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STORIA DI ROMA

DALLE ORIGINI ALLA TARDA ANTICHITÀ

Rosalba Arcuri - Elena Caliri - Claudia Giuffrida - Ariel Lewin


Rosalia Marino - Attilio Mastrocinque - Laura Mecella
Concetta Molè - Daniela Motta - Antonino Pinzone
Umberto Roberto - Rita Sassu - John Thornton

coordinamento di
Mario Mazza

EDIZIONI DEL PRISMA


SEZIONE II

DAL DECEMVIRATO
ALLA SECONDA GUERRA PUNICA

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1. Fons omnis publici privatique iuris


Fonti: Livio, Storia di Roma dalla fondazione, libro III; Dionigi di Alicarnasso, Anti-
chità romane, libro X; Diodoro Siculo, Biblioteca storica XII, 23-26; Cicerone, La
repubblica II, 31, 54; 36, 61 ss.; Id., Sulle leggi II, 25, 64. I frammenti delle leggi
delle XII Tavole si possono leggere in S. Riccobono et alii, FIRA I 2, 70. Legge Ca-
nuleia: Livio, Storia di Roma IV, 1 ss.

L’autentico momento ‘rivoluzionario’ nella lotta socio-politica tra gli


ordini durante il V secolo è da più parti individuato nell’azione del decem-
virato legislativo, sotto molte specie svolta risolutiva a uno stato di tensione
tra patriziato e plebe di cui, pur in questa fase piuttosto risalente, si vorreb-
bero già individuare motivazioni economiche. La contrazione economica,
vistosamente evidenziata dal dato archeologico e successiva alla fine del pe-
riodo monarchico, dovette colpire in modo drammatico i piccoli proprie-
tari, gli artigiani, i commercianti, le cui attività in special modo risultarono
danneggiate dal declino degli scambi, testimoniato per la metà del V secolo
dalla pressoché totale scomparsa di ceramica attica a Roma (le importazioni
riprenderanno solo alla fine del secolo).
È un dato acquisito che, se i risultati meramente politici di una legisla-
zione mirante ad erodere le barriere tra i due ordini diventavano strumento
di autoaffermazione da parte dei plebei ricchi, d’altra parte gli immediati
risvolti economici di alcune conquiste alleviavano le condizioni del popolo
minuto, spesso vittima dell’arbitrio dei magistrati patrizi. Da questo punto
di vista, sebbene con tratti più marcatamente giuridici, la codificazione del-
le leggi delle XII Tavole è giustamente ascritta dalla stessa tradizione sto-
riografica alla vicenda della lotta tra patriziato e plebe, che non per nulla si

* Università degli Studi di Messina.


40 Rosalba Arcuri

dice iniziata proprio al principio del V secolo, con la prima e più famosa
tra le cinque secessioni operate dalla plebe tra 494 e 287 a.C.
La tradizione confluita in Livio e in Dionigi pone a premessa della più
antica codificazione romana l’iniziativa del tribuno della plebe Gaio Teren-
tilio Arsa, che nel 462 avanzò la proposta della creazione di una commissione
di cinque magistrati con potestà consolare col compito di redigere un codice
di leggi scritto, uguale per tutti e per sempre, anche al fine di fissare e limita-
re l’imperium, di cui i patrizi facevano un uso spesso arbitrario. Dopo circa
un decennio di lotte, nel 451 venne istituita una commissione di decemviri le-
gibus scribundis, previo l’invio di una delegazione in Grecia (o in Magna Gre-
cia) per studiarvi i sistemi legali in uso presso i greci. Il ‘prodotto’ di questa
prima commissione decemvirale, tutta formata da patrizi, furono dieci tavole,
il cui contenuto venne sanzionato dai comizi centuriati. Ma poiché l’opera
non era ancora terminata, l’anno successivo venne creata una seconda com-
missione, del tutto rivoluzionata nei suoi componenti – tranne che per il ca-
po, Appio Claudio – e includente dei plebei. Questa commissione fu però
iniqua, come inique furono le due ultime tavole, aggiunte alle prime dieci, ri-
sultanti dal suo operato, che ribadivano la schiavitù per debiti e davano san-
zione legale a quello che prima dovette essere per lo più un fatto consuetu-
dinario, ovvero il divieto di connubium tra patrizi e plebei. Si rese necessaria
una nuova secessione plebea per scacciare i dieci commissari, divenuti quasi
dei tyranni, poiché aspirarono a mantenersi al potere arbitrariamente anche
nel 449, insieme al famigerato Appio Claudio, un patrizio colpevole di aver
insidiato la giovane plebea Virginia, provocandone indirettamente la morte.
Il racconto tradizionale va ovviamente sfrondato di molti particolari
(specie quelli riguardanti la seconda commissione), che ad un vaglio anche
superficiale della critica non resistono. Sospetta è la presunta ambasceria in
Grecia: è vero che Cicerone (Leg. 2, 25, 64) riconosce la derivazione di al-
cune delle Leggi delle XII Tavole dal codice di Solone; che la comunità dei
plebei – per iniziativa della quale vide la luce il codice – mostra già nel V
secolo più stretti legami con la Magna Grecia e la Sicilia, abitate da popoli
dove più vive erano l’aspirazione alle riforme politiche e la tradizione di
contenuti legislativi scritti; che le norme contro il lusso dei funerali rivele-
rebbero l’influsso greco e, di contro, l’allontanamento dall’opulenza etru-
sca; ma è stato anche giustamente notato che scopo ultimo della commis-
sione decemvirale era il fissare per iscritto norme del diritto consuetudina-
rio, sottraendole così, nel passaggio dall’oralità alla scrittura, all’arbitraria
interpretazione dei patrizi, più che produrre leggi nuove.
Si tratta di un’ipotesi suggestiva, che trova un’eco nella riflessione di W. Eder, il qua-
le, notando che le XII Tavole, pur essendo una curiosa mescolanza di conservatorismo
e progresso, sembrano fissare per iscritto norme preesistenti, mostrano punti di con-
tatto con altre codificazioni “aristocratiche”, di cui l’autore fa un’analisi comparata, con-
clude col riconoscere in esse la volontà dei gruppi oligarchici di autoregolamentarsi.
Dal decemvirato legislativo alla censura di Appio Claudio 41

Sospetto è anche l’elenco dei commissari plebei – Poetilius, Antonius,


Rabuleius, Duilius, Oppius –, dove emergono gentes che avrebbero trovato
definitiva affermazione politica non prima del II sec. a.C. Sarebbe dunque
del tutto inventata, stando al parere pressoché unanime degli studiosi mo-
derni, l’inclusione di elementi plebei nella seconda commissione, anche
perché solo i patrizi godevano del privilegio di trattare il diritto, e del resto
non ha molto senso una secessione plebea per scacciare elementi plebei
giunti al potere, sia pure facendo palesemente violenza all’ordinamento co-
stituzionale romano. La stessa figura di Appio Claudio, con i suoi tratti ti-
rannici, è considerata riflesso retrospettivo dell’odio suscitato dall’operato,
giudicato demagogico, dell’omonimo censore del 312 (vd. § 6).
Il contenuto delle leggi venne messo per iscritto su tavole di bronzo o
di legno, affisse nel Foro perché fossero a tutti visibili. Esse non ci sono
giunte – la tradizione le vuole perite nell’incendio gallico del 390 – ma mol-
tissimi autori latini posteriori ci hanno tramandato gran parte del loro con-
tenuto, sebbene in una forma linguistica “modernizzata”, che non ne altera
però il sostanziale dettato. Giunte a noi solo per tradizione indiretta, giu-
dicate addirittura inautentiche per il secolo che le avrebbe prodotte e spo-
state alla fine del IV secolo (Pais) o addirittura all’inizio del II sec. a.C.
(Lambert), furono considerate da Livio “la fonte di tutto il diritto pubblico
e privato” (3, 34, 6), mandate a memoria dai giovani nella tarda repubblica
di Cicerone ed esposte pubblicamente nei Fora nei secoli della Tarda anti-
chità, quasi a perenne memoria della sapienza giuridica romana.
Riecheggiando la nota frase di Livio su ricordata, le leggi delle XII Ta-
vole fissavano i principali diritti e doveri nell’ambito del diritto privato, con-
cernenti la proprietà e la famiglia, entro la quale si introducevano limiti alla
potestas del paterfamilias e maggiore libertà per la moglie in tema di usus
matrimoniale. Le norme severe per la salvaguardia dei raccolti, del bestiame
e delle proprietà in genere ci restituiscono i tratti essenziali di una società
contadina arcaica, la cui ricchezza si fondava esclusivamente sulla terra, una
società in cui permaneva la legge del taglione e la spietata severità nei con-
fronti dei debitori insolventi, che potevano essere venduti trans Tiberim.
Non sappiamo quanto letteralmente si debba interpretare la norma che autorizza
lo smembramento del corpo del debitore a beneficio dei vari creditori: secondo alcuni
la sectio si riferirebbe piuttosto alla sectio bonorum, ma a questo punto c’è da chiedersi
se valesse per un’epoca così risalente una garanzia sul debito che avesse per oggetto i
bona o non soltanto, com’è più probabile, la persona fisica del debitore, che appunto
in virtù del nexum diventava schiavo del creditore. Si è inoltre notata la totale assenza
nel codice in oggetto di qualunque riferimento ad una suddivisione del popolo in pa-
trizi e plebei in un’epoca in cui già molto accesa era la lotta tra gli ordini, quanto piut-
tosto in assidui (ricchi, o comunque proprietari terrieri) e proletarii (poveri).
Ancora in tema di proprietà, le leggi sancirono le modalità del passaggio dal pos-
sesso alla proprietà quiritaria mediante la promulgazione di norme sull’acquisizione di
res mancipi o di altre forme di ricchezza; nel primo caso, si stabilì che le formule solen-
42 Rosalba Arcuri

ni recitate al momento della mancipatio generavano un’obbligazione. Nella sfera del


diritto pubblico, le XII Tavole proibiscono la promulgazione di leggi speciali e auto-
rizzano a comminare condanne capitali solo il c.d. comitiatus maximus, identificato ge-
neralmente nell’insieme del populus inquadrato nei comitia centuriata.

Dal punto di vista strettamente economico, i riferimenti all’aes signatum


fanno pensare ad un’economia pre-monetaria, dove il metallo veniva pesato
durante le transazioni per il suo valore intrinseco; nessuna menzione dell’a-
ger publicus, per un’epoca in cui questa categoria di terreni non poteva es-
sere significativamente estesa. Tacito (Ann. 6, 16, 3) ricorda che le XII Ta-
vole limitavano l’interesse sul denaro prestato all’unciarum foenus (8 ½ o
12%), ma è molto probabile che questo tasso di interesse sia stato fissato
solo nel 357 con la rogatio de unciario fenore che Liv. 7, 16, 1 attribuisce ai
tribuni M. Duilio e L. Menenio.
Sebbene sia quasi unanimemente riconosciuto il carattere di conquista
plebea all’introduzione di un primo codice scritto di leggi, non vanno tut-
tavia trascurati i limiti di tale conquista. Giusto nel campo del diritto, le ac-
tiones, le formule verbali con cui si conducevano le azioni giudiziarie, re-
stavano esclusivo appannaggio dei pontefici patrizi, che ne rimasero gelosi
custodi fino alla loro pubblicazione, un secolo e mezzo più tardi, ad opera
di Gneo Flavio (vd. infra). Inoltre, il divieto di connubio tra patrizi e ple-
bei, ancor più inspiegabile se lo si ascrive all’operato della presunta secon-
da commissione decemvirale composta per metà da plebei, variamente in-
terpretato, sembra davvero l’estremo tentativo, da parte patrizia, di forma-
re una casta chiusa, forse per rispondere ai primi tentativi di fusione tra i
due ordini.
J. Linderski, che ha studiato gli aspetti religiosi del conflitto patrizio-plebeo, ha
approntato un’accurata esegesi di Liv. 4, 6, 2, in cui si dà giustificazione dell’iniqua
legge (ne incerta prole auspicia turbarentur): una simile argomentazione sarebbe stata
frutto della speculazione dei patrizi più conservatori e avrebbe mirato a colpire non
tanto i plebei desiderosi di imparentarsi con loro, quanto quei patrizi spesso inclini a
legarsi ai ricchi plebei per mezzo di matrimoni economicamente vantaggiosi. In tal ca-
so, il potere economico sarebbe stato ad un passo dal tramutarsi in potere politico, un
punto che si comprende bene leggendo le pagine dedicate da Giovanni Brizzi al con-
nubium quale efficace strumento di intesa tra ceti dirigenti anche in ambiente italico,
dove una delle basi per l’allargamento dei gruppi gentilizi fu appunto il ius connubii,
che Roma oculatamente toglieva alle popolazioni non inglobate (cfr. Liv. 8, 14, 10),
prevenendo così i potenziali legami tra aristocratici resistenti alla sua egemonia, lad-
dove proprio il connubium permetteva ai romani di assorbire forze fresche dalle aree
limitrofe. Sarà questo diritto uno degli inneschi per la formazione della nobilitas patri-
zio-plebea, in quanto le unioni con donne plebee, per l’acquisizione della manus, por-
tavano all’integrazione col patriziato (De Visscher). Il cristallizzarsi di una situazione
di divisione, che all’interno del corpo civico avrebbe assunto un carattere quasi ‘raz-
ziale’ (Sordi), condannando naturalmente all’estinzione il patriziato (del resto alla fine
del V secolo si contano solo sei gentes maiores in seno al patriziato: gli Aemilii, i Cor-
Dal decemvirato legislativo alla censura di Appio Claudio 43

nelii, i Claudii, i Fabii, i Manlii e i Valerii), venne impedito nel 445 dalla lex Canuleia,
che ripristinò il ius connubii tra patrizi e plebei.

La duttilità e la chiaroveggenza dimostrate dalla plebe già nella propo-


sta di legge avanzata dal tribuno del 462 porta giustamente a concludere
che “le XII Tavole non furono la vittoria di una parte sull’altra ma il com-
promesso concluso dalle ali moderate di entrambe” (Ziolkowski).

2. Concordia ordinum

Fonti: Leggi Valerie-Orazie: Livio, Storia di Roma III, 55, 4-5; Cicerone, La repubblica
II, 31, 54; Id., In difesa di Publio Sestio XXX, 65; Diodoro Siculo, Biblioteca XII, 25.
Creazione dei tribuni militari con potestà consolare: Livio, Storia di Roma IV, 7, 2;
Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane XI, 59 s. Legge Ogulnia: Livio, Storia di
Roma X, 6, 3; 9, 2; leggi Licinie-Sestie, Publilie, Genucie: Livio, Storia di Roma, libri
VI-VIII; legge Ortensia: Livio, Periochae 11; Plinio il Vecchio, Storia naturale 16, 37.

