Sei sulla pagina 1di 142

lOMoARcPSD|22123669

Riassunto manuale storia medievale

Storia medievale d (Università degli Studi di Torino)

Studocu non è sponsorizzato o supportato da nessuna università o ateneo.


Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)
lOMoARcPSD|22123669

STORIA MEDIEVALE
PARTE PRIMA: LA TRASFORMAZIONE DEL MONDO ROMANO
L'idea di Medioevo nasce dal quindicesimo secolo per individuare un periodo di mezzo. L'epoca ha
un connotato negativo .Il termine Medioevo è utilizzato per indicare convenzionalmente un
periodo tra due cambiamenti radicali:
1. la trasformazione del mondo romano
2. la formazione dell'Europa moderna
L’Impero cristiano
Il periodo tardo antico indica gli ultimi secoli dell'età romana e è una fase di confronto tra diversi
modelli di civiltà e spiritualità. Le fonti che ci informano di questo periodo sono perlopiù
cristiane che eclissano le posizioni pagane oppure fonti romane che parlano della costruzione
dell'identità etnica delle popolazioni germaniche ( punto di vista dei romani).
La fine del II secolo rappresenta un momento di transizione caratterizzato dal concludersi
dell'espansione militare dell'impero e dall'inizio dell'impero tardoantico. Contrariamente a come
si può pensare, l'impero non era uno spazio di civiltà omogeneo ma riuniva popolazioni diverse per
tradizioni, lingue e religioni, con livelli di romanizzazione molto variabili. Queste popolazioni erano
coordinate da una straordinaria macchina statale, fiscale e militare. Questo apparato subì una
profonda crisi lungo la seconda metà del III secolo, con una serie di lotte per il trono che portarono
alla presenza di più imperatori contemporaneamente. Il potere Imperiale fu ripristinato sotto
Diocleziano che riaffermo un efficace controllo sul territorio, condividendo il potere a partire dal
285 con Massimiano, in quella che fu chiamata diarchia, che fu semplicemente una condivisione di
responsabilità ( superiorità di Diocleziano) e non una divisione territoriale. Da questo momento
emersero polarità, diverse da Roma, come l'oriente, dove agì Diocleziano, e la Gallia, ambito di
azione di Massimiano. Contemporaneamente Roma iniziò lentamente a perdere le funzioni di
unica capitale, restando comunque il centro simbolico dell'impero e la sede del Senato. Questa
polarizzazione tra Oriente e occidente si accentuò quando la diarchia divenne una tetrarchia ( due
Cesari che affiancavano i due Augusti). Lungo il quarto secolo non ci furono due imperi, ma spesso
due imperatori. Sull'antica città di Bisanzio, l'imperatore Costantino nel 324 fondò Costantinopoli e
di cui nel 330 celebrò la dedicatio, ovvero la consacrazione della città. Issa nacque subito come
una residenza Imperiale e non come una capitale, ma si affermò come punto di riferimento forte
del potere imperiale nel Mediterraneo orientale. L'ulteriore anomalia di Costantinopoli la presenza
di un Senato, che da sempre rappresentava il fondamento primo del potere romano Ma era solo
una sorta di appendice del senato di Roma, l'assemblea di quei senatori particolarmente attenti
alle aree orientali dell'impero e che per questo avevano seguito Costantino nella sua nuova
residenza. Solo nel V secolo, Costantinopoli divenne una vera e propria capitale. Questa
evoluzione di Costantinopoli fu resa possibile anche dalla divisione tra una parte orientale è una
parte occidentale, che si realizzò nel 395 con la successione a Teodosio I, dopo la dura sconfitta di
Adrianopoli. Teodosio aveva infatti capito che avrebbe avuto un maggior controllo dell'intero
territorio solo con una spartizione che affidasse a ogni sovrano un territorio di dimensioni più
contenute. I figli Arcadio e Onorio ottennero così rispettivamente l'oriente e l'occidente. Una
macchina statale complessa come quella Imperiale richiedeva un afflusso costante di denaro, per

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

sostenere i tre grandi capitoli di spesa: la burocrazia ( sistema per il controllo del territorio), la
capitale ( per la burocrazia centrale e per il rifornimento di cibo gratuito che veniva garantito agli
abitanti liberi di Roma, e infine l'esercito ( esercito stipendiato).
Queste tre voci di spesa erano sostenute da un prelievo fiscale, il cui nucleo centrale era costituito
dall’annona, imposta che gravava sulle popolazioni rurali in base all'estensione delle terre, al
numero di contadini presenti su di esse. Le città avevano un ruolo fiscale centrale perché i curiales,
membri dell'assemblea cittadina incaricati di riscuotere l’imposta nel territorio circostante e di
girarla all'apparato imperiale; erano responsabili di quest’imposta e dovevano intervenire in prima
persona in caso di riscossione insufficiente o tardiva. Questo meccanismo fiscale costituiva la
struttura portante di un sistema di circolazione economica che rappresentava l'espressione
concreta della capacità romana di integrare province così lontane e diverse ( le abbondanti
produzioni cerealicole dell'Egitto del Nord Africa servivano a nutrire l'immensa popolazione di
Roma, che contava circa un milione di abitanti, e gli eserciti, che si concentravano in aree di
confine, quali i limes del Reno e del Danubio). In questo caso si parla di circolazione fiscale, fatta di
moneta e di beni di primo consumo. Tale sistema fiscale comportò un grande impegno Imperiale
per il funzionamento delle Infrastrutture ( strade, porti) e per la sicurezza della navigazione, che
posero posero le condizioni per la circolazione commerciale .La peculiarità dell'età Imperiale
risiede Il fatto che regioni lontane e produttivamente diverse fossero interdipendenti.
Il periodo tardo antico fu caratterizzato da alcune specifiche evoluzioni, come la fine
dell'espansione militare che determinò anche la fine dell'espansione economica ( accelerata dalle
conquiste ,che avevano garantito l'afflusso di bottino, e dai prigionieri di guerra, che avevano
garantito un abbondante manodopera servile). Questa evoluzione cambiò l'economia romana,
prima di tutto con un declino delle funzioni economiche della schiavitù, la quale continuò a
esistere, non rappresentando più la base del sistema produttivo ( le villae tardoromane furono
l'espressione di un sistema di integrazione tra grande proprietà aristocratica e colonato
contadino). Per quanto riguarda le esigenze economiche dell'impero, il contesto politico militare
fece sì che non fossero comprimibili le spese militari, sempre ingenti a causa della pressione
continua di diversi popoli sul limes. Questa continua richiesta di moneta impose agli imperatori
una politica inflazionistica ( si produsse sempre più moneta riducendo l'intrinseco, ovvero la
quantità di metallo prezioso effettivamente contenuto nella singola moneta).Questo andò a
colpire soprattutto i ceti più poveri, che si ritrovarono in mano monete di valore sempre minore.
Contemporaneamente cambiò il rapporto tra l'Italia e le province, con la prima che perdette la
propria rilevanza produttiva, divenendo soprattutto luogo di consumo dei prodotti provenienti
dalle diverse parti dell'impero. Il sistema fiscale commerciale fu strutturato attorno a un flusso di
derrate e manufatti che dalle periferie andavano verso il centro o verso il limes. In questo quadro,
una polarità forte fu rappresentata dalla provincia dell'Africa proconsolare e dal suo centro,
Cartagine, come area di produzione sia agraria sia artigianale. In particolare, si strutturò un’asse
stabile di circolazione di ricchezza tra Cartagine e Roma, soprattutto da quando i prodotti dell'altra
grande provincia cerealicola, l'Egitto, furono indirizzati su Costantinopoli, che nel V secolo affiancò
Roma come capitale imperiale.

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

L'esercito, i limes, i barbari.


In età tardoantica l'esercito era uno dei capitoli di spesa più onerosi per lo stato. Il costo era alto
perché si trattava di un esercito stipendiato: la coscrizione obbligatoria era tramontata a favore di
una tassa sostitutiva che i grandi proprietari pagavano per esentare dal servizio i propri coloni, in
modo da garantirsi la manodopera sulle loro terre. Grazie anche a questa tassa, l'Impero era in
grado di mantenere l'esercito. Quest'ultimo era una struttura ampia, a causa delle continue
pressioni militari sui confini ma anche per le ricorrenti guerre civili. Nel corso del IV secolo, si
definirono due settori fondamentali dell'esercito: i comitatenses ( la forza mobile incaricata di
accompagnare l'imperatore), e i limitanei ( guarnigioni poste a difesa dei confini).
Il limes è una struttura chiave perché è qui che si sviluppa il confronto tra i romani e le popolazioni
barbariche .Dobbiamo concentrarci sul settore europeo del limes ( linea che seguiva il corso del
Reno e del Danubio) che tagliava il continente europeo da nord-ovest a sud-est. Il limes era
costituito da una serie di fortificazioni destinate a definire e proteggere una linea di confine,
appoggiandosi sulla frontiera naturale suggerita nel corso dei due grandi fiumi. È più utile pensare
al limes come un'ampia fascia di incontro, scontro e scambio tra le popolazioni inquadrate
nell'Impero e quelle che se ne tenevano all'esterno, le quali non erano affatto estranee a ogni
influenza romana. Possiamo anzi dire che le popolazioni barbare fuori dal limes erano alla periferia
del sistema romano, estranee alla sottomissione politica, ma fortemente condizionate dalla
presenza militare dell'Impero. La definizione di barbari era nata per indicare quelli che non
parlavano bene greco e poi latino, erano barbari perché non erano romani, quindi non
pienamente assimilati alle popolazioni comprese nell' Impero. Un altro termine nato per definire
queste popolazioni è quella di Germani, termine che non nasce da un giudizio negativo, ma da
alcune fondamentali affinità di costumi e di lingua. Ma anche questa definizione ha un grave
difetto, ovvero il fatto che questi gruppi armati non avrebbero mai pensato a se stessi come
Germani; è una nozione intellettuale, derivata da Tacito, che non corrispondeva in alcun modo a
una reale identità etnica che unisse tutte queste popolazioni .Entrambe le definizioni uniscono
quindi elementi di verità con importanti distorsioni. Tra le due, forse quella di barbari resta la
migliore, se la liberiamo dalle componenti di giudizio e di condanna. Lungo la seconda metà del XX
secolo la medievistica europea ha rinnovato la questione dell’identità etnica di questi gruppi,
esaminando la percezione soggettiva che questi individui avevano di sé e mostrando come questa
identità non fosse un dato stabile, ma l’esito di una continua costruzione sociale e culturale, a cui
si è dato il nome di etnogenesi (“costruzione dell’etnia”). L’appartenenza a un popolo, quindi, non
è da considerarsi un dato oggettivo, ma una percezione personale e l’espressione di una scelta,
della volontà di farne parte; inoltre questa appartenenza era continuamente rimessa in
discussione. Per questo parliamo di un continuo processo di etnogenesi. Il senso di appartenenza
dei barbari era probabilmente legato a piccole unità sociali (tribali), anche se le fonti scritte di
cultura romana cercavano di individuare tra i barbari strutture politiche ampie, regni e popoli
stabili e riconoscibili (nostri manuali). Alcune identità etniche erano sicuramente più ampie e si
perpetuarono nel tempo. Queste solidarietà allargate erano particolarmente efficaci nei momenti
militarmente più intensi, quando un capo militare riusciva a riunire nel proprio seguito diversi
gruppi tribali, in vista di una conquista. Quando il re moriva, la solidarietà del popolo non per
questo si scioglieva, ma si riproduceva, individuando un nuovo re, una nuova guida militare. Non è
quindi sbagliato usare i nomi dei popoli, a patto di essere consapevoli che non si trattava di gruppi
perfettamente omogenei e stabili, ma erano gruppi tribali che si univano e si sfaldavano al seguito

