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STORIA GIURIDICA DI ROMA- PARTE 1 07/11/2017, 15:12

STORIA GIURIDICA DI ROMA


- ALDO SCHIAVONE-
PARTE 1

L’ETÀ DEI RE
CAPITOLO 1
LE FORME COSTITUZIONALI
1. L’ESORDIO MONARCHICO NELLA FONDAZIONE DELLA CITTÀ

Allo stato delle nostre conoscenze e’ impossibile offrire una narrazione con sufficiente grado
di precisione sule vicende della fondazione della città e le sue prime istituzioni pubbliche, anche gli
scrittori romani che hanno lasciato le scritture di cui oggi ne disponiamo ne sapevano poco.
Quando scrivevano Livio o Virgilio, la nascita di Roma, otto secoli fa, era già avvolta nella leggenda e
nel mito, proprio perché la trasmissione delle conoscenze e della storia era stata affidata all’oralità. Le
storie liviane erano elaborate all’inizio dell’impero augusteo e la strategia del nuovo regime esigeva di
attribuire l’origine di Roma all’iniziativa di un eroe come Romolo, discendente del troiano Enea,
capace di creare una sola città e di darle delle istituzioni perfette per un destino di conquista e
governo “mondiale”.
L’orientamento prevalente è per una datazione alta della fondazione del primo nucleo della città, che
si fa risalire approssimativamente alla metà dell’ottavo secolo a.C., confermando il racconto
tradizionale, dove si parla di anni intorno al 750.
Colui al quale venne attribuita la fondazione della città, in un’area compresa fra l’ultimo tratto del
Tevere e una breve catena di colli, già al centro di un intenso traffico commerciale e di una serie di
insediamenti “precittadini” - una persona chiamata Romolo – lascia intravedere, pur attraverso la
rielaborazione leggendaria, tutti i caratteri di uno di questi personaggi: un guerriero “senza
famiglia”, figlio di un dio, e immaginato capace di uccidere il fratello pur di affermare l’inviolabilità
del nuovo spazio che aveva appena fatto nascere.

2. La città e i re

La prima città prende dunque forma entro una rete di poteri fragile, fluida, ma ben delineata:
il culto, le armi, il popolo, la proprietà della terra.
Al centro vi era una mentalità aristocratica. Intorno alle pratiche magico-religiose dei sacerdoti, e con
le imprese dei condottieri a capo del popolo, prese forma la più antica dimensione unitaria della città.
La socializzazione attraverso i legami di clan (e non tramite circuiti politici di un corpo civico) e la
differenziazione aristocratica marcarono indelebilmente la città nel suo sviluppo.
La più remota struttura di potere da identificare nella storia della città è una specie di “meccanismo
unico” re-sacerdoti: la chiave di tutta l’età pre-etrusca di Roma.
Oltre le figure del re e dei sacerdoti, la Roma più arcaica aveva visto emergere, intorno ai legami tra il
popolo, anche l’inizio di una trama istituzionale, che però dovette formarsi successivamente alla
fondazione della città. Si può identificare i punti salienti in due elementi. Il primo è in un’assemblea
di ‘notabili’, costituita dai padri a capo delle popolazioni più importanti. Era il nucleo del successivo

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senato. Il secondo era invece rappresentato dalla presenza di una specie di reticolo distributivo che
divideva l’intera popolazione maschile della città in tre “tribù” (i RAMNES, i TITIES e i LUCERES),
ognuna di esse, a sua volta, frazionata in dieci unità. Queste formavano le trenta curie, la cui
convocazione congiunta dava vita a una riunione in seguito nominata comizio curiato, soprattutto
con funzioni rituali.
Nel sento secolo si assiste all’emergere del primo cittadino: con il grande periodo etrusco. Il
“meccanismo unico” re-sacerdoti comincia a perdere peso: il nuovo equilibrio si sposta ora sull’asse
non mistico ma propriamente politico fra re e d esercito.

IL REX LATINO

Livio narra che Romolo una volta fondata Roma, riuni i primi cittadini ai quali era nota ogni
forma di convivenza civile e distribuito tra questi contadini e pastori piccoli lotti di terra coltivabile
( bina iugera- due iugeri, mezzo ettaro a testa) e diede delle regole senza le quali non sarebbe potuta
esistere alcuna comunità organizzata.
Per parte sua Sesto Pomponio riferisce che dopo un periodo in cui i re governarono la città in
forza esclusivamente della loro autorità, venne Romolo che comincio a governare sulla base di regole
date con leggi (legis reagiae—> che egli presentava per l’approvazione all’assemblea dei cittadini
riuniti nelle 30 curie- i comizi curiati- in cui lo stesso Romolo aveva distribuito la cittadinanza).
Sia per Livio che per S. Pomponio l’assetto fondamentale della città si sarebbe basato già con Romolo
su certe distribuzioni- divisioni - degli uomini come delle terre.
Romolo aveva divisi i cittadini in tre tribù:
— TITIES (nome derivato dal re sabino Tito Tizio, che Romolo si sarebbe associato al
potere );
— RAMNES (nome derivato dallo stesso Romolo);
— LUCERES (nome di origine imprecisata). ( a ciascuno avrebbe attribuito dieci unita
denominate curie)
“ REX”- e’ colui che guida tracciando linee rette, sulla tera questi tracciati segnavano i
confini tra ciò che appartiene alla città e ciò che e’ ad essa estraneo. Il confine e’ sacro e non può
essere impunemente violato, come dimostra il noto episodio dell’uccisione del fratello Remo- che
l’aveva oltrepassato per scherno- da pare del re Romolo.
Romolo dà le regole che dividono le condotte corrette da quelle scorrette, REGULA- ha la stessa
radice indoeuropea di rex, la radice *reg- che indica il procedere secondo una linea retta =, una
necessita istituzionale quando si tratta di identificare ciò che appartiene al singolo e rispettivamente
alla città. In questo senso il rex della Roma degli esordi aveva funzione istituzionale di tracciare questi
direzioni e di creare un ordine impossibile dell’indistinto precedete, cosi come affermava Servio “
dalla divisione dei compi sono nati i diritti”.

3. La monarchia etrusca nella tradizione romana

Almeno due degli ultimi tre re furono di origine etrusca, Tarquinio Prisco e Tarquinio il
Superbo, qualche dubbio su Servio Tullio.

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Con Tarquindio Prisco la città fu invasa da una serie di iniziative: una grandissima serie di opere
pubbliche, come acquedotti, fognature, lastricati delle strade, templi, circo e ippodromo. In
particolare la pavimentazione fece del Foro il centro degli affari pubblici e privati. Inoltre fu
introdotta la coltivazione dell’olivo.
La città crebbe anche dal punto di vista demografico e territoriale. La città dopo il regno di Anco
Marcio si sarebbe fatta più sapiente, secondo cicerone, per l’innesto di una cultura estranea a quella
delle origini.

4. La riforma serviana

Tarquinio Prisco , succeduto ad Anco Marcio, elevò il numero dei senatori portandolo da
duecento a trecento. Lo scopo sembrava quello di creare un gruppo certamente favorevole al nuovo
monarca.
Sembra che Servio abbia deciso un’ulteriore suddivisione della cittadinanza ripartendola in tribù
territoriali, di cui quattro urbane e altre extra-urbane: dividere i cittadini in base alla localizzazione
degli immobili di loro proprietà. Queste tribù dovevano funzionare come distretti di leva e curare
l’esazione dei tributi direttamente dai singoli cittadini.
Avvenne la trasformazione dell’adunata dei militari per centurie in una vera e propria assemblea
politica: non sarebbe stato possibile escludere a lungo dalla partecipazione dell’esercizio del potere
pubblico, quei cittadini che pur sostenevano le spese, le fatiche, i lutti di guerra.

5. Verso la Repubblica

Con i nuovi legami “politici” tra i cittadini-soldati dell’esercito centuriato, il potere supremo
non poteva non risultare modificato.
La tradizione riferisce che fu il patriziato a scacciare Tarquinio il Superbo: il suo regno avrebbe
assunto un carattere tirannico, avendo governato contro la volontà del popolo e del senato. TitoLivio
narra che, a seguito dello spostamento dell’ultimo monarca, la creazione dei primi consoli sarebbe
avvenuta, nel comizio centuriato, in corrispondenza alle regole stabilite in certi commentari scritti
dallo stesso Servio Tullio.

CAPITOLO 2

LA PRODUZIONE NORMATIVA
1. RE E SACERDOTI

La prima città prese forma entro una rete di istituzioni e di poteri ancora fragile ma ben
delineata:
- i culti religiosi;
- il commando militare;
- la gentes;
- la proprietà della terra.

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La più remota struttura di potere che si riesce ad identificare nella storia della città, un meccanismo
unico, RE- SACERDOTI, la chiave di tutta l’eta pre-etrusca di Roma, era un meccanismo che
integrava un sapere magico- religioso e un potere militare di clan entro una stessa trama, anche se vi
erano delle scelte differenziate all’interno per una duplicità di ruoli: forza fisica, relativa giovinezza,
attitudine al combattimento per il rex, capacita cognitive, memoria e immaginazione pe ri sacerdoti.
L’esistenza di questa divisioni di compiti non implicava una rigorosa separazione di funzioni.
Un testimonianza di Festo, disegna questa condizione di intreccio fra re e sacerdoti, espressa
attraverso la comune partecipazione al medesimo ordine, ma la tradizione di Festo era antichissima,
una descrizione dell’intera gerarchia di potere della città delle origini, rinchiusa in una -
DISPOSIZIONE DEI SACERDOTI- che al suo interno vi era posto per lo stesso rex (anche egli un
sacerdote).
La religiosità insieme alla carisma e alla forza del re tengono insieme la città delle origini.

2. IL PRIMO IUS
Le fonti del “ ius cittadino”: il collegio dei pontefici (ancora operante nel primo secolo a.c) e
le leggi delle XII tavole.
Dell’attività più risalente dei pontefici restano solo tracce labilissime e indirette (il loro lavoro era
esclusivamente orale) ed in quanto alle XII tavole che erano invece un testo scritto, si e’ in grado di
costruire una versione assai frammentaria.
Nella città più antica si formarono una serie di rituali- di gesti e di parole- che:
1. scandivano i comportamenti dei patres: stringere matrimonio, fare testamento, contrarre
debito, vendere un animale o appezzamento di terra.
Non rispettarli significava porsi fuori dallo ius, spezzare l’ordine della comunità e uscire fuori dalla
protezione degli dei e del sentire collettivo. Quindi il termine IUS indicava un complesso di riti, di
prescrizioni, di vincoli sospesi fra l’umano e il divino, e questo ha avuto un ruolo essenziale
all’interno dei rapporti sociali e di potere della comunità.

3. IL SAPERE DEI PONTEFICI

La conoscenza del ius fu sin dall’inizio patrimonio esclusivo e gelosamente custodito dal
collegio dei pontefices, che con i tre flamines, il gruppo delle vestali e il collegio degli augures,
costituivano il più antico sistema sacerdotale romano, riserva esclusa del patriziato, organizzazione
perfettamente operante in epoca arcaica, con una precoce specializzazione di compiti al suo interno:
ritualità scarificale e simbolica attribuita ai flamini, e funzioni di conoscenza e di custodia della
memoria collettiva concentrate nei pontefici.
I pontefici- guidati dal pontifex maximus - erano propriamente i “sapienti” di Roma, i custodi e gli
interpreti del suo più importante patrimonio conoscitivo: del calendario, con le previsioni delle fasi
lunari e dei dies fasti (i giorni graditi agli dei, in cui era consentito svolgere particolari attività), delle
formule rituali nelle invocazioni delle divinità, inoltre registravano la storia della città, con gli
avvenimenti più importanti: le carestie, le eclissi, e partecipavano ai comitia calata in cui venivano
compiuti atti fondamentali della vita collettiva, il loro sapere aveva un forte connotato di utilità
sociale, e mirava ad assicurare ai suoi fruitori un beneficio diretto ed immediato.

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La creazione del ius era per i pontefici innanzitutto il frutto della memoria dei MORES
(abitudine, consuetudine, costume) formatesi all’interno delle strutture gentilizie.

4. IL PARADIGMA DEL RESPONSUM

I responsa dei pontefici costruivano la regola vivente della città, la proiezione cristallizzata
delle sue relazioni sociali, i pontefici usavano la conoscenza dei mores anche per disciplinare,
all’interno della comunità i rapporti tra i diversi gruppi familiari, aiutando e integrando la funzione
del rex. Rispondere alle domande dei patere che li interrogavano divenne per loro un compito
fondamentale, e quindi ai pontefici veniva chiesto con differenza e sottomissione i rituali a cui
attenersi per dar forma alla propria condotta sociale, percepita i modo dipendente rispetto alle
credenze religiose ( a richiedere la protezione delle pronunce pontificali erano: la patrilinearità, la
reciprocità e lo scambio matrimoniale).
I responsa tuttavia non costituivano norme di carattere generale, valevano solo per il caso sollevato
nella domanda che era stata proposta ai pontefici, pero non venivano dimenticati, al loro memoria era
affidata al collegio pontificale, di generazione in generazione, ed ogni nuova domanda dei patres
veniva confrontata con la possibile esistenza di precedenti e con i possibili pareri già dati.
Sino a tutto il III secolo il sapere era esclusivamente orale, l’oralità ricopriva un ruolo
costitutivo, che condizionava pesantemente le conoscenza che esprimeva, il loro stile, la loro
trasmissione e il loro modo di essere.
RAPPORTO FRA ORALITÀ ED EVENTO - L’oralità si fissa sul sul singolo accadimento, filtro
dalle parole che lo rappresentano, nel sapere dei pontefici ‘evento e’ propriamente il responso, e
l’occasione che lo determina. Le parole del racconto di chi interroga, le parole del sacerdote sapiente
che consiglia e prescrive rispondendo.Conservare la sapienza per eventi e non per concetti appare in
quest’epoca una scelta senza alternative, e sarà un abitudine che rimarrà a lungo.
Con la nascita della politica, la connessione fra pronuncia del ius ed esperienza religiosa inizia ad
indebolirsi, più si allargava e irrobustita la spera della politica più il peso della regione e dei rapporti
di parentela gentilizi si faceva meno dominante.

5. LEGES REGIAE?

Il ius di provenienza pontificale non sarebbe stato l’unico attraverso cui la città delle origini
strabica le prescrizioni che regolavano la propria vota sociale, accanto sarebbero esistiti i comandi
provenienti direttamente dal potere regale, e cioè le leges regiae - leggi del re.
Di queste disposizioni sarebbero esiste due raccolte: la prima realizzata da Servio Tullio, che avrebbe
dovuto comprendere norme dai tempi di Romolo e Numa Pompilio, la seconda riferita all’età di
Tarquinio il Superbo, e attribuita a un Sesto Papirio, che avrebbe raccolto tutte le leggi di età regia in
un opera nota come “ IUS PAPIRIANUM” .
Sembra impossibile credere che queste disposizioni siano raccolte nell’eta di Sevio o Tarquinio, e
che esse abbiano avuto in dall’inizio una forma scritta e resta impossibile credere che queste leges
siano state approvate al momento della loro emanazione dai comitia curiata, che si trattasse non solo
di leges regiae a anche di leges curiatae.

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CAPITOLO 3
IL DIRITTO PRIVATO

1. I QUIRITES E LE GENTES

A Roma si può individuare un’autentica regolarità: la guerra e’ il grande, forse unico lavoro
collettivo della comunità alle sue origini, quindi le istituzioni politiche e quadro di reclutamento della
formazione armata si conformarono ad un identico criterio organizzativo.
il populus- vale a dire l’insieme degli uomini in armi era suddiviso in 30 curiae* ( **insieme
di uomini o luogo di unione di viri)
i quirites- termine che contraddistinse sempre i romani, deriva da *co-virites, gli uomini
delle curie.
ma il populus riunito nelle curie costituiva la più antica assemblea cittadina.
La curia rappresentava la comunità di villaggio, e non contemplava al suo interno differenze di status
o diseguaglianze (lo dimostra il fatto che potevano partecipare alle feste dei quirinalia degli stulti, “
coloro che avevano dimenticato l’appartenenza a una curia” determinata), a a partire della metà
dell’VIIIsecolo le cure furono poco a poco assoggettate al potere delle gentes.

2. PERSONE, FAMIGLIA E SUCCESSIONI

2a. LA FILIAZIONE: PRINCIPIO PATERNO E PRINCIPIO MATERNO

Alcuni istituiti come matrimonio, filiazione legittima e cittadinanza non si possono studiare
separatamente perché sono connesse tra loro per definizione. Quando un uomo muore lascia
qualcosa dietro di s, uno statuto, una posizione sociale, dei beni, e questo patrimonio deve passare a
qualcun altro.
Nell’ordine giuridico romano delle origini e’ la filiazione il principio di trasmissione della parentela,
dell’eredita e della successione (trasmissione di funzioni), nella maggior parte della società lo statuto
o l’appartenenza a un certo gruppo si trasmettono o attraverso il padre o attraverso la madre.
A Roma principio paterno e principio materno convincono, il primo regola il matrimonio e il
secondo le nascite al di fuori di iustae nuptiae, ed il principio paterno si articola su quello materno,
tutto questo attiene alla trasmissione dello status e di conseguenza della cittadinanza.
La società romana e’ caratterizzata da una struttura patriarcale, in cui risultano centrali i poteri nella
patria potestas del pater e anche rituali come il tollere libero.

2b. L’ADROGATIO

L’esame del formulario dell’adrogatio permette di ricostruire la filiazione, il brutale


dell’adoptio populi auctoritate soltanto due volte all’anno davanti ai comizi curiati, presieduti dal re e
dopo l’istaurazione del consolato dal pontefice massimo.
IL FORMULARIO RIELABORATO DA QUINTO MUCIO SCEVOLA, PONTEDICE

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MASSIMO TRA L’89 E L’82 A.C :


Il nome adrogatio deriva dal modo di passaggio in un’altra famiglia anche avviene per rogatio del
populis, le parole della rogatio sono “ Vogliate comandare che Lucio Valerio sia figlio a Lucio Tizio
per diritto e per legge come se fosse nato dal padre e dalla madre di quella famiglia, e che questi
abbia su di lui potere di vita e di morte come un padre lo ha su un figlio”
Qualora il capo di una famiglia patriarcale fosse privo di un successore poteva sottomettere alla sua
patria potestas un altro pater familias (gaio nel II secolo ricorda che con l’autorizzazione del popolo
adottiamo coloro che sono sui iuris, non soggetti alla potestas di un pater).
questa forma di adozione viene definita ADROGATIO perché all’adottante viene chiesto se
voglia che l’adottato divenga giuridicamente suo figlio, all’adottato se lo accetta, e al popolus riunito
nei comitia se autorizzi che ciò avvenga, questo rito si concludeva con il IUSSUM POPULI, il
commando dell’assemblea presieduta dal pontefice, un atto con le caratteristiche d’una lex populi.

I comizi curiati dovevano verificare due aspetti importanti:


1. uno di carattere politico;
2. uno di natura giuridico-sacrale.
Era opportuno non permettere a un pater, incorporando un’altra famiglia che accrescesse troppo le
proprie sostanze e dunque il proprio potere, ma era anche opportuna di verificare che il rito
dell’adrogatio non corresse il rischio di estinguersi con rave nocumento della pax decorum e
dell’inter comunità.

2c. LA DETESTATIO SACRORUM

L’adrogato, al pari dei figli nati in iustae nuptiae, acquistava il nome della gens e il cognomen
dell’adrogante divenendo partecipe dei novi sacra e titolare del ius sepulcri, ma nella comitia calata si
procedeva anche alla detestatio sacrorum, espressione che si incontra soltanto in due passi di Gellio
(comilatore di curiosità erudite visto intorno alla meta del II secondo d.c), ed era possibile che questa
coincidesse con l’atto compiuto dall’adrogatus innanzi alle curie riunite mediante il quale costi
assumeva il nome gentilizio dell’adrogante , aveva riconosciuto come proprio i sacra della sua nuova
famiglia.

2d. IL CONCEPIMENTO IN IUSTAE NUPTIAE

Una finzione equiparava l’adrogatus al concepito in iustae nuptiae (il figlio di una donna
legittimamente sposata nato almeno 6 mesi dopo le nozze e non oltre il decimo mese dal loro
scioglimento, fuori di questi termini il figlio era considerato spurio), e per considerarsi
giuridicamente tale era necessario che il figlio assuma lo status del padre.
In assenza di iustae nuptiae il figlio era considerato schiavo, peregrinus ( “straniero” ) o
cittadino romano a seconda che la condizione della madre al momento del parto sia di schiva,
straniera o romana, nl matrimonio il figlio segue la condizione del padre al momento del
concepimento. Il concepimento legittimo (in iustate nuptiae) si ricostruisce sulla base di un
meccanismo definito praeseumpitio (presunzione) dai giuristi di epoca imperiale “ il padre é chi

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risulta in base al matrimonio”, mentre il parto (donna che ha concepito da non si sa chi - vulgo- ) si
constata immediatamente. Questo ordine e’ politico perché governa la trasmissione della
cittadinanza.

2e. LA PATRIA POTESTAS

Il poter di vita e di morte costituisce la massima espressione della patria postestas e ne mostra
allo stesso tempo l’intensità, e secondo alcune leggi regie attribuita a Romolo, il padre poteva
incarcerare il figlio purché fosse di età superiore a tre anni, costringerlo al lavoro forzato nei campi,
venderlo o ucciderlo, aveva anche il potere di abbandonare alla propria sorte i neonati mutilati o
mostruosi, ovvero quelli che alla cerimonia del tollere liberos avesse rifiutato di assumere come
membri della propria famiglia entro 9 gg dalla nascita.
nel caso i cui i figli e gli schivi avessero commesso un illecito, il pater sul quale ricadeva la
responsabilita per i delitti commessi da essi poteva ove non volesse pagare la pena, consegnare il
colpevole all’offeso, quindi la famiglia era un organismo economico e politico completamente
dominato dal pater.
Nella lingua delle XII tavole la parole famiglia aveva due significati:
- uno di communia di persone libere;
- uno di patrimonio familiare.
Alcune cose facenti parte della famiglia prendevano il nome di pecunia (cavalli e schiavi), ma tra
famiglia e pecunia non ci e’ contrapposizione perché la pecunia e’ parte della famiglia. Il pater e’ il
signore assolutodi ogni bene, il titolare di tutti i rapporti di credito, e allo stesso tempo, l’unico a
potersi vincolare nei confronti dei terzi, e anche i figli potevano concludere negozi di qualsiasi
genere, ma ricadevano nella spera patrimoniale del padre.

2f. ADGANTI E COGNATI

Nelle XII tavole era racchiusa la disciplina della successione legittima con le tre classi:
— SUI - gli unici ai quali spettava l’appellativo di heredes;
— ADGNATI - ossia dei parenti in linea maschile (agnatizia);
— GENTILES - gli appartenenti allo stesso gruppo gentilizio.
Si definiscono agnati quelli che sono o furono soggetti alla stessa patria potestas o alla stessa manus,
anche anteriormente alla loro nascita, l’agnato non cessa co la morte del pater familias, ma si
perpetua ance neo nuovi membri soggetti agli antichi filii familias ora sui iuris.
Sono cognati quelli che insieme ai loro ascendenti sono stati procreati dallo stesso uomo o stessa
donna. Gli adonti fra di loro sono anche gentiles perché appartengono alla medesima gens, ma non e’
vero il contrario dal momento in cui i gentiles costituiscono una cerchia molto più ampia di quella
degli adgnati.

2g. LA SUCCESSIONE SENZA TESTAMENTO

Nel testo delle XII tavole il fulcro attorno il quale ci organizzo l’inter diritto delle successioni

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fu senza dubbio la patria potestas, per qualificare un suus come erede la patria potestà su di lui doveva
prolungarsi fino all’ultimo istante di via del pater, ma i figli venduti, emancipati o dati in adozione
non potevano succedergli. Nel momento steso in cui il pater muore e viene meno la sua protesta i sui
heredes subentrano.
Se si guarda all’interesse della collettività l’idea era quella di garantire la perpetuità dei culti privati
del defunto, inoltre gli eredi del defunto non potevano accedere all’eredita senza assumere allo stesso
tempo anche le obbligazione religiose che vi inerivano.

2h. TESTAMENTUM CALATIS COMITIIS

Gaio ricorda due forme arcaiche di testamento:

1. TESTAMENTUM CALATIS COMITIIS- e’ un testamento a comizi convocati, era un atto solenne


che si compiva due volte all’anno innanzi ai comizi curiati, purché convocati da un littore e presieduti
dal pontefice massimo, in questo modo un individuo provo di figli designava un successore a cui
lasciare il proprio patrimonio e sfidare l’esercizio dei poteri e delle facoltà che vi inerivano. Questo
testamento può considerarsi una lex perché l’assemblea delle curie era convocata anche per dare la
propria approvazione e non solo di rendere testimonianza.
Da questa configurazione del testamento derivano due conseguenze fondamentali:
- poteva testare soltanto un pater familias ed essere erede soltanto un uomo pubere (innanzi
alle curie non potevano presentarsi donne impuberi);
- non era possibile approvare la nomina dell’erede senza che sia interrogato personalmente il
designato.

2. TESTAMENTUM IN PROCINCTU- e’ un testamento che aveva luogo prima della battaglia, una
volta disposto l’exercitus in formazione serrata, anche questo e’ un atto esclusivo dei patres familias
puberi.

2i. LA MANCIPATIO FAMILIAE

Quando si fa menzione della mancipatio familiae si fa riferimento a due realtà nettamente


diverse fra di loro, la mancipatio familiae e’ per un verso parte fondamentale del testamento per aes
est libram, per altro verso si definisce un negozio a se stante, a non più esistente dopo l’elaborazione
del testamentum per aes est libram.
Tale mancipatio avrebbe fornito il nucleo fondamentale del più complesso testamento liberale
elaborato a seguito dai pontefici, e si distinguono due fasi, una pi antica ed una più recente:
a. in un primo momento i pontefici utilizzando l’archetipo della mancipatio, suggerirono a
quei patres familias di trasferire l’intero patrimonio a un terzo fiduciario , detto familiae emptor, che
questo o lo tenesse per se o in base ad un vincolo della fiducia designasse alle persone prescelte dal
mancipatio dans.

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2j. LO SCAMBIO MATRIMONIALE: matrimonio e manus

Manus e’ un potere sulla moglie analogo alla patria postestas, che non si e’ mai confuso con
matrominium, perché titolare della manus sul uxor poteva essere anche un soggetto diverso dal
maritus, ma anche perché all’unione matrimoniale non sempre si conseguiva immediatamente la
manus.
Presupposto del matrimonio e’ sempre il conubium, il che vuol dire che iustae nuptiae erano per lo
più possibili solo con cittadini, il matrimonio era una situazione giuridica che sorgeva in base al
consenso dei coniugi e restava in vita fin tanto che perdurava tale volontà, questo consensus doveva
concretarsi in comportamenti che permettessero di stabilire con sicurezza che si intendeva dare
inizio ala vita in comune. Per sciogliere il matrimonio era sufficiente il venir meno di questa volontà
dei coniugi, bastava manifestare in modo adeguata il venne meno dell’adfectio.

2k. MODI DI COSTITUZIONE DELLA MANUS

Nell’epoca più natica Gaio ricorda che i modi di costituzione della manus erano tre:
—> usus- costituiva una sorte di matrimonio di prova, subordinato alla verifica della fecondità
della sposa;
—> confarreatio- fino al declino della repubblica la confarreatio dava luogo ad un unione
indissolubile.
—> coemptio- e’ il modo di acquisto della manus più recente , il marito comprava
fittiziamente la donna mediante mancipatio.
Entrava nella manus del marito la donna che una volta sposata restava presso il marito per un anno
senza interruzioni, e in questo caso veniva quasi usucapita ottenuta con il possesso di durata di un
anno completo, passato questo tempo la donna entrava nella famiglia del marito e riceveva lo statuto
di filia. Con le XII tavole si dispose che se qualche donna non volesse venire in potestà del marito con
questa procedura doveva allontanarsi anno dopo anno per tre giorni consecutivi interrompendo cosi
l’usus di ciascun anno.
Il termine di un anno decorreva dalle nuptiae, dalla cerimonia a carattere religioso che
precedeva il passaggio della donna dalla casa paterna a quella coniugale.

3. IL PROCESSO PRIVATO

3a. IL IUS, IL REX E LE SUE DECISIONI

Nel corso del tempi ius ha assunto significati diversi: da rito a tribunale o a diritto, ma in origine
questo si riferiva ad una “rappresentazione di uno stato di conformità” alle “ prescrizione de riti”.
Le XII tavole avrebbero stabilito una strutturazione bipartita del processo nelle fasi in iure
(vale a idre nel tribunale del rex) e apud iudicem (presso il giudice), la la funzione giudicante sarebbe
stat assolta dal re stesso.

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3b. Dall’autotutela al lege agere. Azioni di esecuzione e di cognizione

Lege agere significava porre in essere un’actio mediante una lex, e alla lex deve attribuirsi il
significato di pronunzia imperativa e solenne giuridicamente rilevante.
Quindi lege agire sarebbe un atto giuridico posto in essere con parole solenni, e in particolare:
a. l’agere sacramento
b. la manus inectio
c. la pignoris capio
La manus inectio e pignirs capio, insieme a l’avere sacramento quando mancava la contravindicatio,
miravano direttamente ad attuare le situazioni giuridiche a cui si riferivano, ossia a soddisfare
l’interesse per mezzo di loro riconosciuto dalle regole consuetudinarie e dalle disposizioni del rex.
(azioni esecutive)
in caso di controvindicatio, l’avere per sacramento si avvicinava al odierno modello di azioni
di cognizione.

3c. Il lege agere per sacramento in rem

il più antico meccanismo di tutela della signoria su una cosa


In questo rituale troviamo anche la pronuncia della formula vendicatori, e la mano che si
protende di afferrare, parole e gesti conformi alle pesrizuni rituali degli uomini delle curie,
preludevano alla contesa violenta ma pur sempre disciplinata dalle regole consuetudinarie tra due
parti in conflitto.

In diritto romano con l'espressione Legis actio sacramento si indicava uno schema
procedurale di antichissima applicazione che poteva essere utilizzato per la tutela di qualsivoglia
pretesa che fosse comunque riconosciuta dalla ius civile arcaica.
L'antico schema prevedeva una sfida tra due contendenti (ACTOR "colui che avvia
l'azione" e il REUS "convenuto, colui che è chiamato in giudizio") posti su un piano di parità.
Ciascuna delle parti affermava con parole solenni o la spettanza di una determinata res (e in tal caso si
aveva la legis actio sacramento in rem) o l'una negava e l'altra affermava l'esistenza di un credito (e in
tal caso si aveva la legis actio sacramento in personam). Il sacramentum era per l'appunto la solenne
sfida, la scommessa, in origine un giuramento con implicazioni religiose donde il nome
sacramentum, e chi usciva sconfitto al termine della controversia era costretto a pagare la summa
sacramenti per aver giurato il falso.
Il giurista romano Gaio ci descrive la legis actio sacramento nel suo stadio evolutivo avanzato,
allorquando questo modo di lege agere aveva già perso la sua implicazione religiosa. Nelle sue
istituzioni la definisce generalis e periculosa: La legis actio sacramento era generale. Infatti, per tutte
le controversie per le quali non era previsto si potesse lege agere diversamente, si agiva sacramento.
E allo stesso tempo era pericolosa: infatti, colui che era sconfitto, era tenuto a pagare a titolo di pena
la summa sacramenti.

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l rituale antichissimo della legis actio sacramento in rem postulava la presenza dei due contendenti e
della res (o della persona) oggetto di controversia, e la cosiddetta vindicatio ossia la pronuncia di
parole solenni con le quali veniva rivendicata la appartenenza della cosa (o della persona, nel caso di
vindicatio del filius familias). Le parole del formulario che le parti in causa dovevano pronunciare,
compiendo gesti solenni prestabiliti, sono stati tramandati dal IV commentario delle Istituzioni di
Gaio con riferimento alla rivendica di uno schiavo: Se si agiva in rem, la vindicatio di cose mobili e
trasportabili, che potevano essere portate in giudizio, veniva fatta in iure in questo modo: colui che
effettuava la vindicatio, teneva la festuca (una bacchetta); quindi afferrava la cosa (oggetto di
controversia), come ad es. uno schiavo, e così diceva: "Io affermo secondo il diritto dei Quiriti che
questo schiavo è mio. Così come ho detto, ecco contro te ho imposto la vindicta". Il suo avversario
diceva e faceva le medesime cose.

Non appena i due avevano fatto la vindicatio il pretore diceva: "Lasciate entrambi lo schiavo". E i due
lasciavano lo schiavo. Colui che aveva vindicato per primo chiedeva all'altro: "Chiedo, che tu mi dica
in base a quale causa tu hai vindicato"; quello rispondeva: "Ho attuato il diritto imponendo la
vindicta". Quindi colui che aveva vindicato per primo diceva: "giacché tu hai fatto la vindicatio
iniuria, ti sfido al sacramentum per 500 assi. L'avversario pronunciava simili parole: "E io a te". Se il
valore della lite era inferiore a mille assi, ovviamente nominavano un sacramentum di 50 assi.

3d. Il lege agere per sacramento in personam

La legis actio sacramento in personam si svolgeva in modo analogo alla legis actio sacramento
in rem. Nella fase in iure l'attore, sempre con parole solenni e seguendo una rigida formula,
affermava di vantare un credito nei confronti del convenuto, indicando la somma dovuto, e rivolto al
contendente chiedeva di confermare o negare. In caso di negazione si passava alla sfida reciproca al
sacramentum e poi si continuava come per la legis actio sacramento in rem.
La summa sacramenti, pagata dalla parte la cui affermazione risultava infondata, veniva incassata
dall'erario e non dalla controparte.

4. FORME ARCAICHE DI APPARTENENZA E LORO TRASFERIMENTO

4a. In iure cessio

Per costituire un diritto o alienare una res, ovvero per trasferire un titolo e i poteri che vi
ineriscono, e’ sufficiente che il contravinsicans taccia in tribunale, e in tal modo il vindicans acquista
la signoria su una cosa, ovvero una potestà.
L’in iure cessio si conclude con l’addictio: l’ad-dicare del magistrato e’ un dicere, una pronuncia
solenne verbale e gestuale, che si sovrappone al dicere del vindicans, confermando e sancendo, cosi,
l’acquisto della cosa o la costituzione del diritto.

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l’in iure cessio fu costruita, in quanto atto giuridico dotato di una propria specifica forma
rituale, su di un’applicazione fittizia del lege agere sacramento in rem ( “ affermo che questo schiavo
e’ mio per il diritto dei quiriti “ ).

4b. Mancipium, mancipatio e res mancipi

Le origini della mancipatio (da manu-capere= apprendere con la mano) o mancipium si


possono ascrivere al più tardi alla meta del VII secolo.
La mancipatio e’ un gestum per aes libram che si compie mendiante il bronzo (o rame) non coniato
(aes rude) e la bilanci a un unico piatto (stadera) del medessimo metallo, un gestum che presuppone
necessariamente la presenza del:
—> mancipio accipiens (acquirente- colui che riceve i mancipio);
—> del mancipio dans (alienante);
—> del libripens (pesatore);
—>non meno di 5 testimoni cittadini romani puberi (che avesse quindi compiuto 14 anni).
Ma questo paradigma negoziale era già conosciuto con le XII tavole, e in effetti nella tavola 6.1 si
leggono parole come cum nexum faciet mancipiumque rell., nei quali si coglie un riferimento a uno a
a due distinti gesta da compiere entrambi con il bronzo e la stadera: la mancipatio e il nexum.
Anteriormente alle XII tavole si configuro la dicotomia tra:
- res mancini - che costituiscono un numero chiuso e ricomprende: i servi (schiavi), gli
animali da tsrporto o da rito conosciuti in epoca arcaica quali equidi e bovidi, i terreni ricompresi
dopo la riforma serviana, gli attrezzi agricoli pertinenti alla coltivazione del fondo, le servitù rustiche
più antiche di passaggio, e di acquedotto.
- res nec mancipi- ricomprende tutte le altre cose.
La differenza tra queste due categorie di cose e’ notevole, già le cose non mancipi, diventando di
proprietà altrui con la semplice consegna materiale (tradito) a condizioni che siano corporali. Per
costituire o alienare il mancipium, ossia il potere di dominio su una res mancipi, era sempre
necessario porre in essere una mancipatio oppure una in iure cessio, il mancipium sulla res mancipi
(* quelle cose più utili per la gestione dell’azienda familiare in un’economia prettamente agricola) si
atteggia come un potere di signoria che pone molti punti di contatto con gli altri poteri dal pater sui
propri figli e sula propria moglie (uxor).
Gaio sostiene che la mancipatio sia una sorte di vendita fittizia (cosa ribadita nelle istituzioni
1.119) quindi percuote la bilancia con il bronzo e lo da a colui dal quale riceva in mancipatio, quasi a
titolo di prezzo, e in questo riferimento si coglie un’allusone a una sorte di compravendita reale, con
immediato, contestuale passaggio di una merx contro pretium.
La mancipatio, finalmente, trovava applicazione nella famiglia romana e veniva anche
adoperata per escludere da essa un filiusfamilias. Il vincolo familiare si rompeva con l'adozione in
altra famiglia e con l'emancipazione. Questa è un atto col quale il paterfamilias rinuncia alla sua
potestà sopra un filiusfamilias e questi diventa esso stesso sui iuris e paterfamilias. Essa è estranea al
diritto romano primitivo. L'istituto fu creato sulla base di una norma della legge delle XII Tavole, che

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aveva per scopo di punire nel paterfamilias un abuso dei suoi diritti: se per tre volte egli avesse
venduto il suo filiusfamilias, cioè fosse tornato a venderlo per la seconda e la terza volta dopo che il
compratore l'aveva manomesso e, per questa manomissione, il filius fosse ricaduto sotto la potestà
del pater, il filiusfamilias doveva essere libero dalla patria potestà. Adattando a diverso scopo questa
nomia, il pater vendeva il filiusfamilias a persona di sua fiducia nella forma della mancipatio per tre
volte: a ciascuna vendita seguiva la manomissione fatta dal compratore; l'ultima manomissione
rendeva il filiusfamilias libero dalla patria potestas. A evitare, peraltro, che il compratore acquistasse
i diritti di patronato sul manomesso e anche la tutela, nel caso che questi fosse stato impubere, il
paterfamilias la terza volta faceva remancipare a sé stesso il filiusfamilias per manometterlo. Questa
forma complicata si applicava soltanto ai figli maschi: per le figlie e per i nipoti, intendendosi alla
lettera la parola filius delle XII Tavole, si ammise che bastasse una sola mancipazione.

5. Antiche figure della responsabilità: soggezione all’esecuzione personale o a una


pena

5a. La sponsio

Al tempo delle XII tavole la sponsio era un negozio verbale solenne produttivo di
obbligazioni non solo patrimoniali come risulta da Varrone, per il quale “ spondebatur pecunia aut
filia nuptiarum causa” “ si prometteva denaro o una figlia per le nuptiae” .
la formula per l’impegno matrimoniale era la seguente: “ prometti che mi sia data tua figlia
per porre in essere un matrimonio? prometto (spondeo)”.
per l’ipotesi di impegno patrimoniale la formula era: “ prometti che mi sia dato cento?
prometto (spondeo)” .
Prima delle XII tavole la sponsio costituiva soltanto un atto di natura sacrale.

5b, L’acceptilatio

L’adempimento nella sponsio, secondo la communis opinio, non avrebbe di per se estinto il
vincolo e di conseguenze la liberazione del promittente, ma ci voleva anche l’acceptilatio, il debitore
chiedeva al creditore “ciò che ti ho promesso l’hai ricevuto? “ e il creditore rispondeva “ habeo” “
l’ho ricevuto”.

5c. Il nexum

Il nexum era probabilmente un atto consistente nell’impiego del gestum per aes et libram al
fine di vincolare il corpo del pater a garanzia del prestito che questi avesse ricevuto, lo potremmo
dunque descrivere come una sorta di vendita con patto di riscatto, e dava origine soltanto ad una
situazione di soggezione personale, e per il nexus quindi l’esecuzione della prestazione e restava
facoltativa, perché la solutio per aes et libram era esclusivamente l’onere che gli permetteva di

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liberarsi dalla soggezione, chi paga esercita il proprio potere di liberarsi dalla soggezione
all’immediata esecuzione, ma questo comportamento non costituisce, propriamente parlando,
oggetto di un obbligo, e tuttavia, esso e’ pur sempre necessitato dal momento che e’ condizione per
liberarsi dalla soggezione.
l’adempimento da parte del nexus o da altri non bastava pero a liberarlo, occorreva a questo
fine, il compimento di un atto contrario e simmetrico al nexum, la solito per aes et libram, essa si
svolgeva al pari della mancipatio innanzi a 5 testimoni ed il libripens, e chi si liberava (il nexus) diceva
fra l’altro: “ mi sciolgo e mi libero da te con questo bronzo con questa bilancia di bronzo” , dopo di
che pagava solennemente mediante la pesatura.

5d. Vades e praedes

I vades avevano la funzione di garantire, nel lege agere la comparizione di un soggetto nel
tribunale, sia per istaurare il processo sia per permettere la prosecuzione in un’udienza successiva.
I praedes intervenivano nel lege agere sacramento o per dare garanzia delle restituzione
della cosa controversa o dei frutti al vincitore che non avesse ottenuto il possesso della cosa o per
garantire il versamento all’erario della summa sacramenti dovuta dalla parte soccombente.

5e. I delitti: pactio e taglione

Prima della legislazione decemvirale, l’illecito privato era costantemente punito dalla vittima,
quando l’offensore fosse stato colto in flagranza o avesse lasciato sul suo corpo tracce indelebili
evidenti (membri ruptio).
Il fur manifestus, il ladro colto in flagranza poteva essere catturato dal derubato, una volta invocati
ritualmente i vicini per l’attestazione dei fatti ed eventualmente in soccorso, dopo di che si procedeva
con la manus inectio, uccidendolo o vendendolo come schiavo, ma l’offeso poteva anche decidere di
tenerlo presso di se in coazione di schiavo, il servus viceversa, una volta fustigato, veniva precipitato
da una rupe.
anche chi avesse subito una membri ruptio o una ossis fractio (ovvero il suo pater familias)
poteva catturare il colpevole per infliggerei otto il controllo del rex una lesione equivalente (taglione.
Era possbile rimettere la pena corporale in cambio del versamento di una certa quantità di bronzo.

STORIA GIURIDICA DI ROM


ALDO SCHIAVONE
PARTE 2
CAPITOLO 1

LA REPUBBLICA
LE FORME COSITUTIZONALI
1. ALLE ORIGINI DELLA REPUBBLICA

Sugli avvenimenti del passaggio dalla monarchia alla repubblica ci informa Tito Livio. Tra i

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giuristi, solo Sesto Pomponio ne parla nel suo libro del singolo manuale, sulla cui scia ci si può
riferirsi:
-  La monarchia finì violentemente con la cacciata dell’ultimo re, Tarquinio il Superbo (510
a.C.)
-  Al posto del monarca, si istituirono da subito (509 a.C.) i due consoli, cui fu dato il potere
supremo, limitato, a differenza del potere del re, dal diritto di appellarsi al popolo
(PROVOCARE AD POPULUM), di invocare cioè il giudizio popolare per sottrarsi alla
condanna a morte ordinata dal console.
- Le frequenti guerre cominciate da Roma con i popoli confinanti indussero talvolta alla
nomina di un dittatore, il cui potere non era limitato dall’appello al popolo, e tuttavia non
durava oltre 6 mesi dal conferimento: al dittatore si affiancava, come comandante in
sottordine, MAGISTER EQUITUM (comandante della cavalleria).
Per quanto riguarda il racconto tradizionale, una delle ipotesi avanzate è che, nel
quadro generale della fine della potenza etrusca certamente registrata sul finire del sesto secolo a.C.,
al monarca si sia piuttosto sostituito un MAGISTER POPULI (dittatore), aiutato da un magistrato in
sottordine, comandante della cavalleria. Da questa coppia, a collegialità diseguale, avrebbe poi avuto
origine la coppia consolare a collegialità eguale.
Altri hanno pensato alla denominazione dei PRAETORES (pretori), derivata dalla
loro funzione di comandanti militari; ed ha collegato tale nominazione con la notizia dell’esistenza di
un PRAETOR MAXIMUS (dittatore), così pervenendo a supporre che, prima della coppia consolare,
vi sia stata una coppia di PRAETORES-CONSULES (pretori-consoli), a collegialità diseguale. E’
stato ipotizzato che i pretori potessero essere più di due, altrimenti uno solo veniva dato il titolo di
MAIOR, almeno tre.
Un’ipotesi attendibile è che si sostituì, per contrappasso, nella titolarità del potere
già del monarca etrusco, una coppia di magistrati temporanei, indicati dall’oligarchia patrizia, e la cui
nomina era poi approvata dal popolo inteso più come esercito schierato che vera e propria assemblea.

2. CONFLITTI SOCIALI TRA VI E V SECOLO A.C


Il periodo che c’è tra l’instaurazione della repubblica e il decemvirato legislativo
(451-450 a.C.) è segnato dall’inizio del contrasto tra i due ordini sociali del patriziato e della plebe:
dal punto di vista istituzionale, questo conflitto condusse innanzi tutto alla creazione di magistrature
plebee, le cui caratteristiche appaiono simili a quelle che saranno delle magistrature repubblicane in
genere. I patrizi erano coloro che avevano una famosa stirpe, appartenendo ai popoli che avevano
partecipato alla fondazione di Roma. Dalle fonti è detto che i patrizi sarebbero i discendenti dei padri
scelti da Romolo quali propri consiglieri, e facenti parte del primo senato cittadino. Controversa è
invece l’origine della plebe. E’ stato supposto che i plebei fossero di stirpe etnica diversa dai patrizi:
questi ultimi etruschi o sabini, i primi, invece, latini. Da qui anche una diversità dei culti praticati nei
due ordini, e delle rispettive divinità.
All’epoca dell’instaurazione della repubblica e nel corso del conflitto tra i due ordini,
la plebe rappresentava in primo luogo un ceto economico minore rispetto al patriziato, e quindi la

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contrapposizione ha assunto i toni di una specie di una lotta sociale.


Lo strumento di pressione più efficace nei riguardi del patriziato era, per la plebe, la minaccia di
sottrarsi alla leva militare, poiché ciò finiva col mettere in pericolo la sopravvivenza di Roma. D’altra
parte, nelle fonti si nota la situazione di disagio economico nella quale si trovavano i plebei: i
debitori, i cosiddetti NEXI (assoggettati al creditore, titolare di una potestà personale), erano
soprattutto plebei.
In questo contesto la plebe deve avere cominciato a premere sul patriziato per
ottenere la liberazione dai debiti: le fonti narrano che i plebei sarebbero passati dalla renitenza alla
leva militare alla secessione vera e propria. Pomponio riferisce che dopo diciassette anni dopo la
cacciata dei re, i plebei si fossero ritirati sul monte Sacro e qui avrebbero creato i primi giudici plebei,
nominati tribuni, perché un tempo il popolo era diviso in tre parti: o perché venivano creati con il
suffragio delle tribù. In tale occasione la plebe avrebbe creato ulteriori propri magistrati; gli edili,
così chiamati in quanto preposti ai templi, in cui la plebe si sarebbe riunita per deliberare. Livio narra
inoltre che nell’accordo tra i due ordini per porre fine alla secessione, sarebbe stata garantita ai
magistrati plebei la SACROSANCTITAS, cioè l’inviolabilità della loro persona, e riconosciuta la
facoltà di intervenire in aiuto di ciascun plebeo minacciato dai consoli patrizi. Nello stesso accordo,
sarebbe anche stata negata ai patrizi la capacità di essere eletti tribuni della plebe. La tradizione
riferisce ancora di una decisione assunta dalla plebe nel 471 a.C., su proposta del tribuno Publilio
Volerone, secondo cui i magistrati plebei si sarebbero dovuti eleggere comizi tributi, cioè da
assemblee organizzate sulla base di una ripartizione dei votanti per tribù territoriali. Con ciò si
toglieva ai patrizi la possibilità di manovrare, grazie al voto dei loro clienti, l’elezione dei tribuni.

3. DAL DECEMVIRATO LEGISLATIVO AL COMPROMESSO PATRIZIO-PLEBEO


Il decemvirato legislativo governò Roma nel biennio 451-450 a.C. il collegio dei decemviri è
una magistratura temporanea, creata dopo l’accantonamento di una proposta di origine plebea,
presentata nell’anno 462 in avanti, dal tribuno Terentilio Arsa, e volta all’istituzione di un collegio di
cinque cittadini con il compito di scrivere leggi limitando il potere supremo dei consoli. Livio narra
che la successiva creazione del decemvirato è legata all’opportunità di elaborare un corpo di leggi
utili ad entrambi i contrapposti ordini, ed idonee ad eguagliare la libertà tra questi, e quindi essere
scritti da legislatori con comuni interessi. È il segno dell’intervento compromesso tra le due parti,
conseguente alla netta opposizione del patriziato alla originaria proposta plebea, che voleva
sovvertire l’ordine aristocratico, la cui garanzia era nell’illimitatezza del potere del console patrizio.
Nel biennio di decemvirato legislativo, nessun altro magistrato fu eletto; e fu conferito al collegio il
supremo potere della città, per cui nei suoi confronti non era ammesso, a differenza degli altri
magistrati, il ricorso all’appello al popolo.

Nel primo anno i decemviri avrebbero operato bene, riordinando il testo delle leggi, come era stato
loro richiesto, esse, iscritte su tavole bronzee, furono disposte lungo il foro allo scopo di renderne
più agevole l’esame da parte dei cittadini, che le avrebbero poi approvate nei comizi centuriati. Ma
l’anno successivo i decemviri si sarebbero prorogati da soli e non avrebbero voluto farsi sostituire da

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altri magistrati, con l’intento di trattenere definitivamente il governo della repubblica. Il secondo
decemvirato avrebbe governato in modo autoritario; sarebbero state compilate le due ultime Tavole,
che riaffermavano il divieto di matrimonio tra patrizi e plebei. Da qui la reazione popolare, e plebea in
particolare, che avrebbe condotto alla cacciata dei decemviri e al ripristino del consolato come
magistratura suprema.
I consoli del 449 avrebbero provveduto a fare approvare dai comizi del popolo (centuriati) tre leggi.
Una relativa alla SACROSANCTITAS, e le altre due, dette leggi Valerie-Orazie, che sono
controverse: l’una avrebbe parificato i plebisciti alle leggi; l’altra avrebbe proibito, sotto minaccia di
morte, di creare magistrature senza appello, in reazione al deposto decemvirato.

Ci furono tribuni plebei militari solo a partire dal 400: erano magistrati minori rispetto ai pretori-
consoli, ma il loro potere, come supremo comando militare, era tuttavia pieno, e il conferimento
anche a plebei del potere caratteristico del magistrato patrizio, aprì la strada verso la magistratura
suprema. Si capisce così che i plebei non fossero soddisfatti con l’accesso al tribunato militare.
Furono ragioni di tipo economico a sospingere la plebe ad andare avanti.
Nel 377 a.C. i tribuni della plebe Caio Licinio Stolone e Lucio Sestio Laterano avrebbero
proposto tre leggi, “tutte contro il potere dei patrizi e per il vantaggio della plebe”. La prima
imponeva, sulla somma dei debiti, la sottrazione dal capitale degli interessi pagati fino a quel
momento e ammetteva i debitori al pagamento del saldo del residuo capitale in tre rate eguali nel
successivo triennio. La seconda vietava il possesso di un campo pubblico oltre il limite di
cinquecento iugeri a testa. La terza stabiliva la fine del tribunato militare e la restaurazione del
consolato, stabilendo inoltre che uno dei due consoli eletti annualmente dovesse essere plebeo. Nel
367 a.C. venne eletto al consolato Lucio Sestio (il primo console plebeo). La plebe minacciò una
nuova secessione se i patrizi non avessero riconosciuto la validità delle elezioni, e così i due ordini si
accordarono: i patrizi concessero che uno dei due consoli fosse plebeo, i plebei che fosse creato un
nuovo magistrato preso dall’ordine patrizio, il pretore a cui fu data la funzione di amministrare la
giustizia in città. Il senato decise di celebrare l’accordo con i grandi giochi: gli edili plebei si
sarebbero rifiutati di assumersene l’onere, e di fronte alla disponibilità manifestata dai giovani patrizi,
il senato avrebbe disposto di due edili patrizi.
Il pareggiamento tra patrizi e plebei si manifestò, più tardi, anche sul piano dei sacerdozi. Il numero
dei pontefici fu portato da quattro a otto e da quattro a nove quello degli auguri, con un plebiscito del
300 a.C.