Nel lungo conflitto per la parificazione degli ordini, durato, secondo la


tradizione, dal 494 al 287, motivazioni politiche ed economiche s’intreccia-
no quasi inestricabilmente, sebbene le diverse correnti storiografiche mo-
derne tendano ad esaltare questo o quell’aspetto, laddove ci si trova di
fronte, come già detto, a situazioni spesso drammaticamente compresenti.
La tendenza prevalente oggigiorno è quella di subordinare l’aspetto di con-
flitto sociale tra ricchi e indigenti a quello della lotta per la parificazione dei
diritti civili e politici, perseguito in primo luogo dagli esponenti più facol-
tosi della plebe, che avrebbero da un lato ben accettato l’uso di criteri ti-
mocratici – le cariche erano honores e pertanto rivestite a titolo gratuito da-
gli esponenti della classe di governo – ma anche lottato per l’instaurarsi di
princìpi meritocratici. L’impressione che la lotta sostenuta dai plebei con-
tro i privilegi patrizi scaturisse in primo luogo dai disagi economici, come
il problema dei debiti, la distribuzione delle terre, la riduzione delle leve,
sarebbe stata artificiosamente costruita dalla tarda annalistica, contempo-
ranea alle lotte tra optimates e populares, che avrebbe conferito a Spurio
Melio, a M. Manlio Capitolino, a Licinio Stolone i tratti dei Gracchi, di Sa-
turnino, di Gaio Mario (Sordi). Così, da un lato si sottolinea la violenza im-
plicita a questa secolare lotta tra gli ordini, in quanto le secessioni armate
della plebe e il ricorso alla violenza avrebbero costituito una sorta di “mito
fondante” per le lotte dei populares nella tarda repubblica (Lintott), dall’al-
tro si afferma che la tradizione romana è concorde nel negare ogni caratte-
re sanguinoso al conflitto tra patrizi e plebei, che avrebbe rivelato questi
tratti solo al tempo dei Gracchi (Sordi). Tuttavia, quanto travaglio debba
riconoscersi in questo lungo processo di politica interna è testimoniato da
Cicerone (De or. 2, 199), che giustifica la violenza di parecchie sedizioni
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della plebe come inevitabile, poiché grazie ad esse si ottennero molte con-
quiste ‘costituzionali’: si diede forza di legge ai plebisciti e si crearono i tri-
buni, fiaccando così lo strapotere dei consoli, onde sorge viva l’impressione
che la violenza nella lotta tra gli ordini, aspetto senz’altro presente anche
nella storia arcaica di Roma, sia stato nelle fonti volutamente sfumato, per-
ché si trattava di un ricordo scomodo, da epurare conferendogli una patina
di civile dialogo e mutua responsabilità. Sfumature. Ben più importante ri-
sulta la riflessione storiografica sulle cause profonde del conflitto, dove le
motivazioni economiche avevano comunque il loro momento importante.
La c.d. lex Icilia de Aventino publicando ricordata dalle fonti per il 456
(Liv. 3, 31, 1; Dion. Hal. 10, 32, 4), che stabiliva la vendita di terreni su
quel colle, destinati alla costruzione di case per i plebei, sembrerebbe ri-
mandare ad una vittoria della plebe, che reclamava il diritto di fruire di ap-
pezzamenti dell’agro pubblico contro i patrizi allevatori desiderosi di sfrut-
tarlo per il pascolo (Piganiol); proprio queste prime conquiste hanno fatto
pensare che alla base delle dinamiche di graduale integrazione della plebità
col patriziato sia individuabile una strumentalizzazione delle istanze di ca-
rattere economico della massa dei diseredati da parte dei plebei economi-
camente più forti (Càssola). Si comprende il potenziale di una simile stru-
mentalizzazione, quando si pensi alla fascia più intraprendente della nuova
plebe di artigiani, tecnici, mercanti, che la monarchia etrusca aveva intro-
dotto a Roma, e che risultò maggiormente danneggiata dal ripiegamento
economico seguìto alla cacciata dei Tarquinii, quando la reazione del patri-
ziato tese più che mai alla loro marginalizzazione, per cui essi contrattacca-
rono con intelligenza, contando in primis sull’aggregazione dei ceti econo-
micamente più deboli e facendo proprie le rivendicazioni di questi. Sotto
la specie economica, la contesa tra patrizi e plebei sarebbe simboleggiata
dalle differenze nei modi di sfruttamento dell’ager publicus, con i patrizi
che avrebbero lottato per l’accaparramento di porzioni sempre più ampie
di terra da sfruttare mediante forme di lavoro dipendente, basato sulla ma-
nodopera di liberi senza terra, confluiti poi nella clientela del patriziato, e
i plebei, che aspiravano alla distribuzione dell’agro pubblico in lotti in pro-
prietà privata (Lo Cascio).
Tutte le posizioni dei moderni, come spesso accade, contengono una
parte di verità e una buona dose di condivisibilità. Il dato di fatto osserva-
bile è che abbastanza presto le stesse norme per la difesa dei privilegi del
patriziato e del suo patrimonio non furono giustificate da una reale supre-
mazia economica nei confronti della plebità. Ma lo scoglio più difficile da
superare per i non patrizi risiedeva nell’aura sacrale di cui erano avvolti i
privilegi dell’ordo avversario, che si riconosceva nel possesso dei sacra, nel
culto degli antenati – comune in una stessa gens – e nel possesso degli au-
spici. Il possesso pieno e formale dell’ager publicus da parte della plebe e il
problema dei debiti, molto sentito nel IV sec. a.C., sono senz’altro aspetti
Dal decemvirato legislativo alla censura di Appio Claudio 45

importantissimi del conflitto tra gli ordini, tuttavia per il momento si trat-
terà delle conquiste politiche raggiunte dalla plebe, laddove la legislazione
a carattere economico verrà presa in considerazione più avanti, al momento
di delineare le condizioni socio-economiche del IV secolo.
Il 449 varr. viene da taluni considerato l’anno di svolta, durante il quale
la costituzione romana sarebbe diventata ‘patrizio-plebea’. Ristabilite le ga-
ranzie costituzionali con la cacciata dei decemviri e il suicidio di Appio
Claudio, i consoli di quell’anno, L. Valerio e M. Orazio, promossero tre
leggi, note pertanto come leges Valeriae Horatiae, con le quali si reintrodu-
ceva l’istituto della provocatio, si minacciava la sacertas a chi avesse osato ol-
traggiare in qualche modo i magistrati plebei, si sanciva la validità per tutto
il populus dei plebiscita, che avrebbero così acquisito forza di legge; infine
i senatusconsulta dovevano essere depositati, a cura degli edili plebei, in un
archivio speciale nel tempio di Cerere. La tradizione liviana (3, 55, 1) risul-
ta oltremodo sospetta per quanto riguarda la provocatio, ratificata in forma
definitiva solo nel 300 a.C. con la lex Valeria, così come la sanzione di vali-
dità per tutto il populus dei plebiscita, in realtà ultima conquista della plebe
con la lex Hortensia del 287. È stato suggerito che con plebiscita andrebbe-
ro intese qui le decisioni approvate con voto per tribù (ovvero, tanto i ple-
biscita del concilium plebis che le leges dei comitia populi tributa), soggetti
tuttavia alla ratifica dell’auctoritas patruum (Scullard).
Secondo Mazzarino un’ulteriore ‘garanzia costituzionale’ venne fornita
alla plebe con l’istituzione, sempre nel 449, dopo la cacciata della seconda
commissione decemvirale, dei tribuni della plebe. Valorizzando la testimo-
nianza varroniana di L.L. 5, 81, che ci fornisce appunto questa datazione
bassa per l’introduzione della più importante magistratura plebea, lo stu-
dioso presta fede all’antiquario di età cesariana per un’articolata serie di ra-
gioni storiografiche e istituzionali ‘interne’ alla storia di Roma arcaica (del
resto, sarebbe difficile ammettere, seguendo la datazione volgata del 494/93,
che il tribunato nascesse in forma conchiusa, già dotato delle sue preroga-
tive – intercessio, auxilium, sacrosanctitas – ad appena sedici-quindici anni
dall’inizio della repubblica).
La tendenza a nominare ai vertici del potere una commissione di magi-
strati supremi in luogo della tradizionale coppia consolare (o pretoria) sem-
bra essere riemersa nel 444, allorché al posto dei consoli figurano tre tribu-
ni militum consulari potestate, portati a quattro e infine a sei nel 406, i qua-
li, pur avendo ‘potestà consolare’, avevano prerogative inferiori a quelle dei
consoli (auspici inferiori, niente posti d’onore in senato, né il ius imaginum
o il diritto di portare il laticlavium, non potevano nemmeno nominare un
dittatore se non previo il parere degli àuguri, né celebrare il trionfo). I tri-
buni consolari sostituirono i consoli saltuariamente tra il 444 e il 394, inin-
terrottamente negli anni 391-367. Dionigi (11, 59 ss.) relaziona la creazione
della carica al tentativo dei patrizi di ritardare la resa sulla parificazione con
46 Rosalba Arcuri

i plebei circa l’accesso al consolato, laddove Livio (4, 7, 2) li dice istituiti in


previsione delle operazioni militari che si aprivano su più fronti, una spie-
gazione accettata da molti studiosi moderni. Alcuni sostengono inoltre che
la creazione di tali tribuni consolari avrebbe aperto ai plebei l’accesso al se-
nato: per tale via andrebbe spiegata l’origine della categoria dei conscripti,
apparsa tra il 409 e il 400, o piuttosto con l’accesso, avvenuto in tale torno
di tempo, dei plebei alla questura (Cassola). Nel 443 venne istituita la cen-
sura, che in origine nacque per alleviare i consoli di alcuni compiti ammi-
nistrativi, come il censimento dei cittadini e la relativa registrazione dei be-
ni patrimoniali di ciascuno al fine dell’inquadramento nella centuria giusta
e che, pur non avendo ancora il prestigio che avrebbe acquisito in seguito,
i patrizi pensarono di riservare solo per sé. Nel 351 la candidatura alla cen-
sura da parte di C. Marcio Rutilo, primo dittatore plebeo nel 356, concor-
diam ordinum turbavit (Liv. 7, 22, 7). Ma nel 339 il dittatore Q. Publilio Fi-
lone, colui che nel 327-326 sarà protagonista assoluto della guerra contro
Neapolis, promulgò tre leggi secundissimae plebi (Liv. 8, 13, 14-17), tra cui
una che stabiliva che uno dei censori dovesse essere plebeo (lex Publilia de
censore plebeio creando).
Livio (6, 35, 6), a proposito del periodo di intense agitazioni politiche
e sociali, iniziatosi col 377, dice che a quel tempo sulla lama della spada si
posero tutte le cose a cui ambiscono con indomabile avidità gli essere uma-
ni: le proprietà fondiarie, il denaro, le alte cariche. Nel 376 due tribuni del-
la plebe, G. Licinio Stolone e L. Sestio Laterano, avanzarono tre proposte
di legge, con le quali affrontavano il problema dei debiti, quello dei limiti
all’occupazione di agro pubblico e infine quello dell’accesso dei plebei al
consolato. Delle prime due si parlerà a suo tempo. Della terza la tradizione
ci dice che dinanzi all’ennesima “serrata patrizia” – per richiamare la nota
espressione di De Sanctis – i due tribuni furono eletti ininterrottamente per
dieci anni e per ben cinque anni (periodo che Liv. 6, 35, 4-5 definisce soli-
tudo magistratuum) impedirono la regolare elezione dei magistrati eserci-
tando il diritto di veto. Anche in questo caso la testimonianza del padovano
non è da accettare pacificamente, in quanto né Cassio Dione (ap. Zon. 7,
24, 9), né Diodoro (15, 75, 1) danno notizia di un periodo così prolungato
di anarchia. Da notare come in questa circostanza la comunità plebea ri-
sultò meglio organizzata e funzionante rispetto alla res publica patrizia, sì
che ancora pienamente efficace risulta la nota formula mommseniana della
plebe come “Stato nello Stato”. Nel 367 finalmente furono approvate le
leggi Liciniae Sestiae in base alle quali uno dei due consoli poteva essere un
plebeo; L. Sestio, uno dei promotori della riforma, venne eletto primo con-
sole plebeo. Tuttavia, scorrendo la lista dei Fasti consolari, risulta chiaro
come i patrizi siano riusciti per un certo torno di tempo ad ammortizzare i
risultati della legge: sono all’incirca sette gli anni, tra il 355 e il 343 a.C., du-
rante i quali entrambi i consoli furono patrizi.
Dal decemvirato legislativo alla censura di Appio Claudio 47