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

dei re più abili nel guidarli alla ricerca del bottino. Questo tipo di lettura ha permesso di usare nel
modo più adeguato i dati archeologici, e in particolar modo i corredi funerari (es si poteva
seppellire una fibbia gota o perché si era goti di sangue, oppure perché si aveva scelto di far parte
di questo gruppo). Tra il III e IV secolo, la struttura più attraente era l’impero romano: l’esercito
romano aveva continuamente bisogno di uomini, ed era pronto a stipendiare i soldati e anche a
promuovere i migliori, a prescindere dalla provenienza. La presenza barbara entro i territori
romani ebbe inizio prima del crollo dell’Impero perché gruppi organizzati si inserirono nell’esercito
romano e nei territori dell’Impero, con accordi di vario tipo (foedus, hospitalitas), alla cui base
c’era lo scambio tra una quota di ricchezze e la forza militare posta al servizio dell’Impero.
L’inserimento nell’esercito di gruppi organizzati, al seguito di un capo, poteva innescare processi di
consolidamento sia della solidarietà di gruppo , sia della leadership del re: era un contesto di
cooperazione stabile, strutturata, sotto la guida di un capo riconosciuto. Un’organizzazione di
questo tipo, incideva anche sulle strutture di potere dell’Impero, che si trovava a disporre di corpi
militari sicuramente più efficaci, ma anche a dover gestire gruppi la cui integrazione nei quadri
imperiali era più debole. Ci furono capi barbari che arrivarono a ricoprire cariche fino ai massimi
vertici dell’esercito, come Arbogaste e Stilicone. L’influenza di Roma si estendeva anche ben al di
là del limes, e ciò si esprimeva nella sua capacità di favorire la crescita politica dei capi militari più
fedeli a Roma e più facilmente condizionabili. Negli ultimi decenni del IV secolo, gli Unni iniziarono
a spingere sui popoli dell’Europa orientale, provocando un effetto a catena di movimenti verso
Occidente, che determinarono una forte pressione dei Visigoti sul limes danubiano. Nel 378 i
Visigoti iniziarono a saccheggiare nella zona dei Balcani (battaglia di Adrianopoli -> sconfitta dei
Romani e morte dell’imperatore). Il 378 è una data chiave che segnò una netta divaricazione tra
Occidente e Oriente, dove cercarono di impedire l’ascesa di capi militari barbari ai vertici
dell’esercito. Ovviamente, con l’emergenza militare in atto, il cambiamento non poteva essere
immediato, e così l’imperatore Teodosio optò per una pacificazione , grazie a un foedus, con i
Visigoti, inseriti nell’esercito romano in corpi omogenei, con comandanti propri. In Occidente,
questo tipo di attuazione non poteva farsi, perché le strutture del potere imperiale erano
indebolite. La differenziazione delle due parti dell’Impero fu poi sancita dalla divisione tra i figli di
Teodosio I. nei primi decenni del V secolo, gli eserciti di occidente erano formati da gruppi barbari
che talvolta erano attivi per l’impero e talvolta per qualche aspirante al titolo imperiale o in piena
libertà, in modo che il limes renano perse efficacia e nel 406/407 importanti gruppi armati
poterono entrare nei territori imperiali. L’esito più appariscente fu il sacco di Roma nel 410, la
violazione del centro reale dell’Impero. Questa fase può essere considerata l’avvio del processo
che nel corso del V secolo portò in Occidente alla formazione dei regni romano – barbarici.
Tre capi militari barbari:
1. Arbogaste: era un franco che alla fine del IV secolo ricopriva la funzione di comandante
supremo dell’esercito romano nell’Impero occidentale, sotto Valentiniano II, che uccise per
fare incoronare Flavio Eugenio. Nel 394 Teodosio uccise entrambi.
2. Stilicone: vandalo, capo delle truppe d’Occidente, difese l’Impero da alcune popolazioni
barbare, ma l’ultima vittoria diede l’accesso all’impero ad altri popoli. Fu accusato di
tradimento e ucciso a Ravenna.
3. Alarico: visigoto, dopo l’accordo con Teodosio fu nominato comandante delle truppe
nell’Illirico. 410 -> saccheggia Roma e scende al Sud. Muore in Calabria. Dai suoi movimenti
si forma un autonomo regno visigoto.

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

Tutti questi personaggi erano barbari e comandanti dell’esercito romano, attraverso il quale
hanno combattuto sia per l’Impero e sia per fini propri. Le lotte che connotarono l’inizio del V
secolo aprirono la strada ad una mobilità più ampia e organizzata dei popoli barbarici, che portò
alla formazione dei nuovi regni.
La cristianizzazione dell’Impero.
Per comprendere il processo di cristianizzazione dell’Impero dobbiamo tenere presente la pluralità
di:

• Paganesimi -> la religione romana era arricchita di molti spunti religiosi derivanti dalle
regioni sottomesse, tra i quali avevano assunto maggior rilievo i culti salvifici, che
permettevano una forma di vita ultraterrena.
• Culti salvifici
• Cristianesimi -> questo perché le Sacre Scritture avevano lasciato il campo aperto a
interpretazioni teologiche diverse, che furono oggetto di conflitti molto aspri
• Organizzazione ecclesiastica -> per tutto l’alto medioevo si può parlare solo di una
superiorità del vescovo di Roma in termini di prestigio, in quanto successore di Pietro; la
struttura portante dell’organizzazione ecclesiastica era formata dalle singole sedi vescovili.
La cristianizzazione dell’Impero fu la trasformazione delle strutture di potere in senso cristiano e la
sua adozione come religione ufficiale e ideologia fondante del potere imperiale. L’adesione alla
nuova religione da parte dei gruppi dominanti fu stimolata dalla nuova ideologia cristiana del
potere imperiale nel corso del IV secolo. Il punto di partenza è rappresentato dalle persecuzioni
contro il Cristianesimo nella seconda metà del III secolo, con l’imperatore Decio. Per la tolleranza
religiosa romana, la persecuzione fu una novità causata dal crescente assolutismo del potere
imperiale. A questa ragione si univano probabilmente motivi economici (requisizioni ai danni dei
cristiani) e un tentativo di orientare verso obbiettivi pretestuosi l’ostilità popolare. Tre furono le
tappe importanti che portarono dalla libertà di culto dei cristiani al Cristianesimo come religione
ufficiale dell’Impero:
1. Editto di Milano (313) : atto nel quale Costantino pose fine alle persecuzioni e diede libertà
di culto ai cristiani, continuando con un atteggiamento di tolleranza anche nei confronti
delle altre religioni. A partire da questi anni gli imperatori individuarono nel Cristianesimo
una possibile ideologia unificante per un frammentato mondo romano, vista anche la sua
funzione salvifica e la sua forte connotazione morale;
2. Concilio di Nicea (325) : la funzione di collante ideologico dell’Impero richiedeva un’ unità
teologica del Cristianesimo. A Nicea la principale decisione dei vescovi cristiani fu la
condanna dell’Arianesimo, dottrina cristiana elaborata dal prete Ario e giudicata eretica
perché, per conciliare monoteismo e trinità, Ario aveva proposto una lettura per cui il Figlio
sarebbe stato creato dal Padre, e quindi a lui sottoposto e non eterno. Il fondamento della
capacità salvifica del Cristianesimo risiedeva nell’incarnazione di Dio e la sua efficacia era
connessa alla piena natura divina del Figlio, incarnato in Cristo. La tesi di Ario, in questo
senso, non garantiva l’efficacia salvifica del Cristianesimo. È importante notare che il
Concilio fu convocato da Costantino, imperatore non ancora battezzato. La tesi nicena (
Figlio coeterno e fatto della stessa sostanza del Padre) era teologicamente superiore a
quella ariana, ma l’importante è che dal concilio ne uscisse una religione unitaria. Il concilio

