prefetto, praeses x le province) sono al contempo gli organi
giudiziari competenti territorialmente. Al vertice sta l’imperatore che decide in ultima istanza (di solito in sua vece il
prefetto del pretorio).
I principi e le regole che si erano manifestati nelle cognitiones extra ordinem si trasmettono al processo postclassico. Il
procedimento, però, si irrigidisce per la tendenza del legislatore a non lasciare spazio all’esercizio di poteri discrezionali
da parte dei giudici.
Per molti atti giudiziari si prescrivono forme scritte. Sulle parti si fanno gravare spese giudiziarie.
Il criterio adottato per l’esecuzione patrimoniale fu la bonorum distractio, così che la vendita dei beni del debitore
avesse luogo per singoli cespiti e per quanto dovesse occorrere.
Perdette significato, con la scomparsa del pretore, la distinzione tra azioni civili e pretorie. Si continuò a fare distinzione
tra azioni di stretto diritto e azioni di buona fede, ma queste ultime aumentarono di numero.
La tipicità delle actiones perse sostanzialmente valore, in dipendenza del carattere generale assunto da alcune azioni.
Emerge la tendenza a prospettare il diritto soggettivo indipendentemente dall’actio corrispondente. Processo e diritto
sostanziale acquistarono, nel nuovo diritto, reciproca autonomia.

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Capitolo III – GLI ATTI NEGOZIALI

12. Fatti, atti e negozi giuridici.


Per fatto giuridico si intende qualsiasi evento, non importa se volontario o non, che incide sulla realtà giuridica dando
luogo a nascita di situazioni giuridiche nuove od a modificazione od estinzione di situazioni giuridiche esistenti.
In particolare, per fatti giuridici involontari si intendono i fatti naturali, eventi che si verificano indipendentemente dalla
volontà dell’uomo (calamità naturali, decorso del tempo).
Fatti giuridici volontari sono invece le azioni umane volontarie. Sono anche chiamati atti giuridici.
Degli atti giuridici leciti la categoria maggiore è quella dei negozi giuridici, cioè le manifestazioni di volontà da parte
di privati dirette al conseguimento, garantito dall’ordinamento, di risultati pratici giuridicamente definibili in termini di
acquisto, perdita o modificazione di situazioni giuridiche soggettive (sprtt diritti soggettivi).
Fatto giuridico, atto e negozio giuridico nelle definizioni date sono concetti estranei alle fonti romane, essi tuttavia sono
in qualche modo nascosti nelle fonti. La dottrina moderna ha in sostanza sviluppato ed organizzato un pensiero per tanti
versi implicito nelle fonti giustinianee.

13. Gli atti illeciti.


Sono i fatti giuridici volontari vietati dall’ordinamento giuridico.
L’effetto giuridico collegato al compimento di un atto illecito è l’applicazione di una sanzione a carico dell’autore.
L’atto è in sé voluto, le conseguenze giuridiche no.

14. Negozi giuridici.


Sono fatti giuridici volontari, ma diversamente dagli atti illeciti gli effetti collegati sono gli stessi voluti dall’autore
dell’atto.

14.1. Negozi giuridici. Tipicità.


Nelle fonti rimane sono molti gli atti, i comportamenti volontari, individuati e circoscritti che rientrano in tale
definizione di “negozio giuridico”.
Effetti giuridici si riconobbero, x diritto romano, solo a determinati negozi giuridici, a determinati tipi negoziali,
singolarmente individuati e in numero definito.

14.2. Negozi giuridici. Elementi.


La loro struttura è composta da elementi essenziali, elementi naturali ed elementi accidentali.
Sono essenziali gli elementi fondamentali del negozio, come la manifestazione di volontà o la capacità d’agire. Certi
elementi del negozio sono essenziali solo in alcune categorie di negozi, come l’adozione di una forma determinata nei
negozi formali o l’esistenza della causa nei negozi causali.
Sono naturali quegli elementi, meglio effetti, conseguenti automaticamente al negozio-tipo pur nel silenzio delle parti;
le quali potranno, con patto contrario, espressamente escluderli.
Sono accidentali quelle clausole non essenziali, che non sono proprie dei singoli tipi negoziali ma che le parti possono,
se vogliono, espressamente inserire. Sono la condizione, termine e modus.

14.3. Negozi giuridici. Invalidità e inefficacia.


Si dice invalido il negozio che presenta un difetto intrinseco in alcuno dei suoi elementi; è inefficace il negozio che non
produce gli effetti propri. Il negozio invalido è anche inefficace, non viceversa.
La dottrina moderna distingue vari tipi di invalidità, in particolare si dice nullo il negozio che, per difetto di uno degli
elementi essenziali, non produce i suoi effetti, nasce morto (una eventuale sentenza di nullità sarà solo dichiarativa, di
semplice accertamento di una situazione già esistente); è annullabile un negozio con vizi meno gravi, x cui qualche
soggetto potrebbe impugnarlo così da provocarne l’annullamento.
Il concetti di nullità è nelle fonti romane, quello di annullabilità no, ma tuttavia deriva da esse. Il negozio nullo è trattato
nel diritto romano come se non esistesse.
Con l’affermazione del diritto pretorio aumentarono le ipotesi di negozi iure civili validi ed efficaci, i cui effetti
venivano però neutralizzati, generalmente x ragioni di equità, con rimedi pretori. Il negozio non veniva annullato, e
nemmeno si può dire fosse inefficace, gli effetti già prodotti restavano, ma se ne impediva la realizzazione, oppure
venivano ignorati.

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Non sempre la violazione di norme comportava nullità. Classificazione delle leges:
Le leges perfectae stabilivano un divieto e la nullità dell’atto compiuto nonostante il divieto.
Le leges minus quam perfectae stabilivano un divieto ed una sanzione ma non sancivano la nullità dell’atto compiuto
in difformità.
Le leges imperfectae stabilivano un divieto senza sancire né nullità né sanzioni x i trasgressori.

14.4. Negozi giuridici. Classificazioni.


Fondamentali classificazioni:
 Sono formali i negozi nei quali la volontà deve essere manifestata in una forma determinata (elemento
essenziale); sono informali i negozi che non la richiedono.
 Sono causali i negozi nei quali la “causa” determina la struttura del negozio (elemento essenziale); sono
astratti quelli in cui gli effetti si producono indipendentemente dalla causa.
 I negozi possono essere unilaterali, bilaterali o plurilaterali. È possibile anche che una parte sia composta da
più persone, quando tutte hanno interessi identici.
 Nei negozi a titolo oneroso (almeno bilaterali) ogni parte consegue un vantaggio dietro corrispettivo (es
compravendita); nei negozi a titolo gratuito una parte, o cmq il destinatario, consegue un vantaggio senza
corrispettivo (es donazione).
 I negozi inter vivos, la maggior parte, sono quelli destinati a produrre i propri effetti in vita dei soggetti
partecipi del negozio; i negozi mortis causa al contrario producono gli effetti dopo la morte del loro autore
(testamento).
 In base agli effetti un negozio può avere effetti reali, idonei al trasferimento di proprietà o alla costituzione di
diritti reali limitati; effetti obbligatori, idonei alla nascita o estinzione di obbligazioni. Nel diritto romano
questi due tipi di negozi erano fondamentalmente diversi: i primi erano sprtt mancipatio, in iure cessio e
traditio, gli altri erano i contratti.
 Negozi dispositivi sono gli atti x cui taluno aliena, estingue o comprime un proprio diritto. Sono dispositivi
tutti i negozi con effetti reali.
 Sono negozi fiduciari quegli atti che eccedono, negli effetti, lo scopo che si intende raggiungere (o meglio,
eccedono la causa negoziale).

14.5. Forme della manifestazione di volontà.


Ogni negozio giuridico comporta una o più manifestazioni di volontà, essa deve essere manifestata.
L’ordinamento giuridico riconosce talvolta effetti giuridici alla volontà comunque manifestata (negozi non formali);
altre volte esige l’impiego di forme determinate (negozi formali).

14.6. Negozi formali.


I negozi del più antico ius civile erano per lo più formali e solenni. Le formalità prescritte erano fondamentalmente
orali, era richiesto l’uso di parole stabilite (certa verba); talvolta anche il compimento di gesti predeterminati o la
partecipazione di persone estranee agli effetti dell’atto.
La mancata puntuale adozione delle forme prescritte era in ogni caso motivo di nullità.

14.6.1. La mancipatio.
La mancipatio trovava fondamento negli antichi mores, era un atto che si compiva con il rame o bronzo e con la
bilancia, con la presenza di testimoni.
Le parti erano il emancipante, o mancipio dans, e il mancipio accipiens. Questo negozio comportava l’acquisto di un
potere su persone o cose in favore del mancipio accipiens e la perdita di un potere sulla stessa nel mancipio dans.
Era usata per l’acquisto, sulle res mancipi, di quella posizione giuridica soggettiva corrispondente alla proprietà. Ma era
utilizzata anche per la costituzione di servitù rustiche; per l’acquisto della manus sulla donna; per l’acquisto sui filii
familias altrui della potestà detta mancipium…
La mancipatio di beni mobili trasferiva nel contempo proprietà e possesso. Gli effetti della mancipatio di un fondo
inizialmente erano gli stessi, dall’età classica per questo caso non fu + necessario recarsi sui luoghi, ma non veniva
trasferito anche il possesso, per questo era necessario che il mancipio dans ne facesse ulteriormente consegna.
L’atto descritto era uno scambio immediato di cosa contro un corrispettivo in metallo che l’accipiens pagava al
mancipiante. E poiché prima dell’introduzione della moneta a coniata il metallo aveva la stessa funzione di merce di
scambio, la mancipatio era un scambio di cosa contro prezzo, quindi una vendita.

Col riconoscimento, agli inizi dell’età preclassica, del contratto consensuale di compravendita, la mancipatio perdette la
funzione di vendita. Fu definita imaginaria venditio. Essa tuttavia mantenne sia la struttura originaria che gli effetti.

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La mancipatio produceva i suoi effetti anche se non vi era una “causa” e poteva essere compiuta anche per cause
diverse dalla vendita, come donazione, dote…

14.6.2. La in iure cessio.


Altro negozio formale e solenne è l’in iure cessio. Era un negozio del ius civile, come tale fruibile dai soli cittadini
romani.
Poteva essere impiegata per il trasferimento del dominium su res mancipi e nec mancipi, per la costituzione e la rinuncia
di servitù ed usufrutto, per l’acquisto della patria potestas nel procedimento di adoptio, per la cessione della tutela
mulieris.
Si compiva dinanzi ad un magistrato con iuris dictio (solitamente il pretore). Le parti erano il cedente e il cessionario.
Es trasferimento proprietà schiavo: cessionario, tenendo lo schiavo, pronuncia la formula diceva che lo schiavo era suo,
il magistrato chiedeva al cedente se voleva controbattere, di fronte al suo silenzio sanciva la proprietà del servo. Era
quindi una specie di finto processo nel quale vi era un accordo presupposto. Era un negozio con effetti reali.
Scomparve in età postclassica.

14.6.3. Cenni sulla stipulatio.


Negozio formale bilaterale era anche la stipulatio. Le parti erano lo stipulante e il promettente. Si compiva in forma di
una interrogazione e di una congrua risposta: interrogazione con cui lo stipulante chiedeva al promettente se
assumesse l’impegno a tenere un determinato comportamento; risposta congrua del promettente il quale si limitava a
pronunziare in prima persona il verbo già impiegato dallo stipulante (“prometti che mi darai 100?” “prometto”).
Nasceva così a carico del promettente, divenuto debitore, e in favore dello stipulante, divenuto creditore,
un’obbligazione sanzionata iure civili.
Era un negozio astratto, ciò consentiva di impiegarla per le cause più diverse, solo che l’effetto voluto fosse quello di
rendere taluno obbligato al compimento di una prestazione.
Il largo impiego della stipulatio non venne mai meno nel diritto romano.

14.7. Altre forme negoziali.


Il diritto conobbe anche altri negozi per i quali era obbligatoria la forma scritta.
Altro negozio invece non formale era la traditio, negozio utile x il passaggio del possesso, ma anche della proprietà. Si
compiva con la consegna, sia pure informale, della cosa che si voleva trasferire.
Veri e propri negozi non formali furono i contratti consensuali e i patti, per essi era sufficiente che la volontà fosse in
qualche modo dimostrata, non importava come.

14.8. Divergenza tra manifestazione e volontà.


Poteva accadere che taluno manifestasse una volontà che non aveva, e che pertanto si determinasse divergenza tra
volontà e manifestazione. Riguardo a ciò bisogna distinguere tra negozi solenni e altri negozi.
Nei primi il compimento delle formalità richieste era considerato necessario e insieme sufficiente x la validità dell’atto.
Al contrario, nei contratti consensuali e negli altri negozi non formali, la soluzione di massima fu che la mancanza di
volontà ne comportasse la nullità. In età postclassica con la decadenza delle forme solenni, tale regola assunse carattere
generale. Principi:
a) Dichiarazioni ioci causa e simili: nessun problema si pose mai per le dichiarazioni fatte per scherzo o come
esempio. Erano dichiarazioni che non potevano essere prese sul serio.
b) Riserva mentale: è il caso di chi, consapevolmente e senza averlo concordato con altri, dichiari ciò che non vuole.
La soluzione non poteva che essere nella validità del negozio, di qualunque tipo fosse.
c) Simulazione: essa presuppone almeno un negozio bilaterale. Qui la divergenza tra manifestazione e volontà e
consapevole; solo che tale consapevolezza è comune alle parti del negozio, e l’intento di non volere il negozio
dichiarato è tra esse concordato.
La simulazione può essere assoluta, se le parti dichiarano di volere un negozio ma in realtà non ne vogliono
nessuno, relativa se le parti vogliono un negozio diverso da quello palesemente dichiarato.
I negozi solenni dello ius civile rimanevano validi pure se simulati; mentre negli altri negozi la conseguenza era la
nullità del negozio simulato.
Quanto all’eventuale negozio dissimulato, che era nella simulazione relativa quello realmente voluto, esso era
valido purché ne sussistessero i requisiti di forma e di sostanza (es se coniugi simulano una vendita volendo in
realtà una donazione, sono invalidate entrambe).

14.9. L’errore.
La divergenza tra il dichiarato e il voluto può anche essere non consapevole, in conseguenza di un errore, potendo
taluno attribuire alla propria manifestazione di volontà un significato diverso da quello che essa obiettivamente ha.
L’errore può aversi anche per il fatto che una parte attribuisce alla manifestazione di volontà dell’altra parte un valore
diverso da quello obiettivo, o comunque diverso da quello che costei vi ha dato. Si avrà allora un dissenso.

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L’errore può dipendere da una svista, da cattiva conoscenza della lingua o, più in generale, da ignoranza del modo
comune di esprimersi e di comportarsi, da un fraintendimento, viene detto errore ostativo.
Da esso bisogna distinguere il cosiddetto errore-vizio (che di per sé non esclude la volontà) ovvero l’errore per cui uno
compie un negozio in quanto convinto di circostanze non vere.
I romani non fecero mai questa separazione tra errore ostativo ed errore-vizio.
Per quanto riguardava le parti fisse dei negozi formali del ius civile l’errore era irrilevante e il negozio ugualmente
valido. Ma molti di quei negozi formali avevano anche parti in bianco, da riempire ogni volta con i dati del negozio in
questione (es. oggetto della prestazione nella stipulatio, nome dell’erede…), e ad esse si riconobbe che l’errore potesse
causare la nullità.
Dalla ricca casistica delle fonti si possono ricavare talune direttive di massima.
L’errore di diritto, cioè l’errore che dipende da ignoranza o fraintendimento di norme, è solitamente irrilevante, e il
negozio valido.
L’errore su elementi di fatto, invece, fu solitamente ritenuto rilevante, con conseguente nullità del negozio.
Doveva trattarsi però di errore al contempo scusabile (non grossolano) ed essenziale (che riguarda il negozio nei suoi
aspetti fondamentali). Erano ritenuti essenziali: l’error in negozio (sull’identità del negozio da compiere), l’error in
persona (sull’identità del destinatario o dell’altra parte del negozio), l’error in corpore (sull’identità fisica dell’oggetto
del negozio), l’error in materia (sulla composizione materiale dell’oggetto; no invece l’error in qualitate).

14.10. Il dolo.
La parola “dolo” quale criterio di responsabilità esprime l’idea della volontarietà di un comportamento e delle relative
conseguenze per altri pregiudizievoli.
Il dolo negoziale è il vizio della volontà nei negozi giuridici, una macchinazione volta a trarre in inganno altra
persona così che compia un negozio per lei pregiudizievole che altrimenti non avrebbe voluto e quindi neanche
compiuto. Quando l’errore, quindi, non è imputabile all’autore del negozio ma è indotto dall’altrui inganno non si parla
di errore ma di dolo. Se l’errore di per sé non sempre era rilevante, l’errore indotto da dolo lo fu (età preclassica).
Per il ius civile il negozio viziato da dolo era inizialmente valido ed efficace. Il principio subì deroga nei negozi che
davano luogo a giudizi di buona fede, poiché dolo e buona fede si escludono a vicenda.

Nel I sec a.C. il pretore nel suo editto cominciò a promettere l’exceptio doli. Era uno strumento necessario per
invalidare in negozi dai quali nascevano azioni che non erano di buona fede; infatti la vittima dell’imbroglio sarebbe
potuto essere chiamata in giudizio per l’adempimento e, contro di lui la relativa azione sarebbe stata iure civili fondata.
Ma grazie ad essa, accertato l’inganno, il convenuto sarebbe stato assolto.

Ma cosa accadeva se la vittima, inconsapevole dell’inganno subito, avesse dato esecuzione al negozio?
Tra il 70-60aC fu introdotto l’actio de dolo, esperibile dalla vittima contro l’autore del dolo. L’importo della pena
corrispondeva al danno subito dall’autore. Questa azione era grave perché comportava anche l’infamia a carico di chi
fosse stato condannato.
Il pretore la concedeva solo in mancanza di altro mezzo giudiziario in favore dell’ingannato.
Il negozio già eseguito non veniva invalidato, ma l’ingannato poteva ottenere la condanna dell’autore del dolo.

Altro rimedio pretorio contro il dolo negoziale è l’integrum restitutio proprter dolum.

14.11. Il metus.
Altro vizio della volontà è il metus, il timore generato dall’altrui violenza, ovvero alla minaccia di provocare un male se
il minacciato non compia un certo negozio.
Deve trattarsi di una minaccia grave, delle minaccia di un pregiudizio maggiore di quello rappresentato dalla
conclusione del negozio, occorre inoltre che il male minacciato sia ingiusto e la minaccia seria.
Anche questo è un caso di vizio della volontà perché il negozio in sé è voluto ma la volontà si è fomata per effetto del
timore generato dalla vis.
In teoria il negozio era iure civili valido ed efficace. Tuttavia il convenuto,con una azione ex fide bona, avrebbe potuto
ottenere l’assoluzione senza bisogno di exceptio.

Nel I sec a.C. il pretore introdusse l’exceptio metus, grazie alla quale la persona convenuta per l’adempimento di un
negozio estorto con la violenza avrebbe ottenuto l’assoluzione. L’eccezione era opponibile anche a persona diversa
dall’autore della violenza.

Ancora pretoria era l’actio quod metus causa, che si dava a chi avesse dato esecuzione al negozio estorto con la
violenza prima ancora di essere chiamato in giudizio per l’adempimento. Poteva essere utilizzata non colo contro
l’autore della minaccia ma anche contro terzi che si fossero avvantaggiati da essa.

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Altro rimedio pretorio edittale era la integrum restitutio propter metum che tendeva a neutralizzare gli effetti che iure
civili si erano già prodotti.

14.12. La causa.
Chiunque compie un negozio giuridico non può non avere motivi propri, personali, per cui l’ha compiuto. Ogni
negozio è compiuto dal suo autore per una “causa”. Essa è la ragione d’essere oggettiva del negozio, l’ultima, la più
immediata in relazione agli effetti dell’atto, e pertanto la funzione che si intende realizzare attraverso gli effetti che il
negozio andrà a produrre (es la causa negoziale sarà in ogni caso lo scambio di cosa contro prezzo nella
compravendita).

Nel mutuo e nella compravendita la causa determina la struttura del negozio, ne rappresenta quindi un elemento
costitutivo. Essi sono quindi detti negozi causali.

Ad essi si contrappongono i negozi astratti, in cui la causa non è espressa, non emerge dalla struttura del negozio. Quel
che la struttura del negozio astratto esprime sono solo gli effetti giuridici, non la causa (mancipatio, in iure cessio,
stipulatio…).
Ad es la stipulatio era produttiva di obbligazioni. Questi erano gli effetti. La causa non vi compariva quindi gli stessi
negozi potevano essere compiuti per cause diverse.
I negozi astratti, in teoria, erano e restavano iure civili validi ed efficaci pure se la causa mancava o era illecita. Da età
preclassica però si ammise in casi del genere il ricorso alla condictio (per la restituzione di quanto già prestato) o alla
exceptio (per la neutralizzazione degli effetti che derivavano dal negozio).

14.12. La condictio.
Con la conditio si perseguivano crediti per cui l’attore pretendeva sussistere a carico dell’altra parte un obbligo di dare
espresso col verbo oportere, un dare che avrebbe potuto avere ad oggetto una certa pecunia o una certa res.

14.13. Gli elementi accidentali del negozio giuridico.


Il fatto che i negozi giuridici fossero tipici non era di ostacolo, in teoria, alla possibilità di aggiungervi di volta in volta
clausole diverse, sia per modificare gli effetti negoziali tipici sia per integrarli. Si parla quindi di elementi accidentali
del negozio giuridico.
Le più comuni di queste clausole sono condizione, termine e modus.

