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Le fonti del diritto: cenni preliminari e singole fonti di produzione del

diritto nell'antico.

L’ordinamento giuridico dell’antica Roma, quale apparato dotato di un alto e


apprezzabile grado di compiutezza e completezza, si fonda su un robusto sistema di
fonti di produzione del diritto.
Uno dei presupposti imprescindibili sui quali si basa la storia del diritto romano è
sicuramente la consuetudine. Essa fonda le sue radici sulla trasmissione di regole per
via orale e per la prassi che veniva adottata su determinate questioni giuridiche.
Questi “usi” tramandati nel tempo venivano chiamati mores. Non può essere
trascurato il fatto che un grande legame tra l’aspetto giuridico e la civitas era
determinato dal ruolo della religione che attraverso i Pontefici esercitava una certa
supremazia sull’intera collettività. I Papi (detti anche prudentes “esperti”), infatti,
attraverso i responsi che davano su determinate questioni giuridiche, esercitavano il
loro ruolo di “giuristi” interpretando i mores spesso in maniera non del tutto
imparziale.

Provenienti dall’età monarchica, non possono essere non prese in


considerazione le leges regiae (comandi emanati dal re in materia religiosa ed in
materia privatistica) anche se la scarsità dei dati a disposizione nell’età monarchica
non consente di stabilire con certezza se veramente i sovrani esercitassero un ruolo di
veri “produttori” del diritto o se i loro precetti erano già oggetto di mores.

Sicuramente un passo importante nella complessa materia delle fonti del diritto
nell’antico è dato dalla redazione delle XII Tavole (451 – 450 a.C.) che hanno dato
un notevole contributo al concetto di “certezza del diritto” visto che si tratta di prime
regole scritte. Seppur le XII Tavole non regolavano tutto il diritto pubblico e privato,
ma si limitavano a normare quasi esclusivamente rapporti privatistici, la loro
redazione svolse un’importante azione di garanzia per la plebe nei confronti del
patriziato. La loro limitata applicazione a tutto il diritto, però, con il passare del
tempo, fece in modo che i responsa dei Pontefici ritornassero ad essere i principali
strumenti di interpretazione giuridica. Un’altra fonte di diritto nell’età repubblicana
era rappresentata dalle leges pubblicae, leggi votate dai Comitia Centuriata su
proposta, la rogatio, di un magistrato. Esse erano strutturate in una “praescriptio”
(dati legati al magistrato proponente, all’assemblea votante e al luogo e alla data della
votazione), nella “rogatio” (il dettato squisitamente normativo) e, infine nella
“sanctio” (l’insieme delle clausole tendenti ad assicurare il rispetto del dettato
normativo e le disposizioni di coordinamento con le altre leggi). Essenzialmente le
leges e i mores, avendo ambiti di intervento separati, agivano in maniera autonoma le
une dagli altri e lì dove sorgeva una vacatio normativa comunque era possibile
ricorrere all’interpretatio pontificale come mezzo di integrazione. Solo alla fine del
IV secolo a.C., con il progressivo distacco dell’elemento magico-religioso,
l’ingerenza clericale nel diritto venne sempre più a diminuire a favore di una
giurisprudenza laica. Con l’istituzione della Pretura (367 a.C.) i Pretori che si
susseguivano di anno in anno divennero sempre più “produttori” di diritto attraverso
l’emanazione di editti in cui ciascun magistrato, all’atto dell’insediamento, fissava e
rendeva così pubbliche le linee programmatiche di ispirazione della propria opera. Si
forma così un autentico vademecum di regole provviste di valore giuridico ossia di
principi di diritto. Sotto un profilo squisitamente formale, le disposizioni edittali
emanate da un magistrato non vincolavano il successore; praticamente, però, tutti gli
editti riproponevano – sebbene con alcune aggiunte originali – i medesimi principi
ormai consolidati nel sistema. In virtù del continuo ed incessante rinnovarsi della
prassi edittale, si forma nell’ambito dell’ordinamento giuridico di Roma caput mundi
un complesso di norme di creazione e ispirazione prettamente pragmatiche (ius
honorarium, così definito dalla parola honor ossia “carica magistratuale”) anziché di
natura astratta e potenziale (ius civile).
Non vi è dubbio che il processo di laicizzazione del sapere giuridico fu molto
lento e tortuoso, tuttavia esso può essere ricondotto essenzialmente a due fattori
fondamentali: alla necessità di trascrivere le norme finora interpretate attraverso i
mores e alla necessità di individuare un metodo classificatorio in grado di ricavare
principi generali da casi concreti. Il primo e più autorevole esponente giuridico a
trattare il diritto civile secondo classificazioni sistematiche fu Quinto Mucio Scevola,
console nel 95 a.C. Con l’avvento del principato va detto che se nella primissima fase
i senatoconsulta (insieme alle leges pubblicae) assumevano un certo rilievo, man
mano andarono ad affermarsi come strumenti di diritto le custitutiones principum e i
responsa prudentium. Questo fenomeno può essere spiegato con il fatto che il ruolo
sempre più importante che nel tempo andavano assumendo i giuristi spinse ad
intensificare il loro rapporto con i principi. Fu proprio l’imperatore Augusto che per
legare a sé i più eminenti giureconsulti, attribuì ad alcuni di loro il ius publice
respondendi ex autoritate principis: una sorta di rafforzamento dei responsi di alcuni
prudentes con l’autorità imperiale. Questo fenomeno non solo contribuì ad una certa
“diversificazione” fra giuristi, ma determinò un aumento di controllo da parte del
principe nella produzione del diritto. Dalla fine del III secolo d.C., con l’ampliamento
dell’Impero Romano e con la conseguente apertura a nuove culture (soprattutto quella
greco orientale), l’ordinamento giuridico romano subì profonde trasformazioni che
videro essenzialmente il venir meno di molte fonti a favore delle leges imperiales. A
partire dal V secolo si affermarono due nuovi provvedimenti nel diritto romano: la
pragmatica sancito e l’adnotatio. Se la prima era legata più ad esigenze che
riguardavano la grandezza dell’impero visto che servivano a rispondere alle istanze
provenienti da città o Province diverse, la seconda serviva a concedere privilegi o
esenzioni di ogni genere. Come è stato detto le leggi imperiali furono pian piano
predominanti nell’età imperiale. Le prime raccolte private di Leges furono il Codice
Gregoriano e quello Ermogeniano. Se il primo (293 d.C.) composto da quattordici,
quindici libri riguardava costituzioni emanate fino ad Adriano, il secondo, diviso in
titoli e non in libri, raccoglieva principalmente rescritti dell’imperatore Diocleziano
emanati dopo il 291 d.C. Non meno importante fu il codice Teodosiano, diviso in
sedici libri, che non determinò l’abrogazione dei precedenti, ma fu a loro
complementare visto che trattava quasi esclusivamente leges generales, a differenza
dei primi che erano raccolte di epistole e rescritti.

