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coordinamento di
Mario Mazza
DAL DECEMVIRATO
ALLA SECONDA GUERRA PUNICA
C. I
R A*
D A C
dice iniziata proprio al principio del V secolo, con la prima e più famosa
tra le cinque secessioni operate dalla plebe tra 494 e 287 a.C.
La tradizione confluita in Livio e in Dionigi pone a premessa della più
antica codificazione romana l’iniziativa del tribuno della plebe Gaio Teren-
tilio Arsa, che nel 462 avanzò la proposta della creazione di una commissione
di cinque magistrati con potestà consolare col compito di redigere un codice
di leggi scritto, uguale per tutti e per sempre, anche al fine di fissare e limita-
re l’imperium, di cui i patrizi facevano un uso spesso arbitrario. Dopo circa
un decennio di lotte, nel 451 venne istituita una commissione di decemviri le-
gibus scribundis, previo l’invio di una delegazione in Grecia (o in Magna Gre-
cia) per studiarvi i sistemi legali in uso presso i greci. Il ‘prodotto’ di questa
prima commissione decemvirale, tutta formata da patrizi, furono dieci tavole,
il cui contenuto venne sanzionato dai comizi centuriati. Ma poiché l’opera
non era ancora terminata, l’anno successivo venne creata una seconda com-
missione, del tutto rivoluzionata nei suoi componenti – tranne che per il ca-
po, Appio Claudio – e includente dei plebei. Questa commissione fu però
iniqua, come inique furono le due ultime tavole, aggiunte alle prime dieci, ri-
sultanti dal suo operato, che ribadivano la schiavitù per debiti e davano san-
zione legale a quello che prima dovette essere per lo più un fatto consuetu-
dinario, ovvero il divieto di connubium tra patrizi e plebei. Si rese necessaria
una nuova secessione plebea per scacciare i dieci commissari, divenuti quasi
dei tyranni, poiché aspirarono a mantenersi al potere arbitrariamente anche
nel 449, insieme al famigerato Appio Claudio, un patrizio colpevole di aver
insidiato la giovane plebea Virginia, provocandone indirettamente la morte.
Il racconto tradizionale va ovviamente sfrondato di molti particolari
(specie quelli riguardanti la seconda commissione), che ad un vaglio anche
superficiale della critica non resistono. Sospetta è la presunta ambasceria in
Grecia: è vero che Cicerone (Leg. 2, 25, 64) riconosce la derivazione di al-
cune delle Leggi delle XII Tavole dal codice di Solone; che la comunità dei
plebei – per iniziativa della quale vide la luce il codice – mostra già nel V
secolo più stretti legami con la Magna Grecia e la Sicilia, abitate da popoli
dove più vive erano l’aspirazione alle riforme politiche e la tradizione di
contenuti legislativi scritti; che le norme contro il lusso dei funerali rivele-
rebbero l’influsso greco e, di contro, l’allontanamento dall’opulenza etru-
sca; ma è stato anche giustamente notato che scopo ultimo della commis-
sione decemvirale era il fissare per iscritto norme del diritto consuetudina-
rio, sottraendole così, nel passaggio dall’oralità alla scrittura, all’arbitraria
interpretazione dei patrizi, più che produrre leggi nuove.
Si tratta di un’ipotesi suggestiva, che trova un’eco nella riflessione di W. Eder, il qua-
le, notando che le XII Tavole, pur essendo una curiosa mescolanza di conservatorismo
e progresso, sembrano fissare per iscritto norme preesistenti, mostrano punti di con-
tatto con altre codificazioni “aristocratiche”, di cui l’autore fa un’analisi comparata, con-
clude col riconoscere in esse la volontà dei gruppi oligarchici di autoregolamentarsi.
Dal decemvirato legislativo alla censura di Appio Claudio 41
nelii, i Claudii, i Fabii, i Manlii e i Valerii), venne impedito nel 445 dalla lex Canuleia,
che ripristinò il ius connubii tra patrizi e plebei.
2. Concordia ordinum
Fonti: Leggi Valerie-Orazie: Livio, Storia di Roma III, 55, 4-5; Cicerone, La repubblica
II, 31, 54; Id., In difesa di Publio Sestio XXX, 65; Diodoro Siculo, Biblioteca XII, 25.
Creazione dei tribuni militari con potestà consolare: Livio, Storia di Roma IV, 7, 2;
Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane XI, 59 s. Legge Ogulnia: Livio, Storia di
Roma X, 6, 3; 9, 2; leggi Licinie-Sestie, Publilie, Genucie: Livio, Storia di Roma, libri
VI-VIII; legge Ortensia: Livio, Periochae 11; Plinio il Vecchio, Storia naturale 16, 37.
della plebe come inevitabile, poiché grazie ad esse si ottennero molte con-
quiste ‘costituzionali’: si diede forza di legge ai plebisciti e si crearono i tri-
buni, fiaccando così lo strapotere dei consoli, onde sorge viva l’impressione
che la violenza nella lotta tra gli ordini, aspetto senz’altro presente anche
nella storia arcaica di Roma, sia stato nelle fonti volutamente sfumato, per-
ché si trattava di un ricordo scomodo, da epurare conferendogli una patina
di civile dialogo e mutua responsabilità. Sfumature. Ben più importante ri-
sulta la riflessione storiografica sulle cause profonde del conflitto, dove le
motivazioni economiche avevano comunque il loro momento importante.