La struttura della res publica


La libera repubblica era fondata sull’interazione tra magistrati, assemblee popolari e senato. La
costituzione romana continuò a svilupparsi, anche se la raggiunta parità tra patrizi e plebei, l’unione
dei ceti dirigenti, il consolidarsi di procedure abituali e istituzioni fecero sì che quest’evoluzione
fosse né drammatica, né innovatrice della situazione esistente.
Dai romani la repubblica non fu mai vista come è intesa nel mondo moderno, cioè come ente astratto,
elevato a soggetto giuridico distinto dai cittadini, dotato di una propria volontà, manifestata
attraverso rappresentanti istituzionali appositamente delegati: essa costituiva invece una diretta
espressione del popolo romano, con il quale si identificava. Viene fuori così l’idea di una

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partecipazione organica del cittadino alla repubblica, di cui egli si sentiva parte costitutiva.

4. I MAGISTRATI REPUBBLICANI

Ai magistrati era assegnata la titolarità, e l’esercizio, del poter del popolo romano.
 
I CONSOLI
Erano i magistrati supremi della repubblica. Eletti dai comizi centuriati, duravano in carica un
anno Secondo Pomponio competeva ai consoli di provvedere alla repubblica al “massimo grado”: il
loro potere comprendeva ogni prerogativa necessaria al governo della città.
Il console era titolare del potere, che gli assicurava una potestà di comando indefinita, però con dei
limiti: la titolarità assegnata a due consoli; l’annalità; l’appello al popolo; il veto tribunizio; la
creazione di altri magistrati cui si davano singoli poteri che erano già nel potere consolare.
Il potere consolare si manifestava a pieno in funzione della guerra: ordinavano la leva militare,
nominavano gli ufficiali, prelevavano dall’erario, conducevano gli eserciti,punivano i subordinati.
Il potere in funzione del governo cittadino, gli permetteva di riunire e presiedere le assemblee
popolari e il senato, di far proposte a entrambi questi consessi, di curare l’esecuzione delle decisioni
prese, di disporre il prelievo tributario. Inoltre spettava al console di creare il dittatore.
Il consolato era una magistratura collegiale: i consoli avevano ugualmente la titolarità del potere, che
spettava a ciascuno dei due per intero e quindi poteva essere esercitato da ciascuno separatamente
dall’altro, salvo il veto preventivo di quest’ultimo.

I CENSORI
Si occupavano di tutti gli affari pubblici. All’inizio i consoli si occupavano anche del
censimento, poi non furono più in grado di farlo, e quindi vennero creati i censori. Essi erano eletti
dai comizi centuriata ogni cinque anni e duravano in carica fino all’esaurimento delle loro funzioni ,
comunque non oltre diciotto mesi, in base a una LEX AEMILIA DE CENSURA MINUENDA del
434 a.C. non erano titolari di potere; e dovevano quindi ricorrere ai consoli dove c’èra la necessità di
imporre.
Le operazioni del censimento erano disciplinate, nello svolgimento, dai censori stessi con la LEX
CENSENDI; e si chiudevano con una cerimonia religiosa nominata LUSTRATIO (purificazione). I
censori non si limitavano a registrare le dichiarazioni dei cittadini riguardo alla composizione delle
famiglie e dei patrimoni, ma in base ai dati raccolti essi provvedevano a distribuire i padri delle
famiglie nelle diverse centurie dell’ordinamento centuriato e nelle diverse tribù dell’ordinamento
tributo. L’iscrizione del singolo cittadino all’una o l’altra tribù o centuria non era indifferente, ma
incideva direttamente sui diritti politici dello stesso, misurandone la capacità di contribuire alla
formazione dell’indirizzo politico del governo della repubblica.
In questa distribuzione della cittadinanza, in centurie e tribù, i censori godevano di una certa
discrezionalità. Essi potevano anche valutare di attribuire il cittadino a una centuria o a una tribù

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meno qualificate: così il voto di quel cittadino avrebbe contato meno, addirittura nulla ai fini della
maggioranza e quindi l’approvazione di una certa deliberazione.
Ai censori spettava anche la cura del settore economico-finanziario della repubblica, provvedendo in
ordine alle entrate e alle spese. Disciplinavano, tramite capitolati, gli appalti per la riscossione delle
imposte e per la costruzione e la manutenzione delle opere pubbliche.

IL DITTATORE
Pomponio dice che la dittatura sarebbe stata creata nella prima metà del quinto secolo a.C.,
per necessità di ordine militare, a causa delle numerose guerre che Roma dovette combattere. Al
dittatore si conferiva il potere supremo, in quanto nei suoi confronti non era concesso di appellarsi al
popolo. Questo potere on poteva durare più di sei mesi. Accanto al dittatore c’era il comandante
della cavalleria: un magistrato nominato dal dittatore, al quale restava subordinato e la cui carica
coincideva con quella del dittatore.
Il dittatore non veniva eletto, ma nominato da uno dei consoli, di solito su autorizzazione senatoria.
Tutti dovevano obbedire al potere supremo, anche gli stessi consoli. Nella dittatura si vede come
l’idea romana per la quale il supremo potere, nella repubblica come nella famiglia, on deve essere
frazionato.
Nel 217 a.C., mori entrambi i consoli, la regola della nomina consolare venne sovvertita: Quinto
Fabio massimo fu eletto dittatore. Venne fuori un processo di snaturamento che portò al non uso di
questa magistratura.

I TRIBUNI DELLA PLEBE


Eletti dai concili tributi della plebe, duravano in carica un anno. I loro poteri potevano
esercitarsi solo a Roma: erano obbligati a non allontanarsi dalla città.
I tribuni mantennero integro la funzione di divieto dell’azione pubblica espressa negli atti di
esercizio dei poteri della comunità cittadina e dei suoi rappresentanti. Così attraverso il veto, il
tribuno era in grado di proibire qualsiasi atto dei magistrati della repubblica. Potevano intercedere
anche contro le deliberazioni del senato; e addirittura opporsi all’esecuzione delle sentenze
giudiziarie. Dall’inviolabilità della loro persona e della loro attività, derivò ai tribuni la cosiddetta il
potere supremo di reprimere (SUMMA COERCENDI POTESTAS), cioè di promuovere processi
criminali; di eseguire le sentenze capitali, di sequestrare beni ecc.
I tribuni cessarono di essere dei capi rivoluzionari dopo il pareggiamento tra patrizi e plebei,
collocandosi a fianco della nobiltà patrizio-plebea al governo della repubblica. Così essi aggiunsero
alla facoltà di convocare e presiedere l’assemblea della plebe, nel corso del terzo secolo a.C., quella in
confronto dell’assemblea senatoria. Il veto e la repressione divennero strumenti disponibili dalla
nobiltà, assicurando così il più efficace controllo del pubblico potere.

IL PRETORE
La tradizione riferisce che il pretore urbano sarebbe stato creato per compensare i patrizi della
perdita del monopolio in ordine alla titolarità della magistratura suprema. Ad esso gli venne data una

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funzione tecnica qual era la giurisdizione civile.


Il pretore era un magistrato maggiore eletto dai comizi centuriati, ed era titolare di un potere non
diverso da quello dei magistrati supremi, anche se egli era subordinato. Aveva pertanto l’iniziativa
legislativa. Durava in carica un anno.
Le principali funzioni giudiziarie dei pretori nelle questioni civili, consistevano nel dare un giudizio.
Era solo nel caso delle interdizioni, che decidevano in maniera sommaria. I procedimenti davanti al
pretore erano tecnicamente detti essere in iure.
Accanto al pretore urbano, siccome non poteva occuparsi anche di tutti gli stranieri che arrivavano
nella città, si creò un altro pretore nominato peregrino perché esercitava la giurisdizione sugli
stranieri.

GLI EDILI
Dopo il 367 a.C., esistevano a Roma due coppie di edili, la curule, riservata ai patrizi, e
quella plebea. Alla fine le funzioni era pressoché identiche: attenevano alla sorveglianza della città, al
controllo dell’approvvigionamento alimentare e dei prezzi, all’organizzazione dei giochi pubblici. I
due edili inoltre erano titolari anche di una limitata giurisdizione in base alle controversie che si
presentavano nei mercati.

LE MAGISTRATURE MINORI
La più importante è la questura, come aiuto dei consoli per quanto riguardava
all’amministrazione del denaro pubblico. In la col tempo vennero istituiti specifici questori
provinciali per aiutare i governatori, sempre nel settore economico- finanziario. Altri magistrati
furono i quattuorviri per la cura delle vie, i triumviri, detti MONETALES, per il conio delle monete, i
triumviri capitali addetti alla custodia del carcere pubblico e all’esecuzione delle sentenze capitali.

5. LE ASSEMBLEE POPOLARI
L’idea di fondo era che il popolo, inteso come ordine a se stante, fosse in una situazione di
minorità, e dovesse star soggetto all’indirizzo e al controllo di altri organi e degli stessi cittadini più
abbienti.
a) Comizi centuriati.
L’assegnazione dei cittadini alle centurie continuava a esser operata in base all’ammontare
dei patrimoni, che già nel terzo secolo a.C., dovev6ano essere valutati in denaro.
Secondo Livio, al vertice dell’ordinamento centuriato c’erano le diciotto centuri e di cavalieri, dove
venivano distribuiti i cittadini più ragguardevoli. Dopo venivano i centosessanta centurie di fanti. A
queste i cittadini erano assegnati in vario numero a seconda della loro appartenenza a una o all’altra
delle cinque classi di censo, nelle quali erano stati inseriti dai censori, in base alla loro ricchezza.
Livio aggiunge che il suffragio non era dato comunemente a tutti con lo stesso valore, ma dipendeva
dalla centuria del votante. Ogni voto del cittadino contribuiva a determinare la maggioranza della
centuria di appartenenza. L’ordine della chiamata alla votazione rispettava l’ordine del censo: i
cavalieri, i cittadini di prima classe. Se c’era subito l’accordo non si chiamavano nemmeno quelli delle

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classi inferiori.
I comizi centuriati potevano essere convocati solo da magistrati titolari di potere. Si convocavano per
emanare una legge o una sentenza criminale o per nominare i magistrati maggiori.
b)  Comizi tributi.
Nuova assemblea politica. Prima del 312, alle tribù territoriali partecipavano solo gli
assegnatari di un fondo.
Comprendevano sia patrizi che plebei, distribuiti in trentacinque tribù territorialmente, nelle quali
tutti i cittadini romani venivano collocati per scopi elettorali e amministrativi. La vasta maggioranza
della popolazione di Roma era distribuita tra quattro tribù urbane, il che significava che i loro voti
erano individualmente insignificanti; come per il Comitato delle Centurie, il voto era indiretto, con
un voto assegnato ad ogni tribù. Il voto era quindi pesantemente sbilanciato a favore delle trentuno
tribù rurali. I Comizi Tributi si riunivano alla sorgente Comizia, nel Foro Romano, ed eleggevano gli
Edili (solo quelli curulis), i Questori e i tribuni dei soldati (tribuni militum). Conducevano gran parte
dei processi, finché il dittatore Lucio Cornelio Silla stabilì le corti permanenti (quaestiones).

c)  Concili tributi della plebe.


Erano presieduti da un tribuno o da un edile, potevano deliberare leggi o sentenze; eleggevano
i magistrati. Ci furono molti plebisciti legislativi, soprattutto in materia privatistica.

6. IL SENATO REPUBBLICANO
Il senato approvava e consigliava. L’approvazione si manifestava nell’autorità dei padri che
consisteva nell’approvazione delle deliberazioni, legislative ed elettorali, dei comizi centuriati: solo
con l’aggiunta dell’autorità la deliberazione comiziale poteva entrare in vigore.
Polibio riferisce che al senato spettava il controllo di tutte le entrate e tutte le spese, ma anche di
intervenire nell’amministrazione della giustizia criminale, dove c’erano reati politici, o comunque da
scuotere l’opinione pubblica. Esso disponeva con piena discrezionalità, e senza che il popolo potesse
interferire, nelle questioni della politica estera. Nel governare la repubblica, il senato si serviva dei
propri consigli, soprattutto a quei magistrati supremi che ne facevano richiesta. Addirittura, tramite
l’ultimo consulto del senato (SENATUS CONSULTUM ULTIMUM), l’assemblea poteva decretare,
in un pericolo supremo per la sopravvivenza della repubblica, la sospensione delle massime garanzie
costituzionali, dando ai consoli poteri che non erano titolari.
Il senato decideva la presentazione si proposte ai comizi, la leva dei soldati e il loro congedo, la
nomina del dittatore, l’assegnazione delle province, l’organizzazione dei territori conquistati, la
deduzione di colonie ecc.
La prassi precedente prevedeva che si doveva scegliere i senatori guardando gli ex magistrati. Ma in
teoria qualunque cittadino ottimo poteva esser chiamato a far part del senato. Si venne così a formare
una gerarchia di senatori: i censori, gli ex consoli, i pretori, i giudici, i tribuni, i questori. Il principe
del senato, il più anziano dei censori, era colui che aveva il diritto di esprimere il proprio parere per
primo. Senatori si restava tutta la vita.
Il senato poteva esser convocato da un magistrato che avesse il diritto di agire con i padri: un

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dittatore, un console, un pretore, e più in la anche un tribuno plebeo. Il magistrato esponeva


l’argomento sul quale i senatori sarebbero stati chiamati a deliberare. Aveva poi luogo la discussione:
i senatori esprimevano la loro opinione in ordine di rango senza che vi fossero limiti di tempo
all’intervento, cosa che favoriva l’eventuale ostruzionismo. Alla fine si passava alla votazione, che
avveniva di solito per la materiale separazione, da una parte e dall’altra dell’aula, dei favorevoli e dei
contrari alla proposta di senatoconsulto che era venuta fuori dalla discussione. Il testo del
senatoconsulto era compilato per iscritto e depositato presso l’erario di Saturno.

7. LE FORME DELL’ORGANIZZAZIONE DEL DOMINIO ROMANO IN ITALIA E NEL


MEDITERRANEO

Negli stessi decenni in cui si manifesto il conflitto tra patriziato e plebe, Roma riduci ad
assumere a supremazia nel Lazio. Nel 264 a.C aveva inizio la prima guerra punica che vide per la
prima volta l’affermazione di Roma anche come potenza navale in contesa con Cartagine per il
controllo di importanti territori transmarini, ed a seguito dell’esito vittorioso di questa guerra Roma
si impadronì della Sicilia, Sardegna e Corsica e successivamente anche la Gallia Cisalpina.
- superato il periodo annibalico con la vittoria nella seconda guerra punica (219- 202), Roma
porta il suo dominio in Spagna;
- alla fine del terzi secolo Roma si affacciava sull’ariete ellenistico: nel 148 conquisto la
Macedonia, nel 146 sottomesse definitivamente la Grecia, e già prima aveva occupato la Istria e la
Dalmazia.
- nel frattempo era stato realizzato il completo assoggettamento dell’attuale Italia
settentrionale, vincendo nuovamente i Galli Boi e la tenace resistenza dei liguri (166);
- con la vittoria nella terza guerra punica, Roma distrusse il Cartagine, e si impossesso dei
territori africani di questa;
- alla fine del secondo secolo fu la conquista della Gallia meridionale (l’odierna Provenza);
- nel 133 il re di Pergamo, Attalo III, morendo lascio in eredità a Roma il proprio regno in
Asia minore, cosi tutti paesi del Mediterraneo, da Gibiliterra alle coste asiatiche, si vennero a trovare
sotto il dominio romano.
Ma questa espansione ha creato dei problemi di ordine amministrativo, dato che non si poteva
organizzare un sistema che controlli tutti i popoli ad essa assoggettati, e cosi emergono due forme
organizzative:
1. la federazione- forma praticata dai romani nei rapporti di alleanza con le popolazioni più
vicine. Roma entra a fare parte della lega latina, con la vittoria sui latini al lago Regillo. stipulo un
trattato com le città latine, e questo trattato implicava l’obbligo di pace tra i federati e di reciproco
aiuto nel caso di guerra. Grazie a questo trattato che porta ad una condizione che dura nel tempo, e
chi i latini potevano concludere negozi di scambio con i romani, di sposare una persona di
cittadinanza romana, o di essere istituiti eredi, mentre nel campo del diritto pubblico godevano se
presenti in Roma del diritto di votare in una tribù estratta a sorte, e se trasferivano la propria
residenza nell’Urbé anche del diritto di diventare cittadini.
tutti questi sono dei privilegi che Roma non estese ad altri alleati con cui concluse trattati.

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2. l’incorporazione diretta- con lo scioglimento della lega latina, Roma vincola a se le città già
sue allenate non solo ricorrendo alla stipulazione della foedera iniqua, ma altresì incorporandone
alcune direttamente nel territorio romano e attribuire a loro la qualità di municipium, e ai suoi
abitanti era riconosciuta la cittadinanza romana e un’autonomia amministrativa (propri magistrati,
proprie assemblee, proprio senato) più o meno ampia.

Sin dal quarto secolo Roma aveva incominciato a fondare colonie di altro tipo, dette romane, perché
composte da cittadini romani, e pertanto riconducibili al sistema di incorporazione diretta e
assimilabili ai municipi, si tratta si inserimenti di dimensioni più ridotte rispetto alle colonie latine,
costando di regola di 300 cittadini con le loro famiglie.
Caratteristiche erano le modalità di creazione delle colonie, che seguivano anche rituali del
collegio sacerdotale degli auguri, la deduzione della Polonia era decisa da senato cui faceva seguito
un plesbiscito, le operazioni relative venivano demandate ad un collegio dei tresviri coloniae
deducendae, che conducevano il gruppo di coloni in formazione militare sul luogo prescelto,
curavano l’assegnazione dei lotti di terra, e davano uno statuto (* lex) alla nuova comunità.

Per l’organizzazione dei domini extra-italici risulto impraticabile il sistema dei municipi, che rendeva
ancora più evidente l’inadegutezza nel governo dell’Italia del sistema amministrativo della città, ma in
misura limitata fu invece possibile praticare il sistema federativo, specie laddove i conquistatori si
trovano di fronte a comunità cittadine fiorenti ed evolute, formalmente queste città conservano la
loro autonomia, ma subirono il condizionamento di Roma, specie per quanto riguarda la politica
estera, e a volte sottoposte all’obbligo di eseguire varie prestazioni, come pagare dei tributi in
denaro, fornire contingenti militari.

Le città federate e le città libere costituivano delle vere e proprie eccezioni enclaves
nell’ambito di territori sottoposti alla diretta amministrazione di Roma, che aveva trovato in oriente
ferirti a cui era ignota qualsiasi forma di autogoverno, sottomessi al potere di un monarca, era un
rapporto di sudditanza, a cui corrispondeva il totale assoggettamento politico e un gravoso
sfruttamento tributario.
TUTTO quanto appena detto era un sistema che Roma tiene in piedi perché corrispondeva ai propri
interessi, ma al fine di tale sistema Roma incomincio ad accorpare i terrieri via via conquistati in
circoscrizioni piuttosto ampie , sottoposte all’imperium militiae di un governatore, in origine era un
magistrato in carica, un console o un pretore.
Queste circoscrizioni era denominate provinciae (*termine che indicava la sfera di esercizio
dell’imperium magistratuale), le prima provincie furono la Sicilia e la Sardegna (per le quali si
crearono nuovi pretori), seguirono poi la Gallia Cisalpina e la Macedonia (con la Grecia), della
Spagna, dell’Africa, dell’Asia, della Gallia narbonense, e svariare altre.
La provincia aveva un proprio statuto che era dato al primo governatore, il territorio era diviso in
ripartizioni minori a fini amministrativi e giurisprudenziali, e si indicavano le città che nella provincia
godevano dell’autonomia che abbiamo descritto, ai sudditi provinciali era negato il diritto di essere
proprietari della terra che coltivavano, perché questa veniva contesa a loro in sfruttamento in cambio

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del pagamento di una percentuale dei prodotti o di un’imposta in misura fissa.


Il governatore esercitava vari poteri, ordinava la leva, imponeva contri usi straordinari,
conduceva operazioni militari, esercitava la giurisdizione civile nelle liti tra cittadini romani residenti
in provincia, e tra stranieri e romani.

8. IL PROGRESSIVO OFFUSCARSI DEL MODELLO REPUBBLICANO

La gestione del potere pubblico era affidata a uomini educati a non soddisfare
eccessivamente ambizioni o avidità personali, ma a realizzare soprattutto gli interessi dei cittadini e
delle proprie famiglie.
Prima della crisi del primo secolo a.C. i governanti romani sono mediamente soddisfatti del premio
della dignità: essi volevano operare bene perché così avrebbero goduto , per il coraggio e i meriti
dimostrati, del pubblico riconoscimento, e con il ricordo di cercare di eguagliare la tradizione di
famiglia. Inoltre erano le famiglie a impartire ai giovani destinati alle magistrature l’educazione
politica, in base a un modello di comportamento condiviso tra gli aristocratici e in grado di garantire
le aspettative dei cittadini.
La trasformazione di Roma in impero mondiale, dopo il vittorioso scontro con Cartagine, porta con
sé un cambiamento di mentalità nelle classi dirigenti: incomincia a non essere più soddisfacente
l’esercizio del potere magistratuale ai fini della ricompensa della dignità pubblica e familiare.
Il modello politico fondato sul senato come effettivo titolare dell’azione di governo finirà col divenire
in breve inattuale: né l’aristocrazia aveva la forza per imporlo ai nuovi corpi sociali affermatisi dopo la
guerra annibalica. Oramai la politica si faceva attraverso gli eserciti; e cominciava ad esserci un
problema grave nell’attribuire ai governatori delle province un potere così ampio come il comando.

9. LA CRISI DELLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA: LE RIFORME DEI GRACCHI


Patercolo attribuisce l’inizio della crisi all’assassinio di Tiberio Gracco. Nel 133 a.C. Gracco
aveva fatto votare un plebiscito che imponeva ai nobili latifondisti la restituzione al popolo romano
del campo pubblico se lo possedevano in misura superiore ai cinquecento iugeri. Lo scopo di Gracco
era quello di rigenerare quella classe di piccoli contadini che, a causa delle numerose guerre, avevano
trascurato la cura dei propri terreni, inoltre danneggiate dalle devastazioni delle guerre annibaliche e
non più competitivi con il mercato estero. Questi campi pubblici venivano quindi usati e sfruttati dai
privati che avevano i mezzi necessari: si erano formati così, veri e propri latifondi, coltivati dalla
manodopera servile, monopolizzati dall’aristocrazia senatoria, che ormai li considerava propri. Il
progetto di Gracco prevedeva la restituzione del campo pubblico da parte dei latifondisti, con la
ricostruzione del ceto dei piccoli proprietari, così che questi ultimi avrebbero contribuito
all’incremento demografico e quindi recuperare nell’esercito la sua base di leva. Però era un progetto
non facile da realizzare.

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Affinché gli effetti della legge non fossero annullati, Tiberio aveva previsto l’istituzione di
un’apposita commissione di triumviri, alla quale erano stati attribuiti i poteri necessari alle
assegnazioni, ivi compreso quello giudiziario. Per di più lo stesso tribuno aveva imposto agli
assegnatari il divieto di alienazione. La LEX SEMPRONIA non era gradita alla nobiltà, la quale si
opponeva perché erano state fatte delle spese per il miglioramento e che ivi si trovavano le tombe
delle famiglie e che adesso erano date alle figlie. Alla fine i nobili si resero conto che non avrebbero
fatto nulla se non con la violenza. Il pontefice Nasica prese spontaneamente l’iniziativa chiamando a
raccolta quei cittadini che avessero voluto salvare la patria ritenendola minacciata dal movimento
gracchiano: fu così che il tribuno e trecento seguaci furono uccisi dagli aristocratici capeggiati da
nasica.
Dieci anni dopo la morte di Gracco, il movimento tornò a galla (a. 123 a.C.) con il fratello di Tiberio,
Caio. Attuò una serie di interventi tra cui quello di riprendere in mano la riforma agraria dando nuovo
impulso alle assegnazioni del campo pubblico, che si erano arenate dopo la scomparsa di Tiberio.
Con questa legge si capisce come Caio abbia inteso innanzi tutto restituire alla commissione la sua
originaria competenza.
Egli cercò di favorire il ceto più povero, attraverso una LEX FRUMENTARIA che imponeva la
vendita di partite di grano ad un prezzo fisso, inferiore a quello di mercato. Tra l’altro Caio era il
fautore dell’estensione della cittadinanza romana ai latini.

La nobiltà senatoria era il ceto sacrificato dalla larga composizione perseguita da Caio: per questo
essa, nel 121 a.C., avvalendosi dello strumento del dell’ultimo consulto del senato, decise di
sopprimere Gracco e i suoi partigiani, e il programma riformatore fu così messo di nuovo da parte.
Dopo qualche decennio i popolari ripresero vigore appoggiandosi a Caio Mario. In quegli anni egli fu
ripetuto console, sostenuto dai cavalieri e dai nullatenenti. Per questo gli si erano avvicinati i nuovi
capi popolari, i tribuni Glaucia e Saturnino, la cui politica aveva ripreso qualche idea graccana ma con
finalità faziose e talvolta violente: essi, a differenza di Gracco, ricercavano il sostegno nell’esercito
mariano. Anche nei confronti di questi la nobiltà tramite l’ultimo consulto del senato soffocò il
movimento nel sangue.
Ma gli scontri tra le due fazioni erano destinati ad assumere gravità sempre maggiore a causa del
progressivo venir meno del carattere non professionale dell’esercito, nel quale proprio Caio Mario
aveva cominciato ad arruolare anche i nullatenenti, formando così eserciti mercenari e permanenti,
disposti ad obbedire solo al loro comandante, in cambio del bollettino bellico, e di lotti di terra.

10. DALLA GUERRA SOCIALE A SILLA

Alle contrapposizioni all’interno della città si aggiunse, agli inizi del I secolo a.C., il conflitto
tra Roma, da una parte, e i suoi alleati latini e italici, dall’altra, che divenne guerra vera e propria (a.
91-88 a.C.) con l’obiettivo, per gli alleati di ottenere la cittadinanza romana o l’indipendenza,
formando così una nuova struttura sociale di tipo federale.
Roma si rese presto conto che l’esito della guerra sociale era incerto, e che la secessione degli

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alleati avrebbe messo in forse la sopravvivenza della repubblica romana. Così, attraverso due leggi
successive (la legge Giulia che da la cittadinanza a latini e alleati del 90 a.C. e la legge Plautia Papiria
che da la cittadinanza agli alleati dell’89 a.C.), fu concessa la cittadinanza a latini e italici, prima a
coloro che fossero rimasti fedeli alla repubblica, astenendosi dal partecipare alla insurrezione, poi
tutti i residenti in Italia che avessero dichiarato, nel termine di due mesi, e a un magistrato romano, di
voler diventare cittadino. Così l’insurrezione venne bloccata e Roma torno a prendere il controllo
delle terre insorte.
Nel frattempo il confronto tra popolari e ottimati riprendeva a Roma, dando via a una cruentissima
guerra civile, che vide contrapporsi Caio Mario e il console dell’88 a.C., Lucio Cornelio Silla.
Quest’ultimo, a cui era stato tolto - per darlo a Mario – il comando della guerra contro Mitridate, re
del Ponto, non esitò a marciare, con il proprio esercito, su Roma. Sconfitto l’avversario, lasciò Roma
per la guerra in Oriente. A Roma così potevano riprendere il sopravvento i popolari, ma Silla
vittorioso su Mitridate e tornato in Italia (a. 83 a.C.), li sconfisse definitivamente, diventando signore
assoluto di Roma, nell’82 a.C.
Silla si fece nominare dittatore delle leggi scritte e della costituzione repubblicana: era una
magistratura differente dall’antico dittatore, in quanto il dittatore, a tempo indeterminato, avrebbe
dovuto provvedere, con poteri illimitati e senza essere soggetto all’appello , alla riforma della
costituzione repubblicana.
Egli cercò di indebolire il ceto equestre. Così rese di nuovo attuale, per la riscossione delle imposte
nella provincia asiatica, il sistema precedente della Legge Sempronia della provincia dell’Asia: i
pubblicani venero esclusi e si assegnò l’esazione dei tributi al governatore. Ma l’esclusione più
significativa riguardò l’albo dei giudici dai processi criminali delle QUESTIONES PERPETUAE, nei
quali Silla sostituì i cavalieri con i senatori. Inoltre elevò il numero dei senatori portandoli a seicento,
mettendovi anche esponenti del ceto equestre, sperando di attenuare la protesta. Nel contempo privò
i censori del potere di escludere taluno dall’assemblea perché indegno.
Alterò il tribunato plebeo togliendogli il suo potere di veto, e lasciandogli solo il compito di
intervenire in favore del singolo cittadino minacciato da un atto magistratuale. In più escluse che
potessero gestire magistrature curuli gli ex tribuni, che diventavano così magistrati di second’ordine.
Dando ai senatori l’ufficio di giudici nei processi criminali, aveva così tolto la funzione giudiziaria ai
comizi.
Inoltre Silla ridusse il potere e il prestigio dei consoli: con la legge Cornelia dell’ordinamento
provinciale trasformò la tradizionale distinzione tra potere di governo civile e comando militare in
una rigida ripartizione di competenza tra consoli e pro magistrati. Proibendo ai consoli di esercitare
il comando militare in Italia e obbligandoli a non allontanarsi da Roma trasformò i supremi magistrati
della repubblica a semplici funzionari civili.
Nel 79 a.C. Silla rinunciò spontaneamente dalla dittatura sostituente, , perché era convinto che con
quelle riforme la repubblica avrebbe ritrovato il suo equilibrio. Ma, nei fatti, il nuovo assetto
costituzionale si rivelò di breve durata, cercando di ripristinare l’ordine tradizionale.

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11. POMPEO, CESARE, OTTAVIANO: LA FINE DELLA REPUBBLICA

Negli anni successivi si affrontarono due altri personaggi, Gneo Pompeo e Caio Giulio
Cesare. Il primo ottenne un comando straordinario per sconfiggere i pirati del Mediterraneo, che
disturbavano i traffici dei cavalieri. Si trattava di un comando destinato ad essere esercitato su tutto il
mediterraneo, per tre anni successivi. Un comando infinito, che suscitò la protesta dell’aristocrazia,
perché avrebbe rappresentato un attentato alla libertà repubblicana. L’anno successivo (66 a.C.),
inoltre, venne conferito a Pompeo il comando proconsolare per la guerra in oriente con Mitridate e
Tigrane.
Ristabilito l’ordine in oriente tornò in Italia e congedò gli eserciti presentandosi al senato rispettoso
della legalità repubblicana. Ma finì col ritrovarsi ostacolato dall’aristocrazia impaurita dal prestigio
acquisito. Per questo Pompeo preferì stringere un’alleanza con Cesare, pretore nel 62 a.C., e con
Licinio Crasso: si parla di primo triumvirato. Dopo questo patto Cesare divenne console nel 59 a.C.,
e fece votare una serie di provvedimenti favorevoli ai suoi due alleati e, in cambio, ottenne il comando
sulla Gallia cisalpina e sull’illirico per cinque anni, con tre legioni.
Nel 55 a.C. fu rinnovata l’alleanza tra i triumviri, e vennero eletti al consolato Pompeo e Crasso e, con
una legge di Pompeo e Crasso della provincia di Caio Giulio Cesare, fu prorogato per altri cinque
anni il comando di Cesare sulle Gallie. Nel 53 a.C. morì Crasso, e, scoppiati gravi disordini a Roma
tra le opposte fazioni di Pulcro e Milone, Pompeo fu eletto, per volere del senato (timoroso del potere
acquistato da Cesare) console senza collega.
A questo punto ci furono i presupposti per una nuova guerra civile tra Pompeo e Cesare.
Quest’ultimo, sperando che la legge di Pompeo gli avesse prorogato il proconsolato fino al tutto il
49, contava di presentarsi come candidato al consolato per il 48 senza aver prima deposto il comando
degli eserciti, in modo da avere una maggiore influenza sull’elettorato, e evitando di vedersi accusato
dagli avversari.

Allo scopo di indebolire questa posizione il console Pompeo fece approvare due leggi generali, ma
che in realtà volevano mettere in difficoltà Cesare: la prima prevedeva che i candidati al consolato
dovevano essere presenti a Roma; la seconda, doveva intercorrere almeno l’intervallo quinquennale
tra la gestione di una magistratura urbana e quella di una promagistratura. Inoltre si aera fatta nascere
l’incertezza sulla data di scadenza del proconsolato sulle Gallie, sostenendo dagli anticesariani che il
quinquennio di proroga del comando decorresse dal 55 a.C., per cui sarebbe scaduto nel 50 a.C.

In ogni caso il senato, in base al primo orientamento, dichiarò Cesare decaduto dal proconsolato alla
fine del 50 a.C. e poi gli chiese di congedare l’esercito. Fu il segnale dell’inizio della guerra civile:
Cesare varcò (49) il confine dell’Italia alla testa di una legione e in breve si impadronì di Roma. Dal
Dicembre del 49 fu dittatore, e console nell’anno successivo. Sconfisse Pompeo nell’agosto del 48 a
Farsalo.
Cesare assunse subito una serie di magistrature, poteri, prerogative, titolazioni: dittatura decennale,
consolato decennale, potere censorio, il potere dei tribuni a vita, potere di conferire il patriziato, di
scegliere la metà dei candidati alle magistrature, di emanare editti vincolanti per tutti, di prelevare
dall’erario, di far guerra e pace. Ai primi del 44 a.C. gli fu conferita dittatura a vita. Aumentò il

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numero dei magistrati e scelse figure nuove (legati, prefetti urbani, familiari) per una migliore azione
amministrativa. Aumentò anche il numero dei senatori portandoli a novecento e l’introduzione di
nuovi cittadini. Emersero nuove idee sociali nuove, che si possono cogliere dalle nuove leggi, come
l’aiuto dei bisognosi, il freno del lusso.
Eliminato Cesare, questa tensione civile e spirituale scomparve e si tornò alla guerra civile, in cui si
affrontarono il migliore dei cesariani, Marco Antonio, e il figlio adottivo di Cesare, Caio Giulio
Cesare Ottaviano. Antonio aspirava, senza la mentalità di Cesare, al controllo della repubblica: si fece
conferire il comando proconsolare sulle Gallie per cinque anni, intimando al proconsole in carica di
lasciargli il posto. Anche per questo Antonio entrò in contrasto con senato, che conferì al
giovanissimo Ottaviano un comando propretorio.

Anche se Antonio fu sconfitto a Modena (43 a.C.), Ottaviano, anche lui in lite con il senato, decise di
allearsi con il rivale: da ciò sortì il secondo triumvirato, vera e propria magistratura quinquennale,
riconosciuta per legge, con poteri costituenti, con i quali i triumviri governarono l’impero,
dividendosi le provincie tra loro. Il triumvirato fu rinnovato per altri 5 anni nel 37 a.C.: con la nuova
divisione delle provincie si posero le basi del conflitto finale, ad Antonio essendo stato affidato
l’oriente e ad Ottaviano l’occidente.
E’ probabile che Antonio desiderasse, insieme a Cleopatra, regina d’Egitto, la costituzione di una
monarchia ellenistica indipendente da Roma: Ottaviano allora presentò mise sotto gli occhi Antonio
come un traditore. Scaduti i poteri triumvirali nel 33 a.C., non essendosi riformata la repubblica,
Ottaviano preparava il conflitto. Forte di un giuramento datogli da tutta l’Italia e tutte le provincie
occidentali, Ottaviano ottenne dal senato la revoca di Antonio dal comando dell’oriente e dichiarò
guerra a Cleopatra. Nel 31 a.C. Ottaviano sconfisse Antonio ad Azio. Sostenendo di essersi
impadronito di tutto per universale consenso, egli fece il gesto di restituire la repubblica alla libera
decisione del senato e del popolo romano. Tuttavia, nel 27 a.C. inaugurò una nuova struttura
costituzionale che, basata sul principe, verrà nominata principato.

CAPITOLO 2
LA PRODUZIONE NORMATIVA

1. LE XII TAVOLE FRA PATRIZIATO E PLEBE

La riforma serviamo ha contribuito a far si che il conflitto fra patriziato e plebe non portasse alla
disgregazione della città, ma finisse per per completarne il tessuto politico, rafforzando quegli
elementi di razionalità distributiva che il modello centuriato portava dentro di se.
In tutto il corso del V secolo si fronteggiano due ipotesi di costituzionali e di poteri:
1. una che aveva al centro la restaurazione di una intransigente egemonia da pare dei vecchi gruppi
gentilizi (la serata del patriziati);
2. la seconda invece doveva presentarsi all’inizio in modo più vago e ambito, esso mirava a contrastare
la preminenza del patriziato e proiettare sulla scena politica le masse plebee, a ma si viene spezzando
progressivamente in due versioni distinte:

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a. in una emergeva un orientamento democratico, che voleva affermare il controllo dei plebei
sulla repubblica attraverso il predominio della loro assemblea;
b. il secondo prevedeva la possibilità di un compromesso fra patriziato ed élites plebee, e la
formazione di un nuovo blocco aristocratico patrizio-plebeo, in grado di chiudere la stagione dei
conflitti e di assicurare un governo unitario alla città.

La nuova politica porta a conflitti, tensioni e lotte, e significativa e’ la questione delle XII tavole, che
stando al raconto di alcuni storici le XII tavole furono compete fra 451 e 450 da una coesione di
decemviri dotata di speri consolari e costituita con il compito di tradurre in forma di leggi rivolte
all’intera città il vecchio ius pontificale, che fino ad allora i manifestava attraverso la pronuncia dei
responsa.
Ora attrverso il testo delle sue leggi sarebbe la città a porre se stessa a garanzia del comportamenti dei
propri cittadini, senza rinviare ogni precetto a remote consuetudini, affidate alla memoria
manipolatrice di una cerchia inaccessibile di sacerdoti, e cosi si ha il ricorso alla scrittura, la XII
tavole erano un testo scritto (* sul legno o bronzo), offerto alla libera conoscenza della collettività.
L’idea dei plebei di imporre questa svolta pare che si sia ispirata alle influenze greche, perché
durante il V secolo si ha l’età della democrazia e dei legislatori in Grecia.
In un primo momento la pressione e plebea sembra avere successo, la legislazione fu emanata e
imposto come regolamento supremo della vita cittadina, ma il contenuto ora ci risulta lacune, perché
il testo originale delle XII tavole andrò distrutto nel incendio gallico di Roma del 390 a.C, pero si e’
abbastanza sicuri che le XII tavole non contenessero norme che si riferivano agli assetti istituzionali
della città, non erano un qualcosa di simile alla carta costituzionale, a ma riguardava piuttosto
rapporti familiari e patrimoniali tra i cittadino, e la repressione criminale (diritto civile, penale e
processuale).
Le leggi non introducevano cambiamenti significativi rispetto alle regole della tradizione, e
tantomeno disposizioni più favorevoli ai plebei, non erano uno strumento di emancipazione sociale
per le masse popolari, ma le disposizioni in essa contenenti avrebbero vincolo in parti uguali sia i
patrizi che i plebei, e quindi fissavano e rendevano conoscibile un diritto non condizionato da una
preliminare discriminazione all’interno del corpo civico.
il testo raccoglieva condensati e brevi precetti, l’insieme delle formule inventate dai pontefici
per riutilizzare la vita sociale dei comunità, in altri termini: le parole magiche del ius, gli atti solenni
collegati ai meccanismi di scambio e di reciprocità tra le famiglie, le forme di appartenenza di
trasferimento dei beni, l’elenco tassativo dei crimini capitali, c’era uno spazio rilevante riservato alla
descrizione dei rituali delle actiones ( da allora in poi dette legis actiones).

2. La rivincita pontificale: come si forma un diritto giurisprudenziale

La reazione patrizia vanifico la parte più radicale del progetto plebeo, i pontefici ripresero il
sopravvento, la cultura plebea della città non era in grado di reggere lo sforzo interpretativo
necessario per applicare le leggi senza ricorrere all’aiuto continuo dei sacerdoti, ed i pontefici
diventarono cosi rapidamente i principali custodi di una legislazione che non avevano contribuito a

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creare, e che verosimilmente avevano visto nascere non senza ostilità.


Le XII tavole smisero di avere un esistenza davvero autonoma, il lavoro interpretativo dei sacerdoti
torna manifestarsi nel forma consueta dei responsi, il rispetto del testo delle XII tavole rimase
formalmente altissimo, e il loro dettato circondato di venerazione, ma la novità era riassorbita, fra lex
e respunsum er ali secondo modello che tornava a prevalere come fonte primaria del ius.
la città ricomponeva in tal modo il suo aspetto oligarchico, sebbene non più strettamente
patrizio, la produzione del diritto si concentrava di nuovo nelle mani die sacerdoti, ma dal 300 a.C in
poi, a seguito del plebiscito Ogulnio, anche le famiglie plebee, più importanti, furono ammesse al
collegio pontificale, era questa la nascita della nuova nobilitas patrizio-plebea.
Nel corso del IV sull’onda del successi di questo compromesso, che metteva un gruppo di famiglie al
collegio pontificale, il diritto romano assunse cosi i caratteri di quel che noi moderni chiamiamo un “
diritto giurisprudenziale”, di un diritto costruito intorno al sapere particolare di un ceto di esperti,
cui la collettività riservava il compito di dettare delle regole della convivenza sociale fra i cittadini, e
non intorno alla forma della legge “generale”, votata dall’assemblea.

3. L’eclissi dei pontefici: il ius dalla religione alla politica

Secondo il racconto di Pomponio, intono alla metà del III secolo, Tiberio Coruncanio, un
pontefice massimo di famiglia plebea, decise per primo di “professare pubblicamente” il suo sapere,
violandone la tradizionale segretezza.
Fra IV e III secolo a.C l’immagine del sacerdote sapiente al centro della produzione del ius, inizio a
sbiadirsi, se non proprio a svanire, e prende il suo posto quella del nobile sapiente, cosi dare i
responsi assunse i tratti di un privilegio aristocratico, ma rimase la cognizione del diritto come
funzione legata all’esercizio del potere nella città.
La forza del responso cominciava a reggersi su un insieme di nozioni e di dottrine, la sua padronanza
era patrimonio esclusivo di uomini influenti, impegnati nel governo della repubblica, e non più
necessariamente legati a compiti sacerdotali, se un pontefice massimo continuava a dare responsi (*
come faceva Taberio Coruncanio) doveva anche egli misurarsi con i parametri di questa nuova
razionalità cittadina, che imponeva comportamenti diversi da quelli di un tempo, e alla quale mal si
addiceva lo stile della vecchia oralità sacerdotale.
Le nuove figure dei nobili sapienti, non identificavano tuttavia già dei “giuristi” nel senso moderno
specialistico della parola, ma siamo già innanzi a esperti per i quali la sapienza giuridica e l’attività
respondente potevamo diventare una milizia civile, come avrebbe scritto più tardi Cicerone: l’apice
di un’intensa e prestigiosa presenza pubblica.

4. Il ius civile: un diritto per la repubblica

I responsa costituivano il ius vivente della città repubblicana, e tuttavia essi continuavano a
non stabilire - a differenza di quanto avveniva nelle XII tavole- delle regole generali, i responsi
duravano il tempo della loro attuazione, la loro memoria era affidata alla tradizione degli esperti,

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gelosamente tramandata di generazione in generazione, attraverso un apprendimento che si svolgeva


all’interno delle famiglie aristocratiche.

ogni nuova domanda era misurata sull’esistenza dei precedenti, e decidere di allontanarsi dal passato
per proporre una soluzione innovatrice era una scena impegnativa che andava ben ponderata. Lo
sguardo del sapiente si concentrava su dettagli, sui piccoli segni che solo per una mente addestrata
diventavano rivelatori, e bisognava comunque riportare ogni nuova situazione nel solco tracciato
dagli antichi mores, e dalle regole delle XII tavole.
Questo insieme di prescrizioni che si concentravano nella memoria e la sapienza del giurista, non in
un testo scritto, costituì il tronco dell’intero diritto repubblicano, chiamato IUS CIVILE, che non
vuol dire altro se non ius civitatis (* il diritto della nostra città). Esso atteneva principalmente allo
stato delle persone, alle questioni ereditarie, alle forma di appartenenza della terra e di altri beni
mobili e immobili, alle obbligazioni e agli atti solenni d trasferimento di diritti sulle cose, ad alcuni
comportamenti illeciti, al processo civile regolato dalle XII tavole.
Al suo interno possiamo distinguere tre strati:
A. i mores arcaici- rielaborati dalla prima tradizione sacerdotale;
B. la legge delle XII tavole- nello specchio della sua intercettazione pontificale;
C. i responsa della nuova giurisprudenza laica.

Pomponio identificava il ius civile con l’interpretazione orale dei giurisperiti.


Ma i giuristi non si dedicavano soltanto a pronunciare responsi, ma nella cultura tardo repubblicana
vengon identificate altre due attività: CAVERE E AGERE.
CAVERE- con questa attinta di identificava il lavoro di consulenza privata (*cavere-
consigliare) svolto gratuitamente dai giuristi in favore dei cittadini in orginhr non solo di pari livello
sociale, che venivano protetti e guidati in modo preventivo nel difficile compito di districarsi nel
groviglio di vincoli imposti dai rituali del ius sui comportamenti sociali della vita quotidiana (vendere
un fondo, emancipare un figlio, liberare uno schiavo, contrarre un matrimonio, chiedere in prestito
una cosa o una somma di denaro).

AGERE- con questa attività ci si riferiva all’assistenza nella fase in iure del processo civile,
prima in quello per legis actiones, poi in quello cosiddetto formulare.
L’insieme di questi tre verbi: respondere, cavere e agere, descriveva il primato del sapere giuridico,
nella totalità della vita collettiva ( non solo nella formazione del ius), con l’unica esclusione dei suoi
aspetti militari. Non si potevano raggiungere i vertici della politica senza avere sviluppato almeno uno
di questi due talenti: il sapere giuridico, o l’arte militare.

5. Popolo e leggi

L’importanza del lex si rafforzò progressivamente nel corso dell’età repubblicana, una volta
consolidato il rapporto fra legge e comizio, centuriato o tributo.
—> di regola il testo di una lex si apriva con una praescriptio, con il nome e la carica del

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magistrato proponente, e il tempo e il luogo della votazione;


—> seguiva poi la rogatio- la domanda di approvazione del magistrato al comizio- con il vero e
proprio dispositivo della legge, spesso divido in capitolo- capita.
—> chiudeva infine la sanctio, il complesso delle disposizioni a garanzia della validità della
norma.
L’esempio delle XII tavole fu abbandonato per sempre, i confini dell’interpretazione segnarono i
limiti incavalicabili della lex populi.
I suoi campi furono altri: quelli riguardanti il regolamento dei rapporti fra cittadini e potere
politico, il funzionamento delle magistrature e la repressione criminale.
Questa separazione fini con il creare un dualismo fra ius e lex.
il ius- un tempo nelle mani dei pontefici e successivamente nelle mani di esperti di grande
prestigio, con la convinzione collettiva che la misura corretta nelle relazioni fra i cives riposasse sui
principio di un sapere antico, una volta confuso con la religione e la sacralità, ora dotato di tecniche e
di pratiche autonome che richiedevano la cura di talenti del tutto particolari;
la lex- connessa alla volontà del comizio e del magistrati che lo aveva convocato,
rappresentava la presenza regolatrice di una volontà popolare ritenuta essenziale e irrinunciabile
negli equilibri istituzionali repubblicani.
Ma questa separazione non fu priva di eccezioni, nel corso del tempo pessimo individuare un gruppo
ristretto di leges che invasero il territorio del ius, momenti nei quali quasi sempre sull’onda delle forti
pressioni sociali , magistrati e comizi decisero di intervenire per regolare attraverso nome generali
situazioni e rapporti tradizionalmente disciplinati dai responsi dei giuristi.
Esempi (fra IV e III secolo):
** lex poetelia papiria sul nexum
**lex acquiLia sui danneggiamenti
** lex cincia sulle donazioni
** fra III e I secolo: lex furia in materia testamentaria
** lex atilia sulla tutela
** lex plautus sulla violenza
** lex falcidia sui legati.
Questi testi erano interpretariati da giuristi che presto se ne appropriano e li integrano nella propria
tradizione di sapere, cosi come e’ accaduto con le XII tavole, diventavano anch’essi parte del ius.

6. Pretori ed editti

Magistrati dotati di imperium, di rango appena inferiore a quello dei consoli, essi avrebbero
dovuto amministrare la giustizia civile unicamente sulla base del lege agere, dell’agire
(processualmente) secondo quanto stabilito dalla lex, quindi secondo procedure fissate quasi tutte
nel testo delle XII tavole, dominate dal ritualismo e da una pesante impalcatura di gesti e parole il cu
scopo era quello di sostituire allo scontro fisico fra i contendenti.
Il processo si svolgeva in due parti ben distinte:
1. IN IURE- in diritto = i litiganti utilizzavano il loro comportamento secondo le prescrizioni

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rituali, una parola o un gesto sbagliato interrompeva il circolo magico della verità sacra provocava
automaticamente la sconfitta.
2. APUD IUDICEM- presso il giudice = qua il magistrato scompariva, al suo posto entra un
cittadino privato in funzione di giudice e di arbitro, e toccava a lui stabilire chi avesse torto e chi
ragione, solo che egli poteva soltanto stabilire se la lettere delle parole già pronunciata dai
contendenti al magistrato corrispondesse a uno stato di cose in qualche modo verificabile.

I magistrati avevano il potere di emanare edicta, dichiarazioni della propria volontà, che impegnava
l’intera cittadinanza e sfruttando questa possibilità i pretori iniziano a dichiarare che per chi ne avesse
fatto richiesta non avrebbero più amministra la giustizia secondo le regole del lege agere, ma
attraverso un nuovo tipo di procedura fondato su parole concordate e messe insieme caso per caso
dalle parti e dal pretore.
il processo rimaneva sempre diviso in due parti come nel lege agere, le valutazioni concrete
erano sempre compito del giudice privato, ma adesso nella fase in iure non si consumava più un rito
immodificabile pervaso di sacralità e magia, si realizzava invece una specie di accordo flessibile e
informale fra il magistrato e le parti, uniti dalla comune ricerca di una formulazione che consentisse
di dare qualificazione giuridica alle pretese in campo.
Per tutto il III secolo e anche buona parte del II, possiamo dire che i pretori emanavano edicta
giurisdizionali in modo del tutto frammentario ed episodico, e partire della fine del II secolo i
magistrati preso l’abitudine di emanare regolarmente edicta all’inzio della loro carica , un editto di
portata desinato a avere per tutta l’annualità del mandato contente tuttt elementi formule processuali
che essi si impegnavano ad adottare,
Cicerone scriveva che ormai l’editto rivestiva per il diritto della città la stessa importanza
avuta un tempo dalle XII tavole.
Lo Ius civile è quella parte del diritto romano derivato dai mores maiorum, dalle XII tavole e dalla loro
interpretatio e sviluppatosi poi nel periodo preclassico per opera soprattutto dei giuristi.
Esso è la evoluzione laica dello Ius Quiritium, il diritto più antico dei Romani, strettamente connesso
con la religione e rivelato dai pontefici.
Verso la fine del periodo preclassico anche il diritto sorto da una lex o da un plebiscito aveva finito
con l'essere incluso nello ius civile, mentre nel corso del I secolo d.C. questo venne a comprendere
anche il diritto derivante da un senatoconsulto o da una costituzione imperiale, ritenuti atti con forza
di legge.
Ma ius civile è un'espressione estremamente cangiante, il cui significato varia a seconda
dell'espressione alla quale viene contrapposto.
In contrapposizione allo ius gentium, il diritto romano che si applicava anche agli stranieri, lo ius
civile si identifica con l'intero diritto vigente nella civitas, che fosse applicabile ai soli cittadini
romani.
In quest'ottica sarebbero comprese nello ius civile anche quelle clausole dell'editto pretorio che si
applicavano solo ai cittadini romani.
In contrapposizione allo ius honorarium, il diritto creato dal pretore attraverso la sua azione
giurisdizionale, lo ius civile è il diritto creato regolarmente nei modi previsti per produrre diritto in

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generale (leggi, plebisciti, senatoconsulti, costituzioni imperiali).


In quest'ottica gran parte dello ius gentium ricade nello ius civile.

Ius civile e Ius Honorarium erano due ordinamenti privatistici, ossia come se fossero due codici
civili di genti e il giudice scegliesse, a volte condizionato dalle parti quale applicare.
Ius civile si forma con la prima sfera del diritto romano. Poteva esser modificato solo con le leggi
domiziali. Il magistrato poteva disapplicarlo solo con un’altra norma appartenente al Ius
Honorarium. Fonti del Ius Civile:
. 1)  I Mores, le consuetudini, che poi vengono percepite come vincolanti.