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

affermò sia la centralità dell’assemblea dei vescovi per risolvere questioni religiose e sia il
ruolo di tutore dell’Impero nei conflitti interni alla Chiesa. Nella seconda metà del IV secolo
si creò una bipartizione religiosa: mondo romano a prevalenza cattolico – nicena e mondo
germanico in cui ebbe largo spazio l’Arianesimo ( anche grazie alla traduzione della Bibbia
in lingua gotica da parte del vescovo Ulfila), a causa del fatto che la forza di coercizione
dell’Impero si arrestava al limes, quindi non potevano, in questi senso, obbligare i barbari
ad abbandonare quel tipo di culto per “sottostare” al culto cattolico – niceno.
3. Editto di Tessalonica (380) : atto con il quale Teodosio ordinò ai sudditi di adottare il
Cristianesimo, facendone la religione ufficiale dell’Impero. Questo da un lato portò a una
dura repressione di forme religiose giudicate eretiche e dall’altro portò a una conversione
dei ceti più ricchi, che in precedenza erano ancora pagani.
Vescovi e monaci.
Non dobbiamo pensare alla Chiesa cristiana del IV – V secolo come a un’organizzazione unitaria. La
struttura portante era costituita dalla singola diocesi (comunità cristiana di una città e del suo
territorio), raccolta attorno al vescovo. La centralità di questa figura nasceva proprio dalla sua
funzione religiosa, come principale mediatore verso il sacro e guida dei fedeli verso la salvezza
ultraterrena. Questa efficacia si arricchì con l’inserimento nella Chiesa cristiana della grande
aristocrazia senatoria. A costruire il prestigio dei vescovi concorsero quindi le loro funzioni
religiose e la loro identità sociale e familiare. Nei vescovi andarono ad addensarsi le tradizioni
istituzionali, culturali e religiose del tardo Impero, ed essi furono in grado di trasmetterle ai regni
romano – barbarici nel periodo successivo. Tra IV e V secolo andò definendosi la superiorità di
alcune città maggiori, definite come sedi patriarcali : Roma, Antiochia, Alessandria d’Egitto,
Gerusalemme e Costantinopoli (metà del V secolo). Era una superiorità di prestigio e non
gerarchica! Roma, tra l’altro, era l’unica sede patriarcale d’Occidente, la più prestigiosa di tutte per
il suo richiamo alla tradizione imperiale e per il ruolo di successore di Pietro del vescovo di Roma.
Furono proprio i vescovi i protagonisti del processo di evangelizzazione all’interno dell’Impero
attraverso la creazione di una rete di chiese dipendenti dal vescovo (pievi) , a cui era affidato il
compito di curare le anime nei vari settori della diocesi ( non trasmissione unidirezionale della
fede, ma scambio attraverso il culto cristiano elaborò santi, santuari e reliquie, prendendo come
punto di partenza i culti precedenti). Un secondo livello di evangelizzazione fu quello che dai
territori dell’impero si spinse ai sui margini, attorno e oltre il limes. La conversione al Cristianesimo
ebbe forme e tempi diversi nelle isole britanniche:

• Inghilterra : nella quale il primo radicamento del Cristianesimo fu precedente alla caduta
del dominio romano; in seguito la conquista anglosassone ( metà del V secolo) pose ai
margini le chiese cristiane, che acquistarono nuova vitalità alla fine del secolo successivo,
grazie a nuove missioni di evangelizzazione provenienti dal continente e dall’Irlanda.
• Irlanda : esterna all’Impero, già nel 431 abbiamo notizia dell’invio papale di un vescovo
destinato ai cristiani irlandesi. Negli stessi decenni si compì la vicenda di Patrizio, un
bretone rapito da pirati irlandesi che poi divenne missionario e guida spirituale dell’isola, in
conflitto con un sistema di culti druidici preesistenti. Qui assunsero una fortissima
importanza i centri monastici e una spinta missionaria, in direzione dell’Inghilterra e del
continente.

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

Con il Cristianesimo irlandese vediamo entrare in gioco una diversa forma di religiosità, quella
monastica, le cui origini vanno situate nel Mediterraneo orientale del IV secolo. Il monachesimo è
una fuga dal mondo finalizzata a seguire un metodo tendente alla purificazione e
all’avvicinamento all’Essere supremo, un metodo che si costruisce prima di tutto attraverso la
rinuncia. È quindi una forma di ascesi (termine che indica il perfezionamento, l’avvicinamento alla
divinità), che non necessariamente si fonde con un percorso di penitenza. Nel monachesimo
cristiano la penitenza divenne parte costituente del percorso ascetico. Con il consolidamento del
Cristianesimo, il monachesimo si affermò principalmente anche come una forma di tacita protesta,
per riaffermare un modello di vita religiosa coerente ed estrema. Il tardo antico fu caratterizzato
da una grande ricchezza di fenomeni ed esperienze di monachesimo. Il monaco era mosso
soprattutto da una tensione verso Dio, che metteva in atto attraverso la rinuncia al mondo e la
capacità di avere un animo imperturbabile, che non venisse toccato dalle contingenze umane.
Scopo principale di queste scelte di vita era l’ascesi personale (e non assistenza ai poveri o la cura
delle anime). Ci sono elementi comuni a tutte le diverse esperienze monastiche: allontanamento
dal mondo e dalla società civile, rapporto continuo con le Sacre Scritture, rinuncia alle ricchezze,
scelta di auto sostentarsi con il lavoro.
La più importante divaricazione monastica è quella tra eremiti ( che compiono il percorso di ascesi
in solitudine) e i cenobiti ( che si riuniscono in comunità, un “cenobio”).

• Eremiti : prime notizie su monaci eremiti nel IV secolo in Siria e in Egitto. Individui isolati
che si dedicavano a una vita di preghiera e ascesi, circondati da una fama di santità, che gli
permisero un rilevante flusso di elemosine e quindi il loro sostentamento. Questo flusso si
concentrò attorno a personaggi estremi e appariscenti, che scelsero di situare il proprio
eremo in luoghi isolati ma estremamente vistosi ( gli stiliti, ad esempio, vivevano in cima a
colonne di edifici diroccati). In questi casi è evidente come la scelta ascetica e penitenziale
convivesse con una componente di esibizione.
• Cenobiti: per una ricerca di una ascesi più intima si andarono elaborando le prime
comunità cenobitiche, a partire dalle esperienze promosse da Pacomio in Egitto, nella
prima metà del IV secolo. Organizzare comunità di questo tipo implicava soprattutto la
creazione di una regola che definisse comportamenti e doveri dei monaci e desse vita a una
gerarchia.
Pochi decenni dopo, il vescovo Basilio di Cesarea, in Cappadocia, sviluppò una precettistica rivolta
ai monaci, orientata a una forma di ascesi equilibrata. Il monachesimo basiliano aveva alcune
caratteristiche che non si ritroveranno nelle forme monastiche più diffuse in occidente: stretta
cooperazione tra monaci e vescovo, ampio spazio dedicato al lavoro, assistenza in favore dei
concittadini più deboli. L’importazione in Occidente del monachesimo si avviò dalla fine del IV
secolo, con figure come San Girolamo in Italia, Sant'Agostino in Tunisia e San Martino in Francia.
Barbari e regni
Per leggere la mobilità militare nel corso del V secolo, dobbiamo ripartire dal momento di svolta
segnato dal crollo del limes del Reno nell'inverno 406 407. Non fu un casuale incidente militare ma
l'espressione di uno squilibrio strutturale, legato alla difficoltà imperiale nel tenere sotto controllo
gli eserciti: il sistema fiscale romano faticava a far fronte ai costi della guerra e l'Impero spesso si

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

trovava a non avere risorse sufficienti per pagare regolarmente gli eserciti, che cercavano quindi
bottino con iniziative non controllate dall’Impero stesso.
Da qui ebberi inizio i più intensi spostamenti degli eserciti germanici, che a lungo andare furono
una delle cause della caduta dell'Impero, ma che al contempo furono la conseguenza di un
indebolimento imperiale già avviato. Tuttavia alcuni di questi spostamenti furono l'espressione
militare e politica di gruppi più definiti e coesi, popoli che costruirono e mantennero la propria
identità collettiva fino a costituire dei regni duraturi e con una chiara fisionomia territoriale.