La c.d. lex Icilia de Aventino publicando ricordata dalle fonti per il 456
(Liv. 3, 31, 1; Dion. Hal. 10, 32, 4), che stabiliva la vendita di terreni su
quel colle, destinati alla costruzione di case per i plebei, sembrerebbe ri-
mandare ad una vittoria della plebe, che reclamava il diritto di fruire di ap-
pezzamenti dell’agro pubblico contro i patrizi allevatori desiderosi di sfrut-
tarlo per il pascolo (Piganiol); proprio queste prime conquiste hanno fatto
pensare che alla base delle dinamiche di graduale integrazione della plebità
col patriziato sia individuabile una strumentalizzazione delle istanze di ca-
rattere economico della massa dei diseredati da parte dei plebei economi-
camente più forti (Càssola). Si comprende il potenziale di una simile stru-
mentalizzazione, quando si pensi alla fascia più intraprendente della nuova
plebe di artigiani, tecnici, mercanti, che la monarchia etrusca aveva intro-
dotto a Roma, e che risultò maggiormente danneggiata dal ripiegamento
economico seguìto alla cacciata dei Tarquinii, quando la reazione del patri-
ziato tese più che mai alla loro marginalizzazione, per cui essi contrattacca-
rono con intelligenza, contando in primis sull’aggregazione dei ceti econo-
micamente più deboli e facendo proprie le rivendicazioni di questi. Sotto
la specie economica, la contesa tra patrizi e plebei sarebbe simboleggiata
dalle differenze nei modi di sfruttamento dell’ager publicus, con i patrizi
che avrebbero lottato per l’accaparramento di porzioni sempre più ampie
di terra da sfruttare mediante forme di lavoro dipendente, basato sulla ma-
nodopera di liberi senza terra, confluiti poi nella clientela del patriziato, e
i plebei, che aspiravano alla distribuzione dell’agro pubblico in lotti in pro-
prietà privata (Lo Cascio).
Tutte le posizioni dei moderni, come spesso accade, contengono una
parte di verità e una buona dose di condivisibilità. Il dato di fatto osserva-
bile è che abbastanza presto le stesse norme per la difesa dei privilegi del
patriziato e del suo patrimonio non furono giustificate da una reale supre-
mazia economica nei confronti della plebità. Ma lo scoglio più difficile da
superare per i non patrizi risiedeva nell’aura sacrale di cui erano avvolti i
privilegi dell’ordo avversario, che si riconosceva nel possesso dei sacra, nel
culto degli antenati – comune in una stessa gens – e nel possesso degli au-
spici. Il possesso pieno e formale dell’ager publicus da parte della plebe e il
problema dei debiti, molto sentito nel IV sec. a.C., sono senz’altro aspetti
Dal decemvirato legislativo alla censura di Appio Claudio 45
importantissimi del conflitto tra gli ordini, tuttavia per il momento si trat-
terà delle conquiste politiche raggiunte dalla plebe, laddove la legislazione
a carattere economico verrà presa in considerazione più avanti, al momento
di delineare le condizioni socio-economiche del IV secolo.
Il 449 varr. viene da taluni considerato l’anno di svolta, durante il quale
la costituzione romana sarebbe diventata ‘patrizio-plebea’. Ristabilite le ga-
ranzie costituzionali con la cacciata dei decemviri e il suicidio di Appio
Claudio, i consoli di quell’anno, L. Valerio e M. Orazio, promossero tre
leggi, note pertanto come leges Valeriae Horatiae, con le quali si reintrodu-
ceva l’istituto della provocatio, si minacciava la sacertas a chi avesse osato ol-
traggiare in qualche modo i magistrati plebei, si sanciva la validità per tutto
il populus dei plebiscita, che avrebbero così acquisito forza di legge; infine
i senatusconsulta dovevano essere depositati, a cura degli edili plebei, in un
archivio speciale nel tempio di Cerere. La tradizione liviana (3, 55, 1) risul-
ta oltremodo sospetta per quanto riguarda la provocatio, ratificata in forma
definitiva solo nel 300 a.C. con la lex Valeria, così come la sanzione di vali-
dità per tutto il populus dei plebiscita, in realtà ultima conquista della plebe
con la lex Hortensia del 287. È stato suggerito che con plebiscita andrebbe-
ro intese qui le decisioni approvate con voto per tribù (ovvero, tanto i ple-
biscita del concilium plebis che le leges dei comitia populi tributa), soggetti
tuttavia alla ratifica dell’auctoritas patruum (Scullard).
Secondo Mazzarino un’ulteriore ‘garanzia costituzionale’ venne fornita
alla plebe con l’istituzione, sempre nel 449, dopo la cacciata della seconda
commissione decemvirale, dei tribuni della plebe. Valorizzando la testimo-
nianza varroniana di L.L. 5, 81, che ci fornisce appunto questa datazione
bassa per l’introduzione della più importante magistratura plebea, lo stu-
dioso presta fede all’antiquario di età cesariana per un’articolata serie di ra-
gioni storiografiche e istituzionali ‘interne’ alla storia di Roma arcaica (del
resto, sarebbe difficile ammettere, seguendo la datazione volgata del 494/93,
che il tribunato nascesse in forma conchiusa, già dotato delle sue preroga-
tive – intercessio, auxilium, sacrosanctitas – ad appena sedici-quindici anni
dall’inizio della repubblica).
