Nel 1820 Federico Bluhme pubblicò delle tesi relative al digesto, asserendo che la massa
giuridica del Digesto non era stata ordinata secondo un particolare rigore logico o una
particolare funzionalità giuridica, piuttosto era stata ordinata con riferimento a tre grandi
masse di opere classiche:
- La massa papinianea
- La massa edile
- La massa sabina
Inoltre, secondo Bluhme, il Digesto era stato un’opera corale, formata da una commissione,
la quale non aveva operato solo per raccogliere i materiali dei commentarii giuridici del
passato, ma aveva anche compiuto un’operazione di scrematura, sistemazione,
comparazione e correzione.
Queste tesi riscossero grande successo fra gli studiosi accademici del tempo, in quanto
nessuno si era mai soffermato prima sulla gestazione del Digesto e sulla sua natura e
composizione.
Pauli sententiae
Le Pauli sententiae sono una raccolta di pareri giurisprudenziali, redatti fra il III e il IV sec.
d.C e attribuiti a Paolo, uno dei giuristi più autorevoli del tempo.
Esse sono formate da V libri e costituiscono un bagaglio giuridico fondamentale per tutta la
letteratura giuridica del tempo, infatti le Pauli sententiae saranno ritenute legge e validate
da Costantino nel 327 d.C.
Il testo delle Pauli sententiae non ci è pervenuto direttamente, ma ci è stato riportato da
innumerevoli fonti successive che ne fecero uso e le citarono:
- Il codex gregoriano
- Il codex ermogeniano
- I fragmenta vaticana
- L’epitome gai
- La lex romana visigothorum
- La lex romana burgundionum
La pena del sacco era una pena in uso principalmente in età arcaica a Roma ( non so
perché sia presente fra le dom. frequenti, ma tant’è ahahaha ) impartita dal Re ai
parricidi, cioè a coloro i quali avevano ucciso il proprio genitore o un parente stretto.
Consisteva in una punizione di origine “divina”, in quanto il povero condannato veniva
messo e chiuso all’interno di un sacco di cuoio, insieme ad un Gallo, ad un cane, una
vipera e una scimmia.
Nel mentre che questi animali e l’uomo si contendevano il poco spazio disponibile,
chissà in quali modi atroci, il sacco stesso veniva chiuso con l’uomo dentro e trasportato
fino al Tevere dove poi veniva lanciato nell’acqua.
La “poena cullei” la pena del sacco verrà poi abolita successivamente o comunque cadrà
in disuso perché troppo arcaica e in contrasto con gli usi civici e giuridici che Roma
repubblicana assunse.
Leggi romano-barbariche
Alessandro Severo si ritrovò a guidare un impero che era in una forte crisi monetaria ed
economica, dovuta alla svalutazione della moneta e alla perdita del suo potere d'acquisto,
nonché alla difficile reperibilità di materiali quali l'oro e l’argento, di cui le monete più
pregiate erano composte.
Il regno di Alessandro Severo fu un periodo abbastanza positivo, soprattutto in ambito
giuridico, di fatti si suole parlare di “Impero dei giuristi” nel suo caso, in quanto il princeps
si occupò di dar vita ad una folta casta di giuristi che si occupassero di effettuare un’opera
letteraria di organizzazione del materiale giuridico e di commentarii circa il diritto emanato
dall’imperatore, sempre più protagonista in ambito giuridico con i propri rescripta e le
proprie costituzioni. Inoltre, la Constitutio Antoniniana del 212 d.C, l’Editto di Caracalla,
aveva ampiamente esteso la cittadinanza romana, prevedendo così che il lavoro della
giurisprudenza del III secolo fosse quello di fare in modo che il diritto romano fosse
comprensibile, fruibile, utilizzabile e adeguato a tutti i nuovi cittadini dell’impero, che pure
desideravano conservare le proprie tradizioni e le proprie consuetudini, con le quali
l’impero e il suo diritto doverono fare i conti.
In ambito fiscale, Alessandro Severo decise che era utile alleggerire la pressione sui
cittadini romani, così facendo abolì il pagamento dell’Aurum coronarium, un’imposta
annuale che le città dovevano elargire al fisco imperiale, che era stata resa definitiva sotto
Caracalla. In più, previde anche l’abolizione di una tassa sui commerci, l’Aurum
negotiatiorum.
Per arrestare l’inflazione e la svalutazione monetaria, decise che la maggior parte dei tributi
potessero essere anche pagati in “natura” e pertanto spinse molto sull’Annona, un’imposta
fondiaria di epoca risalente, da corrispondere all’impero da parte di ogni proprietario
terriero, pagata – appunto – in natura.
L’attenzione di Alessandro Severo all’Annona ci lascia intendere come fosse preferibile, al
tempo, acquisire dei beni piuttosto che denaro, in quanto la scarsa reperibilità dell’oro e
dell’argento avevano reso il mercato instabile e in crisi; senza contare che i continui
saccheggi e le pressioni dei barbari ai confini dell’impero, portarono inevitabilmente la
situazione a degenerare sempre di più.