Nel 366 si decise che gli edili curuli, da poco istituiti, ad anni alterni fos-
sero eletti tra le file dei due ordini (Liv. 7, 1, 5-6). Per quanto riguarda i col-
legi sacerdotali, già nel 368 il numero dei duoviri sacris faciundis, interpreti
dei Libri sibillini, fu portato a dieci, metà dei quali plebei (Liv. 6, 42, 2),
mentre il pontificato venne reso accessibile ai plebei con la lex Ogulnia del
300. Nel 342 un plebiscito – di fatto, una delle leges Genuciae di cui si dirà
– sancì che ambedue i consoli potessero essere plebei (Liv. 7, 42, 2; Zon. 7,
25, 9), cosa che si sarebbe verificata però solo nel 172 a.C. Nel 337 si ebbe
l’ammissione dei plebei alla pretura. L’unica carica rimasta esclusivo privi-
legio dei patrizi fu quella di interrex. La conclusione dell’annoso conflitto
si ebbe nel 287, allorché si verificò la quinta e ultima secessione della plebe
riportata dalle nostre fonti (Liv. Per. 11; Plin. nat. 16, 37), plebe le cui con-
dizioni economiche si erano drammaticamente aggravate a seguito delle
lunghe guerre sannitiche, che avevano indirettamente contribuito ad ina-
sprire il problema dei debiti. Con la già menzionata lex Hortensia, che Pli-
nio ci dice approvata durante un’assemblea all’Aesculetum su iniziativa del
dittatore plebeo Q. Ortensio, che vantava tra i propri antenati solo un tri-
buno nel 422, si diede definitiva sanzione a ciò che le fonti già attribuivano
alle leggi Valerie-Orazie del 449 e alle leges Publiliae Philonis del 339 (Livio
usa in quest’ultimo caso la medesima espressione utilizzata dalle altre fonti
per la lex Hortensia: ut plebiscita omnes Quirites tenerent): i plebiscita ven-
nero equiparati alle leges, finché col tempo si perse il senso della differenza
tra le due forme, se non per l’autorità proponente (tribuno della plebe nel
primo caso, dittatore, console o pretore nel secondo). La legge Ortensia era
stata preceduta, poco dopo il 293 a.C., dalla lex Maenia con la quale l’auc-
toritas patruum era ridotta ad una mera formalità preliminare alle elezioni.
La concordia ordinum era stata raggiunta. La tradizione ci ricorda che
l’anziano Camillo, all’indomani della lex Genucia del 342, elevò un tempio
alla Concordia, a perenne memoria dell’avvenuta pacificazione tra le due
classi del corpo civico, e nel 304 anche l’edile Gneo Flavio dedicò un’aedi-
cula alla Concordia (Liv. 9, 46, 6; Plin. nat. 32, 6,19) per celebrare un’altra
conquista plebea, la pubblicazione dei Fasti, di cui si dirà. Si venne così a
creare una nuova oligarchia patrizio-plebea, che si riconosceva in comuni
interessi politici e aveva alla propria base un uguale potere economico: si
tratta di quella classe di governo definita nobilitas (da nobilis, ‘conosciuto’
e pertanto illustre per meriti, di contro a ignobilis, ‘oscuro’), che dai primi
del III sec. a.C. fornirà i rappresentanti del ceto a guida della res publica,
una classe non meno esclusivista di quella che l’aveva preceduta. Si pongo-
no le premesse per la creazione di frange estremiste nel proletariato urba-
no, che non si sentiva più rappresentato da questa nuova nobiltà. Da una
tale congiuntura, ancora in nuce per il tempo di cui si parla, sarà facile, per
i capi populares dell’ultimo secolo della repubblica, cogliere il destro per
nuove, rivoluzionarie, strumentalizzazioni.
48 Rosalba Arcuri

3. Magistrature e assemblee
Fonti: Sulle più antiche divisioni in tribù del popolo di Roma e la primitiva costituzio-
ne centuriata: Livio, Storia di Roma I, 42-43; Dionigi di Alicarnasso, Antichità ro-
mane II, 47, 4. Sull’assemblea centuriata: Livio, Storia di Roma VII, 43. Sull’istitu-
zione del consolato, Id., Storia di Roma I, 60, 4; Tacito, Annali XI, 22. Sui pretori
più antichi: Livio, Storia di Roma III, 55; Festo 249L; Varrone, Della Lingua latina
V, 80, 87; VI, 88; Cicerone, Sulle leggi III, 8. Pretura con compiti giudiziari: Livio,
Storia di Roma VII, 1, 1; 1, 6. Dittatura: Livio, Storia di Roma II, 18. Censura: Li-
vio, Storia di Roma IV, 24, 3-9; Dionigi di Alicarnasso, Antichità XI, 63. Origini
del tribunato: Cicerone, Sulla repubblica II, 57; Varrone, Della Lingua latina V, 81;
Livio, Storia di Roma II, 33; III, 30; Diodoro Siculo, Biblioteca XI, 68; Dionigi di
Alicarnasso, Antichità, libro VI. Istituzione dei questori: Tacito, Annali XI, 22, 3.
Edilità: Livio, Storia di Roma VI, 42, 11-14; VII, 1, 1.

Le peculiarità istituzionali da cui il consolato si mostra caratterizzato


per tutta l’età repubblicana, quale magistratura più altamente rappresenta-
tiva della res publica – collegialità, annualità, eponimia, elezione per voto
dei comizi centuriati –, figurano nella tradizione perfette e conchiuse già al-
l’indomani della caduta della monarchia, fatto dai moderni giudicato quan-
to mai improbabile. La riflessione di due grandi storici del Novecento, De
Sanctis e Mazzarino, è esemplificativa della tendenza critica al revisionismo
della storia delle più antiche magistrature, per cui il momento d’esordio
nella vicenda di Roma repubblicana andrebbe postdatato al periodo de-
cemvirale, laddove la duplice magistratura consolare nascerebbe, nella sua
forma compiuta e definita, solo nel 367, al tempo delle rogationes Liciniae
Sestiae. Molte di queste proficue discussioni sono nate, giusto in rapporto
alla carica consolare, dalla notizia delle fonti secondo cui il nome dei con-
soli sarebbe stato, almeno fino al 449 a.C., praetores: Livio parla per il 509
di M. Orazio, praetor maximus che affisse, a mo’ di segnatempo, il primo
clavus annalis nel tempio di Giove Capitolino, detentore di una carica in
cui l’aggiunta al titolo dell’aggettivo maximus suggerirebbe l’esistenza di al-
tri magistrati ugualmente denominati pretori. Ancora, la notizia di Livio (7,
3, 4-8) secondo cui una lex vetusta stabiliva che il titolare della carica di
praetor maximus alle idi di settembre affiggesse il chiodo nel tempio di Gio-
ve si riconnette alla nomina di un dictator clavis fingendi causa nel 363, po-
nendo il problema del rapporto tra pretore e dittatore, una relazione secon-
do alcuni di alterità, secondo altri di identità, per cui il dittatore sarebbe
una carica molto antica, risalente già al periodo regio e con originarie fun-
zioni militari, assurta a suprema magistratura con la fine della fase monar-
chica. La tendenza attualmente prevalente è quella di considerare il praetor
maximus quale figura di passaggio dalla monarchia allo stato repubblicano,
anzi, secondo alcuni, il titolo di consul si sarebbe imposto nella consuetu-
dine magistratuale solo dopo il 367, soppiantando quello più arcaico di
praetor. Fra i tre magistrati che originariamente portavano tutti questo stes-
Dal decemvirato legislativo alla censura di Appio Claudio 49

so titolo, ci sarebbe stata una ripartizione tra due, divenuti consules (termine
dall’etimologia piuttosto controversa) e un terzo che, pur restando un ma-
gistrato cum imperio, autorizzato a guidare l’esercito, non aveva un potere
pari a quello collegiale dei due consoli e pur essendo una figura, per così
dire, di supporto di questi ultimi, finì per specializzarsi in compiti giudiziari
(l’editto del pretore era fonte del diritto). Anche questa evoluzione viene
ricondotta alle importanti innovazioni introdotte nel 367. Dal 242 il preto-
re sarà affiancato da un praetor peregrinus, col compito di dirimere le liti
giudiziarie tra cittadini romani e peregrini o tra peregrini residenti a Roma.
I consoli detenevano un potere sovrano: giudiziario e politico in senso
lato entro l’estensione del pomerium, militare e giurisdizionale fuori dal re-
cinto sacro di Roma (imperium domi militiaeque). Le lunghe e difficili ope-
razioni militari al tempo della seconda guerra sannitica imposero delle pro-
roghe al potere sovrano di consoli e pretori (prorogatio imperii): i benefi-
ciari di questa proroga vennero chiamati rispettivamente proconsoli e pro-
pretori e il loro ambito di competenza provincia, termine che solo successi-
vamente passò a indicare il territorio fisico extraurbano su cui si espletava
il potere del magistrato romano.
La dittatura era una carica eccezionale, di origine secondo alcuni molto
antica (età regia), cui si ricorreva in momenti di particolare difficoltà in
campo bellico. Il dittatore era nominato dai consoli a seguito di una deci-
sione del senato e durava in carica per il tempo necessario all’espletamento
del suo compito, in ogni caso mai più di sei mesi; aveva poteri assoluti e
sfuggiva – unico magistrato insieme al censore – all’intercessio dei tribuni
della plebe. I segni esteriori del suo imperium vedevano la cumulazione dei
littori dei due consoli (dunque in tutto ventiquattro), ma un tale potere su-
periore non annullava le altre cariche, solo subordinandole per il tempo li-
mitato di cui si è detto. Nei suoi compiti militari era coadiuvato da un ma-
gister equitum (comandante di cavalleria). Molto frequente nel V e IV sec.
a.C., dopo il 202 di fatto la dittatura scomparve per risorgere, profonda-
mente mutata nelle sue funzioni originarie, nel I sec. a.C.
La censura venne istituita nel 443 a.C. per sollevare i consoli del com-
pito del censimento dei cittadini, al fine di determinarne il ruolo militare e
i diritti politici all’interno delle cinque classi di censo in cui il populus era
suddiviso. Magistratura superiore aperta alla plebe solo nel 339 e tuttavia
sine imperio, le sue competenze erano state ampliate con una lex Ovinia
(Fest. 290L) di data non ben definita (ma certamente anteriore al 312 a.C.,
anno della censura di Appio Claudio), che le aveva conferito il diritto di re-
digere l’album senatorium, ovvero la lista di coloro che erano ammessi al
supremo consesso della Roma repubblicana, con l’autorità di escluderne
coloro che si fossero macchiati di indegnità. Ad essere lecti dovevano essere
gli optimi ex omni ordine. La censura divenne così la più alta autorità mo-
rale della res publica, spettandole il controllo del regimen morum all’interno
50 Rosalba Arcuri

dell’ordo senatorius. Si ritiene che dopo l’epocale censura di Appio Clau-


dio, la magistratura ebbe anche il compito di passare in rassegna i prerequi-
siti patrimoniali dei detentori del censo equestre, completando eventual-
mente le diciotto centurie di cavalieri i cui membri erano equites equo pu-
blico. Altre importanti mansioni erano legate alla locazione dell’ager publi-
cus e, in età successiva alle grandi conquiste transmarine, all’appalto delle
entrate pubbliche. Tra le incombenze dei censori rientrava anche la tradi-
zionale purificazione dei campi, della città e del popolo tutto (lustrum), che
avveniva ogni cinque anni, donde il termine ‘lustro’, passato a indicare un
ciclo quinquennale. Infatti i due censori (l’obbligo dell’esercizio collegiale
della censura era così rigido da imporre l’abdicazione al censore che per un
qualunque motivo si fosse ritrovato sine collega), magistrati curuli – dun-
que insigniti della sella curulis, la sedia d’avorio che contraddistingueva
questa categoria di magistrati – venivano eletti ogni cinque anni. La durata
della carica in principio non risulta ben definita (secondo alcuni cinque an-
ni, sulla base di Livio, che la definisce una magistratura quinquennale, se-
condo altri un anno), fatto sta che all’incirca nel 434/33 una lex Aemilia de
censura minuenda la fissò a diciotto mesi. Anche il censore, come il dittato-
re, non era obbligato dal potere superiore dei tribuni plebis e molto spesso
la carica era rivestita da ex consoli o ex pretori, quasi a coronamento e sug-
gello di un cursus honorum particolarmente prestigioso.
Un’altra carica di durata assai limitata, l’unica che peraltro i senatori
patrizi riuscirono a mantenere come esclusivo privilegio dinanzi alle riven-
dicazioni della plebe, era quella di interrex, nominato per soli cinque giorni
in caso di scomparsa violenta dei due consoli col solo compito di far eleg-
gere i nuovi e trasmettere loro gli auspici.
Tra le magistrature minori più antiche, con competenze esclusivamente
civili (dunque sine imperio) vi erano gli edili, istituiti, secondo la tradizione,
nel 493 a.C. in connessione alle prime secessioni plebee. In origine custo-
divano gli archivi della plebe nel tempio di Cerere sull’Aventino e, secondo
la tradizione, a partire dal 449 anche gli acta senatus, anzi, proprio in ciò,
nell’esigenza di creare degli archivi che costituissero una memoria tangibile
delle decisioni prese dai due ordini, la plebe dimostrerebbe una capacità
organizzativa superiore al patriziato. In risposta quest’ultimo nel 366 istituì
due edili curuli, con l’intenzione di riservare la carica ai membri del pro-
prio ordo, ma già per lo stesso anno Livio (7, 1, 5-6) riporta la decisione di
affidarla ad anni alterni a patrizi e plebei. Tra i loro compiti si annoverava-
no pure l’approvvigionamento di Roma, il controllo dei mercati, l’organiz-
zazione dei giochi pubblici.
Altra magistratura minore con compiti civili prima probabilmente spet-
tanti ai consoli fu la questura, creata nel 447 a.C. (Tac. ann. 11, 22) e legata
all’amministrazione del tesoro pubblico, per cui i titolari furono denomi-
nati quaestores aerarii. Costoro si occupavano anche della vendita ai privati,
Dal decemvirato legislativo alla censura di Appio Claudio 51

in lotti di 50 iugeri, di quella particolare categoria di terreni nota appunto


come ager quaestorius (infra). Nel 421 a.C. il numero dei questori fu porta-
to a quattro; i patrizi non dovettero nutrire grande interesse per questa ca-
rica, visto che già nel 409 tre dei quattro questori erano plebei.
Lungo il percorso storico della res publica furono istituite altre magi-
strature minori, come i duoviri navales nel 311 a.C., o i tresviri monetales
nel 289, tre magistrati preposti alla coniazione della moneta in bronzo (aes
grave), ma risulterebbe troppo lungo in questa sede seguire lo sviluppo di
queste come di altre cariche minori, nate con compiti di polizia o di rap-
presentanza.
La carica per eccellenza assurta a simbolo delle rivendicazioni plebee
sin dal 494 a.C. fu il tribunato della plebe, che per le sue origini ‘rivoluzio-
narie’ non può essere considerata una magistratura stricto sensu. Anzi, il
problema del tribunato come istituto rivoluzionario si percepisce in tutta la
sua portata nell’età dei Gracchi, quando il tentativo di farne uno strumento
di lotta contro l’ala più conservatrice della nobilitas fu votato al fallimento,
poiché si trattava di una carica sine imperio e strettamente esercitabile en-
tro i mille passus dalla cerchia urbana di Roma. Abbiamo già accennato alla
posizione di Mazzarino, che dice il tribunato plebeo creato ben dopo il 494
a.C. e legato all’evoluzione del sistema tribale. Qualcuno rintraccia la sua
origine nelle rivendicazioni di ricchi proprietari terrieri plebei, che si fecero
portavoce e difensori delle istanze paritarie della propria classe. Forse in
origine due, nel 471 furono portati al numero di quattro secondo Diodoro
– che peraltro non ricorda tribuni più antichi –, infine di dieci. I titolari
della carica, necessariamente di origine plebea, godevano di una potestà sa-
crosanta e inviolabile, prerogative su cui si fondava l’essenza della tribuni-
cia potestas, riconosciuta come tale, secondo la tradizione, dalle leggi Vale-
rie Orazie del 449, per cui chiunque avesse osato attentare alla persona di
un tribuno sarebbe stato maledetto (sacer esto). Ma il grande potere dei tri-
buni risiedeva in gran parte nel diritto di porre il veto alle decisioni degli
altri magistrati se queste fossero risultate dannose per la plebe (ius interces-
sionis, per cui pronunciando al momento opportuno la parola intercedo si
bloccava legalmente, salvo poche eccezioni di cui si è detto, ogni azione di
governo); si riconosceva loro anche il ius coercitionis, il diritto cioè di far ri-
spettare la propria volontà, prerogativa che, cumulata all’intercessio, poteva
dar vita ad un meccanismo ostruzionistico in grado di arrestare il regolare
funzionamento del governo. Infine, il ius auxilii conferiva al tribuno la ca-
pacità di difendere un cittadino che si fosse posto sotto la sua protezione e
per tale motivo la sua casa doveva restare aperta notte e giorno, né egli po-
teva lasciare Roma. Il ius agendi cum plebe lo rendeva l’autorità competente
a riunire il concilium plebis, l’assemblea della plebe. Tuttavia una forte li-
mitazione alla sua azione, oltre i limiti già detti, era il controllo dei suoi col-
leghi, che potevano sempre porre il veto ad una proposta di legge.
52 Rosalba Arcuri