14.13.1. La condizione.
Per condizione di intende sia l’evento futuro e oggettivamente incerto dal quale si fanno dipendere gli effetti del
negozio sia la clausola, aggiunta al negozio, che contempla l’evento.
Le condizioni si distinguono in sospensive e risolutive. Le prime sospendono gli effetti del negozio (non produce i suoi
effetti finché l’evento non si verificherà), le altre lo risolvono (produce i suoi effetti che però finiranno automaticamente
se e quando l’evento si verificherà).

Non tutti i negozi giuridici tolleravano l’aggiunta di condizioni, es i cosiddetti actus legitimi (es macipatio, in iure
cessio). In essi l’aggiunta di condizione comportava l’invalidità dell’atto.
Erano tutti negozi che si compivano mediante la pronuncia di certa verba, tali da risultare logicamente incompatibili
con un rinvio, quale la condizione sospensiva avrebbe comportato, degli effetti loro propri.

Gli effetti di taluni atti erano di per sé subordinati al verificarsi di certi eventi (es. i legati sarebbero stati efficaci una
volta efficace il testamento,quindi non prima della morte del testatore). Si parla di condicio iuris.

Esistevano anche le condizioni cosiddette in praesens vel in praeteritum conlatae, che facevano dipendere gli effetti
del negozio da eventi attuali o passati, non quindi futuri e neanche oggettivamente incerti. Il negozio sarebbe stato
efficace subito se l’evento risultava verificato, altrimenti non avrebbe mai prodotto effetti.

L’evento dedotto in condizione poteva essere impossibile: materialmente impossibile o giuridicamente impossibile. La
conseguenza della condizione avrebbe dovuto essere in ogni caso l’invalidità del negozio.
Dei negozi mortis causa i giuristi di scuola sabiniana affermarono invece la validità ed efficacia pure se con condizione
impossibile, dovendosi questa considerare come non apposta.

Regime analogo si adottò, in definitiva, per le condizioni nei quali l’elemento dedotto fosse illecito.

Le condizioni possono essere positive o negative: le prime subordinano gli effetti del negozio al verificarsi dell’evento
posto in condizione; le altre al non verificarsi di esso.

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Le condizioni possono essere potestative, casuali e miste.
Potestative sono quelle il cui avveramento dipende da un atto volontario della persona interessata, causali quelle il cui
avveramento dipende dal caso o dalla volontà di terzi, miste quelle il cui avveramento dipende sia dalla volontà di
persona interessata sia dal caso o dalla volontà di terzi.
Si ritenne nullo il negozio con condizione potestativa il cui avveramento dipendesse dalla pura e semplice volontà della
parte che vi aveva interesse contrario (prometti di pagarmi 100 se vorrai? Prometto).

Le condizioni potestative possono essere negative, l’avveramento può cioè essere soggetto al fatto che la persona che
dal negozio trarrebbe vantaggio non adotti in futuro un determinato comportamento.
Il problema si pone quando la condizione non contempla un termine perché, per essere certi che si verifichi, bisogna
attendere la morte dell’interessato.

Condicio pendet: la condizione pende, non si è verificata ed è tuttora incerto se si verificherà. Il negozio, in sé valido,
non produce i suoi effetti e non si sa se li produrrà.
Il debitore, quindi, che avesse adempiuto la prestazione in pendenza della condizione avrebbe potuto pretendere la
restituzione.
Condicio deficit: la condizione viene a mancare. Il negozio si rivela destinato a restare senza effetti.
Condicio extitit: la condizione si è verificata. Il negozio comincerà a produrre i suoi effetti. Per diritto romano essi
decorrevano generalmente dal momento dell’avveramento della condizione.

Tutte queste erano condizioni sospensive. Alla condizione risolutiva si fece ricorso raramente, in eccezioni.
La regola era di non ammettere condizioni risolutive: non era congeniale alla mentalità giuridica romana che effetti
giuridici potessero cessare automaticamente per il fatto in sé di un evento qualsiasi solo perché pensato e voluto da
privati con efficacia risolutiva. Così era sia in materia di trasferimento della proprietà che in negozi come l’istituzione di
un erede o gli atti di liberazione dei servi.

14.13.2. Il termine.
Anche il termine è un elemento accidentale del negozio giuridico.
Riguarda un evento futuro ma si tratta di un evento che è certo che si verificherà. Il termine si definisce quindi come
una clausola che prevede un avvenimento futuro e certo dal quale si fanno dipendere gli effetti del negozio.
Nelle fonti romane ci si riferisce al termine col termine dies.
Poteva trattarsi di un evento per il quale c’era certezza sia che si sarebbe verificato sia quando (quest’ ultimo non
necessariamente).
Il termine poteva essere iniziale (dies a quo) o finale (dies ad quem).
Alcuni negozi non tolleravano l’apposizione di termini: in alcuni casi l’aggiunta dava luogo a nullità dell’atto.

14.3.3. Il modus.
Consiste nell’imposizione al destinatario di un atto di liberalità di adottare un comportamento determinato. A differenza
della condizione potestativa, che se la condizione non è verificata il negozio non produce effetti, il negozio modale è
immediatamente efficace e così rimane al di là dell’adempimento del modus. Solo che il beneficiario sarà obbligato a
compiere quanto il modus gli impone.

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Capitolo IV – LE PERSONE

15. Capacità giuridica e capacità di agire.


Per capacità giuridica si intende l’idoneità ad essere titolari di diritti e doveri. Per capacità d’agire si intende l’idoneità
ad operare nel mondo del diritto e quindi a compiere personalmente atti giuridici.
Sono queste categorie non romane. Nel diritto romano le cose erano diverse.
La parola “persona” era riferita solo a quelle che noi diciamo persone fisiche. Tutti gli esseri umani erano detti persone
ma non tutti avevano capacità giuridica: potevano averla, ma non l’avevano necessariamente, le persone libere; non
l’avevano mai, in teoria, gli schiavi.
Per quanto riguarda le persone giuridiche i concetti furono soltanto abbozzati.
Anche a Roma la capacità d’agire era riconosciuta alle persone intellettualmente capaci ma non presupponeva
necessariamente la capacità giuridica. Ad esempio schiavi e filii familias erano sì capaci di agire ma non avevano
capacità giuridica.
Presupposto di ogni capacità della persona fisica è l’esistenza, che ha inizio con la nascita e ha termine con la morte.

16. Capacità giuridica. La dottrina dei tre status (libertatis, civitatis, familiare).
La parola status fa riferimento alla posizione giuridica della persona.

Piena capacità giuridica ha la persona che è al contempo libera, cittadina romana e pater familias, o comunque non
soggetta a potestà. La persona giuridicamente capace viene detta sui iuris, a cui si contrappongono gli alieni iuris,
persone giuridicamente incapaci e soggette ad altrui potestà.

16.1. Status libertatis. I liberi.


Il possesso dello status libertatis, l’essere cioè uomo libero, era la prima condizione per poter godere a Roma di
capacità giuridica.
Nascevano liberi i nati da madre libera (ingenui); diventavano liberi gli schiavi liberati (liberti).

16.1.1. I servi.
La schiavitù è un istituto antico del diritto romano. La diffusione su larga scala a Roma è però legata ai successi militari
e conseguente cattura di prigionieri che venivano ridotti in servitù.

Le cause di schiavitù più rilevanti furono la nascita da madre schiava e la cattura al nemico. Con la cattura il prigioniero
diventava schiavo. La regola valeva anche per i Romani catturati dai nemici.
Ma i Romani non tolleravano che cittadini romani diventassero schiavi in patria, venne così introdotto il ius postlimini,
per cui il cittadino romano catturato e diventato schiavo del nemico avrebbe riacquistato libertà e cittadinanza una volta
tornato in patria. Sarebbe stato inoltre reintegrato nella posizione giuridica personale e patrimoniale precedente alla
cattura.
In età postclassica fu consentita e regolamentata la vendita dei figli ancora neonati, che sarebbero divenuti schiavi del
compratore. Giustiniano limitò la possibilità di vendita ai soli casi di estrema povertà.

La posizione degli schiavi era complessa. Essi sono sia nella categoria delle personae, in quanto esseri umani, sia nella
categoria delle res, quali possibili oggetti di proprietà o di altri diritti soggettivi: più specificatamente res mancipi.
Non sono giuridicamente capaci e non possono quindi avere alcun diritto soggettivo o potestà. Le loro unioni non hanno
rilievo per il diritto e neanche i vincoli tra genitori e figli.
Gli schiavi erano persone alieni iuris perché assoggettati alla potestà del proprietario (dominus) che esercitava su di
essi, come su ogni cosa propria, un potere assolute, anche il diritto di vita e di morte.

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Ai servi, seppur privi di capacità giuridica, si riconobbe sin dall’età arcaica una specie di capacità d’agire: si diede cioè
rilevanza a certi loro comportamenti volontari.
Il criterio era che essi potessero solo migliorare, e non peggiorare, la posizione giuridico-patrimoniale del dominus.
Essi partecipavano quindi validamente a negozi che comportassero acquisto di diritti soggettivi; solo che ad acquistare
la proprietà, il credito… non era il servo che era stato parte del negozio ma il suo proprietario.

Contro il servo altrui responsabile di delicata, la vittima poteva esercitare vendetta direttamente, dalva la facoltà del
dominus di evitare sia l’impossessamento che la pena corporale col pagamento di una pena pecuniaria. Si parla di
responsabilità nossale.

16.1.1.1. Il peculio.
Gli atti di disposizione, se compiuti da schiavi, avrebbero dovuto essere del tutto inefficaci dal punto di vista del diritto:
il servo non aveva nulla di proprio quindi di nulla poteva disporre; non era giuridicamente capace e quindi non poteva
assumere obbligazioni; non poteva peggiorare la posizione patrimoniale del dominus, e quindi nessun suo negozio
avrebbe potuto generare obligatio a carico dello stesso dominus.
Già dall’età arcaica era uso concedere ai servi un “peculio”. Proprietario del peculio tuttavia era e restava il dominus ma
si ammise presto che essi potessero trasferire il possesso delle res peculiari, salva la facoltà del dominus di revocare il
peculio in ogni momento.

I servi che avevano un peculio potevano con esso trafficare con i terzi. Da qui il riconoscimento che i servi potessero
adempiere agli obblighi assunti con atto lecito e potessero farlo validamente anche se i terzi non avrebbero potuto
costringerveli.
Da ciò la negazione al dominus del diritto di pretendere dal terzo la restituzione di quanto il servo gli avesse dato in
adempimento di un proprio obbligo, ed inoltre il riconoscimento che il servo potesse assumere obligationes naturales
(non civiles; non davano luogo ad actiones).

16.1.1.2. Le azioni adiettizie.


Con la crescita dell’economia romana crebbe l’esigenza di utilizzare i servi nella gestione degli affari del dominus.
Bisognava però che i terzi potessero fare pieno affidamento sul fatto che il servo avrebbe fatto onore ai propri impegni,
e quindi che essi potessero disporre eventualmente di strumenti giudiziari idonei che garantissero loro l’adempimento.
Il pretore, dal II sec a.C. andò promettendo nel proprio editto che avrebbe dato a terzi, creditori da atto lecito di un servo
altrui, talune actiones contro il dominus  actiones adieticiae qualitatis.
Ad es. l’actio quod iussu: presupponeva cheil dominus avesse autorizzato il terzo a negoziare con il servo, assumendosi
ogni rischio.
L’actio exercitoria presupponeva che il proprietario dello schiavo fosse un exercitor navis, il quale poteva affidare la
gestione e l’amministrazione della nave ad un proprio schiavo (magister navis). I debiti contratti dal servo nell’ambito
dell’incarico erano responsabilità del dominus.
L’actio institoria era come la precedente solo che nell’ambito di altre attività economiche.
L’actio de peculio et de in rem verso era caratterizzata da due taxationes: una de peculio, presupponeva che il servo
avesse un peculio e quindi la responsabilità del dominus per i suoi debiti non andava oltre il peculio stesso; l’altra era de
in rem verso, presupponeva un arricchimento del dominus e quindi mancando o risultando inefficiente il peculio, il
dominus rispondeva dei debiti del servo nei limiti di quanto egli si fosse concretamente arricchito.
Questa azione esigeva che si stimasse il peculio. L’importo si calcolava al netto dei debiti che il servo eventualmente
aveva verso il padrone, in quanto egli era nei suoi confronti un creditore privilegiato.
Simile era l’actio tributaria, i terzi creditori con fondate ragioni di un dissesto finanziario del servo si rivolgevano al
pretore il quale invitava il dominus a ripartire l’importo dele merci peculiari tra i creditori ed eventualmente
partecipandovi anch’egli, ma sullo stesso piano degli altri creditori. Questa azione poteva essere usato dai creditori che
ritenevano aver avuto dal dominus una quota minore del dovuto.

16.1.1.3. Le liti di libertà.


Lo status libertatis poteva essere oggetti di contestazione: si istituiva allora un processo di libertà (causa liberalis). La
persona sul cui status si disputava, non era dal punto di vista formale soggetto della lite ma oggetto. Ad essere parte del
giudizio per rappresentare gli interessi della persona il cui status era contestato, era l’adsertor in libertatem. Questa
esigenza fu abolita da Giustiniano.

16.1.1.4. Cessazione dello stato di schiavitù.


Lo stato di schiavitù poteva cessare con l’atto di affrancazione da parte del dominus  manumissio.
Per il ius civile esistevano tre diversi tipi di manomissio, con le quali il servo liberato acquistava si libertà che
cittadinanza:

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 Manumissio vindicta: si svolgeva davanti al magistrato alla presenza di dominus e schiavo. In origine era una
finta vindicatio in libertatem: un adsertor in libertatem dichiarava libero il servo toccandolo con una bacchetta;
il dominus non si opponeva e il servo acquistava così la libertà.Nel corso del tempo il rito si semplificò sempre
più.
 Manumissio censu: vi si ricorreva in occasione delle operazioni di redazione delle liste del censo. Il censore,
dietro autorizzazione del dominus, iscriveva il servo nelle liste del censo, quindi tra i cives Romani.
 Manuomissio testamento (la + diffusa): era una disposizione testamentaria, aveva quindi efficacia dopo la
morte del testatore che l’aveva disposta. Vi si potevano aggiungere condizioni sospensive o termini iniziali.

Da fine età repubblicana si usò liberare i servi anche in forme diverse, tramite le manumissioni pretorie (es. Inter
amicos, per epistulam...). I manomessi in queste forme, non riconosciute dal ius civile, non acquistavano inizialmente la
libertà; il pretore tutelava la libertà di fatto del servo liberato, negando eventualmente al dominus la vindicatio in
servitutem.
Giustiniano li equiparò ai manomessi nelle forme civili.

La manumissio fideicommissaria era una manumissione indiretta; il testatore poteva far carico ad un erede di
manomettere un servo. In caso di rifiuto l’onerato avrebbe potuto esservi costretto.

Altra forma dell’età postclassica era la manumissio in sacrosanctis ecclesiis, dichiarazione di volontà di liberare il
servo resa dinanzi all’assemblea dei fedeli (cristiani) in presenza del vescovo.

I servi potevano acquistare la libertà anche diversamente che per manumissione, ad es diventava libera la schiava
venduta a patto che non venisse prostituita una volta che il patto fosse stato violato.

Il fenomeno dei servi liberati che diventavano liberi e cittadini romani aveva assunto al tempo di Augusto proporzioni
preoccupanti: si temette un’alterazione della compagine statale a causa dell’immissione di un eccessivo numero di
schiavi liberati. Con la lex Fufia Caninia e la lex Aelia Sentia si pose, con la prima, un limite alle manumissioni
disposte in testamento, con l’altra veniva vietata la manumissione di schiavi di cattiva condotta e manumissioni in frode
ai creditori; subordinò a speciali garanzie le manumissioni compiute da domini minori di vent’anni e di servi di età
inferiore a trent’anni.

16.1.2. I liberti.
Gli schiavi liberati acquistavano la libertà e con essa, di solito, la cittadinanza romana. Diventavano anche sui iuris e
quindi giuridicamente capaci. Essi erano chiamati “liberti”.
I liberti avevano una scarsa considerazione sociale e subivano discriminazioni per il diritto pubblico (in teoria erano
esclusi dalle cariche pubbliche).
L’ex dominus assumeva la qualifica di “patrono” che inizialmente poteva imporgli vari obblighi (prestazioni di operae,
cioè servizi giornalieri domestici e artigianali), che col tempo si andarono attenuando fino al dovere del liberto di
prestare al patrono o suoi discendenti obsequium e reverentia.
Nel ius patronatus rientravano le aspettative successorie del patrono sui beni del liberto, nonché il diritto del patrono
alla tutela legitima.

16.2. Le personae in causa mancipii.


Essi erano in una posizione ibrida, erano sì liberi e cittadini romani, ma erano anche assoggettati alla potestà
(mancipium) di altra persona.
Erano in questa posizione i filii familias mancipati dal loro pater familias e quindi caduti sotto il mancipium del
mancipio accipiens. In età arcaica era in realtà una vendita, ma del tutto disusata già in età preclassica.
Alla mancipatio dei filii si continuò a ricorrere ai fini dell’adoptio e dell’emancipatio.
Le personae in causa mancipii, libere e cittadine, potevano vivere in matrimonio ed avere figli legittimi. Non avevano
capacità giuridica ed erano alieni iuris. Come i servi alla morte del mancipio accipiens non diventavano sui iuris ma
cadevano sotto il mancipium dell’erede, lo diventavano solo con la manumissio.

16.3. Altre situazioni di dipendenza personale.


Altre situazioni di dipendenza personale, che comunque non comportavano la privazione della capacità giuridica.

Un esempio è il colonato. I coloni erano persone libere di umile condizione, piccoli affittuari di terre; oppure umili
liberi lavoratori giornalieri dei campi.
In età postclassica, in un contesto di irrigidimento delle classi sociali, i coloni furono vincolati alla terra che
coltivavano, al punto che nnon potevano esserne distaccati neanche dai proprietari, e venivano alienati insieme al fondo.

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Subirono gravi limitazioni della capacità giuridica e di agire: i loro beni furono considerati quasi come un peculio
servile, alienabile solo col consenso del proprietario del fondo. Su di essi il proprietario poteva esercitare
legittimamente atti di coercizione fisica.

16.4. Status civitatis. I cives Romani.


Solo ai cives Romani poteva essere riferito il ius civile nella sua accezione più ristretta.
Cittadini romani si nasceva o si diventava. Nascevano cittadini romani sia i nati da padre cittadino (purché in
matrimonio legittimo) sia i nati fuori da iustae nuptiae da madre cittadina. Diventavano di norma cittadini romani gli
schiavi liberati.
La cittadinanza poteva inoltre essere concessa dallo Stato romano, sia a persone singole che ad intere comunità.
Concessioni + grandi: agli alleati italici al tempo di Silla, constitutio Antoniniana di Caracolla in favore di tutti gli
abitanti liberi dell’impero.
Perdevano la cittadinanza romana i cives ridotti in schiavitù, quelli che si stabilivano in nuove colonie, i cittadini che
venivano condannati all’esilio in seguito a gravi crimini.

I peregrini erano invece persone libere ma non cives. Per i rapporti privati a loro si applicava il ius gentium.
A volte si concedeva ad essi, singolarmente o a comunità, il ius commercii o il ius connubii.

Categoria privilegiata di peregrini erano i Latini.


Innanzitutto i Latini prisci, cittadini delle città laziali vincolate a Roma da antica alleanza e formalmente sovrane. Oltre
allo ius migrandi (diventavano cittadini romani trasferendosi stabilmente a Roma) godevano dello ius commercii e dello
ius connubii, e potevano ricevere in testamento da cittadini romani.
Ad essi furono uguagliati i Latini coloniarii, cittadini o peregrini che si stabilivano nelle colonie fondate da Roma. Ad
essi furono in parte uguagliati gli schiavi liberati nelle forme pretorie e i minori di trent’anni manomessi senza le
garanzie della lex Aelia Sentia, erano detti Latini Iuniani.

Al gradino più basso stavano i peregrini dediticii, membri di collettività straniere che si erano arrese a Roma senza
condizioni e all’interno delle quali il vincitore aveva abrogato ogni ordinamento nazionale. Negata quindi loro ogni
capacità di diritto privato nazionale, vi si applicava lo ius gentium.
Le diverse categorie di peregrini all’interno del territorio romano scomparvero poco a poco, gradualmente uguagliate ai
cives.

16.5. Status familiae.


La piena capacità giuridica, nel diritto romano, era riconosciuto alle persone sui iuris.
Ad essi si contrapponevano gli alieni iuris sottoposti a dominium (schiavi), macipium (personae in causa mancipii),
patria potestas (i filii familias), a manus (le donne).
Il termine Familia si riferisce alla familia proprio iure dicta, gruppo unitario composto da una persona sui iuris e,
quando questa era un uomo, anche dai filii familias e dalle donne in manu assoggettati alla sua potestà.
I maschi sui iuris erano abitualmente chiamati patres familias, a prescindere dall’effettiva paternità.
Le donne non potevano avere filii sotto la propria potestà; la donna sui iuris era quindi l’unica componente della propria
familia.