Dopo l’infausto periodo di anarchia militare che, nel 285 d.C aveva conosciuto la sua fine
tramite la figura di Diocleziano, l’imperatore si ritrovò a doversi rapportare con un impero
in uno stato quasi disastroso a livello economico-finanziario.
L’obiettivo di Diocleziano fu quello di rivoluzionare il sistema della tassazione, prevedendo
più equo e giusto che quest’ultimo fosse calcolato sulla base di un criterio proporzionale che
aveva come discriminanti due elementi:
- Il caput, cioè l’unità di lavoro disponibile, la persona fisica;
- L’unità di terreno coltivabile.
Attraverso un “rapporto” fra questi due elementi, ogni proprietario terriero – effettuata la
dichiarazione dei redditi ogni 5 anni– poteva conoscere dunque l’importo del pagamento
dell’imposta che doveva al fisco imperiale.
Questo sistema era conosciuto col nome di “capitazione” e, potendosi pagare le imposte
anche in “natura”, dato che solo i ricchi le corrispondevano in denaro, il fisco imperiale
ebbe una ripresa graduale nel lungo periodo.
Diocleziano si occupò di cercare di arginare l’inflazione, emanando l’EDICTUM DE
PRETIIS RERUM VENALIUM ( per chi non ha fatto latino, si legge Edictum de prezis
rèrum venàlium ) con il quale fissava un calmiere – cioè un tetto massimo – ai prezzi di
alcuni beni. Questa sua riforma risultò però disastrosa, in quanto non arginò l’inflazione e
diede vita al mercato nero che si diffuse in tutto l’impero.
Repressione criminale
Con la trasformazione dell’Impero romano in un impero cristiano, già a partire dai prodromi
di Costantino, fino ad arrivare all’Editto di Teodosio I nel 380 d.C, cambiò anche l’ottica di
repressione criminale.
Innanzitutto, la nuova fede cristiana andava a stigmatizzare determinati comportamenti che
in precedenza non erano mai stati avvertiti come “sbagliati” o quantomeno, non erano mai
stati ritenuti criminali.
Il primo fra tutti fu l’abolizione dell’antico uso dei sacrifici pagani, che furono totalmente
vietati e puniti con la tortura, la prigionia o la pena di morte nei casi più gravi.
Fu vietata l’arte aruspicina e con essa tutti i riti pagani connessi alle divinità del mondo
antico, puniti in maniera gravissima con il nuovo concetto di “eresia”.
L’eresia si verificava quando un soggetto si macchiasse del reato di aver venerato una
divinità fasulla, o di aver abbracciato una qualche tesi dottrinale eretica ( nel 451 d.C ad un
Concilio ecumenico, la dottrina monofisita venne dichiarata “eretica”: i monofisiti erano
coloro che credevano nella natura umana di cristo, mentre i duofisiti erano coloro i quali
sostenevano la sua natura umana e divina ).
L’eretico veniva punito con la pena di morte.
Un altro reato che iniziò ad essere punito fu l’Apostasia che, al contrario dell’eresia,
comprendeva che il soggetto fosse di fede cristiana e l’avesse poi ripudiata per abbracciare
un culto eretico.
Spesso l’apostasia era punita con la relegatio in insulam, cioè l’esilio in una qualche isola
lontana dall’impero e irraggiungibile.
In questo periodo, l’uso della pena di morte è frequente e vario, ogni imperatore reprime
soprattutto i propri avversari politici, e si occupa di gestire e amministrare le leggi affinché
quest’ultime siano utili al proprio governo e al proprio scopo, e pertanto anche alla
repressione di individui scomodi.
Con l’avvento del cristianesimo, le diocesi istituite da Diocleziano e presiedute dai vicari,
iniziarono ad essere rette spesso dai Vescovi, i quali finirono dunque anche per
amministrare la giustizia, essendo i vicarii spesso chiamati a farlo.
Nacque così l’idea che la religione fosse compenetrata al diritto e al potere, con l’autorità
imperiale che andava sempre più affermandosi grazie alla consacrazione data dal potere che
Dio doveva aver infuso nel sovrano.
Divenuto imperatore al seguito di suo zio Giustino, Giustiniano ebbe da subito due compiti
principali: quello – di politica interna – di sistemare e placare le rivolte e le dispute
dottrinali sul cristianesimo che stavano scuotendo l’impero, nel tentativo di rafforzare la
propria posizione; e di politica estera, nel riconquistare l’impero romano andato perduto nel
476 d.C.
Per conseguire gli obiettivi di politica interna, Giustiniano ritenne necessario – non appena
divenuto imperatore – emanare una costituzione nel 527 d.C intitolata “Haec quae
necessario” con la quale incaricava Triboniano, uno dei suoi funzionari più intimi, di dar
vita ad una commissione di giuristi che avrebbe lavorato alla redazione del proprio codice.