La tendenza a nominare ai vertici del potere una commissione di magi-
strati supremi in luogo della tradizionale coppia consolare (o pretoria) sem-
bra essere riemersa nel 444, allorché al posto dei consoli figurano tre tribu-
ni militum consulari potestate, portati a quattro e infine a sei nel 406, i qua-
li, pur avendo ‘potestà consolare’, avevano prerogative inferiori a quelle dei
consoli (auspici inferiori, niente posti d’onore in senato, né il ius imaginum
o il diritto di portare il laticlavium, non potevano nemmeno nominare un
dittatore se non previo il parere degli àuguri, né celebrare il trionfo). I tri-
buni consolari sostituirono i consoli saltuariamente tra il 444 e il 394, inin-
terrottamente negli anni 391-367. Dionigi (11, 59 ss.) relaziona la creazione
della carica al tentativo dei patrizi di ritardare la resa sulla parificazione con
46 Rosalba Arcuri
Nel 366 si decise che gli edili curuli, da poco istituiti, ad anni alterni fos-
sero eletti tra le file dei due ordini (Liv. 7, 1, 5-6). Per quanto riguarda i col-
legi sacerdotali, già nel 368 il numero dei duoviri sacris faciundis, interpreti
dei Libri sibillini, fu portato a dieci, metà dei quali plebei (Liv. 6, 42, 2),
mentre il pontificato venne reso accessibile ai plebei con la lex Ogulnia del
300. Nel 342 un plebiscito – di fatto, una delle leges Genuciae di cui si dirà
– sancì che ambedue i consoli potessero essere plebei (Liv. 7, 42, 2; Zon. 7,
25, 9), cosa che si sarebbe verificata però solo nel 172 a.C. Nel 337 si ebbe
l’ammissione dei plebei alla pretura. L’unica carica rimasta esclusivo privi-
legio dei patrizi fu quella di interrex. La conclusione dell’annoso conflitto
si ebbe nel 287, allorché si verificò la quinta e ultima secessione della plebe
riportata dalle nostre fonti (Liv. Per. 11; Plin. nat. 16, 37), plebe le cui con-
dizioni economiche si erano drammaticamente aggravate a seguito delle
lunghe guerre sannitiche, che avevano indirettamente contribuito ad ina-
sprire il problema dei debiti. Con la già menzionata lex Hortensia, che Pli-
nio ci dice approvata durante un’assemblea all’Aesculetum su iniziativa del
dittatore plebeo Q. Ortensio, che vantava tra i propri antenati solo un tri-
buno nel 422, si diede definitiva sanzione a ciò che le fonti già attribuivano
alle leggi Valerie-Orazie del 449 e alle leges Publiliae Philonis del 339 (Livio
usa in quest’ultimo caso la medesima espressione utilizzata dalle altre fonti
per la lex Hortensia: ut plebiscita omnes Quirites tenerent): i plebiscita ven-
nero equiparati alle leges, finché col tempo si perse il senso della differenza
tra le due forme, se non per l’autorità proponente (tribuno della plebe nel
primo caso, dittatore, console o pretore nel secondo). La legge Ortensia era
stata preceduta, poco dopo il 293 a.C., dalla lex Maenia con la quale l’auc-
toritas patruum era ridotta ad una mera formalità preliminare alle elezioni.
La concordia ordinum era stata raggiunta. La tradizione ci ricorda che
l’anziano Camillo, all’indomani della lex Genucia del 342, elevò un tempio
alla Concordia, a perenne memoria dell’avvenuta pacificazione tra le due
classi del corpo civico, e nel 304 anche l’edile Gneo Flavio dedicò un’aedi-
cula alla Concordia (Liv. 9, 46, 6; Plin. nat. 32, 6,19) per celebrare un’altra
conquista plebea, la pubblicazione dei Fasti, di cui si dirà. Si venne così a
creare una nuova oligarchia patrizio-plebea, che si riconosceva in comuni
interessi politici e aveva alla propria base un uguale potere economico: si
tratta di quella classe di governo definita nobilitas (da nobilis, ‘conosciuto’
e pertanto illustre per meriti, di contro a ignobilis, ‘oscuro’), che dai primi
del III sec. a.C. fornirà i rappresentanti del ceto a guida della res publica,
una classe non meno esclusivista di quella che l’aveva preceduta. Si pongo-
no le premesse per la creazione di frange estremiste nel proletariato urba-
no, che non si sentiva più rappresentato da questa nuova nobiltà. Da una
tale congiuntura, ancora in nuce per il tempo di cui si parla, sarà facile, per
i capi populares dell’ultimo secolo della repubblica, cogliere il destro per
nuove, rivoluzionarie, strumentalizzazioni.
48 Rosalba Arcuri
3. Magistrature e assemblee
Fonti: Sulle più antiche divisioni in tribù del popolo di Roma e la primitiva costituzio-
ne centuriata: Livio, Storia di Roma I, 42-43; Dionigi di Alicarnasso, Antichità ro-
mane II, 47, 4. Sull’assemblea centuriata: Livio, Storia di Roma VII, 43. Sull’istitu-
zione del consolato, Id., Storia di Roma I, 60, 4; Tacito, Annali XI, 22. Sui pretori
più antichi: Livio, Storia di Roma III, 55; Festo 249L; Varrone, Della Lingua latina
V, 80, 87; VI, 88; Cicerone, Sulle leggi III, 8. Pretura con compiti giudiziari: Livio,
Storia di Roma VII, 1, 1; 1, 6. Dittatura: Livio, Storia di Roma II, 18. Censura: Li-
vio, Storia di Roma IV, 24, 3-9; Dionigi di Alicarnasso, Antichità XI, 63. Origini
del tribunato: Cicerone, Sulla repubblica II, 57; Varrone, Della Lingua latina V, 81;
Livio, Storia di Roma II, 33; III, 30; Diodoro Siculo, Biblioteca XI, 68; Dionigi di
Alicarnasso, Antichità, libro VI. Istituzione dei questori: Tacito, Annali XI, 22, 3.