16.5.1. Gli sponsali.


Il matrimonio era generalmente preceduto dalla promessa di matrimonio. In età arcaica si compiva tramite sponsio, per
mezzo della quale il pater familias della donna, o ella stessa se sui iuris, facevano al fidanzato promessa di matrimonio.
Ne nasceva un vincolo giuridico all’adempimento. Poteva trattarsi anche di sponsiones reciproche tra i due fidanzati.
Dall’età preclassica la promessa di matrimonio si compì col semplice reciprocano consenso comunque espresso: non ne
nascevano obligationes, né obblighi giuridici a contrarre il matrimonio.
Si riconobbe, comunque, l’obbligo di restituire i doni in caso di rottura del fidanzamento.

16.5.2. Il matrimonio.
Presupposto per la costituzione di una familia proprio iure dicta era il matrimonio legittimo, o iustae nuptiae, per le
quali era richiesto il connubium, che gli sposi fossero almeno in età pubere e il consenso reciproco degli sposi.

Il connubium era l’attitudine a vivere in matrimonio legittimo con l’altro coniuge. La regola era che esso sussistesse tra
cittadini romani.
L’antico divieto di connubium tra patrizi e plebei fu rimosso dalla lex Canuleia nel 445 a.C.
I classici collegavano a tale requisito anche il divieto di matrimonio tra parenti.

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Se la violazione di una delle clausole predette era di impedimento all’esistenza del matrimonio, non lo era invece il
lutto vedovile. Era fatto divieto alla vedova di risposarsi prima del decorso del tempus lugendi, dieci mesi dalla morte
del marito.
La violazione del lutto vedovile comportò, con l’editto pretorio, l’infamia e successivamente anche la perdita dei lasciti
disposti in suo favore nel testamento del primo marito, e anche della capacità di acquistare mortis causa da terzi.

16.5.3. La concezione romana del matrimonio.


Il matrimonio romano non era un negozio giuridico, un rito, ma consisteva nel fatto in sé della convivenza stabile di due
persone di sesso diverso, con la volontà costante di vivere in unione monogamica come marito e moglie (affectio
maritatis). Il matrimonio era per i romani un fatto sociale prima che giuridico.

Al matrimonio poteva accompagnarsi la conventio in manum, per cui la moglie cadeva sotto la manus del marito. La
conseguenza era che la moglie veniva incorporata nella famiglia del marito, mutava lo status familiae e perdeva iure
civili ogni legame con i parenti di prima.
Tuttavia la conventio in manum poteva non avere luogo. Il matrimonio poteva essere cum manu e sine manu. Nei
matrimoni sine manu la moglie manteneva lo status familiae di prima.
In età arcaica e preclassica i matrimoni cum manu costituivano la regola, gli altri l’eccezione. Poi i matrimoni liberi si
andarono diffondendo sempre più in linea con una maggiore indipendenza che le donne andavano acquistando nella
società e nel diritto.
I matrimoni cum manu, ormai rarissimi in età classica, scomparvero del tutto nell’epoca successiva.

Per la costituzione del matrimonio non si esigeva alcun rito; oltre ai requisiti di validità era sufficiente che tra due
persone di sesso diverso si stabilisse convivenza, con la volontà di vivere come marito e moglie.
Questo atteggiamento soggettivo era definito affectio maritatis. Ma come provare l’esistenza di un tale dato soggettivo?
Essa poteva desumersi, ad esempio: dalla preesistenza di sponsali; dalla circostanza che si era proceduto a costituzione
della dote; o a conventio in manum; che si erano svolti i festeggiamenti tipici delle nozze; dell’avvenuta benedizione
nuziale in Chiesa (con diffusione del Cristianesimo).
Nessuna di queste circostanze era necessaria dal punto di vista del diritto per l’esistenza del matrimonio ma ognuna di
esser avrebbe potuto essere utilmente invocata quale prova.

Gli effetti del matrimonio erano molteplici. Esempio:


solo i figli nati da iustae nuptiae erano detti “legittimi”;
la donna acquistava la dignità sociale e giuridica del marito (honor matrimonii);
tra coniugi vi era il dovere reciproco di fedeltà. L’infedeltà dava luogo a sanzioni patrimoniali quando, sciolto il
matrimonio, si doveva restituire la dote. L’infedeltà della moglie era invece vista come adulterio, per cui la moglie
poteva essere uccisa dal marito, dal 18 a.C. la moglie incorreva nel crimen adulterii, punito con pene severe;
furono vietate le donazioni tra marito e moglie, pena la nullità dell’atto;
tra marito e moglie fu sempre esclusa l’azione penale di furto, ma per le cose che la moglie avesse sottratto al marito in
vista del divorzio il pretore previde un’actio rerum amotarum.

16.5.4. Il divorzio.
Se il matrimonio era convivenza e insieme affectio maritatis esso si scioglieva, oltre che per morte (o perdita della
libertà/cittadinanza) del marito o della moglie, anche per il fatto che in uno o in entrambi i coniugi fosse venuta meno
l’affectio maritatis e si fosse quindi interrotta la convivenza. Si parlò di divortium, se era unilaterale di repudium.
Non erano richieste formalità per il divorzio, esso determinava lo scioglimento del matrimonio qualunque fosse la
causa. Solo il comportamento del coniuge che vi avesse dato causa veniva talora sanzionato: es età repubblicana con la
nota censoria.
In età postclassica per influsso del Cristianesimo il regime classico del matrimonio subì trasformazioni notevoli, tuttavia
il diritto romano non arrivò mai ad abolire il divorzio. Lo ostacolò, non lo abolì.
Nessun ostacolo si oppose mai fondamentalmente al divorzio per mutuo consenso.
Il ripudio fu invece ritenuto lecito solo in alcuni casi (detti di divortium bona gratia), in presenza di motivi ritenuti
validi e non imputabili ad alcuno dei coniugi (impotenza, scomparsa, deportazione…).
Il divorzio era inoltre consentito in altre ipotesi di comportamento gravemente colpevole dell’altro coniuge (adulterio,
aver tentato di prostituire la moglie, tenere una concubina, essersi macchiati di gravi crimina).
In ogni altra ipotesi il ripudio sarebbe stato sine causa e quindi illecito: il matrimonio si scioglieva ugualmente ma il
coniuge che avesse divorziato sarebbe stato colpito da sanzioni che andavano dalla perdita della dote alla deportatio in
insulam.
Erano questi i primi avvisi dell’idea del matrimonio come vincolo giuridico che, una volta costituito, può durare a
prescindere dalla persistente volontà di marito e moglie di vivere in matrimonio.

16.5.5. La dote.

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È un istituto romano arcaico. Consisteva in una o più cose o diritti che la moglie, il di lei pater familias o un terzo
conferivano al marito espressamente come dote. Profeticia se costituita dal pater, adventicia negli altri casi.

La funzione originaria della dote era, in relazione ai matrimoni cum manu, di compensazione x la figlia delle
aspettative ereditarie che ella perdeva rispetto alla famiglia di origine per il fatto di uscire da essa e di entrare a far parte
della famiglia del marito.
Con l’affermarsi dei matrimoni liberi, la dote rappresentò un contributo ad sustinenda onera matrimonii.
Poiché, inoltre, al divorzio la dote andava di norma restituita alla moglie, essa aveva anche la funzione di mantenimento
della moglie una volta divorziata/vedova.

Modi di costituzione della dote:


 Datio: era un trasferimento di proprietà in favore del marito, che si compiva a titolo di dote. Si realizzava con
negozi astratti quale mancipatio, in iure cessio.
 Promissio dotis: era una stipulatio compiuta dotis causa. A stipulare era il marito che di seguito alla
promissivo dell’altra parte diventava creditore, non proprietario. Era quindi una forma obbligatoria.
 Dotis dictio: era un negozio solenne proprio ed esclusivo della dote, si compiva con la pronunzia da parte del
costituente di certa verba. Il marito diventatva creditore.

La dote poteva essere costituita sia prima del matrimonio e in previsione di esso sia durante il matrimonio stesso. Se
costituita prima, dotis dictio e promissio dotis si intendevano compiute sotto condizione sospensiva (tacita) che avessero
dato effetto a matrimonio avvenuto.
La datio dotis, invece, produceva immediatamente gli effetti traslativi del dominio. Ma il costituente, se le nozze non
avessero avuto luogo, avrebbe potuto pretendere la restituzione di quanto dato.

Il marito diventava titolare dei beni e diritti dotali. Tuttavia la dote era costituita a favore della moglie.
Questo punto di vista sociale aveva riscontro a livello giuridico: fu presto sancito l’obbligo del marito (o degli eredi) di
restituire la dote, solitamente alla moglie, dopo lo scioglimento del matrimonio.
In età classica fu fatto divieto al marito di alienare beni immobili dotali senza il consenso della moglie.

Era uso frequente che il marito si assumesse espressamente l’obbligo di restituire la dote, all’atto della costituzione,
mediante stipulatio.
L’actio rei uxoriae cmq prescindeva da tale eventuale promessa. Presupponeva che il matrimonio fosse stato sine manu
ed era esperibile una volta sciolto il matrimonio.
L’azione era intrasmissibile, non si trasmetteva cioè agli eredi della persona legittimata ad esperirla.
In alcuni casi particolari il marito avrebbe potuto trattenere parte della dote, come sanzione del cattivo comportamento
della moglie o a carattere patrimoniale, riguardo le cose che la donna avesse sottratto al marito in vista del matrimonio,
le cose donate alla moglie durante il matrimonio, le spese erogate dal marito sui beni dotali.

16.5.6. I filii familias.


Essi pur essendo liberi e cittadini romani, erano alieni iuris, soggetti a patria potestas e, quindi, privi di capacità
giuridica.
Erano filii familias, anzitutto, i nati da matrimonio legittimo; nel caso il padre era filius familias, i nati andavano sotto la
patria potestas dell’avo paterno.
Si diveniva filii familias anche per adozione: poteva essere un’adrogatio, l’adozione di un sui iuris, o una adoptio,
adozione di un alieni iuris.

L’adrogatio si compiva con la partecipazione dei comitia curiata x l’occasione presieduti dal pontefice, il quale
interrogava i due soggetti interessati circa la volontà di adrogare e di essere adrogato. Avuta risposta positiva, il
pontefice chiedeva al popolo il proprio assenso.
In età classica si riconovve per certi casi particolari che l’adrogatio potesse compiersi mediante scritto dell’imperatore.
Questa forma si diffuse rapidamente.
L’adrogato diventava filius familias e con lui andavano sotto la stessa potestas le persone libere, filii familias e donne in
manu, eventualmente già sotto la potestà dell’adrogato.
I beni e i diritti soggettivi che facevano capo all’adrogato erano acquistati dall’adrogante.
I debiti in precedenza contratti si estinguevano, ma il pretore intervenne in materia concedendo ai creditori un’actio
ficticia per cui il giudice avrebbe giudicato come se non ci fosse stata l’adrogatio.

L’adoptio riguardava un alieni iuris filius familias il quale passava dalla famiglia di origine alla famiglia dell’adottante,
spezzando iure civili ogni vincolo con la famiglia d’origine. L’adottante prendeva su di lui patria potestas.

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L’effetto si conseguiva tramite un complesso procedimento che permetteva di superare il precetto per cui la patria
potestas si perdeva solo con la morte del pater. I pontefici sfruttarono il precetto che puniva con la perdita della patria
potestas il padre che avesse per tre volte venduto il figlio.
Il padre emancipava per tre volte il figlio all’adottante il quale, acquistandolo in causa mancipii, dopo la prima e la
seconda mancipatio lo manometteva. Con la terza mancipatio il padre perdeva la patria potestas quindi l’adottante
glielo rimancipava: questa volta il padre naturale acquistava l’adottando non più come filius ma come persona in causa
mancipii. A questo punto dinanzi ad un magistrato l’adottante rivendicava come propria la persona che voleva adottare
affermando che fosse un proprio filius e il padre non obiettava.
Giustiniano semplificò il procedimento con una semplice dichiarazione di volontà di dare e ricevere in adozione.

Da età postclassica i figli nati fuori dal matrimonio diventavano figli legittimi una volta che i genitori si fossero uniti in
iustae nuptiae.

16.5.6.1. I filii familias. Posizione personale.


Il potere personale del pater sui filii era inizialmente quello del dominus sui servi. Ma il costume, la religione e il diritto
intervennero presto. Da fine età repubblica l’uccisione crudele ed ingiustificata del filius fu repressa con sanzioni
criminali come l’uccisione di un uomo libero estraneo.

16.5.6.2. I filii familias. Rapporti patrimoniali.


Anche per gli aspetti patrimoniali la posizione dei filii era inizialmente uguale a quella degli schiavi. Erano privi di
capacità giuridica ed anche ad essi non facevano capo doveri giuridici.
Anche ai filii poteva essere concesso un peculio, con conseguente facoltà di disporre a titolo oneroso del possesso delle
cose peculiari. Anch’essi poterono contrarre obligationes naturales.

La posizione dei filii rispetto agli schiavi si andò progressivamente differenziando.


Fu riconosciuta la loro capacità di assumere, con atto lecito e rispetto ai terzi, obligationes civiles, e quindi obbligazioni
vere e proprie sanzionate da azioni. Tuttavia tale capacità fu riconosciuta ai soli figli maschi e contro di essi i terzi
creditori non avrebbero potuto procedere esecutivamente (dopo sentenza di condanna) essendo preclusa sia l’esecuzione
personale (il filius non poteva essere sottratto alla patria potestas) sia l’esecuzione patrimoniale (non avendo un
patrimonio proprio). I creditori avrebbero quindi dovuto attendere che cessasse la patria potestas. Per questo, ad es,
furono vietati i mutui in denaro ai filii familias.
Contro i filii si applicò la responsabilità cosiddetta adiettizia (azioni quod iussu, institoria, exercitoria, de peculio et de
in rem verso) e dell’azione tributoria.

Augusto concesso ai filii familias militari di potere disporre per testamento dei proventi del servizio militare e dei beni
con tali proventi acquistati  peculio castrense. Il pater non avrebbe potuto farlo suo.

Peculio quasi castrense: guadagni ed ai beni acuistati dal filius coi proventi derivanti dall’esercizio di funzioni civili a
servizio dello Stato, dall’esercizio di attività forense e del sacerdozio.

16.5.6.3. Cessazione dello status di filius familias.


Cause: i figli potevano essere mancipati dal proprio pater e diventare personae in causa mancipii, potevano, con
l’adoptio, cadere sotto la patria potestas di altro pater familias, la figlia poteva cadere sotto la manus del marito, infine
con la perdita della libertà o anche della cittadinanza.

La patria potestas si estingueva solitamente con la morte del pater familias. Con essa i filii, maschi e femmine,
immediatamente soggetti alla sua patria potestas cessavano di essere filii e diventavano sui iuris.
Gli altri filii familias, i nipoti cioè figli di filii ancora sotto la potestà del padre, con la morte di quest’ultimo restavano
alieni iuris stto la patria potestas del loro genitore divenuto a sua volta pater familias.

Alla norma delle XII Tavole per cui il padre che avesse per tre volte mancipato il filius perdeva su di lui la sua patria
potestas, si fece ricorso anche per consentire che un filius familias uscisse dalla famiglia diventando sui iuris ancora
vivo il pater. Il procedimento fu detto macipatio, ed era molto simile a quello usato per l’adoptio.
Il figlio emancipato cessava di appartenere alla famiglia di origine spezzando anche ogni vincolo di agnatio e subiva
captis deminutio minima.

16.5.7. Le donne in manu.


Perone libere soggette a potestà, quindi alieni iuris, erano anche le donne in manu.
La conventio in manu si compiva in tre modi:
 Usus: consisteva nel fatto in sé della convivenza coniugale protratta per un anno. La donna avrebbe potuto
interromperla allontanandosi per tre notti consecutive dalla casa del marito.

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 Confarreatio: era un arcaico solenne rito religioso. Esigeva la pronuncia di parole determinate in presenza di
dieci testimoni. Si consumava un sacrificio a Giove nel quale era consumato, fra l’altro, pane di farro (panis
farreus da cui il nome).
 Coemptio: era una mancipatio adatta al fine dell’acquisto della manus.

La moglie in manu nell’ambito della famiglia era considerata come una figlia rispetto al marito; quindi, eventualmente,
come una nipote rispetto al suocero pater familias, come una sorella rispetto ai suoi stessi figli…
I modi di estinzione della manus erano quindi gli stessi per la cessazione della patria potestas, solo che vi era un
ulteriore rito, la difarreatio, rito uguale e contrario rispetto alla confarreatio.

16.5.8. Parentela e affinità.


Il vincolo tra più componenti della stessa famiglia era detto agnatio ed era una specie di parentela civile che
prescindeva dal vincolo di sangue (c’era tra padre e figlio ma non ad es con figli adottati o con le donne in manu).
Con la morte del pater familias la famiglia si spezzava in tante familiare quanti erano i filii familias, ed eventualmente
moglie e nuore in manu. Il vincolo di agnatio tuttavia non si estingueva. Esso era un tipo di parentela esclusivamente in
linea maschile.
Al riguardo degli agnati appartenenti a nuclei familiari diversi si parlava di familia communi iure, composta
dall’insieme delle persone che sarebbero state sotto la potestas dello stesso pater familias se costui fosse ancora in vita.
Il vincolo si estingueva invece x effetto di mancipatio, datio in adoptionem, adrogatio, conventio in manum, diffareatio.

La parentela poteva essere in linea retta o collaterale.


Erano parenti in linea retta gli ascendenti e i discendenti tra loro, erano parenti in linea collaterale coloro avessero un
ascendente comune.
Per stabilire il grado di parentela in linea retta si contano le generazioni senza contare la generazione maggiore.
Per i parenti in linea collaterale si risale all’ascendente comune, che poi non verrà calcolato, e si discende al parente.

L’affinità (adfinitas) è il legame che unisce un coniuge con i parenti dell’altro coniuge. Anche l’adfinitas può essere in
linea retta e in linea collaterale a seconda che il rapporto del coniuge con la persona sia in linea retta o collaterale.

16.6. La captis deminutio.


Essa può essere definita un mutamento di status, per cui si spezzavano i precedenti vincoli di agnatio.
La captis deminutio poteva essere: maxima, conseguiva alla perdita dello status libertatis; media, conseguente alla
perdita dello status civitatis; minima, conseguente ad un mutamento dello status familiare che, ferme restando libertà e
cittadinanza, facesse venir meno i precedenti vincoli di agnatio (adrogatio, adoptio, mancipatio, conventio in manum,
diffareatio).

16.7. Limitazioni alla capacità giuridica.


Limitazioni alla capacità giuridica di perone libere, cittadine romane e sui iuris subirono coloni, liberti e altri.

16.7.1. L’infamia.
Le persone che, per comportamenti riprovevoli loro imputabili, per l’esercizio di determinate attività o per la condanna
subita in certi giudizi, andavano incontro a disistima sociale erano state colpite da infamia o ignominia. Ad es le
persone dedite a mestieri indecorosi (prostitute, gladiatori, commedianti…) o i condannati per taluni crimina (crimina
capitalia, calumnia, praevaricatio) e quanti avessero subito condanna per responsabilità propria in determinate actiones
infamanti, oppure i debitori che persistessero nell’inadempimento.
Gli infames e gli ignominiosi andavano incontro a gravi incapacità di diritto pubblico (incapacità di rivestire cariche
pubbliche.

16.7.2. Limiti alla capacità giuridica delle donne.


Per diritto pubblico fu loro negata ogni capacità. Quanto al diritto privato, la maggiore delle limitazioni riguardava la
patria potestas, alle donne era quindi anche impossibile adrogare e adottare.
Esse furono escluse dagli uffici di tutore e di curatore e non potevano rappresentare altri in giudizio.

17. Capacità di agire.


Si intende l’idoneità a compiere personalmente atti giuridici. Per diritto romano era riconosciuta per certi aspetti anche
ad alieni iuris, quindi a persone giuridicamente incapaci: i servi ed i filii familias.

17.1. L’età.
La distinzione fondamentale al riguardo era tra impuberi, che non avevano ancora raggiunto la capacità fisiologica di
generare, e puberi. Vi era differenza con le femmine.

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Scuola sabiniana: maschi decidere caso per caso in base a caratteri esteriori connessi alla capacità di generare; femmine
al compimento del 12° anno d’età.
Scuola proculiana: maschi al compimento del 14° anno; femmine al compimento del 12° anno.
Gli impuberi erano infantes (fanciulli non ancora in grado di un eloquio ragionevole, minori di 7anni) o infantia
maiores.
La capacità di agire era riconosciuta ai puberi. Era riconosciuta solo in parte agli impuberi infantia maiores, che erano
ammessi a compiere senza assistenza di alcuni, quei negozi giuridici che comportavano l’acquisto di un diritto, non
invece degli atti dispositivi e di assunzione di obbligazioni.
Problemi di gestione patrimoniale, oltre che di assistenza personale, si posero per gli impuberi sui iuris, per cui essi
furono soggetti a tutela impuberum. Ad esercitarla era il tutore, l’impubere tutelato era chiamato pupillo.

La tutela impuberum poteva essere: legitima, tutela cui le XII Tavole chiamavano l’agnatus proximus dell’iimpubere
(es. il fratello); testamentaria, se il pater familias, temendo di morire prima che il figlio raggiungesse la pubertà, avesse
nominato nel suo testamento un tutore; dativa, dal 210 aC il pretore poteva nominare, su istanza della madre o di altri
congiunti, anche estranei, un tutore all’impubere sui iuris che non ne avesse alcuno.

Il tutore esercitava un potere nell’interesse della familia per la buona conservazione del patrimonio familiare, allo stesso
tempo adempiva ad un dovere assicurando al pupillo assistenza e protezione.
Sino a tutta l’età classica questo istituto era riservato ai cittadini romani maschi, dall’età postclassica la madre
dell’impubere, rimasta vedova, poté esercitare la tutela a condizione che non si risposasse.