. 2)  Leggi Regie.

. 3)  Delibere dei Comizi, sia centuriati che tributi. Le leggi tribute sopravvissero all’avvento
del
principato più a lungo delle leggi Centurie.

Ius Honorarium si fonda con la legislazione del pretore, con l’esigenza di applicare un diritto
per risolvere le controversie con gli stranieri, a causa dell’inapplicabilità del Ius Civile agli stranieri, e
quindi formazione del Ius Honorarium che con la Lex Ebuzia entra nel campo del diritto civile.
Le fonti normative del Ius Honorarium erano:
1)  L’Editto del Pretore;

2)  L’editto degli Edilicuruli per le controversie di minore importanza.

3)  Serie di Editti dei governatori provinciali (molti giuristi si sono dedicati a commentare gli editti
provinciali).

7. ORALITÀ E SCRITTURA

Ancora fino al cuore del II secolo il sapere dei giuristi aristocratici era un sapere orale, ma
questo sapere non poteva disciplinare universi sociali complessi come quello di Roma.
Il sapere giuridico aveva conosciuto solo due testi:
—> il de usurpationibus di Appio Claudio, censore nel 312. Questa opera pre la letteratura
giuridica romana, di questo testo nulla si e’ salvato.
—> tripertita di sesto elio- Le XII Tavole erano state distrutte probabilmente nell’incendio
gallico, con la conquista di Brenno, però esse oltre ad esser scritte erano anche memorizzate, perché
Cicerone afferma che le XII Tavole erano fatte imparare ai bambini nelle scuole.
C’è quindi un tentativo fra III e II secolo a.c. da parte di Sesto Elio di ricostruire il testo delle XII
Tavole, che scrisse un’opera in 3 parti, chiamata tripertita, e conteneva la ricostruzione del testo
decenvirale. Ciò che ci è arrivato è quindi in gran parte derivante dalla ricostruzione eliana.
Se la grafia è più arcaica significa che quello che ci è giunto deriva dalla ricostruzione eliana.

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Sesto Elio ha fatto una ricostruzione delle XII Tavole, a cui seguono, nella seconda parte
l’interpretatio (che si chiamava anche ius civile) e infine le legis actiones (ossia azioni legittime).
1)  XII Tavole.

2)  Interpretatio – Ius Civile.

3)  Legis Actiones – Azioni legittime.

il motivo per cui con queste opere si e’ deciso di abbandonare l’oralità era probabilmente connesso a
problemi contingenti la lotta politica.

8. LA COSTRUZIONE DELLA SCIENZA

Negli anni 40 e 30 del II secolo, il sapere giuridico stava entrando nella grande epoca del
cambiamento, passando cosi da un uno sfondo ancora dominati dalla stratificazione di pratiche
arcaiche ad un primo nucleo concettuale di quello che sarebbe diventato il modello millenario del
diritto romano, la nuovo formula non cancello del tutto i tratti della precedente esperienza ma li
conservo, sebbene rielaborati in un quadro molto più complesso.
Non era più la pratica pontificale a fondare la conoscenza del ius civile, ma era la dottrina civilistica a
giustificare il ruolo pontificale.
La consapevolezza del mutamento la possiamo ricavare nella riflessine di Pomponio, che in un
suo manuale dedica molta attenzione all’epoca tra il II secolo e l’età di Augusto. Esso viene scandito
da tre significativi giudizi, tutti allusivi a cambiamenti profondi nella qualità della scientia iuris civilis.
1. Il primo riguarda tre figure che incontrano appena dopo la metà del II secolo: Giunio Bruto,
Manio Manilio e Publio Mucio Scevola, di cui si dice che fonderanno il ius civile;
2. Il secondo coinvolge il figlio di P. M. Scevola, Quinto Mucio Scveola, che qualche decennio
più tardi “ per primo costruire per genera il diritto civile”;
3. Il terzo tocca un famoso giurista di età augustea, Marco Antisio Labeone, del quale si dicd
che “ per la qualora del suo ingegno e la fiducia nella propria dottrina pose mano a moltissime
novità”.
Ma nessuna di queste figure fu in grado di descrivere questi tratti costitutivi del cambiamento, solo
noi oggi siamo in grado di colmare questo vuoto e affermare che i punti intorno ai quali si concentro
la trasformazione devono essere individuati intorno a tre serie di eventi.
innanzitutto il definitivo passaggio dall’oralità alla scrittura e la nascita di una autentica
letteratura giuridica, dopo i labili precedenti di “ de usurpationibus” e dei “tripertita”: una
transizione tesa a conservare fin dove possibile tutte la acquisizioni della tradizione orale entro i
nuovi spazi di conoscenza offerti dalla parola scritta”.

poi l’invenzione di concetti giuridici astratti, a cui si collegò l’suo di tecniche classificatorie di
origine platonico aristotelica ed ellenistica.
Attraverso l’invenzione di forme astratte, i giuristi romani riusciranno per la prima volta a distinguere

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le ossature o sture funzionali dei rapporti economici- quelle che i moderni definiscono “ fattispecie
astratte” - e queste forme finivano con l’ottenere un’esistenza giuridica del tutto autosufficiente, una
vita autonoma, da cui derivava la possibilità di un disciplinamento normativo del tutto svincolato da
ogni valutazione sostanziale sui contenuti economici e sugli interesse sociali di volta in volta presenti
in ogni rapporto.
Il sapere giuridico si proponeva adesso come una scienza autonoma, in grado si
autolegittimarsi senza ricorrere al sostengo della superiorità aristocratica, di costruite intorno alle
proprie argomentazioni e alle proprie prescrizione una rete di portellone fatta di procedimenti logici
rigorosi e complessi, difficilmente falsificabili e capici di conferirgli uno statuto forte , al riparo da
facili interventi esterni.
Si realizzava cosi per la prima volta nella storia della cultura occidentale un diritto RAZIONALE e
FORMALE, un diritto cioè fondato sull’eguaglianza nella posizione dei soggetti innanzi alla norma,
si costruiva una realtà non di fatti ma di modelli e di procedure giuridiche, in grado di retroagire sui
fatti, e regolarli con un efficacia e razionalità altrimenti completamente irraggiungibili.

La rivoluzione intellettuale che segno la nascita del nuovo pensiero giuridico si sovrappose con la
biografia di alcune figure della giurisprudenza tardo repubblicana, disposte lungo 4 generazioni:
l’identificazione di Pomponio ci appare fondamentalmente corretta, i nomi sono ben noti: P. M.
Scevola (console nel 133), suo figlio Q. M. Scveola (console nel 95), Servio Sulpicio Rufo (console nel
51), Marco Anstitio Labeone (pretore che probabilmente rifiuto il consolato offertogli da Augusto).
Questi lavorarono in direzioni differenti, secondo modalità particolari, determinate dalle
condizioni del momento, per cui l’esperienza di ognuno raccolta appartenga alla generazione
successiva. Essi non ebbero solo vocazione giuridica, ma furono anche tutti magistrati e dirigenti
della nobilitas signoria.

Publio Mucio- nella sua scrittura (egli fu autore di 10 piccoli libri dedicati al ius civile) il
materiale utilizzato era rappresentato dalla registrazione dei propri responsa, per la prima volta la
conservazione dei pareri veniva affidata ad un testo piuttosto che alla memoria.
Nell’insieme dei pareri di Publio riusciamo a ricostruire due aspetti:
a. la presenza di ius controversum- cioè di dispute dottrinali fra i giuristi, che lascia pensare ad
una forte caratterizzazione personale del suo lavoro rispetto ai tempi di Sesto Elio;
b. la presenza di una vera e propria definzione- ambitus aedium - si tratta del più antico modulo
definitori rintracciabile in un testo della giurisprudenza romana.

Quinto Mucio- con Mucio entriamo nel cuore del cambiamento, egli e’ il primo a pensare per
concetti il proprio sapere, e a scrivere un’opera, un trattato di ius civile in 18 libri, che possiamo
considerarli l’autentico esordio della letteratura romana.
Il primo problema che egli si trovo a fronteggiare riguardò l’ordine degli argomenti trattati , un modo
non adeguatamente risolto sia nei 10 libelli di suo padre, sia nelle opere degli altri fondatori.
Vi e’ oiu di un indizio che egli abbia affrontato il problema disponendo la tradizione precedente in tre
strati: le XII tavole, Sesto Elio, i responsi dei fondatori. E poi dispose la materia per capita (paragrafi)
imponendo all’esposizione del ius civile una misura e una cadenza capaci di trasformarsi in un

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principio ordinatore.

Servio - sviluppava la trama delle ricerche logiche di Mucio, le libera di ogni residuo
arcaizzante e le spingeva ancora più lontano da ogni ipotesi di ridi`ione della nuova scienza giuridica
nella forme di una scienza ellenistica.

Antistio Labeone - la sua riflessione conclude l’età della rivoluzione scientifica, aveva
condivido un comune destino, quello di un nuovo rapporto con il potere politico, al di fuori dei
vecchi schemi della tradizione aristocratica.

Ofilio- allievo di Servio, ma in grande familiarità con Cesare e forse il meglio dotato fra i
giuristi a lui vicini. I sui libri- iuris partiti- furono un tentativo di riscrittura del ius civile muciano, e
non ebbero molta fortuna.
Piu fortuna ebbe invece il commento ad edictum di Ofilio, anche se probabilmente nato con lo stesso
intento dei suoi libri, e cioè contribuire ad un consolidamento stabilizzazione dei testi editali,
Pomponio considerava questo giurista come l’autentico fondatore dell’ordine degli editti.
Labeone riusci a dare forza ad un modello di giurista che faceva dell’autonomia scientifica del proprio
operare uno strumento raffinato e potente contri ogni rischio di offuscamento del carattere
eminentemente giurisprudenziale del diritto romano, e di mutamento in senso legislativo e
autocratico degli antichi equilibri, il suo modello diventa il paradigma di una specie di compromesso
fra giurassi e principe, destinato a durare a lungo, e lo possiamo considerare la chiave pe rintepretre
le vicende della giurisprudenza romana fino all’età di Adriano.
Antistio Labeone esercitò dunque la conoscenza del diritto civile con particolare interesse e a quelli
che lo consultavano dava pareri sul diritto pubblico; ma fu esperto anche di altre arti liberali, si era
specializzato nella grammatica e nella dialettica, aveva approfondito le letterature più antiche e più
remote, aveva analizzato le origini e le regole delle parole latine e usava particolarmente quelle
conoscenze per risolvere i molti dubbi del diritto. Dopo la sua morte furono pubblicati libri intitolati
postumi, dei quali i tre successivi, il 38°, il 39° e il 40°, sono ricchi di questo genere di fenomeni che
portano a chiarire e spiegare la lingua latina. “

CAPITOLO 3
IL DIRITTO PRIVATO

1. PERSONE E FAMIGLIA
1a. Gli status personali
Per quanto riguarda la posizione giuridica degli esseri umani crebbe l’importanza della distinzione
fra liberi e schiavi.
In età repubblicana intervengono due fenomeni, da un lato l’afflusso in Italia in ingenti masse di
prigionieri, venduti a prezzi ora molto più bassi, cosi da determinare un peggioramento nelle
condizioni di vita, e dall’altro l’attenuarsi dei tratti più duri della patria potestas e degli altri poteri
personali sui liberi.

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Il radicale mutamento dell’assetto sociale ed economico porta al delinearsi di un autentico


SISTEMA DI PRODUZIONE SCHIAVISTICO, e questo si riflette sui:
—> tratti salienti del regime giuridico, delle cause per cui si assumeva lo status servile(la ragione era
da rintracciare nella prigionia bellica);
—> per le procedure tramite le quali era dato uscirne (il servus cessava di essere tale tramite quelle
manomissioni che conferivano all’affrancato- liberto- anche la cittadinanza romana);
—> sia all’articolazione delle funzioni cui gli schiavi potevano essere adibiti.
Per quanto riguarda la disciplina giuridica e’ necessario tener conto del diversificarsi del loro
sfruttamento: i servi che potevano essere adibiti a lavori manuali più duri ma anche alla gestione
domestica, all’insegnamento, al compimento o direzione di attività commerciali.
Gli schiavi potevano in primo luogo essere dotati di un peculio: un patrimonio, di cui, secondo ius
civile, rimaneva titolare il patrone, am che si trovava nella disponibilità del servus, da impiegare nei
suoi traffici. Nella tarda repubblica viene aggirato il principio per cui il dominus faceva propri
acquisti e crediti scaturiti dall’attività dei sottoposti senza rispondere dei relativi debiti, questi
principio a tutela dei padroni finiva con ritorcersi contro di loro disincentivando i terzi a negoziare
con gli schiavi, e cosi vanificare la possibilità di mettere a profilo il talento di questi in ambito
commerciale.
Da qui l’allestimento pretorie di varie azioni che il creditore dello schiavo poteva esperire contro il
suo proprietario, e che erano fonti di ius civile, queste azioni erano denominate azioni di qualità
aggiunta, con cui il dominus avrebbe risposto del debito in misura a seconda dei casi, integrale
oppure limitata.
Tra le actiones si distinguevano:
— actio exercitòria
— actio tributòria
— actio de pecùlio
— actio quod iussu
— actio de in rem verso
— actio institòria
Àctio exercitòria

Azione appartenente alla categoria delle actiònes adiectìciæ qualitàtis ; era esperibile nei casi in cui il
filius o il servus, preposti dal rispettivo pater familias o dòminus a dirigere una nave, avessero
contratto con terze persone (per effetto di attività connesse alla direzione della nave) un’obbligazione
rimasta inadempiuta.
Il fatto che l’obbligazione venisse in un certo qual modo contratta per volontà del pater o dominus (a
seguito del conferimento dell’incarico di dirigere la nave), rendeva pienamente giustificabile la
possibilità di agire direttamente e in solido contro il pater o dominus per il soddisfacimento del
credito rimasto inadempiuto. Si parlava, a tal proposito, di azioni a trasposizione di soggetto.
L’azione (esercitabile contro il pater o dominus anche nel caso che alla direzione della nave fosse
stato preposto un soggetto estraneo alla familia) derivava il suo nome dall’armatore della nave (c.d.
exèrcitor navis).

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Àctio tributòria

Azione appartenente alla categoria delle actiònes adiectìciæ qualitàtis ; era esperibile contro il pater
familias o il dòminus che fossero a conoscenza della gestione, da parte del filius o del servus, di
traffici commerciali aventi ad oggetto merci acquistate col proprio pecùlium .
Se nell’esercizio di quei traffici veniva contratta una obbligazione, il capitale impiegato, ed i
guadagni, venivano ripartiti tra i creditori ed il pater o dominus (se anch’essi vantavano qualche
diritto); la ripartizione veniva affidata dal pretore al pater od al dominus ed i creditori insoddisfatti
della parte ricevuta potevano agire contro questi ultimi mediante tale azione, detta tributoria da
tributum (cioè il quantum reclamato).

Àctio de pecùlio

Azione appartenente alla categoria delle actiònes adiectìciæ qualitàtis [vedi]; era esperibile nei
confronti di un pater familias o dòminus, nei casi in cui il filius o il servus (dotati di peculium )
avessero concluso un negozio giuridico senza il consenso del pater o del dominus, relativamente alla
somma effettivamente andata a profitto di questi ultimi. In particolare, il pater ed il dominus
dovevano restituire per intero il profitto ricevuto e, se non avevano ricevuto alcun profitto, erano
ritenuti responsabili limitatamente al patrimonio peculiare: ciò imponeva al giudice di valutare in
primo luogo se il patrimonio del pater o del dominus avesse ricevuto qualche incremento dall’affare, e
solo in caso di esito negativo di tale valutazione, passare a considerare il peculio (cioè i beni del pater
o dominus messi a disposizione del filius o servus per l’esercizio della propria attività). Nel valutare il
peculio, occorreva preventivamente dedurre ciò che era dovuto al pater o al dominus.

Àctio quod iùssu

Azione appartenente alla categoria delle actiònes adiectìciæ qualitàtis ; era concessa, per ottenere il
soddisfacimento di un proprio credito rimasto insoddisfatto, al creditore di un filius o servus, nei
confronti del pater familias o del dòminus , nel caso in cui il filius o servus avessero contrattato
dietro specifico ordine (iussus, termine da cui prende nome l’azione in esame) del pater o dominus.
Alla autorizzazione preventiva di questi ultimi era equiparata la successiva ratifica.

Àctio de in rem verso [Azione di ingiustificato arricchimento; cfr. art. 2041 c.c.]

Azione appartenente alla categoria delle actiònes adiectìciæ qualitàtis relativa a quanto, dal ricavo
dell’affare, sia stato riversato nel patrimonio del pater familias o del dominus; era esperibile contro il
pater o il dominus cui un filius o un servus — privi di peculio personale — avessero trasmesso i
proventi di un affare, da colui che aveva contratto con questi un’obbligazione. Il legittimato attivo
poteva, tuttavia, rivalersi sul pater o dominus, soltanto nei limiti dell’arricchimento che questi

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avevano conseguito dall’affare.

Àctio institòria

Azione appartenente alla categoria delle actiònes adiectìciæ qualitàtis ; era esperibile nei casi in cui
un filius, un servus od anche un extraneus (cioè un soggetto estraneo alla familia) fossero stati
preposti palesemente, in modo che fosse chiaro a tutti, dal pater familias o dal dòminus [vedi]
all’esercizio di un commercio ed alla gestione di una taverna. Chi aveva contratto un’obbligazione
(inerente all’attività commerciale od alla gestione della taverna) con uno di quei soggetti, poteva
agire, per l’intera somma, nei confronti del soggetto preponente (cioè del pater o dòminus). L’azione
prendeva il suo nome dal termine ìnstitor, che indicava il soggetto preposto alla gestione di una
bottega.
Ciò che distingueva l’institor dal mandatario era la notorietà, rispetto ai terzi, della praepositio
negotiatiòni.

Persone sui iuris e alieni iuris


Il terzo elemento che concorreva a delineare lo status era la posizione all’interno della
famiglia, e si distigue fra persone sui iuris e alieni iuris.
Alièni iùris [Sottoposti all’altrui potestà]

Categoria di persone alla quale appartenevano gli individui aliènæ potestàti subiècti, ossia sottoposti
alla potestas del pater familias , come il filius familias [vedi familia; status (familiae); patria potestas]
ed il servus .
Il pater era, nell’ambito della famiglia, l’unico soggetto sui iuris , ossia non sottoposto alla potestà di
alcuno, e, in quanto tale, fornito di un potere assoluto sui suoi sottoposti.

Sui iùris [Soggetto familiarmente autonomo]

Era così definito ogni soggetto che godeva di autonomia familiare, non risultando subordinato ad
alcun soggetto (né ad un pater familias , né ad un dòminus , né tantomeno ad un marito [vedi mànus
maritàlis]).
Il soggetto (—) aveva piena soggettività giuridica [vedi status; capacità].

1b. Le aggregazioni parentali


Adgnatio e cognatio
La relazione parentale che per il ius civile mantiene un rilievo esclusivo fu quella agnatizia, essa
correva lungo linee di sangue solo maschili (arano agnati i figli dello stesso padre fra loro, e rispetto
ai loro ascendenti e allo zio paterno), mentre nella cognatio era ricompresi ogni legame in linea tanto
maschile che femminile.

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Alla cognatio fu attribuito un ruolo significativo solo tramite interventi del pretore, mentre la
adgnatio riusciva determinare sia in sede di trasmissione dell’eredita per successione legittima che di
individuazione di un tutore.

I poteri familiari: patria potestas e manus


Patria potèstas [Patria potestà]

Era il potere spettante al pater familias su tutti gli appartenenti al nucleo familiare. Essa si scindeva
in tre distinti poteri:
— (—) propriamente detta, nei confronti dei discendenti;
— manus, nei confronti delle donne entrate a far parte del nucleo familiare a seguito di matrimonium ;
— domìnica potestas , nei confronti dei servi.
La (—) veniva acquistata dal pater familias sui figli e discendenti legittimi per effetto della nascita, sui
figli adottivi a seguito di adrogàtio [vedi] o adòptio e sui figli naturali a seguito di legitimàtio .
Cause di estinzione della (—) furono: la morte o la capitis deminutio del pater; la morte o la capitis
deminutio maxima o media [vedi capitis deminutio] del filius; l’adoptio del filius da parte dei terzi;
l’emancipatio del filius
Nell’ordinamento giuridico vigente alla patria potestà si è sostituita la potestà di entrambi i genitori
sui figli minori (cfr. art. 316 c.c.).

Mànus
Fondamentale rapporto assoluto intercorrente tra il pater familias [vedi] e tutti gli altri cittadini; fu
denominato anche mancìpium [vedi] o potèstas.

IL MATRIMONIO
Il matrimonio sarebbe stato inteso come centrato sul consenso, tale consenso non doveva
essere prestato con un atto iniziale quanto potarsi continuamente nel corso del rapporto
matrimoniale, tramite il rinnovarsi della maritalis affectio.
L’affermarsi del matrimonio consensuale doveva essere valutato con cautela, alla forma giuridica che
richiedeva una forma di volontà anche da parte della donna, non assumendola più solo qual soggetto
di un potere, non corrispondeva l’effettività sociale, dato che la volontà delle figlie sui padri e delle
mogli non aveva lo stesso peso della volontà dei meriti.
Per sciogliere il matrimonio era sufficiente il venir meno della maritalis affectio, e questo faceva che i
matrimoni assumessero un rilievo sopratutto economico e in certa misura politico.
Le scelte dei patres, e delle figlie non erano dettate da ragioni affettive, il marito ed il regime del
matrimonio, la sua prosecuzione o interruzione rispondevano ad una logica di relazioni familiari.
Ai mutamenti circa la configurazione del matrimonio si lega la ricostruzione del regime della
dote, contemplata sia nei matrimoni con manus che in quelli che ne erano privi, la dos consisteva nei
beni assegnati al marito, oppure a lui promessi, con stipulatio oppure un apposito negozio.

LA FAMIGLIA (proprio o communi iure) E LE GENS

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I legami potestativi delimitavano i confini della famiglia, e si parlava infatti di una famiglia con
confini più ristretti (proprio iure- per diritto proprio)quando si intendeva riferirsi al nucleo costituito
dal pater e dalle persone soggette alla sua patria potestas o manus.
Con famiglia communi iure (per diritto comune) si intendeva un più ampio complesso di adganti,
comprensivo di tutte le famiglie, i cui patres erano stati sottoposti alla potestas del medesimo
soggetto, fino alla morte di questi.

Un’altra forma di aggregazione familiare era LA GENS in cui rientravano coloro che si
riconoscevano nella discendenza da un nome antenato.

2. LE SUCCESSIONI A CAUSA DI MORTE


2a. La successione legittima
Proiezioni delle immagini della famiglia in ambito patrimoniale

Ove un pater familias morisse senza aver fatto testamento , il complesso dei suoi beni e i suoi
rapporti giuridici veniva attribuito ad alcuni soggetti prestabiliti di diritto.
La disciplina della successione legittima illustra chiaramente la configurazione dei rapporti familiari,
e ne costituisce la proiezione sul pino patrimoniale a livello di trasmissione della ricchezza da una
generazione all’altra.

Le prescrizioni delle XII tavole


B. SUCCESSIONE LEGITTIMA
(AB INTESTATO) CIVILE
1)HEREDES SUI
2)ADGNATUS PROXIMUS
3)GENTILES
XII TAVOLE: Si intestatus moritur cui suus heres nec escit, adgnatus proximus familiam habeto, si
agnatus nec escit, gentiles familiam habento (se qualcuno muore intestato e non ha un erede suo,
l’eredità sia attribuita all’agnato prossimo, se non ha agnati, l’eredità sia attribuita ai gentiles)

1)
HEREDES SUI
Persone che erano sottoposte alla potestà, alla manus oal mancipium di un pater familias,che a
seguito della morte di quest’ultimo passavano dalla condizione di alieni iuris
a quella di sui iuris.
Sono heredes sui et necessarii: diventano automaticamente eredi senza bisogno di un atto di
accettazione e senza possibilità di rifiutare. In caso di hereditas damnosa il pretore concedeva il IUS
ABSTINENDI
Vi sono anche gli heredes necessarii tantum: schiavi manomessi nel testamento e istituiti eredi.
Succedevano per stirpi, non per capita: diritto di rappresentazione.
2)

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ADGNATUS PROXIMUS
Il più vicino tra i collaterali agnati: fratelli e sorelle (compresa la madre in manu), zio e nipote.
È un erede volontario, cioè deve accettare (con cretio o pro herede gestio). Non è prevista la
successio gradum: se l’agnato più vicino non vuole accettare, non si chiama l’agnato successivo (ma
non si chiamano neppure i GENTILES, perché non è prevista neppure la successio ordinum).

2b. La successione testamentaria


Dalle forme più arcaiche al testamentum per aes libram
Vi erano testamenti PUBBLICI – i più antichi - E PRIVATI.
Testamenti pubblici:

1) TESTAMENTUM CALATIS COMITIIS :atto formale, orale compiuto davanti ai comitia curiata
che
a questo scopo si riunivano due volte l’anno, con
cui il
testatore dichiarava solennemente le proprie
volontà. In
origine probabilmente il testatore si limitava ad
istituire il
proprio erede.
2) TESTAMENTUM IN PROCINCTU: poco più recente del precedente. Il testatore, soldato,
dichiarava
solennemente le proprie ultime volontà dinanzi
all’esercito
schierato in battaglia ( che fungeva da testimone).

Nessuna di queste forme sopravvisse all’età repubblicana. Ebbero invece fortuna le due forme
successorie private: furono escogitate dalla giurisprudenza per consentire di testare a quanti
temendo per la vita non potessero a livello di tempo, far ricorso a quelli pubblici.
Potevano accedervi anche le donne, previa auctoritas del tutore se non esonerate dalla tutela.
a) MANCIPATIO FAMILIAE : è un negozio fiduciario con cui una persona trasferiva il proprio
patrimonio , la familia in senso patrimoniale, in significato sostanzialmente corrispondente a quello
di hereditas, ad un amicus, una persona di fiducia detto familiae emptor (così detto nonostante la
gratuità dell’atto e al contempo, nella stessa MANCIPATIO il mancipio dans con una lex mancipi
gli affidava il compito di distribuire i cespiti a persone indicate appunto dal mancipio dans, una volta
che egli fosse morto.

Non si tratta di vero testamento perché:


Non c’è istituzione di erede
Non c’è acquisto mortis causa , il familiae emptor acquista subito in forza della mancipatio, inoltre da
notare che però nemmeno le persone che alla fine avrebbero avuto il patrimonio del de cuius
dovevano poter essere dette heredes; ma l’emptor non poteva disporre dei beni!.

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I giuristi e , forse prima di loro i pontefici, partendo dall’interpretazione di alcuni precetti delle XII
tavole., (fra cui in particolare nexum mancipium ve uti lingua nuncupassit ita ius esto), elaborarono
una nuova, vera forma di testamento, ossia la mancipatio familiae si trasformò in :
b) TESTAMENTUM PER AES ET LIBRAM
prevede che il familiae emptor ed il testatore (mancipio dans) realizzassero la mancipatio
familiae con la pronuncia da parte del primo di una formula molto elaborata solenne da cui
traspariva il carattere fittizio dell’appartenenza a lui della familia.
Da parte sua il testatore manifestava solennemente usando precise formule le proprie
volontà: si parlò al riguardo di nuncupatio.
Per esigenze di segretezza si permise di rinviare per le nuncupationes al contenuto di
tavolette cerate e sigillate tabulae ceraeque .,ossia con nuncupatio lui enunciava
solennemente e con certa verba la volontà di testare ma non il contenuto, le sue
disposizioni.

Riassumendo la struttura del testamentum per aes et libram:


1)mancipatio familiae dalla quale non si poteva prescindere se si voleva dare valore
vincolante
alle nuncupationes
alla presenza di 5 cittadini puberi come testimoni ,e del libripens, vi era la pronunzia da parte del
mancipio accipiens e atto di apprensione dello stesso; impiego del raudesculum.

2) nuncupationes contenenti la volontà del testatore: potevano essere:


dirette ossia compiuto tutto oralmente con nuncupatio totale pronunciate davanti ai testimoni
di rinvio se si faceva ricevimento al contenuto delle tavolette cerate, quindi pur esigendosi una
solenne pronuncia orale, la nuncupatio appunto, il contenuto sostanziale dell’atto era tutto nel
documento scritto.

Le maggiori differenze rispetto alla mancipatio familiae sono:


A differenza della mancipatio familiae dove il familiae emptor acquistava immediatamente il
patrimonio del mancipio dans (sia pure con l’obbligo di ritrasferirlo alle persone indicate dallo stesso
mancipio dans, nel testamentum per aes et libram l’intervento del familiae emptor era richiesto per
pura formalità per il compimento del rito :lui non acquistava nulla di quanto era del testatore,
neanche temporaneamente ;né prima della morte di costui l’atto avrebbe prodotto effetti.

Si tratta di vero testamento perché c’è istituzione di erede.

IL CONTENUTO DEL TESTAMENTO

L’istituzione di erede ( heredis istitutio) assunse un ruolo fondamentale, essa doveva essere

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necessariamente presente e posta in apertura dell’enunciazione verbale, formulata in termini


imperativi e in lingua latina, non sottoposta a termine o a condizione risolutiva.
Poteva invece essere sottoposta a condizione sospensiva, subordinandone l’efficacia al verificarsi di
un evento futuro ed incerto, o accompagnata dalla pressione di un obbligo, gravante sull’erede di
svolgere una determinata attività, ma tale per cui ove non le venisse dato seguito la disposizione
testamentaria non sarebbe stata direttamente priva di effetti.
all’istituzione di erede poteva seguire una sostituzione, ossia la previsione di un secondo
erede per l’ipotesi in cui quello precedentemente indicato non potesse o non volesse procedere
all’accettazione dell’eredita (** compiuta con atto solenne - cretio) oppure per fatti concludenti,
comportandosi cioè come eredi ( pro eredi gesto).

La diseredazione ( exheredatio) - operava rispetto al testatore come diritto ma anche come


dovere, nel senso che ricorrendo ad essa egli poteva escludere dalla successione uno o più sui, anche
in assenza di loro colpe o torti ( ** con il rischio di querela inofficiosi testamenti - nelle cause di
petizione di eredità), egli pero era tenuto a rispettare le formalità della diseredazione,
neceyssariennte nominativa nei caso di figlio maschi, pena la nullità del testamento.
Tutto quanto appena detto si ha con riferimento alla successione universale, e che quindi riguardava
la totalità delle posizioni patrimoniali dei de cuius, ma nel testamento potevano essere incluse anche
previsioni relative alla manomissione di uno schiavo o alla nomina per un filius familias o la moglie in
manu che alla morte del testatore divenissero sui iuris- di un tutore.

PRESO DA FONDAMENTI: Se c’erano dei Sui e il testatore non voleva costituire gli eredi doveva
diseredarli nominalmente e espressamente, perché altrimenti non valeva; questo per i maschi. Per le
figlie femmine il testatore doveva almeno procedere ad una diseredazione in cui indicava gli eredi, e se
i diseredati erano femmine o nipoti poteva usare una clausola generica di diseredazione.
Per far valere un testamento illegittimo per violazione delle regole di successione ereditaria nell’età
medievale si formo la Querela inofficiosus testamenti, perché era lesivo dell’officiu pietatis, ossia
l’officio che veniva richiesto al testatore nei confronti dei parenti più vicini.

I legati - rientravano nelle successioni a titolo particolare, per cui il destinatario non avrebbe
dovuto rispondere per gli eventuali debiti del de cuius in misura maggiore del vantaggio economico
derivatogli dal lascito.
Fra gli inizi del II secolo e il 40 a.C si ha l’emanazione di tre leggi (Furia, Voconia e Falcidia) volte a
limitare l’ammontare dei legati.
Il legato per vindicationem e per praeceptionem determinavano il diretto trasferimento in capo al
destinatario della propheta di uno specifico bene del testatore, i restanti legati producevano invece
effetti obbligatori o gravando l’erede dell’obbligo di compiere a favore dell’onorati una prestazione
patrimoniale avente ad oggetto un bene del testatore, dell’erede o di un terzo ( legato per
damnationem ), oppure imponendogli di non impedire che il legatario si impadronisse di una carta
cosa, del de cuius o dell’erede (legato sinendi modo).

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Sistema dei legati in diritto romano:


1)  Distinzioni a titolo universale, che fa riferimento alla presenza di eredi. Gli eredi ereditavano il
patrimonio inteso come somma di attività e di passività.

2)  Distinzioni a titolo particolare, che fa riferimento invece all’esistenza di un legato e quindi di un


legatario. I legatari ricevono solo un lascito attivo.

Contrariamente a ciò che accade oggi i legati erano distinti in 4 categorie:


1)  Legati per vindicationem. Disposto obbligatoriamente con la locuzione do lego.

2)  Legati per damnationem. Disposto con la locuzione damnas esto dare.

3)  Legati per praeceptionem.

4)  Legati sinendi modo.

Da un lato la distinzione fa riferimento a:


a)  La formula in cui erano disposti.

b)  Gli effetti.

La differenza fra i primi 2 legati consisteva nell’acquisto del legato, perché se il legato era disposto
per vindicationem, il legatario al momento opportuno acquistava direttamente la proprietà della cosa
legata, infatti nella classificazione dei modi d’acquisto della proprietà si trova anche questo tipo di
legato, ed era a titolo originario, perché non c’è correlazione fra il testatore e colui che acquista il
bene. Ciò implica che il testatore fosse proprietario della cosa sia al momento della redazione del
testamento sia al momento della morte, altrimenti non potrebbe disporre di quel modo. Non importa
se abbia perso la proprietà nel periodo intermedio. È un negozio giuridico con effetti reali.
Invece l’effetto del legato per damnationem era quello di far sorgere in capo all’erede l’obbligazione
di far avere una certa cosa al legatario, quindi il legato per vindicationem era un negozio giuridico
con effetti obbligatori. La cosa poteva esser dell’erede (damnas esto dare), ma poteva anche esser di
un terzo e l’erede aveva comunque l’obbligo di farla acquistare al legatario purché il legatario la
ricevesse.
Gli altri due legati si distinguono da questi ma la distinzione non è più fondamentale.
Infatti il legato per praeceptionem, legato per vindicationem, aveva come destinatario l’erede, così
l’interessato ereditava una cosa a titolo di patrimonio, quindi con le passività, e una cosa a titolo di
legato, senza che con questa concorresse al passivo ereditario.
Il legato sinendi modo era un legato per damnationem in cui veniva riservata al legatario la facoltà di
scelta fra diverse cose indicate per genere o per specie.

2b. La bonorum possessio pretoria

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Il problema delle successioni viene risolto dal pretore con la bonorum possessio, e aveva il
potere di creare forme tali da modificare la controversia attribuendole un esito differente. Dove il
pretore promette nell’editto che se verrà da lui in caso di morte di qualcuno un successore così e così
verrà immesso nel possesso del patrimonio ereditario anche se non vi avrebbe diritto applicando il ius
civile, ossia applicando le XII Tavole. Il pretore crea una sistema di successione alternativo e diverso
dal precedente. Il pretore ignora parzialmente il sistema delle XII Tavole, e crea un suo sistema di
successori a cui promette di dare la possessio dei beni ereditari.
Questo sistema comprende 4 ordini.
1)  Unde (complemento di provenienza che in base alla provenienza stabilisce anche la causa del
fenomeno e si traduce con Quanto) liberi, che comprendono anche gli emancipati, che non vengono
esclusi;

2)  Unde legitimi, che assorbe, ricomprende i 3 ordini delle XII Tavole, che qui divengono gradi, con
la differenza che qui il pretore visto che è fuori dallo ius civile ammette la successio graduum, ossia se
un agnate rinuncia, prima di andare a cercare un gentile succedono i soggetti agnatizi di grado
ulteriore;

3)  Unde cognati, fa riferimento ai parenti in linea femminile, che nell’ordine precedente erano
esclusi;

4)  Unde viret uxor, investe la possibilità di riconoscere reciprocamente eredi il marito e la moglie. In
caso di successione del marito alla moglie la novità è molto grossa, mentre nel caso della successione
della moglie interessa solo le uxores sine manu, mentre quelle cum manu erano già nell’ordine unde
liberi e legitimi;

È opportuno far riferimento all’intervento del pretore in materia di successione testamentaria, dove il
pretore concedeva la bonorum possessio, che comprendeva i diritti ereditari riconosciuti dal pretore
nell’ambito del Ius Honorarium, poiché se disapplicava il Ius civile non poteva attribuire agli eredi il
dominium quiritario che apparteneva al Ius civile, e quindi riconosceva quest’altra forma di possesso,
ossia la Bonorum possessio dei beni ereditari concessi dal pretore in rapporto e poteva essere:
a)  ad interdicta, poteva esser tutelata dal pretore.

b)  ad usucapione, era pieno titolo per usucapire i beni ereditari quando fosse trascorso troppo
tempo.

c)  Per actio publiciana, che aveva origine dalla compravendita di una res mancipi, perché la
compravendita in diritto romano di per sé non trasferiva la proprietà ed era consegnata con traditio,
senza fare in iure cessio. Il proprietario poteva esercitare un’azione di rivendica nonostante avesse
venduto e consegnato la cosa, e se il pretore avesse agito secondo il Ius civile gli avrebbe dovuto dare
ragione.
I)  Quando quindi il venditore poco corretto esercitava l’azione di rivendica allora il pretore in
questi casi paralizzava l’azione che spettava Iure civile al venditore concedendo

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all’acquirente un’eccezione che paralizzava l’azione di rivendica.

II)  Tuttavia si poteva verificare anche un’altra situazione, ossia che si facesse la compravendita
di res mancipi, che la res fosse consegnata ma non mancipata, e che il possesso della res
compravenduta fosse perduto dall’acquirente (immobile occupato, o bue res mancipi acquistato e
portato nella stalla dell’acquirente che però può scappare e tornare anche alla stalla del venditore, e
quindi se tornava l’acquirente poteva dire che il bue era suo, visto che con traditio di compravendita
avrebbe mantenuto il dominio).

L’Actio publiciana era data nell’ambito del Ius Honorarium e la formula era congeniata in modo tale
che il giudice era obbligato a decidere come se fosse già trascorso il periodo di usucapione : “Se è
vero che Numedio Negidio ha venduto ad Aulo Agerio il bue, e poi hanno fatto la mancipatio...”il
giudice doveva dar ragione all’attore, ossia l’acquirente della vendita spossessato della cosa
posseduta.

Come avveniva l’intervento del pretore nella successione testamentaria?


La Bonorum Possessio assumeva 3 aspetti. Poteva esser conferita:
1)  Sine tabulis- in assenza di un testamento;

2)  Cum tabulis. Il pretore la concedeva quando c’era un testamento (redatto su tavoletta cerata) ma
non
aveva tutti i requisiti di validità previsti dal Ius Civile, e allora il pretore nell’ambito del Ius
Honorarium e quindi nell’editto indicò un nucleo di requisiti ridotti e disse che se venivano esibite
tavole che se non avevano tutti i requisiti del Ius Civile, ma almeno quelle da lui stabilite allora
avrebbe conferito validità al testamento invalido dal diritto civile attribuendo la Bonorum Possessio
agli eredi indicati nel testamento che non potevano averla.

3)  Contra tabulas. Successione necessaria. Il pretore da sostegno a determinati eredi che diventano
necessari. La successione necessaria aveva due aspetti: una nell’ambito del Ius Civile e una
nell’ambito del Ius Honorarium.

Il superamento della logica agnatizia

Con la formula sine tables il pretore crea i 4 ordini di sopra, e questo porta ad un superamento della
logica agnatizia, e questo e’ evidente nell’idistinzione fra ui ed emancipati, oltre che nella prevalenza
accordata a questi ultimi rispetto all’adgnatus proximus, e nelle aspettative riconosciute ai parenti in
linea di sangue anche femminile e alla moglie non convenuta in manu.
Ma questa apertura pretoria porta ad alcune situazione di squilibrio, perché finivano con
favorire i figli emancipati e figlie sposate, da qui nella bonorum possessio sine tabulis e contro tabulis
e’ stato imposto a questi soggetti, rispettivamente la collatio bonorum e la collatio dotis (collazione
dei beni e della dote).

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3. IL PROCESSO PRIVATO
3a. Le legis actiones: previsioni decemvirati e sviluppi successivi
Le disposizioni delle XII tavole

Lègis àctio (o legis actiònes)

Le legislatore actiones costituirono la più antica forma processuale del diritto romano. Ampiamente
diffuse all’epoca della legge delle XII Tavole, sopravvissero formalmente per tutta l’età repubblicana.
Furono ufficialmente abolite (salvo qualche eccezione) nel 17 a.C., dalla lex Iulia iudiciòrum
privatòrum.
Le più antiche forme di procedimento giurisdizionale, che si riconnettono alle pratiche di autodifesa
sviluppatesi nell’ambito dell’ius Quiritium [vedi], furono denominate, inizialmente, “actiones”: solo
successivamente presero il nome di legis actiones con riferimento alla legge decemvirale e alle leggi
successive che, per esaudire le esigenze di maggior garanzia della plebe, intervennero a disciplinarne
ed arricchirne il sistema.
La (—) era una solenne affermazione del proprio diritto, compiuta di regola davanti al magistrato (in
iùre) e secondo uno schema precostituito, che i privati non potevano mutare.
Secondo il migliore orientamento esse derivarono, nell’ambito del iùs Quirìtium , da una
ritualizzazione delle pratiche di autotutela del diritto.
Dopo una iniziale fase pontificale, le leggi delle XII tavole ne tradussero in termini formali la
realizzazione.
Il processo era diviso in due fasi:
— la prima fase, detta in iùre, davanti al magistrato;
— la seconda, detta àpud iùdicem, davanti al giudice privato.
• La fase in iure
La fase in iure aveva lo scopo di fissare, con certezza e precisione, i termini della controversia, ed
esigeva, di conseguenza, la necessaria presenza di entrambe le parti: spettava all’attore condurre
dinanzi al magistrato la controparte, nel caso anche con la forza. Davanti al magistrato, l’attore
affermava solennemente il suo diritto.
L’elemento fondamentale della fase in iure era lo scambio tra le parti di dichiarazioni solenni,
incompatibili tra loro (in quanto l’una affermava il diritto, l’altra lo negava).
Esse erano pronunciate davanti a testimoni, la cui presenza era esplicitamente richiesta: questa era la
c.d. litis contestàtio.
La funzione della litis contestàtio era duplice:
— determinare l’oggetto del processo;
— impegnare le parti alla soluzione della lite mediante sentenza.
Con la litis contestàtio si verificava inoltre il c.d. fenomeno della consumazione processuale:
l’obligàtio restava ferma, ma ne mutava la fonte; dopo la litis contestatio l’obbligo primario si
trasformava nell’obbligo di subire la condanna. Con le loro dichiarazioni le parti promuovevano un
processo e, impegnandosi a rispettare il provvedimento decisorio dell’autorità, rinunciavano alla

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difesa privata.
Se il convenuto non contrastava le affermazioni dell’avversario, si attuava la confessio in iure: il
processo si arrestava nel momento in cui l’affermazione dell’attore riceveva la conferma del
magistrato, cioè la sua addìctio. Lo stesso avveniva se il fondamento del diritto affermato dall’attore
appariva evidente.
Si poteva quindi passare all’esecuzione, con la conseguenza che l’attore poteva impossessarsi della
cosa o del debitore.
• La fase àpud iùdicem
Se le parti non raggiungevano alcun accordo, dopo la lìtis contestàtio , si apriva la fase apud iudicem
(peraltro eventuale). Il magistrato rimetteva le parti dinanzi ad un iùdex privàtus (da lui scelto) il
quale, ascoltate le loro ragioni ed esaminati i mezzi di prova, emetteva la sua sententia, oralmente.
Nella fase apud iudicem non era più necessaria la presenza di entrambe le parti: la sentenza, in
assenza di una parte, interveniva ugualmente ed era sfavorevole a questa.
L’ufficio di giudice poteva essere affidato ad una persona sola o ad un collegio: nel primo caso, il
giudice era nominato dal magistrato di volta in volta; nel secondo caso il collegio decideva un numero
indefinito di controversie, avendo in determinate materie, competenze generali:
— in materia di libertà, erano competenti i decèmviri stlìtibus iudicàndis;
— in materia di eredità e di proprietà, erano competenti i centùmviri.
Nel caso fosse stata esperita la legis actio sacramènti , il giudice si limitava a dire quale delle parti
avesse ragione, dichiarando, cioè, quale sacramentum (giuramento) fosse iustum: il giudice
pronunciava un accertamento e non una condanna. Diversamente, nelle altre legis actiones
dichiarative il giudice condannava, vale a dire ordinava al convenuto di tenere un dato
comportamento.
Se il convenuto non ottemperava alla sentenza, intervenivano senz’altro misure esecutive; con l’actio
in rem il convenuto perdeva il possesso della cosa in favore dell’avversario; con l’actio in personam
era soggetto alla immediata esecuzione personale.
• Il diritto romano conobbe cinque legis actiones:
— (—) sacramenti ;
— (—) per mànus iniectiònem ;
— (—) per iùdicis arbitrìve postulatiònem ;
— (—) per condictiònem ;
— (—) per pìgnoris capiònem .

Lègis àctio sacramènti

La (—) aveva origini molto antiche, e poteva essere esercitata a difesa di ogni diritto per il quale non
fosse specificatamente prevista una procedura diversa: era cioè un’actio generalis. Come è possibile
desumere dalla descrizione gaiana, contenuta nelle Institutiones, essa consisteva in una sorta di
scommessa fatta dalle parti in lite. Fissati, infatti, i termini della controversia, ciascuna delle parti
faceva una promessa solenne (detta appunto sacramèntum), di pagare in favore dell’erario una

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determinata somma in caso di soccombenza; toccava poi ad un iùdex, nominato dal magistrato
dinanzi a cui si svolgeva la fase in iure, stabilire quale delle parti avesse ragione e quale avesse, invece,
dolosamente promesso la somma.
Si distinguevano una (—) in rem (con la quale si faceva valere un diritto reale su una cosa, costituendo
oggetto del contendere la titolarità di un diritto su una res) ed una (—) in personam (nella quale
oggetto del contendere era l’esistenza o meno, a carico del convenuto, di una obbligazione).

• Legis actio sacramenti in rem

Della (—) Gaio ci ha offerto una descrizione sufficientemente completa.


Attore e convenuto comparivano dinanzi al magistrato portando la cosa controversa o una parte
simbolica di essa, se si trattava di cosa non trasportabile. L’attore, tenendo in mano una verga
(festùca), toccava la cosa e pronunciava la frase “hunc ego hòminem ex iùre Quirìtium meum esse aio
secundum suam causam. Sicut dixi, ecce tibi vindìcta impòsui” (affermo solennemente che questo
schiavo mi appartiene per diritto quiritario, in conformità alla sua destinazione. Ecco, così come ho
dichiarato, ti impongo la mia vindicta); contestualmente toccava la cosa con la festuca, operando la
vindicàtio.
Come spiega Gaio, poiché la festuca rappresentava la lancia di guerra, questo atto simboleggiava
l’occupazione bellica e, quindi, nel toccare la cosa con la festuca, l’attore manifestava simbolicamente
il suo diritto di piena proprietà sulla cosa: in epoca più antica, infatti, il diritto tipico di proprietà era
quello sulle cose prese al nemico.
A questo punto due erano le possibilità.
Se il convenuto non compiva alcuna dichiarazione contraria, la cosa restava definitivamente in
proprietà dell’attore (a questa forma, si ricorse molto spesso per trasmettere i beni oggetto di
compravendita).
Se, invece, il convenuto compiva la stessa dichiarazione ed eseguiva gli stessi atti compiuti già
dall’attore, operando la vindicatio contraria, sorgeva la controversia vera e propria.
In questo caso il magistrato intimava ad entrambe le parti di abbandonare la cosa contesa (c.d. lis,
pronunciando la frase: “mìttite ambo rem”); a ciò seguiva la reciproca scommessa — la somma oggetto
della sfida si chiamava sacramentum (e dava nome alla procedura in esame).
Il magistrato investito della controversia poteva assegnare il possesso interinale sulla res oggetto del
giudizio (c.d. vindìciæ) alla parte che a suo avviso vantasse una pretesa in apparenza fondata (c.d.
fumus boni iuris [vedi]); la restituzione della res e dei frutti, in caso di soccombenza del possessore
interinale (poco probabile, alla luce di quanto detto, ma sempre in teoria possibile) era garantita
attraverso la nomina di garanti (c.d. prædes lìtis et vindiciàrum rispettivamente, per la res e per i
frutti).
Successivamente, nominato il iudex, si passava alla fase àpud iùdicem, nella quale ciascuna parte
produceva le prove che intendeva porre a sostegno della sua tesi, ed il giudice, dopo averle valutate,
emetteva la sua sententia, con la quale, risolvendo il tema oggetto della controversia, proclamava
quale dei sacramenta fosse iùstum e quale iniustum.

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Poiché la summa sacramenti era promessa da tutte e due le parti, pur dovendo essere pagata solo da
chi perdeva la causa, si richiedeva che ognuna presentasse dei garanti per il futuro eventuale
pagamento (i prædes sacramenti che prestavano garanzia davanti al magistrato); la somma era poi
devoluta ad una cassa pubblica.

• Legis actio sacramenti in persònam


Assai simile alla legis actio sacramenti in rem era la (—).
Il creditore e il debitore convenivano in iure: dinanzi al magistrato il creditore, rivolgendosi al
debitore, affermava il proprio diritto e l’esistenza di un credito verso il convenuto.
Il convenuto poteva tacere, nel qual caso risultava definitivamente accertato il suo debito, o contestare
il diritto azionato: in questo caso il creditore lo provocava al sacramentum.
A differenza della legis actio sacramenti in rem, in cui le parti affermavano per sé lo stesso diritto,
nella (—) una parte affermava il credito e l’altra lo negava. Inoltre mancava la fase di attribuzione del
possesso interinale, non essendoci una res oggetto della controversia.
La sfida al sacramentum, peraltro, permaneva e di conseguenza era necessaria sempre l’indicazione
dei prædes sacramenti

Lègis àctio per mànus iniectiònem

La manus iniectio fu la più antica delle legis actiones e costituì il primo esempio di azione esecutiva
generale. Suo presupposto era il mancato pagamento da parte del convenuto di una somma di danaro,
a cui era tenuto per una causa certa ed indiscutibile. Il caso tipico fu quello relativo alle somme
dovute a seguito di accertamento giudiziale (“manus iniectio iudicati”); a questa ipotesi furono in
seguito equiparati altri casi di crediti ben accertati, ad es. crediti basati su una confessio in iure, per i
quali si parlò di “manus iniectio pro iudicato”.
Il creditore, trascorsi 30 giorni (dìes iusti) dalla sentenza che aveva riconosciuto il suo diritto,
conduceva, anche con la forza, nuovamente in ius il debitore insolvente e dinanzi al magistrato lo
afferrava pronunciando la frase: “quod tu mihi iudicàtus es sestèrtium decem mila, quando non
solvìsti, ob eam rem ego tibi sestertium decem mila iudicati manum inìcio” (poiché sei stato
condannato a pagarmi diecimila sesterzi e non l’hai fatto, io compio su di te la manus iniectio per
diecimila sesterzi).
Il condannato non poteva respingere la manus iniectio, ma solo offrire un vìndex per contestare le
ragioni del creditore. Se però il vindex risultava sconfitto, il debitore era condannato al pagamento
del doppio del dovuto.
Se non era presentato il vindex, il magistrato confermava la dichiarazione del creditore mediante
l’addìctio. Il creditore aveva diritto di condurre il debitore presso la sua abitazione e di tenerlo legato
per 60 giorni, durante i quali doveva presentarlo in pubblico in tre mercati consecutivi per venderlo,
dichiarando l’esistenza del debito e il suo ammontare.
Trascorsi i 60 giorni senza alcun esito positivo, il debitore poteva essere ucciso o venduto fuori del

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territorio romano (trans Tìberim) e, se vi erano più creditori, in base alle XII Tavole poteva essere
ucciso: il suo corpo diviso tra gli stessi creditori.
Col tempo la manus iniectio andò sempre più trasformandosi da processo esecutivo in processo
dichiarativo: al debitore fu concessa la possibilità di respingere la manus iniectio e di iniziare un
giudizio per accertarne la legittimità (depèllere manum et pro se lege àgere: c.d. manus iniectio pura).
Una lex Vallia lex Vallia de manus iniectione], di epoca imprecisata, fece della manus iniectio pura la
regola, lasciando sopravvivere la vecchia procedura per il solo caso di esecuzione del giudicato

Vìndex [Garante]

Nel processo per lègis actiònes [vedi], il (—) garantiva personalmente la comparizione del convenuto a
data differita, nel caso in cui quest’ultimo si fosse rifiutato di seguire l’attore davanti al magistrato
giusdicente.
Era, altresì, previsto l’intervento del (—) nella speciale procedura della manus inièctio [vedi legis actio
per manus iniectiònem], dove al convenuto era consentito di offrire, in qualità di garante, una persona
di sicura solvibilità, al fine di sottrarsi all’azione esecutiva

Legis actio per iùdicis arbitrìve postulatiònem

La (—) costituì una semplificazione della legis actio per sacramèntum . Essa fu introdotta dalla legge
delle XII Tavole [vedi lex XII Tabulàrum] ed aveva un campo di applicazione ben delineato,
risultando esperibile dapprima per l’accertamento dei crediti derivanti da spònsio e successivamente
nei giudizi divisori [vedi àctio familiæ erciscùndæ, actio commùni dividùndo, actio fìnium
regundòrum].
Presenti in iùre le parti, l’attore affermava la propria pretesa e, nel caso di contestazione del
convenuto, si rivolgeva tanto a lui che al pretore chiedendo a questi di nominare un iudex che
decidesse la controversia. La formula adoperata era: “quando tu negas, te, prætor, iudicem pòstulo uti
des”.
La procedura si caratterizzava per il fatto che, eliminata la sfida al sacramentum, l’attore, dopo aver
ribadito la sua domanda, e dopo aver ricevuto il diniego del convenuto, chiedeva immediatamente la
nomina dell’iùdex o dell’àrbiter che avrebbe deciso la questione.
Una successiva lex Licìnia estese l’applicabilità della legis actio alla divisione di cose singole, chiesta
dai condomini (actio communi dividundo), mentre la prassi la consentì anche per l’actio finium
regundorum [vedi].
In queste ultime due ipotesi, il giudice aveva poteri più ampi di quelli solitamente riconosciutigli, e
perciò era chiamato arbiter: la legis actio fu, così, denominata (—).