Edilità: Livio, Storia di Roma VI, 42, 11-14; VII, 1, 1.
so titolo, ci sarebbe stata una ripartizione tra due, divenuti consules (termine
dall’etimologia piuttosto controversa) e un terzo che, pur restando un ma-
gistrato cum imperio, autorizzato a guidare l’esercito, non aveva un potere
pari a quello collegiale dei due consoli e pur essendo una figura, per così
dire, di supporto di questi ultimi, finì per specializzarsi in compiti giudiziari
(l’editto del pretore era fonte del diritto). Anche questa evoluzione viene
ricondotta alle importanti innovazioni introdotte nel 367. Dal 242 il preto-
re sarà affiancato da un praetor peregrinus, col compito di dirimere le liti
giudiziarie tra cittadini romani e peregrini o tra peregrini residenti a Roma.
I consoli detenevano un potere sovrano: giudiziario e politico in senso
lato entro l’estensione del pomerium, militare e giurisdizionale fuori dal re-
cinto sacro di Roma (imperium domi militiaeque). Le lunghe e difficili ope-
razioni militari al tempo della seconda guerra sannitica imposero delle pro-
roghe al potere sovrano di consoli e pretori (prorogatio imperii): i benefi-
ciari di questa proroga vennero chiamati rispettivamente proconsoli e pro-
pretori e il loro ambito di competenza provincia, termine che solo successi-
vamente passò a indicare il territorio fisico extraurbano su cui si espletava
il potere del magistrato romano.
La dittatura era una carica eccezionale, di origine secondo alcuni molto
antica (età regia), cui si ricorreva in momenti di particolare difficoltà in
campo bellico. Il dittatore era nominato dai consoli a seguito di una deci-
sione del senato e durava in carica per il tempo necessario all’espletamento
del suo compito, in ogni caso mai più di sei mesi; aveva poteri assoluti e
sfuggiva – unico magistrato insieme al censore – all’intercessio dei tribuni
della plebe. I segni esteriori del suo imperium vedevano la cumulazione dei
littori dei due consoli (dunque in tutto ventiquattro), ma un tale potere su-
periore non annullava le altre cariche, solo subordinandole per il tempo li-
mitato di cui si è detto. Nei suoi compiti militari era coadiuvato da un ma-
gister equitum (comandante di cavalleria). Molto frequente nel V e IV sec.
a.C., dopo il 202 di fatto la dittatura scomparve per risorgere, profonda-
mente mutata nelle sue funzioni originarie, nel I sec. a.C.
La censura venne istituita nel 443 a.C. per sollevare i consoli del com-
pito del censimento dei cittadini, al fine di determinarne il ruolo militare e
i diritti politici all’interno delle cinque classi di censo in cui il populus era
suddiviso. Magistratura superiore aperta alla plebe solo nel 339 e tuttavia
sine imperio, le sue competenze erano state ampliate con una lex Ovinia
(Fest. 290L) di data non ben definita (ma certamente anteriore al 312 a.C.,
anno della censura di Appio Claudio), che le aveva conferito il diritto di re-
digere l’album senatorium, ovvero la lista di coloro che erano ammessi al
supremo consesso della Roma repubblicana, con l’autorità di escluderne
coloro che si fossero macchiati di indegnità. Ad essere lecti dovevano essere
gli optimi ex omni ordine. La censura divenne così la più alta autorità mo-
rale della res publica, spettandole il controllo del regimen morum all’interno
50 Rosalba Arcuri
Anche nel concilium plebis, l’assemblea dei soli plebei, il popolo era riu-
nito per tribù. Quest’organo elettivo era convocato per iniziativa di un tri-
buno della plebe ed ebbe poteri legislativi analoghi ai comizi centuriati a
partire dal 287 a.C. con la già citata lex Hortensia, che rese i plebisciti – le
decisioni che emergevano dalle riunioni della plebe – validi per tutti i Qui-
riti, non diversamente delle leges votate dal popolo riunito in centurie. I
concilia plebis eleggevano i magistrati plebei, tribuni ed edili plebei.
Il consesso di gran lungo più prestigioso, guida indiscussa della vita po-
litica romana, promotore delle principali direttive di governo in pace come
in guerra, era il senato. Cicerone nella Pro Sestio (137) dà l’esatta misura di
cosa significasse il senato, avvertito quale stabile organo di governo dell’Ur-
be, custode del passato e del presente, forza conservatrice del mos maio-
rum, le cui decisioni (senatusconsulta, espressione concreta dell’auctoritas
patruum), sebbene non formalmente riconosciute come leggi, di fatto erano
vincolanti per i magistrati e il popolo. Era costituito da 300 membri (fu poi
grandemente ampliato al tempo della dittatura di Silla e di Cesare), definiti
patres – il termine coscripti, non necessariamente da intendere come endia-
di, è considerato un’aggiunta posteriore la cui origine è variamente spiega-
ta –, che in origine furono tutti ex magistrati superiori (consoli, pretori,
censori), in un secondo momento anche ex edili ed ex tribuni. Convocato
da un magistrato superiore e presieduto dal princeps senatus, un patrizio di
rango censorio, il senato era chiamato ad esporre il suo autorevole parere su
ogni questione di interesse pubblico, orientando in modo determinante gli
affari della politica interna ed estera. Dal IV secolo l’ingresso di esponenti
plebei in senato e la conseguente formazione di una nuova nobilitas patri-
zio-plebea diedero maggior forza e autorità a questo consesso, in un delicato
momento in cui il patriziato era in declino numericamente e politicamente.