Prerogativa del tutor impuberum era l’auctoritas; egli era legittimato ad intervenire nei negozi compiuti dal pupillo
infantia maior che non poteva compiere da solo (atti dispositivi e di assunzione di obbligazioni) apponendovi la sua
auctoritas.
Gli infantes invece non erano capaci di compiere alcun atto giuridicamente rilevante, con o senza auctoritas.
Il tutore era ammesso a gestire da solo il patrimonio pupillare, ma i suoi poteri diminuirono finché in età postclassica,
egli poteva alienare liberamente solo beni pupillari di scarsissimo valore.
Gli atti compiuti dal solo tutore nell’interesse dell’impubere avrebbe avuto effetti in capo allo stesso tutore che poi,
cessata la tutela, avrebbe compiuto gli appositi atti di trasferimento.
La tutela cessava, solitamente, al raggiungimento del pupillo dell’età pubere.

Finita la tutela il tutore poteva essere chiamato a rendere conto della sua gestione. Alle XII Tavole risaliva l’actio
rationibus retribuendi, in età preclassica al pupillo fu concessa l’actio tutelae, infamante.
Al tutore era concessa invece un’actio tutelae contraria contro il pupillo per il rimborso delle spese, non infamante.

17.1.2. I minori di 25 anni.


Con la crescita dell’economia e l’intensificarsi degli scambi e delle relazioni commerciali, col sorgere di complessi
rapporti giuridici, fu maggiore il pericolo legato alla possibilità che giovani adolescenti appena puberi potessero
validamente obbligarsi, alienare beni, liberare schiavi…
Intorno al 200 a.C. un legge istituì un’azione contro quanti negoziando con un minore di 25 anni pubere e sui iuris,
l’avessero raggirato, era infamante. Altre exceptio gli furono concesse per invalidare gli effetti del negozio.

Il pretore provvide anche all’istituzione della figura del curatore del minore adolescente (curator minoris) con il
compito di assisterlo nella gestione degli affari. Il consenso del curatore era una garanzia per i terzi perché al minore
sarebbe stato poi praticamente impossibile invocare la propria inesperienza e pretendere di vanificare gli effetti del
negozio compiuto.

17.2. Furiosi e prodigi.


La capacità di agire era negata in tutto o in parte ai furiosi, gli infermi di mente, ed ai prodigi, ritenuti incapaci di
amministrare i propri beni per inettitudine pratica (con tendenza allo sperpero). Ai primi era negata del tutto la capacità
di agire, agli altri solo parzialmente.
Per i prodigi, in seguito ad intervento del magistrato, l’interdictio comportava incapacità a compiere validamente atti
dispositivi e ad assumere obbligazioni.
Entrambi, se sui iuris, erano soggetti a cura, alla quale era chiamato l’agnatus proximus (cura legitima) curator
furiosi e prodigi. Eventualmente il magistrato provvedeva alla nomina (cura honoraria).
Il curator furiosi aveva anche compito riguardo alla persona oltre che al patrimonio, egli poteva anche alienare cose
appartenenti al furiosus.

17.3. Altri casi di incapacità di agire.

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Sordi, muti ed altri soggetti colpiti da certe malattie croniche invalidanti erano, per il diritto, di per sé capaci di agire ma
erano ovviamente impediti in pratica ad operare nel mondo del diritto ed a gestire autonomamente i propri affari. Il
magistrato, sollecitato dagli interessati, provvedeva dunque a nominare loro curatori speciali.

17.4. La tutela muliebre.


Le donne subirono gravi limitazioni anche alla capacità di agire, solo che per essa le disparità fra i sessi vennero
eliminate in età postclassica.
La donna pubere e sui iuris era soggetta alla tutela muliebre, che poteva essere legitima, testamentaria e dativa.
Il tutor mulieris, però, non gestiva il patrimonio della donna: i suoi compiti erano di assistenza, quindi praticamente di
controllo della gestione del patrimonio; la donna non avrebbe potuto compiere validamente, da sola, atti di disposizione
dei propri beni e assunzione di obbligazioni, per essi era necessario l’intervento del tutore che interponesse la propria
auctoritas.
Il pater familias nel testamento poteva lasciare alla figlia la facoltà di scegliersi il tutore, da età repubblicana questo
istituto comunque perse significato.
Augusto riconobbe alle donne con tre figli se ingenuae, con quattro se liberte, lo ius liberorum, esonerandole dalla
tutela e riconoscendo quindi loro la piena capacità di agire.
La tutela muliebre scomparve definitivamente in età postclassica.

18. Le persone giuridiche.


Capacità giuridica può essere riconosciuta, oltre che alle persone fisiche, anche ad entità diverse, le persone giuridiche.
Si distingue tra corporazioni, a base personale, e fondazioni, a base patrimoniale.
La corporazione è l’aggregazione di persone con propria organizzazione interna, cui possano far capo diritti e doveri
che non siano al contempo diritti e doveri delle persone fisiche che la compongono.
La corporazione rimane identica a sé stessa pure se alcuni o tutti dei suoi membri vengano meno, altri se ne aggiungano
o cambino.
Per fondazione si intende un complesso patrimoniale volto ad uno scopo (es opera pia), considerato esso stesso titolare
dei beni che lo compongono, e comunque delle situazioni giuridiche soggettive che a quel complesso patrimoniale si
collegano.

18.1. Le corporazioni.
Fenomeni di corporazioni furono riconosciuti dai Romani nel populus Romanus, nelle civatates e nei collegia.
Per populus Romanus si intendeva la collettività dei cittadini romani politicamente organizzati, tutto ciò che lo
riguardava era considerato appartenente alla sfera pubblica, quindi estranea al diritto privato.
La capacità giuridica di civitates e collegia invece fu anche di diritto privato.
Civitates fu un termine generale per designare municipia e colonie, agglomerati urbani fuori dalle città di Roma e con
autonomia amministrativa, erano composti dai cittadini romani (le colonie da Latini coloniarii).
I collegia erano associazioni di minore importanza. Potevano avere scopi di culto, ma anche corporazioni di artigiani e
commercianti, di congregazioni di povera gente col fine di provvedere ai riti funebri e al seppellimento dei propri
membri.
Le XII Tavole lasciavno agli associati la libertà di decidere uno statuto col solo limite che fosse conforme alle leggi.
Augusto sciolse i collegi esistenti che non fossero di antica e solida tradizione e stabilì la necessità dell’approvazione
preventiva del Senato o dell’imperatore.

A civitates e collegia si riconobbe capacità giuridica di diritto privato, potevano compiere compravendite, locazioni,
mutui, mancipationes, stipulationes; il pretore concesse loro di stare in giudizio tramite actores.
Civitates e collegia avrebbero potuto avere beni in proprietà e in possesso e ad essi avrebbero potuto fare capo debiti e
crediti.

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Capitolo V – LE COSE
19.1. Res corporales e res incorporales.
Per indicare le entità materiali i romani parlarono di res corporales, cui contrapposero le res incorporales, ovvero:
eredità, usufrutto, obbligazioni, servitù prediali. Erano cioè taluni diritti soggettivi.
Il diritto di proprietà, identificandosi col suo oggetto, era esso stesso considerato res corporalis.

19.2. Cose in commercio e cose fuori commercio.


Le prime potevano formare oggetto di proprietà privata, e cmq di rapporti giuridici patrimoniali, le altre no. Erano fuori
commercio le res divini iuris (res sacrae, res sanctae, res religiosae)
Ad esse si contrapponevano le res humani iuris pubbliche o private.
Le res publicae erano fuori commercio se destinate all’uso pubblico (strade, teatri etc), erano in commercio se si
trattava di beni dai quali il populus Romanus ricavava direttamente un reddito, un’utilità.

19.3. Res mancipi e res nec mancipi.


Erano dette res mancipi i fondi sul ruolo suolo italico, gli schiavi, gli animali e le servitù rustiche; tutte le altre erano
dette res nec mancipi.
Le prime erano le cose di maggior pregio nella società romana arcaica, e fu per ciò che per esse si richiese che il
trasferimento della proprietà avesse luogo col rito solenne della mancipatio.

19.4. Beni mobili e beni immobili.


Bene immobile è il suolo insieme a ciò che vi inerisce stabilmente; cose mobili sono gli animali e gli oggetti inanimati
trasportabili e comunque amovibili (anche gli schiavi).
Questa distinzione assunse importanza in età postclassica riguardo al passaggio della proprietà.

19.5. Cose fungibili e cose infungibili.


Le prime sono le cose che rilevano rispetto al peso, numero, misura. Sono cose per le quali è rappresentabile un
equivalente (tantundem) corrispondente per peso numero o misura.
Sono infungibili le cose che vengono in considerazione per se stesse, nella loro individualità.

19.7. Cose consumabili e in consumabili.


Sono consumabili le cose suscettibili di una sola utilizzazione e si consumano per il fatto stesso di usarle. Le altre,
invece, consentono un uso continuato.

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19.8. Cose divisibili e indivisibili.
19.9. Cose semplici, cose composte, cose collettive.
Erano considerate semplici le cose che costituivano un’unità naturale (es una pietra), composte le cose costituite da più
cose semplici congiunte tra loro artificialmente, le collettive erano cose semplici non congiunte e tuttavia considerate
unitariamente (un gregge).

19.10. I frutti.
Divenivano propriamente frutti una volta separati dalla cosa madre. Prima della separazione ne erano partes.
Come i frutti furono considerate le attività lavorative dei servi ed anche i frutti civili, cioè il corrispettivo che si ottiene
concedendo una cosa in godimento. Così anche il corrispettivo nel caso della locazione di una cosa.

20. I diritti reali.


Si dicono reali i diritti soggettivi su una cosa e, a carattere assoluto, opponibili quindi a tutti i membri della collettività
(erga omnes).
Il diritto di credito, di contro, è un diritto patrimoniale relativo tra due parti: creditore/i da una parte, debitore/i
dall’altra, gli uni e gli altri soggetti precisamente individuati, e per cui la parte debitrice è tenuta in favore dell’altra
all’adempimento di una prestazione.
Questa distinzione è ala base della classificazione dei negozi giuridici in negozi con effetti reali e negozi con effetti
obbligatori, e prende le mosse dalla fondamentale classificazione delle azioni in actiones in rem e actiones in personam.
Diritto reale per eccellenza è la proprietà privata. Ma sulla stessa cosa possono gravare, e coesistere, altri diritti reali:
diritti reali di godimento e diritti reali di garanzia.
I diritti reali erano tipici, erano quindi quelli man mano tutelati e riconosciuti, essendo sottratto all’autonomia negoziale
crearne di nuovi. Il loro numero fu sempre contenuto, per non nuocere alla libera circolazione dei beni.

20.1. La proprietà.
La proprietà è un diritto soggettivo di natura reale per cui al proprietario (che ne è titolare) si riconosce sulla cosa che ne
è oggetto una signoria generale.
Non è possibile elencare le facoltà in astratto spettanti al proprietario: rientrano tutte nell’idea del godimento e della
disponibilità pieni ed esclusivi della cosa.

Queste facoltà possono in concreto subire limitazioni di varia ampiezza. Quelle imposte dall’ordinamento giuridico
sono dette limitazioni legali. Ma sono pure possibili limitazioni volontarie ad opera del proprietario, per effetto della
costituzione, sulla cosa stessa, di diritti reali limitati (servitù, usufrutto…).
Una volta che questi diritti si siano estinti le facoltà di godimento del proprietario tornano ad espandersi sino a
riacquistare pienezza.

Il diritto di proprietà non si perde per il fatto in sé che non venga esercitato ma sussiste sin quando non si verifichi, e
sempre che non si verifichi, un fatto che ne determini l’estinzione.
Di norma il proprietario è anche possessore della cosa propria, ma può non esserlo e tuttavia restare proprietario. La
proprietà è un diritto imprescrittibile.

20.1.2. La proprietà e le proprietà del diritto romano.


L’idea di proprietà era inizialmente espressa con la semplice idea di appartenenza “questa cosa è mia”. Per significare
che si trattava di un diritto legittimamente acquistato e riconosciuto dal ius arcaico, si aggiungeva “ex iure Quiritium”.
In età repubblicana compare l’espressione “dominium ex iure Quiritium”. L’uso di proprietas e proprietarius comincia
da età classica.
La nuova terminologia non comportò però l’abbandono della vecchie, si continuò ad esprimere l’idea della proprietà in
termini di appartenenza.
Il dominium ex iure Quiritium era un istituto del ius civile, da esso riconosciuto e tutelato. Ma il diritto romano conobbe
altre situazioni giuridiche con regime e caratteri analoghi a quelli della proprietà civile, per le quali pertanto appare
corretto parlare pure di proprietà, ovvero la proprietà pretoria , la proprietà peregrina, la proprietà provinciale.

20.1.3. Il dominium ex iure Quiritium.


Era un’istituzione del ius civile in senso stretto, potevano esserne titolari solo i cittadini romani. Ne erano oggetto res
corporales, sia mancipi sia nec mancipi, sia mobili sia immobili.

20.1.3.2. La rappresentazione del dominium ex iure Quiritium come potere assoluto e illimitato.
Era un potere assoluto e illimitato, da cui l’idea della proprietà come ius utendi et abutendi re sua, cioè diritto di usare
ed abusare della cosa propria.
L’orientamento che emerge dalle fonti è che ci esercita un proprio diritto non lede nessuno.

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Fino al III sec d.C. la proprietà civile imobiliare era esente da tributi. Diocleziano, nel 292, le introdusse quando
vennero parificati i fondi italici e quelli provinciali.

20.1.3.4. I modi di acquisto.


Il dominium ex iure Quiritium si acquistava in virtù di taluni fatti o atti precisamente individuati.
Una prima classificazione è quella tra modi di acquisto iuris civilis e modi di acquisto iuris gentium. I primi, con effetti
riservati ai soli cives, erano: mancipatio, in iure cessio, usucapio. Gli altri, con effetti estesi ai peregrini.
Erano:occupazione, accessione, specificazione e traditio.

Distinzione tra modi di acquisto a titolo originario e a titolo derivativo. I primi prescindono da ogni relazione tra chi
acquista e il precedente proprietario. Possono avere ad oggetto una cosa di nessuno, ma possono anche avere ad oggetto
una cosa altrui. Rilevante è che l’acquisto abbia luogo indipendentemente da ogni relazione col precedente proprietario.
Sono invece derivativi quei modi in cui l’acquisto dipende dalla trasmissione che ne fa il titolare, la proprietà viene
acquistata così com’era presso colui che l’ha trasmessa.
Nessuno può infatti trasferire ad altri più di quanto egli stesso non abbia.
Ai modi di acquisto derivativi sono accostati quelli costitutivi, per cui taluno diventa titolare di un diritto soggettivo che
si costituisce ex novo, ma che ha tuttavia radice nel più ampio diritto del soggetto che lo costituisce (es costituzione
usufrutto).
Il dominio quiritario si acquistava a titolo originario per occupazione, accessione, specificazione; si acquistava a titolo
derivativo per mancipatio, in iure cessio, traditio, legato per vindicationem, adiudicatio.

Ai modi di acquisto a titolo particolare, cioè gli acquisti di uno o più beni individuati e determinati, si contrappongono i
modi di acquisto a titolo universale, quelli in cui l’acquisto di beni consegue all’acquisto di complessi patrimoniali dalle
componenti di per sé non necessariamente definite.

20.1.3.4.1. L’occupazione.
L’occupazione consisteva nella presa di possesso di cose che non appartenevano a nessuno (es animali allo stato
selvatico, cose sottratte al nemico in guerra…). Per occupazione poteva essere acquistato anche il dominio quiritario
sulle cose abbandonate (res derelictae), purché res nec mancipi. Delle res mancipi il proprietario manteneva il dominio
finché un eventuale occupante ne fosse divenuto egli stesso proprietario per usucapione.

20.1.3.4.2. L’accessione.
Con questo termine si fa riferimento ai fenomeni accomunati dalla circostanza che una cosa corporale subisce un
incremento, un completamento, un arricchimento per l’aggiunta di un’altra che non appartiene allo stesso proprietario.
La cosa che subisce l’incremento viene detta principale, l’altra, che si aggiunge, accessoria.
L’incremento si verifica a vantaggio del proprietario in quanto tale della cosa principale.

Un caso di accessione è quello dell’unione di cose di qualità diversa. L’unione si dice organica quando ha luogo per
compenetrazione di corpi così che la cosa accessoria diventa tutt’uno con la cosa principale.

La inaedificatio consiste nella costruzione di un edificio con materiale appartenente a persona diversa dal proprietario
del suolo.
Il proprietario del suolo diveniva automaticamente proprietario anche dell’edificio, ma non necessariamente dei
materiali con cui era stato costruito.

Se qualcuno costruiva su terreno proprio con materiali altrui, il proprietario del suolo lo diveniva anche dell’edificio, ma
i materiali di costruzione separatamente considerati avrebbero continuato ad appartenere a colui a cui già
appartenevano.
Per riaverli, però, avrebbe dovuto attendere che l’edificio venisse demolito. Demolizione che, cmq, non avrebbe potuto
pretendere.

Nell’ipotesi, invece, di costruzione con materiali propri su terreno altrui, il proprietario dei materiali manteneva la
proprietà quiescente su di essi solo se all’atto della costruzione fosse stato in buona fede.

20.1.3.4.3. La specificazione.
Era la trasformazione di una cosa altrui sino a farne altra cosa che, nel comune apprezzamento, appare nuova.
In età classica emerse la distinzione a seconda che la specificazione fosse o meno reversibile: se lo era il dominus
materiae ne avrebbe mantenuto la proprietà, altrimenti lo specificatore avrebbe acquistato la res nova.

20.1.3.4.4. La mancipatio e la in iure cessio.

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Esse avevano una struttura poco adatta per atti traslativi perché era solo chi acquistava ad avere un ruolo attivo. Una
volta emersa l’idea di proprietà come diritto soggettivo che prescinde dal possesso, si affermò anche il principio per cui
l’acquisto da parte del macinio accipiens o del cessionario di quel potere che fu detto dominium, fosse subordinato
all’esistenza dello stesso potere rispettivamente nel emancipante e nel cedente.
Questi negozi comportavano anche passaggio di possesso solo quando erano beni mobili, altrimenti era richieso che
l’alienante ne facesse anche traditio.

20.1.3.4.5. La traditio.
Era un negozio bilaterale che si compiva con la consegna di una cosa, poteva avere ad oggetto sia mobili sia immobili e
trasferiva comunque il possesso.
Riguardava soltanto le res corporales, le sole suscettibili di possesso.
Quando ne erano oggetto res nec mancipi la traditio trasferiva anche la proprietà.

La consegna materiale della cosa poteva mancare: bastava che il tradens facesse conseguire all’accipiens la
disponibilità della cosa. Traditio symbolica (es merci contenuto magazzino, chiavi), traditio longa manu (es fondo,
indicazione dei confini ad alienante e dichiarazione di volontà trasferimento), traditio brevi manu (quando acquirente
teneva già la cosa che l’alienante gli trasmetteva).
Non ogni consegna era traditio in senso proprio, ma solo quella per cui la persona che riceveva acquistava il possesso.

Per il passaggio del possesso occorreva la concorde volontà di tradens e accipiens di fare acquistare a quest’ultimo una
posizione indipendente in ordine ala cosa consegnata. Per il passaggio della proprietà si richiedeva, specificatamente, la
volontà delle parti di fargli acquistare il possesso uti dominus, cioè quale proprietario.

Per il trasferimento della proprietà occorreva una iusta causa traditionis, cioè la ragione per la quale si procedeva a
traditio e giustificava l’acquisto della proprietà.
Le iuste causae erano in numero definito: causa vendendi (venditore che consegnava a compratore la cosa venduta),
causa donandi (donante che consegnava al donatario la cosa donata), causa solvendi (debitore che adempiva
l’obbligazione di dare) etc.
È incerto se, ai fini dell’effetto traslativo, la iusta causa dovesse effettivamente sussistere o se bastava che le parti la
credessero esistente.
Certo è che, quando la proprietà passava nonostante mancasse una iusta causa effettiva, il tradens avrebbe potuto
pretendere la restituzione mediante condictio.

20.1.3.4.6. Il legato per vindicationem.


Era un atto mortis causa. Si trattava di una disposizione testamentaria con la quale il testatore attribuiva direttamente
una cosa propria a un terzo, detto legatario. Questi ne acquistava la proprietà una volta che il testamento fosse divenuto
efficace.

20.1.3.4.7. L’adiudicatio.
Era la pronunzia del giudice formulare che traeva fondamento da quella parte della formula pure detta adiudicatio, che
si trovava nei giudizi divisori e per il regolamento dei confini.
In virtù di essa il giudice assegnava a ciascuna delle parti (o una soltanto) una o più res tra quelle comuni oggetto della
divisione.
I comproprietari cessavano di essere tali e diventavano proprietari esclusivi di beni determinati.

20.1.3.4.8. La litis aestimatio.


L’eventuale condanna dal giudice formulare non poteva che essere espressa in denaro. Poteva accadere che il
possessore convenuto con la rivendica dal proprietario, offrendo di pagare la litis aestimatio (il valore della cosa
convenuta) ne mantenesse il possesso e, se questa era res nec mancipi ne diveniva anche proprietario ex iure Quiritium.

20.1.3.4.9. L’usucapione.
Trovava fondamento nelle XII Tavole e comportava l’acquisto del dominium ex iure Quiritium, ed era quindi riservata
ai cittadini romani.