Lègis actio per condictiònem (vel condìctio)

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Introdotta, come riferisce Gaio, da una lex Silia del III sec. a.C. per l’accertamento di crediti di
somme certe di danaro, fu estesa, da una successiva lex Calpurnia, ai crediti di cosa determinata. La
condìctio costituì probabilmente un adattamento della legis actio sacramènti, in quanto sostituì il
pagamento della somma di danaro all’erario con il pagamento di una penale al vincitore.
La procedura era molto simile a quella della legis actio sacramenti. L’attore affermava davanti al
convenuto che questi era debitore verso di lui di una data somma di danaro e gli chiedeva di
riconoscere il suo debito.
Se il convenuto negava, l’attore lo invitava a comparire nel trentesimo giorno davanti al pretore per la
nomina del giudice: di solito il convenuto per evitare la condictio provvedeva a pagare il dèbitum.
La prima parte dell’azione si svolgeva, dunque, extra iùs, e cioè non davanti al magistrato.

Lègis àctio per pìgnoris capiònem

La (—) era una forma di esecuzione sui beni del debitore, eseguita senza bisogno di un precedente
giudicato: essa fu utilizzata solo per crediti di carattere pubblicistico (es. il credito dell’esattore di
imposta).
La (—) si celebrava anche in assenza dell’avversario e non richiedeva la presenza di un magistrato;
consisteva nell’atto del creditore che si impadroniva di una o più cose del debitore inadempiente,
pronunciando cèrta sollèmnia vèrba, per soddisfare il proprio credito.
Gaio ricorda alcuni casi in cui si ricorreva a tale azione:
— i soldati potevano agire con la pignoris càpio contro colui che era tenuto a pagar loro lo stipendio
(æs militare) o a fornir loro le vettovaglie;
— i publicani potevano agire con la pignoris capio contro i debitori di imposte al fine di riscuotere il
vectìgal dai privati contribuenti, in base a un provvedimento del censore (lex censoria).
L’appartenenza della (—) al novero delle legis actiones fu molto discussa dai giuristi romani poiché
essa poteva essere celebrata fuori del tribunale ed anche nei dìes nefàsti (non propizi, nei quali non si
amministrava giustizia); la necessità di pronunciare certa verba (formule solenni) indusse a preferire
l’opinione affermativa.

Processo per fòrmulas [Processo formulare]

Il (—) fu uno dei tre modelli giurisdizionali del diritto romano. Esso, caratterizzato da una procedura
più semplice e meno rigoristica delle arcaiche lègis actiònes , finì per sostituirsi completamente a
queste nel periodo augusteo.
Le procedure per formulas sorsero in epoca preclassica e convissero a lungo col sistema delle legis
actiones. Secondo l’opinione preferibile, queste si affermarono nell’ambito della iurisdictio del
praætor peregrinus.

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Successivamente le procedure per formulas furono utilizzate dal prætor urbanus nelle controversie
tra Romani relative agli istituti del ius civile novum. L’estensione anche ai rapporti del ius civile vetus
avvenne con la lex Æbutia de formulis, del II sec. a.C., che probabilmente rese facoltativo il nuovo
processo rispetto alle legis actiones, finché non fu reso obbligatorio dalla lex Iulia iudiciorum
privatorum del 17 a.C.
Il (—) era una procedura di cognizione divisa in due fasi, una in iùre, davanti al magistrato e l’altra
apud iùdicem, davanti al giudice nominato dal magistrato.
Nella fase in iure, il giudice doveva valutare il contenuto ed il fondamento della domanda e, quindi,
concedere o negare l’àctio richiesta; se riteneva di concedere l’azione, determinava le reciproche
pretese delle parti fissandole nella formula che concedeva loro.
Nella fase apud iudicem, che si svolgeva secondo le indicazioni fissate nella formula stessa, ciascuna
parte produceva le prove che riteneva opportune; al termine dell’istruzione, il giudice, valutate le
prove ed attenendosi alla formula, emetteva la sentenza, che poteva essere di accoglimento o di
rigetto della domanda proposta.

Fòrmula

La (—) (elemento tipico del processo per formulas , consisteva in una sorta di riepilogo del giudizio
avvenuto in iùre, fatto secondo un programma concordato tra le parti, ed in base a modelli preparati
dal magistrato, contenente le rispettive pretese delle parti, nonché il compito di cui veniva investito,
nella successiva fase àpud iùdicem, il iudex privatus.
Parti fondamentali della (—) erano:
— la demonstràtio, che si innestava nel giudizio, chiarendo la questione di fatto oggetto della
controversia (ad es., “poiché A. Agerio ha venduto uno schiavo a N. Negidio). La demonstratio
circoscriveva l’oggetto del giudizio di fronte ad una intèntio indeterminata e quindi la precedeva: era
pertanto una parte accessoria del processo formulare;
— l’intèntio, con la quale l’attore riassumeva la sua pretesa (ad es. “se risulta che N. Negidio debba
dare a A. Agerio diecimila sesterzi” oppure “tutto ciò che risulta che N.N. debba dare o fare ad A.A.”,
oppure “se risulta che lo schiavo sia di assoluta proprietà di A.A.”);
— l’adiudicàtio, clausola propria dei giudizi divisori con cui si dava al giudice il potere di assegnare in
domìnium ex iùre Quiritium o in altro ius in re aliena ai singoli dividenti le parti di un oggetto
comune;
— la condemnàtio, con la quale si dava al iudex privatus il potere di condannare od assolvere (ad es.,
con la formula “giudice, condanna N.N. a dare diecimila sesterzi ad A.A.; se non risulta assolvilo”).
Aggiunta alla condemnatio poteva esservi la taxàtio, che indicava il massimo a cui poteva arrivare la
condanna, come nel caso del benefìcium competèntiæ, riconosciuto nei rapporti tra i coniugi e
comportante la condanna solo in id quod fàcere pòssunt. Lo stesso beneficio era accordato alle
seguenti persone: ai soci tra di loro, al patrono verso il liberto [vedi patronatus], ai parentes verso i
discendenti, al donante verso il donatario, ai soldati.

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Elementi essenziali del giudizio formulare furono l’intentio e la condemnatio che non potevano mai
mancare.
Elementi accessori furono:
— la demonstratio
— l’adiudicatio
— la taxàtio ;
— la præscrìptio
— l’exceptio

Esempi sulle parti fondamentali della formula tratti dalle Istituzioni di Gaio
Demonstratio
Demonstratio est ea pars formulæ quæ … ut demonstretur res de qua agitur. Velut hæc pars
formulæ: “Quod A. Agerius N. Negidio hominem vendidit”; item hæc “Quod A. Agerius “apud” N.
Negidium hominem deposuit”.
La demonstratio è la parte della formula che … per illustrare la situazione per la quale si agisce.
Come, ad esempio, questa parte della formula: “Poiché A. Agerio ha venduto uno schiavo a N.
Negidio”; oppure: “Poiché A. Agerio ha affidato uno schiavo in depositum a N. Negidio”.La
demonstratio è la parte della formula che … per illustrare la situazione per la quale si agisce. Come,
ad esempio, questa parte della formula: “Poiché A. Agerio ha venduto uno schiavo a N. Negidio”;
oppure: “Poiché A. Agerio ha affidato uno schiavo in depositum a N. Negidio”.
Intentio est ea pars formulæ qua actor desiderium suum concludit. Velut hæc pars formulæ: “Si paret
N. Negidium A. Agerio sestertium decem milia dare oportere”; item hæc: “Quidquid paret N.
Negidium A. Agerio dare facere “oportère”; item hæc: “Si paret hominem ex iure Quiritium A.
Agerii esse”.
L’intentio è quella parte della formula in cui l’attore racchiude la sua pretesa, come questa parte della
formula: “Se sembra che N. Negidio debba dare ad A. Agerio diecimila sesterzi”, oppure quest’altra:
“Qualsiasi cosa che sembra che N. Negidio debba fare o dare in favore di A. Agerio”, o ancora questa:
“Se sembra che lo schiavo sia di A. Agerio ex iure Quiritium”.
Adiudicatio est ea pars formulæ qua permittitur iudici rem alicui ex litigatoribus adiudicare: velut si
inter coheredes familiæ erciscundæ agatur, aut inter socios communi dividundo, aut inter vicinos
finium regundorum. Nam illic ita est: “Quantum adiudicari oportet, iudex, Titio adiudicato”.
familiæ erciscundæ, oppure tra soci con l’actio communi dividundo, o tra vicini con l’actio finium
regundorum. Infatti, in questa parte della formula è detto: “Giudice, aggiudica a Tizio quanto è
necessario che gli venga aggiudicato”.
Condemnatio est ea pars formulæ qua iudici condemnandi absolvendive potestas permittitur. Velut
hæc pars formulæ: “Iudex, N. Negidium A. Agerio sestertium decem milia condemna; si non paret,
absolve”; item hæc: “Iudex, N. Negidium A. Agerio dumtaxat “decem milia” condemna. Si non
paret, absolvito”; item hæc: “Iudex, N. Negidium A. Agerio Condemnato”, et reliqua, ut non
adiciatur “Dumtaxat “decem milia””.
La condemnatio è quella parte della formula nella quale si conferisce al giudice il potere di
condannare o di assolvere come in questa parte della formula: “Giudice, condanna N. Negidio a

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diecimila sesterzi nei confronti di A. Agerio. Se non sembra, assolvi”, o, anche, questa: “Giudice,
condanna N. Negidio nei confronti di A. Agerio nel limite della somma di diecimila sesterzi. Se non
sembra, assolvi”, oppure questa: “Giudice, N. Negidio sia condannato nei confronti di A. Agerio”, e
le parti restanti, in modo che non venga aggiunto “nel limite della somma di diecimila sesterzi”.
Si tenga presente che Aulus Agerius (da “agere”, cioè agire) e Numerius Negidius (da “negare”)
sono le espressioni con cui vengono indicati negli esempi formulari rispettivamente l’attore e il
convenuto.
Inoltre le parole racchiuse nel segno “ ” rappresentano parti non presenti nel testo di Gaio, ma che
sono state ritenute dalla dottrina criticamente credibili.

Ius edicèndi [Potere di ordinanza]

Potere riconosciuto ai magistrati dotati di impèrium e consistente nella facoltà di emanare editti che
venivano pubblicati onde far conoscere sia le linee generali che avrebbero ispirato il magistrato
durante l’anno di carica, che i provvedimenti da lui emanati in concreto, caso per caso.

Adiudicàtio

Provvedimento del giudice, tipico delle azioni di divisione giudiziale [àctio communi dividùndo; actio
familiæ erciscùndæ; actio fìnium regundòrum], con il quale, in adesione alla parte della formula
denominata anch’essa adiudicàtio, veniva assegnata in proprietà, ad un singolo soggetto, una cosa
che prima apparteneva ad un patrimonio in comunione.
L’(—) attribuiva al soggetto aggiudicatario, sulla cosa assegnatagli: il domìnium ex iùre Quirìtium
[vedi] se emessa a conclusione di un iudìcium legitimum [ iudicia legitima]; l’in bònis habère , se
emessa a conclusione di un iudicium impèrio còntinens [vedi iudicia legitima]. La distinzione cadde
quando il dominium fu unificato.

Taxàtio

Nel processo per formulas , la (—) era una clausola con la quale, nei casi di condemnàtio relativa ad
una somma incerta, si poneva un limite prestabilito all’importo della condanna: il giudice era così
vincolato a condannare la parte soccombente al pagamento di una somma non eccedente quella
prestabilita; poteva condannarla soltanto al pagamento di una somma uguale od inferiore.
Una forma tipica di (—) fu quella “in quod reus facere potest”: il giudicante veniva cioè invitato a
rapportare la condanna alle effettive possibilità del reus di adempiere.

Præscrìptio [Prescrizione]

Parte accessoria della formula inserita prima dell’intentio diretta ad escludere la deduzione in
giudizio di pretese che si intendeva riservare ad eventuali future domande giudiziali, e, di

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conseguenza, ad evitare che l’effetto di consumazione processuale tipico della lìtis contestàtio
determinasse l’estinzione integrale del credito vantato dall’attore.
Così, ad esempio, se Tizio era creditore di Caio per una somma di danaro da pagarsi ratealmente e
voleva agire per ottenere il pagamento delle sole rate scadute e non pagate, doveva limitare la sua
domanda a queste ultime, in quanto, se egli agiva per il soddisfacimento integrale del credito,
quest’ultimo si estingueva interamente per effetto della lìtis contestàtio .
Nell’ambito delle præscriptiònes, si distinguevano:
— præscriptiones pro actore, proposte dall’attore;
— præscriptiones pro reo, proposte dal convenuto in suo favore: in epoca classica, esse caddero in
disuso, potendo il convenuto, per limitare la portata della domanda proposta nei suoi confronti, far
ricorso al più agevole strumento delle eccezioni.
In altra accezione la (—) individuò le tappe del procedimento di formazione delle leges [lex]. In essa
venivano indicati il magistrato o il tribuno proponenti, l’assemblea deliberante, il luogo e la data della
votazione.
Erano poi riportati i dati relativi alla centuria o alla tribù che avevano votato per prime, nonché del
cittadino che per primo avesse espresso un voto contrario ad esse.

Excèptio [Eccezione]

Istituto di derivazione generalmente pretoria. Di essa si servirono infatti i pretori per soddisfare le
esigenze equitative, che talvolta sorgevano nella pratica giudiziaria, in contrapposizione alle ristrette
previsioni del iùs civile. In alcuni casi la (—) poteva trovare fondamento in una legge.
L’(—) era una clausola posta nella formula tra l’intentio e la condemnàtio e serviva a condizionare la
condanna del convenuto alla verifica del fondamento di una circostanza dedotta dal convenuto stesso
e tale da rendere inefficace la pretesa attorea. La circostanza, se accertata, portava al rigetto della
domanda attorea.
Essa costituiva pertanto un mezzo di difesa del convenuto, il quale poteva non solo negare i fatti
esposti dall’attore, ma anche contrapporre, a tali fatti, altri fatti o situazioni di diritto che, se veri od
esistenti, potevano escludere la sua condanna.
Poteva darsi, però, che all’eccezione sollevata dal convenuto l’attore avesse da opporre altri fatti o
altre questioni di diritto che paralizzassero l’eccezione stessa; egli allora chiedeva che nella formula,
dopo l’(—), fosse inserita una replicàtio che si poneva come condizione negativa dell’(—).
E se, ancora, il convenuto opponeva alla replicatio altre situazioni di fatto o questioni di diritto che
valessero a paralizzarla, egli chiedeva che dopo la replicatio fosse inserita una duplicàtio [vedi], che si
poneva come condizione negativa della replicatio: la serie delle controeccezioni era, in teoria,
illimitata.
Le eccezioni si distinguevano in:
— peremptòriæ (o perpetuæ), basate su una circostanza che poteva sempre essere opposta all’azione,
in qualunque tempo questa fosse proposta; così, ad esempio, colui, il quale era stato convenuto in
giudizio per sentirsi condannare al pagamento di una somma di danaro poteva sempre opporre

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all’attore il pàctum de non petèndo tra loro stipulato e col quale l’attore si era impegnato a non
chiedere mai il pagamento del suo credito. Peremptoriæ erano anche l’(—) metus e l’(—) doli ;
— dilatòriæ, se, invece, potevano essere opposte solo in un determinato periodo di tempo o contro
un determinato soggetto. Così, ad esempio, nel caso sopra riportato se col pactum de non petendo il
creditore si era impegnato a non chiedere il pagamento solo per la durata di sei mesi, la relativa
eccezione poteva essere opposta esclusivamente in questi sei mesi e non oltre.

Plùris petìtio

L’espressione (—) deriva da plus pètere, chieder di più: si trattava, in diritto romano, di un istituto del
processo per formulas.
Si aveva (—) se un soggetto nell’intèntio aveva delineato il suo diritto in modo più ampio e intenso
rispetto alla sua reale portata: in tal caso egli perdeva la lite.
Si distinguevano quattro tipi di (—):
— re: si verificava nei casi in cui l’intentio faceva riferimento ad un importo maggiore (se, ad es.,
invece di chiedere i 10.000 sesterzi dovuti, se ne chiedevano 20.000);
— tèmpore: si verificava nei casi in cui si chiedeva l’adempimento di un credito non ancora esigibile;
— loco: si verificava nei casi in cui il credito era dichiarato esigibile in un dato luogo, mentre lo era in
un altro;
— causa: si verificava se l’intentio portava “come dovuta una soltanto tra più prestazioni di cui
spettava al debitore la scelta oppure una cosa determinata in luogo del genus che spettava al debitore
di determinare”.
Gli effetti della (—) erano notevoli: dato che il giudicante doveva valutare se risultasse correttamente
formulata o meno l’intentio, la conseguenza della (—) era l’assoluzione del convenuto.
Per ovviare a tale inconveniente si ricorreva, soprattutto nel caso di vendita rateale, alla præscrìptio
che era una clausola accessoria della formula, inserita prima dell’intèntio, con cui si limitava
l’accertamento ad una parte del diritto di credito: nel caso di specie, le sole rate scadute.
Nessuna conseguenza era, invece, prevista in danno dell’attore in caso di (—) nella condemnàtio : in
questo caso, tuttavia, il convenuto che avesse per errore accettato una formula iniqua (in virtù
dell’indebita maggiorazione della condemnatio) poteva chiedere al pretore la in ìntegrum restitùtio .
Se nella demonstràtio vi era stata una (—), nulla era dedotto in giudizio e la questione restava
impregiudicata, in quanto un’erronea esposizione non la annullava.

Replicàtio [Controeccezione]

Nel processo per fòrmulas , la (—) si poneva nella formula come condizione negativa dell’excèptio,
qualora all’eccezione sollevata dal convenuto, l’attore avesse da opporre altri fatti o altre questioni di
diritto idonei a paralizzare l’eccezione stessa.
La (—) era, in sostanza, una controeccezione.

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Lex Æbùtia de fòrmulis

Legge di data incerta (l’ipotesi più accreditata propone il 130 a.C.): costituì il primo passo verso
l’abolizione delle lègis actiònes .
La (—) stabilì, infatti, che se due cittadini romani erano d’accordo a seguire, in una loro controversia,
la procedura per formulas , in ordine alla stessa controversia non era possibile successivamente
intentare una legis àctio.
Iudicia legìtima (e iudicia impèrio continèntia)

Distinzione tipica delle procedure per formulas in:


— iudicia legitima: erano quelli che si svolgevano tra cittadini romani, sotto un solo giudice (sub uno
iùdice) cittadino romano, in Roma o comunque entro il raggio di un miglio dalle mura della città: la
lex Iulia iudiciòrum privatòrum stabilì che queste azioni si estinguevano se non erano decise entro un
anno e sei mesi;
— iudicia imperio continentia: erano quelli che dipendevano dalla durata in carica del magistrato
(denominati anche giudizi recuperatori in quanto affidati cioè alla decisione dei recuperatòres, e
quelli che si svolgevano dinanzi ad un solo giudice, ma con l’intervento di uno straniero (vuoi come
parte, vuoi come giudice). Vi rientravano, inoltre, anche i giudizi (tra Romani e stranieri) che si
svolgevano oltre il raggio di un miglio dalle mura di Roma. In particolare essi valevano, finché il
magistrato che li aveva instaurati conservava la sua giurisdizione, e cioè per un anno: per tale motivo
erano definiti imperio continentia.
Occorre ulteriormente distinguere:
— se si proponeva un giudizio imperio còntinens (sia in rem che in personam, sia in ius che in factum),
successivamente era possibile riproporre l’azione: ciò rendeva necessario, per la controparte,
sollevare l’excèptio rèi iudicàtæ vel in iudicium dedùctæ ;
— nei iudicia legitima occorre ulteriormente distinguere:
— se l’àctio era in personam ed in ius, la questione non poteva, di diritto, esser riproposta e
l’eccezione (rei iudicatæ vel in iudicium deductæ) si rivelava superflua;
— negli altri casi, la questione era riproponibile e andava quindi sollevata, per paralizzarla, la
anzidetta eccezione.

PROVVEDIMENTI INTEGRATIVI DEI MAGISTRATI

In ìntegrum restitùtio

Mezzo complementare della procedura formulare.


Con la (—) il magistrato, ritenuta l’iniquità di un determinato mutamento giuridico, ripristinava la
situazione giuridica preesistente.
Il pretore, valutato attentamente il caso propostogli (causa cògnita), emanava un decreto di
restituzione, oppure denegava una certa azione.

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A volte la (—) poteva essere realizzata mediante un’àctio fictìcia, che in epoca classica costituì
unitamente all’interdìctum fraudatòrium un mezzo revocatorio: nel diritto giustinianeo, fu,
congiuntamente a quest’ultimo, inquadrata nell’ambito dell’actio Pauliàna.

Missio in possessiònem [lett. “immissione nel possesso di singoli beni”]

Mezzo complementare della procedura formulare .


Con la (—) il pretore immetteva un determinato soggetto nella detenzione o anche nel possesso, di un
complesso di beni, con poteri di controllo, di amministrazione e di disposizione al fine di costringere
il proprietario dei beni stessi a tenere un certo comportamento oppure a scopo meramente cautelare.
La concessione della (—) si realizzava in due fasi: con la prima (ex primo decrèto) si attribuiva al
titolare della posizione attiva la sola detenzione; se il proprietario non ottemperava all’ordine emesso
dal pretore, si passava alla (—) ex secundo decreto, che attribuiva al richiedente già detentore la
possessio ad interdìcta.
Nel caso di (—) relativa a singoli beni si parlava di missio in rem.
Nel caso di (—) relativa all’intero patrimonio di un soggetto si parlava di missio in bona.

Càutio (vel stipulàtio prætoria) [Garanzia]

Rimedio cautelare tipico del processo formulare, consistente in una stipulatio che il pretore (su
richiesta di chi aveva interesse) ordinava a taluno di contrarre, onde ottenere l’impegno a pagare una
somma di denaro alla controparte se si verificava un certo evento (di volta in volta specificato).
Tra le cautiònes, si distinguevano, da parte del destinatario dell’ordine del prætor:
— repromissiònes, se era richiesta la sola promessa di pagamento;
— satisdatiònes, se alla promessa dovevano accompagnarsi ulteriori garanzie (anche di terzi).

Interdìctum
Gli interdicta (detti anche decrèta) erano, secondo la definizione di un’autorevole dottrina,
“ordinanze di urgenza emesse dal magistrato cum imperio, in contraddittorio tra due parti, allo scopo
di evitare la lìtis contestàtio [vedi] e il procedimento àpud iùdicem di fronte a certe fattispecie
relativamente semplici ed evidenti. Il magistrato ingiungeva al convenuto, su richiesta dell’attore, di
compiere l’azione, positiva o negativa, da quest’ultimo reclamata…”.
Gli interdicta si distinguevano:
— a seconda dell’oggetto, in:
— prohibitòria, che imponevano l’astensione da un certo comportamento;
— restitutòria, che ordinavano la restituzione di una res
— exhibitòria, che comportavano l’obbligo di esibire una res che si tenesse nascosta;
— in relazione ai destinatari, in:

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— simplìcia, se rivolti ad una sola delle parti;


— duplìcia, se rivolti ad entrambe le parti;

4. I RAPPORTI GIURIDICI CON LE COSE


4a. Dall’appartenenza arcaica alla pluralità dei diritti sulle cose

Tipologie di res e forme di trasferimento


Nell’ambito dei rapporti giuridici con le cose l’età repubblicana registra un fondamentale passaggio
dalla semplice enunciazione dell’essere propria una certa res alla costruzione di figure astratte, a
cominciare della proprietà, con cui esprimere i poteri spettanti a un uomo rispetto a un bene, e tali
poteri avevano natura patrimoniale e carattere assoluto, ne senso che potevano essere fatti valere nei
confronti di chiunque (erga omnes), in quanto il dovere di tutti gli altri consociati era di non
ostacolare l’esercizio da parte del titolare.
Le res a cui riferirsi sono quelle suscettibile di essere sfruttate economicamente, compresi gli
schiavi, e rimase di rilevanza la distinzione fra res nec mancipi e res nec mancipi (qua per traferire la
proprietà era sufficiente- la consegna- la traditio), per le res mancipi la traditio avrebbe determinato
solo il passaggio del possesso, per avere il dominio era necessario ricorrere alla in iure cessio oppure
alla mancipatio.
La mancipatio conobbe in età repubblicana un’importante evoluzione legata all’introduzione della
moneta coniata, ma anche in riferimento alle XII tavole, in cui viene riconosciuto un effetto
vincolante alle dichiarazione aggiunte dalle parti al formulario tipico dell’atto, e grazie all’uso del
denaro, in luogo del bronzo, ora la mancipatio poteva essere utilizzata anche a titolo di donazione (si
pagava un prezzo simbolico- nummo uno).
Fra le altre distinzione delle res rivestiva importanza quella fra le cose corporali e incorporali, in
quanto la traditio era ammessa solo per la prima classe di beni, e la classificazione fra beni immobili
(fondi e case) e mobiliava invece rilievo ai fini dell’usucapione: per i primi le XII tavole richiedevano
il possesso portato per due anni, mentre per le restanti cose era sufficiente un anno.

Il dominium ex iure Quiritium

Con l’espressione dominium ex iure Quiritum si enunciava il riconoscimento della proprietà da parte
del più risalente diritto cittadino.
La proprietà venne cosi a configurarsi quale un diritto sulla cosa, indipendentemente dalla
sua materiale disponibilità e provvisto di una duplice assolutezza, in quanto all’opponibilità erga
omnes porrei adì ogni diritto reale, si affiancava qui una tendenziale assolutezza anche nel contenuto,
limitato solo per interessi pubblici o privati e compressivo di un’articolata gamma di poteri (ad es:
godimenti, alienazione).
Poteva avere ad oggetto sia cose mobili che immobili (con la limitazione, per queste ultime,
che si trattasse di fondi siti in agro Romano e dal I sec. a.C., di fondi siti in agro Italico).

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La titolarità del (—) su una res poteva appartenere soltanto a cittadini romani, non anche a peregrìni .
Quanto alla limitazione costituita dal divieto di immissioni nell’altrui proprietà, fu solo la
giurisprudenza classica ad ammettere lentamente che il proprietario non potesse liberarsi delle acque
correnti nel suo fondo riversandole sul fondo sottostante e che non avesse il diritto di riversare il fumo
della sua officina sul fondo contiguo: solo Ulpiano delineò in via generale il divieto di arrecare con le
attività svolte sul proprio fondo danni al fondo del vicino.
Si trattò, comunque di intuizioni sporadiche, che non portarono alla formulazione di un generale
divieto di compiere atti emulativi.
L’acquisto del (—) poteva avvenire:
— a titolo originario, attraverso:
a.inccrementi fluviali;
b fruttificazione ;
c.accèssio (l’accessione, allorché una cosa venisse ad aggiungersene un’altra di diverso
proprietario);
d.specificàtio (fattispecie integrata qualora il materiale di un soggetto fosse trasformato dal
lavoro di altri, cosi da ricavarne un nuovo bene);
e.assegnazione ;
f. occupàtio (occupazione di beni che non appartenessero a qualcuno);
g. confusio ;
h. usucàpio ;
— a titolo derivativo, attraverso:
a. mancipàtio ;
b. in iùre cèssio ;
c. tradìtio .

I MODI DI TUTELA:
l’enunciazione di apparenza di un bene coatituiva il tipico oggetto della legis actio sacramento in rei,
essa nel processo formulare poteva esse fatta valere con la rei vindicatio, esperibile contro il
possessore.
c’erano ulteriori mezzi di tutela posti a tutela del soggetto che contestasse l’esistenza di un
diritto da latri vantato, di usufrutto o servitù del bene, oppure lamentasse l’esecuzione di opere da
parte del confinante che avesse alterato il naturale deflusso delle acqua piovane - in questo caso c’era
l’actio acquae pluviae arcendae;

Verso una nuova configurazione delle servitù

Le quattro servitù rustiche arcaiche - iter, via, actus, acquaeductus- erano intese come res
mancipi e identificate come la strisci di terra su cui si esercitava il passaggio, esse vennero affiancate
da nuove tipologie di servitù, non incluse fra le res mancipi, e configurate progressivamente come
diritti, e quindi res incorporali, non suscettibili di possesso né di costituzione tramite usucapione.

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Fra i diritti sui beni altrui, le servitù assunsero una doppia realità, in quanto consistenti in qualità di
due fondi: uno servente gravante del peso a beneficio del dominante, il cui titolare poteva esercitare
la servitù, di passare a piedi, con carr, con animali- solo in quanto e finche ocnrvava la proprietà.
Da qui un duplice requisito delle servitutes: la vicinanza tra i due beni immobili e la rispondenza di
servitù non a un vantaggio personale del dominus del fondo dominante, ma a un’utilità propria di
quest’ultimo (ulteriori principi emersi nel corso del tempo furono l’individibilita e la tipicità ).
Modi di costituzione: escluso il ricorso a contratti e realizzazione in via coattiva:
- la mancipatio ( mantiene la funzione per le servitù rustiche mentre per le altre in iure cessio
- legato per vindicationem
- potevano essere usucapite
- create a favore di altro fondo

Estinzione:
- per rinuncia (tramite in iure cessio) del titolare;
- per confusione (ove i medesimi soggetto riunisse i due immobili)
- per non uso biennale.

Tutela delle servitù:


- sia legis actiones (legis actio sacramento in rem) che processo formulare (vindicatio servitutis -
azione in rem, civilis e con restitutio arbitrio iudicis, esperibile contro il proprietario del fondo
servente.

Origine e regime dell’usufrutto

"Usufructus est ius alienis rebus utendi fruendi, salva rerum substantia": è la definizione dell'istituto
di diritto romano, per il quale "l'usufrutto è il diritto di usare e usufruire di cose altrui senza
alterarne la natura e la consistenza".
In diritto romano l'usufrutto nasce come diritto reale di godimento su cosa altrui, ossia come uno
degli iura in re aliena, in base al quale il titolare poteva usare (uti) il bene oggetto del diritto in vista
percepirne i frutti (frui), e più in generale tutto ciò che ne rappresentava reddito normale. Il diritto
aveva tipicamente come oggetto una res fruttifera e inconsumabile.
In origine (III secolo a.C.), verosimilmente, il diritto di usufrutto fu escogitato dalla giurisprudenza
romana per svolgere verosimilmente una funzione alimentare: il testatore imponeva all'erede,
mediante un legatum sinendi modo, di lasciar percepire periodicamente i frutti di una cosa fruttifera
alla vedova a cui era stato legato da matrimonio sine manu, e che per questa ragione, non entrando a
far parte della famiglia del marito, non poteva succedergli. Nasceva così la figura dell'usufrutto
uxorio, che tanto spazio avrebbe trovato nel diritto successorio dei secoli seguenti.
Per ovviare alla palese forzatura che si veniva a realizzare in tal modo, si ammise in seguito
che l'usufrutto potesse essere costituito mortis causa mediante legatum per vindicationem, legato a
effetti obbligatori. Per la sua originaria funzione alimentare l'usufrutto in un primo momento si poté

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costituire solo a favore di persone fisiche. Successivamente però, in epoca classica, si ammise che
potesse esserne beneficiario anche una persona giuridica. Il giurista Paolo definì l'istituto come "il
diritto di usare e fruire della cosa altrui, facendone salva la sostanza" ("ius alienis rebus utendi
fruendi, salva rerum substantia").
Caratteri fondamentali dell'istituto erano:
• la correlazione con la sostanza materiale della cosa e forse con la sua destinazione economica:
l'usufruttuario, pertanto, non poteva mutare, neppure in positivo, la destinazione del bene,
né compiere atti di disposizione dello stesso;
• la connessione inscindibile con la persona dell'usufruttuario: il diritto si estingueva in ogni
caso con la sua morte o con la sua capitis deminutio;
• la temporaneità: l'usufrutto si estingueva al più tardi con la morte dell'usufruttuario. Era
infatti ritenuto iniquo che il nudo proprietario sopportasse a tempo indeterminato la
privazione del godimento del bene in piena proprietà.
A tutela dell'istituto era concessa una vindicatio ususfructus, sul modello della vindicatio servitutis,
chiamata anche, già dalla tarda età classica, actio confessoria servitutis. Oltre che con la morte o la
capitis deminutio dell'usufruttuario, l'usufrutto si estingueva per consolidatio (nel momento in cui
venivano a coincidere nella stessa persona le figure dell'usufruttuario e del nudo proprietario), per
remissio e per non usus, modi di estinzione sostanzialmente corrispondenti a quelli previsti per la
servitù, in tutto e per tutto trasferiti nella regolazione contemporanea dell'istituto.

Dal pignus captum al pignus conventum

I diritti reali di garanzia nascono con l’affermarsi della figura del pegno (pignus), la sua
prima forma pignus captum e’ rinvenibile in una delle due legis actiones esecutive (** per prignoris
capionem) tramite l’impossessamento di beni del debitore, un effetto non lontano era determinato
dall’accordo al quale il debitore immetteva il creditore nel possesso di un proprio bene di cui si
prendeva la restituzione ove l’obbligazione fosse estinta (pignus datum).
Solo con una terza forma di pignus coventum (convenuto) << introdotto nelle fattispecie di affitti
agrari in cui il conduttore , colonus, avrebbe potuto garantire il versamento de canone solo con
l’attrezzatura che conduceva sul fondo, invecta et ilata, e privarlo di quei beni avrebbe precluso
un’adeguata coltivazione del fondo, tenendo improbabile anche il pagamento di quanto dovuto, da
qui la soluzione di solo convenire il pegno su tali oggetti >>>>>
assistiamo ad un vero e proprio diritto reale su cosa altrui, di cui il debitore conservava sia la
proprietà che il possesso, ma era convenzionalmente destinata a fungere da garanzia
dell’obbligazione, rimasta inadempiuta l’obbligazione al creditore erano messi a disposizione un
interdetto (Salvianum) e più tardi un’actio (Serviana) esperibili rispettivamente contro il debitore o
contro chiunque fosse nella disponibilità del bene pignorato, onde ottenerne la consegna.

4a. Altre forme di signoria sulle res

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in bonis habere- proprietà pretoria - costituisce la proiezione di quello che noi conosciamo come
mezzo processuale- e cioè l’actio publiciana- con questa il magistrato tutelava colui che già nel
possesso di un bene ne fosse stato privato prima che decorasse il termine dell’usucapione , egli non
era dunque il dominus ma poteva antenate questa azione in forza della quale il iudex era chiamato a
decidere come se il termine del usucapione fosse già trascorso.
Questa actio publiciana era esperibile contro ogni possessore attuale e consentiva di prevalere anche
sul ex iure Quiritium, qualora si trattasse del venditore di una res mancipi che di queste avesse
compiuto traditio anziché mancipatio o in iure cessio.

4c. La disponibilità materiale dei beni


Origine, regime e tutela processuale della possessio

Possessio = nel suo significato originale era la signoria su una porzione dell’ager publicus.
Ogni possesso era qualificato in base al particolare tipo di concessione.
Il terreno, salvo quello affittato a breve termine, poteva essere trasferito tra vivi o mortis causa.
I possessori furono difesi dagli interdetti: retineandae e recuperandae possessionis.
Verso la fine del periodo antico si sviluppò il processo di riassorbimento nella possessio
dell’usus = esercizio di fatto della proprietà_ comportava solo l’uso e il godimento di un bene o di un
complesso di beni.
Si creó quindi la distinzione tra chi possedeva la cosa come propria (possessor suo) e chi la possedeva
perché altri gliela aveva data o lasciata prendere per un certo uso, esaurito il quale la cosa doveva
essere restituita (alieno nomine)_ il primo fu considerato vero possessore e il secondo non essendo
considerato un vero possessore era escluso dalla tutela interdettale.
L’esclusione della tutela interdettale nei casi del possessore alieno nomine trovò però alcune
eccezioni: il precarista, il creditore pignoratizio, il sequestratario.
Il precario = istituto che consisteva nella benevola concessione, gratuita e revocabile in
qualunque momento di un appezzamento di terra fatta da un gens ad un cliente.
La sua tutela fu dovuta all’antichità dell’istituto.
Il creditore pignoratizio e il sequestratario ( soggetto a cui le parti che litigavano sulla proprietà di
una cosa la affidavano perché la conservasse fino alla decisione della controversia) = in questi casi la
concessione della tutela interdittale dipese da valutazioni socio-politiche.
Un altro criterio con cui i romani giudicavano se il possesso era tutelabile fu la causa possessionis = la
possessio la cui causa fosse stata violenta , clandestina o precaria fu considerata non meritevole di
tutela_ era un vizio relativo nel senso che era impossibile la tutela solo nei riguardi di colui al quale la
cosa fosse stata strappata con la violenza e non nei confronti di terzi.
Si distinse nel possesso un elemento oggettivo (corpus_detenzione materiale) e un elemento
soggettivo (animus_volontà di possedere il bene come proprio): distinzione importante in
materia di acquisto del possesso.
Giavoleno rifacendosi a Labeone parlò di animo posessionem apisci: acquistare il possesso
con l’animo, nel caso in cui il compratore, senza prendere corporalmente il possesso del bene, vi
ponesse con l’autorizzazione del venditore un proprio custode che possedeva per lui.
L’acquisto richiedeva entrambi gli elementi.

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Cominciato il possesso si riteneva che nel caso dei beni immobili questo potesse continuare anche
solo con l’animus per es: i pascoli invernali ed estivi di cui si conservava il possesso anche nella
stagione in cui non si utilizzavano.
Il possesso però poteva anche essere perduto solo animo: quando il possessore pur conservando il
controllo fisico della cosa non la volesse più conservare per sé.

DIFESA DEL POSSESSO


La principale difesa del possesso erano gli interdetti introdotti nel periodo antico a difesa dei
possessori dell’ager publicus.
Tralasciando gli interdetti adipiscendae possessionis per l’acquisto del possesso:
_ interdictum Salvianum
_ quelli che spettavano al bonorum emptor a cui fosse impedito prendere il possesso dei beni
acquistati all’asta
_ quelli che spettavano al bonorum possessor a cui il pretore avesse permesso di impadronirsi dei
beni ereditari e ne venisse impedito dal loro attuale possessore.
Prendiamo in considerazione quelli retinendae possessionis per la conservazione del possesso e
quelli recuperendae possessionis per il recupero del possesso.
Gli interdetti retinendae possessionis erano quelli uti possidetis per gli immobili e quelli
utrubi per i mobili, in quest’ultimo vinceva chi aveva posseduto la cosa per la maggior parte
dell’ultimo anno e poteva anche servire a recuperare il possesso da parte di chi pur avendo posseduto
per la maggior parte dell’anno non fosse l’attuale possessore.
Nel calcolare la durata si teneva conto anche del possesso di un precendete possessore da cui l’una o
la’tra parte l’ avessero acquistato inter vivos o a cui fosse succeduta.
Uti possidetis = era duplex perché entrambi le parti erano soggetti attivi o passivi
Utrubi = era semplice
Entrambi erano proibitori perché vietavano l’uso della forza per modificare la situazione ed entrambi
tutelavano solo la iusta possessio perché nel loro formulario era introdotta l’exceptio vitiosae
possessionis.

Gli interdetti recuperendae possessionis erano quelli de vi e de vi armata che spettavano a


chi fosse stato spogliato del possesso di un immobile con la forza e comportavano l’obbligo di
restituire.
De vi = tutelava solo il possessore che rispetto all’avversario non fosse stato né violento, né
clandestino né precario.
De vi armata = essendo privo di exceptio vitiosae possessionis tutelava anche l’iniusta possessio.
Altro interdetto recuperendae possessioni citato dalle fonti è quello de precario con il quale il
concedente di un bene a precario poteva in qualunque momento pretenderne la restituzione.

5. Le obbligazioni
5a. L e nozioni di obligatio, delictum e contractus

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Obligatio- mero dovere di eseguire una prestazione , non può connettersi al nexum che e’ la
remota pratica del vincolo materiale sulla persona del debitore.
L’obligatio implica che un soggetto (debitor) debba tenere un certo comportamento a vantaggio di
un altro soggetto (creditor) , il quale ha il potere di pretenderlo al punto di poter agire
processualmente contro l’obligatio in quanto questo non si sia adeguato a quanto richiesto.
Molto distante da questa nozione appare la responsabilità come soggezione all’esecuzione personale
o a una pena, un individuo sei esponeva alla soggezione di un terzo attraverso la manus iniectio, si
dava esclusivamente luogo a una situazione di soggezione personale irriducibile alla nozione di
oligazione, in quanto mero soggiacere del debitore al potere di azione del creditore.

Contratti e delitti - tutto le fattispecie collegabili da Gaio sono riconducibili alle XII tavole o
alle leggi comiziali del III secolo a.C. Solo tra il II e I secolo i giuristi individuano nei delicta delle
fonti di obbligazioni, secondo muoio si obbligava come se avesse commesso furto, chi avendo
ricevuto il deposito un cavallo lo avesse usato per se, oppure chi avendolo ricevuto in prestito d’uso
se non fosse servito in odi o er scopi contrari ale indicazioni di colui che ha concesso l’animale,
quindi l’obligazione era conseguenza di un atto com il furto, solo successivamente viene assimilata
una nozione di obbligazione come conseguenza dell’intrecciarsi pacifico dei rapporti tra gli uomini,
ad esempio accordi nel campo degli affari.
La nozione di contratto era una esazione oggettivamente bilaterale, da legame stretto fra due
soggetti secondo modalità particolari, produttivo di obbligazioni da risolvere in modo simmetrico alla
sua costituzione.
Quinto Mucio afferma che l’idea del contrahere comprendeva rapporti realizzati re con la consegna di
una cosa (il mutuo), verbis, con la pronuncia di certe parole (stipulatio) o consensu (compravendita,
locazione, società)

5b. Tipologie ed estinzione delle obbligazioni


Obbligazioni con pluralità di soggetti. Divisibilità ed invisibilità
Un precetto delle XII tavole stabiliva che i crediti e i debiti ereditari, si dividessero immediatamente
tra gli eredi con l conseguenza che ciascuno avrebbe potuto esigere e a ciascuno si sarebbe potuto
domanda il pagamento della quota di sua competenza.

Obbligazioni solidali
La responsabilità era solidale nel caso in cui gli autori di un delitto privato fossero più di uno, con la
conseguenza che ciascuno dei rei avrebbero dovuto pagare per intero la pena pecuniaria prevista.
La solidarietà derivava dalla sponsio-stipulatio: sulla base delle parole adoperate dal suo formulario
distinsero:
solidarietà attiva (più creditori in solido) e passiva (più debitori in solido)
Solidarietà elettiva - caratterizzata dalla scelta del creditore che reclama l’adempimento o del
debitore che adempie.
figure di garanzia personale- le più antiche: sponsio e la fideipromissio, inizio IV sec a.C valsero a

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garantire l’adempimento di obligationes verbis, contratte da cittadini e peregrini.

L’estinzione dell’obbligazione

Si sostiene che l’adempimento ancora nei primi secoli della repubblica di per se non sarebbe bastato
a liberare l’obligato, ciò e’ vero nel caso del nexum. In età tardo repubblicana, si individuo un campo
di obligationes, che discendono dal consenso, costituite solo con il accordo tra le parti, queste si
estinguevano con la volontà contraria, comunque espressa dalle parti, purché le reciproche
prestazioni no fossero state eseguite.

Obligationes re contràctæ [Obbligazioni reali]

Le (—) appartenevano alla categoria delle obligationes ex contractu : in esse, ai fini della creazione del
vincolo obbligatorio, oltre all’accordo (consensus) tra le parti, occorreva anche la consegna effettiva e
materiale (tradìtio) della cosa oggetto dell’obbligazione.
Vi rientravano:
— mùtuum;
— fidùcia ;
— depòsitum ;
— commodàtum;
— pìgnus
L’obligatus non aveva, però, il dominium della res, ma ne aveva solo la possessio ad interdicta (nel
caso del pegno) o la detenzione nelle altre ipotesi.

Mùtuum [Mutuo;]

Contratto reale che si concludeva mediante il trasferimento della proprietà di una somma di danaro o
di una quantità di altre cose fungibili da un soggetto (mutuante) ad un altro (mutuatario);
quest’ultimo assumeva l’obbligo di restituire al primo una quantità uguale di cose dello stesso genere
e qualità (c.d. tantùndem eiùsdem gèneris).
Il mutuo si perfezionava con la dàtio rèi, ossia con la consegna della cosa oggetto del contratto.
Il mutuante poteva tutelarsi, esercitando:
— l’àctio certæ crèditæ pecùniæ , se il mutuo aveva per oggetto una somma di danaro;
— la condìctio certæ rei (anche detta condictio triticària), se l’oggetto era una qualsiasi altra cosa
fungibile.
Il (—) era un contratto essenzialmente gratuito, tuttavia, il mutuatario poteva essere tenuto a pagare
gli interessi: ciò si verificava se le parti ponevano in essere un’apposita stipulàtio [vedi], formalmente
autonoma e separata dal mutuo.
Inoltre, il rapporto si poteva novare [ novàtio] per il tramite di una stipulatio comprensiva sia del
capitale che degli interessi (stipulatio sòrtis et usuràrum) fènus nàuticum].

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Fra il III ed il II sec. a.C. il (—) ottenne una particolare tutela nel processo per legis actiones,
attraverso una lex actio per condictionem creata da una Lex Silia ed ampliata da una Lex Calpurnia.
Durante il principato di Vespasiano, nel I sec. d.C., un senatusconsultum Macedonianum introdusse
il divieto di dare danaro a titolo di mutuo ai filii familias. Il pretore rese operante il divieto con la
concessione di una exceptio senatusconsulti Macedoniani, da opporsi all’azione intentata dal terzo
mutuante contro il filius, e con la denegatio dell’actio de peculio che il mutuante intendeva esercitare
contro il pater.
Se, nonostante il divieto, il filius effettuava il pagamento, si applicava la soluti retentio.

Fidùcia [Fiducia]

Atto solenne di alienazione di res màncipi , poteva essere posto in essere dai soli cives e si
perfezionava per il tramite dalla mancipàtio o della in iùre cèssio .
L’effetto prodotto era il trasferimento della proprietà dall’alienante (fiduciante) all’acquirente
(fiduciario), con l’esplicito accordo, denominato pàctum fiduciæ, in base al quale quest’ultimo si
impegnava a restituire la cosa ricevuta contro la restituzione del prezzo pagato.
Il pactum fiduciæ, in principio, non ebbe una rilevanza autonoma: restava, infatti, affidato alla
semplice correttezza del compratore l’adempimento dell’obbligo di rimancipare la cosa.
Successivamente il patto venne configurato come autonomo, anche se collegato con l’atto traslativo:
se il compratore si rendeva inadempiente, l’alienante poteva esperire l’àctio fiduciæ .
A seconda del fine cui tendeva il trasferimento di proprietà, si distingueva tra:
— (—) cum amìco ;
— (—) cum creditòre .

Depòsitum [Deposito; ]

L’istituto del depositum fu preordinato a realizzare una delle finalità della fiducia cum amico,
evitando il rischio derivante dal trasferimento della proprietà delle cose date in custodia.
Contratto reale, tipico, perfezionantesi con la consegna di una cosa mobile che una parte
(depositante) faceva all’altra (depositario), con l’obbligo per quest’ultima di custodirla gratuitamente
e di restituirla a richiesta del depositante.
La consegna (tradìtio) comportava il trasferimento al depositario della mera detenzione della cosa
(possèssio naturàlis ).
Oggetto del (—) doveva essere una cosa mobile ed infungibile.
Si trattava di un contratto gratuito, poiché il depositario non riceveva alcun compenso per la custodia.
Se fosse stato previsto un sia pur minimo compenso, non si aveva più (—), ma locazione [ locatio-
conductio].
Differiva dal (—) il mandàtum ad custodièndum, vale a dire l’incarico di custodire una cosa: mentre il
deposito si perfezionava con la dàtio rèi (consegna della cosa), il mandatum era un contratto

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consensuale, come tale perfezionantesi a seguito del mero incontro delle volontà dei contraenti.
Il depositante era tutelato da un’àctio in factum accordata dal pretore, azione poi trasformatasi in
actio ex fide bona.
Al depositario, invece, era accordata un’actio contraria, con la quale egli poteva far valere, contro il
depositante, le pretese relative all’indennizzo delle spese sostenute per la manutenzione della cosa e
al risarcimento dei danni arrecati dalla cosa depositata.

Commodàtum [Comodato;]

Contratto reale, che si perfezionava mediante la consegna di una cosa da un soggetto (comodante) ad
un altro (comodatario) affinché quest’ultimo la usasse gratuitamente, assumendo l’obbligo di
restituirla.
Il (—) ignoto al diritto romano arcaico, fu introdotto dal diritto pretorio, che riconobbe al comodante
l’esperibilità di una àctio in factum, poi divenuta actio in ius ex fide bona, per la restituzione della
cosa comodata.
Oggetto del (—) doveva essere una cosa corporale ed inconsumabile; una cosa consumabile poteva
darsi in comodato solo per un uso diverso da quello normale (che non ne comportasse la
consumazione), come le monete date ad pompam o ad obstentatiònem.
Il (—) era un contratto gratuito ed unilaterale, poiché nessuna obbligazione nasceva in capo al
comodante.
Il comodatario poteva usare la cosa nei limiti impostigli dal comodante o, in mancanza, nei limiti della
sua normale destinazione; se usava la cosa eccedendo tali limiti, commetteva furtum usum.
Questi aveva la facoltà, trasmissibile agli eredi, di revocare a proprio arbitrio la concessione dell’uso
della res data in comodato.

Obligationes verbis contràctæ [Obbligazioni verbali]

Le (—) appartenevano alle categoria delle obligationes ex contractu : in esse ai fini della creazione del
vincolo obbligatorio, oltre all’accordo (consensus) tra le parti, occorreva anche la pronuncia di parole
solenni fatta in presenza l’uno dell’altro, da entrambi o da uno solo dei soggetti del rapporto
obbligatorio.
Vi rientravano:
— spònsio ;
— fideiùssio ;
— fidepromìssio ;
— stipulàtio e adstipulàtio ;
— dòtis dìctio
— promìssio iuràta libèrti ;
— vadiatùra, prædiatùra .