Fonti: Vicenda di Marco Manlio Capitolino: Livio, Storia di Roma VI, 11; 14-20; Dio-
doro Siculo, Biblioteca XV, 35, 3; Cassio Dione, Storia romana VII, 26, 1-3; Zona-
ra, Storie VII, 24. Guerra contro Veio e distribuzioni viritane dell’ager Veientanus:
Livio, Storia di Roma, libro V; Diodoro Siculo, Biblioteca XIV, 102, 4. Invasioni
galliche: Livio, Storia di Roma V, 33 ss.; Polibio, Storie II, 17, 3; Dionigi di Alicar-
nasso, Antichità romane XIII, 10-11; Plutarco, Vita di Camillo. Guerra latina: Li-
vio, Storia di Roma, libro VIII. Lex Poetelia sul nexum: Livio, Storia di Roma VIII,
28, 1; Cicerone, La repubblica II, 59.
monia romana, che con sottile chiaroveggenza si guardò bene dal mortifi-
care le individualità socio-politiche e culturali dei popoli che in questo pro-
cesso andò inglobando. Le dinamiche della politica interna risultarono
quasi potenziate dal metus hostilis. Il risultato finale venne raggiunto a costi
non di rado altissimi in termini di vite umane e di pesanti disagi economici,
che gravarono soprattutto sui piccoli contadini proprietari, per i quali i pe-
riodi di conflittualità prolungata interagivano negativamente con il lavoro
della terra, rendendo quanto mai vivo e presente lo spettro della carestia e
quello, forse anche più temibile, dei debiti. Livio (4, 13-14) ricorda a più ri-
prese carestie che si abbattevano sul popolo, come quella durante la quale
Spurio Melio distribuì grano ricorrendo a mezzi propri, facendo prova, se-
condo i contemporanei, di pericolosa demagogia, per cui venne doverosa-
mente eliminato dal magister equitum C. Servilio Ahala. Il problema dei de-
biti venne per l’ennesima volta alla ribalta nel 385/84 con il caso enigmati-
co di M. Manlio Capitolino, l’eroico difensore del Campidoglio al tempo
della prima invasione gallica. Nel I sec. a.C. Livio (6, 20, 4) non maschera
il proprio sconcerto nel chiedersi come si potesse giustiziare per tradimen-
to un uomo simile, che aveva tenuto sì dei discorsi sediziosi, accusando i
senatori di essersi accaparrati il tesoro gallico, ma si era poi limitato ad usa-
re le proprie risorse per liberare i concittadini dal rovinoso gravame dei de-
biti. Manlio propose forse di ridurre o addirittura cancellare i debiti, ma si
scontrò con l’ostilità tanto del senato che dei tribuni della plebe, interessati
a condividere il potere del patriziato su un piede di parità, per cui l’even-
tualità di un regime personalistico era anche da costoro avvertito come un
rischio: in conclusione, Manlio fu accusato di adfectatio regni, processato
per tradimento e giustiziato.
Su questo sfondo, cercheremo di seguire il processo evenemenziale nel-
le sue linee essenziali, evidenziando non tanto i risultati meramente militari
della conquista, quanto i riflessi che essa proiettò sulle strutture economi-
che e sociali della res publica romana nei due secoli in oggetto.
Alcuni storici individuano i prodromi della volontà imperialistica di Ro-
ma già nei primissimi contatti polemici avuti dall’Urbe con le comunità la-
tine nel V secolo, in occasione dei quali avrebbe dimostrato un’astuzia di-
plomatica già matura. Un esempio è databile al 444, quando Roma, appro-
fittando di una contesa tra Ardea e Aricia, in cui era stata chiamata come
arbitro, si annettè il territorio conteso tra le due città latine col pretesto che
esso dipendeva da Corioli, piccolo centro già inglobato da Roma. L’abile
mossa servì a creare un punto di passaggio verso la piana pontina e ad evi-
tare che la Lega latina – a cui Roma era legata dal risalente foedus Cassia-
num – traesse da sola i vantaggi delle vittorie su Equi e Volsci.
La tradizione annalistica confluita in Livio ricordava, per tutta la prima
metà del V secolo, incessanti guerre tra romani e sabini, da cui le discussio-
ni di Mommsen e di Pais, che ne parlavano in termini di conquista, il pri-
Dal decemvirato legislativo alla censura di Appio Claudio 55
prima metà del IV s., per cui la legge agraria, se autentica, si sarebbe limitata ad am-
mettere i plebei all’utilizzo dell’agro pubblico, posizione risalente a Tibiletti e prima
ancora al Niese (1888), seguita pure da Marta Sordi, che vede nel provvedimento il ri-
conoscimento di un diritto di parità tra patrizi e plebei, “la riduzione a norma dell’an-
tico regolamento consuetudinario de modo agrorum, e non …assegnazione immediata
di terre”. Secondo altri studiosi invece, apparirebbe ingiustificata una diffidenza così
radicale nei confronti della tradizione, la quale potrebbe sì risentire di influenze di età
graccana, ma non al punto da essere rigettata in toto. Anche su questo versante non
mancano autorevoli difensori: Münzer, Last, Frank, De Martino, Kolendo e il suo al-
lievo Ziolkowski, che danno risalto ad App. b. c. 1, 33, locus che completa le notizie di
Liv. 6, 35, 5 e Varr. de r. r. 1, 2, 9. A sua volta Cassola ricorda una legge nota a Liv. 10,
13, 14 per il 298, in forza della quale molti cittadini vennero multati per il possesso il-
legale di agro pubblico, disposizione non nuova per quel tempo e che pertanto doveva
risalire al IV secolo. Non è escluso, come ha pensato Scullard (sulla scorta di Gell. 6,
3, 37 e App. b.c. 1, 8, 33), che la legge contenesse norme per limitare il numero di capi
di bestiame (100 capi di bestiame grosso e 500 minuto) pascolanti sull’ager publicus,
anche questo riflesso del conflitto d’interessi economici tra i patrizi allevatori e i plebei
interessati allo sfruttamento agricolo dei terreni pubblici.