Erano usucapibili le cose suscettibili di dominium ex iure Quiritium che fossero anche habiles, idonee cioè ad essere
usucapibili.
Non erano res habiles le res furtivae e le res vispossesae. Le cose rubate mantenevano la non usucabilità anche presso
eventuali terzi acquirenti in buona fede.

Non ogni possesso conduceva all’usucapione, ma solo quello di chi teneva la cosa come propria.

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L’usucapione, a norma delle XII Tavole, si compiva col decorso di due anni per gli immobili, di un anno per le altre
cose.
Con la morte del possessore il tempus usucapionis non subiva interruzioni perché l’erede subentrava nel possesso al
posto dell’ereditando e nella sua stessa posizione possessoria.
È di età classica avanzata il principio dell’accessio possessionis, per cui il compratore avrebbe potuto sommare il
proprio possesso a quello del dante causa.

Per l’usucapione si richiese presto il titulus o iusta causa, tale da giustificare l’acquisto della proprietà per effetto del
possesso continuato per il tempo stabilito.
Il titolo nella pratica più ricorrente era quello del pro emptore, cioè il compratore cui il venditore avesse trasmesso il
possesso della cosa venduta ma non la proprietà.
Erano iuste causae usucapionis pure il titolo pro legato e quello pro derelicto. Possedeva pro legato il legatario di un
legato per vindicationem cui la cosa fosse stata legata da un testatore non proprietario; pro derelicto l’inventore di una
res mancipi derelicta.

Verso la fine dell’età repubblicana, ai fini dell’usucapione, si richiese anche la buona fede, la convinzione cioè del
possessore di non recare ad altri, col proprio possesso, ingiusto pregiudizio. La buona fede doveva sussistere al tempo
dell’acquisto del possesso.

Con l’usucapio pro erede la persona che avesse preso possesso anche di una sola cosa ereditaria, purché appartenente
ad un’eredità giacente, trascorso un anno avrebbe acquistato l’eredità nel suo complesso pure in difetto di titolo ed
anche in mala fede.
Rispondeva all’esigenza che un’eredità non restasse a lungo deserta, in quanti in mancanza di eredi non vi sarebbe stato
nessuno che pagasse i creditori ereditari e provvedesse ai sacra.
In età preclassica furono limitati gli effetti di questa usucapio alle singole cose ereditarie possedute.

20.1.3.5. La difesa della proprietà quiritaria. La rei vindicatio.


La rei vindicatio era lo strumento di difesa del dominium ex iure Quiritium. Spettava al proprietario non possessore
contro possessore non proprietario e tendeva a far conseguire al proprietario il possesso.
Nel processo formulare si trattava di una formula con clausola restitutoria, o arbitraria.
Il giudice avrebbe dovuto verificare che la cosa appartenesse all’attore ex iure Quiritium, e avrebbe condannato il
contenuto se questi avesse rifiutato il suo invito a restituire. La condanna sarebbe stata commisurata al calore della cosa
al tempo della sentenza, solo che, a determinare il valore della cosa sarebbe stato lo stesso attore mediante giuramento.
L’onere della prova di essere proprietario spettava solo all’attore, e poteva essere particolarmente gravosa. Soccorreva
cmq l’usucapione, sarebbe quindi bastato che l’attore dimostrasse di aver posseduto la cosa in buona fede e con iusta
causa per il tempo necessario per usucapirla.

Poteva accadere che il convenuto possessore, prima della lite, avesse erogato sulla cosa delle spese. Il convenuto, se
possessore in buona fede, avrebbe potuto opporre l’exceptio doli chiedendo almeno che prima fosse rimborsato di
queste spese. Dovevano però essere spese necessarie, o utili.
Nessun rimborso era dovuto al possessore in mala fede.

Il convenuto, per essere assolto, avrebbe dovuto risarcire anche i frutti percepiti dopo la litis contestatio e risarcire gli
eventuali danni subiti dalla cosa per suo dolo o colpa.
Il possessore che avesse usucapito dopo la litis contestatio avrebbe dovuto ritrasferire all’attore la proprietà, compiendo
l’idoneo atto traslativo.

20.1.3.6. Le altre azioni e strumenti giudiziari a difesa della proprietà civile.


La rivendica non era l’unico mezzo a difesa della proprietà.

Le azioni negatorie spettavano al dominus ex iure Quiritium, contro quanti esercitassero illegittimamente sul bene
servitù o usufrutto.

L’actio aquae pluviae arcendae si dava al proprietario del fondo rustico contro il proprietario del fondo vicino nel caso
in cui questi o altri ne avessero alterato lo scorrere naturale delle acque piovane, con la conseguenza che queste
confluissero più copiose e oltre misura nel fondo dell’attore.

La cautio damni infecti era una stipulatio pretoria con la quale il proprietario di un fondo che temeva un danno dal
proprietario del fondo adiacente, si faceva promettere che, se il danno si fosse verificato, quest’ultimo lo avrebbe
risarcito.

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Contro il vicino che negava di prestare la cautio il pretore emetteva decreto di missio in possessionem, con la quale il
missus acquistava la detenzione ai fini di sorveglianza e prevenzione.

Quando sul fondo del vicino erano in corso opere di costruzione o demolizione che si ritenevano lesive di un proprio
diritto, l’interessato poteva ricorrere all’operis novi nuntiatio.
Es proprietario del fondo vicino gravato da servitù di non sopraelevare che inizi a costruire. Proprietario del fondo
dominante poteva intimare la sospensione dei lavori prima che fossero conclusi. Se l’avesse continuata il pretore
l’avrebbe costretto alla demolizione.

Con l’interdictum quod vi aut claum il proprietario del fondo avrebbe ottenuto la rimozione della costruzione che taluno
avesse realizzato vi (nonostante il suo divieto) o clam (senza chiedere autorizzazione) sul fondo dello stesso attore.

20.1.4. L’azione Publiciana.


Da età repubblicana fu data tutela a quanti, possessori di buona fede e cum iusta causa di una cosa suscettibile di essere
usucapita, ne avessero perduto il possesso prima del compimento dei termini; per il recupero del possesso gli si diede
un’azione in rem e con clausola arbitraria.
Il giudice avrebbe dovuto accertare se l’attore, prima di perdere il possesso, avesse posseduto la cosa cum iusta causa e
in buona fede, e in caso positivo fingere trascorso il termine dell’usucapione. Era quindi un’actio ficticia.

20.1.6. La proprietà pretoria.


Il possessore ad usucapionem godeva talora di una tutela relativa, prevalendo egli di fronte ai terzi, ma dovendo cedere
di fronte al proprietario civile; altre volte aveva tutela assoluta (nel caso di res mancipi tradita). Con riguardo a questi
casi di il diritto del proprietario civile fu qualificato nudus ius Quiritium e il possessore ad usucapionem teneva la cosa
in bonis qualificando dominium anche la sua posizione.

20.1.7. La proprietà provinciale.


Le terre dei paesi assoggettati dai Romani e organizzati in province furono generalmente lasciate nella disponibilità dei
privati che le tenevano già, ma gravati da imposta (tributum).
Il dominium delle stesse terre si ritenne quindi appartenere o al populus Romanus (province senatorie) o all’imperatore
(province imperiali), il potere dei privati era detto possessio.
Nella sostanza era però una proprietà in quanto i contenuti erano del tutto simili a quelli del dominium ex iure Quiritium
sui fondi italici.
I fondi provinciali erano qualificati res nec mancipi e quindi trasferibili mediante traditio e non si potevano acquistare
per usucapione.

20.1.8. La proprietà nel diritto postclassico e giustinianeo.


Si intorbida la concezione classica della proprietà, alla quale si tese ad assimilare superficie, enfiteusi e concessione di
fondi pubblici. Si fa meno netta anche la distinzione tra proprietà e possesso.
Con Giustiniano si torna invece alla concezione classica. Egli però soppresse la qualifica ex iure Quiritium avendo
assimilato la proprietà pretoria. Neanche si fece più differenza tra fondi italici e provinciali.

Circa i modi di acquisto sbiadì la distinzione tra negozi astratti di trasferimento e relative causae esterne, così che
vendita e donazione furono considerate sia cause che atti causali di trasferimento della proprietà.
Abolita la differenza tra res mancipi e res nec mancipi come negozio per il trasferimento della proprietà rimase la
traditio.

Constantino istituì una longissimi temporis praescriptio, quarantennale, opponibile, a prescindere da titolo e buona fede,
dal possessore di un immobile. Giustiniano dispose la fusione dell’usucapio e longi temporis praescriptio, riferendo la
prima ai soli beni mobili, l’altra ai beni immobili.
I termini si stabilirono in 3 anni per i mobili e 10 o 20 per gli immobili.

L’azione fondamentale a difesa del dominio rimase la rei vindicatio.

20.1.9. Il consortium ercto non cito.


Fu la prima manifestazione del fenomeno della comproprietà. Si costituiva automaticamente alla morte del pater
familias tra più heredes sui.
Ciascun consorte avrebbe potuto, senza il concorso degli altri, gestire e fruire delle cose comuni o alienarle. Vi era
l’idea della proprietà plurima integrale.
Il consortium scomparve in età repubblicana.

20.1.10. La communio di proprietà.

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La comunione di proprietà poteva essere volontaria o incidentale (es per legato per vindicationem).
Ciascun partecipante, socius, era titolare di una quota ideale del bene.
Ogni comproprietario poteva alienare la propria quota, ma nulla di più; partecipava alle spese e faceva suoi i frutti nella
misura corrispondente alla sua quota.

Ciascun proprietario poteva da solo operare nella gestione e fruizione della cosa comune, ma per innovazioni spettava a
ciascuno il diritto di veto.

Se un socius avesse rinunciato alla sua quota, questa si sarebbe accresciuta agli altri, a ciascuno in proporzione della
misura del suo diritto sulla cosa comune.

La manomissione del servo comune da parte di uno dei socii non lo rendeva libero ma dava luogo ad accrescimento in
favore degli altri. Era necessario perché acquistasse la libertà che tutti compissero l’atto di affracazione.

Il rimedio per la divisione dei beni comuni era l’actio communi dividendo. Se la cosa comune era indivisibile nella
formula vi era una condemnatio per procedere a conguagli in denaro.
Con Giustiniano questa azione si poté usare anche per ottener dai contitolari il dovuto in relazione alla gestione della
cosa comune.

20.2.Le servitù prediali.


Tra i diritti soggettivi di natura reale, diritti reali limitati su cosa altrui, vi erano diritti reali di godimento e, in
particolare, le servitù prediali.
Erano diritti soggettivi di natura reale, per cui il proprietario di un fondo può pretendere dal proprietario di un fondo
vicino un comportamento determinato di tolleranza o omissione.
Le servitù prediali riguardano solo beni immobili: fondi rustici e urbani.
Spettano al proprietario del fondo dominante, e ad essere obbligato è il proprietario di un fondo vicino, servente. Non è
alienabile separatamente dal fondo, e alienato uno dei due la servitù passa in capo, o a carico, del nuovo acquirente. I
due fondi devono appartenere a persone diverse.

La servitù deve essere utile al fondo dominante, non quindi utile in sé, al proprietario attuale, ma oggettivamente al
fondo. I due fondi, quindi, se non contigui devono essere almeno vicini.

La servitù non può consistere in un fare. Il proprietario del fondo servente potrà essere tenuto solo a pati (tollerare) o
non facere (non fare).

Le servitù si distinguono in positive o negative in relazione al lato attivo del rapporto. Positive sono le servitù per il cui
esercizio il proprietario del fondo dominante deve tenere un comportamento attivopati del proprietario servente.
Negative sono le servitù il cui esercizio non comporta alcuna attivitànon facere.

Non si pervenne mai nel diritto romano ad individuare una categoria unitaria di servitus, ma si riconobbero
gradualmente singole figure di servitù. Esse erano quindi tipiche.
Temperamento a questo principio era il modus servitutis, una precisazione eventuale delle modalità di esercizio della
servitù (es passaggio consentito solo in alcune ore).

Le servitù rustiche rientravano tra le res mancipi, quelle urbane tra le res nec mancipi.
Nel diritto giustinianeo anche usufrutto ed uso furono inserite tra le servitutes, dette servitù personali.

Le servitù si costituivano mediante negozi con effetti reali: con mancipatio le servitù rustiche, in iure cessio entrambe.
Altro modo di costituzione è il patio et stipulatio, un patto accompagnato da stipulatio con oggetto il contenuto di una
servitù.
Altro modo era l’exceptio servitutis. Aveva luogo quando il proprietario di due fondi, nell’alienarne uno mediante
mancipatio, d’accordo con l’acquirente costituiva tra essi servitù a carico del fondo che alienava.
Altro modo era l’adiudicatio, rientrando tra i poteri del giudice dei giudizi divisori stabilire servitù tra fondi che, con la
divisione, venivano assegnati a comproprietari diversi.
Le servitù non si costituivano mediante traditio, perché erano res incorporales, non suscettibili di possesso. Fu quindi
escluso per esse anche l’usucapione.

Le servitù si estinguevano: per confusione, rinunzia o remissio servitutis, non usus (mancato esercizio continuato per
due anni). Per le servitù negative si considerò non esercitata dal momento in cui il proprietario del fondo servente
avesse tenuto un comportamento incompatibile con l’esercizio della servitù (es avesse sopraelevato).

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A difesa delle servitù vi era la vindicatio servitutis, ogni volta adattata al tipo di servitù in questione, poi detta anche
actio confessoria.

20.3. L’usufrutto.
Altro diritto reale limitato di godimento su cosa altrui è l’usus fructus.
Era un diritto soggettivo reale di usare e percepire i frutti di una cosa altrui senza alterarne la destinazione economica.
Il titolare è detto usufruttuario, il proprietario della cosa gravata, nudo proprietario.

Fu riconosciuto come diritto autonomo per esigenze legate alla diffusione dei matrimoni sine manu, per conservare
intatto ai figli il patrimonio della famiglia e assicurare al contempo alla propria vedova un dignitoso sostentamento. Dal
II sec a.C. si diffuse la prassi di legare alla moglie l’usufrutto così che ne godesse in vita e la proprietà restasse ai figli
(istituiti eredi).

Oggetto dell’usufrutto potevano essere cose mobili e immobili, mancipi e nec mancipi, purché in consumabili e
fruttifere. Dovevano essere res corporales.

L’usufruttuario poteva usare la cosa e percepirne i frutti, i quali diventavano suoi dal momento dell’effettiva percezione.
L’usufruttuario poteva a sue spese curare la manutenzione ordinaria della cosa, e doveva, quindi, avere cura che la cosa
non perisse o si deteriorasse, né poteva mutare la destinazione quale era al momento della costituzione dell’usufrutto.

A garanzia dell’adempimento dei suoi obblighi all’usufruttuario si imponeva la prestazione della cautio fructuaria, una
stipulatio pretoria con la quale l’usufruttuario prometteva al nudo proprietario sia la restituzione del bene una volta
estinto l’usufrutto sia un uso della cosa con criteri di correttezza.

L’usufrutto aveva carattere personale, era quindi inalienabile e intrasmissibile agli eredi. L’usufruttuario poteva tuttavia
cederne l’esercizio. L’usufrutto aveva durata limitata nel tempo, essendo destinato ad estinguersi al più tardi con la
morte dell’usufruttuario.

Il primo modo di costituzione era il legato per vindicationem.


Si ammise presto, tuttavia, che potesse essere costituito anche diversamente: tramite in iure cessio, adiudicatio e
deductio (quando taluno, nell’alienare la cosa propria tratteneva l’usufrutto).
Altro modo era il pactio et stipulatio.
Non si costituiva invece tramite traditio perché era res incorporalis.

L’usufrutto si estingueva in ogni caso con la morte dell’usufruttuario. Alla morte era equiparata la capitis deminutio,
anche minima.
Poteva estinguersi anche prima della morte per: avveramento della condizione risolutiva o scadenza del termine finale
eventualmente contemplati; perimento della cosa; trasformazione della cosa sì da risultarne mutata la destinazione
economica, rinunzia, consolidazione e per non usus (1anno mobili, 2anni immobili).

A difesa dell’usufruttuario impedito nell’esercizio stava la vindicatio usus fructus.

20.4. Il quasi usufrutto.


Con riguardo al legato di usufrutto di tutti i beni del testatore un senatoconsulto stabilì che tutte le cose appartenenti al
patrimonio potevano essere oggetto di usufrutto, quindi anche beni consumabili.
Di esse il legatario avrebbe acquistato la proprietà, salvo obbligarsi per la restituzione dell’equivalente.

L’usus era un diritto reale di godimento su cose altrui. Il titolare, usuario, avrebbe avuto il diritto di usare direttamente e
personalmente la cosa, ma non di percepirne i frutti (es usuario di edificio poteva abitarci).
Diversamente dall’usufrutto, non era divisibile, ma per il resto erano uguali.

20.6. Il diritto di superficie.


Il proprietario del terreno era necessariamente anche il proprietario anche della superficie.
Egli però poteva locare o vendere la superficie. L’altro contraente avrebbe acquistato solo un diritto di credito al
godimento dell’edificio già esistente o da lui stesso costruito. Avevano quindi effetti obbligatori, il superficiario non
avrebbe acquistato né proprietà né altro diritto reale.
In età classica il pretore introdusse un’azione esperibile contro chiunque, concedente o terzo, che tenesse il godimento
della superficie al posto del superficiario.
Il superficiario era solitamente tenuto ad un corrispettivo periodico fisso, o canone, generalmente annuale, detto
solarium.

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20.7. Gli agri vectigales.
Erano le terre pubbliche che i censori prima e anche i municipia poi erano usi dare in concessione a privati; vectigal era
il canone periodi che erano tenuti a pagare i concessionari, detti possessores, i quali erano tutelati contro turbative e
spossessamenti.
Le concessioni potevano essere a termine e revocabili per mancato pagamento del canone.
A fine I sec a.C. il pretore concesse un’azione reale per il recupero del possesso. Si ammise che fosse trasmissibile e che
su di esso fosse possibile costituire diritti reali limitati a favore di terzi, e che il concessionario potesse esercitare talune
delle azioni spettanti al dominus.

20.8. L’enfiteusi.
Venute meno in età postclassica le concessioni di agri vectigales, si svilupparono altri tipi di concessioni di terre
pubbliche: ius perpetuum e ius emphiteutitcum, unificate nel V sec d.c. e chiamate enfiteusi.
L’enfiteuta era tenuto solitamente al miglioramento del fondo e cmq tenuto al pagamento di un canone annuo, avrebbe
potuto alienare il fondo ma avrebbe dovuto, a parità di condizioni, preferire il concedente (a cui cmq andava poi il 2%
del fondo).
L’enfiteusi si estingueva per mancato pagamento del canone o dell’imposta fondiaria per 3 anni, per alienazione del
fondo a terzi senza cura verso il concedente, per confusione.

20.9. Pegno e ipoteca.


Sono diritti reali di garanzia.

La datio pignoris, del III sec a.C., era il pegno manuale, la consegna cioè di una cosa al creditore in modo che la tenesse
finché il debito non fosse stato saldato; la proprietà restava però al debitore.

La conventio pignoris, II sec a.C., era una patto tra creditore e proprietario di una cosa, suo debitore, con cui, pur
restando la cosa presso il proprietario, si conveniva che il creditore ne avrebbe preso possesso in caso di
inadempimento, tenendola fino all’avvenuta estinzione del debito.

Il creditore pignoratizio acquistava il possesso della cosa.


Il pretore introdusse nel I sec a.C. l’interdictum Salvianum che si dava al creditore pignoratizio contro il conduttore di
fondi rustici che non avesse pagato la mercede ricevuta, ed era volto a prendere possesso dei suoi attrezzi di lavoro
convenuti in pegno.
Di quel periodo sono l’interdictum de migrando spettante al conduttore di immobili urbani contro il locatore che si
portava via cose ivi immesse.
Al creditore pignoratizio venne poi data l’actio Serviana, esperibile contro il possessore attuale della cosa, debitore o
terzo, diretta al conseguimento del possesso.

I giuristi configurarono il pegno come istituto unitario. In età classica, riguardo alla conventio pignoris venne però usato
il termine hypotheca.

Il pegno era validamente costituito da chi avesse la cosa in bonis, quindi sia proprietario quiritario che pretorio.

Il creditore pignoratizio una volta possessore della cosa, non ne avrebbe potuto godere, altrimenti avrebbe commesso
furtum usus. Il creditore tratteneva la cosa finché il debito non fosse estinto.

Da fine età repubblicana si riconobbero validi sia il patto commissorio, per cui il creditore avrebbe acquistato la
proprietà del bene dal debitore inadempiente, sia il patto x cui egli aveva facoltà di vendere la cosa e soddisfarsi col
ricavato, restituendo l’eccedente al debitore (ius vendendi).
Da fine età classica quest’ultimo si ritenne tacitamente stabilito per ogni pegno.
Se il creditore non trovava compratori, gli si riconobbe il diritto di acquistare la proprietà del pegno.

La conventio pignoris non comportava il passaggio immediato del possesso al creditore, la stessa cosa poteva essere
convenuta in pegno (ipotecata) a più creditori, x obbligazioni diverse.
Era considerato di rango maggiore, e aveva quindi ipoteca di primo grado, il creditore in favore del quale l’ipoteca fosse
stata convenuta prima (non necessariamente il credito più antico).

Il pegno si estingueva per effetto dell’adempimento, ma anche per perimento della cosa, per confusione, per vendita in
esecuzione del ius vendendi, fino a Costantino x vendita in virtù del patto commissorio, per rinunzia del creditore.