Il senato e le assemblee del popolo costituivano ciò che le fonti latine


chiamano senatus populusque romanus. Tutti i cittadini maschi adulti, sia i
nati liberi (ingenui), sia gli ex schiavi affrancati (liberti), formavano il po-
polo dei Quirites, riunito in tre assemblee principali. I comizi curiati erano
un fossile dell’età regia, derivando il nome dalla suddivisione dei cittadini
in trenta curie, dieci per ognuna delle tre tribù ‘etniche’ (Tities, Ramnes,
Luceres) in cui Romolo, secondo la tradizione, avrebbe diviso la popolazio-
ne della Roma delle origini. In età storica si riunivano per convalidare pro-
cedure civili di minore importanza, come le adozioni e le eredità, e soprat-
tutto per votare la legge di delega dell’autorità ad un magistrato (lex curiata
de imperio). Durante la tarda repubblica i cittadini persero il senso di ap-
partenenza alle varie curie, per cui invalse l’uso di farsi rappresentare in
quest’assemblea da trenta littori.
L’assemblea centuriata, così come la conosciamo, sarebbe stata struttu-
rata secondo le fonti dal re Servio Tullio, che vi distinse 193 centurie di cit-
tadini divisi in cinque classi di censo, un ordinamento timocratico per cui
alla prima classe appartenevano coloro che avevano un capitale di 100.000
assi, mentre alla quinta, cioè l’ultima, i detentori di 11.000 assi (ma si tratta,
com’è ovvio, di criteri patrimoniali del tutto anacronistici per il VI sec.
a.C.). Le centurie erano insieme unità di voto e unità militari, per cui la pri-
ma classe, quella dei più ricchi, equipaggiando ben 98 centurie (18 di cava-
lieri e 80 di fanti) forniva i membri di una sorta di aristocrazia militare su
base censitaria, risultando favorita pure nelle operazioni di voto, poiché tra
le prime centurie era estratta quella chiamata a votare per prima (detta per-
tanto praerogativa), il cui pronunciamento era determinante nell’orientare
il risultato finale, talché raramente si chiamava a votare la seconda classe e
quasi mai la terza. Si comprende come gli humiles non avessero alcun mo-
do di far sentire la propria voce nei comizi centuriati, che eleggevano i ma-
gistrati superiori (consoli, pretori, censori), votavano le leggi costituzionali
e dichiaravano la guerra. Infine, all’assemblea centuriata si ricorreva in ap-
pello contro una pena capitale, in base al già menzionato istituto della pro-
vocatio ad populum.
Diversamente nei comizi tributi, come suggerisce la denominazione, il
popolo era diviso per tribù mediante un criterio territoriale. In tali comizi,
sebbene le più numerose tribù rustiche – 35 in tutto nel III secolo –, costi-
tuite per lo più da proprietari terrieri grandi e piccoli, prevalessero sulle
quattro urbane in cui confluiva il popolo minuto, il cittadino tornava a vo-
tare come individuo al di là della propria situazione patrimoniale, per cui
l’assemblea tributa risulta un organo popolare più democratico dell’assem-
blea centuriata. Inoltre 35 tribù dovevano essere meglio gestibili per i ma-
gistrati durante le operazioni di voto rispetto alle 193 centurie. I comizi tri-
buti eleggevano i magistrati inferiori, edili curuli e questori, e ad essi ci si
poteva appellare contro multe e ammende.
Dal decemvirato legislativo alla censura di Appio Claudio 53

Anche nel concilium plebis, l’assemblea dei soli plebei, il popolo era riu-
nito per tribù. Quest’organo elettivo era convocato per iniziativa di un tri-
buno della plebe ed ebbe poteri legislativi analoghi ai comizi centuriati a
partire dal 287 a.C. con la già citata lex Hortensia, che rese i plebisciti – le
decisioni che emergevano dalle riunioni della plebe – validi per tutti i Qui-
riti, non diversamente delle leges votate dal popolo riunito in centurie. I
concilia plebis eleggevano i magistrati plebei, tribuni ed edili plebei.
Il consesso di gran lungo più prestigioso, guida indiscussa della vita po-
litica romana, promotore delle principali direttive di governo in pace come
in guerra, era il senato. Cicerone nella Pro Sestio (137) dà l’esatta misura di
cosa significasse il senato, avvertito quale stabile organo di governo dell’Ur-
be, custode del passato e del presente, forza conservatrice del mos maio-
rum, le cui decisioni (senatusconsulta, espressione concreta dell’auctoritas
patruum), sebbene non formalmente riconosciute come leggi, di fatto erano
vincolanti per i magistrati e il popolo. Era costituito da 300 membri (fu poi
grandemente ampliato al tempo della dittatura di Silla e di Cesare), definiti
patres – il termine coscripti, non necessariamente da intendere come endia-
di, è considerato un’aggiunta posteriore la cui origine è variamente spiega-
ta –, che in origine furono tutti ex magistrati superiori (consoli, pretori,
censori), in un secondo momento anche ex edili ed ex tribuni. Convocato
da un magistrato superiore e presieduto dal princeps senatus, un patrizio di
rango censorio, il senato era chiamato ad esporre il suo autorevole parere su
ogni questione di interesse pubblico, orientando in modo determinante gli
affari della politica interna ed estera. Dal IV secolo l’ingresso di esponenti
plebei in senato e la conseguente formazione di una nuova nobilitas patri-
zio-plebea diedero maggior forza e autorità a questo consesso, in un delicato
momento in cui il patriziato era in declino numericamente e politicamente.

4. L’impegno bellico di Roma. Società ed economia tra V e IV secolo a.C.

Fonti: Vicenda di Marco Manlio Capitolino: Livio, Storia di Roma VI, 11; 14-20; Dio-
doro Siculo, Biblioteca XV, 35, 3; Cassio Dione, Storia romana VII, 26, 1-3; Zona-
ra, Storie VII, 24. Guerra contro Veio e distribuzioni viritane dell’ager Veientanus:
Livio, Storia di Roma, libro V; Diodoro Siculo, Biblioteca XIV, 102, 4. Invasioni
galliche: Livio, Storia di Roma V, 33 ss.; Polibio, Storie II, 17, 3; Dionigi di Alicar-
nasso, Antichità romane XIII, 10-11; Plutarco, Vita di Camillo. Guerra latina: Li-
vio, Storia di Roma, libro VIII. Lex Poetelia sul nexum: Livio, Storia di Roma VIII,
28, 1; Cicerone, La repubblica II, 59.

Tra IV e III sec. a.C. sembra di assistere in politica estera ad un proces-


so parallelo alle realizzazioni della società romana nella sua politica interna,
poiché alla graduale parificazione degli ordini corrispose un’unificazione
dell’Italia centrale, dell’Etruria e infine dell’Italia meridionale sotto l’ege-
54 Rosalba Arcuri

monia romana, che con sottile chiaroveggenza si guardò bene dal mortifi-
care le individualità socio-politiche e culturali dei popoli che in questo pro-
cesso andò inglobando. Le dinamiche della politica interna risultarono
quasi potenziate dal metus hostilis. Il risultato finale venne raggiunto a costi
non di rado altissimi in termini di vite umane e di pesanti disagi economici,
che gravarono soprattutto sui piccoli contadini proprietari, per i quali i pe-
riodi di conflittualità prolungata interagivano negativamente con il lavoro
della terra, rendendo quanto mai vivo e presente lo spettro della carestia e
quello, forse anche più temibile, dei debiti. Livio (4, 13-14) ricorda a più ri-
prese carestie che si abbattevano sul popolo, come quella durante la quale
Spurio Melio distribuì grano ricorrendo a mezzi propri, facendo prova, se-
condo i contemporanei, di pericolosa demagogia, per cui venne doverosa-
mente eliminato dal magister equitum C. Servilio Ahala. Il problema dei de-
biti venne per l’ennesima volta alla ribalta nel 385/84 con il caso enigmati-
co di M. Manlio Capitolino, l’eroico difensore del Campidoglio al tempo
della prima invasione gallica. Nel I sec. a.C. Livio (6, 20, 4) non maschera
il proprio sconcerto nel chiedersi come si potesse giustiziare per tradimen-
to un uomo simile, che aveva tenuto sì dei discorsi sediziosi, accusando i
senatori di essersi accaparrati il tesoro gallico, ma si era poi limitato ad usa-
re le proprie risorse per liberare i concittadini dal rovinoso gravame dei de-
biti. Manlio propose forse di ridurre o addirittura cancellare i debiti, ma si
scontrò con l’ostilità tanto del senato che dei tribuni della plebe, interessati
a condividere il potere del patriziato su un piede di parità, per cui l’even-
tualità di un regime personalistico era anche da costoro avvertito come un
rischio: in conclusione, Manlio fu accusato di adfectatio regni, processato
per tradimento e giustiziato.
Su questo sfondo, cercheremo di seguire il processo evenemenziale nel-
le sue linee essenziali, evidenziando non tanto i risultati meramente militari
della conquista, quanto i riflessi che essa proiettò sulle strutture economi-
che e sociali della res publica romana nei due secoli in oggetto.
Alcuni storici individuano i prodromi della volontà imperialistica di Ro-
ma già nei primissimi contatti polemici avuti dall’Urbe con le comunità la-
tine nel V secolo, in occasione dei quali avrebbe dimostrato un’astuzia di-
plomatica già matura. Un esempio è databile al 444, quando Roma, appro-
fittando di una contesa tra Ardea e Aricia, in cui era stata chiamata come
arbitro, si annettè il territorio conteso tra le due città latine col pretesto che
esso dipendeva da Corioli, piccolo centro già inglobato da Roma. L’abile
mossa servì a creare un punto di passaggio verso la piana pontina e ad evi-
tare che la Lega latina – a cui Roma era legata dal risalente foedus Cassia-
num – traesse da sola i vantaggi delle vittorie su Equi e Volsci.
La tradizione annalistica confluita in Livio ricordava, per tutta la prima
metà del V secolo, incessanti guerre tra romani e sabini, da cui le discussio-
ni di Mommsen e di Pais, che ne parlavano in termini di conquista, il pri-
Dal decemvirato legislativo alla censura di Appio Claudio 55

mo di Roma sulla Sabina, il secondo in senso inverso, interpretando la mi-


grazione di personaggi sabini come Attius Clausus quali segnali di un’ege-
monia sabina sui romani. Considerata la vitale complementarietà economi-
ca tra la campagna romana e i monti della Sabina per l’allevamento del be-
stiame (ma non va trascurato neanche il commercio del sale), è molto più
probabile che tra i territori contermini si fossero stabiliti accordi di buon
vicinato.
Il passaggio dal V al IV secolo Ettore Pais (Borgo San Dalmazzo
vede i romani impegnati in un lungo (Cuneo), 1856-Roma, 1939). Fu una del-
conflitto con la vicina Veio, che Livio le figure più rappresentative della storio-
grafia italiana di fine Ottocento e inizio
(5, 22,8) definisce urbs opulentissima
Novecento. Nato in Piemonte, ma sardo
Etrusci nominis, distante solo 17 km di origine e di elezione, nel 1878 si lau-
dall’Urbe. La battaglia, di sapore reò a Firenze, dove ebbe maestri Vitelli e
gentilizio, che il potentissimo clan Comparetti; fu professore di ginnasio a
dei Fabii e dei loro clienti aveva Sassari e direttore del locale Museo Ar-
combattuto sul fiume Cremera nel cheologico. Diresse poi il Museo Ar-
477 testimonia del vivo interesse eco- cheologico di Cagliari. Una svolta nella
nomico che questa gens nutriva per il sua vita scientifica fu costituita dal bien-
nio trascorso a Berlino alla scuola di
circondario, dove, a ridosso di Veio e Teodoro Mommsen (1881-1883), a cui
di Fidene, alleata di Veio, da cui vanno ricollegati gli Additamenta al V
quest’ultima città bloccava il traffico volume del Corpus Inscriptionum Latina-
fluviale verso Roma, vantava delle rum (1884-1888). Nonostante le tipiche
terre. Tra Roma e Veio c’era un’anti- “fluttuazioni di germanofilia e germa-
ca rivalità per il controllo delle saline nofobia” (Treves), al metodo storiografi-
alla foce del Tevere. Nel 406 comin- co mommseniano, – venuto ad arricchire
le sue già notevoli esperienze filologiche,
ciò l’assedio della città etrusca, dura- antiquario-epigrafiche, amministrative,
to per dieci anni, e si concluse nel geografiche – rimase sempre fedele, mo-
396 grazie al dittatore M. Furio Ca- strando grande rispetto per il maestro te-
millo, che diede il via alla triste prati- desco, anche quando le sue idee non col-
ca di fare terra bruciata dei territori limavano con le sue.
conquistati. Durante queste prolun- Dal 1886 insegnò all’Università di
gate ostilità, fu fatale a Veio la tradi- Palermo, da dove passò a Pisa (dal 1888),
inaugurando un periodo per lui partico-
zionale assenza di coesione e affinità larmente fecondo: nel 1894 comparve la
di intenti tra le città etrusche, che so- Storia della Sicilia e della Magna Grecia,
litamente agivano come unità auto- nel 1898-1899 il primo volume della Sto-
nome: Chiusi e Cere si schierarono ria di Roma, in due tomi, opera che gli
addirittura dalla parte dei romani diede fama internazionale). Dal 1900 in-
(nel caso di Chiusi un’alleanza detta- segnò a Napoli, dove ebbe anche la dire-
ta da motivi economici legati all’esi- zione del Museo Nazionale, che gli cau-
genza di difendere il libero traffico sò fieri attacchi e polemiche. Dopo una
gratificante parentesi in America, inse-
lungo il Tevere). Da questa guerra gnò a Roma, prima alla Facoltà di Giu-
uscì notevolmente indebolita la Lega risprudenza, poi, succedendo a Beloch,
latina, che agli inizi del IV secolo ab- nella cattedra di Storia antica (causa pri-
56 Rosalba Arcuri