• Visigoti : si ribellarono più volte all'Impero, fino al sacco di Roma, avvenuto nel 410 sotto il
loro re Alarico, che morì in Calabria. Anche dopo la sua morte, i Visigoti continuarono ad
essere uniti politicamente e militarmente per poi allontanarsi dall'Italia e andare a
costituire, tra il 414 e 418, un regno nel sud della Francia, come federati dell'Impero, ma di
fatto con ampia autonomia. Spostarono in seguito il loro dominio verso la penisola iberica,
che durò per tre secoli.
• Vandali: negli stessi anni, valicarono il limes renano ( 417) per andare a stanziarsi nella
penisola iberica. Circa 10 anni dopo, guidati dal re Genserico, si spostarono nella parte
occidentale dell'Africa romana, per poi conquistare le province della Proconsolare e della
Byzacena ( attuali Tunisia e Algeria), dove costituirono un regno destinato a durare un
secolo. Furono il primo popolo a trasformare la loro superiorità militare in un potere
politico strutturato, territorialmente definito e autonomo (no foedus con Impero). Si
affermarono come aristocrazia fondiaria dominante e etnicamente distinta.
• Unni : esercito che trovò unità d’azione con il re Attila. Originari dell’Asia centrale si erano
diretti verso l’Impero romano con una serie di campagne militari che terminarono con la
sconfitta a opera del magister militum Ezio (barbaro), ai Campi Catalaunici nel 451. Due
anni dopo Attila muore e l’esercito si dissolve perché, contrariamente ai Vandali e ai
Visigoti, legati alla figura del proprio re.
Con la morte di Ezio e Valentiniano II si aprono le porte ad altri saccheggi: 445 sacco di Roma
condotto dai Vandali proveniente da Cartagine. Lungo il V secolo, se alcuni re barbari
fondarono dei loro regni con la volontà di staccarsi dall’Impero, altri volevano ottenere il
controllo di quest’ultimo. La capacità d’azione degli imperatori andava riducendosi ( Africa
vandala fuori dall’Impero, i Romani si erano ritirati nelle isole britanniche, e la Gallia era ormai
sfuggita al dominio dell’Impero. Dalla metà del secolo -> imperatori fantoccio controllati da
generali fino al 476, quando il generale sciro Odoacre depose l’ennesimo imperatore, Romolo
Augustolo, rinunciando a insediarne uno nuovo e rinviando le insegne imperiali a
Costantinopoli. Questo fatto, ai contemporanei, risultò meno importante rispetto al sacco di
Roma o alla sconfitta di Adrianopoli, semplicemente perché non fu la prima volta che
succedeva una cosa simile. Scelta di inviare le insegne per ricomporre l’unità imperiale e
perché un altro imperatore d’Occidente non era necessario. Odoacre non propose il proprio
dominio come una dominazione autonoma, né come un tentativo di egemonizzare la parte
occidentale dell’Impero, ma come un autonomia militare con il consenso dell’Impero. Ma
l’imperatore Zenone non lo ritenne affidabile e fece conquistare l’Italia dagli Ostrogoti di
Teodorico. Odoacre si impadronì solo dell’Italia. Nei decenni centrali del secolo altri popoli si
stanziarono in determinate zone d’Europa formando regni di dimensioni diverse, dominati da
un’elitè militare germanica che non riconosceva più la superiorità imperiale.

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

Geografia politica alla fine del V secolo -> l’Italia prima nelle mani di Odoacre e poi degli
Ostrogoti; la Gallia nelle mani dei Franchi, ad eccezione di aree controllate dai Burgundi ( sud-
est, dove c’è l’attuale Borgogna) e dai Visigoti (sud della Gallia e parte della penisola iberica),
nell’attuale Galizia (penisola iberica) erano presenti gli Svevi; mentre i Vandali controllavano
l’attuale Tunisia con forme di controllo su Sicilia, Sardegna e Corsica; isole britanniche in mano
a popolazioni celtiche e a popolazioni angli e sassoni. Problema comune ai regni: difficile
convivenza tra la maggioranza romana e la minoranza dominante di matrice germanica.
I nuovi regni
Quadro europeo tra V e VI secolo -> gli scavi ci presentano oggetti e insediamenti
tecnologicamente più semplici e modesti che testimoniano un impoverimento della società
europea sia per le risorse disponibili sia per le competenze tecniche. Vediamo anche una forte
continuità sul piano della cultura (cultura politica e modelli istituzionali), dove i regni appaiono
come riproposizioni di meccanismi tipici dell’età imperiale, con una società politica polarizzata
attorno alla corte regia. Si assistette al crollo del sistema politico – militare romano, con il
passaggio del potere nelle mani della minoranza armata costituita dai Germani. In questo
quadro furono conservate alcune forme di organizzazione sociale e istituzionale, e in
particolare si mantennero apparato amministrativo e sistemi legislativi di tradizione romana.
Fu una conservazione ma anche una semplificazione, perché andarono perse molte funzioni e
la complessiva articolazione dell’apparato amministrativo romano. Questo avvenne perché il
modello romano era forte e presente, per vari motivi: era la memoria di un potere statale forte
ed efficace, in grado di prelevare grandi risorse dai propri sudditi e di redistribuirle ai propri
servitori, sistema vivo nell’Impero d’Oriente, un mondo con cui molti popoli germanici si
confrontavano costantemente; e soprattutto perché all’interno dei regni erano presenti i
vescovi e funzionari di origine e cultura romana, portatori di questa tradizione politica e
amministrativa. Modelli amministrativi romani affiancati dalle assemblee, riunioni delle
aristocrazie attorno al re. Sistema comune a tutti i regni romano – germanici, ma con forti
varianti. Un esempio fu quello che riguarda il prelievo fiscale: le tasse in età imperiale
servivano per sostenere la capitale, la burocrazia o l’esercito. I regni romano – germanici
spesso non avevano una capitale, o comunque non una capitale come era stata Roma (enorme
metropoli); anche la burocrazia era un apparato ben più leggero di quello romano; e infine
l’esercito non era più costituito da professionisti stipendiati, ma dall’insieme del popolo e dalla
sua elitè, ricompensati con concessioni di terre anziché con stipendi. La conseguenza di tutto
ciò fu che tra V e VI secolo quasi tutti i regni rinunciarono progressivamente a prelevare le
tasse. Questo ebbe conseguenze rilevanti a livello di grandi sistemi di scambio con una
generale crisi delle città e di molti settori produttivi. I nuovi regni erano più poveri dell’Impero:
erano più poveri i re ed erano più povere le aristocrazie perché i patrimoni delle famiglie
senatorie erano dispersi per tutto il Mediterraneo. L’equilibrio tra le ricchezze del re e quelle
dell’aristocrazia era sempre nettamente a vantaggio del primo, infatti, per quanto gli
aristocratici fossero ricchi e potenti, non lo erano al punto di cercare l’autonomia, lottavano
per essere vicini al re o al limite per sostituire il re. La remunerazione con la terra implicò una
minore quantità di ricchezza disponibile per i re.

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

L’Italia ostrogota
Una volta deposto l’imperatore, Odoacre costruì un sistema di potere equilibrato, fondato
sulla collaborazione con l’aristocrazia senatoria, a cui il re garantì il predominio economico e
sociale. Tra il 476 e il 489 l’Italia continuava ad essere dominata da un’amministrazione di
stampo romano e protetto da un esercito germanico stipendiato grazie alle tasse. Odoacre
espresse il suo potere attraverso un doppio titolo: “ patricius”,per volontà di inserirsi nella
gerarchia romana; e “rex gentium”, che esprimeva il suo dominio, non sull’Italia, ma
sull’insieme dei popoli che costituiva il suo esercito. Nella cultura germanica “rex” aveva un
connotato specificamente militare. Questo potere fu travolto dall’invasione ostrogota.
L’imperatore Zenone non voleva il dominio di Odoacre perché non affidabile e si propose di
ottenere un controllo indiretto dell’area sollecitando la conquista da parte degli Ostrogoti.
Figura chiave fu il re Teoderico, che era stato a lungo ostaggio a Costantinopoli, e quindi era
più consapevole dei funzionamenti burocratici e degli equilibri tra amministrazione ed eserciti.
Teoderico era per Zenone una figura ben nota, nelle sue capacità ma anche nella sua
pericolosità. Fu quindi per indicazione di Zenone, Teoderico nel 489 scese in Italia alla guida
degli Ostrogoti, a cui si unirono nel corso della spedizione altri gruppi: il re e il popolo
impegnati in una spedizione con grandi aspettative di bottino (l’Italia era una terra ricca)
attiravano al proprio seguito altri gruppi di armati, pronti a riconoscersi come sudditi di questo
re (identità etniche legate alle scelte individuali più che a una discendenza di sangue). La
conquista d’Italia fu facile: dopo alcune sconfitte, Odoacre si rifugiò a Ravenna fino al 493,
quando fu costretto ad arrendersi da Teoderico che lo fece in seguito giustiziare. Il re iniziò così
a governare la convivenza tra una piccola minoranza gota e una grande maggioranza di cultura
e lingua latina (Goti al nord e nelle aree subalpine; al nord -> residenze principali del re ->
Ravenna, Pavia e Verona). Governo di Teo basato su controllo militare dei Goti e
un’amministrazione civile di stampo romano -> popolazioni italiche governate da
un’amministrazione romana, protette da un esercito germanico e sottoposte a un’imposizione
fiscale destinata a mantenere tale esercito. Parallelismo tra due popolazioni fu sancito
dall’idea di personalità del diritto, ovvero la possibilità per ogni individuo di seguire la propria
legge ed essere giudicato o da un iudex romano o dal comes goto (prevalenza di quest’ ultimo
in liti tra un romano e un goto); questo permise sia una convivenza pacifica, sia il controllo
regio sulle diverse province. Le popolazioni italiche non subirono alcuna trasformazione degli
stili di vita da Odoacre agli Ostrogoti. Titoli adottati da Teo -> re degli Ostrogoti (non gentium
ma di un’identità etnica ben più definita) e patrizio imperiale per l’Italia (riconoscimento e
legittimazione derivanti dall’Impero). Due apparati ai vertici: il re e il consistorium ( consiglio
ristretto formato da Goti e Romani) che lo affiancava; solo punto reale di integrazione tra Goti
e Romani. I due popoli furono tra loro complementari ma non integrati, con funzioni diverse
ma accomunati dalla sottomissione allo stesso re. Quando entrò in crisi la capacità regia di
garantire mediazione e unità, fu una crisi dell’intero regno. L’accordo con l’aristocrazia di
tradizione romana, trovò un espressione sul piano religioso: gli Ostrogoti erano di religione
ariana e si trovavano a convivere con una popolazione di fede cattolica, in cui si stava
consolidando un sistema di dominio sociale ed economico delle chiese, con un crescente ruolo
politico dei vescovi (centralità del vescovo di Roma). La scelta di Teo fu quella di conservare la
propria fede ariana , ma al contempo porsi come protettore di tutte le chiese presenti nel
regno, ariane e cattoliche. Questa funzione regia dimostrò la massima efficacia nel contesto