Più tardi, nel 530, incaricò Triboniano stesso di avviare i lavori al Digesto, la raccolta delle
pandette, cioè dei commenti dei grandi giuristi classici alle costituzioni imperiali, lavorando
in maniera sistematica al fine non solo di raccogliere e riordinare, ma al contempo di
numerare, ripulire, sistemare e definire la grande massa alluvionale di scritti
giurisprudenziali.
Giustiniano diede ordine a Triboniano di non inserire nel digesto delle pandette che
contrastassero con le costituzioni imperiali contenute nel codice; di non inserire le pandette
che fossero da loro contrastanti, di prediligere quelli di alcuni autori piuttosto d’altri, di
evitare le antinomie, le ripetizioni. Il tutto era ordinato al fine di produrre un materiale di
pronta consultazione, da diffondere nel minor tempo possibile, utilizzabile in ogni tribunale
dell’Impero ( ormai ) bizantino.
Il progetto di Giustiniano di recuperare anche parte dell’Impero romano d’Occidente ebbe
buon fine, seppur per poco tempo e in quelle terre cercò a sua volta di estendere il diritto
imperiale, una volta codificato definitivamente nel suo grande Corpus.
Il corpus giustinianeo, infatti, era composto da:
- Il codice, formato da circa 12 libri, all’interno dei quali si trovavano le leges degli
imperatori ritenute valide. Nel I libro si trattava del diritto ecclasiastico e delle fonti
del diritto, simbolo di quanto il cristianesimo fosse divenuto importante. Dal II
all’VIII libro si trattava del diritto delle persone. Nel IX libro c’era il diritto
criminale. Dal X al XII libro si trattava di diritto finanziario, costituzionale e
amministrativo.
- Le istituzioni di Giustiniano, che ricalcavano il modello delle Istituzioni di Gaio,
composte da IV libri: il I parlava delle persone; il II libro parlava dei rapp.assoluti
reali e della succ. testamentaria; il III libro della succ. ab intestato e delle
obbligazioni nascenti da contratto; il IV libro delle obbligazione nascenti da illecito.
- Il Digesto, l’enorme raccolta delle pandette.
Questo corpus fu reso non solo vigente e obbligatorio, ma fu la base con la quale
Giustiniano rivoluzionò gli studi giuridici. Di fatti, il cursus giuridico di V anni di
formazione avrebbe previsto: durante il primo anno, lo studio delle Istituzioni, a livello
introduttivo e di parte del Digesto. Il II anno avrebbero dovuto studiare la seconda parte del
Digesto. Al III terminare lo studio del Digesto. E al IV e V anno avrebbero dovuto studiare
il Codice.
Istituzioni di Giustiniano
Giustiniano volle che venissero create le Istituzioni, cioè una raccolta di diritto romano
costituita da IV libri, partendo dalla base dettata dalle Istituzioni di Gaio.
Le Istituzioni dovevano teoricamente essere la base da cui partire per gli studenti di diritto
secondo la riforma dettata da Giustiniano e dovevano essere studiate durante il primo anno,
utili a formare e a far entrare lo studente nel mondo del diritto.
Il I libro tratta delle PERSONE.
Il II libro dei rapporti assoluti reali e della successione testamentaria.
Il III libro della successione ab intestato e delle obbligazioni nascenti da contratto.
Il IV libro delle obbligazioni nascenti da illecito.
Le Istituzioni furono poi accorpate al Codice e al Digesto nel corso di studi e costituirono
parte integrante del Corpus Iuris Civilis, grazie al quale abbiamo potuto conoscere la vastità
del diritto romano.
Codice Teodosiano
E’ il 438 d.C quando Teodosio II, figlio dell’imperatore d’Oriente Arcadio e nipote di
Teodosio I ( quello dell’editto di Tessalonica del 380 d.C ), decide di dare ordine ad uno dei
suoi collaboratori di avviare la raccolta di tutte le costituzioni imperiali emanate da
Costantino in avanti. ( il primo imperatore cristiano e, secondo Teodosio II, il primo
meritevole ad aver emanato quindi “costituzioni giuste”.) L’anno dopo, il Codex
Theodosianus è pronto: consta di 16 libri, i quali spaziano dal diritto civile al diritto
ecclasiastico, passando per il diritto amministrativo e penale.
La raccolta sarà inviata a Valentiniano III come dono di nozze, e quest’ultimo la farà
ratificare dal senato in modo che il Codice fosse disponibile e vigente in tutto l’Impero
Romano.
Per i lavori del codice, gli studiosi fecero riferimento soprattutto al Codice Gregoriano ed
Ermogeniano, alle Pauli Sententiae.
Teodosio stabilì anche che l’unico diritto vigente dovesse essere quello del Codice e che
andasse applicato secondo l’interpretazione che nel codice veniva fornita.
Tetrarchia