ma delle fortissime polemiche con la bandonò l’alleanza con Roma e le ri-


scuola dello studioso tedesco e desancti-
mase ostile fino al suo definitivo scio-
siana). Al ritorno di Beloch all’insegna-
glimento nel 338, anzi, si riconosce
mento, nel 1923, tenne la cattedra di Sto-
che proprio il trionfo su Veio – no-
ria romana, fino al 1931. Un susseguirsi
di onori politici (Senato) e accademicinostante Roma avesse già tra V e IV
secolo dato prova di forza nel conflit-
(Lincei), caratterizzò gli anni a partire
dal 1911, un turning point fondamentaleto contro Equi e Volsci, guerre che
avvantaggiarono di molto i Latini,
nella vita anche scientifica di Pais. Il na-
messi nelle condizioni di fondare le
zionalismo di stampo risorgimentale ere-
ditato dal maestro fiorentino Vannucci,colonie di Cora, Norba e Signia sui
alimentato dalla temperie politica e cul-
monti Lepini – avrebbe alterato gli
turale degli anni tra Adua e la spedizione
libica, si trasformò, mostrando la sua
equilibri di forza tra Roma e i Latini,
faccia aggressiva. Fu anche per questo che da quel momento intrapresero
una dura lotta per conservare la pro-
che, dopo i dubbi iniziali, aderì al regime
pria individualità. Ma l’annoso con-
fascista, cui rimase fedele in vecchiaia. È
flitto con l’antica rivale etrusca
stato ampiamente chiarito come la spinta
verso il nazionalismo e verso la politica
avrebbe innescato numerosi processi
sia venuta al Pais soprattutto dalla senti-
innovativi relativi all’organizzazione
ta necessità di fare un salto di qualità, di
nobilitare il suo tecnicismo di stampo
bellica e alla situazione economica
delle classi sociali a Roma. Innanzi-
positivistico, cosa che pensava di fare in-
tutto, la guerra decennale rese neces-
dividuando nella storia di Roma e dell’I-
saria l’istituzione di un soldo militare
talia quel centro ideale di ispirazione, la
cui mancanza gli andavano rimproveran- per permettere ai soldati di sopravvi-
do gli avversari (tra cui soprattutto Gae-
vere senza lavorare la terra, finanzia-
tano De Sanctis, ma anche Croce, a lui to dai proventi di una tassa pagata da
ostile fin dai tempi di Napoli).
chi, ad es., era troppo anziano per
La sua lunga e intensissima opero-
servire in guerra (Liv. 4, 59, 10-11).
sità arricchì la produzione storiografica,
Il conflitto comportò un autentico
oltre che di tantissimi lavori sparsi in ri-
viste e Atti accademici, anche di operesalasso economico, poiché la città ri-
vale era grande, potente e pressoché
fondamentali, tra cui spiccano quelle de-
dicate alla storia di Roma arcaica, carat-
imprendibile, per cui durante l’asse-
terizzate da un fortissimo atteggiamento
dio i cittadini appartenenti al censo
critico nei confronti della tradizione,
equestre furono autorizzati a servirsi
troppo distruttivo perché non gli attiras-
di cavalli propri. Più profondi e du-
se gli strali della storiografia contempo-
raturi furono i riflessi economici del-
ranea di ogni tendenza. E ciò, al di là di
la conquista. L’ager Veientanus et
quelli che erano i suoi limiti, ma anche
Capenas incamerato venne parcelliz-
dei suoi meriti, le tante idee ancor oggi
valide, a cominciare dalla sua insistenza
zato in lotti di sette iugeri ciascuno
sul rapporto tra storia romana arcaica e
(Liv. 5, 30, 8 per l’anno 393; cfr.
storia greca. (A.P.) Diod. 14, 102, 4, che dà la misura di
quattro iugeri, forse più credibile per quest’epoca) e distribuito ai plebei,
non solo ai capifamiglia ma anche ai figli adulti. L’occupazione effettiva si
ebbe solo nel 388 (Liv. 6, 4, 4) e l’anno seguente furono create quattro
Dal decemvirato legislativo alla censura di Appio Claudio 57

nuove tribù rustiche (Arnensis, Sabatina, Stellatina, Tromentina: Liv. 6, 5,


8), per un totale di venticinque tribù.
Con le distribuzioni viritane dell’ager Veientanus Lo Cascio fa iniziare la storia
della proprietà agraria a Roma, nel senso della piccola proprietà individuale a sostegno
del contadino autosufficiente, soldato e coltivatore diretto (è infatti riconosciuta dai
moderni l’esistenza nel V sec. a.C. di forme di sfruttamento comunitario della terra,
come l’allevamento, a supporto integrativo della piccola proprietà contadina). A livello
socio-economico Ziolkowski individua un’altra conseguenza della parcellizzazione del-
l’agro veientano, ovvero la scomparsa della clientela arcaica. Con la creazione su scala
senza precedenti di una classe di piccoli proprietari, i landlords patrizi si trovarono pri-
vati della manodopera tradizionale, poiché i loro antichi clienti ebbero dopo il 393 ter-
ra propria da coltivare, per cui ne seguì un affrancamento socio-economico e psicolo-
gico dai patroni. La crisi di manodopera solo parzialmente potè essere fronteggiata col
ricorso al lavoro schiavile, poiché, com’è immaginabile, in questa fase gli schiavi non
dovevano essere ancora numerosi, per cui si ricorreva agli addicti, i debitori morosi ca-
duti in schiavitù. E proprio la schiavitù per debiti, come vedremo a breve, fu uno dei
problemi sociali più dolenti e dibattuti nel corso del IV sec. a.C. I plebei benestanti in-
vece, probabilmente avvezzi a servirsi di manodopera servile da più tempo, risultarono
forse meno colpiti dalla crisi seguìta a questa prima importante conquista dei romani.

A peggiorare determinate situazioni intervennero le migrazioni dei po-


poli celti agli inizi del IV secolo, sopravvenute quasi come catalizzatori del-
le lotte politiche non solo tra patrizi e plebei ma finanche tra clan patrizi.
Queste bande di Celti, dalla tradizione storiografica antica noti col nome
generico di Galli, provenienti dalle vaste plaghe dell’Europa centrale, all’al-
ba del IV sec. a.C. si diressero verso l’Europa meridionale. Erano divisi in
vari gruppi, tra cui gli Insubri, che penetrarono nella valle del Ticino e fi-
nirono per scacciare gli Etruschi da Melpum. La fertile pianura padana,
abitata da genti poco numerose e non organizzate per approntare qualun-
que forma di resistenza e che pertanto furono assimilate o spinte verso le
montagne, fu terreno privilegiato di conquista per Cenomani, Boi, Lingoni,
Senoni. Una parte di questi, insediandosi stabilmente nella Padania, si con-
vertì ad uno stile di vita sedentario e alle attività agricole, facendo propri
alcuni portati della cultura etrusca, altri invece continuarono le attività di
razzia. Tra questa seconda categoria si annovera un gruppo di Senoni, che
nel 390, al seguito di un capo di nome Brenno, si diresse su Chiusi. La pre-
senza di forze romane nella città etrusca – forse, come dice Diodoro, invia-
te per indagare su ciò che stava accadendo – venne interpretata come una
provocazione dai Galli, che marciarono contro i romani, sconfiggendoli
presso il fiume Allia, preludio alla ben più grave presa di Roma, messa a
sacco fuorché il Campidoglio, dove i Romani superstiti non sarebbero stati
salvati tanto da Furio Camillo quanto dal pagamento di un riscatto, che la
tradizione annalistica nega, vuoi per nascondere l’onta, vuoi per riabilitare
Camillo, reduce dall’esilio di Ardea, creando così il suo mito di “secondo
fondatore di Roma”. Al tempo del disastro gallico importante fu il ruolo
58 Rosalba Arcuri

giocato da Cere, dove trovarono rifu- Theodor Mommsen (Garding, 1817-


gio i sacerdoti e le vergini vestali (Ce- Charlottenburg, 1903), è considerato il
re cambierà poi scelte politiche negli più grande storico e antichista del XIX
anni 358-350, al tempo delle ostilità secolo. Dopo la storiografia di Niebuhr,
di Roma con Tarquinia e Falerii). Sul ampiamente venata di motivi romantici,
M. è considerato il “sistematore”, perché
momento i Senoni tornarono sui loro propugnatore di una concezione sche-
passi, a causa di una pestilenza che si matica e più lineare della Storia, non in-
era diffusa tra le loro file e della noti- tervallata da hiatus come quelli insiti nel-
zia che i Veneti stavano minacciando la visione niebuhriana (ad es., la prospet-
i loro territori in Cisalpina. Successi- tiva di una “grande Roma dei Tarquinii”
vamente li troviamo stanziati nelle at- cui sarebbe seguita una fase di decaden-
tuali Marche, ma non è impossibile, za, risultava inconcepibile per lo storico
tedesco; l’ordinamento centuriato servia-
come hanno suggerito alcuni studiosi, no, come riportato dalle fonti, ritenuto
che prima di stanziarsi nelle loro sedi fededegno dagli storici romantici, viene
definitive, abbiano fatto le prime mos- da Mommsen destituito di ogni fonda-
se su istigazione di Dionisio I di Sira- mento demografico). M. brillò per la sua
cusa, il quale aveva concepito un va- impostazione giuridica di alcuni proble-
sto piano d’azione per formare uno mi-chiave della storia di Roma arcaica,
stato unitario, comprendente le due come l’origine della plebe, che egli face-
va derivare dalla clientela, proiettando
sponde del Fretum Siculum, ambizio- dunque il problema entro un quadro so-
sa politica espansionistica che non cio-economico più ampio. La sua opera
avrebbe mancato di far sentire le sue più famosa e divulgata è la Römische Ge-
ripercussioni anche sull’Etruria e su schichte, una storia di Roma in tre volu-
Roma, se ad essa dobbiamo attribuire, mi apparsa tra il 1854 e il 1856, che ab-
in quest’ottica, l’attacco combinato, braccia il periodo dalle origini al 46 a.C.,
alla metà del IV secolo, di Galli dal a cui trent’anni più tardi fece seguito un
V volume, che contiene la descrizione
Lazio e di Siracusani lungo la costa. delle province romane da Cesare a Dio-
Si ricordi inoltre che il secondo trat- cleziano. Un IV volume, che contenesse
tato romano-punico del 348 sarebbe le vicende di Roma imperiale, non vide
stato siglato prevalentemente in fun- mai la luce, si pensa comunemente a
zione antisiracusana, laddove il terzo causa della sua visione lineare e progres-
trattato del 306, che definiva le aree siva della storia, che gli avrebbe impedi-
d’influenza delle due città, sottinten- to di accettare l’idea del declino, più
probabilmente perché si rendeva conto
deva l’esistenza di un nemico comune di non poterla scrivere per la sua sotto-
nella persona di Agatocle (vd. § 8).
I Galli minacciarono l’Italia centrale in tre altre ondate successive (rispet-
tivamente negli anni 358/54, 347/43, 332/29), ma in occasione dell’ultima di
queste invasioni Roma fu in grado di imporre loro una pace trentennale. Dal
punto di vista della storia culturale, la presenza barbarica nella penisola itali-
ca aveva portato Roma all’attenzione della storiografia greca contemporanea.
Timeo di Tauromenio, lo storico greco che per primo intuì la portata dell’a-
scesa di Roma in Italia, riunì le notizie rinvenute in storici disparati quali Li-
co di Reggio, Filisto, Aristosseno di Taranto, Eforo ed Eraclide Pontico. Co-
Dal decemvirato legislativo alla censura di Appio Claudio 59