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Sponsio

Figura tipica di contratto verbale riconosciuta dal iùs civile . Consisteva “in uno scambio contestuale
di domanda e risposta tra futuro creditore e futuro debitore”. Può essere considerata fra le più
antiche obbligazioni di garanzia conosciute dai romani. Per effetto di essa, il debitore non perdeva la
sua attuale libertà, diventando schiavo del creditore solo in caso di inadempimento.
L’obbligazione di garanzia era assunta dallo spònsor rispondendo “spòndeo” alla domanda “idem
dari spondes?”, ove l’idem si riferiva al contenuto della obbligazione principale garantita. In tal
modo, lo sponsor assumeva l’impegno di effettuare a favore del garantito la stessa prestazione (cui si
riferisce l’idem della formula) oggetto della obbligazione principale. In ogni caso, comunque, il
garante non poteva obbligarsi in duriòrem causam, cioè assumere un’obbligazione più grave (per
l’ammontare, per il termine, per le modalità, etc.) di quella garantita. La (—) poteva accedere solo ad
obbligazioni derivanti da stipulàtio ed era accessibile ai soli cives romani.
Nel suo assetto storico essa presenta i seguenti caratteri:
— autonomia: il negozio di garanzia, pur accedendo ad una obbligazione principale, non era
subordinato a questa. Pertanto essa era valida anche se l’obbligazione principale era nulla;
— correlazionalità: in virtù della quale lo sponsor era obbligato allo stesso modo del debitore
principale. Il creditore poteva rivolgersi all’uno o all’altro indifferentemente.
La (—), per il suo carattere astratto, poteva soddisfare ogni esigenza, dal momento che bastava
pronunciare semplicemente la solenne formula verbale composta dall’offerta e dall’accettazione per
costituire il rapporto obbligatorio, senza che rilevasse lo scopo perseguito dalle parti.
Prevista inizialmente dalla legge delle XII tavole, fu oggetto di svariati interventi legislativi, che ne
precisarono la disciplina:
— lex Appuleia de sponsu ;
— lex Publilia de sponsu;
— lex Furia de sponsu ;
— lex Cornelia (Sullæ) de sponsu .

Stipulàtio

Contratto verbale, concluso mediante scambio di domanda e risposta, in virtù del quale un soggetto
(promìssor) si impegnava a compiere una qualsivoglia prestazione in favore di un altro (stipulàtor).
La (—) era conclusa oralmente con la pronuncia di una formula solenne. L’utilità del ricorso alla (—)
era data:
— dalla semplicità con cui si poteva estinguere l’obbligazione ;
— dalla possibilità di difendere il diritto del creditore mediante l’efficace “actio ex stipulatu” .
Inizialmente solo i cives potevano contrarre (—); in epoca giustinianea tale tipo di contratto fu
utilizzato indifferentemente da cives e da peregrini.
I requisiti della (—) erano:
— l’oralità; per tali motivi non potevano concludere tale contratto il muto o il sordo;

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— la presenza delle parti: pertanto non poteva essere conclusa tra persone assenti;
— l’ùnitas actum, ossia non vi doveva essere soluzione di continuità tra domanda e risposta;
— la congruenza tra domanda e risposta.
In età post-classica la “stipulatio” degenerò nella sua struttura. In particolare non si ritenne più
indispensabile l’uso del verbo “spondere” ma si utilizzarono anche altre forme verbali equivalenti.
L’imperatore Leone nel 472 dispose, con una costituzione, che tutte le “stipulationes” fossero da
ritenere valide “quibuscumque verbis pro consensu compositiæ sint”.

Casi di applicazioni della stipulàtio

La stipulàtio era un negozio astratto e pertanto poteva essere utilizzata al fine di perseguire gli scopi
più svariati. Le più importanti forme di applicazione di stipulatio furono:
— promissio dotis
— stipulationes novatorie (stipulatio Aquiliana)
— stipulatio pœnæ
— stipulazioni di garanzia (sponsio, fideipromissio, fideiussio)
— stipulationes prætoriæ

Questo svilimento fu coronato dall’uso post-classico di redigere documenti scritti (“instrumenta” )


per attestare l’avvenuto compimento delle formalità stipulatorie. Era sufficiente, per l’applicazione
ad un contratto della disciplina della “stipulatio”, l’esistenza del documento munito di “clausola
stipulatoria” (cioè con l’affermazione che il “promissor” aveva risposto in modo congruente ed
affermativo alla contestuale “interrogatio” dello “stipulans”).
Giustiniano per reagire a ciò dispose che il documento scritto valesse come prova della stipulazione,
salvo che si adducessero scritture o testimoni a sostegno del contrario.

Obligatiònes lìtteris contràctæ [Obbligazioni letterali]

Le (—) appartenevano alla categoria delle obligationes ex contractu ; ai fini della creazione del vincolo
obbligatorio, oltre all’accordo (consensus) tra le parti, erano richieste anche particolari,
scritturazioni fatte da entrambi i soggetti del rapporto obbligatorio o da uno solo di essi.
Caratteristica comune delle (—) fu che per la loro costituzione era necessario il solo compimento
delle formalità della scritturazione, non essendo richiesta l’indicazione della causa dell’operazione.
Vi rientravano:
— nòmina transscriptìcia e arcària ;
— chirògrapha ;
— syngraphæ .

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Syngraphæ

Istituto in uso, dapprima, presso i Greci e successivamente recepito in diritto romano, tra i contratti
letterali .
Le (—) erano, in particolare, un documento redatto in doppio originale sottoscritto da entrambi i
soggetti, contenente l’impegno a pagare una certa somma. Esse avevano efficacia rappresentativa
dell’obligatio che, in pratica, si incorporava nel documento e si estingueva con la distruzione di
questo. In età postclassica, si avvicinarono all’instrumentum stipulatorio fino a confondersi con esso.

Chirògraphum, chirographa

Il (—) era un documento redatto in un unico originale dal debitore e consegnato da questi al creditore
quale impegno di pagamento. Secondo parte della dottrina, tale documento aveva solo efficacia
probatoria relativamente ad obbligazioni preesistenti; per contro altra dottrina ritiene che il (—)
probabilmente avesse efficacia non solo costitutiva, ma persino rappresentativa dell’obbligazione,
che si reputava incorporata nel documento e quindi estinta con la distruzione dello stesso.
Il (—) rientrava nell’ambito delle obbligazioni lìtteris contràctæ.
L’istituto, probabilmente di derivazione orientale (greca od egiziana), appartenne in origine al iùs
gentium , che regolava i rapporti tra stranieri; presenta notevoli punti di contatto con i moderni titoli
di credito.

Nomen transscriptìcium (vel nomina transscripticia)

Negozio rientrante nella categoria dei contratti letterali.


I nomina transscripticia avevano sempre ad oggetto una somma di danaro già dovuta in base ad una
obbligazione preesistente e si fondavano sulle risultanze del còdex accèpti et expènsi [vedi], cioè dal
libro contabile che il pater familias teneva per annotarvi le somme ricevute o versate a seguito di
rapporti di credito.
Le somme ricevute erano riportate nella rubrica dell’acceptum e quelle versate in quella
dell’expensum.
L’obligàtio nasceva in base alla transscrìptio, che poteva essere di due specie:
— transscriptio a re in personam utilizzata a fini di novazione oggettiva, se il creditore scriveva nella
rubrica dell’acceptum (operando una acceptilàtio) la somma dovuta, come se fosse stata realmente
ricevuta, e scriveva nella rubrica dell’expensum (operando la expensilàtio ) la stessa somma in
riferimento alla stessa persona, come se fosse stato costituito un mutuo: in tal caso il precedente
debito si estingueva e ne sorgeva uno nuovo litteris: il che valeva non solo a darne prova sicura, ma
soprattutto ne rendeva più facile l’estinzione mediante acceptilatio quando il debito sarebbe stato
saldato. In origine, si riteneva che essa fosse accessibile ai soli cittadini romani, ma in seguito fu
ammessa anche ai peregrini ;
— transscriptio a persona in personam utilizzata ai fini di novazione soggettiva , se il creditore
scriveva nella rubrica dell’acceptum la somma dovuta dal debitore e scriveva nell’expensum la stessa

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somma in riferimento ad un’altra persona, come se questa avesse contratto un mutuo: in tal caso si
estingueva l’obbligazione del precedente debitore e sorgeva una obligatio litteris in capo al nuovo
debitore. Presupponendo la preesistenza di una obligatio litteris, essa non era applicabile, di norma,
ai peregrini.
Il debitore poteva opporre al creditore che lo avesse chiamato in giudizio, in caso di registrazioni
false, una excèptio doli , concessagli dal pretore: occorreva però la prova che l’iscrizione fosse falsa o
comunque non rispondente al vero.
I (—), spesso mezzo di fraudolente speculazioni, caddero in disuso in età postclassica.
Già in epoca classica, essi trovarono una residua, limitata applicazione a fini di novazione
dell’obbligazione.
==
Obligationes consènsu contractæ [Obbligazioni consensuali]

Particolare sottocategoria di obligationes ex contractu , nelle quali, ai fini della creazione del rapporto
obbligatorio, era necessario e sufficiente l’accordo (consensus) tra le parti.
Tali obbligazioni erano originate da:
— èmptio-vendìtio ;
— locàtio-condùctio ;
— socìetas ;
— mandàtum .

Fìdes [Fede, fiducia]

Vincolo di carattere squisitamente etico intercorrente in età repubblicana, tra il patronus ed i liberti.
In particolare, detto vincolo fiduciario comportava l’instaurazione di un rapporto bilaterale per cui il
patronus era obbligato a proteggere (sia dal punto di vista economico che sotto il profilo più
propriamente personale), il liberto che rimaneva sostanzialmente sottoposto al patronus medesimo.
Il tessuto sociale repubblicano era profondamente caratterizzato dalla consolidazione dei rapporti tra
patrono e liberto; infatti, il sistema clientelare costituiva il fondamento dell’organizzazione politica
romana, in quanto la potenza economica e, di conseguenza, la forza politica dei notabili patrizi erano
sostanzialmente basate sulla rilevanza del rispettivo seguito di clienti.
Rientrava parimenti nel concetto di (—) il vincolo che legava i magistrati al Senato ed allo Stato.
Per una diversa accezione.

Dòlus [Dolo]

• Vizio della volontà [cfr. artt. 1439-1440 c.c.].


Il (—) rilevante quale vizio della volontà nella conclusione di un negozio giuridico (in conficièndo
negotio) si connotava quale dòlus malus e consisteva nel comportamento inescusabilmente
malizioso, fatto di raggiri e artifizi, di un soggetto (c.d. decèptor) nei riguardi di un altro soggetto

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(c.d. decèptus) con cui fosse in trattative o in rapporti giuridici, allo scopo e con gli effetti di indurlo
ad un’azione pregiudizievole dei propri interessi.
Diverso dal (—) malus era il (—) bonus, che consisteva in una tollerabile abilità (fatta eventualmente di
piccoli, innocui espedienti) nel curare i propri interessi e non costituiva vizio della volontà.
L’elaborazione del dolo (nella forma di dolus malus) quale vizio della volontà negoziale è frutto della
giurisprudenza preclassica e classica, che distinse tra:
— dolo determinante (càusam dans), che comportava la nullità del negozio, in quanto determinava
nel contraente una falsa rappresentazione della realtà, che, fuorviandolo, lo induceva alla conclusione
di un contratto, altrimenti non voluto;
— dolo incidente (ìncidens), che induceva la controparte alla stipulazione di un contratto a
condizioni diverse da quelle volute.
Questo tipo di comportamento non determinava la nullità dell’atto; la parte caduta in errore, però,
aveva diritto ad un indennizzo oppure ad ottenere la giusta prestazione.
La repressione del dolo fu, in origine, un’innovazione pretoria, che Cicerone, in particolare,
attribuisce ad Aquilio Gallo. Tra i rimedi apprestati in favore del cd. decèptus (cioè la vittima del dolo)
ricordiamo:
— l’àctio de dolo ;
— l’excèptio doli ;
— l’in ìntegrum restitùtio ob dolum .
Era usuale garantire la controparte con una “clausula doli”, cioè con una promessa assunta nella
forma della “stipulatio”.
Era considerato illecito il “pactum ne dolum præstetur” cioè di esclusione della responsabilità per
“dolus malus”.

Mètus [Violenza morale;]

Uno dei vizi della volontà del negozio giuridico: consiste in uno stato di oppressione psichica,
originata da minacce proferite da un’altra persona e che inducono un soggetto a concludere un
negozio giuridico. In particolare, si distingue in dottrina tra:
— vis, che è la violenza morale in se stessa, la coartazione della altrui volontà attraverso minacce;
— (—) che è il timore, il senso passivo di spavento prodotto dalla vis.
In diritto romano il (—) trovò da principio scarso, se non insignificante, rilievo; in diritto classico si
finì col ritenere rilevante, per inficiare la volontà negoziale, la minaccia attuale di un male ingiusto e
notevole, alla persona stessa del contraente o alle persone dei suoi stretti congiunti, posta in essere al
fine di costringerlo a concludere un negozio.
È opportuno precisare che la violenza morale (nella quale il soggetto, ètsi coactus, tàmen vòluit, cioè,
seppure minacciato, manifestò una volontà negoziale) era diversa dalla violenza fisica (nella quale la
vittima non manifestava alcuna volontà negoziale: la manifestazione di volontà è frutto della forza
bruta dell’aggressore che, ad es., guidi la mano della vittima per apporre una firma in calce ad un
atto).
Tra i rimedi apprestati in favore della vittima della violenza, ricordiamo:

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— l’in ìntegrum restitùtio ob metum ;


— l’àctio quod metus causa ;
— l’excèptio metus.

Vizi della volontà

Nel ius civile non era riconosciuta alla volontà alcuna rilevanza: per il formalismo che lo
caratterizzava, si riteneva non solo necessario, ma anche sufficiente il compimento di determinati atti
solenni, affinché il negozio giuridico potesse produrre i suoi effetti.
Solo con il ius gentium ed il ius honorarium, grazie anche al successivo intervento della
giurisprudenza classica, si accordò una certa rilevanza alla volontà: accertata in concreto la presenza
di un elemento perturbatore che avesse deviato il processo formativo della volontà manifestata (vizio
della volontà), il magistrato concedeva l’excèptio o l’in ìntegrum restitùtio.
La giurisprudenza romana, aliena ad astrazioni, non costruì una teoria generale dei vizi della volontà,
analizzando solo fattispecie concrete.
Tre furono i vizi cui fu dato rilievo: il dolus malus, il metus e l’error facti.

Emptio-vendìtio [Compravendita;]

• Nozione
Contratto consensuale ed obbligatorio in forza del quale una delle parti (vènditor) si obbligava a
trasmettere all’altra (èmptor) il possesso di una res (màncipi o nec màncipi, corporale o incorporale),
denominata merx, garantendone il pacifico godimento, dietro corrispettivo di una somma di danaro:
il pretium.
La conclusione del contratto per effetto del consenso produceva in capo alle parti esclusivamente
effetti obbligatori.
In epoche assai risalenti, l’(—) fu preceduta, con ogni probabilità, da forme di baratto, data l’assenza
di moneta nell’economia romana. Successivamente la causa dello scambio di merce verso un
corrispettivo in danaro venne soddisfatta attraverso la mancipàtio per le res mancipi, mentre per le
res nèc mancipi tra cittadini romani e per le res mancipi nel commercio con gli stranieri, si ricorse con
ogni probabilità ad una doppia tradìtio della cosa e del prezzo.
La piena ammissione del contratto consensuale dell’(—) fu un risultato realizzato per mezzo della
iurisdictio del prætor peregrìnus nel quadro dei rapporti giuridici del ius gentium.
• Obbligazioni del venditore
A seguito della stipulazione del contratto, per il venditore nasceva l’obbligo di garantire
all’acquirente il libero possesso della merx sino a quando questi non ne avesse acquistato il dominium
per usucapio o altrimenti, e non quello di trasferirne le proprietà (vacua possessio).
Era, invece, ammesso che il venditore assumesse in via pattizia l’obbligo di effettuare il trasferimento
della proprietà attraverso un apposito atto estraneo al contratto (mancipàtio [vedi] o in iùre cèssio

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[vedi]).
Il venditore, inoltre, era tenuto a prestare la garanzia per l’evizione e per i vizi occulti della cosa: la
prima costituiva una conseguenza della mancipatio, in quanto il mancìpio accipiens che avesse
provveduto al pagamento del prezzo, aveva la facoltà, se convenuto in giudizio da un terzo
rivendicante, di chiamare in causa il mancipio dans, il quale era tenuto ad intervenire nel processo a
sostegno del suo avente causa.
In seguito, poiché in linea di massima il contratto di (—) non imponeva l’intervento della mancipatio,
la garanzia per l’evizione fu assicurata da apposite stipulazioni di garanzia, che legittimavano
l’acquirente evitto ad esercitare l’àctio ex stipulatu.
Le principali stipulazioni dirette a tal fine erano:
— la stipulàtio habère licère, con la quale si garantiva il pacifico possesso della res, attribuendo al
giudice il potere di stabilire, in caso di avvenuta evizione, l’ammontare del danno;
— la stipulatio dùplæ, particolarmente diffusa in epoca classica, con la quale il venditore si obbligava a
corrispondere il doppio (dùplum) del valore del bene in questione nel caso di evizione.
In età classica, inoltre, si accordò al compratore evitto l’actio èmpti anche in assenza di specifiche
stipulazioni di garanzia.
La garanzia per vizi occulti assunse, nelle varie fasi del diritto romano, diverse connotazioni:
— in origine, la responsabilità del venditore poteva sorgere solo in seguito a nuncupatiónes
pronunciate all’atto della mancipatio;
— successivamente, prese piede la prassi di garantire la presenza delle qualità promesse e l’assenza
dei vizi della cosa con un’apposita stipulatio ;
— infine, la responsabilità del venditore fu ritenuta esistente allorquando lo stesso avesse
dolosamente dichiarato la presenza di date qualità o l’assenza di certi vizi oppure avesse
dolosamente taciuto l’esistenza dei vizi medesimi.
• Obbligazioni del compratore
L’obbligazione principale dell’èmptor era quella di sòlvere prètium, ossia trasferire al venditore la
proprietà della somma di denaro dedotta in contratto.
Inoltre, dall’(—) nasceva per il compratore l’obbligo di corrispondere gli interessi dal momento
stabilito ovvero dal momento in cui riceveva la cosa, nonché quello di cooperare con il venditore.
• Tipi particolari di vendita
Particolari figure di (—) erano:
— l’emptio rèi speràtæ, ossia la vendita di cosa futura, subordinata alla condizione della venuta ad
esistenza della medesima;
— l’emptio spèi, ossia la vendita aleatoria di cosa futura;

Locàtio-condùctio [Locazione;]

La locazione, in diritto romano, era un genus, più che un contratto autonomo, in quanto al suo
schema potevano esser ricondotte figure diverse l’una dall’altra.
Sotto un profilo generale, col termine (—) era indicato quel contratto consensuale, col quale una

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parte (locatore) si obbligava a mettere nella materiale disposizione dell’altra (conduttore) una cosa,
che quest’ultimo si obbligava a restituire dopo averla goduta per un certo tempo, o dopo averla
lavorata, manipolata, trasformata nel modo pattuito.
Le origini storiche della (—) sono assai incerte:
— un primo orientamento la ricollega alle prime locazioni dello Stato;
— un secondo orientamento ritiene che la (—) si affermò in Roma attraverso il iùs honoràrium : il suo
precedente nel ius civile sarebbe stato il precàrium , istituto col quale il proprietario di una cosa ne
cedeva il possesso ad altri in cambio di un corrispettivo;
— altra dottrina esclude la derivazione della (—) dal precàrium, con il quale poteva ravvisarsi solo
un’identità di funzione.
Si è rilevato che la vendita e la locazione, nel diritto romano, non furono nettamente distinte, poiché
entrambe potevano essere costitutive di sole obbligazioni (mentre nel diritto moderno la vendita ha
efficacia traslativa). Ciò che distingueva i due contratti non era la perpetuità del rapporto (potendo
esservi anche una locazione perpetua), ma la funzione del contratto: la vendita attribuiva al
compratore un potere assoluto e definitivo, la locazione, invece, attribuiva solo il godimento della
cosa. Inoltre, il compratore vantava una iusta causa usucapiònis ed il suo possesso era tutelato con
l’àctio Publiciàna , mentre il conduttore non aveva alcuna tutela reale.
Il contratto di locazione aveva di solito una durata determinata, ma poteva essere stipulato anche in
perpetuum (salvo, in questo caso, il diritto di recesso di ciascun contraente). Un tale contratto veniva
da alcuni giuristi qualificato come compravendita; Gaio (Inst., III, 145), pur con dubbi, riferisce che
secondo la tesi prevalente doveva essere considerato egualmente come locazione.
A tutela del locatore e del conduttore erano apprestate, rispettivamente, un’actio locàti ed un’actio
condùcti entrambe azioni di buona fede Àctio bonæ fidei].
Elementi essenziali della (—) erano la res (o le operæ, che venivano locate) e la mèrces (il
corrispettivo). La merces doveva essere certa (Gai Inst., 3.142) e, normalmente, consisteva in una
controprestazione pecuniaria.
Nell’ambito della (—) confluirono tre figure: locatio rèi ; locatio òperis ; locatio operàrum .

Locatio rèi

Era quel particolare tipo di locatio-conductio , nel quale il locatore si impegnava ad assicurare al
conduttore il godimento di una cosa mobile od immobile, per un certo periodo di tempo, dietro il
pagamento di un corrispettivo (mèrces).
Qualunque cosa poteva essere oggetto di (—), sia mobile che immobile, purché inconsumabile. La (—)
poteva avere come oggetto anche uno schiavo e poteva importare la facoltà di avvalersi della operæ di
questo. Oggetto di (—) poteva essere inoltre l’esercizio di iùra in re alièna .
La merces era il corrispettivo per il godimento della cosa ed era costituita generalmente da danaro.
Poteva, tuttavia, essere costituita anche dai frutti della cosa locata; infatti:
— nella colonia partiaria la merces era costituita da una quota determinata dei frutti;
— se la merces era composta da un tot prestabilito o invariabile di derrate (pars quanta), questa non

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variava quantitativamente qualunque fosse stato l’ammontare del raccolto.


La durata della (—) era, di regola, fissata dalle parti o, in mancanza, dalle consuetudini locali, ma
poteva aversi, anche, una locazione a tempo indeterminato (locatio in perpetuum), che durava finché
una delle due parti non decideva di recedere dal contratto.
Obblighi del locatore erano:
— lasciare il conduttore nel godimento della cosa per tutta la durata del contratto;
— consegnare la cosa in buono stato e mantenerla in tale stato per la durata del contratto, onde
garantirne il godimento al locatario.
Obblighi del locatario erano:
— pagare la mercede alle scadenze pattuite;
— custodire la cosa;
— restituire la cosa al termine della locazione. Se la cosa da restituire risultava deteriorata o distrutta,
l’obbligazione si trasformava in quella di pagamento del valore.
Il conduttore aveva solo un diritto personale, esercitabile contro il locatore: avendo la possèssio
naturàlis , era un mero detentore. Eccezionalmente era al conduttore accordato l’interdìctum de vi
armàta se era stato cacciato con l’uso delle armi dal fondo locato.
Poiché vigeva il principio èmptio tòllit locàtum , nel caso di vendita della cosa, il locatore era
responsabile se l’acquirente pretendeva la restituzione della cosa dal conduttore.
A tal proposito il locatore poteva pattuire che il compratore della cosa locata rispettasse la locazione:
tale patto, però, aveva valore solo tra le parti della vendita, pertanto il conduttore poteva agire solo
contro il locatore con l’àctio condùcti (il quale a sua volta poteva agire con l’actio vènditi contro
l’acquirente).
Particolare disciplina era dettata per il caso in cui l’oggetto della locazione fosse stato un immobile
urbano (nel qual caso il conduttore si chiamava inquilìnus) o un fondo rustico (nel qual caso il
conduttore si chiamava colònus). Il conduttore, in queste ipotesi, era tenuto anche ad evitare di
deteriorare l’immobile e doveva eseguire tutte le opere necessarie alla sua ordinaria manutenzione,
mentre le spese di straordinaria manutenzione erano a carico del locatore.

Locàtio òperis
Era quel particolare tipo di locatio-conductio , nel quale il locatore metteva materiali di sua proprietà
a disposizione di un àrtifex (che assumeva le vesti del conduttore) che si impegnava, con lavoro
proprio (o di propri dipendenti) a lavorarli e trasformarli in oggetti, per utilità del locatore, ricevendo
da quest’ultimo, in cambio dell’opera conclusa, un corrispettivo (mèrces).
Nella (—) il locatore doveva prestare al conduttore la materia prima da lavorare o la cosa in ordine alla
quale doveva essere effettuata la trasformazione: il conductor aveva il compito di trasformarla,
lavorandola, e di riconsegnarla al condùctor, contro il pagamento della merces. In tale contratto la
cosa non era locata a vantaggio del conduttore, ma a vantaggio del locatore: ne conseguiva che
l’obbligo di pagare la mercede incombeva sul locatore.
Il conduttore era obbligato ad eseguire il lavoro o il servizio affidatogli sia personalmente (anche,
eventualmente, attraverso l’opera dei propri schiavi), sia sublocando l’opus ad un altro conductor.
L’opera doveva essere eseguita nel tempo stabilito ed in mancanza entro il periodo di tempo

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considerato normalmente necessario per condurlo a termine.


Al termine del lavoro il locàtor operis aveva diritto alla adprobàtio operis (cioè al collaudo) al
momento della consegna: il collaudo doveva essere effettuato secondo l’arbìtrium bòni vìri .
Le obbligazioni derivanti da (—) si trasmettevano agli eredi nel caso di morte del locator o del
conductor, a meno che l’attività che quest’ultimo doveva prestare non fosse un’attività infungibile.
Una sottospecie della (—) era costituita dalla c.d. locatio operis irregularis, che ricorreva nei casi in
cui la materia prima consegnata dal locatore fosse passata in proprietà del conduttore: quest’ultimo
risultava obbligato a consegnare il prodotto finito, lavorato con una qualsiasi materia appartenente
allo stesso genere.

Locatio operàrum

Era quel particolare tipo di locatio-conductio , nel quale il locatore metteva a disposizione del
conduttore i propri servizi dietro il pagamento di un corrispettivo (mèrces).
La (—), derivando dalla locazione dello schiavo, poteva avere come oggetto non qualsiasi lavoro
umano, ma soltanto quello prevalentemente manuale, che di solito era prestato da schiavi.
Caratteristica dell’obbligazione del locàtor operarum era la sua subordinazione totale alle direttive
del condùctor (datore di lavoro). Nel diritto postclassico, per l’influenza del Cristianesimo, si attenuò
la concezione della piena subordinazione del locator al conductor. Peraltro, il fenomeno della
scarsezza di mano d’opera, sia servile che libera, importò l’introduzione di norme sulla sèrvitus glebæ
e sulla ereditarietà dei mestieri.
La (—) cessava per morte del locator, essendo impossibile che le operæ fossero prestate da persone
diverse. Viceversa, se era il condùctor a morire, i suoi diritti ed i suoi obblighi si trasmettevano agli
eredi.
Al di fuori della (—) rimanevano le artes ingènuæ (o operæ liberàles), cioè le attività prevalentemente
intellettuali, quali quelle dell’avvocato, del medico etc.
Di solito le professioni intellettuali erano esercitate su richiesta dagli interessati ed a titolo gratuito: il
cliente, peraltro, poteva corrispondere un honoràrium. Le operæ liberales ebbero tutela giudiziaria,
se non quella extra òrdinem . Qualora fosse stato riscontrato un cattivo esercizio dell’arte
professionale, secondo i Proculiani , al cliente spettava l’actio ex lege Aquilia per il risarcimento del
danno.

Socìetas [Società;]

Contratto consensuale con il quale due o più soggetti (socii) si obbligavano reciprocamente a mettere
in comune beni o attività, in quantità anche disuguali, allo scopo di compiere una o più operazioni
economiche, dividendo tra tutti, secondo criteri prestabiliti, i guadagni o le eventuali perdite.
La (—) si inquadra tra le obligatiònes ex contractu, altrimenti dette obligationes consensu contractæ ,
perché derivanti dal semplice accordo.

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Le origini della (—) sono molto discusse. Per alcuni essa risulterebbe da un adattamento del vecchio
istituto del consòrtium ercto non cito . Con ogni probabilità la (—) derivò dal consolidarsi di prassi
largamente seguite nel commercio mediterraneo. L’intensificarsi delle relazioni con gli altri popoli, a
partire dal III sec. a.C., impose la necessità, da un lato, di raggruppare ingenti somme, dall’altro di
sopportare in comune i rischi di operazioni economiche di vasta portata. Il riconoscimento di tale
contratto è da attribuirsi all’attività giurisdizionale del prætor peregrìnus, nell’ambito dei rapporto
del iùs gentium .
Si distingueva tra:
— (—) òmnium bonòrum
— (—) unìus rei o negotiatiònis .
Obblighi del socio erano:
— apportare in società quanto aveva promesso. Se il suo apporto aveva per oggetto cose, egli doveva
trasferire agli altri, con mancipatiònes [vedi mancipàtio] o traditiònes [vedi tradìtio] varie, una quota
di esse, in modo da creare una comunione sulle cose stesse;
— rendere comuni gli acquisti fatti per la società.
Salvo diverso accordo delle parti gli utili e le perdite erano ripartiti in egual misura: l’accordo tra i
socii poteva giungere ad esimere totalmente dalla sopportazione delle perdite un socio cui era
riservata una partecipazione agli utili, ma non poteva escludere la partecipazione agli utili di un socio
che partecipava, sia pure parzialmente, alle perdite (societas leonìna).
Il consenso doveva essere persèverans, cioè doveva sussistere fino al momento del conseguimento del
fine sociale o della scadenza del termine.
La società si estingueva:
— ex personis, e cioè per morte o càpitis deminùtio di uno dei soci;
— ex rèbus, e cioè per il raggiungimento del fine sociale o per la sopravvenuta impossibilità di
raggiungerlo;
— ex voluntàte, e cioè per volontà dei soci, per la scadenza del termine fissato o per rinuncia (c.d.
renuntiàtio);
— ex actiòne, a seguito dell’esercizio dell’azione di divisione.

Mandàtum [Mandato; ]

Contratto consensuale che obbligava un soggetto (mandatàrius) ad eseguire uno o più atti giuridici
per conto di un altro soggetto (mandàtor).
In diritto romano il (—) fu riconosciuto come contratto consensuale solo in epoca preclassica (nel II-I
sec. a.C.), quando le esigenze commerciali imposero agli operatori economici di ricorrere ad
intermediari lontani per curare affari cui non potevano attendere personalmente. L’individuazione
del (—) fu dovuta, in particolare, alla giurisprudenza evolutiva del prætor peregrìnus .
Il (—) era gratuito. Qualora fosse stato pattuito un compenso, si aveva una locatio operis , non un (—).
In casi eccezionali, poteva essere pattuita una remunerazione, ma solo a titolo di gratitudine

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(honorarium) e che poteva essere fatta valere con un’actio in factum e non con l’actio mandati
contraria.
Il mandatario poteva essere richiesto di compiere non soltanto atti giuridici, ma ancheun’attività di
fatto (es. curare una piantagione); era inammissibile il (—) rei turpis (Gai Inst. 3.157), quello, cioè, nel
quale il mandatario era obbligato a compiere un’attività turpe.
Si distinguevano, in particolare:
— il (—) mea gràtia (mandato conferito nell’interesse del mandante);
— il (—) alièna gratia (mandato conferito nell’interesse di un terzo);
— il (—) mea et tua gratia (mandato conferito in parte nell’interesse del mandante, in parte
nell’interesse del mandatario);
— (—) tua gratia tantum, ossia nell’esclusivo interesse del mandatario; esso si considerava come
semplice consiglio non produttivo di effetti giuridici.
Il mandatario aveva l’obbligo di:
— eseguire esattamente l’incarico; se egli agiva discostandosi dalle istruzioni ricevute, il mandante
poteva agire per ottenere l’esatto adempimento dell’incarico affidato;
— riversare gli effetti dell’attività svolta nella sfera giuridica del mandante (es. trasferire la proprietà
delle res acquistate, versare quanto riscosso).
Il mandante aveva l’obbligo di:
— rivalere il mandatario delle spese affrontate nell’esecuzione del (—) e dei danni eventualmente
subiti.
A tutela delle reciproche obbligazioni, le parti potevano esperire l’àctio mandati (directa a tutela dei
diritti del mandante; contraria a tutela dei diritti del mandatario) azione di buona fede attribuita dal
prætor.
Il mandato si estingueva per esecuzione dell’incarico o sopravvenuta impossibilità di eseguirlo, per il
sopraggiungere del termine stabilito e per il venir meno del consènsus persèverans: oltre al verificarsi
del contrarius consensus, l’estinzione si verificava per il recesso di una delle parti (revocàtio del
mandante e renuntiàtio del mandatario).
Il mandato cessava, inoltre, per morte di una delle parti (c.d. resolùtio mandati: mandatum morte
resòlvitur), ma se le obbligazioni erano già sorte in conseguenza dell’esecuzione dell’incarico, esso
vincolava gli eredi.
Si riteneva inammissibile il c.d. (—) post mòrtem, quello che aveva, cioè, per oggetto attività da
compiere dopo la morte del mandante o del mandatario: in questo caso, si riteneva che il contratto
fosse nullo. Solo in età postclassica, si cominciò ad ammettere la possibilità di contrarre un (—) post
mortem mandatòris. Si ritenne, inoltre, inammissibile una renuntiatio del mandatarius che risultasse
pregiudizievole per il mandante.

5g. I delicta
Delìctum [Delitto]

Atto illecito, fonte di obbligazione ex delicto . A differenza dei crìmina i delicta, detti anche maleficia

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costituivano offese arrecate ad un singolo individuo e legittimavano una reazione individuale. Nel
diritto classico erano considerati delicta quattro illeciti civilistici (furtum , iniuria, damnum iniuria
datum , rapina ). Tali illeciti integravano altrettante obligationes ex delicto.
Il pretore, peraltro, cominciò ad accordare azioni in factum concèptæ per perseguire altri fatti
considerati illeciti, originariamente non previsti; questi, in epoca postclassica, furono annoverati tra
le obligationes quasi ex delicto . Quanto alla reazione privata all’illecito costituente delictum, in epoca
arcaica essa era libera e incontrollata. Successivamente, si ritenne che la reazione dovesse essere
proporzionata all’offesa in base alla legge del taglione, fino a quando la legge delle XII Tavole, in caso
di membrum ruptum , consentì alle parti avverse di definire pattiziamente la questione mediante il
risarcimento.
Al termine del relativo sviluppo storico, la sanzione per il (—) si ridusse ad una pena pecuniaria; dalla
commissione di un (—), inoltre, poteva scaturire eventualmente un’actio reipersecutòria per la
riparazione del pregiudizio economico subìto (ossia una rèi vindicàtio o condìctio) .

INGIURIA = figura delittuosa che nel suo compiuto sviluppo accomuna atti volti a ledere l’integrità
fisica o morale di una persona.
Nel sistema delle XII Tavole erano previste tre fattispecie di ingiuria:
Membrum ruptum = caso di asportazione o di provocata inutilizzabilità di un arto o di un organo.
Prevista la pena del taglione.
Os fractum (osso fratturato) = offesa meno grave, ma comunque menomazione permanente
conseguente all’illecito. Sanzione è una pena pecuniaria: 300 assi per l’uomo libero, 150 assi per lo
schiavo.
Ogni altro atto, cioè atto di violenza non produttivo di conseguenze permanenti per l’integrità
corporale. Pena pecuniaria di 25 assi.
In seguito all’intervento del pretore fu superato il sistema delle pene fisse e fu creata la figura unitaria
del delitto di ingiuria. Fu introdotta l’azione di stima delle ingiurie: la decisione segue un criterio
equitativo.
Ancora più avanti, Silla con la lex Cornelia de iniuriis, individuava tre fattispecie:
percosse;
fustigazioni;
violenta violazione di domicilio.

Bona vi rapta [Rapina;]

Per (—) s’intese un caso aggravato di furto, in quanto commesso mediante violenze sulle persone. La
(—) era fonte di obbligazioni nascenti da atto illecito
Successivamente il prætor peregrinus Lucullo, nel suo editto, accordò un’apposita azione contro
colui che avesse, con la minaccia di un’arma, arrecato danno o sottratto cose altrui; la pena prevista
ammontava al quadruplo della pena base, se l’azione veniva esperita entro l’anno, mentre era pari a
quella base, se l’azione veniva esperita dopo tale termine.
La giurisprudenza classica estese l’ambito di tale fattispecie, ricomprendendovi anche quelle ipotesi

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in cui non si facesse ricorso alle armi, ma nelle quali si fosse comunque impiegata violenza.
Alla rapina, poi, veniva equiparata l’ipotesi di impossessamento di cosa altrui profittando di una
calamità (incendio, naufragio, rovina, etc.).
Era dubbia in età classica la natura dell’actio vi bonorum raptorum, se dovesse cioè considerarsi actio
pœnalis [ actio pœnalis, reipersecutoria, mixta].
Giustiniano risolse la questione, smentendo entrambe le ipotesi e ritenendola actio mixta.

Dàmnum iniùria dàtum [Danno ingiusto]

Figura di delictum consistente nel danneggiamento di una cosa o di uno schiavo altrui.
Le XII Tavole non prevedevano una figura astratta di danneggiamento, ma singole ipotesi tipiche
(per es. àctio de paupèrie , per danni arrecati da un quadrupede; actio de pastu pècoris , per danni
derivanti da pascolo abusivo, etc.).
Successivamente il (—) fu disciplinato, come figura astratta, dalla lex Aquilia de damno (287 a.C.).
Ne erano requisiti:
— il damnum: inizialmente era rilevante solo se materiale (còrpore corpori illàtum), vale a dire
cagionato con la forza muscolare sulla cosa considerata nella sua struttura fisica. Successivamente si
disciplinò anche l’ipotesi di danno non corpore illatum (non causato direttamente dal danneggiante
col proprio corpo) come, ad esempio, nel caso di chi avesse tenuto rinchiusi animali per lungo tempo
senza nutrirli, provocandone così la morte;
— l’iniuria: era l’antigiuridicità del danno, cioè la sua ingiustizia;
— dolus o culpa: il titolo di responsabilità per aver causato il danno. Per aversi responsabilità, era
sufficiente la culpa levissima, cioè una lieve negligenza;
— il nesso causale fra l’azione e il danno.

Capitolo III
L’ETA’ DEL PRINCIPATO

1. Fratture e crisi della costituzione repubblicana

Mutamento rispetto alla repubblica: formazione di una elite di governo, da ricondurre alla
capacità politica di un solo uomo, Ottaviano, il figlio adottivo di Cesare.
Ottaviano riuscì ad attuare il piano di Cesare (le forze) verso il raggiungimento di un equilibrio, da
cui furono generate istituzioni più nuove.
Le istituzioni della repubblica non sono più in grado di amministrare un territorio che si stava
allargando sempre più.
Mario, formando un proprio esercito (formato da volontari spinti dalla speranza di terra e di prede),
aveva fatto nascere un potere indipendente dal senato e dal comizio, mostrando così la scarsa vitalità
del regime oligarchico della repubblica. Anche se non riuscì a portare a termine il suo disegno
costituzionale, perché ucciso nel 44 a.C., essendo legato a Cesare, si può intuire quale era il suo
piano: arrivare alla creazione di una costituzione monarchica. Moderata però dalla partecipazione al

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governo di elementi scelti anche nelle elites periferiche, per mezzo delle quali Cesare intendeva
bilanciare la creazione di un potere centralizzato, e ad una diminuzione delle posizioni di privilegio
delle antiche oligarchie.
Ma è con la LEX TITIA che si vede di più questo intento. Alla fine del 43 a.C., dopo un plebiscito
proposto da Titius e subito votato, Lepido, Antonio e Ottaviano ottengono il riconoscimento della
magistratura straordinaria dei triumviri per la riorganizzazione della repubblica, che essi avevano
deciso di istituire, di durata quinquennale e con compiti costituenti.
La statuizione conferiva alla nuova magistratura poteri di uguale spessore rispetto ai consoli,
riconoscendo inoltre ai triumviri la prerogativa di nominare i magistrati.

Da ciò si capisce che il regime instaurato si poneva al di fuori dell’assetto precedente. La


LEX TITIA consentì a costoro di esercitare questo potere straordinario per ben 5 anni, prorogato nel
37 per un secondo quinquennio, alla fine del quale Ottaviano ne rimase l’unico, eliminato Lepido e
Antonio dopo la battaglia di Azio.
Dal 31 a.C., e fino al 23, si assiste ad uno sforzo continuo da parte di Ottaviano, indirizzato a plasmare
le forme del suo governo in base a schemi tratti dalle istituzioni antiche, affinché non si
interrompesse la continuità di una identità formale.
Ottaviano vuole mostrare come tutte queste vicende erano legali (es. il potere per la lotta contro
Antonio viene fatto dipendere dall’impegno di fedeltà conferito con il comando delle forze armate).

Il gesto più significativo fu la rinuncia a una parte dei poteri attuata in senato nel 27 a.C. Dichiarando
di voler restituire la sovranità ai soggetti che ne erano titolari secondo la costituzione repubblicana.
Ottaviano allontana da sé l’immagine del DICTATOR, del TYRANNUS, del DOMINUS, arrivando a
cogliere ciò che aveva sperato: la ratifica giuridico - politica della sua supremazia da parte di quegli
organi, ai quali la sola enunciazione dei suoi rapporti era evidentemente riuscita a dare loro la
sensazione di riprendere l’esercizio legittimo delle loro funzioni.
Infatti, tre giorni dopo, in riconoscimento della posizione conseguita nel nuovo assetto, egli viene
definito AUGUSTUS.

Ma è 4 anni dopo, nel 23 a.C., che si ha una più definita precisazione costituzionale. Siccome è
investito dagli organi sovrani del vecchio ordinamento di prerogative che gli danno una potestà
permettendogli di determinare diritti e obblighi, Augusto si colloca al di sopra dello schema
costituzionale.
Egli stesso ammette di sovrastare tutte le magistrature per AUCTORITAS (termine che non coincide
con quello moderno, ma derivante dal patrimonio linguistico latino, dove si definisce la qualità
dell’AUCTOR: condizione di AUCTOR ESSE, l’autorità con cui i PATRES e i senatori
convalidavano le decisioni delle assemblee popolari.
Abbandonato il consolato, gli viene conferita, a vita e separatamente dalla relativa magistratura, la
TRIBUNICIA POTESTAS. Con ciò egli non solo si distacca dall’ordine senatorio ergendosi a
difensore della plebe, ma viene posta nelle sue mani l’iniziativa politica: l’INTERCESSIO senza
alternanza contro tutti gli atti dei magistrati cittadini ed il IUS AGENDI CUM PLEBE gli renderanno
possibile il controllo della dinamica interna alle assemblee popolari.

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Con l’assunzione della PERPETUA CURA LEGUM ET MORUM, PONTIFICATUS MAXIMUS, e


dell’IMPERIUM PROCONSOLARE MAIUS ET INFINITUM (titolarità del supremo comando
militare), si delineano le caratteristiche della figura del PRINCEPS.
Siccome Augusto aveva conseguito tribunato e IMPERIUM separatamente dalle cariche di tribuno e
di proconsole, si comincia a notare la diversità del potere imperiale. Investito solo delle funzioni e
non dalle cariche, il PRINCEPS dunque non è un magistrato, né ordinario né straordinario, ma solo il
titolare di un potere senza uguali, per la sua supremazia che gli deriva dall’AUCTORITAS, e non per
l’INTERCESSIO o dalla molteplicità delle prerogative. Inoltre assumendo dopo il cognome di
Augusto, il PRAENOMEN di IMPERATOR, il titolo cioè di generale vittorioso, il principe mostra di
volere assimilare i CIVES ai soldati. Ciò fa capire che c’è un passo da una parte verso la
disintegrazione del vecchio edificio istituzionale e dall’altra in direzione dell’ampliamento e
trasformazione del termine IMPERIUM.

2. (manca)

3. Forme e svolgimenti del nuovo assetto istituzionale


Il fondamento effettivo del potere dell’imperatore deve essere riconosciuto, oltre che nella forza delle
armate, nell’AUCTORITAS della sua persona: pari agli altri magistrati per POTESTAS, Augusto
dichiara di essere superiore a tutti per AUCTORITAS, con cui si riconosce l’autorità del principe.
Evitando di ricevere i poteri dal predecessore, cercando invece di ricevere l’investitura dal senato e
dal popolo, il principe sembra trarne giustificazione continua della propria collocazione,
consentendo a questo termine di acquisire valore giuridico e insieme portata politica.
Un’altra dei tratti caratteristici del nuova costituzione sono il conferimento Di una POTESTAS
TRIBUNICIA e di un IMPERIUM PROCONSOLARE, nonché la subordinazione delle antiche
istituzioni ad un organo nuovo.
Principi da cui questo potere è retto:
La creazione di nove CORTES PRAETORIAE, a guardia della persona dell’imperatore a sua
disposizione, fa capire quanto il principe consideri determinante la forza delle armi per il
mantenimento del nuovo assetto.
L’introduzione di un culto imperiale dimostra altresì quanto l’imperatore ritenga utile collegare il
suo potere anche su basi religiose.
Inoltre, essendo proprietario di sconfinate ricchezze, l’imperatore fa del suo patrimonio uno
strumento prezioso di conquista e di mantenimento del consenso.
Senza dimenticare l’uso politico del matrimonio, il principe svolge il suo potere con manifestazioni
solidaristiche, riassunte nel cosiddetto evergetismo: nella amplificazione cioè di quella generosità
attuata dai ricchi quasi come adempimento di un obbligo sociale, servendo essa di fatto a garantire
una distribuzione meno squilibrata delle risorse. L’evergetismo praticato dal principe divenne
pubblica beneficienza.

4. La persistenza degli antichi organi della costituzione repubblicana

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La sopravvivenza degli organi della costituzione repubblicana: anche se le funzioni


adempiute non sono più le stesse, consolato, pretura, censura, tribunato e edilità plebea, questura
comizi e senato rimangono tutti in vita con ovvie limitazioni e ampliamenti.
Per quanto riguarda i consoli la sfera della loro giurisdizione si allarga: quando il senta si costituisce
come corte di giustizia di appello per le liti dei provinciali è ai consoli, infatti, che tocca presiederlo.
Per la PRAETURA, questa mantiene fino ad Adriano le competenze assegnatele dalla costituzione
repubblicana sia nella sfera giuridica civile che in quella penale.
La censura viceversa, rivestita solo da alcuni imperatori e da Domiziano ricoperta a vita, viene alla
fine inclusa nella somma dei poteri imperiali.
Quanto al tribunato, la sua sopravvivenza appare funzionale solo a giustificare la TRIBUNICIA
POTESTAS conferita ai principi.
L’edilità plebea vede invece esaurire le sue mansioni in dipendenza della concorrenza dei nuovi
funzionari, che gli imperatori destineranno alla cura dell’annona e della polizia urbana.
Per quanto riguarda il numero e alla competenza dei questori, questi vengono ricondotti al numero di
venti, due dei quali si occupano della persona dell’imperatore, i restanti del disbrigo di altri affari.
Per i comizi, la loro funzione è quella che più chiaramente evidenzia la inadeguatezza delle istituzioni
della città-stato ai nuovi compiti di governo mondiale. Tuttavia alcune competenze comiziali si
conservano: non quella giurisdizionale criminale, ma quella legislativa, e quella relativa all’elezione
dei magistrati.
Per quanto riguarda il senato, a causa del progressivo insterilirsi delle funzioni comiziali, l’antico
consesso repubblicano diventa il solo organo in cui si perpetua lo spirito del vecchio ordinamento. E
così la vigilanza sulla vita religiosa continua ad essere esercitata dai PATRES insieme con il principe,
come pure l’amministrazione delle provincie più antiche e la giurisdizione criminale.

5. I rapporti tra principe e senato

Nell’impero il senato viene visto come un’assemblea la cui attività sarà, sempre di più,
strumentalmente utilizzata dal principe nello svolgimento della sua politica. Con l’accrescersi del
potere degli imperatori, il senato, dopo Augusto, non svolgerà più alcun ruolo determinante nei
destini dell’impero.
Comunque rimane sempre il senato a conferire l’IMPERIUM, la TRIBUNICIA POTESTAS o il
PONTIFICATUS MAXIMUS all’aspirante o al designato; ed sarà sempre l’assemblea a conservare il
diritto di procedere alla nomina dell’imperatore.
L’assemblea senatoria perciò fini con l’esercitare spesso un ruolo determinante, non solo
formalmente, ma anche sul piano sostanziale, nella risoluzione di molte delle crisi che ci furono nella
storia di Roma.
Poi la creazione, da parte di Augusto, di una commissione senatoria con compiti di collegamento
conferma quanta accortezza il principe facesse uso di questo delicato strumento di equilibrio nella
progressiva definizione del suo disegno di riforma costituzionale.
Il senato può porre sotto processo il principe e dichiararlo, se ne ricorrono le circostanze, HOSTIS
PUBLICUS, pronunciandone pure la DAMNATIO MEMORIAE con tutto quello che ne consegue:

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eliminazione del nome da qualsiasi documento, rimozione di statue ecc. L’assemblea senatoria vede
inoltre aumentare, durante il principato, i poteri legislativi attraverso il senatoconsulto, e lo
svolgimento di competenze giurisdizionali.

6. Le vicende del potere imperiale dalla fine di Augusto a quella dei Giulio-claudii;
dall’avvento dei Flavi alla scomparsa di Adriano; dall’età degli Antonini a quella dei Severi.

Dopo alcuni tentativi di successioni per legittimità, pian piano si affermò il principio di
successione naturale: criterio differente rispetto a quello della scelta del migliore o combinandolo
con il medesimo a mezzo del ricorso alla pratica adottiva, cui il governante in carica veniva a volte
indotto al fine di non interrompere la catena delle soluzioni dinastiche.
A determinare l’uno o l’altro criterio era il senato.
Le crisi del 37 d.C., nel 41 e nel 68-69 mettono in chiara evidenza che uno dei problemi centrali del
nuovo ordinamento costituzionale fosse quello del meccanismo successorio.
Nel 37 s’era posto il problema della successione di Tiberio, mancato a Miseno.
Il 41 invece era stato l’anno dell’eliminazione di Caligola, succeduto al suo predecessore non in virtù
di meriti acquisiti nella carriera politico-militare, ma solo in esecuzione del testamento di Tiberio, il
quale aveva così mandato in pezzi le basi su cui Augusto aveva cercato di costruire la successione al
principato. E’ l’anno anche della salita al trono di Claudio, zio paterno di Caligola, imposto dai
pretoriani e con il quale la GENS claudia viene annessa alla famiglia imperiale. Con lui avviene il
ritorno dall’esilio del filosofo Seneca: venne richiamato a Roma per educare il figlio di Agrippina,
moglie dell’imperatore.
Nel 54, dopo la scomparsa di Claudio, il figlio allevato dal filosofo, verrà acclamato imperatore,
ancora dai pretoriani, col nome di Nerone. Ma il suo principato, e con esso la dinastia giulio- claudia,
si conclude tragicamente nel 68, anche se è stato caratterizzato da un periodo di buona
amministrazione durato oltre un quinquennio, quello del cosiddetto governo di Seneca.
Proprio nel 68 si affaccia il criterio adottivo. L’anno (68-69) è caratterizzato, non solo dalla
successione di quattro imperatori, ma anche dal fatto che non si conclude con l’ascesa di Pisone
Liciniano, scelto da Galba, ma con Flavio Vespasiano. Famoso per la LEX DE IMPERIO, e noto pure
per quella sua politica di integrazione dei provinciali nella cittadinanza oltre che per le opere di
rafforzamento delle linee difensive dell’impero, non è da escludere che il fondatore della dinastia dei
Flavi si sia imposto per via della prospettiva che i figli, Tito e Domiziano, potevano offrire di una già
preordinata successione dinastica. Per una migliore sistemazione della medesima e ad evitare di
richiamare i fantasmi delle sanguinose lotte per il potere, Vespasiano, il quale morirà nel 79, giunse
poi addirittura ad ideare la doppia successione. Stabilì infatti che Domiziano dovesse succedere a
Tito.
Con Domiziano, succeduto al fratello nel 81, si estingue la dinastia dei Flavi: l’imperatore
infatti cade ucciso nel 96 in una congiura di palazzo provocata dalle sue concezioni autocratiche
rivelatrici dei suoi propositi di annientamento degli oppositori, dopo quindici anni di governo.
Dal momento che sale al potere un senatore anziano di nome Nerva, il principato adottivo comincia a
trovare molte applicazioni.

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Infatti Traiano, Adriano e Antonino Pio provvidero ad adottare il migliore dei loro collaboratori
designandolo loro successore. Essi, venendo dalla provincia, furono i primi tra i provinciali a salire al
trono.