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

del cosiddetto scisma laurenziano, nel 498, quando il clero romano si spaccò e furono eletti
due papi. Il dato significativo fu che entrambi i pretendenti si rivolsero al re per avere un
giudizio, certificando come la Chiesa romana riconoscesse nel re il legittimo successore degli
imperatori come suo protettore (500: visita di Teo a Roma -> cerimoniali imperiali come
accoglienza). Ampliamento dei confini italici: controllo sulle Alpi orientali (tra Rezia, Norico,
Pannonia e Dalmazia) e rapporti con altri regni romano – germanici attraverso accordi e patti
matrimoniali che permisero a Teo di porsi in una posizione egemone su larghe parti d’Europa.
Teo costituì così una polarità politica di respiro europeo, parallela e opposta alla crescente
egemonia dei Franchi: la lotta per il controllo dei Visigoti e di questo territorio fu il campo in
cui l’opposizione fra Ostrogoti e Franchi si espresse nel modo più chiaro. 507 -> battaglia di
Vouillè nella quale il re franco Clodoveo sconfisse e uccise il re visigoto Alarico II. Dopo la
battaglia, Teo assunse la tutela del nipote Amalirico, nuovo re visigoto, e grazie a questo
affermò un controllo diretta ma efficace sulla Provenza. La debolezza strutturale del regno
ostrogoto era rappresentata dalla mancata integrazione tra Romani e Goti, quel processo che
invece si avviò in ambito visigoto e si realizzò nel regno franco. La principale garanzia di
stabilità era costituita dal potere regio e dal suo rapporto di collaborazione con l’aristocrazia
senatoria: quando questo equilibrio entrò in crisi, l’intero assetto politico vacillò.
518 -> emerge la crisi, imperatore Giustino avviò una serie di persecuzioni ai danni degli ariani,
a cui Teodorico rispose con analoghe persecuzioni contro i cattolici, espressione di una crisi più
profonda dovuta alla rottura della cooperazione tra il regno e l’aristocrazia senatoria, che si
stava riavvicinando all’Impero, e al declino della capacità del papato di agire come
intermediario tra Ostrogoti e Impero; tutto ciò si manifestò in persecuzioni religiose incrociate
e in una complessiva crescente ostilità , che però si tradusse in guerra aperta solo dopo la
morte di Teodorico, quando le lotte per la corona indebolirono ulteriormente il regno
ostrogoto. Al momento della morte, nel 526, Teodorico trasmise di fatto il potere alla figlia
Amalasunta, come tutrice del nuovo re, Atalarico, re bambino, che muore prematuramente nel
534, e Amalasunta si trovò in una situazione di debolezza e decide in questo modo di sposare il
cugino Teodato, uno dei più ricchi aristocratici dell’Italia gota. Ma mentre Amalasunta cercò di
ricostruire il rapporto tra Goti e Romani (sotto la protezione di Giustiniano), Teodato adottò la
via del conflitto che prevalse deponendo e uccidendo la moglie nel 535. Questo offrì a
Giustiniano l’occasione per dichiarare guerra al regno ostrogoto, dando via a una lunghissima
fase bellica che dopo 20 anni riportò l’Italia all’interno dell’Impero.
Anglosassoni, Vandali e Visigoti
Nel corso del V secolo si erano costituiti altri regni in diversi settori dell’Impero. Consideriamo i
territori di Inghilterra, del Nordafrica e della penisola iberica.
Anglosassoni
L’influsso della cultura e dei modelli istituzionali romani fu rilevante anche al di là del limes, a
comprendere terre mai romanizzate, come la Scozia e l’Irlanda. Questo influsso si interruppe
intorno al 410, quando i Romani abbandonarono definitivamente le isole. Qui gli scavi hanno
evidenziato un netto impoverimento e una semplificazione degli edifici e dei reperti, con la fine
delle villae, una profonda crisi dell’urbanesimo e la scomparsa di un artigianato su larga scala.
È probabilmente più corretto ritenere che la rottura politica si sia inserita in un contesto di

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

profonda crisi sociale. La fine del dominio imperiale in Britannia fu accompagnata da una serie
di incursioni di popolazioni sassoni, provenienti dal nord dell’attuale Germania: se le prime
incursioni risalgono al III secolo, fu solo attorno alla metà del V , dopo la fine della presenza
romana, che si avviarono i primi insediamenti anglosassoni.
Struttura politica frammentata ( miriade di piccole dominazioni, i cui capi venivano qualificati
come reges), caratterizzata da conflittualità e dalla superiorità di un’aristocrazia povera.
Nella parte centromeridionale della Britannia si può individuare una distinzione: nelle aree più
orientali -> prevalenza anglosassone; aree occidentali ( sud della Scozia, Galles e Inghilterra
sudoccidentale)-> prevalenza celtica, spinti in queste zone dalla conquista anglosassone.
La conquista anglosassone ridusse il peso della Chiesa cristiana -> clero trascurabile e religione
cristiana regressa; infatti in seguito la Britannia sarà oggetto di un nuovo processo di
evangelizzazione. Le strutture altomedievali di governo dell’isola non si costruirono sulla base
di una rielaborazione delle strutture romane, come avvenne sul continente. La
frammentazione politica durò a lungo fino all’evoluzione che portò a una tendenza alla
ricomposizione attorno ad alcuni regni maggiori, come la Mercia e la Northumbria.
Discorso diverso per l’Irlanda: sempre al di fuori del dominio imperiale, influsso romano, l’isola
non subì mai invasioni sassoni. Nel VI secolo l’isola era connotata da un’estrema
frammentazione politica, divisa in decine di regni (tuath e tuatha), i cui re avevano potere
militare e politico ma non legislativo, quindi guidava la popolazione sulla base di norme che
non poteva modificare. La frammentazione politica si riflesse nel processo di cristianizzazione,
che si sviluppò lentamente. Assunsero, in questo ambito, un peso particolare i grandi
monasteri, che oltre che essere luoghi di preghiera e di perfezionamento spirituale dei monaci,
furono anche centri per la cura delle anime. In pratica, qui gli abati assunsero anche le funzioni
di vescovi. Anche qui la frammentazione politica si semplificò con l’affermazione degli
overkings, re più potenti di altri, che imposero un controllo militare sulle dominazioni minori
che però avevano ancora la loro autonomia e le loro istituzioni. Nell’VIII secolo prevalsero
alcuni regni maggiori e alcune grandi dinastie che si contesero il controllo di questi spazi.
Vandali
Le provincie della Proconsularis e della Byzacena (parte dell’attuale Tunisia e dell’Algeria)
erano territori ricchi dal punto di vista agrario (grano e olio), tali da rifornire l’Impero e Roma.
La zona era anche relativamente sicura e quindi non erano necessari grandi contingenti
militari. Le tasse che venivano prelevate dal Nordafrica, venivano utilizzate per il
mantenimento degli eserciti nei limes. Queste aree rimasero ricche ma la produzione mutò con
l’affermarsi del regno vandalo. I Vandali si erano inizialmente stanziati nella penisola iberica e
nel 429, sotto la guida di Genserico, attraversarono lo stretto di Gibilterra stanziandosi sulle
terre africane con un regno autonomo, privo di patti con l’Impero. Il regno vandalo fu
connotato da aspetti di brusca rottura e altri di continuità rispetto al dominio imperiale. La
rottura più evidente avviene in ambito religioso: fu l’unico caso in cui la differenza religiosa tra
ariani e cattolici si espresse nelle forme di una dura intolleranza; i Vandali condussero ampie
persecuzioni ai danni delle chiese, perché detentrici di grandi ricchezze e ottime prede per il
saccheggio, sia per motivi propriamente religiosi. L’Africa vandala fu stabile dal punto di vista
economico e fiscale: rimasero alti i livelli produttivi di grano e olio, prelievo delle tasse secondo

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

il modello romano, tasse che non dovettero sostenere le spese dell’Impero vista la diversità dei
capitoli di spesa: capitale non paragonabile a Roma, burocrazia ridotta, esercito formato da
Vandali pagati con le terre. Il risultato fu che i re vandali accumularono notevoli ricchezze nel
corso del secolo del loro dominio africano. Per l’impero la conquista vandala segnò una
determinante rottura sul piano fiscale perché non poteva più disporre delle ricchezze
provenienti dalle tasse africane, portandolo a una crisi finanziaria e militare ( difficoltà di
garantire gli stipendi degli eserciti germanici). Per l’economia africana comportò un calo della
domanda e innescò un calo produttivo. A causa della mancata integrazione dei diversi popoli,
quando l’Impero si espanse verso il Mediterraneo occidentale, travolse assai rapidamente il
regno vandalo.
Visigoti
Primo insediamento -> 418 -> come federati (al servizio degli eserciti romani), attorno alla
regione di Tolosa, nella Gallia meridionale. 480 -> completamento della conquista nella
penisola iberica ( restarono in mano imperiale alcune aree sulla costa mediterranea, mentre in
Galizia si affermò il regno degli Svevi. I Visigoti rielaborarono modelli politici di tradizione
romana (redazione di leggi scritte -> norme territoriali destinate ai sudditi del re visigoto, a
prescindere dalla loro etnia). 507 -> battaglia di Vouillè -> riduzione del dominio visigoto a nord
dei Pirenei e egemonia del re Teodorico, fino alla sua morte, sul dominio visigoto. Nelle aree
iberiche -> frammentazione dei circuiti commerciali che difficilmente andavano al di là di un
orizzonte regionale. Metà del VI secolo -> regno di Leovigildo -> serie di conquiste che
portarono sotto il controllo visigoto sia il regno svevo, sia larga parte del dominio bizantino.
Sotto questo re, l’intera penisola iberica era sotto il controllo regio e si pose li anche il centro
del potere , con Toledo capitale. Trasformazione anche sotto un’ottica religiosa -> il re, preso
atto dell’importanza della religione come base ideologica per l’unità del suo regno, da un lato
propose un compromesso teologico tra ariani e cattolici, e dall’altro perseguì alcune chiese
cattoliche. Ma un tentativo di affermazione dell’Arianesimo su tutti i sudditi era improponibile
anche perché gli ariani erano pochi. La scelta più coerente fu quella adottata dal figlio di
Leovigildo, che promosse una conversione del popolo al Cattolicesimo, con un successo rapido.
Così Toledo, capitale del regno, divenne la sede di una serie di concili che assunsero funzioni si
di sedi di deliberazione per le questioni religiose ed ecclesiastiche, sia di organi di governi del
regno. I concili di Toledo furono l’espressione concreta ed evidente dell’accordo strutturale tra
regno e vescovi, che permise il potenziamento del re e un sicuro controllo dei sudditi.
LA SIMBIOSI FRANCA
Il regno dei Franchi merita una trattazione a sé per due motivi:
1. I Franchi svilupparono un importante simbiosi con la popolazione di tradizione romana
costituendo un nuovo popolo.
2. Riuscirono, nel giro di due secoli, ad affermarsi come il regno più potente d’Europa,
ponendo le basi per l’espansione carolingia alla fine dell’VIII secolo.
Clodoveo, il re che tra V e VI secolo affermò il proprio dominio su gran parte della Gallia, fu una
figura centrale nella memoria collettiva del regno franco e poi francese, tanto che Clodoveo
(Clovis, Louis) fu il nome più utilizzato dai re di Francia, fino a Luigi XVIII.