me si è visto nel caso del racconto leg-


valutazione, di cui era conscio, di alcuni
aspetti essenziali come l’Ellenismo del-gendario di Camillo, dovuto alla pen-
l’età imperiale e tardoantica e la vita reli-
na di annalisti come L. Cassio Emi-
giosa dell’impero, a cominciare dalla na-
na, P. Clodio, Q. Claudio Quadriga-
scita e dall’affermarsi del cristianesimo
rio, ne viene fuori un quadro variega-
(M. Mazza, Due maestri. Storia e filologia
in Th. Mommsen e S. Mazzarino, Catania to e di difficile interpretazione, giu-
2010, pp. 131-163). Appunti presi du- stificando in molti casi lo scetticismo
radicale di taluni studiosi moderni.
rante le sue lezioni e fortunatamente ri-
trovati nel 1980 (Hensel-Nachschriften), Il periodo seguìto alla presa di Ro-
sono stati editi nel 1992 e tradotti anche
ma del 390 fu piuttosto critico sotto
in italiano (A. Demandt-B. Demandt, molte specie. Dal punto di vista poli-
Theodor Mommsen, i Cesari e la decaden-
za di Roma. La scoperta della “Römische
tico-militare, sebbene la storiografia
moderna rigetti come inventato il rac-
Kaisergeschichte”, a cura di P. Vian, Ro-
conto delle guerre condotte da Roma
ma 1995). Alla sua infaticabile attività si
deve la più grande raccolta esistente dicontro Etruschi, Ernici, Equi, Volsci e
Galli nei trent’anni che seguirono al-
iscrizioni latine, il Corpus Inscriptionum
Latinarum in sedici volumi, strumento l’incendio gallico, non c’è dubbio che
imprescindibile per lo storico del mondoil prestigio dell’Urbe subì un grave
romano, nonché il progetto dei Monu-
menta Germaniae Historica, anch’esso
colpo tra i popoli vicini: ad es., crollò,
concepito nell’ambito dell’Accademia come accennato, l’alleanza con i Lati-
delle Scienze di Berlino, in cui M. fu ani e con gli Ernici. Al periodo imme-
capo della Classe storico-filogica dal diatamente successivo al tumultus gal-
1874 al 1895. Di lui si ricordano, tra ilicus risale, secondo la communis opi-
moltissimi lavori (si contano oltre mille
nio, la costruzione delle c.d. ‘mura
saggi), anche il volume sul Diritto pubbli-
serviane’ (378 a.C.) e in tale periodo si
co romano, quello sul Diritto penale, una
riacutizzarono problemi mai risolti,
Storia della monetazione romana, nonché
l’edizione postuma del Codex Theodosia- tra cui le lotte per lo sfruttamento del-
nus. Nel 1902 ricevette il premio Nobel l’agro pubblico e la piaga dei debiti.
per la letteratura per la sua Storia di Ro- Si è già accennato al fatto che le
ma, dove egli aveva saputo mostrare, co-leggi Licinie Sestie del 367 contene-
me scrisse Mazzarino, una mirabile “ca- vano una normativa de modo agro-
pacità di proiettare una riflessione stori-
rum, che fissava a 500 iugeri (125 et-
ca in pagine di alta poesia”. (A.P.)
tari) l’estensione massima di ager pu-
blicus occupabile, e un’altra che cercava di porre rimedio al problema dei
debiti, stabilendo che l’interesse già pagato doveva essere detratto dal saldo
complessivo, la cui corresponsione poteva completarsi in tre anni.
Il primo di questi provvedimenti ha provocato infinite discussioni tra gli storici
moderni, nel cui ambito una frangia piuttosto autorevole considera la notizia una re-
trospezione anacronistica di situazioni agrarie venute a maturazione solo nel II secolo
a.C., tanto più che il limite di 500 iugeri è quello stesso indicato nella rogatio Sempro-
nia del 133 a.C. Gabba, per citare solo uno di questi storici ‘revisionisti’ dell’annalisti-
ca liviana, si mostra piuttosto scettico sulla possibilità che la limitazione di possesso
dell’ager publicus espresso nelle leggi Licinie Sestie possa effettivamente riferirsi alla
60 Rosalba Arcuri

prima metà del IV s., per cui la legge agraria, se autentica, si sarebbe limitata ad am-
mettere i plebei all’utilizzo dell’agro pubblico, posizione risalente a Tibiletti e prima
ancora al Niese (1888), seguita pure da Marta Sordi, che vede nel provvedimento il ri-
conoscimento di un diritto di parità tra patrizi e plebei, “la riduzione a norma dell’an-
tico regolamento consuetudinario de modo agrorum, e non …assegnazione immediata
di terre”. Secondo altri studiosi invece, apparirebbe ingiustificata una diffidenza così
radicale nei confronti della tradizione, la quale potrebbe sì risentire di influenze di età
graccana, ma non al punto da essere rigettata in toto. Anche su questo versante non
mancano autorevoli difensori: Münzer, Last, Frank, De Martino, Kolendo e il suo al-
lievo Ziolkowski, che danno risalto ad App. b. c. 1, 33, locus che completa le notizie di
Liv. 6, 35, 5 e Varr. de r. r. 1, 2, 9. A sua volta Cassola ricorda una legge nota a Liv. 10,
13, 14 per il 298, in forza della quale molti cittadini vennero multati per il possesso il-
legale di agro pubblico, disposizione non nuova per quel tempo e che pertanto doveva
risalire al IV secolo. Non è escluso, come ha pensato Scullard (sulla scorta di Gell. 6,
3, 37 e App. b.c. 1, 8, 33), che la legge contenesse norme per limitare il numero di capi
di bestiame (100 capi di bestiame grosso e 500 minuto) pascolanti sull’ager publicus,
anche questo riflesso del conflitto d’interessi economici tra i patrizi allevatori e i plebei
interessati allo sfruttamento agricolo dei terreni pubblici.

Quale che sia lo spirito della legge, le condizioni economiche dei plebei
potevano risollevarsi in effetti solo con l’assegnazione viritana di terre, con
la deduzione di colonie, con l’ampliarsi dei traffici commerciali e, conse-
guente a quest’ultimo, con lo sviluppo delle attività artigianali. E quale che
sia stato il risultato effettivo di queste leggi, esse hanno il merito di aver sot-
tolineato ancora una volta quali erano i problemi socio-economici della ple-
be e del popolo minuto in genere: la richiesta di terre e i debiti. Ancora in
età imperiale Aulo Gellio (20, 1, 45-52) ricorda l’infelice condizione dei
nexi, i debitori ridotti in schiavitù, passibili di essere obbligati al lavoro for-
zato, venduti come schiavi o addirittura uccisi. In considerazione del mol-
tiplicarsi di leggi promulgate nel IV secolo per risanare questa situazione,
si può ben concludere che essa in questo torno di tempo fosse davvero al
centro delle preoccupazioni della res publica. Dieci anni dopo il plebiscito
che Livio attribuisce a L. Duilio e M. Menenio nel 357 – lo stesso che limi-
tava il tasso d’interesse, legge da Tacito fatta risalire alle XII Tavole (supra)
– venne concessa ai debitori una nuova moratoria di tre anni (Liv. 7, 27, 3-
4). Nel 342 si verificò una grave crisi politica, quando dei soldati romani di
stanza in Campania si ribellarono perché, oberati dai debiti, avvertirono
dolorosamente il contrasto tra la loro povertà e l’opulenza delle terre cam-
pane che erano stati chiamati a difendere (Liv. 7, 38-42). In questo clima di
profondo disagio la tradizione colloca l’approvazione della lex Genucia,
con cui si giunse a proibire il prestito ad usura, ma da provvedimento
estemporaneo e poco realista qual era, era destinata ad essere evasa e pre-
sto revocata, benché tanto Tacito (Ann. 6, 16, 3) che Appiano (B.c. 1, 54)
ricordino tempi in cui era fatto assoluto divieto di prestare ad usura. Nel
352 venne istituita la commissione dei quinqueviri mensarii col compito di
Dal decemvirato legislativo alla censura di Appio Claudio 61

soccorrere i debitori in difficoltà mediante funzioni quasi da banca di Sta-


to, se così si può dire: i quinqueviri concedevano anticipi, rilevavano le ipo-
teche dietro adeguate garanzie o le saldavano permettendo le azioni lega-
li di fallimento. Anche la c.d. lex Silia sui prestiti, di cui è notizia in Gaio
(Inst. 4, 17, 19-20), è stata datata all’inoltrata seconda metà del IV seco-
lo (Giuffrè). Ma un autentico passo avanti si ebbe solo con la lex Poetelia
Papiria del 326 (secondo Liv. 8, 28) o del 313 (secondo Varr. L.L. 7, 105,
ma il passo in questione è molto corrotto), grazie alla quale, per usare le pa-
role di Cicerone (De r. p. 2, 59), “le catene dei cittadini vennero sciolte”.
Essa di fatto non aboliva il nexum, ma lo mitigava nei suoi aspetti più arbi-
trari e odiosi, imponendo che il giudizio dei magistrati sul caso in oggetto
dovesse sempre precedere l’esecuzione, sottraendo così il debitore alla cru-
da logica del “fai da te”, certamente molto diffusa tra i creditori, ma alta-
mente indesiderabile in un periodo così travagliato, in cui la repubblica
cercava di prevenire le cause dell’insolvenza cronica, quali appunto i tassi
d’interesse usurari.
La guerra contro la potente Veio era stata vinta grazie anche all’alleanza
di Tuscolo, con il supporto della quale era stato effettuato lo scavo dell’e-
missario del lago di Albano al fine di irrigare i pascoli della campagna roma-
na, onde è possibile notare l’importanza dell’allevamento nell’Italia centrale
del V secolo. Le relazioni commerciali di Veio con l’agro falisco giustifica-
no l’appoggio che i Falisci diedero ai veienti: fu probabilmente dopo il 396
che in territorio falisco nacquero le colonie latine di Sutrium e Nepete.
Dalla metà del IV secolo Roma dovette affrontare l’insorgente ostilità
della Lega latina. Il terrore provocato dalla seconda incursione gallica nel
358 portò i contendenti ad un accordo che sarebbe durato fino allo scop-
pio della guerra latina, anzi, secondo alcuni, il famoso foedus Cassianum,
che la tradizione situa agli inizi del V secolo, andrebbe identificato con
questo foedus stipulato su base di parità, per cui gli alleati erano tenuti a
fornire lo stesso numero di contingenti in caso di guerra, si spartivano
equamente il bottino e a turno nominavano il dittatore.
Nel 357 vennero create due tribù rustiche in territorio volsco, la Pomp-
tina e la Poblilia.
Le vicende della guerra latina del 341-338 a.C. si intrecciano in dinami-
che piuttosto complesse con il racconto che le fonti tramandano dei primi
due conflitti tra Roma e i Sanniti (anche se al primo di questi si tende oggi
per lo più a negare validità storica o, come vedremo, a postdatarne la cro-
nologia rispetto alle date tradizionali). Stando all’intricato racconto fornito
dalle nostre fonti, al tempo del conflitto tra Sanniti e Sidicini (343), i roma-
ni erano alleati dei Sanniti, entrati a loro volta in contesa con i Latini per
l’aiuto prestato da questi ai Sidicini. I termini dell’alleanza conclusa appena
l’anno successivo dai Romani con i Sanniti aveva scontentato i Latini, poi-
ché essa riconosceva la supremazia sannita sul territorio sidicino; inoltre al
62 Rosalba Arcuri

rifiuto opposto da Roma alla proposta, da parte latina, di formare uno stato
unitario sarebbe scoppiata la guerra, conclusasi nel 338 con lo scioglimento
definitivo della Lega latina, l’annessione dell’ager Falernus, l’avvio di una
nuova ondata di colonizzazione agraria, con la creazione, ai piedi dei colli

Tav. 5 - Gli stanziamenti delle popolazioni celtiche in Italia nel IV secolo a.C.
Dal decemvirato legislativo alla censura di Appio Claudio 63

Albani, di due nuove tribù rustiche, la Scaptia e la Maesia, nonché la fon-


dazione della colonia militare di Anzio. Uguale funzione strategica ebbe la
colonia romana di Terracina (329) a sorveglianza del passo di Lautulae, co-
me pure le colonie latine di Cales e Fregellae. Il rovesciamento di alleanze
che in questo conflitto aveva visto la formazione di una grande coalizione
antiromana di Latini, Volsci, Sidicini, Campani e Aurunci contro Romani
e Sanniti, attestato in modo abbastanza fededegno anche dai Fasti triumph.
ad a. 341, dove si legge che T. Manlio Torquato trionfò su Latini, Campani,
Sidicini e Cumani, ebbe come conseguenza la formazione di uno stato ro-
mano-campano. Nel 318, sul territorio strappato ai Campani alla destra del
Volturno, fu creata la tribù Falerna. Gli equites Campani di Capua, che
avevano abbandonato l’alleanza con i Latini, furono premiati con la citta-
dinanza romana nel 340, riconoscimento che toccò ai Campani tutti e agli
abitanti di Cuma e Suessula nel 338, poiché nelle ultime fasi della guerra
erano stati a fianco dei romani (Liv. 8, 14, 10, che pone l’accento sul merito
degli equites, quia cum Latinis rebellare noluissent). Da notare tuttavia la di-
cotomia nel trattamento riservato agli equites da un lato e al populus cam-
pano (forse la popolazione rurale) dall’altro, condannato a pagare un’am-
menda di 1450 denari annui, probabile indizio, secondo Musti, dell’inte-
resse romano ad un programma espansionistico. I membri della disciolta
Lega latina furono legati a Roma con soluzioni politiche diverse, ad es. Tu-
scolo e Lanuvio divennero municipia, Aricia municipium foederatum, Ar-
dea, Sutrium, Nepete, Signia, Norba, Circei conservarono il nomen Lati-
num, ma subirono restrizioni nel diritto di commercio e di connubio.
Roma, anche dopo questo importante risultato politico-militare che l’a-
veva resa padrona del Lazio e di parte della Campania, attuò nei confronti
dei suoi ‘alleati’ latini dei metodi di controllo illuminati, vòlti a creare inte-
ressi collettivi in comunità cittadine che divennero membri effettivi della
confederazione romana, ai quali non erano richiesti imposte e tributi, ma
solo contingenti che combattessero a fianco della città egemone in vista di
una compartecipazione alla vittoria.

5. I Sanniti e le altre nationes: Roma e l’Italia tra IV e III sec. a.C.


Fonti: Il racconto continuato delle tre guerre sannitiche e delle vicende a queste cor-
relate è contenuto nei libri VII-X di Livio. Vedi inoltre: Diodoro Siculo, Biblioteca
XIX, 72, 8 ss.; 76, 3 ss.; Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, libro XV; Ap-
piano, Samnitikà; Frontino, Stratagemmi I, 5, 14; IV, 5, 9. Distribuzioni viritane in
Sabina con relativi dati sulla centuriazione: Valerio Massimo, Detti e fatti memo-
rabili IV, 3, 5; Plinio il Vecchio, Storia naturale XVIII, 18.