Con Traiano (98 - 117) vennero estesi i territori dell’impero. Adriano, al potere fino al 138, fu
conosciuto per la svolta impressa all’amministrazione dell’impero con una serie di riforme da cui
prende forma una vera e propria idea di ‘stato’ accentratore.
Pio governò per oltre vent’anni, e con lui si comincia a vedere i limiti del governo di fronte ad alcuni
mutamenti che diventano sempre più repentini. Il problema della sua successione lo risolve
anticipatamente ripristinando il criterio dinastico: nel 147, infatti, egli si associa nelle funzioni di
governo il figlio adottivo, imperatore poi nel 161 col nome di Marco Aurelio. Anch’esso non seppe
sottrarsi alla tentazione di associarsi , nello svolgimento dei compiti di governo, prima il fratello
adottivo Lucio vero, poi nel 177 il proprio figlio Commodo.
Così, quando Marco Aurelio, nel 180, muore di peste, il figlio diventerà imperatore a soli diciotto
anni, ristabilendo la continuità dinastica. Verrà ucciso in una congiura nel 192, dopo dodici anni di
esercizio del potere contraddistinti da un’evidente connotazione antisenatoria, di intrighi e
repressione, oltre che da gesti di megalomania, volendo cambiare il nome di Roma in Commodiana.
Dopo il breve periodo di Pertinace e Didio Giuliano, nel 193 Settimio Severo salì al trono con il
motivo dell’autoadozione. Presentandosi come figlio di Marco Aurelio e fratello di Commodo, tese
non solo a legittimare l’acquisizione di un patrimonio, ma anche a ribadirne una continuità dinastica.
L’ultimo dei Severi, Ulpiano, viene eliminato nel 235.
In definitiva i romani danno l’impressione che erano a favore della successione naturale.
Tacito ci fa notare che, l’assenza di una previsione normativa delle modalità, attraverso le
quali attuare la successione nel principato, contribuì a determinare le armate ad esprimere un loro
candidato sempre più di frequente: lo storico ammette che non è più a Roma, ma sui campi di
battaglia, che si fanno gli imperatori.
E’ soprattutto nel terzo secolo, per sua larga parte, che si fa l’arbitro per scegliere il candidato al
potere: le sue armate, anche se ai confini dell’impero, si resero protagoniste, di vere e proprie guerre
civili dato il loro interesse a promuovere alla suprema carica i loro comandanti.
Molti imperatori furono nominati per un gesto che aveva visto come protagonista Augusto: un gesto
di rifiuto.
Inoltre alcune cariche avvenivano per usurpazione.

7. I nuovi organi imperiali dell’amministrazione centrale

Al di là dei CURATORES AQUARUM, OPERUM PUBLICORUM e VIARUM, cui


competono la sorveglianza degli acquedotti, delle opere pubbliche e delle grandi vie di
comunicazione militare, la figura tipica di funzionario imperiale è quella del PRAEFECTUS
ANNONAE. Istituito da Augusto, questo funzionario ha come compito quello di sovrintendere ai
problemi di una città in cui c’erano molte difficoltà di reperimento e trasporto dei rifornimenti
alimentari.

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Tra gli organi di creazione originale vanno inoltre considerati gli OFFICIA PALATINA
prevalentemente affidati ai liberti imperiali. Costoro si videro assegnate funzioni sia di governo che di
amministrazione a partire dagli anni di Claudio. Sotto il governo di questo principe innovatore
cominciò infatti a prendere forma il nuovo nucleo di quelli che diventeranno poi i grandi dipartimenti
dell’amministrazione imperiale, le cui competenze si estenderanno dalla gestione finanziaria a quella
della giurisdizione.
In questa burocratizzazione dell’impero si possono notare alcuni uffici come quello AB EPISTULIS
che si occupa dell’evasione della corrispondenza imperiale; quello A LIBELLIS e A
COGNITIONIBUS cui è affidato l’esecuzione delle suppliche dei privati; quello A MEMORIA cui
competono determinate pratiche amministrative; quello A RATIONIBUS la cui funzione è di
sovrintendere all’amministrazione finanziaria.
Mentre sotto Augusto e i suoi successori immediati, coloro che venivano affiancati al
principe erano considerati dei dipendenti privati dell’imperatore, da Adriano in poi, si considerano
dei protagonisti con il loro carattere pubblico. I funzionari imperiali furono divisi in quattro classi
gerarchiche, caratterizzate da stipendi diversi, dando luogo a una carriera parallela a quella
magistratuale, pur se con profonde differenziazioni. Mentre il magistrato, eletto dal popolo,
incontrava i limiti della temporaneità e della collegialità della carica e non riceveva nulla per il suo
servizio, il funzionario, di norma pagato, non conosceva nessuna limitazione nell’esercizio delle sue
attribuzioni, al di fuori di quelle stabilite dall’imperatore da cui dipendeva direttamente.

I funzionari di grado più elevato prendono il nome di PROCURATORES; sopra di loro si trovano le
grandi PRAEFECTURAE.
Insieme con il PRAEFECTUS ANNONAE, sono importanti i funzionari con compiti di
mantenimento dell’ordine pubblico come il PRAEFECTUS URBIS, l’unico di rango senatorio e di
origine antichissima, e il PRAEFECTUS, VIGILUM, titolari rispettivamente delle funzioni di polizia
dentro Roma e per cento miglia intorno e di quelle di presidio stradale notturno.
Ma è il PRAEFECTUS PRAETORIO il primo dignitario della corte imperiale. Preposto, insieme a un
collega per evitare che acquisisse più potere, egli agiva spesso come sostituto del principe,
soprattutto nel presiedere i CONSILIA, nell’esercizio della funzione giurisdizionale che costui si
attribuiva, quale giudice di ultima istanza, ogni volta che ricorreva in appello davanti a lui contro le
sentenze provenienti dall’ORDO IUDICORUM.

8. I consilia principum

Siccome la sfera delle funzioni dei principi si andava sempre più allargandosi, ci fu bisogno di
una collaborazione da parte di persone esperte nei singoli settori di intervento.
Questo è il motivo per cui ci furono nell’ambiente di corte spesso dei giuristi: non solo si affidavano
poteri nell’amministrazione delle regioni periferiche, ma si chiedeva anche di ascoltare l’opinione
nello svolgimento sia delle funzioni di governo che delle altre attribuzioni legislative e giudiziarie.
Lo sviluppo dell’usanza della consultazione da parte degli imperatori con i propri collaboratori più
intimi accompagnò così l’intera fase di transizione dallo stato augusteo a quello costantiniano.

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Fino all’età di Costantino, i CONSILIA PRINCIPUM sono allora tanti quanti sono i casi per la cui
soluzione vengono costituiti: variano perciò continuamente tanto nella composizione, di volta in
volta adattata alla specificità della questione oggetto di discussione, quanto nelle procedure che non
sono mai le medesime.
Tenuto conto della specifica competenza dei soggetti cui di regola ci si rivolgeva, era la volontà
dell’imperatore a determinare numero e composizione delle eventuali riunioni di consiglieri in uno
con le modalità da seguire nelle stesse.

9. L’amministrazione dell’Italia

Il territorio dell’impero continua ad essere amministrato prevalentemente secondo le forme


della città-stato, nel pieno riconoscimento, delle autonomie cittadine e delle loro domande di
autogoverno. Esse infatti trovavano un loro fondamento nella precisa e sperimentata attribuzione di
poteri ai magistrati cittadini, DUOVIRI o QUATTUOVIRI, esecutori dei DECRETA ORDINIS,
cioè dei deliberati dell’ORDO DECURIONUM.
Sorta di senato delle singole città, questo era formato, almeno nei primi secoli dell’impero, ad opera
dei magistrati locali supremi, i quali lo costituivano, ogni cinque anni, scegliendo le persone da
nominare tra quelle in possesso dei requisiti richiesti per la nomina a magistrato e che erano
l’INGENUITAS, il censo, l’età minima e ovviamente il rispetto del CURSUS HONORUM.
Ma la divisione dell’Italia in undici regioni, attuata da Augusto probabilmente per migliorare i livelli
d’efficienza finanziaria e dei beni propri, fu il veicolo attraverso il quale cominciò a manifestarsi, in
maniera sempre più pronunciata col passare dei decenni, la tendenza del principe a deprimere le
autonomie locali.
La competenza per la giurisdizione criminale passa al PRAEFECTUS URBI e PRAEFECTUS
PRAETORIO. La funzione giurisdizionale civile viene trasferita, in Italia, a quattro CONSULARES,
anche con compiti amministrativi.
Si moltiplicano anche le attribuzioni dei CURATORES VIARUM (sorveglianza delle arterie stradali)
ai quali venne assegnata pure l’amministrazione di quelle fondazioni alimentari istituite in epoca
traianea in favore dei bisognosi con denaro della cassa imperiale.
Altri aspetti dell’istanza accentratrice vanno visti nei CURATORES REI PUBBLICAE (commissari
straordinari inviati presso enti locali finanziariamente dissestati) e dei CORRECTORES. Figure
occasionali e saltuarie, che diventeranno sotto Diocleziano funzionari stabilmente preposti al
controllo amministrativo dell’intero territorio italico.

10. L’amministrazione delle provincie

Dal 27 a.C. le provincie vennero distinte in senatorie e imperiali secondo quanto si apprende
da Strebone. La distinzione determinò una specie di doppio riferimento dei territori provinciali al
POPULUS e al PRINXCEPS e conseguentemente una duplicità nelle forme di governo e di
amministrazione, in maniera tale che il senato conservasse una sua sfera di influenza anche fuori

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dall’Italia.
Le provincie senatorie sono quelle, civilizzate e ricche, situate sotto il governo di uomini estratti
dall’ordine senatorio. Governavano per un anno, assistiti e condizionati da funzionari nominati
dall’autorità imperiale cui solo rispondevano, restringendo la loro attività a quella di amministrazione
e di esercizio di compiti di giurisdizione in prima istanza.
Le provincie imperiali sono viceversa quelle solitamente di nuova istituzione, bisognose di
stanziamenti di legionari a causa della turbolenza delle loro popolazioni. Su di esse l’imperatore
esercita direttamente il proprio potere di amministrazione a mezzo di uomini, LEGATI AUGUSTI,
scelti tra i senatori di rango consolare e proprio. Senza limitazioni di tempo, costoro governavano nel
solo rispetto delle istituzioni, MANDATA, che venivano loro consegnate al momento della partenza
per il luogo cui erano stati destinati.

11. Le finanze imperiali

L’amministrazione finanziaria durante il principato, viene progressivamente sottratta ai


rispettivi governatori e legati per essere direttamente gestita dall’autorità centrale tramite i
PROCURATORES FISCI.
La riscossione dei TRIBUTA, nelle provincie imperiali, avveniva ad opera dell’amministrazione del
fisco; in quelle senatorie, ritenute, al contrario, nella più piena disponibilità del popolo romano, si
procedeva invece alla riscossione degli STIPENDIA attribuendo l’onere dell’esazione alle
amministrazioni locali.
Mentre il gettito che derivava dal pagamento delle imposte delle provincie imperiali alimentava la
cassa del principe, quello che nelle senatorie proveniva dalla esazione dei tributi andava ad
incrementare l’AERARIUM POPULI ROMANI, interamente gestito dal massimo consesso durante la
repubblica e chiamato AERARIUM SATURNI in quanto collocato presso il tempio omonimo.
Contrapponendosi a questo, sia l’AERARIUM MILITARE, che il FISCUS, il PATRIMONIUM e la
RES PRIVATA, la sua presenza si allontana sempre più dai nostri occhi fino a dissolversi
completamente confondendosi con queste altre istituzioni fiscali.
Né risulta più chiaro il criterio di differenziazione delle due contabilità del PATRIMONIUM
PRINICPIS e della RE PRIVATA, entrambe affidate a dei PROCURATORES.
Alcuni punti essenziali dell’amministrazione finanziaria del principato.
In primo luogo, si vede come ad u patrimonio sterminato sembri sovrintendere un’organizzazione
burocratica capillare, impersonata prima da schiavi e liberti, poi da funzionari. Questi
PROCURATORES ebbero non solo funzioni amministrative, ma anche giudiziarie, in materia di IUS
FISCUS.
Sotto Nerva assume poi consistenza la visibilità del PRAETOR FISCALIS, e più avanti,
dell’ADVOCATUS FISCI.
Fu infine Adriano a dare una struttura più definita all’ufficio A RATIONIBUS di istituzione tiberiana:
da allora vennero ad esso affidati compiti di coordinamento dell’attività dei PROCURATORES, dei
PRAETORES, e degli ADVOCATI FISCI.

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12. Dal principato alla monarchia assoluta

E’ con un provvedimento adottato da Antonino Caracalla all’esordio del nuovo governo, che
si conclude, in età severiana, la storia degli assetti istituzionali del principato.
Il famoso intervento fu la COSTITUTIO ANTONINIANA del 212 d.C., che servì a concedere la
cittadinanza a quasi tutti gli abitanti liberi nel territorio romano. Le eccezioni furono trascurabili e
contemplarono solo i DELDITICII, di incerta identificazione. Quanto a statuto giuridico personale,
tutti i provinciali di tutti i territori dell’impero furono quindi uguagliati di fronte al potere centrale, il
quale così non riconobbe più, neanche sul piano formale, distinzione alcuna tra romani originarii e
popoli annessi.
Così dunque cominciò ad attuarsi il passaggio dalla costituzione del principato a quella della
monarchia assoluta.
La concessione della cittadinanza diede innanzi tutto incremento alla costituzione di centri locali di
autogoverno: molteplici invero furono le organizzazioni e autonomie amministrative cui si diede
luogo ad opera di quelle aggregazioni formatesi intorno agli accampamenti dei militari sparsi lungo
tutto l’impero e diventati poi nuclei di un discreto numero di moderne città europee.
Gli appellativi di DOMINUS ET DEUS, i quali si da Domiziano avevano documentato la devozione
dei cittadini per i loro imperatori, cominciano ad assumere, con la conclusione dell’età severiana,
piena valenza. Essi avvicinano realmente la figura dell’imperatore a quella del DOMINUS, se non a
volte addirittura a quella di un tiranno: da un lato per il crescere della forza militare, la quale veniva
utilizzata dai singoli comandanti come mezzo per un rapido conseguimento dello scettro imperiale;
dall’altro lato per lo sforzo, che diventa sempre più diffuso, di fondare il potere, oltre che sulla forza
delle armi, su una vocazione trascendente in grado di darne una nuova legittimazione.

I. LA GIURISPRUDENZA

1. Il ius publice respondendi e il problema della certezza del diritto

Anche nella prima fase del principato il diritto romano mantiene la caratteristica di un diritto
essenzialmente giurisprudenziale, nel quale cioè i giureconsulti, utilizzando i loro tradizionali
metodi interpretativi, danno la norma ad applicare al caso concreto.
Con un provvedimento , Augusto stabilì che determinati giuristi, da lui scelti, potessero dare i propri
RESPONSA fondandoli sull’autorità del principe, con ciò trasferendo loro, unici tra tutti i cittadini
romani, la sua UCTORITAS. Non bisogna pensare che ai giuristi a cui il principe non avesse
concesso il diritto di RESPONDERE EX AUCTORITATE fosse impedito di dare RESPONSA o di
scrivere libri giuridici.
Pomponio ricorda che Augusto aveva concesso ai giuristi il IUS PUBLICE RESPONDENDI “onde
accrescere l’autorità del diritto”. Con questa disposizione, il principe tendeva anche a esercitare un
controllo politico della giurisprudenza.
La connessione del IUS PUBLICE RESPONDENDI non soddisfa il bisogno degli imperatori di
porre in qualche modo sotto controllo la giurisprudenza ma anche quello di mettere ordine nella
confusione delle risposte dei giureconsulti, attribuendo con grande moderazione solo a alcuni di essi

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il diritto di fornire pareri che potessero vincolare i giudici e, quindi di creare istituzioni giuridiche
nuove. Col passare del tempo, però, anche questo sistema manifestò i propri limiti, poiché, non
potendosi evitare le divergenze, spesso profonde, tra le opinioni dei vari giuristi ufficiali, i magistrati
e i giudici si videro allegare dalle parti opinioni ugualmente autorevoli ma il più delle volte
contraddittorie, che li ponevano in imbarazzo creando loro ulteriori difficoltà per l’impostazione
delle controversie. Già dunque a partire dalla seconda metà del primo secolo, i principi limitarono
sempre più l’elargizione del IUS PUBLICE RESPONDENDI.

2. Le principali caratteristiche della giurisprudenza del principato

Mentre nel primo secolo d.C., i giuristi provenivano dal senato o erano di origine romano-
italica, nel corso del secondo secolo d.C., divennero sempre più numerosi quelli di rango equestre o
provenienti dalle provincie; in particolare modo, a cominciare dall’età di Adriano, i giureconsulti
esercitarono la loro attività no per percorrere la carriera politica ma per guadagnare posizioni
all’interno dell’apparato burocratico-amministrativo.
L’emissioni di risposte su richiesta dei privati, nel corso degli anni ebbe dei cambiamenti. La tecnica
del responso tese a diminuire, facendo spazio all’argomentazione, da parte dei respondenti, delle
loro opinioni. Allo stesso tempo, con l’esaurirsi del diritto pretorio, si ridusse l’attività del cosiddetto
AGERE, consistente nel dare risposte in tema di azioni processuali; come si ridusse anche l’attività
del c.d. CAVERE, cioè la collaborazione al compimento di atti negoziali, che, più a lungo
occupandosi soprattutto dei testamenti, andò ad estinguersi quasi completamente a causa del
diffondersi dei formulari.
Le forme letterarie divennero più numerose e articolate. Tra di esse ci furono:
1. Opere di casistica, consistenti di casi e problemi e che comprendono: LIBRI RESPONSUM,
pareri dati dal giurista su fatti reali; LIBRI QUAESTIONUM, casi per lo più immaginari ma
aderenti all’esperienza giuridica romana; LIBRI DIGESTORUM, antologie molto ampie di
RESPONSA e QUAESTIONES, con lo scopo di un’esposizione complessiva del diritto
onorario e di quello civile;

2. Opere di commento a testi giurisprudenziali, edittali e legislativi, che riguardavano: i


commentari ai LIBRI IURIS CIVILIS di Quinto Mucio e Sabino; quelli AD EDICTUM, del
pretore urbano in primis ma anche degli edili e governatori provinciali; i commenti alle
principali LEGES e ai SENATUCONSULTA normativi;

3. Opere di carattere didattico, consistenti in trattazioni sistematiche elementari, alcune


proprio per l’insegnamento, come i manuali di INSTITUTIONES, per i giovani discendenti,
altre, che sono raccolte di massime, definizioni, regole, opinioni, quali i LIBRI
REGULARUM, SENTENTIARUM, OPINIONUM, DIFFERENTIARUM;

4. Opere monografiche, su specifici temi, sia di diritto privato e di processo privato sia di diritto
pubblico, dal diritto fiscale e finanziario al diritto criminale, da quello militare al diritto che

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disciplinava l’esercizio delle cariche pubbliche.

3. Le scuole dei Sabiniani e dei Proculiani

La giurisprudenza, tra l’epoca di Augusto e Adriano, si caratterizzò per l’attività di due


scuole rivali, la sabiniana e la proculiana. Entrambe fondate da giuristi di età augustea, la prima da
Ateio Capitone, la seconda da Labeone, esse presero il nome dagli allievi di questi due grandi
maestri, e cioè da Masurio Sabino e da Proculo. Comunque gli storici convengono che non appaiono
reali distinzioni sul piano scientifico e metodologico.
La scuola sabiniana incluse: Ateio Capitone, Masurio Sabino, Cassio Longino, Celio Sabino,
Giavoleno Prisco, Aburnio Valente.
Capitone scrisse i LIBRI IURE PONTIFICIO, sul diritto pontificio, e i LIBRI
CONIECTANEORUM, in cui si raccolsero pareri e congetture su vari problemi di diritto privato e
diritto pubblico.
Masurio Sabino, ammesso solo in avanzata età all’ordine equestre, scrisse i famosi LIBRI TRES
IURIS CIVILIS e anche opere di diritto pubblico e sacro.
Cassio Longino , raggiunte cariche elevate, compose l’opera LIBRI IURIS CIVILIS, che gli diede
grande fama.
Celio Sabino compose un’opera sull’editto degli edili curuli (sedile simbolo della Roma giudiziaria),
e libri di diritto civile.
Giavoleno Prisco, fu console e governatore provinciale; scrisse libri di EPISTULAE, raccolta di
QUAESTIONES e RESPONSA su argomenti di diritto civile.
Aburnio Valente compose un’opera sui fedecommessi in 7 libri.
La scuola proculiana ebbe trai suoi principali esponenti: Nerva padre, Proculo, Nerva figlio, Pegaso,
Celso padre, Celso figlio, Nerazio.
Nerva padre fu giurista di grande cultura ma non si conoscono le opere.
Proculo scrisse libri di EPISTULAE e fu autore anche di alcuni RESPONSA.
Nerva figlio si occupò dell’istituto dell’usucapione, scrivendo i LIBRI DE USUCAPIONIBUS e
trasmise molti RESPONSA.
Pegaso scrisse il SC. PEGASIANUM, promulgato dal senato in tema di diritto ereditario.
Celso padre non si conoscono le opere.
Celso figlio, giurista di grande valore, scrisse i famosi 39 LIBRI DIGESTORUM, dedicati al IUS
HONORARIUM, con integrazioni tratte dal IUS CIVILE, e alle principali leggi dalle XII tavole alla
LEX CINCIA, a quella IULIA ET PAPIA.
Nerazio Prisco scrisse i libri di REGULAE e quelli di RESPONSA.

4. La giurisprudenza da Adriano a Commodo

Nell’età di Adriano, il contrasto tra Sabiniani e Proculiani fu superata soprattutto grazie


all’influenza di un grande giurista del mondo romano, Salvio Giuliano. Nato in Africa, egli ricoprì per

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due volte il consolato e fece parte del consiglio di Adriano e dei successori fino a Marco Aurelio. La
sua opera più famosa è i 90 libri di DIGESTA. Essi espongono in una prima parte, seguendo l’ordine
edittale, il diritto onorario e quello civile, in una seconda, analizzano varie leggi e costituzioni.
Tra il 134 e il 138, Adriano affidò a Giuliano il compito di compilare un testo unico e definitivo
dell’editto perpetuo, il quale d’ora in avanti avrebbe perso l’accezione di “annuale”, per acquisire
quella di “stabile”, “duraturo”.
Discepolo di Giuliano è il giurista Cecilio Africano; autore di libri di QUAESTIONES.
Nell’età tra Adriano e marco Aurelio vive Sesto Pomponio, autore di ampi commentari all’Editto e
alle opere di Mucio e Masurio Sabino. E’ anche l’autore di un’opera insolita: il LIBER SINGULARIS
ENCHIRIDII, quasi una storia giuridica di Roma.
Nell’età degli Antonini vive il giurista Gaio, ma di lui non si sa nulla, a parte la sua opera più nota le
ISTITUTIONES, formato da quattro libri, diretto all’insegnamento nelle scuole, che tratta, in
successione di argomenti, persone, cose e azioni. A lui sono attribuite anche le RES
COTTIDIANAE, un manuale per uso degli operatori del diritto.
Durante gli Antonini un altro giurista fu Florentino, che scrisse un manuale delle ISTITUTIONES,
ma diverso da quello gaiano, diviso in 12 libri, trattando prima i contratti, poi le persone, infine il
diritto ereditario.
Giurista molto acuto fu poi Ulpio Marcello, che in alcuni suoi scritti, soprattutto nei LIBRI
DIGESTORUM, riesamina criticamente il pensiero dei suoi predecessori.
Nel consiglio di Marco Aurelio è presente Cervidio Scevola, autore di LIBRI DIGESTORUM, libri di
RESPONSA, di QUAESTIONES, di REGULAE.
Infine figura singolare fu quella di Papirinio Giusto, autore di 20 LIBRI COSTITUTIONUM,dove
sono presenti costituzioni di Marco Aurelio e Lucio Vero.

5. Giuristi e principe

All’inizio del principato, Labeone è l’unico che si distacca da questo nuovo corso politico.
Era un uomo invaso da un’idea folle e smisurata di libertà. Il suo modello di sapere giuridico chiude
quella che è stata definita “rivoluzione scientifica” del pensiero giuridico romano, e pone le basi di
una nuova grande scienza con la quale gli imperatori dovranno fare i conti.
Però una parte della giurisprudenza andava maturando. Con le posizioni di Sabino che, prendendo le
distanze da Labeone, negava che le regole introdotte dai giuristi potessero di per sé avere un diretto
valore normativo. Inoltre insiste sul fatto che la regola debba anche fondarsi sulla BREVITAS,
rendendo cioè il più chiaro e certo possibile quello stesso diritto.
E’ nell’età degli Antonini che la giurisprudenza più illuminata compie un passo verso un’opera di
intervento col potere imperiale: se essa riconosce alla costituzione del principe tutta la sua
importanza come fonte di produzione normativa di un impero universale e comincia a utilizzarla nelle
sue opere, l’imperatore a sua volta riconosce alla scienza giuridica la sua funzione di consigliare e
orientare a tal punto da essere decisiva nelle stesso processo di formazione della LEX; i giuristi
diventano così gli autentici custodi della legittimità del potere, di una legalità che tutela ogni popolo
dell’impero.

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Questo intervento non sarebbe stato possibile senza l’aiuto decisivo dei funzionari della cancelleria
imperiale. I funzionari di tali uffici dovevano avere una profonda conoscenza delle opere dei giuristi:
nella redazione dei provvedimenti imperiali, essi erano tenuti a valutare le differenti correnti
scientifiche, estrarre i principii, adattare le soluzioni prospettate dalla dottrina ai fatti concreti
sottoposti all’attenzione del principe.
Giuristi, principe, funzionari della cancelleria rappresentano i tre soggetti protagonisti della nascita
di un diritto che ha il compito di rielaborare parametri giuridici universali, accettabili o condivisibili,
sul piano della ragione sia dell’etica, da un numero di uomini sempre più ampio.

6. La giurisprudenza dell’età dei Severi

L’epoca (193 – 235 d.C.) segnata dai principi appartenenti alla famiglia dei Severi ved e il
definitivo affermarsi dell’idea di un impero cosmopolitico. L’editto del 212 di Caracalla che concede
la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’impero costituisce l’emblema di questa nuovo storia.
Ciò che il principe dice e dispone costituisce la fonte principale dell’ordine giuridico. Non solo a
causa di tendenze assolutistiche verso cui l’impero stava andando, ma anche per oggettive necessità.
Infatti, siccome i funzionari non sempre conoscevano a pieno il diritto romano, l’attività del principe
era l’unico modo per risolvere dubbi di interpretazione e risolvere casi su opinioni diverse.
La funzione del giureconsulto non consiste più tanto nel dare responsi, ma piuttosto
nell’interpretare e divulgare il nuovo diritto nel partecipare al lavoro legislativo.
Tra i giuristi di maggior spicco, nell’età dei severi, sono Papiniano, Paolo e Ulpiano.
Papiniano, prefetto del pretorio sotto Settimio Severo, scrisse 37 libri di domande, seguendo lo
schema dei DIGESTA e utilizzando le costituzioni imperiali, poi 19 libri di risposte, de di definizioni
e due sull’adulterio.

Ulpiano, prefetto del pretorio sotto Alessandro Severo, tra il 212 e 222 scrisse opere di
carattere casistico, come discussioni e risposte, libri dedicati all’insegnamento, come quelli di
istituzioni, e commentari di insieme, quali i libri sull’editto del pretore e quelli sull’opera di Sabino.
Importanti le monografie pubblicistiche riguardo ai compiti dei funzionari imperiali, come i
proconsoli e i prefetti.
Paolo, anche lui prefetto del pretorio sotto Alessandro Severo, giurista di grande dottrina, scrisse
numerosi libri di domande e di risposte, di commento a leggi pubbliche, a senatoconsulti, all’editto
del pretore e alle opere dei giuristi anteriori, e anche brevi monografie su istituti di diritto civile. Un
ruolo significativo lo ebbero anche Marciano e Modestino, i quali si pongono il problema di divulgare
il diritto romano ai nuovi cittadini dell’impero, adoperando anche in qualche caso, le volgarizzazioni
per renderlo più chiaro e accessibile.
Nel complesso una caratteristica importante dei giuristi severiani è quella di essersi posti il problema
di raccogliere le molteplici fonti, dando a esse una prima sistemazione. Nell’esigenza di rendere
chiaro il diritto, di offrire a chi opera nell’ordinamento giuridico materiali certi per risolvere dubbi e
controversie, di raccogliere e riordinare le leggi dei principi, si comincia già a vedere la codificazione
che si avrà nel terzo secolo con il codice Gregoriano e Ermogeniano.
Dopo i giuristi severiani si è solito parlare di un tramonto della giurisprudenza a causa della terribile

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crisi del terzo secolo che colpirà a breve l’impero. Dopo i severi si conoscono solo due nomi di
giuristi di levatura scarsa, Ermogeniano e Arcadio Carisio, di epoca diocleziana- costantiniana.
Affiora un nuovo modello di giurista. Quello che lavora all’interno della cancelleria imperiale o a
stretto contatto con essa in maniera più anonima rispetto al passato, ma che è lo stesso
indispensabile.

II. IL DIRITTO PRODOTTO DAI COMIZI , DAL SENATO, DAI MAGISTRATI, DAL
PRINCIPE

1. L’ultima produzione legislativa dei comizi

Osservando le ultime leggi comiziali, del periodo augusteo, si capisce che il principe cercò di
realizzare la sua volontà riformatrice attraverso questi strumenti.
si può ricordare la legge IULIA ET PAPIA o le leggi FUFIA CANINIA, AELIA SENTIA e IUNIA
NORBANA, tutt’e tre votate negli anni compresi tra il 2 e il 4 d.C., con l’intento di limitare le
manomissioni. Lo scopo era anche quello di puntualizzare la condizione dei liberti, al fine di
contenere gli effetti che poteva avere un acquisto generalizzato della libertà e della cittadinanza: è
attraverso questi mezzi che Augusto portò avanti il suo programma di difesa e di incremento della
popolazione italica. Inoltre attraverso le leggi IULIAE DE AMBITU, DE VI PUBLICA ET
PRIVATA, SAMPTUARIA, DE COLLEGIIS, che il principe mostra attenzione verso i problemi di
ordine pubblico, comprendendo tra questi anche la legge IULIA DE ADULTERIIS COERCENDIS:
questi interventi normativi confermano come fu proprio la repressione dei comportamenti criminali
nel loro complesso ad essere al vertice delle preoccupazioni di Augusto.
Infine è con le due leggi IULIAE IUDICIARIE, IUDICIORUM PRIVATORUM e IUDICIORUM
PUBLICORUM, che fu ordinato nel 17 d.C. il processo criminale che si svolgeva davanti alle
QUAESTIONES PERPETUAE, mentre per il processo civile fu eliminato quello per legis actiones e
reso obbligatorio quello formulare.

2. La produzione normativa del senato

Durante i primi secoli dell’impero, comincia a nascere un potere normativo del senato
Oltre a compiti di guerra, finanze ecc, il senato aveva l’attribuzione di fornire direttive ai magistrati
sotto forma di consiglio: dando un parere sulle proposte di legge attraverso il senatoconsulto.
All’inizio del terzo secolo, il senato assunse la forma di un atto di normazione.
Il senatoconsulto sembra essere considerato, in questo periodo, non più come un esito
interlocutorio, ma conclusivo e finale di un procedimento di formazione della legge, perché ritenuto
emanazione di un potere diretto.
Gaio informa che le norme senatorie sono ciò che l’assemblea prescrive e stabilisce ed hanno forza di
legge
In età severiana un altro celebre giurista, Ulpiano, afferma categoricamente che il senato può fare il

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diritto

3. Cognitio praetoris e diritto prodotto dai magistrati

L’attività autonoma della normativa imperiale era ostacolata dal diritto pretorio.
Il diritto così prodotto in sede giurisdizionale viene descritto come un complesso di regole di cui si
evidenzia la funzione pratica di volta in volta sviluppata, che è ora d’aiuto come nel caso in cui un
singolo mezzo venga applicato al fine potenziare la tutela prevista; altre volte correttiva come quando
si tende ad una parziale modifica o ad una totale disapplicazione della disciplina esistente; infine
integrativa, come nell’ipotesi in cui si tenti di colmare eventuali lacune.
Al pretore si riconobbe la facoltà e la capacità di modificare l’assetto civilistico che era stato chiamato
ad applicare: non mettendo formalmente in discussione la supremazia dei quell’ordinamento, ma di
volta in volta regolando in secondo piano, fino a farla scomparire, la previsione normativa esistente.
La giurisdizione del pretore finì col dar luogo ad un diritto sostanziale completamente nuovo. Questo
diritto si definiva per la sua flessibilità.
Prodotto della giurisdizione magistratuale, il diritto pretorio dunque nasce e si consolida per
stratificazioni successive attraverso la normativizzazione che conseguono le singole decisioni, nei
limiti in cui, astrattizzate, vengono richiamate nell’editto di coloro che si susseguono nella carica. Ad
indirizzare sempre più i magistrati giusdicenti verso il compimento di questa funzione creatrice del
diritto, è proprio la natura stessa dell’editto giurisdizionale.

4. Il potere normativo imperiale: a) il fondamento; b) le forme della sua


manifestazione; c) la durata delle norme

a)
Con il termine (Gaio) CONSTITUTIO che si indicano i vari atti normativi del principe, assai diversi
l’uno dall’altro per quanto riguarda la loro efficacia nel tempo e nello spazio.
I segni dell’attività normativa imperiale sono da rintracciarsi negli editti, nei decreti, nelle Lettere,
nei riscritti, negli incarichi.
Il fondamento della costituzionalità di questi atti viene identificato ricollegando il potere normativo
del principe ad una legge dell’impero con cui si effettuò da popolo e senato un totale trasferimento di
funzioni.

b) Le forme con cui si manifesta l’attività imperiale


Con gli editti si può cogliere una somiglianza con la forma legislativa comiziale. Essi contengono
norme di carattere generale fondate sullo IUS EDICENDI, attributo del potere.
Non tutti potevano avere conoscenza degli editti imperiali, prima di tutto perché gli editti
magistratuali contengono solo un programma di giurisdizione; secondo, perché la loro durata è
limitata dal tempo della carica chi lo ha emanato; infine perché i confini del territorio italico
rappresentano il limite oltre il quale non si può estendere l’efficaci.

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Invece egli editti imperiali disciplinano questioni generali ed astratte rivolgendosi a tutti cittadini, la
loro durata va oltre il tempo in carica del preponente; la loro efficacia si estende a tutto il territorio
imperiale.
Il decreto e la lettera definiscono delle decisioni giurisdizionali imperiali su singoli rapporti
controversi sottoposti alla cognizione civile o criminale del principe.
Il decreto contiene la sentenza che conclude un procedimento svoltosi davanti al tribunale imperiale,
a volte in un'unica domanda, più di frequente in sede di appello, contro un precedente
provvedimento di primo grado.
Il decreto presuppone un’attività completa da parte del principe, dovendo anche occuparsi dei fatti
concreti, regolando ragioni e torti in base alle norme vigenti. Rispetto a questi i decreti hanno perciò
una funzione ricognitiva e confermativa.

L’EPISTULA contiene la decisione di una controversia di cui è investito un tribunale diverso


da quello imperiale. Essa viene trasmessa dall’imperatore al magistrato, risolvendo solo la questione
di diritto, chiama il giudice a riscontrare la concordanza della decisione dei fatti.

Il RESCRIPTUM è la risposta che si scrive in calce alla richiesta di parere avanzata da un


privato. Queste domande sono prodotte attraverso LIBELLI, PRECES, e

SUPPLICATIONES, rivolte all’autorità imperiale per conoscerne il giudizio, mirano a


mettere fine a una controversia che si svolge davanti a un tribunale che non è quello imperiale: anche
in questo caso l’applicabilità della decisione è subordinata all’attività del giudice che valuta la
possibilità di risolverla.
Né la lettera né il rescritto estendono però immediatamente la loro efficacia al di là del caso concreto.
L’attività rescribente comincia a farsi più viva a partire dall’età degli Antonini per diventare poi il
principale strumento di manifestazione della volontà normativa imperiale.

I MANDATA erano istruzioni generali in materia processuale, amministrativa, e finanziaria,


consegnate o trasmesse dal principe ai propri funzionari e ai governatori delle provincie senatorie.
Solo con Marciano che vengono richiamate le norme che attraverso i MANDATA sarebbero state
introdotte.

c) L’efficacia nel tempo.


Per quanto riguarda gli editti, contenendo un GENERALE PRAECEPTUM, viene riconosciuta una
efficacia duratura.
Per quanto riguarda, invece, le decisioni adottate dal principe in sede giurisprudenziale (DECRETA,
EPISTULAE, RESCRIPTA) la loro efficacia si estende nel tempo solo quando si riesce a sollevarle
dal piano dei provvedimenti giurisprudenziali a quello delle manifestazioni normative attraverso
l’opera mediatrice dell’interprete, che ne rivela i principi normativi dopo aver eliminato sia le
decisioni aventi ad oggetto fatti particolarissimi, sia quelle non suscettibili di applicazione analogica
perché animate solo dall’intento di favorire persone o comunità determinate.

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5. Cognitio principis e diritto privato dai funzionari imperiali.

Portatosi al vertice delle istituzioni ed assunta la titolarità esclusiva delle funzioni legislative,
l’imperatore sembra proporsi come propulsore e moderatore unico dell’evoluzione
dell’ordinamento.
Il principe cioè tende a succedere al pretore nel disimpegno della funzione giurisprudenziale
presiedendo un tribunale privo di limiti, quanto a competenza per materia e per territorio, e con
funzioni di giudice di secondo grado sulle decisioni già rese e non solo dai funzionari
gerarchicamente subordinati all’autorità imperiale.
Dal secondo secolo in avanti, l’imperatore si era sforzato di adeguare il proprio tribunale alla
manifestazione di compiti di giurisdizione: da un lato regolandone il funzionamento e
coinvolgendovi i rappresentanti più autorevoli del pensiero giuridico, dall’altro disciplinando la
COGNITIO PRINCIPIS di origine augustea.
Tramite essa gli imperatori avevano cominciato a intervenire EXTRA ORDINEM IUDICIORUM. A
volte per modificare il deliberato di un giudice, per il cui riesame si ricorreva al principe. Altre volte,
per dare tutela giuridica a rapporti rimasti estranei alla sfera dell’ordinamento, o per far rientrare in
quella dei funzionari imperiali destinati alla giurisdizione rapporti un tempo di competenza del
giudice ordinario.
Aveva così preso vita una nuova attività giurisdizionale, strutturalmente più incline ad intrecciarsi
con lo svolgimento di funzioni normative.

CAPITOLO 3
IL DIRITTO PRIVATO

1. PERSONE E FAMIGLIA
1a. Sviluppi nel regime degli status personali

Per le istituzioni di Gaio la parte dedicata alle persone si apre attribuendo alle classificazioni
tra liberi e schiavi la portata di summa diviso in quando presupposto di altra condizione soggettiva,
solo per i liberi aveva poi senso precisare se tale qualifica sussiste dalla nascita o a seguito di
manomissione, , distinguere fra cittadini romani o no, patres familias o alieni iuris. Il testo gaiano ci
consegna l’immagine di un’assoluta centralità di una simile dicotomia tale da incidere su ogni aspetto
della vita.
Al inizio del III secolo d.C emerge il motivo della contrarietà al diritto naturale della schiavitù, il cui
riconoscimento si sarebbe realizzato su l piano del ius gentium.

La nozione di persona
Gaio trattava il regime delle persone, la sua scelta e’ ricondotta al “umanesimo” che connotò l’età
degli Antonini. Il più risalente significato della parola persona e’ quello che viene infatti a designare il
ruolo assunto sulla scena del ius, ove la prima parte attribuita a ciascuno e’ appunto quella del libero e

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schiavo.
Solo nei secoli a noi più vicini l’assegnazione della qualifica di persone e servi ha comportato il
riconoscimento della capacita giuridica, ma perche’ una categoria si e’ venuta a combinare con l’altra,
quella di soggetto di diritto, in precedenza il sintagma di subiectum iuris viene attestato con
significato di soggetto al diritto. Per Gaio lo schiavo era un persona in quanto il diritto li conferisce il
ruolo di servus, senza che ciò elida la sua distanza da un uomo libero.

La cittadinanza romana nella cosmopoli imperiale

L’imperatore Antonino Caracalla concede la CITTADINANZA ROMANA a tutti gli abitanti


dell’Impero. Nel 212 d.C., dalla mattina alla sera, TUTTI gli abitanti dell’Impero diventano cittadini
Romani, CIVES ROMANI.
[i maligni potrebbero dire, diventano tutti sudditi dell’Imperatore]

1b. Nuove configurazioni della famiglia


La condizione giuridica di filii familias e donne

Le innovazione della vita e della sensibilità sociale condussero ad un miglioramento del


regime giuridico dei filii familias e donne, la posizione dei ff. conobbe positive trasformazioni sotto
tanti aspetti, la mancanza in capo ad essi di capacita giuridica già da tempo superata in campo
pubblico, subbi tante eccezioni anche nel diritto privato, e per alcuni beni fu riconosciuto al ff. una
personale proprietà con conseguente facoltà di disporne, dapprima con atti mortis causa poi anche
inter vivos.
Per le donne divenne meno gravosa la tutela, la cui esigenza era ancora ricondotta ad una loro
presunta leggerezza d’animo, fu riconosciuta la possibilità di essere esentate dalla tutela medesima,
ove avessero tre figli o quattro, e di provvedere loro stesse all’individuazione di un tutore destinati a
trovare una maggiore applicazioni rispetto a quelli legittimi.

Il matrimonio fra mutamenti sociali e legislazioni imperiali


Nel età del principato vi verifica il progressivo restringimento del diritto di interrompere
l’unione dei coniugi da parte dei rispettivi patres. La libertà di scioglimento del matrimonio per
accordo reciproco o decisione unilaterale si prestava ad abusi e strumentalizzazioni cui non era
estranea una certa disinvoltura nella vita affettiva e sessuale.
Cosi con questa nuova legislazioni vengono ad esistere una serie di prescrizioni per i non sposati: il
divieto di contrarre nozze con alcune categorie di donne, le sanzioni di natura penale e patrimoniale,
contro le mogli colpevoli di adulterio, e i mariti che a conoscenza di ciò non hanno tempestivamente
divorziato, ma fu anche riconosciuta la possibilità di contrarre matrimonio con la figlia del fratello, e
cosi si consenti il matrimonio di Agrippina con suo zio, l’imperatore Claudio.

2. LE SUCCESSIONI A CAUSA DI MORTE


2a. La successione in assenza di testamento
Persistenza ed innovazioni

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Uguale età repubblicana


Accanto a figure nella successione iure civili le più rilevanti innovazioni riguardano varie ipotesi di
indegnità, ossia situazioni in cui un soggetto chiamato per legge ad ereditare i beni di colui contro la
cui persona avesse commesso gravi colpe, si vedeva privato di tali acquisti che venivano rivendicati
dall’erario.

Il nuovo rilievo della cognatio


Il senatoconsulti Tertulliano e Orfiziano:
Tali senatoconsulti migliorarono la reciproca posizione successoria tra madre e figli. Poiché, i
senatoconsulti erano fonte di ius civile, madre e figli sarebbero divenuti “eredi”, e come tali ammessi
pure alla bonorum possessio ab intestato nella classe dei legitimi.
In questa età per la prima volta acquisiva rilievo sul piano del ius civile, la figura della cognatio, e si
aveva un riqualificazione anche in sede pretoria di quei soggetto che sarebbero stati successori sono
il sede di bonorum possessio unde cognati, e venivano ora riconosciuti nella categoria dei legittimi.

2b. La successione in conformità al testamento


Definitivo assetto del testamentum per aes et libram
Testamentum per æs et lìbram
Forma testamentaria creata nel II sec. a. C. dalla giurisprudenza pontificia; diffusasi con estrema
rapidità, essa finì per diventare la più ricorrente.
Il (—) si sviluppò allorquando si cominciò ad ammettere che l’atto di nomina dell’erede potesse non
avere le formalità della adrogàtio e delle solennità comiziali: l’atto in questione poteva essere
inserito, invece, all’interno di un negozio avente la struttura della mancipàtio familiæ .
Il familiæ èmptor nel (—), interveniva solo formalmente, non acquistando nulla e non ingerendosi
nella esecuzione delle disposizioni: il testatore, mediante una sua dichiarazione (nuncupàtio),
consegnava semplicemente il testamento al familiæ èmptor.
La redazione del testamento avveniva in presenza dei cinque testimoni e del lìbripens , ma il più delle
volte il testatore recava le tavolette già preparate in tutta la parte dispositiva: a ciò si accompagnava un
breve processo verbale che attestava le avvenute formalità della mancipatio familiæ. Le tavolette
erano poi sigillate dai sette soggetti intervenuti.
Per la coscienza sociale era considerato importante l’esecuzione della volontà del testatore: per tale
motivo tra le formalità si diede massimo valore alla nomina dell’hères e ai sigilli delle sette persone (5
testimoni, libripens e familiæ emptor).
Quanto alle altre formalità, nel caso in cui vi fosse stato un errore nella pronuncia delle dichiarazioni
rituali (del testatore o del familiæ emptor), il pretore ritenne di intervenire, attribuendo la bonòrum
possèssio secùndum tàbulas a chiunque risultasse nelle tabulæ erede di un testamento, pur se il
testamento fosse nullo per il ius civile a causa di errori commessi nella pronuncia delle dichiarazioni
rituali: peraltro, occorreva sempre che le tabulæ fossero state sigillate da sette cittadini.
Il (—) veniva anche detto testamento civile (iure civili), in contrapposizione a quello pretorio.

Fideicommìssum [Fedecommesso]

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Il (—) era quella disposizione di ultima volontà, di per sé inidonea a produrre effetti secondo il iùs
civile , con la quale il testatore, in forma non di comando, bensì di preghiera, si rivolgeva a colui che
aveva istituito erede, o legatario, affinché compisse, dopo la sua morte, una data attività a favore di
un’altra persona.
La pratica di effettuare attribuzioni mortis causa per (—) oltreché per legato, si affermò in Roma verso
la fine del periodo classico, e produceva, in capo all’onerato, un mero obbligo morale, non giuridico.
Augusto stabilì che, nel caso di inadempimento particolarmente riprovevole, il beneficiario del
fedecommesso potesse agire extra òrdinem rivolgendosi ad uno speciale pretore, il prætor
fidecommissarius. In seguito Claudio concesse la cognitio extra ordinem per ogni tipo di
fedecommesso, facendo assurgere quest’ultimo, per la sua libertà di forme, nonché per la
molteplicità dei fini per suo tramite conseguibili, a sistema diffuso nella pratica, che si affiancò al
sistema dei legati. L’oggetto del (—) non era tipico, in quanto per mezzo di esso si poteva disporre la
restituzione dell’intera eredità o di una sua quota (sostituzione fedecommissaria , la liberazione di
schiavi o acquisti a titolo particolare. Particolarmente rilevante era il c.d. fidecommesso di famiglia,
con il quale si disponeva che non fosse alienata la casa paterna: in questo caso l’oggetto vincolato o la
quota vincolata dovevano essere trasmessi intatti dall’uno all’altro membro della famiglia, in
conformità delle indicazioni del testatore e, in mancanza, secondo il criterio della prossimità.
Le differenze fondamentali tra legati e fedecommessi erano le seguenti:
— i legati dovevano essere disposti, secondo forme tassativamente determinate, nel testamento o in
appositi codicilli; i fedecommessi potevano essere disposti in qualsiasi forma;
— i fedecommessi potevano essere disposti, al contrario dei legati, anche a favore di persone prive
della testamènti fàctio passiva ;
— la tutela del legatario si realizzava secondo lo schema della cognitio ordinària; quella del
fedecomesso in base alle regole della cognitio extra ordinem.

Testamentum mìlitis [Testamento del soldato]

Forma testamentaria speciale di creazione postclassica: fu un testamento privo di formalità rigorose,


la cui confezione era consentita oltre che ai militari, anche ai civili che, in tempo di guerra, seguivano
l’esercito.

Querèla inofficiòsi testamènti

Era un’azione giurisdizionale per sacramentum, mediante la quale gli stretti parenti del de cuius,
anche se espressamente diseredati, impugnavano il testamento. Se infatti non vi era una giusta causa
di diseredazione si riteneva che il de cuius venisse meno al dovere di provvedere ai suoi più stretti
parenti se non avesse loro riservato almeno un quarto di quanto sarebbe loro spettato in caso di
successione ab intestato. Con la (—), quindi, il querelante otteneva addirittura per l’intero (e non più
per un quarto) la sua quota ab intestato.
L’istituto della legittima non fu introdotto nell’ordinamento giuridico romano per legge, ma fu creato

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in via di interpretazione mediante diversi espedienti: se il testatore, senza giustificato motivo, non
aveva beneficato adeguatamente determinati congiunti, il testamento veniva considerato
inofficiòsum, cioè non conforme al dovere (offìcium) che il testatore stesso aveva verso i congiunti. In
giurisprudenza si fece ben presto largo la convinzione che un testamento inofficiosum non potesse
provenire da una persona sana di mente: si ritenne, pertanto, che quel testamento potesse essere
impugnato come nullo, quasi come se fosse stato fatto da un infermo di mente (sub colòre insaniæ).
La dottrina afferma che originariamente il diseredato era ammesso all’esercizio della hereditàtis
petìtio , che si poteva, altresì, rivelare in molti casi inadeguata: la (—), invece, fu tipica del regime della
cognìtio extra òrdinem, dove il magistrato, dotato di ampi poteri, poteva decidere delle sorti del
testamento.
Nel periodo classico, la (—) poteva essere esercitata dai liberi, dai genitori del de cuius,
nonché dalle sue sorelle o dai fratelli, nel termine di cinque anni dall’acquisto dell’herèditas; il
giudizio era rimesso alla discrezionalità del giudice, per quanto riguardava l’accertamento
dell’effettiva violazione dell’officium pietàtis (in linea di principio, si riteneva che il de cuius dovesse
riservare ai parenti stretti almeno 1/4 di quanto sarebbe loro spettato in caso di successione ab
intestato).
L’esercizio vittorioso della (—) non attribuiva all’attore una quota dell’asse ereditario, ma valeva solo
ad invalidare il testamento, provocando l’apertura della successione legittima ; la soccombenza del
querelante produceva, al contrario, la perdita di tutto ciò che gli era stato attribuito nel testamento.
La giurisprudenza postclassica, per ovviare ad alcuni inconvenienti legati al regime della (—) negò
l’esercizio di tale mezzo giurisdizionale a chi fosse stato comunque destinatario di una attribuzione
successoria, anche se insufficiente, riconoscendogli, però, in tal caso una “actio ad supplendam
legitimam”, intesa ad integrare l’attribuzione ottenuta.
Ove possibile, si tendeva, peraltro, in applicazione del fàvor testamenti a non invalidare del tutto il
testamento, lasciando in vita, con sottili accorgimenti, quelle disposizioni che non erano
incompatibili con la tutela dei congiunti, salvando in ogni caso i legati e le manomissioni.