21. Il possesso. La genesi.

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Gli ager publicus erano lasciati all’occupazione o in concessione dietro corrispettivo. I concessionari erano detti
possessores, il loro potere sulle terre possessio.
In età arcaica il pretore cominciò a proteggere questi contro le molestie e spossessamenti, poi anche quanti avessero
l’usus ai fini dell’usucapione, poi anche i creditori pignoratizi, sequestratari e quanti tenessero come propria una cosa
mobile.

Era assicurata la difesa possessoria e attribuita la relativa qualifica a soggetti che avessero della cosa una posizione
indipendente, o cmq il controllo. Restavano esclusi coloni, inquilini e altri che la tenevano in virtù di contratto di
locazione, ma anche depositari, comodatari, usufruttuari e schiavi e filii familias. Questi ultimi soggetti erano detti
detentori.

21.1. Gli interdetti possessori.


I soggetti cui si riconobbe una possessio erano tutelati con interdicta. Gli interdetti posessori potevano esser volti alla
conservazione o al recupero del possesso.

Più antico era l’interdictum uti possidetis: riguardava gli immobili, tendeva a far cessare turbative e molestie, e doveva
essere esperito entro l’anno dal giorno in cui queste avessero avuto inizio.
Grazie ad una exceptio prevaleva dei due litiganti quello che possedeva la cosa in modo non violento, non clandestino,
non precario.
Quindi chi aveva acquistato il possesso con violenza, godeva sì della difesa possessoria, ma non nei confronti della
persona che aveva spossessato.

L’interdictum utrubi si applicava a schiavi, animali e altre cose mobili. Prevaleva quello dei due litiganti che avesse
posseduto la cosa per maggiore tempo durante l’ultimo anno.

L’interdictum unde vi riguardava i beni immobili, e si dava alla persona che avesse subito spoglio violento del possesso.
Anche qui era tutelato solo il possessor iustus.

L’interdictum de vi armata spettava alla vittima di uno spoglio violento contro la persona che l’avesse commesso
avvalendosi di una banda armata.

21.2. Possesso e proprietà.


Il possesso è uno stato di fatto, una situazione che prescinde dal corrispondente stato di diritto. Il possessore uti
dominus era protetto sia che fosse effettivamente proprietario della cosa sia che no.
Il dominus non possessore, per avere il possesso della cosa propria, avrebbe dovuto ricorrere alla rivendica. Se avesse
sottratto la cosa clandestinamente o cmq x autodifesa la cosa al possessore attuale.

21.3. Possessio ad usucapionem e possessio ad interdicta.


L’usucapione non riguardava tutti i possessori, ma solo quelli uti domini, che tenevano la cosa come propria, con
animus domini. Si parla quindi di possesso ad usucapionem, mentre per indicare l’altro effetto per cui si dava luogo a
tutela possessoria edittale si parla di possesso ad interdicta.
Essi rispondevano ad esigenze diverse: di garantire quanti si curano dei propri affari a preferenza di quanti li trascurano
il primo, di mantenimento dell’ordine sociale il secondo. Inoltre l’usucapione rispondeva all’opportunità di cancellare
dubbi circa la titolarità del dominium.
La possessio ad usucapionem era tutelata con actio Publiciana ed è detta nelle fonti possessio civilis.

21.4. Corpus possessionis e animus possidenti. Acquisto, conservazione e perdita del possesso.
La possibilità di disporre della cosa non poteva prescindere dall’intenzione di tenere la cosa per sé. I giuristi
individuarono nel possesso un corpus possessionis e un animus possidenti.
Il primo si riconobbe a quanti avessero un contatto materiale con la cosa ma soprattutto a quanti ne avessero il controllo.
L’animus possidendi non era inteso come animus domini, ma come intenzione di tenere la cosa per sé, nel proprio
interesse.
A questi concetti i Romani diedero importanza a proposito di acquisto, conservazione e perdita del possesso. Perché il
possesso di una res si acquistava dal momento in cui taluno, con animus possidendi, aveva possibilità di disporne e si
conservava finchè tale possibilità perdurava senza smettere l’animus.

Il senso è che chi ha iniziato a tenere una cosa in forza di un titolo, di una causa, non può pretendere di possederla ad un
altro titolo per avere mutato da sé il proprio animus (es detentore che vuole diventare possessore).

21.5. L’oggetto del possesso.

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Il possesso di una cosa composta non comportava possesso anche delle singole partes che la componevano, così che il
possessore dell’intero non le avrebbe usucapite.
Il possesso riguardava le res corporales. Da qui la negazione che fosse concepibile il possesso di usufrutto e servitù.
Il diritto di proprietà non fu concepito come ius: si identificava con la cosa che ne era oggetto; pertanto chi teneva la
cosa come propria possedeva direttamente la cosa stessa.

Quanti esercitavano usufrutto e servitù non furono ritenuti possessori: non possedevano la cosa perché il possesso
restava al nudo proprietario e al proprietà del fondo servente.
Il pretore intervenne in età classica concedendo a quanti, titolari e non, esercitavano usufrutto su immobili, gli interdetti
uti possidetis e unde vi che, per la mancanza di possesso, non potevano competere loro in via diretta; e tutelò con
speciali interdicta coloro che esercitavano talune servitù.
Si parlò quindi di “quasi possesso”.

Capitolo VI – LE OBBLIGAZIONI
22. Il concetto di obligatio.
Per obbligazione si intende un vincolo giuridico per cui un soggetto, detto debitore, è tenuto a un determinato
comportamento nei confronti di altro soggetto, detto creditore.
Il comportamento cui è tenuto il debitore è la prestazione; il dovere giuridico del debitore è il debito, il corrispondente
diritto soggettivo del creditore, il credito.
Caratteristica dell’obbligazione è che si tratta sempre di persone determinate.
L’azione che si dà all’occorrenza al creditore/i contro il debitore/i sarà pertanto un’actio in personam.
La prestazione del debitore consiste in un comportamento determinato, che spesso è un comportamento positivo. La
realizzazione del credito esige in ogni caso la collaborazione del debitore.
Se l’inadempimento è imputabile al debitore, egli incorre in responsabilità, cioè la posizione di chi deve render conto,
ed è perciò esposto al rischio di subire una sanzione.

23.Genesi e storia dell’obligatio.


L’unico tipo di reazione pensato e ammesso agli inizi contro taluni comportamenti ritenuti lesivi dei principi che
reggevano la comunità, e come tali illeciti, imputabili ad estranei al gruppo familiare, fu la vendetta. La pena era
corporale, nei casi più gravi la morte. Ad infliggere la pena era il pater familias offeso.
L’offeso poteva rinunziare alla vendetta se gli era offerto il pagamento di una compensazione pecuniaria. Da un certo
momento si stabilì che l’offeso non poteva rinunziare a tale compensazione.
Era pertanto un riscatto.

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Il nexum è un atto cui si ricorreva (con 5testimoni e un libripens con bilancia) in relazione a prestiti di denaro, o cmq di
metallo usato come merce di scambio.
Con il nexum il debitore, divenuto nexus, pur restando persona libera, non serva, era subito assoggettato al creditore, il
quale lo teneva presso di sé, esercitava su di lui coercizione e lo utilizzava per attività lavorative; ciò sin quando il
nexus non avesse con il suo lavoro scontato il debito.
Il nexum fu abolito dalla lex Poetelia Papiria, del 326 a.C.

Praedes e vades erano le figure più antiche di garanti.


Ai praedes si ricorreva nella legis actio sacramenti in rem, per garantire che la parte cui il pretore avesse assegnato
provvisoriamente il possesso della cosa controversa la restituisse all’avversario in caso di soccombenza.
Ai vades si faceva ricorso sempre nelle legis actiones, x garantire la ricomparsa in giudizio della parte convenuta
quando l’udienza era rinviata ad altro giorno.
Le formalità per l’assunzione della garanzia erano in entrambi i casi verbali, secondo lo schema di domanda e congrua
risposta. Ma non era da loro che il creditore attendeva il comportamento idoneo ma dall’avversario.

Il negozio più antico da cui deriva l’obligatio è la sponsio, a cui partecipavano interrogante e promettente: questi restava
vincolato alla promessa, e quindi ad una prestazione futura, ed era egli stesso responsabile in caso di mancato
adempimento.

La stessa struttura del rapporto che nasceva dalla sponsio si andò estendendo ad altri rapporti da atto lecito. Si parlò di
obligatio.
Il fenomeno interessò poi gli atti illeciti, da cui la pena pecuniaria come riscatto x liberare l’offensore
dall’assoggettamento fu configurato come il contenuto di una prestazione cui era tenuto l’autore dell’illecito in favore
della vittima.
Quanto alla responsabilità, agli inizi, quando l’esecuzione per debiti si effettuava per mezzo della legis actio per manus
iniectionem, il responsabile era esposto al rischio dell’assoggettamento personale al potere del creditore. Venute meno
le legis actiones, l’esecuzione personale rimase, e con essa il rischio dell’addictio del debitore.
Per intervento del pretore, in alternativa all’esecuzione personale, il creditore avrebbe potuto procedere a esecuzione
patrimoniale.
Con l’andare del tempo, riconosciuti altri tipi di esecuzione patrimoniale meno gravosi per il debitore, all’esecuzione
personale si dovette fare ricorso solo contro debitori del tutto privi di mezzi.

24. Obbligazioni civili e onorarie.


Per indicare il vincolo giuridico che nasceva dalla sponsio si parlò di oportere.
A differenza che per i diritti reali, pertanto, il punto di vista considerato, ed espresso nei relativi formulari, non fu quello
dell’attore che affermava per sé un proprio diritto ma quello del convenuto-debitore gravato da un obbligo nei confronti
dell’avversario-creditore.
L’oportere delle azioni in personam denotava cmq l’esistenza di un vincolo di ius civile.
Da età preclassica il pretore andò concedendo actiones in factum e nelle relative formule erano descritte circostanze di
fatto: non v’era una intentio che esprimesse un oportere a carico del convenuto. Le azioni in factum si contrapposero
alle altre dette in ius.
La qualifica di obligatio fu inizialmente riservata ai rapporti sottostanti queste ultime. Per i rapporti di diritto onorario si
disse semplicemente che la parte obbligata era tenuta in virtù di un’azione.

25. Le obbligazioni naturali.


Ad ogni obligatio corrispondeva un’actio in personam. Ma i classici parlarono di obligationes pure con riferimento a
rapporti non sanzionati da azioni: li qualificarono obligationes naturales intendendo in tal modo significare che si
trattava di obbligazioni tali più in punto di fatto che in punto di diritto.
Sicchè le obbligazioni vere e proprie, contrapposte a quelle naturali, furono dette civili, in quanto sanzionate da
actiones.
L’effetto primo dell’obbligazione naturale era la soluti retentio per cui il creditore avrebbe potuto trattenere quanto
adempiuto spontaneamente. Inoltre poteva essere oggetto di novazione, potevano per essa essere costituite garanzie
reali e personali.
Nel Digesto si parla anche di obligationes naturales in relazione a situazioni nelle quali, pur mancando un qualsiasi
negozio di per sé idoneo a produrre obbligazioni, si ritenne di dover ravvisare l’esistenza di doveri morali degni di
essere presi in considerazione dall’ordinamento giuridico.

26. I possibili contenuti della prestazione.


I possibili contenuti della prestazione erano: dare, facere, praestare.
Dare nel senso di trasferire la proprietà (e il possesso) o costituire altro diritto reale.

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Facere comprendeva ogni comportamento diverso da dare, poteva essere un’attività materiale o il compimento di un
negozio giuridico: vi rientrava anche il non facere.
Non è chiaro il significato di praestare: nelle fonti talvolta è usato per ogni possibile prestazione.

27. I requisiti della prestazione.


La prestazione doveva essere suscettibile di essere valutata in denaro, doveva quindi avere carattere patrimoniale. Per
l’affermarsi di questo principio dovette essere fondamentale l’impiego del processo formulare nel quale la condanna
poteva essere espressa solo in denaro.

L’ostacolo poteva essere aggirato col ricorso a una stipulazione penale, una stipulatio con la quale una parte prometteva
all’altra di pagare una certa somma di denaro, per l’eventualità che la prestazione non venisse effettuata come e quando
convenuto. In questo modo si aggirava il principio per cui le prestazione doveva essere suscettibile di valutazione
pecuniaria.

Affinché nascesse obbligazione si richiedeva che il creditore ne avesse interesse. Da qui il divieto di contratti in favore
di terzi.

La prestazione doveva essere possibile. Era quindi nullo il negozio giuridico che ponesse a carico del debitore una
prestazione rivelatasi impossibile. La prestazione poteva essere impossibile materialmente o giuridicamente (es
trasferire proprietà di un uomo libero).
Era invece valido il negozio che facesse carico al debitore di trasferire la proprietà di cosa non sua.
Il principio per cui si negava valore ad un’obbligazione con prestazione impossibile, dunque, faceva riferimento
all’impossibilità assoluta, non relativa.

La prestazione doveva essere lecita, pena la nullità. Non era lecita la prestazione contraria al diritto oggettivo o al buon
costume.

La prestazione doveva essere determinata o determinabile. Poteva essere determinabile anche con rinvio a elementi
esterni rispetto al negozio che si compiva (es in compravendita parti convenivano che prezzo fosse uguale a quello a suo
tempo pagato dal venditore).
Era pure determinabile la prestazione la cui precisazione fosse affidata ad alcuna delle parti o a un terzo.

Il negozio era nullo qualora fosse strutturato in modo che la relativa obligatio nascesse, dal lato attivo e passivo,
direttamente in capo all’erede di una delle parti (es stipulatio x cui promettente promette di adempiere all’erede dello
stipulante).
I giuristi classici proposero accorgimenti che eludevano questo principio. Si fece ricorso alla figura dell’adstipulator e
si ritenne valida una stipulatio per la quale il promettente avrebbe adempiuto in punto di morte.

28. Le obbligazioni indivisibili.


La prestazione poteva essere suscettibile di essere divisa in parti omogenee o meno. Erano di regola divisibili le
obbligazioni di dare, sempre indivisibili quelle di fare.
L’obbligazione di dare sarebbe stata indivisibile non tanto qualora lo fosse stata la res, ma il diritto che era oggetto
della prestazione.

29. Le obbligazioni alternative.


Le obbligazioni alternative erano obbligazioni con due o più prestazioni, in cui il debitore era liberato con
l’adempimento di una. La scelta spettava di regola al debitore. Spettava al creditore se esplicitato nell’atto costitutivo
dell’obbligazione.

30. Le obbligazioni generiche.


La prestazione poteva avere ad oggetto sia cose individuabili per l’appartenenza ad una categoria, un genus
(obbligazioni generiche), sia cose determinate, individuate nella specie (obbligazioni specifiche).
Erano solitamente generiche quelle in cui la prestazione aveva ad oggetto cose fungibili. Era tuttavia necessario che
l’oggetto fosse indicato con ragionevole determinatezza.
Il genus dedotto nell’obbligazione poteva essere più o meno ampio.
Quanto alla res su cui esercitare la scelta, non vi furono dapprima limitazioni: il debitore, se il genus comprendeva cose
di varia qualità, poteva scegliere le peggiori, se spettava al creditore poteva scegliere le migliori. Settimio Severo
affermò il principio che le cose dovessero essere di qualità media.
Caratteristica delle obbligazioni generiche è che la prestazione non può divenire impossibile per perimento della cosa,
perché il genus non può perire.

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31. La (cosiddetta) responsabilità contrattuale.
L’inadempimento poteva dipendere da impossibilità sopravvenuta della prestazione.
Il debitore ne era responsabile se l’impossibilità fosse stata a lui imputabile.

Rispondeva dell’impossibilità sopravvenuta nelle obbligazioni di dare se conseguente ad un suo comportamento


positivo e cosciente (factum debitoris).

Il debitore in alcuni casi (in particolare se il debitore teneva la cosa a proprio vantaggio) rispondeva per custodia, un
criterio molto rigoroso, il debitore era liberato solo se la prestazione diveniva impossibile per caso fortuito o forza
maggiore, in dipendenza quindi di eventi che sfuggivano a ogni sua possibilità di controllo.

Il depositario rispondeva solo per dolo, perché era a vantaggio del deponente, non proprio, che egli teneva la cosa
depositata.
Per dolo si intese la volontarietà del comportamento, e insieme la volontarietà dell’evento dannoso da esso provocato.

Nell’ambito dei iudicia bonae fidei l’ampia discrezionalità attribuita al giudice nella formula consentiva di adeguare la
decisione alle circostanze del caso concreto.
Per altre ipotesi il grado di responsabilità del debitore fu limitato ora al dolo soltanto (es mandato) ora anche per colpa,
cioè un comportamento negligente e imprudente.
Culpa lata è la colpa grave nella quale incorre il debitore che non intende quel che tutti intendono e, quanto agli effetti,
è equiparata al dolo. Ad essa viene contrapposta la culpa levis che consiste nel non adoperare la diligentia propria
dell’uomo medio.
Culpa in concreto è quella di chi non cura le cose altrui come le proprie.

Ai criteri di imputazione dell’inadempimento si poteva, nelle obbligazioni da contratto, derogare con patto contrario.
Sarebbe stato in tal modo possibile estendere alla forza maggiore la responsabilità di ogni debitore, ovvero limitare al
dolo la responsabilità del comodatario.
Il rischio dipendente da un evento pregiudizievole per taluno e non imputabile a nessuno è detto periculum. Esso era
generalmente a carico del creditore, proprietario o meno della cosa perita.

Il fatto che il debitore cui fosse imputabile la impossibilità sopravvenuta della prestazione fosse ritenuto di ciò
responsabile comportava che, contro di lui, il creditore avrebbe potuto esercitare ancora l’azione propria del rapporto tra
le parti, la stessa esperibile se la prestazione fosse stata ancora possibile (perpetuatio obligationis).

32. La mora.
Il ritardo colpevole nell’adempimento della prestazione dava luogo a mora.
Il debitore cadeva in mora quando, consapevolmente e senza alcuna giustificazione, non adempiva il proprio debito.
Affinché fosse evidente, si invitava il debitore ad adempiere (interpellatio).
Essa si ritenne superflua in due casi: a) obbligazioni con termine iniziale previsto nel negozio costitutivo, b)
obbligazioni nascenti da furto.
Il debitore moroso era responsabile per l’impossibilità sopravvenuta della prestazione qualunque ne fosse stata la causa,
tranne nei iudicia bona fidei, nei quali si ammise che il debitore moroso fosse liberato se avesse provato che, eseguita
tempestivamente la prestazione, la cosa sarebbe perita ugualmente.
Altro principio è quello per cui il debitore moroso deve corrispondere al creditore anche i frutti della cosa dovuta dal
momento in cui sia caduto in mora: o, nel caso di debiti pecuniari, gli interessi.

Cadeva in mora (mora accipiendi) il creditore che rifiutasse la prestazione che il debitore gli offriva. Con la mora del
creditore il debitore, divenuta impossibile la prestazione, sarebbe stato in ogni caso responsabile per dolo soltanto.
La mora accipiendi cessava una volta che il creditore concretamente manifestasse disponibilità a ricevere la
prestazione.

33. Le fonti delle obbligazioni.


Le fonti delle obbligazioni sono quei fatti giuridici cui si riconosce l’efficacia di generare appunto obbligazioni.
Le fonti di obbligazioni nel diritto romano erano tipiche.
La classificazione + impo è quella per cui le obbligazioni si distinguono a seconda che derivino da contratto o da delitto.
Per contratti si intesero, dapprima, gli atti leciti con effetti obbligatori, e per delitti gli atti illeciti sanzionati da azioni
penali.
Contratti non sono tutti gli atti leciti obbligatori ma solo i negozi giuridici almeno bilaterali nei quali sia dato ravvisare
tra le parti un accordo volto a fare nascere l’obbligazione.
Gaio nel suo manuale istituzionale divise le fonti in contratti e delitti, ma poi nelle Res cottidianae propose una
tripartizione: contractus, delicata, variae causarum figurae. In quest’ultima categoria inserì gli atti leciti con effetti

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obbligatori non classificabili tra i contratti per difetto di accordo volto a far nascere l’obbligazione (es. tutela, legati,
solutio indebiti. Inoltre vi inserì certi illeciti pretori sanzionati da azioni penali, ma non così gravi da essere classificati
tra i delitti.
Nelle Istitutiones di Giustiniano si propone una quadripartizione delle fonti delle obbligazioni: contratti, delitti, quasi
contratti e quasi delitti.

34. I contratti.
Erano i negozi giuridici (almeno) bilaterali con effetti obbligatori.

I contratti erano tipici, tipiche essendo le fonti delle obbligazioni perché erano tipiche le azioni (in personam) che le
sanzionavano.
Correttivi potevano essere posti con l’aggiunta di patti o nelle azioni di buona fede.

I contratti del diritto romano avevano effetti soltanto obbligatori. Effetti reali si riconoscevano a negozi quali:
mancipatio, in iure cessio, traditio.

I contratti si distinguono in unilaterali e bilaterali, a seconda che da essi sorgano obbligazioni a carico di una sola parte
o di entrambe. Categoria intermedia è quella dei contratti bilaterali imperfetti, nei quali ad essere obbligata è in ogni
caso una sola parte, ma eventualmente può nascere obbligazione anche a carico dell’altra.
Altra fondamentale classificazione dei contratti è quella per cui si distingue tra contratti reali, verbali e consensuali.

Nei contratti consensuali il consenso, comunque manifestato, era elemento necessario (come in tutti i contratti) ma
anche sufficiente. Compravendita, locazione, società, mandato, tutti sanzionati da azioni di buona fede.