In termini di storia non solo politica ma anche culturale, la conqui-


sta dell’etrusca Capua nel 423 varr. e della greca Cuma nel 421/0 ad opera
64 Rosalba Arcuri

di genti di stirpe sabellica segnò una svolta epocale nella storia delle an-
tiche genti d’Italia e dei loro equilibri interni. In questi anni, la colonia
spartana di Taranto doveva fare i conti con Iapigi e Messapi, bellicosi po-
poli anellenici suoi vicini e Dionisio I di Siracusa fronteggiava gli attac-
chi dei Siculi, non ancora domi dopo il fallito tentativo di Ducezio di crea-
re in Sicilia una lega in funzione anti-siceliota, situazioni tutte che raffor-
zano nei moderni l’impressione che in Italia e nelle isole, allo spirare del V
secolo, si assiste ad una sorta di rivolta dei popoli autoctoni contro la ci-
viltà aristocratica di cui Etruschi e Greci erano portatori. In realtà, non
è difficile rinvenire all’interno di queste dinamiche storiche cause di ti-
po economico, più che culturale, in grado di spiegare plausibilmente l’in-
sorgere di una simile pressione sui più evoluti e urbanizzati popoli Etruschi
e Greci.
Nonostante l’archeologia dell’Italia preromana abbia compiuto negli
ultimi decenni notevoli passi avanti, resta tuttavia difficile cogliere appie-
no le peculiarità dei popoli italici basandosi unicamente sull’evidence ar-
cheologica, laddove forse più soddisfacente sub specie historica è l’indi-
viduazione di ‘stili economici’ così diversi da segnare uno spartiacque tra
due Italie. Infatti le condizioni economiche privilegiate della grande pia-
nura tirrenica finirono per suscitare la cupidigia dei montanari dell’entro-
terra – Liguri, Volsci, Equi e Sanniti –, che mirarono a soppiantare gli abi-
tanti di quella florida regione con la forza. Proprio la spinta verso le pianu-
re del Lazio da parte di Equi e Volsci, poi fermata da latini e romani con-
giunti, è meglio spiegabile se la si fa risalire a sua volta alla pressione delle
genti sabelliche, premute verso il sud, come in un effetto-domino, da Etru-
schi e Piceni. Sono dunque soprattutto motivazioni economiche che spie-
gano la mobilità dei popoli appenninici, tra cui i Sanniti, che scendevano
in pianura seguendo l’antichissimo rito del ver sacrum, col quale si consa-
crava tutta una nuova generazione all’esilio verso terre migliori, unica val-
vola di sfogo demografico ad un’economia pastorale povera, praticata sfrut-
tando i tratturi interni, di contro al privilegiato asse stagionale Umbria-La-
zio sfruttato per il grande allevamento transumante. Sono queste le dina-
miche che portarono genti di stirpe osco-sabellica – nelle fonti classiche no-
te generalmente come Samnites – ad impadronirsi dell’etrusca Capua e del-
la greca Cuma nell’ultimo quarto del V sec. a.C., venendo così a contatto
con le due grandi civiltà dell’Italia antica e dando vita ad uno stato osco-
campano e ad una forma di cultura originale, nell’ambito della quale i c.d.
equites Campani, rappresentanti dell’aristocrazia osco-sannita, detenevano
il potere politico. Si crearono così in Campania tre federazioni di popoli:
quella campana, con capoluogo Capua, quella nucerina e quella nolana;
tutte nel IV secolo avevano assorbito proficuamente gli apporti del mondo
culturale greco-etrusco, tanto da sentire a sé più affine l’ambiente romano-
latino che non quello dei popoli appenninici, rimasti legati a povere forme
Dal decemvirato legislativo alla censura di Appio Claudio 65

di economia pastorale, nell’ambito delle quali le differenziazioni economi-


che non dovevano essere molto accentuate. A seguito di una seconda mi-
grazione sannitica nacquero due altre confederazioni destinate a stanziarsi
permanentemente in Italia meridionale: quella dei Lucani nelle valli del
Bradano e del Sele, e dei Bruttii nelle regioni montuose interne dell’attuale
Calabria.
Alla metà del IV secolo, l’originario gruppo etnico dei Sabelli si era
profondamente diversificato e tra i gruppi che lo componevano – sanni-
ti delle pianure, etruscizzati e grecizzati, e popolazioni appenniniche rima-
ste legate a forme culturali più primitive, nonché ad organizzazioni sociali
meno evolute in rapporto al modello cittadino radicatosi ormai nella men-
talità degli Osco-campani – non correvano rapporti di buon vicinato. D’al-
tro canto, le razzie per cui erano ben noti avventurieri e mercenari osci,
contribuivano ad accentuare il carattere marcatamente polemico di que-
sto incontro tra due culture di fatto non più affini. Una dinamica storica,
spiegabile in prima battuta con uno sviluppo economico diseguale, si rive-
stì dunque nel IV secolo di forti valenze politiche, un meccanismo in cui
Roma s’insinuò, trascinata dalla speranza che i Campani riposero in lei: di-
fatti, la difesa che la forza romana poteva assicurare contro i temuti attac-
chi dei popoli appenninici spinse i campani ad accettarne il predominio,
come abbiamo visto già a proposito della parte avuta da essi nella guerra la-
tina del 341-338.
Come già accennato, nel 354 a.C. vi era un’alleanza tra Roma e i Sanni-
ti. Costoro erano politicamente riuniti in un’organizzazione federale, il cui
spazio geopolitico non si identificava nelle città, ma nei pagi, circoscrizioni
montane guidate ciascuna da un meddix, capo militare e amministratore
della giustizia. I populi – Caraceni, Irpini, Pentri, Caudini – abitanti di tali
pagi confluivano in una forma federativa nota come touto, con a capo un
meddix tuticus e si riunivano, in caso di pericolo che comportava la presa
di decisioni importanti, a Bovianum Vetus, eletta dunque a capitale della fe-
derazione. Le ragioni dell’alleanza romano-sannita del 354 andrebbero cer-
cate nel comune interesse che i due contraenti nutrivano per la valle del Li-
ri, nonché nel metus gallicus, specie da parte romana, paura presto sop-
piantata dalla rivalità con i Latini.
La tradizione parla di tre guerre sannitiche che avrebbero contrappo-
sto Roma e le aristocrazie campane al mondo appenninico, rispettivamen-
te nel 343/41, nel 327/304 e nel 298/291. Il primo conflitto sarebbe sta-
to innescato dalle ormai annose rivalità fra le tribù dell’Appennino da un
lato e i Campani e Sidicini dall’altro, come già accennato in preceden-
za. Questi ultimi chiedono l’intervento romano e per aggirare l’ostaco-
lo dell’alleanza romano-sannita, fanno atto di deditio, circostanza che, in
virtù del concetto di fides – quasi fondamento della società italica, rappor-
to privato che Roma estende alla sua sfera internazionale, legata forse ai ri-
66 Rosalba Arcuri

ti arcaici dei fetiales e al concetto di bellum iustum, avvertita quale forza di-
vina e per ciò stesso divinizzata –, obbligava moralmente i Romani all’in-
tervento in Campania contro i loro precedenti alleati. I moderni, dinanzi al
racconto confuso e improbabile di Livio, pieno di duplicazioni, negano
fondamento storico a questa prima guerra romano-sannita, il cui resocon-
to peraltro soffre pesantemente nel confronto con le altre fonti, in primis
Diodoro, che non mostra di conoscere altra guerra tra Roma e il Sannio
prima del 327. Alcuni studiosi (Sordi, Brizzi) hanno proposto una cronolo-
gia alternativa (336-334 varr. [332-330]), posposta in rapporto alla conclu-
sione della guerra latina e causata dalla pressione esercitata dai Sanniti su
città e popoli ormai posti sotto la protezione di Roma, come Capua e i Si-
dicini di Teano.
Nel 328 l’insediamento della colonia di Fregelle aveva finito per sbar-
rare ai sanniti la strada della valle del Liri verso la Campania, nonché ogni
accesso verso la costa occidentale. Inoltre, la spinta verso la costa da par-
te dei Sanniti sarebbe risultata intollerabile non solo per i Campani, ma an-
che per gli Apuli, la cui alleanza con Roma sembrava prospettare un accer-
chiamento del Sannio. Nel 327 scoppiò un conflitto interno a Napoli tra le
sue due parti, quella dei Paleopolitai, forse antichi esuli da Cuma, favore-
voli ai Sanniti al punto da accoglierne in città una guarnigione, e quella del-
la ‘citta nuova’, Neapolis appunto, che, con l’appoggio di Capua, chiese
aiuto ai romani per liberarsi dei Sanniti. Il compito di condurre l’assedio
venne affidato al console Q. Publilio Filone, a cui la tradizione attribuisce
le leges Publiliae di cui si è detto. Per molti aspetti Filone fu una figura ri-
voluzionaria di questi anni. Nel 339 era stato nominato dittatore dal suo
collega nel consolato Ti. Emilio Mamercino e la sua era stata una dittatura
‘popolare’ a detta di Livio, perché aveva promosso le tre leggi secundissi-
mae plebi di cui sopra; nel 337 era stato il primo praetor plebeo, nel 327,
console per la seconda volta (lo sarà ancora nel 320 e nel 315), fu il primo
a vedersi ufficialmente prorogare l’imperium consolare per impellenti esi-
genze belliche: racconta infatti Livio (8, 23, 12) che i tribuni fecero pressio-
ne affinché Filone pro consule gereret finché non si fossero concluse le ope-
razioni a Napoli (e difatti proprio durante le operazioni contro i Sanniti si
rese necessario più volte disattendere una delle leggi Genucie del 342, che
vietava la reiterazione di una stessa carica prima che fossero trascorsi dieci
anni). Inoltre Roma si vide costretta in questa occasione a mutare la sua tat-
tica bellica, passando dalla tattica oplitica allo schieramento manipolare,
più agilmente adattabile al combattimento in aree montuose, come l’amara
lezione delle Forche Caudine (321) non mancò di insegnare, per cui
un’ambiziosa manovra di accerchiamento per giungere nell’Apulia attraver-
so l’Appennino – dove peraltro erano stati assoggettati i Vestini e tratti
nell’alleanza romana Marsi e Peligni – si concluse nell’umiliante disastro
dei soldati romani fatti passare sotto un giogo di lance nemiche. Venne si-
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glato un accordo in base al quale Roma cedeva ai Sanniti la colonia di Fre-


gelle. In cerca di riscatto dopo l’umiliazione subìta, Roma avviò la propria
riorganizzazione, a partire dalla creazione di due nuove tribù rustiche, la
Falerna nella Campania settentrionale e l’Ufentina nel medio corso del Liri.
Rotto l’accordo del 321, la città del Lazio conosce un’altra grave disfatta a
Lautulae, strettoia nei pressi di Terracina, dove Q. Fabio Rulliano venne
pesantemente sconfitto. Nel 311 spirò la tregua quarantennale siglata nel
350 con Tarquinia e Falerii, cosa di cui i Sanniti approfittarono prontamen-
te, inducendo le due città etrusche a mobilitarsi contro Roma, staccando
inoltre dalla sua alleanza antichi alleati come gli Ernici e altri, come Marsi
e Peligni, di più recente acquisizione. Fabio Rulliano si riscattò nel 310 con
la vittoria sul lago Vadimone, episodio che sancì l’inizio del definitivo de-
clino delle città etrusche di contro all’accresciuta influenza romana sull’E-
truria. Di più, le aristocrazie etrusche per mantenersi al potere da questo
momento dovettero far ricorso più volte all’intervento romano dinanzi alle
frequenti rivolte di schiavi e di artigiani urbani, ulteriore prova dell’esisten-
za, in ambito italico, di una rete di controllo di stampo aristocratico che si
estendeva a livello peninsulare e su cui Roma faceva affidamento per con-
trollare i territori sottomessi.
La guerra si concluse nel 304, dopo che Roma aveva soggiogato nuova-
mente le nationes di minore importanza politica e costretto all’immobilismo
gli Etruschi. La confederazione sannita mantenne sostanzialmente inaltera-
to il suo territorio, che venne tuttavia accerchiato dalle colonie dedotte da
Roma. Infatti negli anni del conflitto Roma aveva rinsaldato le sue posizioni
nell’Italia centrale: nel territorio degli Equi venne creata la tribù Aniensis,
sorsero le colonie latine di Alba Fucens e Carseoli e nel 299 venne creata la
colonia latina di Narnia, valico verso l’Adriatico in territorio umbro. Nel-
l’area latino-campana, e precisamente nel territorio degli Aurunci, vengono
fondate le colonie romane di Minturno e di Sinuessa (296/5).
L’intervento romano a difesa dei Lucani, pressati dalle insistenti richie-
ste dei Sanniti di entrare a far parte di un’alleanza in funzione anti-romana,
fu il casus belli per lo scoppio della terza guerra sannitica nel 298 a.C. In
quest’ultima tranche dell’ormai annoso conflitto, l’Italia appenninica trovò
un capo carismatico nel sannita Gellio Egnazio, che si sforzò di unificarne
le forze, facendo leva su quella koinè culturale venutasi a creare in ambien-
te tosco-emiliano tra elementi celti ed etruschi e coalizzatasi contro Roma
su istigazione dei Sanniti. Per questa via si comprenderebbe l’intesa tra
Celti, Umbri ed Etruschi, schieratisi con i Sanniti alla battaglia di Sentino,
momento epocale per la genesi dell’Italia romana, come ben compresero
gli antichi autori, che la definirono “battaglia delle nazioni”. Un ricordo di
essa è persino in un frammento di Duride di Samo (FGrHist 76 F56 Ja-
coby), sebbene il racconto più suggestivo rimanga quello liviano, con la
commovente devotio del console plebeo P. Decio Mure, esponente di una
68 Rosalba Arcuri

famiglia consolare in cui il sacrificio religioso per la salvezza delle legioni


era ormai una tradizione (con lo stesso terribile rito suo padre si era immo-
lato nel 340 alla battaglia del Veseris contro i Latini). Tutta la battaglia vie-
ne ad assumere quasi un’aura sacrale sin dai suoi prodromi ominosi, allor-
ché tra i due eserciti schierati erano apparsi una cerva e un lupo, che incon-
trarono diverso destino – la cerva uccisa dai Sanniti, il lupo lasciato illeso
dalle legioni romane –, quasi messaggeri divini, l’uno di Diana, l’altro di
Marte, di cui i romani si riconoscevano discendenti (Liv. 10, 27, 8-9).
Dopo questo evento bellico di eccezionale portata, la guerra si trasci-
nò per un quinquennio, concludendosi nel 290 grazie ai successi di L.
Papirio Cursore e di M’. Curio Dentato, che in quello stesso anno annet-
tè la Sabina. Le condizioni di pace prevedevano la confisca di parte del ter-
ritorio sannita e l’imposizione di essere socii – ai quali era fatto divieto
di avere rapporti politici internazionali a prescindere dai legami con Ro-
ma – anziché amici. I Sanniti formalmente mantennero l’autonomia, di fat-
to non avevano più alcuna possibilità di azione, circondati com’erano dai
possessi romani: nel cuore del Sannio verranno fondate le colonie di Ma-
leventum (268) e di Isernia (263) e a guardia dei Pentri la colonia di Firmo
(264); la stessa capitale dei Pentri, Boviano, era stata conquistata; tra Apu-
lia e Campania era stata dedotta la colonia di Venosa e ad est quella di
Adria. Da nord erano state incorporate Foligno e Spoleto: si era così crea-
ta una barriera che non solo impediva ai Sanniti ogni contatto con i loro
antichi alleati a settentrione, ma tagliava loro anche i vettori della tran-
sumanza. Tra Ancona e Rimini venne confiscato il territorio dei Senoni
(l’ager gallicus), dove nel 283 era stata dedotta la colonia romana di Sena
Gallica. Venne imposta l’alleanza ai Lucani, agli Apuli, agli Italioti e ai
Bruttii, che in questa occasione persero parte della Sila. Nel territorio dei
Salentini, pesantemente agro multati, i Romani dedussero la colonia latina
di Brindisi.
Importanti risvolti economici ebbe in particolare l’annessione della Sa-
bina nel 290 a.C., ai cui abitanti venne riconosciuta la civitas sine suffragio,
mutata in cittadinanza di pieno diritto nel 268. Fabio Pittore (HRR I2, 34)
dice che solo dopo una simile conquista i romani conobbero davvero la ric-
chezza. Una tale abbondanza di terre (si parla di circa 5.000 km2) permise
non solo un’intensa colonizzazione e distribuzioni viritane ai cittadini ro-
mani, ma anche la riserva di parte di queste terre per la vendita privata in
lotti di 50 iugeri a cura dei questori (donde la categoria di ager detto ap-
punto quaestorius). I problemi posti dalla grande proprietà fondiaria così
costituita cominciarono in questo torno di tempo ad essere risolti col ricor-
so alla manodopera servile, che già dalla metà del IV sec. a.C. doveva esse-
re presente in quantità piuttosto rilevanti nell’Italia romana, se nel 357 la
res publica pensò bene di guadagnarci introducendo un’imposta del 5%
sulle manomissioni (lex Manlia de vicesima manumissionum).
Dal decemvirato legislativo alla censura di Appio Claudio 69