Sicuramente il codice che segnò un importantissimo passo nella produzione


delle fonti nel diritto romano fu il Corpus Iuris Civilis Giustinianeo. La redazione del
Corpus Iuris Civilis, promulgato nel 533 da Giustiniano, imperatore d’Oriente dal
527 al 565, è stata non tanto e non solo un’operazione erudita e un omaggio al
passato, quanto il segno tangibile della convinzione dell’imperatore che il valore e la
funzione delle leggi era quello di essere uno strumento efficace per governare con
ordine lo sviluppo della società. Convinzione successivamente confermata e
condivisa, se si pensa che il Codice, studiato e commentato nelle scuole, sarebbe
diventato la fonte primaria del diritto per tutta l’Europa. Voluto da Giustiniano e
realizzato tra il 528 e il 534, il Corpus Iuris Civilis – con alcuni rimaneggiamenti –
raccoglie in un unico testo il patrimonio giuridico romano. L’obiettivo di Giustiniano
(483-565) era quello di ricostituire l’unità politica dell’impero che era continuamente
minacciata e di ridare autorevolezza alla figura dell’imperatore. All’interno della
strategia per realizzare questo suo progetto, un peso particolare e rilevante aveva la
ricomposizione e l’affermazione dell’unità giuridica. Infatti le significative
dimensioni territoriali, la crescente debolezza dell’amministrazione statale,
l’estensione del diritto di cittadinanza a tutti i sudditi e le continue pressioni da parte
delle popolazioni confinanti avevano favorito l’affermarsi di abitudini provinciali,
che erano spesso in opposizione o sovrapposizione con i principi del diritto romano.
Il Corpus è costituito da quattro parti fondamentali: il Codex, i Digesta (o
Pandectae), le Institutiones e le Novellae.
Il Codex raccoglie le leggi all’epoca vigenti a partire dall’imperatore Adriano
(117-138), suddivise in diritto ecclesiastico, privato, penale, amministrativo e
finanziario; le Pandectae sono una raccolta sistematica di sentenze promulgate dai
giuristi romani nel corso dei secoli soprattutto su importanti questioni di diritto
pubblico e privato. Tale raccolta risulta di particolare rilievo perché nel diritto
romano le decisioni dei giudici si basavano su sentenze già da altri formulate in
precedenza ed esse sono quindi, in un certo senso, una fonte nella fonte. Le
Institutiones sono un manuale suddiviso in quattro parti relative ai principi fondanti
del diritto e alla modalità di applicazione delle leggi. Infine le Novellae sono le
norme legislative promulgate da Giustiniano a partire dal 534: nuove leggi formulate
in armonia con la tradizione del diritto romano.

Con la committenza e la realizzazione di questa opera culturale e giuridica


veniva affermata l’universalità del diritto romano come sistema organico di codici,
tutelato in questo modo dalla promulgazione di possibili norme occasionali e/o
transitorie – cosa che era accaduta in passato – e dalle altre forme di diritto che
comunque sopravvivevano all’interno dell’impero.

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