Nei contratti reali gli effetti obbligatori si producevano per effetto della consegna di una cosa e a partire da quel
momento. La consegna poteva essere una traditio come nel mutuo (proprietà) e nel pegno (possesso). Depositario e
comodatario, con la consegna, diventavano solo detentori.

Nei contratti verbali l’obbligazione nasceva per effetto della pronunzia di parole determinate. Nei contratti letterali
l’obbligazione nasceva con la materiale registrazione per iscritto di certe operazioni contabili.

34.1. Il mutuo.
Il mutuo è un contratto reale unilaterale, per cui una parte, detta mutuante, consegna all’altra, detta mutuatario, una
somma di denaro o altre cose fungibili con l’impegno del mutuatario di restituire al mutuante altrettanto dello stesso
genere.
Con la consegna, traditio, il mutuatario acquistava la proprietà, si trattava quindi di una datio.
Ne nasceva un’obbligazione soltanto a carico del mutuatario, che avrebbe dovuto restituire l’equivalente di quanto
ricevuto.
Per la restituzione il mutuante avrebbe agito con la condictio, l’azione per la restituzione del dato.
Essa, quando aveva ad oggetto una somma di denaro era detta actio certae creditae pecuniae; se l’oggetto era diverso,
actio certae rei.
Il mutuo era riconosciuto e tutelato anche nei confronti dei peregrini. Il debitore era così tenuto a restituire l’equivalente
di quanto ricevuto, nulla di più. Non era tenuto pertanto al pagamento di interessi, onde la gratuità del contratto.
Per gli interessi, se voluti, si faceva ricorso, contestualmente al mutuo, ad una distinta stipulatio.
Numerose leggi si preoccuparono di stabilire limiti massimi agli interessi. Si va dal fenus unciarum delle XII Tavole
pari ad 1/12 del capitale per ogni mese (100%annuo), a Giustiniano che lo ridusse al 6%annuo.

34.2. Il deposito.
Era un contratto reale bilaterale imperfetto. Una parte, il deponente, consegnava all’altra, depositario, una cosa mobile
con l’intesa che il depositario la custodisse gratuitamente e la restituisse al deponente a semplice richiesta.
Il depositario acquisiva la detenzione, non avrebbe potuto usarla, altrimenti avrebbe commesso furtum usus.
Il deponente era tenuto a rimborsare al depositario le eventuali spese che questi avesse erogato su quanto depositato, e a
risarcirgli i danni che la cosa gli avesse procurato.
Il contratto era per sua essenza gratuito.
Al deponente si diedero x la restituzione della cosa un’actio depositi in factum, e al depositario per eventuali spese e
danni, un’actio depositi contraria.

Al sequestro si faceva ricorso quando sull’appartenenza della cosa v’era controversia e le parti preferivano intanto
affidarla ad un terzo perché la custodisse, per poi consegnarla alla parte riconosciuta come proprietario.
L’azione contro il sequestratario era l’actio sequestrataria in factum.

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Talune fonti classiche qualificano deposito anche l’affidamento ad altri di denaro contante, gli interpreti lo denominano
deposito irregolare.

34.3. Il comodato.
Era un contratto reale e bilaterale imperfetto.
Il comodante consegnava all’altra parte, il comodatario, una cosa mobile con l’impegno di quest’ultima di restituire la
stessa cosa.
Il comodatario acquistava la detenzione e poteva usare la cosa, senza corrispondere alcun compenso.
Poiché il contratto era a vantaggio del comodatario, questi, perita o deteriorata la cosa, rispondeva per custodia.

34.4. Il (contratto di) pegno.


Pegno era il rapporto obbligatorio che, per effetto della datio pignoris, si istituiva tra chi dà la cosa in pegno,
oppignorante (solitamente il debitore), e il creditore che la riceve.
È un contratto bilaterale imperfetto.
Il creditore pignoratizio acquista sulla cosa la possessio ad interdicta, ma non può utilizzarla. Per perimento o
deterioramento risponde per custodia.
Anche al creditore pignoratizio era dovuto rimborso di eventuali spese necessarie e danni.
Il pretore promise un’actio pigneraticia in factum e in personam contro chi, avendo ricevuto una cosa in pegno a
garanzia di un credito, una volta estinto non l’avesse restituita.

34.5. La fiducia.
Il risultato pratico di deposito, comodato e pegno si conseguiva inizialmente col ricorso alla fiducia: una parte,
sfiduciante, trasferiva all’altra, fiduciario, la proprietà di una cosa (generalmente res mancipi) col patto che, verificate
certe condizioni, gliela avrebbe ritrasferita in proprietà.
La fiducia poteva essere cum creditore e cum amico.
Il fiduciante, poiché mancipatio e in iure cessio di immobili non comportavano anche il passaggio del possesso, avrebbe
potuto nella fiducia cum creditore, trattenere il possesso e avrebbe riacquistato la proprietà tramite usureceptio.
Al fiduciante non possessore doveva dapprima bastare, ai fini della restituzione, fare affidamento sul vincolo che
nasceva dalla fides.
Col processo formulare al sfiduciante si diede un’actio fiduciae per il riacquito di proprietà e possesso. L’azione era
reipersecutoria e infamante.
Pure riguardo alla fiducia, come per il pegno, si diffuse la prassi per cui al creditore fiduciario si attribuiva il ius
vendendi.
Questo negozio dovette andare gradualmente decadendo, fino a scomparire in età postclassica.

34.6. I contratti verbali. La stipulatio.


La sua struttura era fatta di domanda e congrua risposta.
Era applicabile in moltissimi casi, pur essendo un contratto tipico, la sua tipicità atteneva alla forma e non ai contenuti.
Il consenso doveva essere espresso verbis e il promettente assumeva l’impegno di compiere la prestazione indicata
dall’interrogante (spondes? Spondeo.).
Dapprima la stipulatio doveva produrre i suoi effetti obbligatori sol che le formalità orali fossero state compiute; ma,
relativamente presto, si affermò il principio della nullità (anche) della stipulatio cui facesse difetto il consenso.
Il prototipo della stipulatio fu la sponsio. Essa era di ius civile ma era di ius gentium quanto alla fruibilità.

I soggetti della stipulatio erano interrogante e promettente.


L’interrogazione poteva esser formulata in modo che l’altro promettesse di adempiere o allo stipulante o ad un terzo
(adiectus). Questo non era creditore, non avrebbe pertanto avuto azione contro il debitore inadempiente, ma il debitore
avrebbe potuto adempiere indifferentemente ad uno dei due.

L’adstipulator era invece un secondo stipulante che, avendone avuto incarico dal primo, vi si affiancava rivolgendo
pure lui al promissor invito a compiere in suo favore la stessa prestazione promessa all’altro. Per il fenomeno della
solidarietà il promittente era liberato con una prestazione soltanto.

Al promettente potevano affiancarsi uno o più adpromissores, che promettevano di prestare quanto già promesso allo
stipulante da altro promettente. Aveva funzioni di garanzia.

L’azione dello stipulante contro il debitore inadempiente era l’actio ex stipulatu. Nel processo formulare aveva formule
diverse a seconda che la stipulatio fosse di dare o di facere.

Le formalità della stipulatio erano verbali ma, sin dall’ultima età repubblicana, si usò attestarne il compimento in
documenti scritti: questi avevano valore solo probatorio.

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Solo in età postclassica si finì per riconoscere efficacia al documento in sé, purché vi si dichiarasse che le formalità
erano state adempiute.
Nel 472 Leone dispose che la stipulatio potesse compiersi con l’impiego di parole qualsiasi.
Giustiniano stabilì che i verba della stipulatio, in presenza del relativo documento che ne attestasse la pronunzia,
dovessero presumersi pronunziati, salvo prova contraria.

34.7. I contratti letterali.


Nei contratti letterali l’obbligazione nasceva litteris, per il fatto in sé della scriptura, che presupponeva però il consenso
manifestato tra le parti.
Fino a tutta l’età classica l’unico contratto del genere fu il nomen transscripticium, un’operazione contabile del pater
familias.

34.8. La compravendita.
In età arcaica la sua funzione si realizzava mediante mancipatio, con lo scambio immediato della cosa contro prezzo.
Dal III sec a.C. per la stessa funzione si riconobbe validità, ma con effetti solo obbligatori, al mero consenso.
La compravendita, nel diritto romano può essere definita come un contratto consensuale in cui una parte, il venditore, si
obbliga a fare conseguire all’altra, il compratore, il pacifico godimento di una cosa (merx), e dal canto suo il compratore
si obbliga a pagare al venditore un corrispettivo in denaro (pretium) nella misura convenuta.
Era fruibile da cittadini e peregrini, era sanzionato da azioni in ius di buona fede.

Il consenso doveva essere manifestato, non importa come. Fu solo per esigenze probatorie che si usò redigere per
iscritto un documento (instrumentum).
Da età postclassica, in relazione alla vendita di immobili, esso fu ritenuto necessario.
Non era raro il ricorso ad una caparra (arrha) col valore di conferma del consenso prestato.

L’oggetto della vendita era detto merx, più spesso si trattava di cose corporali, ma la vendita poteva avere ad oggetto
anche eredità, superficie, servitù, usufrutto, crediti etc.
Era ammessa anche la vendita di cose future.

Il prezzo doveva essere espresso in denaro, solo in questo modo sarebbe stato possibile distinguere quale delle due
prestazioni fosse il prezzo e quale la merce, e pertanto chi fosse il compratore e chi il venditore. Distinguerlo era
necessario perché diverse erano le azioni che spettavano all’uno e all’altro.
La misura del prezzo era quella liberamente concordata tra le parti. Che il prezzo dovesse corrispondere al valore della
cosa venduta è principio estraneo al diritto classico.

Il compratore era tenuto a pagare il prezzo, e quindi a fare traditio delle monete sì da farne conseguire la proprietà al
venditore.
Contro il compratore inadempiente il venditore avrebbe esercitato l’actio venditi, di buona fede.

Il venditore era tenuto, anzitutto, a fare conseguire al compratore il pacifico godimento della merx.
Contro di lui il compratore aveva l’actio empti, di buona fede.
Se la merce non consegnata contestualmente alla vendita periva, il venditore rispondeva per custodia; ma il rischio era a
carico del compratore, poiché avrebbe dovuto cmq pagare il prezzo.

Il venditore che aveva venduto cosa non propria non era di per sé responsabile, purché avessa fatto conseguire al
compratore il pacifico godimento della cosa venduta. Una responsabilità del venditore poteva sorgere se il compratore
subiva evizione, cioè il fatto del terzo che rivendicasse con successo, presso il compratore, la cosa venduta.
La prassi frequente era che il venditore di res mancipi, pur non avendone l’obbligo, ne facesse mancipatio.
Ecco che il venditore mancipante, allora, incorreva in responsabilità già per il fatto della minacciata evizione, perché era
tenuto a prestare auctoritas (assistere il compratore) nel giudizio di rivendica promosso dal terzo.
Contro il mancipante che non avesse evitato l’evizione, si dava al compratore l’actio auctoritatis, per il doppio del
prezzo.
In età classica, in assenza di mancipatio, divenne prassi che il venditore prestasse la stipulatio duplae. Il venditore, per
l’evizion e subita dal compratore, poteva essere chiamato direttamente a rispondere con l’actio empti.

Anche in ordine ai vizi occulti il punto di partenza è che la responsabilità del venditore non discendeva di per sé dal
contratto di vendita.
Il venditore che, comer era uso, avesse promesso con stipulatio che la cosa venduta possedesse certe qualità, o era
esente da certi vizi, sarebbe stato convenibile dal compratore (stipulante) con l’actio ex stipulatu una volta verificata
l’assenza delle qualità promesse o la presenza di vizi.

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Il regime di vendita poteva essere integrato o derogato mediante patti aggiunti.
I più frequenti erano il patto commissorio, l’in diem addictio, il pactum dispicentiae. I primi due a favore del venditore,
l’ultimo del compratore.
Erano patti risolutivi sospensivamente condizionati, la vendita era dunque soggetta a condizione risolutiva. Al
verificarsi di una certa condizione, la vendita doveva considerarsi come non avvenuta.
Nel patto commissorio la condizione era che il compratore non pagasse il prezzo entro il termine convenuto; nell’in
diem addictio, che il venditore entro un certo termine ricevesse una migliore offerta, nel pactum displicentiae, che nel
termine convenuto il compratore dichiarasse di non aver trovato la cosa di suo gradimento.

34.9. La locazione.
La locazione era un contratto consensuale bilaterale, con l’esplicita previsione di un corrispettivo, mercede; una parte, il
locatore, si impegna a mettere a disposizione dell’altra, per un periodo di tempo limitato e con uno scopo preciso, una
cosa, mobile o immobile, e l’altra parte, il conduttore, si impegna a prenderla in consegna, per poi restituirla una volta
scaduto il termine convenuto o raggiunto lo scopo previsto.
Le obbligazioni reciproche delle parti erano sanzionate dalle actiones locati (favore del locatore) e conducti
(conduttore).

La locatio rei poteva avere ad oggetto cose mobili o immobili: il conduttore di immobili urbani era detto inquilinus, di
fondi rustici colonus.
Il conduttore acquistava la detenzione, ed era responsabile per custodia. Per il mancato godimento della cosa dipendente
da caso fortuito o forza maggiore il locatore non era responsabile, ma il conduttore sarebbe stato liberato dall’obbligo di
pagare la mercede.

Pure la locatio operis poteva avere ad oggetto cose mobili o cose immobili. Il locatore si impegnava a consegnare una
cosa, il conduttore a esercitare autonomamente ma nell’interesse del locatore una certa attività relativamente alla stessa
cosa, così da raggiungere il risultato convenuto, per poi restituirla al locatore.
Nella locatio operis si fanno rientrare anche fattispecie in cui il conduttore assumeva l’impegno di trasformare la res
che gli sarebbe stata consegnata, all’occorrenza impiegando materiali propri.
La mercede in questo caso era dovuta dal locatore.

Con la locatio operarum un uomo libero assumeva l’impegno di mettere la propria attività lavorativa (operae) alle
dipendenze di un’altra persona, la quale si obbligava a pagare, come corrispettivo, una certa mercede.
Il datore di lavoro avrebbe dovuto pagare la mercede anche se il lavoratore non avesse prestato le opere per cause a lui
non imputabili.
Tra le attività lavorative prestate nell’interesse di terzi erano considerate degne di uomini liberi solo le cosiddette artes
liberales, tra cui gli avvocati che, però, non erano in posizione di subordinazione e si esercitavano gratuitamente.

34.10. La società.
Era un contratto consensuale bilaterale, eventualmente plurilaterale, per cui due o più persone, i socii, convenivano di
mettere in comune beni e attività di lavoro al fine di conseguire un lucro per tutti previa divisione di profitti e perdite.
Spesso si conveniva di mettere in comune e di svolgere nell’interesse di tutti determinate attività, commerciali o
industriali; né era escluso che un socio assumesse impegni solo in ordine a beni, un altro solo all’opera utile al
conseguimento dei fini sociali.
Le parti si obbligavano in virtù del semplice consenso cmq manifestato, ma era altresì necessaria la perseveranza nel
consenso. La società si scioglieva anche x il dissenso di uno solo.
Si scioglieva altresì per esaurimento dello scopo, per l’impossibilità sopravvenuto di raggiungerlo, per morte e capitis
deminutio anche di un solo dei soci.
Profitti e perdite andavano divisi in parti uguali se nulla era convenuto in proposito. Era valido un patto per cui un socio
partecipasse solo agli utili, era nullo se un socio partecipava solo alle perdite.
La società consensuale romana non dava luogo alla costituzione di un patrimonio autonomo distinto da quello personale
dei singoli soci, né la societas assumeva rilevanza esterna, verso i terzi.
Per limitare la responsabilità verso i terzi nell’esercizio di un’attività comune,si ricorreva all’espediente di svolgerla x
mezzo di schiavi. La responsabilità sarebbe quindi stata limitata al valore del peculio.

34.11. Il mandato.
È un contratto bilaterale imperfetto per il quale una parte conferisce un incarico all’altra, che si impegna ad eseguirlo.
Le parti sono dette mandante e mandatario. Per diritto romano a quest’ultimo non era dovuto alcun compenso. Il
mandato poteva essere nell’interesse del solo mandante (mandatum mea gratia) o nell’interesse anche di terzi
(mandatum alieni gratia), mentre fu vietato in linea di principio il mandato nell’interesse del mandatario (mandatum
tua gratia), qualificato cm suggerimento.
Contro il mandatario il mandante aveva l’actio mandati directa, e viceversa l’altro l’actio mandati contraria.

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Il mandatario aveva l’obbligo di eseguire fedelmente l’incarico e trasferire al mandante beni, diritti e crediti acquistati
in relazione al mandato espletato.
Sul mandante gravava l’obbligo di rimborsare al mandatario le spese e risarcire i danni occorsi, e sollevarlo dai debiti
assunti.
Per l’inadempimento, o anche per la cattiva esecuzione del mandato, il mandatario rispondeva solitamente solo per
dolo.
Il mandato si estingueva per revoca del mandante, per rinunzia del mandatario e per morte di una delle parti, per
reciproco dissenso e una volta espletato l’incarico.

34.12. I contratti innominati.


Dalla prima età classica si andò riconoscendo valore obbligatorio a certe convenzioni atipiche, che non si trovavano
nell’Editto pretorio fra i contratti. Erano cmq negotia di affari, di convenzioni per cui ciascuna delle parti veniva
onerata di una dare o di un facere. Es: do ut des, do ut facias, facio ut des, facio ut facias.
Da età classica avanzata (II sec a.C.) in queste convenzioni atipiche, la parte che avesse fatto la prestazione avrebbe
potuto avanzare la pretesa alla controprestazione a mezzo di un’azione con intentio che esprimesse col verbo oportere
l’obbligo alla controprestazione del convenuto.
L’azione fu detta praescriptis verbis.
Le convenzioni in tal modo protette divennero vere e proprie fonti di obligationes, e le stesse convenzioni potevano
essere qualificate contractus.
Con Giustiniano, nell’actio praescriptis verbis fu esteso il regime dei giudizi di buona fede, e ne fu ampliato il campo di
applicazione a tal punto che essa divenne una sorta di actio generalis.

Ancor prima del ricorso a questa azione, la parte che avesse compiuto una datio avrebbe potuto esperire la condictio x
ripetere quanto prestato nel caso in cui la controprestazione fosse mancata (condictio causa data causa non secuta).

Il precario consisteva nella concessione di un bene che una parte, precario dans, faceva all’altra, precario accipiens,
perché ne godesse gratuitamente e lo restituisse a semplice richiesta.
In età postclassica si faceva fatica a distinguere tra precario e comodato.

35. I patti.
Erano convenzioni, accordi, in qualsiasi forma manifestati, che non rientravano nello schema di alcun contratto tipico.
Ad essi non si attribuì inizialmente alcun effetto, se non in caso di iniuria e furto.
In età repubblicana il pretore promise che avrebbe tutelato i patti concordati senza dolo dell’una o dell’altra parte, non
contrari a leggi, né in frode ad esse. Essi ebbero però efficacia limitata, mediante l’exceptio pacti conventi. A differenza
dei contratti, cioè, non davano luogo ad obbligazioni, perché nn avrebbero potuto promuovere il giudizio.

In materia di giudizi di buona fede, tuttavia tale exceptio era superflua.


In merito ai patti aggiunti a contratti dai quali derivavano azioni di buona fede si fece distinzione tra pacta adiecta in
continenti ed ex intervallo. Per l’attuazione dei primi poteva essere proposta azione propria del contratto cui il patto
ineriva.

Giustiniano diede diretta efficacia obbligatoria al patto (extragiudiziario) con cui due parti convenivano di rimettere
all’arbitrato di un terzo scelto di comune accordo la decisione di una controversia tra loro.
Ciascuna parte prometteva all’altra una pena pecuniaria se la parte promettente non si fosse poi adeguata alla pronunzia
dell’arbitro. Si parlò di compromissum.

Compilatori giustinianei estendono l’efficacia obbligatoria dei patti aggiunti contestualmente (in continenti) ai contratti,
anche se non di buona fede.
Ogni accordo, purché lecito, avrebbe potuto essere detto contratto e avere effetti obbligatori.

36. Gli atti leciti non contrattuali.


Erano compresi nelle variae causarum figurae di Gaio e poi nelle obbligazioni quasi contratto di Giustiniano.

36.1. La negotiorum gestio.


La gestione di affari altrui senza mandato, intrapresa con la convinzione che si trattasse di affari altrui e iniziata
utilmente, non rilevando se poi l’esito della gestione fosse stato utile o meno per il gerito.
Sul gestore gravava l’obbligo di portare a termine l’affare intrapreso e di trasferire al gerito beni e diritti che ne avesse
ricavato.
Sul gerito gravava l’obbligo di assumere su di sé le obbligazioni che l’altro avesse contratto in relazione alla gestione e
di rimborsargli le spese e i danni inerenti alla gestione stessa.

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36.3. I legati obbligatori e i fedecommessi.
I legati per damnationem e sinendi modo davano luogo ad obbligazioni tra erede e legatario.
Nei primi il testatore onerava l’erede di compiere una prestazione determinata in favore del legatario.
Nei secondi il testatore poneva a carico dell’erede un obbligo di non facere così da consentire al legatario di fare
alcunché.
Ai legati possono essere accostati i fedecommessi, disposizioni di ultima volontà in favore di terzi che il testatore
rimetteva per l’esecuzione alla fides dell’erede o del legatario.
Giustiniano equiparò legati e fedecommessi.