Come prima accennato, il III secolo vide anche la fine dell’Etruria. La


rigida divisione in proprietari, servi e proletariato urbano della società etru-
sca era foriera di gravi tensioni sociali, accentuati dal clima di declino poli-
tico delle città etrusche. Nel 265 l’intervento romano a Volsinii per soffo-
care movimenti rivoluzionari tesi a rovesciare il governo aristocratico sancì
la caduta in mano romana della città, da cui furono saccheggiate 2000 sta-
tue. Nel 273 era già stata dedotta una colonia a Cosa, in Etruria meridiona-
le. L’Etruria sparì per sempre dal novero delle potenze peninsulari.
La civiltà etrusca aveva dato moltissimo alla Roma arcaica in termini
culturali e politico-istituzionali. Molte pratiche della sfera religiosa veniva-
no dall’Etruria, a cominciare dall’aruspicina: per tutta l’età repubblicana i
giovani di buona famiglia venivano inviati a Cere per apprendervi la c.d.
“disciplina etrusca”. In età augustea, Dionigi di Alicarnasso (3, 61) ricorda
l’apporto dell’Etruria ai simboli esteriori dell’imperium: lo scettro sormon-
tato dall’aquila, la tunica di porpora ornata d’oro, i littori che portano l’a-
scia e il fascio di verghe.
Le popolazioni italiche dopo la conquista romana si ritrovarono divise
in due categorie: inglobate nella res publica o ad essa legate con un trattato
su base quasi mai paritaria. All’interno di questo quadro generale, vi erano
notevoli differenziazioni: ad es., con le nationes piuttosto arretrate dell’Ap-
pennino centrale e meridionale, poco toccate dallo sviluppo urbano, Roma
procedette alla stipula di foedera comprendenti tutto l’ethnos (Marsi, Peli-
gni, etc.), laddove nelle aree più urbanizzate si preferì concludere trattati
con le singole città. I popoli dell’Italia antica formarono così sul piano giu-
ridico i tasselli di un puzzle geopolitico variegato e complesso. Campani,
Etruschi e Sabini ebbero la civitas sine suffragio, comportante i diritti della
sfera privatistica di commercium, connubium e provocatio, una categoria di
cittadinanza che veniva considerata di poco inferiore alla civitas optimo iure
e quasi gradino intermedio al conseguimento di quest’ultima (i cives sine
suffragio scomparvero come categoria a sé stante intorno al 150 a.C.). Tra
i socii una categoria particolare era quella dei Latini, che per affinità di lin-
gua, costumi e tradizioni religiose con i romani erano destinati a formare
con questi ultimi un gruppo omogeneo. Dopo lo scioglimento della Lega
nel 338 a.C., a conclusione della guerra latina, Roma continuò a dedurre
colonie latine, i cui abitanti provenivano da Roma e da altre città latine mi-
nori ed escogitò lo status giuridico noto come nomen Latinum, i cui bene-
ficiarii godevano non solo del ius commercii, del ius connubii e del ius pro-
vocationis, ma, se si fossero trovati a Roma di passaggio, avevano anche il
diritto di votare nei comizi tributi in una tribù estratta a sorte. Ottenere la
civitas optimo iure per i socii nominis Latini era molto semplice: bastava far-
si registrare in occasione del censimento quinquennale. Per tutti i popoli le-
gati politicamente a Roma, fossero essi socii o cives, vi era l’obbligo del ser-
vizio militare sotto le insegne romane, nonché quello di condividere con
70 Rosalba Arcuri

Roma amici e nemici, il che implicava il divieto di condurre una politica


estera autonoma. Tutti i cives iscritti negli elenchi del census erano tenuti al
pagamento del tributo, imposta diretta calcolata sulla base delle capacità
economiche individuali, da cui invece erano esenti gli alleati, tenuti solo al-
la corresponsione delle imposte indirette, del vectigal – il canone sull’usu-
frutto dell’ager publicus – e dei portoria, il pedaggio sulle merci in transito
attraverso i territori della confederazione romana, le stesse del resto pagate
anche dai cittadini romani. Dei quaestores italici o classici erano stati creati
per far fronte alle accresciute esigenze in uomini e contributi fiscali, mentre
per la giurisdizione civile e penale venivano inviati dei praefecti nelle città
e nei territori incorporati. Per il resto, Roma riconobbe piena autonomia
alle amministrazioni locali, solo limitandosi ad appoggiare, com’è evidente
nel caso dell’Etruria e della Campania, le aristocrazie agrarie che con la sua
classe dirigente condividevano interessi economici e ben presto politici, a
seguito della cooptazione di famiglie italiche nel senato (ad es., gli Atilii
dalla Campania, i Volumnii e gli Ogulnii dall’Etruria, i Sempronii dall’Um-
bria, i Curii dalla Sabina).
Su di un altro piano sono da collocare le colonie romane, create sull’a-
ger publicus, per lo più come presidio lungo le coste, come Ostia, Anzio,
Terracina, Sena Gallica, e costituite in origine da trecento cittadini con le
loro famiglie. Antiche città latine incorporate dopo il 338 (Tusculum, La-
nuvium, Aricia e Nomentum) divennero oppida civium romanorum, i cui
abitanti, iscritti nelle tribù, godevano dei pieni diritti politici a Roma.
Gruppi di cittadini romani erano insediati anche in distretti rurali, noti co-
me conciliabula e fora, che col tempo mutarono il proprio statuto per lo più
in quello di municipi. Il municipium era una città conquistata da Roma alla
quale si riconosceva di solito la civitas sine suffragio; l’etimologia da munia
indicherebbe appunto i doveri cui il centro era tenuto nei confronti della
città egemone, che le riconosceva dei diritti limitati, di cui si è detto. Col
tempo, indicò i centri amministrativamente autonomi.

6. La censura di Appio Claudio (312 a.C.)


Fonti: Livio, Storia di Roma IX, 33 ss.; Diodoro Siculo, Biblioteca XX, 36; Cicerone,
Bruto XIV, 55; Id., La vecchiezza VI, 16. Edilità di Gneo Flavio: Livio, Storia di
Roma IX, 46; Cicerone, Epistole ad Attico, VI, 1, 8; Pomponio, in Digesto I, 2, 2, 7.

Appio Claudio è l’unico uomo politico romano che per l’età medio-re-
pubblicana possa essere confrontato ai grandi del II-I sec. a.C., tanto da
giustificare l’affermazione che con questo personaggio cominci l’autentica
fase storica di Roma (Piganiol). La censura di Appio Claudio fu un mo-
mento rivoluzionario degli assetti sociali a Roma nel tardo IV secolo e di
essa abbiamo un resoconto completo – e per molti tratti scandalizzato – nel
Dal decemvirato legislativo alla censura di Appio Claudio 71

libro IX di Livio e in Diodoro Siculo (20, 36, 1-6), fonti (specie la prima)
che spesso riflettono correnti della tradizione ostili alla gens cui il censore
apparteneva. Il suo elogium si leggeva ancora in età augustea ad Arezzo
(CIL XI, 1827) e in esso si insiste sulle numerose magistrature da lui rive-
stite. Diodoro dice che Appio Claudio, nel tentativo di accattivarsi il favore
popolare, non si curò del senato, anzi, gli recò apertamente offesa con l’am-
mettere nel prestigioso consesso i figli dei liberti. Permise poi ai cittadini di
iscriversi in quale tribù volessero, ma, per non inasprire ulteriormente l’o-
ligarchia senatoria, non escluse nessuno dall’albo per indegnità, né privò al-
cuno del cavallo pubblico. I consoli, che l’avevano in odio, convocarono il
senato non secondo l’albo da lui redatto, ma sulla base della redazione dei
precedenti censori. Il popolo, che era favorevole a queste innovazioni per-
ché sperava in un miglioramento delle proprie condizioni, nel 304 a.C. eles-
se edile curule un plebeo figlio di un liberto, Gneo Flavio, cliente di Appio
Claudio. Diodoro aggiunge che Appio, dopo aver deposto la carica di cen-
sore, che aveva detenuto oltre i diciotto mesi prescritti dalla lex Aemilia
(vd. supra), si rintanò a casa propria fingendosi cieco allo scopo di sfuggire
all’odio implacabile del senato. Le nostre fonti lo ricordano per la costru-
zione della grande via da Roma a Capua che da lui prese il nome (via Ap-
pia), le prime dieci miglia della quale furono selciate nel 293 grazie ai pro-
venti delle multe inflitte ai possessori abusivi di ager publicus (Liv. loc. cit.),
e ancora per l’aqua Appia, che portava l’acqua dell’Aniene a Roma da una
distanza di nove miglia; fece costruire anche un tempio a Bellona, omaggio
alla dea della guerra e insieme segno consapevole della potenza romana,
nonché, forse, simbolo della penetrazione a Roma dell’ideologia ellenistica
della vittoria (Crawford). La tradizione confluita in Livio, ostile ai Claudii,
dice che egli come censore fu funesto all’integer populus, e si appoggiò
piuttosto alla turba forensis, da intendere molto probabilmente come il ceto
mercantile e affaristico in rapida ascesa a questo tempo, infoltito dall’ap-
porto di immigrati latini, di liberti e figli di liberti e i cui esponenti, deten-
tori di ricchezza mobile, erano comunque costretti ad intrupparsi nelle
quattro tribù urbane (quattro di contro alle ventisette tribù rustiche esi-
stenti in quegli anni). Per la precisione, Livio (9, 34, 11) dice che Appio,
avendo diviso gli humiles in tutte le tribù, forum et campum corrupit, con
allusione al Foro, dove si riunivano i comizi tributi, e al Campo Marzio, se-
de dell’assemblea centuriata. Con la sua riforma, che permetteva ai membri
della popolazione urbana di registrare se stessi e i propri beni anche nelle
tribù rustiche, Appio Claudio consentiva a costoro di infiltrarsi tra i pro-
prietari terrieri che non sempre avevano la possibilità di venire a Roma a
far valere il proprio voto, e ciò tanto più dopo che il criterio maggioritario
dei comizi tributi si era andato meglio definendo, facendo emergere il cit-
tadino individualmente, rispetto ai comizi centuriati, dov’era prevalente il
voto timocratico.
72 Rosalba Arcuri

Non meno scandalo suscitò l’ammissione dei libertini nel senato. Una
linea politica apparentemente così demagogica sembra in stridente contra-
sto con la viva opposizione mostrata dal nostro al plebiscito Ogulnio, con
cui si ammettevano i plebei nei collegi degli àuguri e dei pontefici. Tali con-
traddizioni hanno fatto spendere i proverbiali fiumi d’inchiostro agli storici
moderni, per i quali Appio Claudio non sarebbe stato altro che un dema-
gogo antesignano di Cesare (Mommsen) e, ancora prima, un reazionario
ostile alla nuova nobilitas patrizio-plebea (Niebuhr). Maggiore credibilità
sembra avere la posizione di Staveley, per cui Appio avrebbe caldeggiato
una ristrutturazione degli assetti socio-economici con l’appoggiare i ceti
mercantili, favorendo così l’evoluzione della Roma del IV secolo da centro
eminentemente agricolo a potenza in cui agricoltura e interessi commerciali
avessero importanza uguale e complementare.
Una corrente di pensiero moderna vede i Claudii legati alla plebe urba-
na, e i Fabii ai ceti contadini: il contrasto avrebbe raggiunto la sua acmè al
tempo della censura di Appio Claudio e poi di quella di Fabio Rulliano
(304 a.C.), il quale si affrettò, insieme al collega P. Decio Mure, a cancellare
la riforma relativa alle tribù varata dal suo predecessore, consentendo al
“popolo senza terra” di iscriversi solo nelle tribù urbane. Storici e giusro-
manisti attribuiscono inoltre ad Appio, perché conforme al suo orienta-
mento ‘democratico’, il provvedimento che ammetteva come base del cal-
colo patrimoniale non solo le proprietà terriere ma anche i beni mobili, per
cui un ricco mercante poteva essere iscritto nella prima classe di censo,
quella, per intenderci, che forniva ben 98 delle 193 centurie e il cui voto
all’interno dei comizi centuriati era determinante. Un’ennesima vittoria ri-
portata dalla plebe fu dovuta indirettamente ad Appio Claudio. Lo scriba
plebeo Gneo Flavio, durante la sua edilità curule del 304, ottenuta, sempre
a detta di Livio (9, 46, 10), con l’appoggio della forensis factio, rese pubbli-
co il diritto civile custodito fino a quel momento negli archivi dei pontefici
ed espose nel foro il calendario dei giorni fasti, in modo che tutti i cittadini
sapessero in quali giorni potevano svolgersi le azioni legali. Il giurista Pom-
ponio (D. 1, 2, 2, 7) ricorda questa fondamentale innovazione nel processo
di “laicizzazione” del diritto, dicendo che era stato Appio Claudio a redi-
gere in forma chiara le legis actiones: il suo scrivano Flavio rubò il libro e lo
presentò al popolo, che fu così felice da nominarlo, lui semplice scriba, tri-
buno della plebe, senatore ed edile curule. Nacque così quello che i giuristi
chiamano ius civile Flavianum, fondamento del diritto civile in età repub-
blicana.

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