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

Nel contesto del tardo Impero, la Gallia aveva rappresentato prima un territorio di
integrazione tra Romani e Celti, poi un ambito di affermazione dell’aristocrazia senatoria. Una
caratteristica specifica di questa regione fu la crescente attenzione delle famiglie senatorie per
le cariche ecclesiastiche che portavano prestigio, potere e ricchezze anche grazie al fatto che la
forza delle sedi vescovili venne ulteriormente accresciuta proprio dalla stessa presenza di
esponenti delle famiglie più potenti (circolo vizioso). Ed è proprio la Gallia l’ambito in cui
l’aristocrazia senatoria entrò in modo più massiccio a occupare le sedi vescovili. Su questa
regione prese il potere, nel corso del V secolo, il popolo dei Franchi. Nel tardoantico i Franchi
non erano un popolo compatto, ma una confederazione di tribù, che seguirono processi diversi
di avvicinamento alla romanità. Al contempo esprimevano una sostanziale estraneità alle idee
si latifondo e di città ( elementi fondamentali dell’organizzazione sociale nell’Impero). Anche
dal punto di vista religioso i Franchi non costituivano un insieme compatto con una prevalenza
del paganesimo, integrato da elementi di Cristianesimo ariano. Il popolo franco fu
protagonista, tra il IV e il V secolo, di un lento processo di romanizzazione, che coinvolse con
intensità diverse tutte le tribù, sia quelle nel territorio imperiale, sia quelle al di fuori. Alcuni
gruppi, come i Franchi salii, entrarono a far parte dell’esercito romano e combatterono contro
altre popolazioni barbariche, anche in momenti chiave della storia. Quando il potere imperiale
perse il dominio della Gallia settentrionale, i Franchi si affermarono come componente
importante dell’esercito e come uno dei principali attori politici della regione. Due sono le
figure importanti di questo processo: Childerico I, attivo nei decenni centrali del secolo, che ci
mostra la prima transizione dei Franchi, dalla condizione di soldati al servizio dell’Impero a
quella di autonomi attori politici. Egli combattè contro i Visigoti, in quanto ariani, sotto il
comando di Egidio, e questo valse ai Franchi una legittimazione agli occhi dei Gallo – Romani,
soprattutto dei vescovi. Chi riuscì a completare questo processo fu il figlio di Childerico,
Clodoveo: succeduto al padre nel 481, attuò un’efficace politica militare che gli permise di
affermare il proprio controllo su gran parte della Gallia, dominata da una pluralità di
dominazioni (Burgundi e Visigoti), sottomettendo i Burgundi e riducendo il dominio dei
Visigoti, segnando la piena affermazione del suo gruppo parentale, i Merovingi. Alla presa del
potere fece seguito la conversione di Clodoveo e del suo popolo al Cristianesimo cattolico, in
modo da non innescare un meccanismo di contrapposizione identitaria su base religiosa. Il
racconto di Gregorio di Tours, più importante vescovo della storia franca, rende bene l’impatto
che questa conversione ebbe sugli equilibri interni al mondo franco: le vittorie militari di
Clodoveo rivelarono al re l’appoggio e la potenza del vero Dio; ma l’intervento determinante fu
quello della moglie di Clodoveo, che mise il re in contatto con Remigio, vescovo di Reims
(paragonato a Silvestro, il papa che aveva battezzato l’imperatore Costantino). Fu Remigio a
completare la conversione del re, la cui scelta trascinò l’intero esercito, che si convertì e venne
battezzato. I due elementi chiave di questo racconto sono da un lato i vescovi, che trasmisero
ai Franchi la religiosità e la cultura cristiana, e dall’altro l’assimilazione di Clodoveo a
Costantino (conversione legata all’aiuto di Dio in battaglia, analogia tra Remigio e papa
Silvestro, e infine il battesimo = imperatore miracolosamente guarito grazie al battesimo). Il
teso di Gregorio è espressione diretta dell’ideologia vescovile che diede al re franco una
fortissima legittimazione. Successivamente nella storia franca, prevalsero le fasi di solidarietà
tra regno ed episcopato, accomunati da un fine comune -> pace sociale e salvezza del popolo,
perseguito con mezzi diversi.

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

Fu l’unione delle due aristocrazie, la creazione di un gruppo sociale dominante unitario che
fuse modelli di comportamento proveniente dalla tradizione romana e da quella germanica.
Lungo il VI secolo si andò a creare un’aristocrazia che sapeva basare il suo potere su
determinate azioni: combatteva e accumulava terre, era vicina al re, ma attenta a radicarsi
nelle città, tesseva reti clientelari e occupava cattedre vescovili. La grande forza del popolo
franco nell’alto medioevo, nacque proprio dalla costruzione di un’aristocrazia mista, che diede
vita a una società e istituzioni ibride, e perciò del tutto innovative.
Le chiese franche e la diffusione del monachesimo in occidente
La rapida conversione dei Franchi al Cattolicesimo e la convergenza dell’aristocrazia attorno
alle sedi vescovili favorirono l’affermarsi di un modello di vescovo aristocratico, ricco e
potente. Il vescovo era prima di tutto il vertice della diocesi, il centro della vita religiosa
regionale. Ma al contempo i vescovi erano portatori di cultura: cultura letteraria, ma anche
cultura politica, conoscenza diretta dei funzionamenti istituzionali romani. Dal VI secolo nella
loro azione locale e nel loro affiancare i re a corte, orientarono il sistema politico franco verso
funzionamenti che ripresero modelli di tradizione romana. Infine i vescovi erano ricchi: ricchi
personalmente, perché spesso erano esponenti della grande aristocrazia franca; ma erano
ricche anche le sedi vescovili, nel cui patrimonio andavano accumulandosi i beni donati da chi
cercava benevolenza, protezione e preghiere. La ricchezza dei vescovi ne faceva dei grandi
patroni, ovvero i vertici di ampie clientele, capaci di coordinare e orientare le azioni di settori
importanti della società cittadina. L’aristocrazia, in questo frangente, divenne ulteriormente
più importante sia perché i re si appoggiarono politicamente alle capacità vescovili più di
quanto facesse il potere imperiale e sia perché a occupare le cattedre vescovili nel VI secolo fu
un’aristocrazia che stava elaborando una straordinaria forza politica e patrimoniale,
valorizzando sia la tradizione senatoria romana, sia quella militare franca. La principale fonte
che ci permette di conoscere la vita politica franca del VI secolo è rappresentata dalle Storie di
Gregorio di Tours, narrazione che mette continuamente al centro della scena i vescovi.
Le sedi vescovili non furono però i soli enti religiosi importanti nella società franca ma un peso
di rilievo deve essere attribuito ai monasteri, di cui si hanno le prime tracce in Occidente, con
l’emergere di esperienze prima eremitiche, poi cenobitiche. La vicenda di Martino di Tours è
particolarmente significativa: figlio di un ufficiale dell’esercito imperiale, originario
dell’Ungheria, fu anche lui un soldato attivo in Gallia, prima di convertirsi alla vita religiosa
come monaco, per poi essere scelto come vescovo di Tours, dove morì nel 397. La vicenda è
ancora una volta tramandata da Gregorio. Già a partire da Clodoveo, i re franchi fecero di
Martino un punto di riferimento della propria religiosità e un patrono del regno. Al centro di
questa devozione ci fu proprio il passaggio da militare a monaco. La vicenda di Martino mette
in evidenza come mondo monastico e mondo vescovile fossero tutt’altro che separati perché
condividevano la fondamentale funzione della preghiera e del culto e perché i grandi
monasteri furono un bacino di reclutamento importante per i vescovi, in particolare, come il
monastero della Gallia, Lerins, centro di spiritualità, luogo di formazione culturale per gli
aristocratici che sceglievano la vita religiosa. Per questo motivo fu rapidamente visto come
sede privilegiata di formazione dei futuri vescovi. Per comprendere la diffusione del
monachesimo in Gallia, occorre considerare esperienze monastiche di altre aree: in Africa,
sant’Agostino, vescovo di Ippona all’inizio del V secolo, promosse forme di vita religiose in