36.4. Il pagamento di indebito (solutio indebiti).


La solutio indebiti ricorreva ogni qual volta un soggetto eseguisse una datio, intesa come trasferimento di proprietà,
nell’erronea convinzione di esservi tenuto, e l’altra parte (accipiens) ricevesse la prestazione inconsapevole che non
fosse dovuta.
Trovava allora applicazione la condictio indebiti per la restituzione del dato, quanto ricevuto indebitamente.

37. I delitti.
Obligationes derivavano pure dai delicata, o maleficia, atti illeciti, comportamenti volontari riprovati dal diritto.
I delitti erano tipici; sono detti delitti i comportamenti che l’ordinamento riprovava, rientrano tutti tra gli atti illeciti
extracontrattuali.
L’obligatio che derivava specificatamente dai delicta era rappresentata dal vincolo giuridico che era riconosciuto
esistente tra offensore ed offeso per cui l’uno era tenuto verso l’altro al pagamento di una pena pecuniaria perseguibile
con un’azione penale nell’ambito del processo privato.
Le azioni penali riguardavano inizialmente solo fattispecie presenti nel ius civile, ma col processo formulare il pretore
usò concedere azioni penali in factum per fattispecie diverse e tuttavia tali che appariva equo comminare per esse una
sanzione.
Il criterio generale circa l’imputabilità del delitto al suo autore fu generalmente quello del dolo. Con riguardo al
damnum iniura datum si giunse a parlare di colpa e si imputò così il danneggiamento anche a chi l’avesse provocato per
negligenza e imprudenza.
A fronte dei delicta, o maleficia, civili e pretori, stavano i crimina: erano comportamenti più direttamente lesivi degli
interessi della comunità, e pertanto più gravemente riprovati.
Si assiste ad un graduale processo di attrazione di illeciti privati tra i crimina.
Il fenomeno si andò svolgendo parallelamente alla graduale depenalizzazione degli illeciti privati.

37.1. Il furto.
È la sottrazione illecita di cosa altrui.
Successivamente si qualificò furto ogni comportamento doloso che, non integrando gli estremi di altri delitti,
provocasse ad altri una perdita, o anche solo uno svantaggio relativamente ad una cosa, mobile od immobile.
Da fine età repubblicana la nozione subì un ridimensionamento: si ritenne cmq sufficiente il contatto fisico con la cosa
pur senza la materiale sottrazione (es. furtum usus).
Riguardo l’aspetto soggettivo doveva essere compiuto contro la volontà del proprietario della cosa o anche per
conseguire un lucro, o cmq di contractatio fraudulosa.

Distinzione tra furtum manifestum, furto commesso dal ladro preso sul fatto e furtum nec manifestum.

Secondo le XII Tavole il fur manifestus poteva essere fustigato ma, se preso di notte, anche ucciso.
Da prima età preclassica si sostituì l’actio furti manifesti, tramite la quale il derubato perseguiva il quadruplo del valore
della cosa rubata.
Per il furtum nec manifestum era stabilita una pena pecuniaria per il doppio del valore della cosa (actio furti nec
manifesti). Ad entrambe le azioni era legittimato non tanto il derubato, quanto chi avesse un interesse giuridicamente
apprezzabile che la cosa non venisse rubata.

Alla condictio ex causa furtiva era ammesso il proprietario della cosa rubata e rappresentava per lui una garanzia
maggiore.
Poiché se il ladro fosse stato onerato di debiti oltre il suo attivo patrimoniale, egli avrebbe potuto usare la rei vindicatio.
Ma se il ladro fosse stato persona solvibile la condictio sarebbe stata esperibile contro il ladro pure se non più
possessore o se la cosa fosse perita.

37.2. La rapina (bona ci rapta).


Nel 76 a.C. il pretore introdusse l’actio vi bonorum raptus. Azione volta a sanzionare la sottrazione di cosa altrui
commessa con violenza.
Entro l’anno la pena era al quadruplo del valore della cosa sottratta.

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37.3. Il danneggiamento (damnum iniura datum).
Per il danneggiamento si prende le mosse dalla lex Aquileia del III sec a.C.
Era articolata in tre capitoli: il primo riguardava l’uccisione iniura di schiavi e pecudes altrui; il secondo l’adstipulator
il quale, in frode allo stipulante, avesse estinto il credito mediante acceptilatio; il terzo si riferiva al ferimento si schiavi
e animali, alla distruzione o danneggiamento di cose inanimate.
A carico dell’autore del fatto illecito era prevista una poena, nella semplice stima del pregiudizio arrecato. Il pretore
estesa la tutela aquiliana anche ai non proprietari.
La legge Aquilia puniva il damnum iniuria datum, intendendosi per danno arrecato iniuria il danno ingiusto (contra
ius). Ma la giurisprudenza attribuì molto spetto a iniuria una valenza soggettiva.
Nel diritto della compilazione giustinianea, si diede un’actio in factum di carattere generale a copertura di ogni ipotesi
di danno cmq inerente a cose.

37.4. L’iniuria.
Le XII Tavole prevedevano pene diverse per determinate offese arrecate alla integrità fisica di altra persona: membrum
ruptum (lesione fisica con perdita definitva della funzionalità di un organo), os fractum, lesioni e violenze fisiche
minori.
Per il primo caso era prevista le legge del taglione, per gli altri pene pecuniarie.
Il pretore, intorno alla metà del II sec a.C. istituì, per la persecuzione degli atti dolosi e ingiusti di violenza fisica alle
persone, tutti qualificati iniuriae, l’actio iniuriarum aestimatoria. In seguito con essa furono punite pure le offese
morali.
L’actio iniuriarum era diffamante. La pena era pecuniaria, nella misura di volta in volta stabilita a seconda dell’offesa.
A giudicare erano i recuperatores.

38. Le obbligazioni quasi ex delicto.


Questa categoria deriva dagli illeciti pretori non dolosi che Gaio aveva messo tra le variae causarum figurae.
a)Iudex qui litem sua fecerit. Il caso del giudice che avesse giudicato malamente, più che altro per imperizia.
b)Effusum vel deiectum. Il pretore si preoccupò dei danni alle persone causati da oggetti lanciati, o cmq lasciati cadere,
dall’alto delle case sulla pubblica via.
c)Positum aut sospensum. Contro l’habitator della casa sul cui tetto fosse stata appoggiata o posata una cosa che,
cadendo, avrebbe potuto provocare danni, fu concessa un’azione penale.
d)Actiones adversus nautas, caupones, stabularios. Per i furti e i danneggiamente a passeggeri e clienti che sei
verificavano sulle navi, nelle locande e nelle stazioni per il cambio cavalli.

39. Estinzione delle obbligazioni.


39.1. L’ademptio (solutio).
L’adempimento della prestazione (solutio) non era sempre sufficiente, in età arcaica, a estinguere l’obbligazione.
Da età preclassica divenne il modo più naturale di estinzione. A compierla era solitamente il debitore. Poteva effettuarla
anche un terzo, salvo che non si trattasse di prestazioni di facere che richiedevano specifiche abilità.

Il debitore doveva eseguire esattamente la prestazione dovuta. Avrebbe potuto al posto di essa compiere una prestazione
diversa solo col consenso del creditore.
Se l’atto costitutivo non li prevedeva, i tempi di esecuzione della prestazione dovevano desumersi dalle circostanze o
dal tipo di prestazione. In difetto di indicazioni la prestazione era dovuta immediatamente.

39.2. La remissione del debito.


È l’atto col quale il creditore rinunzia ad esigere il proprio credito. Vi erano vari modi.

39.2.1. La solutio per aes et libram.


Era il rito contrario al nexum. Si svolgeva dinanzi a cinque testimoni e un libripens con bilancia, il debitore dichiarava
di liberarsi dal potere del creditore e appoggiava sulla bilancia simbolicamente una moneta.
Venne definita imaginaria solutio, perché era un’adempimento apparente.

39.2.2. L’acceptilatio.
Era l’atto contrario alla stipulatio: il debitore chideva ‘hai ricevuto quello che ti ho promesso?’ e il creditore rispondeva
di sì.
L’obbligazione si estingueva verbis.
In età arcaica si estinguevano non per il fatto in sé dell’adempimento della prestazione, ma bisognava anche fare
acceptliatio.

39.2.3. Il pactum de non petendo.

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Il creditore poteva rimettere il debito impegnandosi con un patto a non pretendere l’adempimento della prestazione.

39.4. La novazione.
È la sostituzione di una obbligazione con un’altra così che la prima si estingue ed al suo posto ne sorge una nuova.
Si effettuava fondamentalmente con una stipulatio che, avendo ad oggetto la stessa prestazione, facesse espresso
riferimento al rapporto obbligatori che si voleva estinguere.
‘Prometti di darmi i X sesterzi che mi devi per la compravendita effettuata?’ ‘Prometto’. Si estingueva il debito da
compravendita e ne sorgeva uno nuovo con fonte nella stipulatio.
La prima obbligazione si estingueva, e con essa, se non rinnovate, anche eventuali garanzie personali e reali.
Requisiti: idem debitum, aliquod novi (doveva esserci qualcosa di nuovo rispetto alla vecchia obbligaz), animus
novandi (intenzione delle parti a procedere a novazione).

Nella novazione l’elemento nuovo faceva generalmente seguito a una delegatio promittendi, un’autorizzazione
unilaterale e informale.
In quella attiva il creditore invitava il proprio debitore a promettere con stipulatio ad un terzo lo stesso che doveva a lui,
e la sua si estingueva. Mutava così la persona del creditore.
In quella passiva il terzo, su invito del debitore, prometteva al creditore la stessa obbligazione.

La litis contestatio aveva l’effetto di estinguere l’obbligazione. Non per questo, però, il debitore convenuto doveva
considerarsi liberato, poiché era ancora tenuto in virtù di un vincolo di natura processuale, per cui si parò di condemnari
oportere. La sentenza di condanna l’avrebbe poi estinta e dato vita a obligatio iudicati (coercibile con actio iudicati).
Con la litis contestatio si verificava quindi una specie di novazione e di nuovo con la condanna.

39.5. La compensazione.
È il fenomeno per cui se il creditore è anche debitore del proprio debitore, crediti e debiti reciproci si estinguono nella
misura in cui concorrono. Oggi c’è compensazione legale e giudiziale.
La prima è estranea al diritto romano. Inizialmente era esclusa anche la seconda, poiché le strutture del processo
ordinario non permettevano che si mescolassero nell’ambito dello stesso giudizio questioni attinenti ad actiones diverse.
Da età repubblicana si ammisero alcune deroghe. Principalmente riguardo le obbligazioni perseguibili con azioni di
buona fede, poiché non si ritenne conforme a buona fede chiedere l’adempimento di una prestazione se prima non si
adempiva la propria.
Il giudice poteva quindi tenere conto dei controcrediti del convenuto e procedere a compensazione.
Si richiedeva che i due crediti dipendessero dalla stessa fonte (causa).
Altra deroga riguardò gli argentarii, in banchieri, i quali disponevano di sicuri strumenti di riscontro contabile e ai quali
pertanto si impose l’onere, se erano sia creditori che debitori dei propri clienti, di agire contro di essi cum
compensatione, dovevano però avere entrambi ad oggetto cose fungibili.
Con Giustiniano la compensazione si generalizzò, era permessa solo che i crediti in questione fossero di facile
accertabilità, e avveniva ipso iure,venne quindi riconosciuta la compensazione legale.

39.6. Il concursus causarum.


È l’ipotesi del creditore di cosa determinata il quale, dopo che l’obbligazione è sorta, acquista la stessa cosa ad altro
titolo.
Inizialmente la conseguenza era che l’obbligazione si estingueva in ogni caso. Poi si affermò il principio per cui
l’obbligazione si estingueva se le due causae erano ambedue lucrative, senza oneri pecuniari per il creditore, doveva
cioè trattarsi di un concursus causarum lucrativarum.

39.7. Altri fatti giuridici estintivi delle obbligazioni.


Le obbligazioni si estinguevano ipso iure anche per:
a) confusione;
b) impossibilità sopravvenuta della prestazione non imputabile al debitore;
c) morte di una parte in materia di: illeciti sanzionati da azioni penali, obbligazioni di garanzia da sponsio e
fidepromissio, nella societas, nel mandato;
d) per i contratti consensuali, finché non ne avesse avuto inizio l’esecuzione si scioglievano per reciproco
dissenso;
e) con l’adrogatio e la conventio in manum si estinguevano i debiti in precedenza contratti dall’adrogato e dalla
donna.
La regola del diritto classico era che debiti e crediti potessero essere fatti valere senza limiti di tempo. Teodosio II nel
424 d.C. istituì una praescriptio triginta annoruma, opponibile ad ogni azione dopo 30 anni di inerzia del titolare.

40. La cessione dei crediti.

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Non era riconosciuta, a Roma, la possibilità giuridica di procedere a cessione di crediti e trasferimento di debiti. A
quest’esigenza si faceva ricorso, da età preclassica, con alcuni espedienti.
Per la cessione di crediti, anzitutto con la novazione: cambiava la persona del creditore, ma il cessionario non
subentrava nell’identica posizione del cedente (si estinguevano infatti anche le relative garanzie e decorsi di interessi)
ed inoltre il debitore si sarebbe potuto opporre.
Per l’ipotesi di vendita dell’eredità e cessione dei crediti ereditari, Antonino Pio stabilì che la compratore si dessero,
contro i debitori ereditari, actiones utiles proprio nomine, in modo che egli potesse agire come per un credito proprio.
Successivamente si diedero anche al cessionario di singoli crediti.
Si diffuse la pratica di notificare con denutiatio al debitore l’avvenuta cessione, in modo che egli non potesse più pagare
al cedente con efficacia liberatoria.
Nel 422 fu vietata la cessio in potentiorem, la cessione del credito a persona più potente, tale per posizione personale e
ceto sociale di appartenenza.

41. Il trasferimento di debiti.


Su invito del debitore il creditore poteva stipulare e il terzo promettere quanto dovuto del debitore, oppure il debitore
nominava il terzo cognitor o procurator ad litem perché sostenesse col ruolo di convenuto la lite col creditore.

42. Le obbligazioni parziarie.


Sono le obbligazioni con pluralità di creditori o debitori, in cui ogni creditore ha il diritto di pretendere, o ciascun
debitore il dovere di prestare, una parte soltanto dell’oggetto della prestazione.
Questa si ripartisce in parti uguali o diseguali a seconda dei casi.

43. Le obbligazioni solidali.


Sono le obbligazioni in cui, avendo più creditori diritto o essendo più debitori tenuti alla stessa prestazione, ciascun
creditore può esigere o ciascun debitore deve adempiere l’intero.
Esse si distinguono in solidali cumulative, se la prestazione era dovuta tante volte quanti erano i creditori o i debitori,
solidali elettive se la prestazione era dovuta una volta soltanto, così che l’adempimento ad un creditore o da parte di un
debitore l’obbligaz si estingueva per tutti.

43.1. Le obbligazioni solidali cumulative.


Questo fenomeno ricorreva in materia di legati per damnationem e in materia di delicta.
Nei legati per damnationem quando la stessa cosa era legata dal testatore disgiuntamente a più persone: l’erede avrebbe
dovuto allora prestare l’intero ad ogni legatario (se l’oggetto era una cosa specifica agli altri legatari andavi
l’aestimatio).
Per gli illeciti sanzionati da azioni penali, invece, la regola era quella della solidarietà cumulativa passiva, se più erano
gli autori del furto tutti erano tenuti a pagare l’intera pena senza effetto liberatorio per gli altri.

43.2. Le obbligazioni solidali elettive.


Una possibile fonte era la stipulatio, con più stipulanti e un promettente, o viceversa: solidarietà attiva nel primo caso,
passiva nell’altro.
In ipotesi di un legato per damnationem in cui il testatore avesse posto a carico di un erede l’obbligo di compiere la
stessa prestazione in favore dell’uno o dell’altro dei legatari; o viceversa, il testatore avesse posto alternativamente a
carico di più coeredi l’obbligo di compiere la stessa prestazione a un legatario.

L’obbligazione solidale elettiva si estingueva per tutti, con creditori o condebitori, con l’adempimento della prestazione.
Confusione e captis deminutio estinguevano l’obbligazoine solidale elettiva solo nei confronti di quel creditore o
debitore cui quei fatti si riferivano.

Quanto alla litis contestatio si distingue tra iudicia strica e iudicia bonae fidei: nei primi l’azoine promossa da un con
creditore o contro un condebitore estingueva l’obbligazione nei confronti di tutti, l’azione successiva sarebbe stata
quindi non permessa.
Nei giudizi di buona fede, invece, si ritenne che finché il creditore nella solidarietà passiva non fosse stato soddisfatto,
sussistesse obbligazione a carico dei condebitori non ancora convenuti in giudizio. Soluzione analoga si adottò per la
solidarietà attiva.

44. Le garanzie personali delle obbligazioni.


Esse si realizzano con l’intervento di un terzo (garante) che assume di adempiere la stessa obbligazione del debitore
principale. Il ricorso ad esse era più frequente di quello alle garanzie reali.

44.1. Stipulazioni di garanzia.


La più antica garanzia personale delle obbligazioni è la sponsio.

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Doveva essere prestata subito dopo la promissivo del debitore principale, intervenendo lo sponsor, o gli sponsores, quali
adpromisssores accanto al promissor.
L’obbligazione di garanzia si estingueva con la morte dello sponsor.
Contro il debitore che entro sei mesi non avesse rimborsato allo sponsor quanto prestato al creditore, egli avrebbe
potuto, grazie ad una lex Publilia del III sec a.C., procedere direttamente con la l.a. per manus iniectionem pro iudicato,
e successivamente con l’actio depenni.
Più recente è il modello della fidepromissio di età preclassica, una vera e propria stipulatio.
Nel 180 a.C. una lex Furia de sponsu stabilì che trascorsi due anni dall’assunzione della garanzia, i garanti erano
liberati.
Sul finire della repubblica fu riconosciuta la fideiussione. Pure questa una stipulatio, a cui però non si estesero le
garanzie predette. Con la morte del fideiussore l’obbligazione relativa passava agli eredi. Si potevano garantire anche
obbligazioni diverse da quelle contratte verbis e non necessariamente nello stesso tempo e luogo.
Erano nulle le stipulazioni prestate per importi superiori a quelli del debito principale. L’estinzione dell’obbligazione
comportava l’estinzione delle garanzie.
L’unica azione di regresso in favore dei garanti per ripetere quanto prestato al creditore era l’actio depenni, riguardo la
sponsio. La fidepromissio e fideiussio fu inquadrata nel mandato, quindi i garanti ebbero l’actio mandati contraria.
Il età classica il creditore, nell’esigere la prestazione, cedeva contestualmente l’azione contro il debitore principale
(beneficium cedendarum actionum).
In età postclassica rimase solo la fideiussione.
Giustiniano introdusse il beneficium excussionis per cui si riconobbe ad ogni garante il diritto di pretendere che venisse
prima escusso il debitore principale.

44.2. Il mandato di credito.


Il garante, assumendo il ruolo di mandante, dava incarico al creditore, mandatario, di dare a mutuo una certa quantità di
denaro a un terzo. Si contraeva così un mandato di credito; e al creditore spettava quindi l’actio certae credite pecuniae
contro il debitore e l’actio mandati contraria contro il mandante.
Il giudice di quest’ultima azione avrebbe potuto subordinare la condanna del mandante (garante) alla cessione, da parte
del creditore, dell’azione contro il debitore principale.

45. Gli atti in frode ai creditori.


Poiché il patrimonio del debitore rappresentava per i creditori, in particolare dopo l’istituzione della bonorum venditio,
una garanzia estrema per la soddisfazione dei loro crediti, si provvide a tutelare le aspettative degli stessi creditori
contro il pericolo che il patrimonio del debitore si riducesse oltre misura sino a rivelarsi insufficiente.
La lex Aelia Sentia (4d.C.) sancì la nullità della manomissione dei servi fatta dal debitore in frode ai creditori.
Il pretore già prima aveva introdotto rimedi di carattere generale.
 La denegatio actionis riguardava le obbligazioni che il debitore avesse assunto a proprio carico con il proposito di
accrescere la sua situazione di insolvibilità.
 Con l’in integrum restitutio ob fraudem gli atti del debitore che ne avevano ridotto il patrimonio venivano
sostanzialmente revocati; il magister bonorum, nel predisporre le condizioni della bonorum venditio, considerava il
bene alienato come se fosse ancora compreso nel patrimonio del debitore.
 L’interdictum fraudatorium si dava direttamente al singolo creditore, e dopo la bonorum venditio, era rivolto contro
il terzo in favore del quale tali atti erano stati compiuti. Era restitutorio.
Requisiti comuni erano:
 l’eventus damni: l’atto del debitore doveva essere tale da avere recato effettivo pregiudizio ai creditori;
 consiluim fraudi e scientia fraudis: il primo era la determinazione del debitore di realizzare l’eventus damni, il
secondo la conoscenza del terzo compratore del consilium fraudis del debitore.
I compilatori giustinianei unirono gli ultimi due rimedi pretori in un’unica azione ordinaria detta actio Pauliana.

Capitolo VII – LE DONAZIONI

46. La donazione: concetto ed evoluzione.


La donazione non era dapprima x diritto romano un negozio autonomo ma una possibile causa di negozi giuridici
astratti, i quali appunto potevano essere compiuti anche donandi causa, in modo che il donante, con l’intento di
compiere un atto di liberalità effettuasse un’attribuzoine patrimoniale in favore di un donatario, senza corrispettivo.
La donazione aveva quindi effetti diversi a seconda del negozio impegnato. Da qui la distinzione tra donazioni in dando
(reali)in obligando (obbligatorie) e in liberando (consistenti nella remissione di un debito).

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