Quale che sia lo spirito della legge, le condizioni economiche dei plebei
potevano risollevarsi in effetti solo con l’assegnazione viritana di terre, con
la deduzione di colonie, con l’ampliarsi dei traffici commerciali e, conse-
guente a quest’ultimo, con lo sviluppo delle attività artigianali. E quale che
sia stato il risultato effettivo di queste leggi, esse hanno il merito di aver sot-
tolineato ancora una volta quali erano i problemi socio-economici della ple-
be e del popolo minuto in genere: la richiesta di terre e i debiti. Ancora in
età imperiale Aulo Gellio (20, 1, 45-52) ricorda l’infelice condizione dei
nexi, i debitori ridotti in schiavitù, passibili di essere obbligati al lavoro for-
zato, venduti come schiavi o addirittura uccisi. In considerazione del mol-
tiplicarsi di leggi promulgate nel IV secolo per risanare questa situazione,
si può ben concludere che essa in questo torno di tempo fosse davvero al
centro delle preoccupazioni della res publica. Dieci anni dopo il plebiscito
che Livio attribuisce a L. Duilio e M. Menenio nel 357 – lo stesso che limi-
tava il tasso d’interesse, legge da Tacito fatta risalire alle XII Tavole (supra)
– venne concessa ai debitori una nuova moratoria di tre anni (Liv. 7, 27, 3-
4). Nel 342 si verificò una grave crisi politica, quando dei soldati romani di
stanza in Campania si ribellarono perché, oberati dai debiti, avvertirono
dolorosamente il contrasto tra la loro povertà e l’opulenza delle terre cam-
pane che erano stati chiamati a difendere (Liv. 7, 38-42). In questo clima di
profondo disagio la tradizione colloca l’approvazione della lex Genucia,
con cui si giunse a proibire il prestito ad usura, ma da provvedimento
estemporaneo e poco realista qual era, era destinata ad essere evasa e pre-
sto revocata, benché tanto Tacito (Ann. 6, 16, 3) che Appiano (B.c. 1, 54)
ricordino tempi in cui era fatto assoluto divieto di prestare ad usura. Nel
352 venne istituita la commissione dei quinqueviri mensarii col compito di
Dal decemvirato legislativo alla censura di Appio Claudio 61
rifiuto opposto da Roma alla proposta, da parte latina, di formare uno stato
unitario sarebbe scoppiata la guerra, conclusasi nel 338 con lo scioglimento
definitivo della Lega latina, l’annessione dell’ager Falernus, l’avvio di una
nuova ondata di colonizzazione agraria, con la creazione, ai piedi dei colli
Tav. 5 - Gli stanziamenti delle popolazioni celtiche in Italia nel IV secolo a.C.
Dal decemvirato legislativo alla censura di Appio Claudio 63
di genti di stirpe sabellica segnò una svolta epocale nella storia delle an-
tiche genti d’Italia e dei loro equilibri interni. In questi anni, la colonia
spartana di Taranto doveva fare i conti con Iapigi e Messapi, bellicosi po-
poli anellenici suoi vicini e Dionisio I di Siracusa fronteggiava gli attac-
chi dei Siculi, non ancora domi dopo il fallito tentativo di Ducezio di crea-
re in Sicilia una lega in funzione anti-siceliota, situazioni tutte che raffor-
zano nei moderni l’impressione che in Italia e nelle isole, allo spirare del V
secolo, si assiste ad una sorta di rivolta dei popoli autoctoni contro la ci-
viltà aristocratica di cui Etruschi e Greci erano portatori. In realtà, non
è difficile rinvenire all’interno di queste dinamiche storiche cause di ti-
po economico, più che culturale, in grado di spiegare plausibilmente l’in-
sorgere di una simile pressione sui più evoluti e urbanizzati popoli Etruschi
e Greci.
Nonostante l’archeologia dell’Italia preromana abbia compiuto negli
ultimi decenni notevoli passi avanti, resta tuttavia difficile cogliere appie-
no le peculiarità dei popoli italici basandosi unicamente sull’evidence ar-
cheologica, laddove forse più soddisfacente sub specie historica è l’indi-
viduazione di ‘stili economici’ così diversi da segnare uno spartiacque tra
due Italie. Infatti le condizioni economiche privilegiate della grande pia-
nura tirrenica finirono per suscitare la cupidigia dei montanari dell’entro-
terra – Liguri, Volsci, Equi e Sanniti –, che mirarono a soppiantare gli abi-
tanti di quella florida regione con la forza. Proprio la spinta verso le pianu-
re del Lazio da parte di Equi e Volsci, poi fermata da latini e romani con-
giunti, è meglio spiegabile se la si fa risalire a sua volta alla pressione delle
genti sabelliche, premute verso il sud, come in un effetto-domino, da Etru-
schi e Piceni. Sono dunque soprattutto motivazioni economiche che spie-
gano la mobilità dei popoli appenninici, tra cui i Sanniti, che scendevano
in pianura seguendo l’antichissimo rito del ver sacrum, col quale si consa-
crava tutta una nuova generazione all’esilio verso terre migliori, unica val-
vola di sfogo demografico ad un’economia pastorale povera, praticata sfrut-
tando i tratturi interni, di contro al privilegiato asse stagionale Umbria-La-
zio sfruttato per il grande allevamento transumante. Sono queste le dina-
miche che portarono genti di stirpe osco-sabellica – nelle fonti classiche no-
te generalmente come Samnites – ad impadronirsi dell’etrusca Capua e del-
la greca Cuma nell’ultimo quarto del V sec. a.C., venendo così a contatto
con le due grandi civiltà dell’Italia antica e dando vita ad uno stato osco-
campano e ad una forma di cultura originale, nell’ambito della quale i c.d.