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

comunità, in Italia le prime esperienze di vita monastica furono promosse da San Gerolamo
alla fine del IV secolo; ma l’Italia del V-VI secolo fu il terreno di affermazione di una grande
varietà di esperienze monastiche (Vivarium, monastero fondato da Cassiodoro, collaboratore
di Teoderico, che vide nella struttura un luogo di rielaborazione della cultura classica). Nei
secoli successivi prevalse in modo netto il modello benedettino. Dobbiamo capire quali furono
la caratteristiche che permisero alla regola benedettina un tale successo. Benedetto, la cui vita
ci è nota attraverso i Dialoghi di papa Gregorio Magno, scritti dopo la morte di Benedetto,
nacque a Norcia attorno al 480, si allontanò dalla città per vivere una serie di esperienze
acetiche, come eremita, come cenobita e come abate nel Lazio, esperienze che culminarono
nel 529 con la fondazione dell’Abbazia di Montecassino, dove scrisse la sua Regola, e dove
morì nel 547. La Regola fu un’opera di un monaco e abate esperto, che aveva vissuto forme
diverse di monachesimo, e si basa su alcuni principi semplici e sulla conoscenza della natura
umana e dei suoi limiti, che indusse Benedetto a proporre una forma di ascesi moderata. Di
base era un modello di vita ascetica in cui la principale attività dei monaci era la preghiera,
mentre il lavoro in qualunque forma, trovava un posto del tutto marginale (“prega e obbedisci
all’abate”). Dal punto di vista organizzativo, Benedetto propose una comunità semplice, in cui
la solidarietà tra monaci si integrava con l’obbedienza all’abate, che doveva controllare i
sottoposti e interpretare la Regola, che conteneva alcuni principi ispiratori ( isolamento dal
mondo, centralità della preghiera, moderazione nel cibo…) che l’abate doveva adottare alle
specifiche condizioni ed esigenze locali. La Regola vede nel cenobitismo la via di ascesi
proposta a tutti e nell’eremitismo una forma superiore di perfezione, a cui potevano accedere
solo i monaci spiritualmente più forti, con l’autorizzazione dell’abate (gli eremiti riconoscevano
l’autorità dell’abate). Quasi tre secoli dopo la sua redazione, divenne il testo normativo di
riferimento per tutti i monasteri dell’Europa occidentale. Questo però non diede vita a un
ordine benedettino, non esisteva un’istituzione superiore che coordinasse tutte le abbazie: il
vertice della comunità era l’abate, che veniva consacrato da un vescovo, ma che non aveva
alcun superiore gerarchico. Questo si verificò solo a partire dall’XI secolo. Un’altra importante
influenza fu quella irlandese, in cui i monasteri avevano assunto una forte centralità
istituzionale e alcuni compiti che nel continente erano propri del vescovo ( cura pastorale della
popolazione). Il monachesimo irlandese era anche segnato da un’accentuata attenzione per la
dimensione penitenziale e da una forte spinta missionaria. Da questi caratteri nacque un
movimento di monaci irlandesi verso il continente, tra i quali san Colombano, che alla fine del
VI secolo fondò una serie di monasteri in Gallia, per poi trasferirsi in Italia, dove fonò l’abbazia
di Bobbio. In poche parole, i monaci irlandesi rinnovarono il monachesimo nell’Europa
continentale, stimolarono nuove fondazioni e importarono un monachesimo attento sia alla
dimensione penitenziale, sia alla tutela della piena autonomia dei monasteri da ogni controllo
vescovile. Non si trattò di un ordine monastico unitario e coordinato, bensì di esperienze
distinte accomunate da alcuni principi fondamentali. In seguito queste esperienze confluirono,
più avanti, nel modello rappresentato dalla Regola benedettina. La Gallia del VI – VII secolo fu
terreno fertile di crescita per diverse esperienze monastiche. C’è da aggiungere che tutti i
monasteri ebbero una relazione intensa con la società circostante, in particolare con
l’aristocrazia, attraverso donazioni di terre, monacazioni di esponenti di famiglie aristocratiche
e reclutamento dei nuovi vescovi dall’interno dei monasteri.

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

I regni e l’aristocrazia
Come abbiamo già detto l’efficacia del regno franco nacque dall’integrazione della forza regia e
quella aristocratica, che riprese modelli politici di tradizione sia franca sia romana. La ripresa di
forme e strumenti di governo di tradizione romana fu espressa in particolar modo nella scelta
di Clodoveo di promuovere una redazione scritta dalle leggi franche (lex Salica o Pactus legis
Salicae), la cui stesura risale al 510. Il fatto di procedere a una redazione scritta di queste è
una scelta tipica di cultura romana. Nel prologo della legge il re non è presentato come autore
e promulgatore della norma (…Furono eletti tra di loro quattro uomini che, incontrandosi in tre
assemblee e discutendo con cura tutte le origini delle liti, deliberarono il giudizio relativo ai
singoli…). Il protagonista, dunque, è il popolo con i suoi aristocratici che per cercare la pace e la
giustizia si affidarono alla saggezza di 4 uomini. Al centro del sistema politico troviamo
l’assemblea degli uomini liberi (mallus), luogo delle scelte politiche, dell’elaborazione delle
leggi e delle decisioni giudiziarie. Il potere regio era costruito, quindi, tramite l’efficace
coordinamento dell’aristocrazia -> i Franchi organizzarono una forma di controllo del territorio
attraverso la sua suddivisione in distretti, affidati ognuno a un comes (conte) responsabile
della giustizia, dell’esercito e del prelievo (matrice romana). Questa organizzazione fu solo una
delle espressioni di un più profondo e articolato nesso tra i re e l’aristocrazia, il cui primo
fondamento fu una rete di rapporti di tipo clientelare, fondata sulla capacità regia di
organizzare e guidare il proprio seguito armato (trustis). La delega di funzioni territoriali e il
rapporto personale sono da vedere come correlati dal momento che il re affidava funzioni alle
persone di cui si fidava, ovvero ai suoi fedeli, alla sua trustis. Il passaggio dall’Impero ai regni fu
segnato da un mutamento nelle forme della circolazione economica e in particolare negli
strumenti usati per ricompensare l’esercito ( esercito impero = stipendiato; esercito
merovingio = concessioni di terre). Il regno franco, non dovendo stipendiare l’esercito e in
assenza di una costosa capitale, si ritrovò con azioni di prelievo che cominciavano ad essere via
via più complicate e superflue, che incontrò crescenti resistenze, fino ad essere abbandonata
tra VI e VII secolo. Perciò i Merovingi furono molto più poveri degli imperatori dei secoli
precedenti e ne scaturì una minore possibilità di redistribuzione delle ricchezze ai propri fedeli.
Erano di fatto più deboli e più dipendenti dal consenso aristocratico. I re merovingi erano più
ricchi degli altri re loro contemporanei e molto più ricchi delle altre famiglie aristocratiche
franche. Di conseguenza la società politica franca era fortemente polarizzata attorno al re, con
gli aristocratici che cercavano di accrescere la loro potenza. La polarizzazione attorno al re non
implicò una dinamica di corte con una capitale: i Merovingi avevano una serie di residenze
privilegiate nel nord della Gallia, ed è in queste residenze che l’aristocrazia franca si riuniva
attorno ai propri re. Più difficile è cogliere il legame che univa i Merovingi alla popolazione: la
tradizione germanica attribuiva all’assemblea dell’esercito l’elezione del re, le decisioni
legislative ecc. questi poteri andarono attenuandosi con il crescere della forza di mediazione
aristocratica e del carattere dinastico della monarchia che si trasmetteva di padre in figlio.
Questo non implicò la scomparsa delle assemblee, ma una loro ridefinizione: la grande
assemblea dell’esercito, in primavera, rimase il luogo delle principali decisioni politiche e il
punto di partenza per le grandi spedizioni nei mesi estivi. Nel frattempo assunsero importanza
le assemblee regionali, attorno ai singoli conti, occasioni di deliberazione politica o momenti di
risoluzione dei conflitti locali. Tali assemblee non portarono a una frammentazione del regno
franco, ma derivò dai meccanismi di successione al trono. Il regno e la corona erano infatti

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

considerati parte del patrimonio del re, e in quanto tali venivano spartiti tra i discendenti, già a
partire dai figli di Clodoveo, nel 511. Non fu un processo disordinato e anarchico, perché si
andarono delineando alcune fondamentali partizioni: i regni di Austrasia (nord – est,
connotato in senso germanico); di Neustria (nord – ovest), di Burgundia (sud – est, dominato
prima dai Burgundi e poi sottomesso all’egemonia franca) e di Aquitania (sud – ovest). Tutti i
processi di divisione e ricomposizione si svilupparono sempre all’interno della famiglia
merovingia. Queste divisioni limitarono l’azione dei re franchi verso l’esterno del regno. Di
fatto i Franchi del VI secolo esercitarono un controllo indiretto ma efficace su larga parte
dell’attuale Germania, e in seguito affermarono una più discontinua egemonia sull’Italia
longobarda. Quest’ampiezza sarebbe stata intaccata nel corso del VII secolo, e solo alla fine
dell’VIII si affermò in pieno con l’espansione carolingia.
La rottura del Mediterraneo romano
Roma, già in età repubblicana, aveva realizzato l’unità, soprattutto politica, nel Mediterraneo:
società molto diverse, riunite dalla sottomissione politica, dall’apparato burocratico e da un
capillare sistema fiscale. La fine dell’Impero occidentale è il fondamento necessario per
comprendere sia la ridefinizione dei circuiti economici (in specifico d’Occidente), sia il nuovo
assetto dell’Impero, ridotto a prospettive poco più che regionali nel Mediterraneo orientale, infine
le dispute teologiche , che divisero il Cristianesimo, riprodussero su un piano diverso
l’approfondimento delle divisioni tra le diverse parti dell’Impero romano.