3. Il processo privato
3a. Il processo formulare nel principato
la legittimazione augustea

L PROCESSO FORMULARE
Nel processo per legis actiones sono tutelate le situazioni giuridiche riconosciute:
dallo ius civile
erano ammessi solo i cittadini romani
Con l’intensificarsi delle relazioni commerciali tra romani e stranieri, vi era l’esigenza di strutture
processuali diverse. La figura del pretore urbano consentiva ed imponeva agli interessati di litigare
per formulas, cioè nasce il “processo formulare” che si realizza in forza dei poteri del pretore (iuris
dictio e imperium).
Dinanzi al pretore urbano si poté litigare:
per legis actiones

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per formulas
Ma un solo pretore non bastò e venne istituito un secondo pretore, il praetor peregrinus (242 a.C.),
con il compito di dicere ius tra:
cittadini romani e stranieri anche solo tra stranieri.
Abolizione delle legis actiones:
Le legis actiones andarono sempre più a manifestarsi inadeguate, e quindi soppresse
Il processo formulare andò a sostituire le legis actiones
Il processo formulare divenne il “processo privato ordinario” per tutta l’età classica.
Il processo formulare fu applicato a Roma, in tutto il territorio italico e buona parte delle province.
I caratteri del processo formulare:
Il processo formulare aveva carattere unitario: aveva un solo procedimento per qualsiasi actiones.
Per ciascuna actiones era previsto nell’editto una diversa formula.
Il procedimento, aperto ai cittadini romani e non, era diviso in 2 fasi:
In iure
Apud iudicem.
Le due fasi con funzioni analoghe al processo per legis actiones, ma con una differenza: Nel processo
per legis actiones, le parti erano ammesse ad esprimere le loro ragioni solo nella fase apud iudicem
Nel processo formulare, sia nella fase in iure sia nella fase apud iudicem.
Introduzione della scrittura nel processo formulare.
La chiamata in giudizio (ius vocatio):
Per assicurare la presenza dell’avversario si provvedeva con il ius vocatio.
Era un atto privato
Compiuto dall’attore il quale invitava l’altra parte a seguirlo dinanzi al magistrato
Nel processo formulare, se il vocatus si rifiutava di seguirlo in giudizio, l’attore non poteva far ricorso
all’uso della forza, ma era infatti compito del pretore esercitare la coazione indiretta contro il vocatus
che non avesse seguito l’attore.
Più avanti venne usato il vadimonium, che fece decadere in ius vocatio.
Nel vadimonium era lo stesso convenuto a promettere all’avversario di comparire dinanzi al
magistrato nel giorno concordato.
La fase in iure:
Venivano fissati i termini giuridici della lite
Presenza attore, convenuto e magistrato iuris dictio.
Il magistrato con la datio actiones approvava il testo della formula (detta anche iudicium – azione
giudiziaria, causa, processo) concordata tra le parti e concedeva l’azione richiesta.
La FORMULA: era un breve documento scritto dove c’era
il nome del giudice
la futura sentenza
termini della controversia determinanti per la decisione
I magistrati giusdicente erano:
Pretore urbano
Pretore peregrino

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Edile curule
Governatori provinciali
Tutti coloro che esercitavano giurisdizione sulla base dell’editto (maggiore importanza, l’editto del
pretore urbano)
Dinanzi al pretore le parti manifestavano le proprie ragioni
L’attore indicava all’avversario la formula dell’azione che intendeva promuovere facendo riferimento
all’albo pretorio (editio actionis) che riproduceva l’editto, dove erano indicati i diversi modelli delle
formule.
Faceva seguito la postulatio actionis che era rivolta al pretore, nella quale l’attore chiedeva che si
procedesse con l’azione indicata. (l’attore indicava la sue pretese)
Se il convenuto non ammetteva: dibattito informale tra le parti con la partecipazione del pretore.
01 ) Denegatio actionis: quando il pretore ritenesse infondata o iniqua la pretesa dell’attore. In questo
caso la parte attrice rimaneva impregiudicata
perché la denegatio non era una sentenza.
02 ) La formula e la datio actionis: spesso però il pretore dava l’azione; con la
datio actionis dava il via al procedimento.
03 ) La litis contestatio: una volta che il pretore fosse stato d’accordo sul testo
della formula compiva la datio actionis: la iudicium dabat, dava cioè l’azione richiesta autorizzando il
procedimento sulla base della formula.
a. L’attore recitava il contenuto: iudicium dictabat

b. Il convenuto accettava: iudicium accipiebat

c. Erano tutti degli atti volontari che costituivano la litis contestatio:


i. Dare iudicium del pretore
ii. Dictare iudicium dell’attore

iii. Accipere iudicium del convenuto

d. La litis contestatio:
i. Presupposto indispensabile per dare un giudizio di merito ad
una questione controversa

ii. Aveva effetto preclusivo: non poteva essere ripetuta


iii. Aveva effetto conservativo: qualunque evento successivo
non l’avrebbe pregiudicata
L’indefensio: quando il convenuto assumeva un atteggiamento passivo di
04 )
non collaborazione all’istituzione della lite (indefensio), il pretore minacciava sanzioni diverse.
La litis contestatio chiude la fase in iure.
La fase apud iudicem:

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Avveniva davanti al giudice che aveva deciso la controversia.


Il giudice non era un pretore ma un cittadino privato, infatti, era scelto dalle parti in comune accordo
con il magistrato.
Il nome di tale giudice compariva all’apertura della formula: “Titius iudex esto” (Tizio sia giudice)
Il giudice poteva essere :
una persona singola (iudex unus)
organi collegiali (recuperatores) : erano 3 al max; giudicavano nei giudizi di libertà e alcuni delitti più
gravi (rapina e iniuria – offesa, ingiuria)
Nel processo formulare valeva il principio indicato nelle XII Tavole: se una parte era assente oltre
mezzogiorno del giorno fissato per l’udienza apud iudicem, il giudice avrebbe dovuto decidere in
favore nella parte presente. Se erano presenti entrambi le parti, il procedimento si svolgeva senza
alcun formalismo.
Ciascuna parte esponeva le proprie ragioni:
L’attore l’onere di provare la propria pretesa
Il convenuto negare la pretesa.
I 2 contendenti dovevano dimostrare l’inconsistenza delle prove avversarie.
La fase apud iudicem si concludeva con la sentenza era definitiva:
Condanna del convenuto: era sempre espressa in denaro e dava luogo alla obligatio iudicati.
Assoluzione del convenuto
Le parti “ordinarie” della formula:
la formula era divisa in più partes:
1 Nomina del giudice (iudicis nominatio: Titius iudex esto)
4 ordinarie:
intentio: non poteva mancare, era la pretesa vantata dall’attore; caratterizzava la formula, indicava la
natura e consentiva di stabilire il tipo d’azione. L’intentio poteva essere certa o incerta:
certa: quando la pretesa era determinata
incerta: negli altri casi
demonstratio: indicava la causa, la fonte e i fatti che avevano dato vita alla pretesa; non tutte le formule
avevano demonstratio e cioè non erano espresse; iniziava con la parola “quod” (poiché); era collocata
prima dell’intentio.
condemnatio: invitava il giudice a condannare il convenuto, se sussistevano le condizioni nella stessa
formula indicate, oppure ad assolverlo. Perché la condanna pecuniaria non superasse certe limiti, la
condemnatio era integrata da una taxatio.
adiudicatio: era prevista solo nelle formule di azioni provvisorie ( actio communi dividundo) o azioni
per il regolamento di confini (actio finium regundorum) e autorizzavano il giudice ad “aggiudicare” ai
partecipanti alla comunione o ai confini.
La praescriptio (titolo, intestazione, preambolo):
Poteva figurare nella formula
Era scritta prima della iudicis nominatio, con cui la formula vera e propria iniziava: da qui la
denominazione. Era un rimedio che giovava l’attore.
L’exceptio (eccezione, clausola):

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Era un rimedio a favore del convenuto Nella formula era inserita:


Prima della condemnatio
Dopo l’intentio.
Era una condizione negativa della condanna. Il giudice avrebbe dovuto:
Condannare il convenuto solo se le circostanze dedotte nell’exceptio non risultassero vere.
Assolvere il convenuto
Era richiesta dal convenuto stesso
Era inserita nella formula a richiesta del convenuto
L’exceptio era un rimedio pretorio, cioè un mezzo d’attuazione dell’equità pretoria volta a
correggere lo ius civile.
Era diversa dalla denegatio actionis.
L’attore, dopo l’exceptio, poteva porre una replecatio, che se fondata avrebbe dato la possibilità al
giudice di non tener conto dell’exceptio.
Classificazioni delle azioni:
Le actiones era classificabili in categorie:
Azioni civili e azioni onorarie (spesso azioni pretorie):
Azioni civili: fondate sullo ius civile
Azioni onorarie: fondate sul diritto onorario.
L’appartenenza a quale tipo di categoria si stabiliva dall’intentio della formula, a seconda che essa la
pretesa attrice apparisse o non fondata sullo ius civile.
Erano fondate sullo ius civile:
Appartenenti allo ex iure Quiritium
Spettanti ad uno ius
Obbligazioni a carico del convenuto espressa col verbo oportere.
Ogni altra pretesa era diritto onorario.
Il pretore:
Riproduceva nell’editto i modelli delle formule-tipo, sia civili che pretorie:
Le azioni civili: erano fondate nello ius civile e bastasse che l’editto le contemplasse
Le azioni pretorie: avevano fondamento in apposite clausole contenute nello stesso editto. In sintesi:
ogni azione pretoria presupponeva una promessa edittale.
IUDICIA BONAE FIDEI
Iudicia bonae fidei era tra le azioni civili.
Era un’azione in personam, nella cui intentio c’era scritto “oportere ex fide bona”(che esprimeva
l’obbligazione del convenuto), in modo che il giudice fosse invitato a stabilire secondo i criteri di
buona fede.
AZIONI PRETORIE
a. Le azioni pretorie erano dei rimedi per riparare delle lacune dello ius civile. Potevano essere:
i. Utiles (facevano rif. a ius civile)
ii. Con trasposizione di oggetti (facevano rif. a ius civile)
iii. In factum (no riferimento: ius Quiritium, a ius, oportere)
Actiones in rem e actiones in personam:

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Actio in rem: la pretesa attrice era nell’intentio ed era erga omnes. Il giudice doveva accertare il
potere assoluto dell’attore sulla cosa della controversia. Ciò è un diritto verso una cosa => riguardava
i diritti reali
Nell’intentio: figurava solo il nome dell’attore
Nella condemnatio: figurava il nome dell’attore e del convenuto
Actio in personam: la pretesa dell’attore (creditore) era verso un soggetto
determinato (debitore), il quale era tenuto ad un certo comportamento.
La pretesa dell’attore ha carattere relativo e non assoluto, infatti il nome del convenuto e dell’attore
erano scritti sia nell’intentio che nella condemnatio.
Si parla di diritti verso una persona => diritti relativi
Entrambe le azioni avevano diverso regime processuale e diversi regimi degli effetti preclusivi della
litis contestatio.
Le azioni arbitrarie:
Le azioni arbitrarie erano azioni la cui formula conteneva una particolare clausola: la clausola
restitutoria o arbitraria.
Con questa clausola il giudice, dopo aver verificato l’intentio, prima di procedere alla condanna
pecuniaria avrebbe dovuto invitare il convenuto a restituire oppure a ondannarlo solo in caso di
mancata restituzione.
Nel caso in cui il convenuto su invito del giudice non avesse restituito, a stabilire l’importo della
condanna pecuniaria sarebbe stato l’attore sotto giuramento. Solitamente l’attore avrebbe giurato
una somma molto più elevata di quella del mercato.
La clausola restitutoria valeva solo nei casi in cui la pretesa dell’attore non fosse in denaro (diritti
reali).
Azioni penali e azioni reipersecutorie:
Tali azioni riguardano il diritto privato. Azioni penali:
o Erano azioni in personam
o Poenam persequimur: il privato vittima dell’illecito perseguiva l’autore
dell’illecito con una pena che aveva funzione punitiva. o La pena poteva essere:
♣ Pecuniaria: era percepita dalla stessa vittima
♣ Corporale: veniva inflitta dalla vittima, e non ai suoi eredi; si
comulava contro più responsabili, era civile o pretoria. Azioni reipersecutorie:
o Rem persequirum: si perseguiva la res, intesa come ogni interesse patrimoniale che si considerava
leso.
o La funzione era risarcitoria.
o Le azioni reali erano tutte reipersecutorie, le azioni in personam no.
Col passare del tempo le azioni penali tendevano ad unirsi sempre di più alle azioni reipersecutorie,
facendo in modo che nascessero azioni “miste”: il diritto penale da diritto privato entra a far parte del
diritto pubblico.
Nascono poi un tipo particolare di azioni penali: actiones noxalis:
o Erano delle azioni penali che si esercitavano per gli illeciti commessi da soggetti a potestà:
♣ Schiavi

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♣ Filis familias.
o La formula era data come noxalis contro l’avente potestà, dominus o pater
familias.
Actio iudicati:
Era un actio iudicati, un actio in personam, che serviva per l’esecuzione della sentenza. Aveva 2
presupposti:
• Condanna espressa in denaro

• Il fatto che il debitore non avesse adempiuto al pagamento entro 30gg.

♣ L’atteggiamento del convenuto che si fosse opposto negando i presupposti dell’azione costituiva la
condanna al doppio in caso di contestazione infondata.
Procedure esecutive contro il iudicatus: L’esecuzione contro il iudicatus poteva essere:
o Personale: quando, nel caso di mancato pagamento, l’attore poteva tenere nelle proprie carceri il
convenuto finché non avesse estinto il debito o col denaro o con il lavoro.
o Patrimoniale: si parla di bonorum venditio.
Era l’alternativa introdotta dal pretore all’esecuzione personale e avveniva così:
o Missino in bona: il pretore immetteva il creditore nel possesso dei beni
del debitore, funzione di custodia e conservazione
o Proscriptio: con cui si dava notizia della procedura a tutti gli altri
creditori, in modo di dar loro l’opportunità di intervenire. Se il debitore, trascorsi 30 gg dalla
proscriptio senza che il creditore fosse stato soddisfatto, diventa infamis.
o Nomina di curator bonorum: nominato dal pretore per gestire provvisoriamente il patrimonio del
debitore.
o Nomina di magister bonorum: nominato dai creditori per preparare la vendita all’asta dello stesso
patrimonio e stabilire anche delle condizioni.
o Bonorum venditio: la vendita veniva fatta quando venivano approvate le condizioni. Vinceva la gara
e quindi acquistava in blocco in tutto chi offriva di pagare la più alta percentuale dei debiti:
l’acquirente era detto bonorum emptor.
Procedure esecutive in assenza di giudicato:
L’actio iudicati presupponeva un precedente iudicatum.
Si poteva in ogni caso dare luogo a procedure esecutive senza avere una precedente sentenza di
condanna.
Cessio bonorum e bonorum distractio :
Erano procedure molto severe sia l’esecuzione personale sia quella patrimoniale. Esistevano delle
eccezioni:
Al debitore insolvente, la cui insolvenza giuridica non era ugualmente imputabile l’insolvenza
morale, si consentì la cessio bonorum, cioè la cessione volontaria di tutto il patrimonio ai creditori:
era una procedura concorsuale nella quale veniva venduta all’asta e acquistati dei beni da un bonorum
emptor, ma non una proscriptio e infamia.
L’esecuzione personale e l’infamia si risparmiarono in virtù di una disposizione dell’editto a taluni

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incapaci. In questi casi, il pretore nominava un curator bonorum, il quale provvedeva a soddisfare i
creditori con il ricavato della vendita dei cespiti patrimoniali ereditari. Si parlava di bonorum
distractio.

I rimedi pretori:
Nell’ambito del processo formulare, il pretore apprestava dei rimedi propri, che erano:
Denegatio actionis Exceptio
Actiones utiles
Azioni con trasposizione di soggetti
Actiones in factum
Altri rimedi pretori furono:
Gli interdicta:
Interdire: impedire, proibire.
Interdicta: erano ordini pretori che vietavano determinati comportamenti.
Gli interdicta erano emessi su domanda di un privato e contro un altro privato. Erano di 3 tipi:
o Prohibitoria (che vietavano)
o Restitutoria (che ordinavano di restituire) o Exhibitoria (che ordinavano di esibire)
Gli interdicta erano tipici ed erano previsti nell’editto per singoli tipi, infatti ogni caso diverso era
precisato.
La in integrum restitutio:
È considerata tra i rimedi pretori come corrigendi iuris civilis gratia.
Era il ripristino della situazione giuridica precedente all’evento.
Nel processo: era il pretore a decidere nel contraddittorio tra le parti la sussistenza o no delle ragioni
per la concessione della restitutio.
Le cautiones, o stipulationes praetoriae:
Erano rimedi pretori ai quali si ricorreva quando mancava un obbligo giuridico al compimento di una
certa prestazione e il pretore riteneva invece giusto che quell’obbligo ci fosse.
Le missiones in possessionem:
Erano disposte dal pretore con decretum.
In forza della missio l’interessato era autorizzato ad immettersi in possessionem di un bene o di un
patrimonio.
Questi rimedi pretori si davano solo se erano previsti nell’editto.
La scomparsa del processo formulare:
Per tutto il corso dell’età classica, il processo formulare fu il procedimento ordinario per le liti tra
privati.
Fu abolito con l’avvento dei figli di Costantino, Costanzo e Costante. (342), ma subentrerò il
concorso delle cognitiones extra ordinem.

3b. LE COGNITIONES EXTRA ORDINEM


Il primo caso si ha quando Augusto diede riconoscimento giuridico ai fedecommessi e stabilì

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la competenza dei consoli per le controversie…


Organi competenti a giudicare extra ordinem:
o nelle province, i governatori
o a Roma, magistrati dell’ordine costituzionale repubblicano e funzionari nominati e
dipendenti dal principe
Avvio di una prassi: il Principe (princeps) interviene nei giudizi privati
Differenze da prima:
o Chiamata in giudizio, intervento di un organo pubblico, il convenuto che on si
presentava era considerato “contumace” (assente)
o Non più divisione in iure e apud iudicem, il giudizio si svolgeva davanti ad un organo
pubblico che aveva il potere di emanare la sentenza
o No litis contestatio
o Assenza di formalismo, la difesa del convenuto era detta “praescriptio” , che
corrispondeva in sostanza all’exceptio formulare
o La condanna poteva essere in denaro: quindi nel caso concreto il giudice che aveva
emesso la sentenza poteva anche imporre l’esecuzione forzosa.
Cognìtio extra òrdinem

Era uno dei tre modelli processuali del diritto romano. Nata e sviluppatasi a partire dalla fine del
periodo repubblicano, essa in epoca classica sostanzialmente affiancò la procedura per formulas fino
a sostituirla del tutto, in periodo postclassico.
Originariamente tale procedimento veniva adottato per dirimere controversie di diritto pubblico; a
partire da Augusto esso venne esteso anche a rapporti di natura privata.
La (—) si caratterizzava per i seguenti caratteri:
— unità del procedimento: tutta l’attività processuale si svolgeva davanti allo stesso funzionario
statale;
— ampia discrezionalità del giudicante: il funzionario-giudice aveva ampi poteri per accertare il fatto;
— procedibilità contumaciale: era necessario e sufficiente solo che il convenuto fosse stato avvertito
dell’inizio del procedimento;
— impugnabilità della sentenza;
— specificità della condanna: la condanna non consisteva più nel pagamento di una somma di denaro,
ma poteva imporre anche un comportamento specifico, come la restituzione della cosa, un pati, un
non fàcere, etc.;
— esecutività manu militari: l’esecuzione delle sentenze veniva demandata ad appositi organi statali,
gli apparitòres.
La chiamata in giudizio del convenuto avveniva con una citazione. Il processo del tardo Impero
conobbe, invece, la figura della lìtis denuntiàtio: l’attore redigeva un documento di citazione, lo
presentava al giudice e, una volta approvato, lo notificava alla controparte. Nel diritto giustinianeo
prevalse la diversa forma della citazione per libèllum: l’attore presentava al giudice lo scritto (libellus
conventiònis) e chiedeva che il convenuto fosse chiamato in giudizio; il giudice, esaminata la richiesta
e ritenutala non infondata, si pronunciava per l’accoglimento. Il convenuto, per costituirsi in

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giudizio, doveva redigere e notificare il suo libellus contradictiònis.


Le parti erano obbligate a presentarsi in giudizio, in quanto obbedivano all’ordine del giudice.
L’istruzione probatoria era di competenza del giudice stesso, in base al principio inquisitorio, egli,
però, nella valutazione delle prove doveva attenersi a un rigido schema prefissato.
Formatosi il convincimento, veniva emessa sentenza in giudizio.
L’“appellatio” avveniva col deposito di un atto di appello presso il giudice che aveva emesso la
sentenza. Il giudice superiore, ricevuti gli atti e una relazione sommaria dal collega di primo grado,
invitava le parti a formulare le richieste (che potevano anche mutare) e a presentare le prove. La
seconda sententia era normalmente inappellabile, salvo un ricorso speciale (“supplicatio”)
all’imperatore.

4. I RAPPORTI GIURIDICI CON LE COSE


4a. Il quadro definitivo dei diritti reali
Le res: classificazioni vecchie e nuove

Le res: ha significati molteplici, entità materiale, porzione limitata del mondo, esterno, beni in
generale. Classificazioni:
res corporales : termini utilizzati dai giuristi romani per indicare le entità materiali, intendendo
proprio le res quae tangi possunt [le cose che si possono toccare]. Solo le cose corporales erano
suscettibili di possesso.
res incorporales: si contrappongono alle res corporales, in quanto sono res quae tangi non possunt
[che non si possono toccare]. I giureconsulti utilizzarono questa espressione per indicare: eredità,
usufrutto...
cose in commercio: erano oggetto di proprietà privata, di rapporti giuridici patrimoniali. cose fuori
commercio: non erano oggetto di proprietà privata. Erano fuori dal commercio:
o le res divini iuris [le cose di diritto divino]: in particolare erano:
♣  res sacrae: altari, templi, santuari

♣  res religiosae: luoghi utilizzati per la sepoltura


♣ res sanctae: le porte e le mura della città.

o le res humani iuris: si contrapponevano alle res divini; [era il diritto mano] ; potevano essere:
♣  pubbliche: res publicae: appartenevano allo Stato – populus Romanus - , erano fuori
commercio se erano destinate all’uso pubblico (strade, piazze, teatri,...) oppure in
commercio se lo stato ricavava un reddito o un’utilità.

♣  private: res privatae, erano in commercio.


Dominium duplex

Espressione adoperata in periodo classico (cfr. anche Gai Inst., 1.54) per significare
che la categoria generale del dominium si divideva in due sottocategorie, il dominium ex iùre

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Quirìtium e l’in bònis habère .


Una res poteva, pertanto, essere oggetto di un (—): il c.d. plenum ius, cioè la piena e
completa signoria sulla res si aveva quando le due forme di proprietà (quella quiritaria e quella
pretoria) si unificavano, a seguito di usucàpio , in capo alla stessa persona

PROPRIETA' PEREGRINA E PROPRIETA' PROVINCIALE


La proprietà peregrina si ha nel caso in cui un non cittadino acquistava una res con un modo di
acquisto della proprietà qualificato iuris gentium, e come tale accessibile ai non cives. Poiché il
dominium ex iure Quiritium era riservato ai cives si deve ritenere che i peregrini acquistassero un
diritto analogo: appunto la proprietà peregrina, regolata sostanzialmente come il dominio quiritario e
per cui al titolare dovevano essere dati, in via 'utile', gli stessi strumenti giudiziari spettanti al
proprietario civile. Con la progressiva estensione della cittadinanza romana ai paesi assoggettati da
Roma la proprietà peregrina andò perdendo significato; lo perdette praticamente del tutto una volta
che Caracalla, nel 212 d. C., concesse la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell'Impero. Quando si
parla
di proprietà provinciale si fa riferimento solo a beni immobili: in particolare ai fondi provinciali.
Erano fondi provinciali le terre situate in territori assoggettati da Roma e organizzati in province.
Gran parte di queste terre furono lasciate nella disponibilità dei privati che le tenevano già, e furono
assoggettate ad imposta. Nella sostanza, a parte l'imposta fondiaria, il privato al quale si riconosceva
la possessio di fondi provinciali era titolare di un diritto soggettivo i cui contenuti corrispondevano
praticamente a quelli della proprietà civile. I fondi provinciali erano classificati tra le res nec mancipi,
così che inter vivos si trasmettevano con la traditio; e non essendo suscettibili di dominium ex iure
Quiritium, non si acquistavano per usucapione. Nell'ambito della cognitio extra ordinem delle
province si affermò la prassi per cui il possessore di un fondo che l'avesse posseduto per lungo
periodo, convenuto con l'actio in rem da chi ne reclamasse la restituzione, avrebbe potuto opporre
una prescrizione. La longi temporis praescriptio fu quindi solo uno strumento di difesa opponibile
dal possessore, utilizzabile sin quando si conservava il possesso del fondo. Non era utile per il
recupero del possesso perduto e non era un modo di acquisto della proprietà. Essa risulta essere stata
ufficialmente recepita nell'ordinamento romano nel 199 d. C.; ad essa si estesero alcuni requisiti
dell'usucapione: la iusta causa, verosimilmente anche la buona fede. Il possesso doveva poi essere
accompagnato dall'animus di tenere la cosa come propria. Quanto al tempo, si richiese un termine
assai più lungo di quello stabilito per l'usucapione: dieci anni se possessore e proprietario vivevano
nella stessa città, venti anni se proprietario e possessore vivevano in città diverse.

Esistono due tipi di limitazioni al dominium:


limitazione 'volontaria' dipendente dal dominus;
limitazione 'indipendente' dal dominus e dettata da leggi.
Nel primo tipo bisogna includere quelle che i Romani chiamavano iura in re aliena, cioè i diritti su
cose altrui (es.: la servitù).
La servitù è un caso di limitazione del dominium dipendente dalla volontà del dominus, cioè il
dominus sceglie di permettere a terzi di compiere, sulla sua proprietà, attività altrimenti vietate.

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Un esempio è la “servitù di passaggio”, cioè permetto al mio vicino di passare sul mio fondo per
accedere alla strada pubblica -questo è un diritto su cosa altrui-.
Ovviamente il mio vicino non avrebbe alcun diritto di passare sul mio fondo se ciò non glielo
concedessi; ecco perchè 'volontario', cioè dipendente dalla volontà del dominus.
SUPERFICIE, AGRI VECTIGALES ED ENFITEUSI
Sin dalla prima età classica si diffuse l'uso di dare in concessione la superficie separatamente dal
suolo. Si procedeva in questo caso mediante contratto: di compravendita o di locazione, in modo da
fare conseguire al superficiario il godimento della superficie, cioè il godimento dell'edificio che vi
era, o che vi sarebbe stato costruito.
Nel caso della vendita il superficiario assumeva l'impegno di pagare come corrispettivo un prezzo;
nel caso della locazione il superficiario si obbligava al pagamento di un canone periodico. Il
superficiario non diventava proprietario della superficie; ma neppure acquistava su di essa alcun
diritto reale limitato: i contratti avevano iure civili solo effetti obbligatori, mai effetti reali. Per il ius
civile il superficiario era solo creditore così che, se veniva impedito o molestato nel godimento della
superficie, avrebbe avuto azione ex contractu contro il concedente, mai contro i terzi. A questo stato
di diritto derogò il pretore, che concesse tutela prima di tutto al superficiario, contro quanti,
concedenti o terzi, avessero recato turbative al godimento della superficie. Più tardi, sempre in età
classica, si diede al superficiario escluso dal godimento della superficie un'actio in rem, un'azione
reale che era esperibile erga omnes, cioè contro chiunque, concedente o terzo, avesse il godimento
della superficie al posto del superficiario.
Nel corso della stessa età classica la posizione giuridica del superficiario si consolidò: notevole è il
riconoscimento del diritto di vendere la superficie con effetti reali una volta che il compratore ne
avesse avuto il godimento. Agrivectigales erano dette quelle porzioni di ager publicus che i censori
sin dal IV-III secolo a.C. erano andati concedendo a privati dietro il pagamento di un corrispettivo
periodico fisso detto vectigal. I concessionari furono detti possessores e tutelati con interdicta contro
turbative e spossessamenti.
Venivano realizzate mediante locazioni, che agli inizi erano a breve termine (5 anni), poi a lungo
termine (in qualche testo si parla di 100 anni), infine generalmente perpetue; in ogni caso revocabili
per mancato pagamento del vectigal. Dell'ager vectigalis fu ammessa l'alienabilità inter vivos e il
passaggio agli eredi. Verso la fine del I secolo a. C. il pretore concesse ai possessores di agri
vectigales tutela giudiziaria con azione in factum di natura reale esperibile, per il recupero del
possesso, contro qualsiasi possessore. Ecco quindi che è possibile qualificare il potere sugli agri
vectigales come diritto reale iure praetorio. I classici parlarono di ius.
Per i giuristi medioevali, ispirandosi alle fonti romane, le CATEGORIE DEL POSSESSO sono,
fondamentalmente, tre (1. detenzione):
Il corpus e l'animus, al fine di avere possessio civilis ed ad interdicta, sono entrambi fondamentali,
cioè se viene meno anche uno solo dei due elementi, non si avrà più questo tipo di possesso, ma se ne
avrà un altro.
Se viene meno l'animus, si avrà la possessio naturalis, mentre se viene meno il corpus, non si avrà
nessun tipo di possesso.
Possessio iùris [Possesso di diritto)

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Nel diritto romano classico, il possesso aveva per oggetto le sole cose corporali.
Il pretore, peraltro, difese la signoria di fatto dell’usufrutto e di talune servitù contro determinate
turbative, accordando alcuni interdìcta in via utile.
Questa tutela era distinta da quella propria della possessio, parlandosi in queste ipotesi di usus: ma
giacché la suddetta tutela aveva la stessa funzione di quella accordata al possesso di una cosa
corporale, si finì col ritenere l’esercizio di fatto del diritto equivalente alla possessio.

5. Le obbligazioni
5a. Definizione e contenuto dell’obbligatio
I giuristi e la costruzione delle categorie
Il percorso che portò alla nostra idea di rapporto obbligatorio fù lungo e laborioso, esso si concluse
solo nel principato, ed in una enunciazione di Labeone troviamo la precisazione di obligatio con
buona probabilità nel senso di atto obbligante, mentre nelle ricorrenze successive il significato era
quello di rapporto tra creditore e debitore.
L’obligatio era oggetto di classificazione ma non di definizione nel manuale di Gaio, ove era
precisato che l’essenza di esso consiste non nel far si che un bene divenga nostro ma nel costringere
altro a dare, fare o “preaestare”.
Nel diritto romano troviamo prima affermarsi singole fattispecie produttive (inizialmente di
soggezione fisica e più tardi ) di vincolo patrimoniale, quindi la faticosa emersione dell’astratta e
unitaria categoria di contractus e solo successivamente la messa a punto degli elementi di fondo
dell’obbligatio.
L’introduzione della responsabilità patrimoniale costituisce l’ultimo e più decisivo passo verso la
concezione classica dell’obbligazione. Il concetto classico, infatti, è la risultante dello sviluppo, per
cui il debitore risponde con il suo patrimonio, e per cui la responsabilità è l’espressione di un debito.
Si comprende, pertanto, come i giuristi romani giungano a due celebri enunciazioni. La prima è
riferita dalle Istituzioni giustinianee (e si ritiene da taluno sia di Fiorentino) (1) Obligatio est iuris
vinculum quo necessitate adstringimur alicuius solvendae rei secundum nostrae civitatis iura (Inst. 3,
13 pr.). (2) Obligationum substantia non in eo consistit, ut aliquid corpus nostrum aut servitutem
nostram faciat, sed ud alium nobis abstringat ad dandum aliquid vel faciendum vel praestandum.
Come si vede, le enunciazioni si completano a vicenda, perché, mentre la prima considera
prevalentemente l’aspetto della responsabilità, la seconda si ferma di più sul debito.

L’obligatio, in conformità di quanto si è detto fin qui, si può definire come un rapporto giuridico, per
cui un soggetto (il creditore) può pretendere da un altro (il debitore) una data prestazione, non
compiuta la quale, il secondo è tenuto al primo al risarcimento del danno. Coerentemente, il diritto
del creditore si dice d’obbligazione, o di credito. L’obligatio sorge come istituto civilistico, ma il ius
honorarium e il ius extraordinarium creano rapporti aventi la stessa sostanziale struttura di quelli
conosciuti dal ius civile. Il termine obligatio si estende in tal modo a rapporti non esclusivamente
civilistici, e ciò per lo stesso diritto classico.
La storia dell’obligatio mostra che il netto contrapposto tra diritti reali e di obbligazione, com’è

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conosciuto dal diritto civile classico, non è originario.


L’Urbs è alle origini troppo poco forte nelle sue istituzioni per assicurare la persecuzione di
tutti i reati: punisce, con attività dei suoi organi, solo quelli più gravi; lascia, quanto agli altri, che la
punizione del reo sia compiuta dalla vendetta dell’offeso, o dei familiari di lui. Si ha così un diritto
penale privato, distinto dal diritto penale pubblico, e la distinzione rimarrà fondamentale per tutta la
storia del diritto romano. Nell’ambito del diritto penale privato è da porre l’origine dell’obligatio. La
città, alle origini, non può che riconoscere e legittimare le consuetudini preesistenti al suo sorgere:
secondo queste consuetudini, chi abbia commesso un reato è soggetto alla vendetta dell’offeso o dei
suoi familiari, che lo possono prendere e uccidere (o almeno tenerlo come schiavo), o mutilare.
L’obligatio è appunto lo stato di soggezione del delinquente alla vendetta, ed è pertanto sola
responsabilità: nel suo significato letterale (da obligare) descrive efficacemente le condizioni del
primitivo obligatus. Alla vendetta si sostituisce però, con l’andare del tempo, la composizione: i
privati pattuiscono che l’offensore debba, per evitare la vendetta, pagare una data quantità di cose
all’offeso o al gruppo di lui (prima bestiame, poi denaro). La vendetta si avrà solo se l’offensore non
pagherà il prezzo del riscatto.
La composizione è un utile strumento di pacificazione, perché evita il susseguirsi di violenze,
e perciò è un istituto accolto e sviluppato dall’ordinamento statale: come composizione legale,
imposta e determinata nel suo ammontare dal diritto oggettivo, si sostituisce alla composizione
volontaria. Lo sviluppo descritto è lento: si compie prima riguardo ai reati di minore gravità, per
questo meno forti sono le reazioni degli offesi, e quindi più facile è la vittoria sulla vendetta privata. Il
diritto delle XII tavole presenta un quadro efficace del processo descritto, in uno stadio in cui questo
non è ancora giunto al suo punto finale. Da un lato, la vendetta privata è ammessa in materia di furto
flagrante e d’iniuria (per quanto già regolata e delimitata dalla legge); dall’altro, la composizione
legale è imposta, ad es., in materia di furto non flagrante. Nella fase della composizione, l’obligatio è
tuttora responsabilità, ma per l’inadempimento di un debito: esiste il dovere di pagare una certa
somma, e solo quando questa non sarà pagata vi sarà responsabilità. Questa responsabilità è tuttora
personale, perché il leso dirige ancora l’esecuzione contro il corpo, e non già contro il patrimonio del
debitore. Il progresso consiste in ciò, che l’esecuzione personale non consegue più immediatamente
dal reato, ma dall’inadempimento della composizione.
Nel diritto primitivo:
a) lo stesso concetto dell’obligatio, in quanto importa un vincolo della persona dell’obbligato, non è
staccato dal concetto del diritto reale. L’obligatio è signoria del creditore sulla persona del debitore;
b) l’affinità di natura si rivela ancora nell’atto costitutivo della prima obbligazione contrattuale, il
nexum, che è un gestum per aes et libram, come la mancipatio, che vale a costituire la signoria sopra
una cosa;
c) l’obligatio, come la proprietà, è un rapporto perpetuo, nel senso che occorrono dati negozi per
estinguerlo (solutio per aes et libram), altrimenti dura indefinitamente, salva estinzione dell’oggetto
su cui grava

6. Nel diritto classico:


a) la persona del debitore è libera, ed egli non ha che da compiere un atto, o una serie di atti, a favore
del creditore;

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b) è sparito il nexum, e quindi la contrapposizione tra atti con effetto reale e atti con effetto
obbligatorio è netta;
c) la difesa viene attuata con azioni di natura diversa: in rem o in personam, secondo quanto si è già
visto;
d) la tipicità è caratteristica dei diritti reali, mentre può essere elusa in materia di diritti di credito,
costituibili con atti a forma aperta come la stipulatio e il legato per damnationem;
e) resta per contro, sebbene ciò sia di solito escluso dagli studiosi, la tendenziale perpetuità sia del
diritto di proprietà come del diritto di credito. La proprietà è perpetua, nel senso che non si può
costituire ad tempus: occorre un negozio traslativo perché essa torni a chi l’abbia alienata.
L’obligatio è perpetua nel senso che o si estingue per le cause stabilite dal diritto oggettivo, o dura
indefinitamente nel tempo (ciò che fa notare Paolo, D. 44, 7, 44, 1).
La contrapposizione tra diritti reali e diritti di credito è perciò netta per il ius civile classico. Ma già il
ius honorarium e il ius extraordinarium conoscono attenuazioni. Infatti taluni rapporti, che per il ius
civile sono meramente obbligatori, sono tutelati con azione reale dal pretore (ius in agro vectigali;
superficie; rapporti costituiti mediante pactio et stipulatio); inoltre, uno stesso atto può costituire
diritti reali e di credito (conventio pignoris). Il fedecommesso, istituto dello ius extraordinarium, e
fonte di obbligazione, legittima alla missio in rem contro i terzi acquirenti di mala fede.

Tornando alle obbligazioni nell’accezione di relazioni obbligatorie, dobbiamo dire che essa consiste
in un vincolo giuridico patrimoniale con portata relativa: un rapporto credito debito fra due o più
soggetti.
oggetto del dovere - oportere- che grava sul debitore era bello indicato nella formula
delle rispettive azioni: un dare, un tacere o un praestare (termine per indicare la misura della
responsabilità contrattuale, praestare dolum/culpam).
Sulla vicenda del rapporto obbligatorio potevano incidere molteplici fattori, consideriamo le ipotesi
in cui le attese del creditore venivano rafforzate con la previsione di cose o soggetti obbligati che
rendessero più agevole e sicura la sua soddisfazione: garanzie, rispettivamente, reali e personali.
Le prime potevano assumere la forma della fiducia cum creditore, del pignus datum o
conventum, nelle seconde in cui da tempo era contemplata la sponsio, gia in eta repubblicana si
erano affermate le figure di fideipromissio e fideiussio.
Per quanto riguarda l’inadempimento dell’obbligazione, essa si verificava sia per inerzia del debitore
o per impossibilita sopravvenuta della prestazione, quest’ultima disciplinata in modi diversi a
seconda che sia imputabile o meno il soggetto obbligato, ma era presente anche la mora del debitore
da intendere come suo colpevole ritardo nell’adempimento, ma nel principato la mora riceve
impotente precisazioni, in quanto si affermo l’idea che scattasse a meno che fosse scaduto il termine
iniziale prevosto nell’atto o si tratta di obbligazione da delictum, solo con l’intimazione ad adempiere
formulata dal creditore.

L’adempimento dell’obbligazione: il termine solutio conosce un’importante sviluppo, se in


precedenza esso disegnava lo scioglimento di un vincolo giuridico, col tempo si identifico con la
forma privilegiata per operare tale scioglimento, ossia l’esecuzione ella prestazione. Accanto alla
solutio troviamo l’acceptilatio come immaginaria solutio, nel senso di un adempimento fittizio, in

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quanto ormai impiegata essenzialmente per la remissione del debito nascente da stipulatio.
Accanto a questi due troviamo ancora: la novazione, la compensazione, la confusione, l’accordo di
non richiedere l’adempimento, comune volontà di sciogliere un contratto consensuale prima che le
prestazioni fossero eseguite.

TIPOLOGIE DI OBBLIGAZIONI
Da tempo erano note le figure di:
- obbligazioni con una pluralità di debitori o creditori, che noi indichiamo come parziarie
oppure solidali cumulative;
- obbligazioni generiche - oggetto della prestazione cose generiche, che poneva un problema
dell’individuazione di un genus che soddisfasse il requisito della determinatezza della prestazione;
- obbligazione alternativa- il cui adempimento consisteva nell’esecuzione di una o più
prestazioni dovute;
- obbligazione naturale (naturalis) contrapposta all’obbligazione civilis, in quanto il creditore
non avrebbe potuto chiederne l’adempimento tramite un mezzo processuale;

Fonti delle obbligazioni: Le istituzioni di Gaio e un frammento tratto da un’opera verosimilmente


posteriore (le Res cottidianae, della cui paternità si è ancora dubitato), nel manuale troviamo una
summa divisio, secondo la quale ogniobbligaizone nasce o da contratto o da delitto, ma questo
schema rendeva incompleta la classificazione da cui restavano fuori alcune obbligazioni, oppure
imponeva di intendere la nozione di contratto in un senso assai più ampio sino as includervi qualsiasi
atto illecito produttivo di obbligazione, e questo duplice rischio rimedio l’introduzione nelle Res
cottidianae di una terza sottoclasse delle obbligazioni sorte ex variis causarum figuri (da varie figure
di cause), come la gestione di affari altrui, lo steso pagamento di indebito, il legato per damnationem
o le diverse figure in cui era esperibile un’azione penale in factum.

5b. I contratti
La quadripartizione gaiana

Nel suo manuale Gaio classifica i contratti scomponendoli i 4 gruppi, a seconda che
l’obbligazione venisse posta in essere per mezzo di una cosa (re), di parole pronunziate (verbis), di
parole scritte (litteris) o del consenso (consensu), questa raffigurazione coincide quasi
completamente con la divisione che oggi indichiamo tra contratti reali, verbali, letterali e
consensuali, con una sola difformità, l’obligatio re contratta rivela una portata più ridotta del nostro
contratto reale.
Le singole figure contrattuali erano quelle già delineate in età repubblicana:
emblematica dell’obligatio verbis contracta era la stipulatio;
di quella letterale i nomina transcriptia- cui erano accostati singrafi e chirografari degli
stranieri;
di quelli quelli consensuali troviamo la compravendita e la locazione, società e mandato.

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Tipicità dei contratti e tipicità delle azioni


La tipicità dei contratti per cui un accordo era produttivo di obbligo giuridico solo ove
riversato in un tipologia prestabilita dell’ordinamento, costituiva l’altra faccia della tipicità delle
azioni.
Tipicità significa che ciascuna azione era approntata per salvaguardare una specifica pretesa sorgente
da una definita tipologia di atti: quella e non altra. es: il locatore che richiedeva il pagamento del
canone o il venditore che esigeva il prezzo della merce, non potevano impegnare una generica azione,
pensi, rispettivamente, quella di cosa locata o di cosa venduta.
La tipicità porta alla previsione di molteplici mezzi processuali, e quindi ad un ampia rete di tutela:
l’assentimento di mezzi processuali più sicuri e idonei a salvaguardare l’intento dei contraenti.
Qualche ottemperante di questi rigoroso principio c’e stato, asp esempio l’arricchimento dell’elenco
delle figure tipiche, il contenuto estremamente ampio e variabile che poteva assumere la stipulatio, la
possibilità di integrare il contenuto fisso di un contratto aggiungendoci contestualmente dei patti, il
riconoscimento di limitate ipotesi in cui l’accordo era stimato produttivo di obbligazione.

Il problema delle convenzioni atipiche da Labeone a Ulpiano


Per Labeone il contratto era un’obligatio da una parte e dall’altra la sua essenza era
rinvenibile nell’oggettiva struttura della relazione che determina, contraddistinta da reciprocità di
obbligazioni.
Veniva richiamo la nozione greca di synallagma, e Labeone ne aveva in mente l’impiego da parte di
Aristotele, che lo configurava quale rapporto sociale regolato da norme, non necessariamente
convenzionale. Labeone dimostrava di non volerne fornire una tassonomia esaustiva, ma di essere
interessato a isolarne un dato fondamentale, che poteva essere poi rintracciato anche fuori dalle
figure tipiche.
Cioè Gaio ha una nozione di contratto diversa da quella di Labeone, perché quest’ultimo definisce
contratto soltanto gli accordi che prevedono una reciprocità delle prestazioni, avendo quindi una
visione restrittiva.
Con Ulpiano si affermo una nozione diversa di synallagma, che non recuperava l’elemento
dell’oggettiva struttura a quello di una funzione riequilibratrice, per lui il consenso aveva una
funzione centrale nel contratto, lui attingeva alla riflessione di Pedio, secondo il quale senza
conventio non vi sarebbe alcune obbligazione, né contratto, anche se riconducibile ad un atto
formale come la stipulatio.
Ulpiano divide la conventio in varie specie, a seconda che fosse conclusa per una causa pubblica o
privata (fra convezioni di ius civile o ius gentium). Quindi la nozione di synallagma veniva a
caratterizzare non l’essenza di ogni contratto (come per Labeone) ma solo gli accordi tipici che
meritassero una protezione attiva, dal momento che all’elemento consensuale si era aggiunta
l’esecuzione, a opera di una della parti di quanto concordato. Ove tale reciprocità non fosse
riscontrabile non rimaneva ch eia nudo dato convenzionale, quello che ulpinao indicava come patto ,
tutelato da eccezione qualora chi invocava il patto assumeva la veste di convenuto.

I patti - in età imperiale troviamo due tipologie di pacta per cui era contemplata una
protezione attiva.

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in primo luogo quelli aggiunti - pacta adiecta- ad un contratto protetto da azione che desse
luogo ad iudicium bonae fidei - essi ridefinivano la portata dell’accordo e influivano su quanto il
giudice in forza della bona fides avrebbe dovuto considerare a beneficio non solo del convenuto , ma
anche dell’attore.

in secondo luogo- i patti pretori- quattro figure prove di alcuna formalità che il magistrato
munì di un tutela specifica, prevedendo un’azione con intentio in factum.

5c. Gli illeciti


I delitti nell’elenco di Gaio

Nelle istituzioni veniva elencate quattro figure di delicta, consolidate nella tradizione di ius
civile: furto, rapina, iniuria e danneggiamento.
La nozione di furto rimane più ampia di quella moderna, stimandosi sufficiente il contatto con la cosa
con intenzione fraudolenta, e il porpzroisto di trarre profitto, ma venne ridefifnta a seguito del
riconoscimento di altri illeciti di più specifica portata.
Quanto al danneggiamento le previsioni della legge Aquilia, continuarono ad alimentare le analisi
giurisprudenziali, orientate in senso tendenzialmente estensivo riguardo alla legittimazione attiva, al
nesso fra condotta ed evento lesivo e al criterio della culpa, alla quantificazione della condanna.

5d. Altri atti illeciti produttivi di obbligazione


Il problema “sistematico” della indebiti solutio
Ne era integrata la fattispecie di pagamento indebito qualora un soggetto (solvens) convinto
di essere debitore compisse una prestazione non dovuta, a favore di un soggetto (accipiens) che la
accettava nella persuasione a sua volta di esserne creditore.
Questi elementi psicologici sono molto importanti, perché qualora l’assenza di una valida
obbligazione preesistente fosse nota al solvens, la sua nazione sarebbe stata considerata donazione,
mentre se l’accipiens fosse stato consapevole di ricevere una prestazione non dovuta, la sua
accettazione avrebbe integrato un furto.

La gestione di affari altrui e l’evoluzione della sua tutela


Nota gia in età repubblicana, ma verosimilmente per i soli rapporti fra il dominus dell’affare e
i rappresentati processuali senza averne ricevuto incarico, svolgesse nella consapevolezza che gli
interessi non erano propri e in modo tale che l’attività producesse, almeno inizialmente, un’effettiva
utilità per il gerito.
Da qui in modo analogo al mandato, il sorgere di una o due obbligazioni, una che grava sempre sul
gestore tenuto a portare a termine l’attività e trasferirne gli effetti al dominus negotii, e un’altra che
poteva essere posta a carico di quest’ultimo che avrebbe dovuto indennizzare l’atro di eventuali spese
e danni dalla gestione.

Capitolo IV
L’ETA’ TARDOANTICA

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1. IL QUADRO GENERALE

L’unica fonte viva del diritto è riconosciuta dall’assolutismo imperiale nell’imperatore. Il termine
LEX, riservato in precedenza alle sole disposizioni normative provenienti dal popolo, viene ora a
indicare direttamente la costituzione imperiale. Si assiste anzi a una sorta di identificazione
dell’imperatore con la legge: egli viene definito LEX ANIMATA, legge vivente.
Per altri aspetti della produzione del diritto si ha invece una evidente frattura tra principato e impero
tardo antico.
Mentre nel principato i giuristi svolgono un’insostituibile e pienamente riconosciuta funzione di
guida nello sviluppo e nella creazione del diritto, a partire da Diocleziano essi perdono in gran parte
tale ruolo. Il giurista tardo antico è, per lo più, un anonimo burocrate che lavora nelle cancellerie
imperiali alla preparazione di testi normativi del principe, oppure è un professore di diritto che nelle
scuole, esercita un insegnamento non disgiunto, talora, da una riflessione originale, ma teorizzante.
Al lavoro del giurista non è più riconosciuto alcun rilievo nella creazione del diritto; si comprende
così come scompaia il IUS RESPONDENDI EX AUCTORITATE PRINCIPIS. Giustiniano, con una
famosa costituzione che rappresenta una specie di “manifesto” dell’assolutismo imperiale, giungerà
a riservare all’imperatore non soltanto la creazione del diritto, ma anche la stessa interpretazione. Ai
sudditi non resta che la fedele applicazione delle leggi. L’opera della giurisprudenza del principato
non è dimenticata. Gli scritti dei giuristi precedenti vengono infatti utilizzati come diritto vigente, a
fianco delle costituzioni imperiali.
In contrapposizione alle leggi (costituzioni imperiali), l’insieme degli scritti giurisprudenziali del
principato è di solito denominato diritti, con terminologia efficace per evidenziare la bipartizione
delle fonti del diritto di questo periodo tra fonti vive e fonti che sono ereditate dalla grande tradizione
del passato, ma costituiscono ormai un organismo in sé chiuso e compiuto.
Legge e diritti, unitariamente considerati, formano il ‘diritto scritto’ (ius ex scripto), che è
distinto dal diritto consuetudinario (ius ex non scripto). La consuetudine ha tuttavia una posizione
marginale nel sistema normativo. Nel diritto giustinianeo è ammessa soltanto la consuetudine c.d.
SECUNDUM LEGEM, cioè quella espressamente chiamata dalla legge, mentre non trovano spazio
né la consuetudine PRAETEM LEGEM, che va a colmare le lacune legislative, né quella contraria alla
legge (CONTRA LEGEM).

La divisione dell’impero in due parti, l’Occidente e l’Oriente, comprende un dualismo legislativo.


L’impero è sempre sentito come un’entità politico-costituzionale unitaria e indivisa. I provvedimenti
legislativi sono emanati formalmente nel nome di tutti gli imperatori regnanti, maciascun imperatore
legifera esclusivamente per la parte di sua spettanza e le costituzioni sono di conseguenza applicate
solo in essa.

L’età tardo antica, anche per le fonti del diritto, è un’epoca di incertezza e di crisi. La concentrazione
nelle mani dell’imperatore del potere normativo non risolve i problemi, ma pare aggravarli. Prima di
tutto si vuole una maggiore certezza, che proviene dal disordine e dall’occasionalità della legislazione
imperiale. I testi delle costituzioni sono scritti spesso in un linguaggio esagerato e oscuro, che
aumenta le ambiguità normative.

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Si sente l’assenza di una giurisprudenza guida che, come nel passato, con l’interpretazione, faccia da
filtro tra l’abbondante produzione normativa imperiale e la sua concreta applicazione.
Problemi in parte simili presenta l’impiego degli scritti giurisprudenziali del passato come diritto
vigente.

2. Le costituzioni imperiali

Nel tardo impero sono due le categorie principali di costituzioni, le leggi generali e i
rescritti. I MANDATA (istruzioni che l’imperatore dà ai suoi funzionari) scompaiono, mentre i
DECRETA (decisioni giurisdizionali) si confondono con i rescritti.
Le LEGES GENERALES, sono le costituzioni aventi carattere generale e si contrappongono ai
rescritti, che sono invece misure particolari. Ci sono due nuovi tipi di costituzione. La
PRAGMATICA SANCTIO (sanzione pragmatica) e l’ADNOTATIO (notazione). La prima appare
nel corso del quinto secolo. Sembra che sia un provvedimento avente carattere particolare, utilizzato
a vari scopi, soprattutto per rispondere a domande di province, città o corporazioni. L’ADNOTATIO
è una risposta a domande presentate all’imperatore scritta a margine della richiesta, e non in calce.
Tramite essa si concedevano privilegi o esenzioni di vario genere.

A poco a poco emerge la necessità di avere dei criteri oggettivi per poter distinguere le leggi
generali dai rescritti. Ci potevano essere delle situazioni marginali dove la distinzione non era chiara.
ne conseguiva un rischio che si consolidasse nella prassi come soluzione generale quella che era stata
prevista invece per un caso particolare. Per evitare ciò bisognava fare chiarezza sul grado di valore
normativo da attribuirsi alle costituzioni imperiali. Il riferimento al solo contenuto delle stesse non
era sufficiente. La soluzione infine, fu perciò quella di indicare dei criteri formali, cui ricorrere per
stabilire se una costituzione fosse da considerare o meno d’applicazione generale. Nel 426 la
cancelleria imperiale occidentale di Valentiniano III affrontò il problema con un’importante
costituzione che i compilatori teodosiani e giustinianei hanno diviso in vari frammenti. Con questo
provvedimento viene per prima cosa ribadita la distinzione tra rescritti e leggi generali,
riconfermando l’efficacia limitata dei primi. Per le leggi generali, si dispone che siano considerate tali
le costituzioni che, anche quando sono prese da un caso particolare, rispondo ad almeno uno di
questi requisiti: siano trasmesse al senato sotto forma di orazione imperiale, abbiamo l’espressa
denominazione di editto o legge generale, siano rese note presso tutte le popolazioni dell’impero
tramite avvisi dei governatori affissi in pubblico, avvertano in maniera chiara che quanto stabilito per
certi casi debba essere applicato anche per i casi simili, contengano l’ordine che debbano concernere
tutti.