equites Campani, rappresentanti dell’aristocrazia osco-sannita, detenevano
il potere politico. Si crearono così in Campania tre federazioni di popoli:
quella campana, con capoluogo Capua, quella nucerina e quella nolana;
tutte nel IV secolo avevano assorbito proficuamente gli apporti del mondo
culturale greco-etrusco, tanto da sentire a sé più affine l’ambiente romano-
latino che non quello dei popoli appenninici, rimasti legati a povere forme
Dal decemvirato legislativo alla censura di Appio Claudio 65
ti arcaici dei fetiales e al concetto di bellum iustum, avvertita quale forza di-
vina e per ciò stesso divinizzata –, obbligava moralmente i Romani all’in-
tervento in Campania contro i loro precedenti alleati. I moderni, dinanzi al
racconto confuso e improbabile di Livio, pieno di duplicazioni, negano
fondamento storico a questa prima guerra romano-sannita, il cui resocon-
to peraltro soffre pesantemente nel confronto con le altre fonti, in primis
Diodoro, che non mostra di conoscere altra guerra tra Roma e il Sannio
prima del 327. Alcuni studiosi (Sordi, Brizzi) hanno proposto una cronolo-
gia alternativa (336-334 varr. [332-330]), posposta in rapporto alla conclu-
sione della guerra latina e causata dalla pressione esercitata dai Sanniti su
città e popoli ormai posti sotto la protezione di Roma, come Capua e i Si-
dicini di Teano.
Nel 328 l’insediamento della colonia di Fregelle aveva finito per sbar-
rare ai sanniti la strada della valle del Liri verso la Campania, nonché ogni
accesso verso la costa occidentale. Inoltre, la spinta verso la costa da par-
te dei Sanniti sarebbe risultata intollerabile non solo per i Campani, ma an-
che per gli Apuli, la cui alleanza con Roma sembrava prospettare un accer-
chiamento del Sannio. Nel 327 scoppiò un conflitto interno a Napoli tra le
sue due parti, quella dei Paleopolitai, forse antichi esuli da Cuma, favore-
voli ai Sanniti al punto da accoglierne in città una guarnigione, e quella del-
la ‘citta nuova’, Neapolis appunto, che, con l’appoggio di Capua, chiese
aiuto ai romani per liberarsi dei Sanniti. Il compito di condurre l’assedio
venne affidato al console Q. Publilio Filone, a cui la tradizione attribuisce
le leges Publiliae di cui si è detto. Per molti aspetti Filone fu una figura ri-
voluzionaria di questi anni. Nel 339 era stato nominato dittatore dal suo
collega nel consolato Ti. Emilio Mamercino e la sua era stata una dittatura
‘popolare’ a detta di Livio, perché aveva promosso le tre leggi secundissi-
mae plebi di cui sopra; nel 337 era stato il primo praetor plebeo, nel 327,
console per la seconda volta (lo sarà ancora nel 320 e nel 315), fu il primo
a vedersi ufficialmente prorogare l’imperium consolare per impellenti esi-
genze belliche: racconta infatti Livio (8, 23, 12) che i tribuni fecero pressio-
ne affinché Filone pro consule gereret finché non si fossero concluse le ope-
razioni a Napoli (e difatti proprio durante le operazioni contro i Sanniti si
rese necessario più volte disattendere una delle leggi Genucie del 342, che
vietava la reiterazione di una stessa carica prima che fossero trascorsi dieci
anni). Inoltre Roma si vide costretta in questa occasione a mutare la sua tat-
tica bellica, passando dalla tattica oplitica allo schieramento manipolare,
più agilmente adattabile al combattimento in aree montuose, come l’amara
lezione delle Forche Caudine (321) non mancò di insegnare, per cui
un’ambiziosa manovra di accerchiamento per giungere nell’Apulia attraver-
so l’Appennino – dove peraltro erano stati assoggettati i Vestini e tratti
nell’alleanza romana Marsi e Peligni – si concluse nell’umiliante disastro
dei soldati romani fatti passare sotto un giogo di lance nemiche. Venne si-
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Appio Claudio è l’unico uomo politico romano che per l’età medio-re-
pubblicana possa essere confrontato ai grandi del II-I sec. a.C., tanto da
giustificare l’affermazione che con questo personaggio cominci l’autentica
fase storica di Roma (Piganiol). La censura di Appio Claudio fu un mo-
mento rivoluzionario degli assetti sociali a Roma nel tardo IV secolo e di
essa abbiamo un resoconto completo – e per molti tratti scandalizzato – nel
Dal decemvirato legislativo alla censura di Appio Claudio 71
libro IX di Livio e in Diodoro Siculo (20, 36, 1-6), fonti (specie la prima)
che spesso riflettono correnti della tradizione ostili alla gens cui il censore
apparteneva. Il suo elogium si leggeva ancora in età augustea ad Arezzo
(CIL XI, 1827) e in esso si insiste sulle numerose magistrature da lui rive-
stite. Diodoro dice che Appio Claudio, nel tentativo di accattivarsi il favore
popolare, non si curò del senato, anzi, gli recò apertamente offesa con l’am-
mettere nel prestigioso consesso i figli dei liberti. Permise poi ai cittadini di
iscriversi in quale tribù volessero, ma, per non inasprire ulteriormente l’o-
ligarchia senatoria, non escluse nessuno dall’albo per indegnità, né privò al-
cuno del cavallo pubblico. I consoli, che l’avevano in odio, convocarono il
senato non secondo l’albo da lui redatto, ma sulla base della redazione dei