3. Le compilazioni private di costituzioni imperiali

Il problema della conoscibilità delle costituzioni imperiali si presenta in modo nuovo nel
tardo impero. Il fattore discriminante è l’assenza di una giurisprudenza guida.

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Un altro aspetto problematico era dato dalla stessa materiale reperibilità dei testi delle costituzioni.
Molto carente era la diffusione delle costituzioni tra i privati. Esse infatti non avevano una
circolazione ufficiale ed era lasciata all’iniziativa dei singoli il trarne copia per la diffusione,
prendendo dagli archivi centrali o periferici o dagli albi pubblici, in cui esse erano affisse.
D’altra parte la necessità dei privati di procurarsi e disporre del testo delle costituzioni dipendeva
anche dal fatto che nei processi era onere delle parti indicare espressamente il materiale normativo,
su cui poggiavano le rispettive difese: è la cosiddetta RECITATIO, tipico atto del processo tardo
antico.
Nel tardo impero si moltiplicano i lavori di compilazione, e in particolare quelli di sole costituzioni
imperiali.
Tutto questo lavoro compilatorio si avvalse di uno strumento, per così dire editoriale, relativamente
nuovo: il CODEX (codice), cioè il libro formato da pagine legate insieme, che sostituì il rotolo di
papiro (VOLUMEN). E’ un cambiamento che coinvolse tutta la cultura letteraria antica.
Il nuovo strumento fu adottato con successo per compilare le prime compilazioni di costituzioni
imperiali, tanto che il termine codice finì per designare in modo tecnico le raccolte di costituzioni. La
ragione di questo successo è evidente: il lettore disponeva, con il codice, del testo delle più
importanti costituzioni, che sennò avrebbe dovuto trovare con difficoltose ricerche d’archivio; le
costituzioni inoltre erano collocate in un quadro sistematico e distribuite, sotto vari titoli a seconda
del contenuto.
Le prime compilazioni di costituzioni imperiali risalgono alla fine del terzo secolo, inizio quarto.
Sono il CODEX GREGORIANUS e il CODEX HERMOGENIANUS.
Entrambi i codici raccoglievano rescritti imperiali, il cui testo era ridotto alla sola parte contenente
disposizioni normative, con l’omissione di tutto ciò che fungeva da introduzione o contorno alla
norma vera e propria.

Il codice gregoriano includeva rescritti a partire dall’imperatore Adriano sino a Diocleziano,


distribuiti in libri (almeno 15), che, a loro volta, si dividevano in titoli piuttosto numerosi.
Il codice ermogeniano (forse opera del giurista Ermogeniano) era composto da rescritti di
Diocleziano degli anni 293-294 d.C., distribuiti in un solo libro diviso in titoli. Sembra che si
trattasse di un completamento del codice gregoriano.
In entrambi si trattò del lavoro compilatorio scaturito dall’iniziativa privata di singoli giuristi. Però
solo personaggi ben inseriti a corte e con agevole accesso agli archivi delle cancellerie avrebbero
potuto avere l’opportunità e la capacità di compilare simili raccolte.

4. Il Codice teodosiano

Siccome i tentativi di aggiornamento dei due codici non furono sufficienti a dar conto della
produzione legislativa che si stava accumulando, riapparve così ben presto il problema della certezza
del diritto, legato al disordine legislativo e alla stessa conoscibilità delle costituzioni imperiali.
A questa diffusa esigenza di darà finalmente una risoluzione in oriente, nel 439, sotto il regno di
Teodosio II, con la pubblicazione della prima compilazione ufficiale di costituzioni imperiali: il
Codice teodosiano (CODEX THEODOSIANUS).

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Il codice fu costituito tramite due processi, di cui il primo non andato in porto.
Con una costituzione del 429 venne nominata una commissione con un doppio compito: realizzare
una raccolta, per gli studiosi, di tutte le costituzioni emanate da Costantino in avanti, anche quelle
non più in vigore, ordinandole secondo il sistema dei due codici privati precedenti; compilare una
seconda raccolta, a carattere pratico, in cui ci fossero solo le costituzioni vigenti, prendendole dai
codici gregoriano ed ermogeniano e dal terzo codice appena composto; il testo delle costituzioni
doveva essere accompagnato da brani scelti dalle opere della giurisprudenza del principato. Questo
progetto non fu realizzato.
Non viene però abbandonata l’idea di attuare una compilazione. Nel 435 si ritirano su un processo
meno ambizioso: si rinuncia di inserire nella raccolta anche passi tratti dai diritti e si nomina una
seconda commissione con l’incarico di raccogliere tutte le leggi generali emanate da Costantino in
poi, anche quelle abrogate, con la facoltà di modificarne i testi per eliminare ambiguità, parti
ridondanti e così via. Il nuovo codice si sarebbe affiancato a quelli gregoriano ed ermogeniano.
La commissione concluse in poco più di due anni i suoi lavori; il Codice teodosiano fu pubblicato in
Oriente il 15 febbraio del 438, ed entrò in vigore il 1 gennaio del 439. Contestualmente venne inviato
a Valentiniano III, che regnava in Occidente, dove fu pubblicato con la sua presentazione al senato di
Roma, che lo accolse con grande favore.
Il Codice teodosiano è composto di sedici libri, divisi in titoli. All’interno di ciascun titolo le
costituzioni si susseguono in ordine cronologico; per ognuna di esse è indicato il nome
dell’imperatore o degli imperatori che le avevano emanate; il destinatario e la data.
Lo schema seguito è grosso modo quello dei DIGESTA del principato. Però c’è una forte prevalenza
di materie di diritto pubblico, rispetto ad argomenti privatistici, il che forma una delle più importanti
caratteristiche. Un’altra novità è la presenza di un intero libro dedicato soltanto alla legislazione in
materia ecclesiastica e religiosa. Ciò fa capire la grande importanza che il cristianesimo aveva ormai
assunto nell’ordinamento giuridico dell’impero.
In Oriente il Codice teodosiano rimase in vigore sino al 529, anno in cui fu emanato il primo Codice
di Giustiniano, che lo sostituì. In Occidente la sua influenza si fece sentire più a lungo: nelle zone in
cui la compilazione giustinianea non fu introdotta (perché non riconquistate dagli eserciti di
Giustiniano) il destino del diritto romano sino all’alto medioevo fu anche legato all’utilizzo dei testi
del teodosiano, tramite l’intervento delle c.d. leggi romano-barbariche che li avevano inclusi.
La compilazione del Codice teodosiano non fu solo un tentativo di avere una migliore certezza del
diritto tramite una più agevole rintracciabilità delle costituzioni, ma con esso cambiò anche il modo
di porsi del legislatore imperiale di fronte alla produzione e all’interpretazione del diritto.

5. Le opere della giurisprudenza del principato nell’età tardo antica

A proposito della trasmissione dei testi, il passaggio della tecnica editoriale del papiro a
quella del codice coinvolse anche le opere giurisprudenziali. Tra il terzo e quarto secolo furono
preparate nuove edizioni di molte di esse. Esse subirono qualche aggiornamento o modifica.
La parte riguardante gli scritti giurisprudenziali è stata inserita nel Codice teodosiano ed è
tradizionalmente denominata “legge delle citazioni”.
Questo provvedimento contiene una regolamentazione precisa dell’uso delle opere dei giuristi del

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passato nei processi. In primo luogo la validità di tutti gli scritti di Gaio, Paolo, Papiniano, Ulpiano e
Modestino. Si dispone inoltre che nel caso in cui siano citate in giudizio opinioni giurisprudenziali
contrastanti, debba imporsi l’opinione della maggioranza. Se c’è parità di opinione, è il pensiero di
Papiniano che prevale. Se Papiniano no è citato, in presenza di parità il giudice può scegliere quella
che ritenga più opportuna. La legge prevede che possano essere citate opinioni di altri giuristi,
purché richiamate nelle opere dei primi cinque menzionati, e a condizione che si riscontri l’esattezza
del riferimento, controllando il manoscritto originale.
Lo scopo concreto avuto dal legislatore fu quello di regolamentare la citazione dei testi
giurisprudenziali nei processi, dando una soluzione al problema della presenza di passi contrastanti
citati dalle parti a sostegno delle proprie difese.

6. La giurisprudenza tardo antica

I principali campi in cui si manifestò l’attività giurisprudenziale tardo antica furono


l’insegnamento e il lavoro sui testi normativi.
I giuristi prestarono la propria attività anche nelle cancellerie imperiali, come consulenti degli
imperatori. La loro opera si svolse nell’anonimato: i testi delle costituzioni redatti come riferentesi
direttamente alla volontà del sovrano, senza lasciar nulla intendere sul lavoro preparatorio che stava
alla base della loro emanazione.
E’ discusso il valore dell’insegnamento e della cultura giuridica tardo antica. Nelle scuole, soprattutto
quelle orientali, si mantennero intatti lo studio e la riflessione sulle opere dei giuristi del passato. Ciò
contribuì alla conservazione della tradizione giuridica romana, e rese possibile la compilazione del
Digesto, tramite il quale il pensiero giurisprudenziale antico influì in modo determinante sulla storia
del diritto dal Medioevo ad oggi.
Nel tardo impero l’insegnamento si svolgeva sui testi dei giuristi. I giuristi non si dedicavano soltanto
all’insegnamento.
Alcune opere giunte sino a noi al di fuori della compilazione giustinianea, mostrano come nell’età
tardo antica vi fosse una varia produzione di scritti che avevano l’evidente scopo di rendere più
facilmente accessibili i testi della giurisprudenza del principato e delle stesse costituzioni imperiali.
L’attività della giurisprudenza non ebbe solo a oggetto gli scritti dei giuristi. Essa si rivolse anche alle
costituzioni imperiali, approntando compilazioni private di sole costituzioni, quali i codici
gregoriano ed ermogeniano, o affiancando nelle antologie i testi di leggi imperiali a quelli
giurisprudenziali.

La fine della giurisprudenza del principato e della sua funzione di guida nello sviluppo del diritto
contribuì, assieme ad altri fattori, al prevalere di impostazioni presenti nella prassi, che condussero in
età tardoantica alla trasformazione di alcune peculiari caratteristiche del diritto privato romano.
Come: l’abbandono dell’impostazione processualistica del discorso giuridico, il declino della
distinzione tra proprietà e possesso, l’affermarsi del principio che il semplice consenso fosse idoneo
a trasferire la proprietà senza necessità alcuna di ricorrere ai negozi traslativi tipici, ecc.

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7. Le leggi cosiddette “romano-barbariche”

Dopo la caduta nel 476 dell’impero romano d’Occidente si formarono regni germanici,
governati da re, nei quali vigeva il principio della personalità del diritto: le popolazioni di origine
romana continuarono perciò a essere rette dal diritto romano, mentre i ‘barbari’ vivevano secondo il
loro diritto, per lo più consuetudinario. Per venire incontro alle esigenze dei sudditi romani, i re
‘barbari’ ordinarono la compilazione di alcune raccolte di diritto romano.
Agli inizi del sesto secolo si colloca la LEX ROMANA BURGUNDIONUM. In essa si susseguono
norme liberamente basate sui codici gregoriano, ermogeniano e teodosiano, sulle Istituzioni di Gaio
e sulle PAULI SENTENTIAE, senza però alcuna indicazione della fonte e con ampio ricorso alle
tarde INTERPRETATIONES di tali testi giuridici.
Assai più importante è la LEX ROMANA WISIGOTHORUM, che venne emanata nel 506 nel regno
visigoto, che occupava la Spagna e parte della Francia meridionale. Si tratta di una raccolta di diversi
testi giuridici romani riportati in successione l’uno dopo l’altro; essa contiene: una parte consistente
del Codice teodosiano e delle Novelle post-teodosiane, con le relative interpretazioni, l’EPITOME
GAI, gran parte delle sentenze di Paolo, alcune costituzioni tratte dai codici gregoriano ed
ermogeniano, un brano dei RESPONSA di Papiniano.
La legge romana dei visigoti ebbe un ruolo significativo nella Francia meridionale, fungendo da
tramite del diritto romano sino al tredicesimo secolo, allorché si affermò in una sostituzione la
compilazione giustinianea nel frattempo riscoperta in Italia.
Ci fu anche un editto di Teodorico. Si tratta infatti di una compilazione emanata in Italia intorno al
500 da Teodorico il Grande, re degli ostrogoti, il quale riconosceva la sovranità dell’imperatore
d’Oriente, considerandosi suo governatore d’Italia. Per questo motivo prende il nome di editto e non
legge, ed è destinata a valere per tutti i suoi sudditi, sia romani, sia ‘barbari’. Comprende 154 brevi
articoli, senza nessuna indicazione delle fonti da cui sono tratte le norme.

8. La compilazione giustinianea

L’opera di compilazione dovuta all’imperatore Giustiniano (527-565), denominata anche, nel


suo insieme, CORPUS IURIS CIVILIS (corpo del diritto civile), segna allo stesso tempo la fine e
l’inizio di un’epoca per la storia giuridica. Essa si colloca al termine della lunga vicenda del diritto
romano, chiudendo la fase antica della sua storia.
Il CORPUS IURIS CIVILIS dà inizio a una nuova vicenda del diritto romano, separata e diversa
rispetto a quella antica.
In essa è contenuta un’opera, il Digesto, che consiste in un’antologia ragionata (seguendo un
impianto sistematico) di frammenti tratti da scritti dei giuristi del passato. Il Digesto ci consente di
avere un’idea incompleta e in parte distorta, ma preziosissima, del pensiero dei giuristi antichi, del
contenuto delle loro opere, delle loro tecniche argomentative, del loro modo di affrontare i problemi
giuridici e di risolverli.
Il Digesto e il altre opere (Codice, Istituzioni e Novelle) sono il risultato di una felice combinazione
tra un rinnovato interesse per la cultura giuridica antica (il c.d. classicismo di Giustiniano) e la ricerca
di maggiore efficienza dell’ordinamento giuridico. Giustiniano afferma a ogni passo che egli

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persegue certezza del diritto e rapidità nei processi. La novità rispetto al passato è costituita proprio
dal fatto che si realizza anche una compilazione di scritti giurisprudenziali, abbandonando così la
soluzione meccanica e un po’ semplicistica della legge delle citazioni.
Lo scopo pratico avuto di mira da Giustiniano si traduce anche in una più approfondita riflessione sul
contenuto del potere imperiale e sull’uso degli strumenti legislativi che gli sono propri. La
dimensione assolutistica dell’impero tardoantico trova così alcune delle sue più lucide e consapevoli
formulazioni. In una famosa costituzione emanata nel 529, Giustiniano afferma solennemente che
l’imperatore è l’unico creatore e interprete del diritto. Ai sudditi è lasciato solo il compito di
applicare le leggi imperiali. Se c’è in esse qualcosa di oscuro e se si avverte qualche lacuna bisogna
rivolgersi al sovrano, perché vi provveda.

E’ significativo che proprio nella TANTA, al termine della compilazione più difficile, quella dei
diritti, sia contenuto il divieto di ogni interpretazione dei testi normativi. Le norme sono ormai chiare
e comprensibili; esse si devono perciò applicare e non già interpretare. Si consente soltanto, a scopi
didattici, la loro traduzione letterale in greco, la composizione di indici e il richiamo di passi paralleli.
Qualsiasi altra riflessione su di esse è vietata.

L’assolutismo imperiale esige programmaticamente il monopolio sia sulla produzione che


sull’interpretazione del diritto.
Il 13 febbraio 528 l’imperatore Giustiniano, alito al trono da meno di un anno, con la costituzione
HAEC QUAE NECESSARIO nominò una commissione per la compilazione di una nuova raccolta di
costituzioni imperiali. Ai compilatori vennero date istruzioni di modificare i testi legislativi in modo
da renderli più chiari, di eliminarne le parti superflue, di raggruppare le costituzioni riguardanti lo
stesso argomento, di tralasciare quelle abrogate, di eliminare ogni contraddizione. L’obiettivo era di
arrivare alla compilazione di un codice in cui confluisse il materiale contenuto nei tre codici
precedenti (gregoriano, ermogeniano e teodosiano) e le costituzioni successivamente emanate. Lo
scopo era soprattutto pratico: sostituire con un’unica opera i tre codici in vigore e le numerose
costituzioni che si erano venute accumulando dopo l’emanazione del teodosiano.
Il lavoro della commissione durò poco più di un anno e il 7 aprile 529, con la costituzione SUMMA
REI PUBBLICAE, venne pubblicato il nuovo codice.

Dopo la compilazione del nuovo codice si considera l’idea di procedere a una compilazione
di diritti. Il merito maggiore per aver proposto tale progetto e per esserne stato la guida, va dato a
Triboniano, che già presente nella commissione di compilazione del primo codice, divenne ben
presto QUAESTOR SACRI PALTII (il questore del palazzo sacro), cioè una specie di ministro della
giustizia.
Il 15 dicembre 530, con la costituzione DEO AUCTORE, diretta a Triboniano, si dà inizio
ufficialmente all’opera di compilazione. A Triboniano viene affidato anche il compito di scegliersi i
collaboratori per formare la commissione che dovrà procedere al lavoro.
Il materiale da raccogliere doveva essere tratto da scritti di giuristi muniti del diritto di rispondere
(IUS RESPONDENDI), senza tener conto dei limiti contenuti nella c.d. legge delle citazioni. I
commissari dovevano evitare contraddizioni e ripetizioni. I testi dovevano essere opportunamente

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modificati, per renderli più chiari e idonei al diritto vigente. I brani così selezionati e adattati erano da
distribuirsi in cinquanta libri, ciascuno dei quali diviso in titoli, seguendo l’ordine del Codice, e
dell’editto perpetuo. Una volta inseriti nel Digesto i brani giurisprudenziali erano da considerarsi
assimilati a costituzioni imperiali.
Il lavoro venne svolto assai rapidamente, in circa tre anni, e il 16 dicembre 533, con la costituzione
bilingue TANTA-..., Giustiniano pubblicava il digesto, preparando l’entrata in vigore al 30 dicembre
dello stesso anno. La costituzione prevede, inoltre, il divieto di far uso di testi normativi che non
siano tratti dallo stesso Digesto e dalle altre compilazioni ufficiali (Codice e Istituzioni), e ricorda che
il grande “rispetto nei confronti degli antichi” aveva indotto a non tacere il nome dei giuristi,
indicando l’autore di ogni frammento.

Il Digesto (abbreviato con D.) è diviso in cinquanta libri, ciascuno dei quali diviso a sua volta
in titoli, muniti di una rubrica che indica l’argomento trattato nel titolo. All’interno dei titoli seguono
i frammenti, tutti preceduti da un breve iscrizione, che indica l’opera da cui il frammento è tratto e il
giurista che ne è l’autore. I frammenti più lunghi sono divisi in un principio e in più paragrafi.
La costituzione TANTA a scopi soprattutto didattici, divide il Digesto in sette parti: 1) comprende i
libri 1-4 riguardo ai principi generali e alla giurisdizione; 2) la PARS DE IUDICIIS 8libri 5-11),
dedicata al processo; 3) la PARS DE REBUS (12-19), che tratta di obbligazioni e contratti; 4)
l’UMBLICUS (20-27) che si occupa di obbligazioni e diritto di famiglia; 5) DDE TESTAMENTIS
(28- 36), relativa alla successione testamentaria; 6) libri 37-44 dedicati ad altri istituti successori e ad
argomenti eterogenei; 7) ultima parte che comprende gli ultimi cinque libri, riguardo a vari
argomenti tra cui la STIPULATIO, il diritto criminale, l’appello, il diritto municipale.
Giustiniano dichiara in modo esplicito che i brani dei giuristi raccolti nel digesto hanno lo stesso
valore delle costituzioni imperiali e che pertanto debbono trovare applicazione in tutti i processi, sia
futuri, sia ancora precedenti.

Metodo seguito dai compilatori nel compiere il Digesto: due principali spiegazioni; teoria delle
“masse” e l’esistenza di compilazioni a catena, i c.d. Predigesti.
Il 21 novembre 533 Giustiniano con la costituzione IMPERATORIAM pubblicò un nuovo manuale
istituzionale: le ISTITUTIONES (Istituzioni). Esse sono costruite sul modello di Gaio,
rispettandone la divisione in quattro libri e la distribuzione della materia in tre parti (PERSONAE,
RES, ACTIONES). A differenza del manuale gaiano, i libri sono però divisi in titoli e inoltre vi è alla
fine un breve titolo dedicato al diritto e al processo penale, che non c’è in Gaio.
Non si tratta solo di un manuale scolastico: le Istituzioni giustinianee hanno infatti anche un valore
normativo, tanto che in alcuni casi introducono delle riforme.
Pochi giorni prima della pubblicazione delle Istituzioni, con la costituzione OMNEM (533),
Giustiniano riformò gli studi giuridici. Gli studenti dovevano utilizzare, come tesi di studio, le opere
comprese nella compilazione. Non si poteva far più uso degli scritti degli antichi giuristi.
C’era però il problema della lingua: i testi del CORPUS IURIS erano scritti in latino, lingua che nno
era compresa dagli studenti orientali, i quali conoscevano solo il greco. I professori di diritto
apprestarono perciò una serie di opere didattiche, in greco, per rendere accessibili Istituzioni,
Digesto e Codice ai loro studenti.

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Dalla data di pubblicazione del primo Codice (7 aprile 529) alla costituzione DEO AUCTORE (15
dicembre 530) Giustiniano emanò varie costituzioni, che l’imperatore stesso denomina nel loro
insieme cinquanta decisioni (QUINQUAGINTA DECISIONES), tramite le quali vennero affrontate
varie questioni controverse.
Subito dopo la compilazione del Digesto, l’imperatore diede incarico a Triboniano, posto a
capo di una commissione ristretta, di procedere alla necessaria revisione e integrazione del Codice,
facendo tutte le modifiche, i tagli e le correzioni che si rendessero necessari. L’opera procedette
velocemente e con la costituzione CORDI del 534 venne pubblicato il secondo Codice, il CODEX
REPETITAE PRAELECTIONIS che sostituiva integralmente il primo.
Il codice è diviso in dodici libri suddivisi in titoli. All’interno di ciascun titolo i frammenti delle
costituzioni si susseguono in ordine cronologico. Ogni frammento è preceduto da una prescrizione
che contiene il nome dell’imperatore o degli imperatori che emanarono il provvedimento ed è
completato da un sottoscrizione con la data di emanazione.
Dopo la pubblicazione del CODEX REPETITIAE PRAELECTIONIS Giustiniano proseguì la sua
attività legislativa, emanando numerose costituzioni nominate Novelle (NOVELLAE). Esse non si
unirono mai in un a compilazione ufficiale, ma circolarono in raccolte private, che finirono per
comprendere anche costituzioni emanate dai suoi immediati successori.

Molte novelle affrontano problemi di diritto amministrativo o di diritto pubblico in genere, ma non
mancano i provvedimenti a tematiche privatistiche, soprattutto di diritto successorio e di famiglia. Le
Novelle sono scritte in greco, perché in <oriente era la lingua prevalente.
Alla fine del nono secolo ci si ricollega nuovamente al CORPUS IURIS; così l’imperatore Leone il
Filosofo realizza una nuova grande compilazione con lo scopo di sostituire definitivamente quella
giustinianea. Si tratta dei Basilici, o LIBRI BASILICORUM, che raggruppano in sessanta libri tutto il
contenuto del CORPUS IURIS, seguendo l’ordine del Codice.
Nei secoli successivi il testo dei Basilici fu terminato da numerosi commenti, detti scoli, tratti
anch’essi in parte dalle opere dei giuristi giustinianei e in parte da scritti più recenti.
I Basilici sono una raccolta di brani tratti da opere di giuristi antichi (giuristi del sesto secolo).
L’ultima opera di questo genere è un manuale in sei libri (Hexabiblos) di Costantino Armenopulo,
scritto intorno al 1345.
Per quanto riguarda l’Occidente basta ricordare che la compilazione giustinianea venne introdotta in
Italia, dopo la sua riconquista, con la c.d. PRAGMATICA SANCTIO PRO PETITIONE VIGILII, una
costituzione inviata da Giustiniano al papa Vigilio nel 554.

CAPITOLO 3
IL DIRITTO PRIVATO

1. PERSONE E FAMIGLIA
1a. Gli status personali
Sui iuris e alieni iuris

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Questa distinzione si e’ mantenuta, ma on significativa evoluzioni nei rapporti tra padre e


figli, i padri tesero a trattare con maggiore umanità i figli, rispettandone in molti casi la personalità e
le aspirazioni, e nel 318, Costantino aveva stabilito che il padre che uccidesse il figlio fosse punito con
la poena cullei, cioè la stessa pena che colpiva i parricidi, e più tardi Valentiniano e Valente,
riconobbero il potere correzionale dei padri verso i figli ma affermando nello stesso tempo che se le
colpe dei figli fossero talmente gravi da richiedere l’irrogazione di pene in senso stretto allora le
gestione diventava di competenza dei funzionari pubblici.

La schiavitù
Nel tardo antico a causa della fine delle guerre di conquista, la quantità degli schiavi e’
notevolmente diminuita, e questo comportava un aumento dei prezzi degli schiavi, e i proprietari
erano svantaggiati da ciò visto che non poteva farne più uso della manodopera servile, e fare anche
molta più attenzione allo stato di salute degli schiavi che avevano e che non erano più facile te
sostituibili in caso di morte, e la fonte principale di schiavi ora era la nascita da madre schiava.
Diocleziano aveva stabilito nel 300 che fosse concessa la libertà dello schiavo che per un periodo di
20 anni avesse vissuto in buona fede come uomo libero, una successiva costituzione di Costantino
certifica che tale periodo e’ stato ridotto a 16 anni.
molto incisive furono anche le disposizioni di giustiniano, nel 528 egli dichiarò decadute le
norme della legge Fufia Caninia nei punti in cui ponevano limiti alle manomissioni, nel 531 abrogò la
categoria del latini iuniani, schiavi liberati in seguito all’antica lex Iulia Norbana, che erano privi di
testare e tramettere i beni che alla loro morte spettavano agli antichi padroni, nel 536 dispose che lo
schiavo abbandonato dal dominus acquistasse immediatamente la libertà.
La riduzione degli schiavi porto ad alcuni problemi in relazione al lavoro dei libri coloni, il lavoro
libero non fu valorizzato, ed alcune categorie di lavoratori si trovano in situazioni sociali e giuridiche
peggiore rispetto alle epoche precedenti, quasi paragonabili a quelle degli schiavi, ed i re del IV e V
secolo vollero vincolare obbligatoriamente alle loro professioni varie categorie di soggetto insieme
con i loro figli e discendenti: i coloni, i decurioni, i militari e coloro che svolgevano un pubblico
servizio, come i panettieri, i battellieri e minatori.
I coloni subiranno molte limitazioni, alcune disposizioni imperiali impedivano loro di
lasciare la terra, vieta ai proprietari del fondo di allontanare i coloni dal fondo, e se vendevano era
proibito portare via i coloni. Successivamente una legge di Teodosio I, alla fine del IV secolo,
riconosce ai coloni lo status di uomini liberi, ma in relazione al loro rapporto con la terra non esita a
definirli servi terrae, per descrivere questo rapporto con la terra si giunse a iscrivere nei registri
fiscali accanto ai dati identificativi del fondo , il nome dei coloni.
Lo status di colono si creava con la nascita da madre contadina.

Altra categoria sociale colpita furto i decurioni, membri delle curie, questi appartenenti a ceti
nobiliari con reddito elevato, rivestivano un rande prestigio r fortemente ambito, avevano pero visto
gradualmente peggiorare la loro condizione, soprattutto quando furono attribuiti a loro i munera,
oneri nei confronti della città, che si estrinsecavano alla costruzione di opere pubbliche, prestazioni
di servizi di utilità generale, organizzazione di giochi, a ciò si aggiungeva che il loro compito

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principale era la riscossione delle imposte di cui risedevano in caso di mancato gettito con il
patrimonio personale.
La legislazione del tardo antico vuole colpire chiunque esercitasse un mestiere ritenuto di interesse
pubblico, gli stessi soldati furono assoggettati a norme molto severe, nel 319 una costituzione di
costanti stabilì che i figli dei veterani che fi fossero tagliati le dita per sfuggire al servizio militare
fossero assoggettati ai munera curiali.

Cittadini e stranieri
Nel 212, Caracalla aveva concesso un editto, noto come costitutio Antoniana in cui aveva
concesso la cittadina romana a tutti i sudditi dell’impero, ad eccezione dei dediticii, cioè abitanti di
territori che amministrati direttamente dai romani erano privi di un’autonomia cittadina, una piccola
minoranza di soggetti.

1b. Le agregazioni parentali


La patria potestas e i relativi aspetti patrimoniali
riporta quello che ho scritto al 1a.
Le costituzioni imperiali individuano nuove cause di estinzione della patria potestà, derivanti
dall’assunzione di dignità o cariche elevate, la perdita della patria potestà viene inoltre pesista come
pena accessoria conseguente alla condanna per aver commesso determinati crimini.
Subisce mutamenti anche l’emancipazione, l’imperatore Anastasio ammise la possibilità che potesse
venire anche per rescriptum principis; mentre Giustiniano dispose che potesse essere effettuata oltre
che per rescritto imperiale anche davanti al giudice competente.
L’introduzone del peculio rafforza l’autonomia patrimoniale del filius familias, Costantino
estende il peculio anche a figure come avvocati e ecclesiastici.
La figura della bona materna, e cioè i beni lasciati al figlio dalla madre, l’imperatore riconosce al pater
familias solo la possibilità di godere dei frutti senza poterli alienare e in caso si emancipazione del
figlio trattenere solo 1/3 di questi bei, più tardi questa disciplina viene estesa anche ai beni
provenienti dalla famiglia materna.
in diritto giustinianeo si afferma la distinzione tra:
- peculio avventizio- la titolarità di questo comprende i cespiti patrimoniali autonomamente acquisiti
dal filius familias, spesa a questo, e al pater solo il usufrutto;
- peculio prefettizio- beni acquistati dal filius familias per il tramite di mezzi paterni, spetta al padre la
titolarità.

La legittimazione dei figli naturali


In età tardoantica con l’espressione liberi naturales vengono individuati i figli nati
dall’unione tra un uomo e una donna in assenza della maritalis affectio, chiamata concubinato, la
legittimazione di essi permette l’acquisto della patria potestas sui figli procreati al di fuori del
matrimonio e in un momento successivo alla nascita.
La forma principale di legittimazione e’ quella per susseguente matrimonio, disciplinata
definitivamente da Giustiniano, e l’introduzione di questa disciplina non era rivolto alla protezione
degli interessi della prole naturale, ma retta a disincentivare le unioni concubinarie e la moralità dei

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costumi.
La legislazione di Teodosio II per migliorare la condizione dei liberi naturales, gettò le basi di una
vera e propria forma di legittimazione, e viene stabilita che in mancanza di prole legittima e di
ascendete il padre naturale potesse istituire il figlio naturale o donargli il proprio patrimonio, a
codrione che venisse offerto alla curia e che altrettanto potesse avvenire nei confronti della figlia
naturale purché fosse in matrimonio curialis adscita.
La legittimazione per rescritto imperiale viene introdotta e disciplinata nella legislazione novellare di
Giustiniano, e si trattava di una forma di legittimazione on carattere sussidiario, vi si poteva fare
ricorso in assenza di figli legittimi quando non risultasse praticabile la legittimazione per
susseguente matrimonio (per morte della donna, sua prolungata assenza, scelta di vita religiosa,
condotta di vita immorale).
Gli interpreti successivo individuano la legitimatio per nuncupationem, e si tratta del caso in
cui un padre abbia dichiarato di avere un figlio, avuto da donna libera e con cui fosse possibile il
matrimonio, in un idoneo documento.

Il matrimonio e il divorzio
Si ha una limitazione del divorzio, e una decisio di Giustiniano affronta il tema del valore
dell’assenso prestato dall’ascendete malato di mente, mentre nel caso del matrimonio della donna si
poteva prescindere da tale elemento, dal testo della decisio, apprendiamo che la questione era già
emanata, stando alla testominanza di Upliano, una costituzione di Marco Aurelio, che riconosceva al
figlio mente captus di entrambi i sessi la possibilità di contrarre matrimonio senza una specifica
dispensa imperiale, ma si era generata l’incertezza se siesta disposizione fosse applicabile anche al
figlio del furiosus, e cioè del malato di mente con piccoli intervalli si lucidità, cosi la cancelleria
giustinianea interviene e stabilisce per il figlio del demens (mente captus) dovesse valere anche per il
figlio del furiosus.
In relazione al matrimonio fra parenti, Costanzo II vietò il matrimonio con la figlia del fratello,
Teodosio I proibì le nozze tra cugini, in diritto giustinianeo però le nozze fra cugini sono
perfettamente lecite.

L’affermazione del cristianesimo porta a guardare con sfavore lo scioglimento dell’unione


matrimoniale, la legislazione constantiniana introduce dei limiti concernerei il divorzio unilaterale
(repudium), ferma restando la possibilità di sciogliere il matrimonio con il consenso di entrambi i
coniugi, l’imperatore cristiano stabilisce, sotto la minaccia di gravisnazioni che si possa procedere al
ripudio solo quando sussistono alcuni gravi motivi tassativamente elencate dalla legge (tria crimina, la
moglie adultera, medicamentaria - preparatrice di veleni) o mezzana, o se la donna decide di divorzia
perché il marito e’ omicida, medicametarius o violatore di sepolcri.

I rapporti patrimoniali fra coniugi


donatio ante nuptias- e’ un istituto che costituiva l’apporto patrimoniale della marito alla
moglie in vista del futuro matrimonio, Giustiniano interviene sulla relativa disciplina e stabilisce che
tali donazioni possono essere a determinate condizioni, incrementate e perfino costituite in costanza
di matrimonio, e cioè nei limiti di un corrispondente aumento della dote.

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L’adozione
Cambiano le modalità dell’adozione e l’adrogratio, questo’ulitma sinopie attraverso rescritto
imperiale, Giustiniano dispone che l’adozione venga realizzata davanti al giudice competente.
Giustiniano riscontra nell’istituto dell’adozione un vitium: il figlio adottivo dopo la morte del padre
natural avrebbe potuto perdere ogni aspettativa successoria nei confronti sia del padre naturale, sia
del padre adottivo. Stabilisce dunque che l’adozione producesse di norma il solo effetto di far
acquistare aspettative successorie ab intestato nei confronti dell’adottante, senza incidere sul legame,
potestativo.

La tutela e la cura
Scopare definitivamente la tutela alle donne, sopravvive suolo la tutela sugli impuberi, il
riconoscimento della rilevanza della parentela di sangue (cognatio) si ripercuote sulla individuazione
dei soggetti chiamate a ricoprire l’ufficio di tutore, e cioè adgnati di grado ulteriore, il fratello
emancipato, nell’ultimo diritto giustinianeo sono chiamati i parenti più vinci in grado, ed anche la
donna può esercitare funzioni di tutore legittimo. La tutela e la cura e’ riservata a soggetti che hanno
compiuto 25 anni.

2. LE SUCCESSIONI A CAUSA DI MORTE


2a. Linee generali dell’evoluzione in età tardoantica e giustinianea

Tende ad offuscarsi fino a scomparire del tutto la distinzione tra hereditas e bonorum
possessio, testimoniaza di questo processo e’ una costituzione di Valentiniano III del 446, che
introduce una regola generale secondo cui la honorem possessio si acquista indipendentemente dalla
richiesta in tale senso rivolta all’organo giurisdizionale.
Si attribuisce sempre maggior rilievo al vincolo di sangue, vengono progressivamente meno le
incapacità stabilite dalla legislazione matrimoniale augustea, il celibato e’ guardato con favore dalla
nuova morale cristiana, con G. viene meno anche la capacità di succedere delle persone incertae.
G. stabilise una regola rispetto alla delazione, e cioè che gli eredi del delato possono adire l’eredita
entro il termine di un anno, dal momento in cui quest’ultimo ha avuto notizia della chiamata.
scompare la cretio, G. introduce il beneficium inventarii.

2b. La successione ab intestato


pag 451. - riprende più o meno 2a.

2c. La successione testamentaria


Teodosio II e Valentiniano III prescrivono l’intervento di 7 testimoni per ogni forma di
testamento ordinario, l’apposizione di sigilli e firme de testimonio a cui segue al sottoscrizione da
parte del testatore.
si afferma cosi un testamento chiamato da G. a regime tripartito, che trova fondamenti del diritto
civile (da qui discendono i requisito dell’impiego dei testimoni e dalla loro presenza contestuale),

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nelle cost. imperiali (req. della sottoscrizione del testatore e dei testimoni) e nel diritto pretorio (req.
dell’apposizione dei vigili e il numero dei testimoni).
Una cost. di Val. III ammette la validità del testamento olografo, redatto di proprio in pugno dal
testatore, senza la presenza di testimoni.
In età tardoantica nascono due forme di testamento pubblico: test. apud acta e quello principi
oblatum.
La legilslazioni di età tardoantica e giustinianeo disciplinano pi forma di testamenti speciali, che
prescindono in tutto o in parte dai predetti requisiti.
—> test. parentis inter libero - dal genitore a favore dei figli, cateterizzato da assoluta libertà
di forme;
—> test. ruri conditum- sono sufficienti 5 testimoni.
Per quanto riguarda l’istituzione di erede, Costantino abolì ogni formalismo, si poteva usare ogni
espressione purché irsulatse in modo univoco la volontà del disponenente, G. riconobbe che il legato
potesse precedere l’istituzione di erede, lo stesso imperatore stabilisce anche la sostituzione quasi
pupillare in forza del quale l’ascendete di un mentecaptus poteva nominare un sostituto per il caso in
cui l’incapace fosse morto senza aver riacquistato la sanità mentale.

2d. La successione contro il testamento


G. con una riforma del 528 stabiliva che chi avesse ricevuto qualcosa ma meno di 1/4 poteva
soltanto chiedere l’integrazione della propria quota.
viene stabilito inoltre che dli ascendete i discendi non possono essere diseredati se non in presenza
diana giusta causa tassativamente elencata dalla legge- se non sussistevano tale cause QUERELE
INOFFICIOSI TESTAMENTI.

2e. Codicilli, legati e fedecommessi


vengono previsti dei requisiti per i codicilli, in particolare l’intervento di 5 testimoni, e se
l’atto redatto per iscritto anche l’apposizione della loro firma.
l’exaequatio di legati e fedecommessi, il legislatore ritiene necessario parificare le due formi di lasciti,
e ad entrambe si doveva applicare il regime più favorevole, nel caso di discordanze- prevalenza della
disciplina più umana del fedecommesso.

3. IL PROCESSO PRIVATO
3a. La cognitio extra ordinem
Questa età segna il definitivo affermarsi di questa cognitio. Si e’ soliti dire che il processo per formula
sarebbe stato definitivamente abbandonato a seguita di una costituzione del 342 di Costanzo II e
Costante.
I caratteri del nuovo procedimento: a cominciare dall’età di Costantino diventa obbligatorio
effettuare la citazione del convento col sistema della litis nuntiatio: attraverso il c.d libellus
denuntiationis, l’attore esponeva le proprie pretese verso la controparte, e iscritta la causa a ruolo
presso il tribunale competente, chiedeva al giudicante di dar corso all’istanza.
se la denunciation fosse ragionevole la faceva notificare a convenuto che aveva 4 mesi per potersi
costituire in giudizio, depositando il suo l. contradictionis, se non si presenta ingiustificatamente

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allora il processo continuava in contumacia.


assistiti dagli advocati, il giudicante esaminava le prove in una o più udienze, dava importanza al
giuramento, poca credibilità ai testi “ un solo teste, nessun teste”.

Cognitio extra ordinem

La terza ed ultima forma di procedura che si sviluppa in Roma già nel Principato e che va sempre più
prendendo piede, fino a far sparire completamente quella formulare, abolita per legge, come si era
già ricordato, nel 342 d.C. (da parte dei figli di Costantino), è data dalla c.d. cognitio extra ordinem.

Innanzitutto, per quanto concerne l'origine della cognitio, la cosa più verosimile sembrerebbe che
essa sia da riportare agli interventi decisori del princeps, magari inizialmente su appello, o per essere
più esatti appellatus, in quanto cioè chiamato in soccorso contro il provvedimento di un organo dello
Stato, specie in materia fiscale e in senso ampio amministrativa.

Passando alle caratteristiche di questa nuova forma di procedura, la fondamentale da cui discendono
tututte le altre, era data, come s'intende, dall'intervento notevole e senza dubbio preponderante
dell'autorità statale. Mentre, infatti, il processo formulare poteva ben definirsi un processo
privato, sia per i ruolo decisivo svolto in esso dalle parti in causa — le quali ne erano le protagoniste
principali, dalla in ius vocatio fino alla conclusione della fase in iure mediante la litis contestatio — sia
per l'emanazione della sentenza, che era affidata — come si è detto e ripetuto — ad un giudice privato,
di fiducia delle parti medesime.
Nella cognitio tutto ciò scompare, per far posto all'intervento del giudice-funzionario, il quale
diventa il vero signore del processo. 
Costui collabora, quando non provvede direttamente alla citazione delle parti in giudizio, istruisce il
processo, scegliendo e valutando i vari, mezzi di prova e, finalmente, emana egli stesso la sentenza o
la rimette ad un giudice che è comùnque un suo delegato (index pedaneus). 
Dal canto suo la condanna non è più necessariamente di carattere pecuniario, potendo consistere
nell'ordine di restituire o rilasciare la cosa controversa (condanna in forma specifica); è eseguibile
con la forza (manu militari)' e naturalmente, dato il sistema gerarchico tipico della burocrazia
imperiale, è impugnabile in sede di 'appello' davanti al funzionario di grado più alto e, tranne alcuni
casi, persino davanti all'imperatore.

Diviene inoltre possibile con la cognitio anche il c.d. processo "contumaciale, svolto cioè
nell'assenza di una delle parti, la quale non è detto che debba avere torto solo per questo, anche se il
suo coniportrtamento è in certo modo penalizzato, con l'escluderla dalla possibilità di appellare.
3b. I procedimenti speciali e la giurisdizione ecclesiastica
i procedimenti speciali
La suplicatio all’imperato affinché giudicasse egli stesso in appello, o facesse giudicare una
causa per la quale l’appello non fosse stato presentato nei termini
la richiesta al giudicante di una in integrum restitutio - per eliminare le conseguenze di un

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errore procedurale compiuto dallo stesso richiedente o di una falso dell’avversario


la richiesta al giudicante di dichiarare nulla la sua sentenza per mancanza di presupposti
indispensabili o di requisito essenziali;
la cognitio de plano o sommaria - ricorso a una procedura d’urgenza quando c’era necessità di
una decisione immediata, senza i ritardi delle forme ordinarie;

la giurisdizione ecclesiastica e l’episcopalis audientia - istituto che consentiva che la giurisdizione


del vescovo avesse valore non solo nelle cause religiose ma anche in quelle civili, se le parti avessero
preferito rivolgersi al tribunale ecclesiastico, il vescovo giudicava in forza di un compromesso delle
parti , aveva a stessa autorità di del prefetto de; pretorio, il che vuol dire che erano inappellabili.

4. I RAPPORTI GIURIDICI CON LE COSE


4a. Le res: nuove classificazioni

In età giustinianeo venne meno una fondamentale distinzione: res mancipi e res nec mancipi,
ed anche la mancipatio scompare del tutto dal diritto giustinianeo. Troviamo distinzione tra res
mobiles e immobiles , questa distinzione era utile a dare valore al principio per cui gli immobili
rappresentano i beni di maggi importanza sul piano economico sociale.

4b. La proprietà: progressiva unificazione dei tipi


Si defini un’idea unitaria del diritto di proprietà, Giustiniano affermo che che non vi era più
alcuna differenza tra i proprietari, e cosi venne meno la distinzione tra fondi in solo italico e fondi
provinciali, ma questo diritto in contro dei limiti, come l prevalenza dell’interesse publico su quello
privato e al potere politico, si segnano novità anche nell’ambito dei modi di acquisto, specie per
quelli a titolo derivativo, abolite la mancipatio e l’in iure cessio, resta solo la tradito, ma la consegna
della cosa tese a divenire speso un fatto solo simbolico.
per la compravendita era richiesto che si rediga un documento scritto innanzi a testimoni.

4c. L’evoluzione degli iura in re aliena


La categoria dei diritti reali su cosa altri ha subito significative evoluzioni, sopratutto con riguarda
all’enfiteusi, che designava il rapporto di connessione di terre, tra città e privati, che si impegnavano
a renderle fruttifere.
Con Constanito si affermano due tipi di concessione:
ius perpetuum - che ir guarda i fondi del fisco e il cui canone era immodificabile
ius emphyteuticarium- che aveva ad oggetto i terreni della dinastia imperiale e che prendeva la
variazione del canone.
nel V secolo riunite dell’emphyteusis
Subisocno importante modiche il pegno e l’ipoteca, riuniti nella categoria del pegno, il primo
applicabile ai beni mobili, l asseconda agli immobili.

5. LE OBBLIGAZIONI

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5a. Fonti e tipologie


Le isti. di Giustiniano:
- obb. da contratto
- quasi da contratto
- da delitto
- quasi da delitto
Tornado alle Istituzioni di Giustiniano , si analizzano le obbligazioni da contratto.

Quel che comunque parrebbe sicuro è che nelle Istituzioni di Giustiniano quando si parla di contratto
s'intende alludere, ormai "accordo", ossia ad un incontro di volontà, anche se sarebbe vano
cercarne una documentazione testuale.
Si è già visto come Gaio distinguesse fra obbligazioni che si contraevano re, verbis, litteris e consensu,
dove, come pure si è notato, un solo tipo di obbligazioni riposava sull'accordo delle parti quelle
appunto poste in essere consensu, mentre le altre nascevano come già anticipato — o dalla consegna
di una cosa (re); o dalla rinuncia di determinate parole (verbis) o da una particolare anno :azione
scritta (litteris).
Con Giustiniano, invece, la res, i verba, le litterae non sono considerati  più i fatti costitutivi da cui si
origina giuridicamente l'obbligazione, ma solo elementi perfezionatori della stessa .

QUASI CONTRATTI: atti leciti produttivi di obbligazione, che non integrano la figura del contratto,
perché vi manca l’accordo.
Obbligazioni quasi ex contractu

Questi rapporti obbligatori :furono raccolti insieme solo da Giustiniano il presupposto della
mancanza in essi di un accordo, anche se ciò, almeno in maniera esplicita non viene mai; detto per
nessuno di essi.
Il primo caso riguarda la gestione di affari altrui (negotiorum gestio), che si aveva quando taluno si
prendesse cura degli affari di un altro, di propria iniziativa, senza cioè averne avuto incarico.
Anche nel caso del tutore, che era responsabile per la sua gestione nei confronti del pupillo, il quale
ultimo, tuttavia, doveva a sua volta indennizzarlo delle eventuali spese.
Anche il caso dell'erede, che si trovasse obbligato ad eseguire il legati disposti dal testatore.
L’ultima figura di obbligazione quasi ex contractu è quella della solutio indebiti

1) Solutio indebiti: si richiede l’ignoranza del solvense dell’accipiens; l’accipiens è obbligato a


ritrasferire al solvens quanto ricevuto indebitamente oppure l’equivalente in denaro.

Condictio indebiti
2) Negotiorum gestio: quando un soggetto, anche nell’ignoranza dell’interessato, e comunque senza
averne ricevuto mandato, cura affari altrui. La gesrtione deve essere iniziata utilmente.
Al gerito compete l’actio directacontro il gestore per la prosecuzione delle attività intraprese, ll
trasferimento degli effetti ed eventualmente per i danni.

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Il gestore poteva utilizzare l’actio contrariaper eventuali spese e danni e per costringere il gerito ad
assumere su di sé gli effetti
Obbigazioni da Delitto: I delitti dello ius civile.

Passando alle obbligazioni da delitto, sia Gaio che Giustiniano precisano subito che esse sono tutte
di un unico genere in quanto si originano re, ossia con il delitto stesso.

I delitti, o atti illeciti privati, dai quali nasceva l'obbligazione di pagare una pena pecuniaria  e di cui
ci dobbiamo occupare ora erano : a) il furto, b) la rapina, c) il danneggiamento e d) l’iniuria .

a)    Nelle Istituzioni di Giustimano  troviamo una definizione, secondo cui «il furto e la contrectatio
fraudulosa di una cosa o anche dell'uso o del possesso della cosa stessa, vietata dalla legge di
natura» (lex naturalis). 
      Fin dall'antico esistevano vari tipi di furto, che tuttavia si ridussero sostanzialmente a due: il
furto flagrante (manifestum) e il non flagrante (nec manifestum). 
      Circa le diverse conseguenze penali, al tempo delle XII Tavole, per  il furtum manifestum,
commesso da un libero, c’era la battitura con le verghe (verberatio) e l'assegnazione (addictio) al
derubato del colpevole .
      Se si trattava di uno schiavo, c'era parimenti a verberatio,cui seguiva la messa a morte, mediante
precipitazione dalla rupe Tarpea.

In seguito fu invece introdotta, anche per il furto flagrante, un azione che portava solo alla
condanna ad una pena pecuniaria nel quadruplo del valore della cosa rubata. Per gli altri tipi di furto,
del resto, la pena era sempre stata pecuniaria, e precisamente nel doppio per il furto non flagrante,
nel triplo per il conceptum o l’oblatum e nel quadruplo per il prohibitum. 
L'azione nascente dal furto (actio furti) spettava a chi, proprietario o meno della cosa, avesse
interesse a che la cosa stessa non venisse rubata.

b)    Nell'ultimo secolo della Repubblica, per il danneggiamento o la sottrazione di beni compiuti con
bande organizzate ed armate, un pretore, Luculo (76 a.C), aveva concesso un'apposita azione che
comportava, purché fatta valere entro l'anno, la pena del quadruplo. 
In seguito, tuttavia, questo mezzo processuale fu inteso come diretto a colpire semplicemente la c.d.
rapina; ossia il furto con violenza; perfino di una cosa singola, come si dà carico di specificare Gaio.

c)     La lex Aquilia, che poi era un plebiscito aveva introdotto una nuova figura di delictum, costituita
dal danneggiamento o damnum iniuria datum. 
Questa legge aveva tre capitoli, di cui, tuttavia, il secondo restò presto senza applicazione. Quanto
agli altri due capitoli, il primo sanzionava l'uccisione di uno schiavo o di un capo di bestiame

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altrui . Quanto alla pena, la legge la commisurava al massimo valore avuto dallo schiavo o dal
quadrupede nell'ultimo anno.
Il terzo capitolo della lex Aquilia sanzionava, invece, ogni altro danno, ovverosia il ferimento di uno
schiavo o di un quadrupede nonché l'uccisione o il ferimento di qualsiasi altro animale, come pure la
distruzione o il deterioramento di una cosa inanimata.

d)    L'ultimo delitto di cui dobbiamo occuparci è l'iniuria. Innanzitutto Giustiniano premette delle
delucidazioni sul termine stesso di iniuria, che può avere - egli dice - svariati significati, indicando in
genere tutto ciò che non avviene in conformità al diritto, e, in specie, o l'offesa (contumelia), o la
colpa, come appunto nella espressione damnum iniuria datum della lex Aquilia o, infine, una
iniquità od una ingiustizia.
E’ chiaro che qui interessa il significato di iniuria nel senso di offesa che poteva essere non solo
fisica, come dare un pugno ad uno ma anche morale, come il fare codazzo dietro a qualcuno con
schiamazzi e strepiti (convicium). 
Quanto alla pena, quella fissata dalle XII Tavole era del taglione come si era già avuto modo di
ricordare — per il membrum ruptum (ossia per la perdita di un braccio o di una gamba) e di 300 assi, e
150 assi per il caso di osfractum (rottura di un osso), rispettivamente ai danni di un uomo libero o di
uno schiavo, mentre ammontava a 23 assi per le altre iniuriae (semplici percosse).

Obbligazioni quasi ex delicto:

Si tratta di quattro ipotesi, in cui l'azione era stata data dal pretore e che quindi, secondo alcuni, si
contrapporrebbero ai veri delitti visti fin qui, considerati come delitti dello ius civile.
Passando ad esaminare le varie ipotesi, una era infatti quella lei giudice responsabile per colpa
propria, ossia — come si suole ripetere — per aver male giudicato (iudex qui litem suam fecit) , del
quale Giustiniano si limita a dire che non avrebbe commesso un vero proprio delitto, pur avendo in
qualche modo peccato, almeno per imprudenza

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