precedenti censori. Il popolo, che era favorevole a queste innovazioni per-
ché sperava in un miglioramento delle proprie condizioni, nel 304 a.C. eles-
se edile curule un plebeo figlio di un liberto, Gneo Flavio, cliente di Appio
Claudio. Diodoro aggiunge che Appio, dopo aver deposto la carica di cen-
sore, che aveva detenuto oltre i diciotto mesi prescritti dalla lex Aemilia
(vd. supra), si rintanò a casa propria fingendosi cieco allo scopo di sfuggire
all’odio implacabile del senato. Le nostre fonti lo ricordano per la costru-
zione della grande via da Roma a Capua che da lui prese il nome (via Ap-
pia), le prime dieci miglia della quale furono selciate nel 293 grazie ai pro-
venti delle multe inflitte ai possessori abusivi di ager publicus (Liv. loc. cit.),
e ancora per l’aqua Appia, che portava l’acqua dell’Aniene a Roma da una
distanza di nove miglia; fece costruire anche un tempio a Bellona, omaggio
alla dea della guerra e insieme segno consapevole della potenza romana,
nonché, forse, simbolo della penetrazione a Roma dell’ideologia ellenistica
della vittoria (Crawford). La tradizione confluita in Livio, ostile ai Claudii,
dice che egli come censore fu funesto all’integer populus, e si appoggiò
piuttosto alla turba forensis, da intendere molto probabilmente come il ceto
mercantile e affaristico in rapida ascesa a questo tempo, infoltito dall’ap-
porto di immigrati latini, di liberti e figli di liberti e i cui esponenti, deten-
tori di ricchezza mobile, erano comunque costretti ad intrupparsi nelle
quattro tribù urbane (quattro di contro alle ventisette tribù rustiche esi-
stenti in quegli anni). Per la precisione, Livio (9, 34, 11) dice che Appio,
avendo diviso gli humiles in tutte le tribù, forum et campum corrupit, con
allusione al Foro, dove si riunivano i comizi tributi, e al Campo Marzio, se-
de dell’assemblea centuriata. Con la sua riforma, che permetteva ai membri
della popolazione urbana di registrare se stessi e i propri beni anche nelle
tribù rustiche, Appio Claudio consentiva a costoro di infiltrarsi tra i pro-
prietari terrieri che non sempre avevano la possibilità di venire a Roma a
far valere il proprio voto, e ciò tanto più dopo che il criterio maggioritario
dei comizi tributi si era andato meglio definendo, facendo emergere il cit-
tadino individualmente, rispetto ai comizi centuriati, dov’era prevalente il
voto timocratico.
72 Rosalba Arcuri
Non meno scandalo suscitò l’ammissione dei libertini nel senato. Una
linea politica apparentemente così demagogica sembra in stridente contra-
sto con la viva opposizione mostrata dal nostro al plebiscito Ogulnio, con
cui si ammettevano i plebei nei collegi degli àuguri e dei pontefici. Tali con-
traddizioni hanno fatto spendere i proverbiali fiumi d’inchiostro agli storici
moderni, per i quali Appio Claudio non sarebbe stato altro che un dema-
gogo antesignano di Cesare (Mommsen) e, ancora prima, un reazionario
ostile alla nuova nobilitas patrizio-plebea (Niebuhr). Maggiore credibilità
sembra avere la posizione di Staveley, per cui Appio avrebbe caldeggiato
una ristrutturazione degli assetti socio-economici con l’appoggiare i ceti
mercantili, favorendo così l’evoluzione della Roma del IV secolo da centro
eminentemente agricolo a potenza in cui agricoltura e interessi commerciali
avessero importanza uguale e complementare.
Una corrente di pensiero moderna vede i Claudii legati alla plebe urba-
na, e i Fabii ai ceti contadini: il contrasto avrebbe raggiunto la sua acmè al
tempo della censura di Appio Claudio e poi di quella di Fabio Rulliano
(304 a.C.), il quale si affrettò, insieme al collega P. Decio Mure, a cancellare
la riforma relativa alle tribù varata dal suo predecessore, consentendo al
“popolo senza terra” di iscriversi solo nelle tribù urbane. Storici e giusro-
manisti attribuiscono inoltre ad Appio, perché conforme al suo orienta-
mento ‘democratico’, il provvedimento che ammetteva come base del cal-
colo patrimoniale non solo le proprietà terriere ma anche i beni mobili, per
cui un ricco mercante poteva essere iscritto nella prima classe di censo,
quella, per intenderci, che forniva ben 98 delle 193 centurie e il cui voto
all’interno dei comizi centuriati era determinante. Un’ennesima vittoria ri-
portata dalla plebe fu dovuta indirettamente ad Appio Claudio. Lo scriba
plebeo Gneo Flavio, durante la sua edilità curule del 304, ottenuta, sempre
a detta di Livio (9, 46, 10), con l’appoggio della forensis factio, rese pubbli-
co il diritto civile custodito fino a quel momento negli archivi dei pontefici
ed espose nel foro il calendario dei giorni fasti, in modo che tutti i cittadini
sapessero in quali giorni potevano svolgersi le azioni legali. Il giurista Pom-
ponio (D. 1, 2, 2, 7) ricorda questa fondamentale innovazione nel processo
di “laicizzazione” del diritto, dicendo che era stato Appio Claudio a redi-
gere in forma chiara le legis actiones: il suo scrivano Flavio rubò il libro e lo
presentò al popolo, che fu così felice da nominarlo, lui semplice scriba, tri-
buno della plebe, senatore ed edile curule. Nacque così quello che i giuristi
chiamano ius civile Flavianum, fondamento del diritto civile in età repub-
blicana.