Produzioni e scambi in Occidente


I funzionamenti economici altomedievali sono molto difficili da leggere attraverso le fonti scritte,
che ci offrono dati discontinui. Per campire questi dati i reperti ceramici hanno una certa rilevanza.
La ceramica è infatti abbondante in tutti i siti e le analisi formali e chimiche permettono di
individuarne con certezza la provenienza. Da un lato la ceramica fine da tavola ci da indicazioni
sulla domanda aristocratica, sull’importazione o sulla produzione locale di oggetti di un certo
pregio ; le anfore ci informano invece sullo scambio interregionale di prodotti agrari, dato che i
prodotti come grano, olio e vino erano trasportati in esse.
Un primo importante cambiamento in ambito economico avvenne nel corso del II secolo, quando
l’Impero termino la sua espansione, che fino a quel momento aveva indotto una sorta di crescita,
sostenuta dall’ingente afflusso di bottino e schiavi. Questo afflusso rallentò con il rallentare
dell’azione militare romana e si avviò una lunga stagione di equilibrio, durante la quale erano
ingenti i costi di unificazione politica del territorio, a compensare i vantaggi che quest’integrazione
garantiva alle singole regioni, le cui produzioni specializzate si aprivano a un enorme mercato
mediterraneo ed europeo.
Un altro profondo mutamento economico si ebbe nei primi secoli del Medioevo, il cui punto di
partenza è rappresentato dalla trasformazione sul piano politico e militare, con la fine del dominio
imperiale sull’Occidente, dal quale conseguì l’interruzione dei meccanismi fiscali che avevano
garantito l’interscambio tra le diverse regioni dell’Impero. All’interno delle singole regioni si
ridussero le funzioni delle città, centri del prelievo fiscale, e mutarono i sistemi di produzione e
scambio; a livello macroeconomico si ebbe la fine dell’interdipendenza tra le diverse parti

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

dell’Impero. Possiamo leggere questo mutamento attraverso quattro aspetti: le città, le reti
interregionali di scambio, le forme della produzione e la società contadina.
Città
La crisi riguardò soprattutto le città che in età antica rappresentavano centri di potere e di fisco
imperiale: le èlite cittadine, raccolte nelle curiae, erano fiscalmente responsabili di fronte
all’Impero. Il tramonto del sistema imperiale allontano le èlite dalle città che iniziarono a
valorizzare le proprie ricchezze, ovvero le terre. La crisi delle funzioni dei centri urbani fu
accompagnata da una loro drastica riduzione di popolazione. Gli scavi di contesti urbani mostrano
case più semplici e frazionate, l’occupazione degli spazi pubblici da parte di chiese o di edifici
privati e in alcuni casi una vera e propria frammentazione dello spazio urbano in una serie di
piccoli insediamenti discontinui, raccolti all’interno delle mura di età romana.
Fra tutte, quella che subì una trasformazione più radicale fu Roma, che contava un milione di
abitanti circa ed era centro simbolico e reale del potere imperiale e sede del Senato. Proprio per
questo l’Impero contribuiva al mantenimento della popolazione cittadina con la distribuzione
dell’annona, e Roma poteva essere più popolosa perché era sostenuta dalle risorse fiscali di tutto
l’Impero. Venuti meno l’Impero e il suo sistema fiscale, Roma potè sostenersi con le risorse
provenienti dal Lazio e dalle terre del vescovo. Fu quindi naturale e necessaria una rapida e
profonda riduzione della popolazione urbana che arrivò a 20 mila abitanti circa, i quali vivevano
all’interno delle mura aureliane, in una serie di villaggi intervallati da spazi disabitati, riutilizzando i
monumenti antichi come case e fortezze e organizzandosi attorno al vescovo e al suo palazzo del
Laterano. Questa crisi non significò la fine dell’urbanesimo, perché i centri urbani conservarono
molte funzioni nei confronti del territorio circostante, anche grazie al potere vescovile. Questa
trasformazione deve essere collegata alla rottura della coerenza fiscale dell’Impero e quindi alla
semplificazione dei circuiti mediterranei di scambio, anche perché poche furono le città che
ebbero una forte vocazione commerciale (città di porto come Marsiglia, per esempio). Il
cambiamento urbano deve essere letto alla luce delle reti di scambio interregionali e dei sistemi
regionali di produzione e scambio.
Reti
Per comprendere i meccanismi della circolazione economica è utile soffermarsi sui beni di massa,
di consumo, ovvero sulle materie prime alimentari e sugli oggetti di uso più comune. In età antica,
la città di Roma e del limes renano erano mantenuti grazie alle produzioni cerealicole di regioni
come l’Egitto, la Tunisia o la Sicilia, con trasferimenti fiscali. Questi ingenti trasferimenti di beni
erano sostenuti da un sistema di infrastrutture (porti, strade..). il commercio viaggiava sulle spalle
delle tasse, sia perché i commercianti potevano sfruttare infrastrutture nate per garantire il
sistema fiscale, sia perché probabilmente le stesse navi che trasportavano i beni destinati al fisco
integravano il proprio carico con oggetti commerciabili. La prima grande rottura derivò dalla
conquista vandala della Tunisia, nel 439, che interruppe l’asse fiscale che collegava Cartagine a
Roma e garantiva alla capitale il regolare rifornimento di grano. Questo ebbe un impatto profondo
in tre livelli: le reti di scambio, la città di Roma e le strutture produttive nordafricane. Prima di
tutto lo scambio si ridusse drasticamente e assunse forme più specificatamente commerciali, dopo
la rottura dell’asse, Roma continuò a rifornirsi di questo grano, ma lo fece per via commerciale
(meno grano e rifornimento più oneroso per l’Impero.

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

Secondo aspetto: Roma dovette mantenersi su risorse molto più ridotte (terre laziali/patrimonio
del suo vescovo), e di conseguenza avviò un processo di profonda riduzione. Infine le produzioni
africane subirono una riduzione, attestata dall’abbandono di laboratori ed officine: da un lato
l’esportazione verso Roma e l’Europa si era ridotta drasticamente; dall’altro lato l’aristocrazia di
area tunisina non era abbastanza numerosa e ricca per sostenere una domanda di prodotti pari a
quella in età romana. Per comprendere meglio quest’ultimo punto, occorre guardare alla
questione della produzione agraria e artigianale e in particolare da un lato alla domanda dell’èlite,
fondamento della complessità economica; e dall’altro lato all’infrastruttura statale e al sistema
fiscale che costituiscono la base per lo scambio tra regioni diverse.
Produzione
Il quadro produttivo delle singole regioni durante i primi secoli del medioevo è segnato da una
fortissima varietà. Dobbiamo porre al centro dell’attenzione la domanda delle èlite, la cui ricchezza
appare inferiore a quella delle aristocrazie romane dei secoli precedenti. La struttura produttiva
agraria si concentrava sempre attorno ai tre prodotti fondamentali , grano, olio e vino, che si
ritrovavano in tutte le aree. Le differenze nascevano da molti fattori:

• La specializzazione produttiva era un carattere molto adatto al sistema economico e fiscale


romano, ma fu un fattore di debolezza in un quadro di maggiore isolamento e ridotta
circolazione.
• Le ricchezze dell’aristocrazia delle diverse regioni erano profondamente diverse, e questo
condizionò pesantemente la domanda e quindi la produzione delle singole regioni.
• Anche i danni conseguenti alle guerre furono molto diversi da regione a regione.
• Il sistema fiscale di tradizione romana in alcuni regni fu conservato più a lungo, e questo
indusse una maggiore pressione sulla popolazione e quindi una maggiore produzione.
Queste varianti si possono cogliere attraverso alcuni casi regionali, come per esempio nell’Africa
romana, che nel 534, fu riconquistata dall’Impero d’Oriente, riattivando una circolazione di tipo
fiscale. Dobbiamo da un lato ricondurre il declino alla generale caduta della domanda in tutto il
Mediterraneo, in seguito all’impoverimento delle aristocrazie; dall’altro dobbiamo notare che la
conquista bizantina del 534 non portò alla ricostituzione di un sistema fiscale che coinvolgesse
l’intero Mediterraneo, ma solo a un prelievo destinato al mantenimento della capitale
(Costantinopoli) e a garantire la difesa della stessa Tunisia, minacciata dai Berberi. È chiaro quindi
che nel VI secolo la pressione economica sulle risorse della regione non raggiunse l’intensità
dell’età antica. L’Italia fu un’area a fortissima frammentazione economica, con prodotti artigianali
che circolavano a raggio assai limitato. L’impoverimento dell’aristocrazia non era tale da sostenere
un rilevante sistema di produzione e di scambio. La rottura più profonda si attuò lungo il VI secolo,
prima con la lunga guerra di riconquista imperiale ai danni degli Ostrogoti (guerra greco – gotica),
poi con la conquista longobarda: la prima, per la sua straordinaria durata, provocò profondi danni
materiali e umani; la seconda approfondì la frammentazione dell’area, spartita tra due
dominazioni contrapposte, imperiale e longobarda. Nel regno franco, lungo il VI secolo si assistette
a un lento abbandono del sistema di prelievo fiscale; ma un dato di fondo di quest’area fu la
ricchezza e quindi la forte domanda dell’aristocrazia. Caso opposto è la Britannia, dove si consta
una rottura totale delle reti commerciali, una netta semplificazione dei manufatti e una
produzione ceramica esclusivamente locale ( struttura sociale debolmente gerarchizzata). Nel
Mediterraneo orientale si conservò una rete di scambi ampia e fondata sull’azione statale, una

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

rete (modello romano) che permise di mantenere sia la capitale sia gli eserciti del limes grazie alle
produzioni di regioni come l’Egitto, la Sicilia o la Tunisia; in Occidente questo sistema non si
conservò, spostando la circolazione e lo scambio su dimensioni propriamente regionali, in un
contesto di calo della produzione connessa ad aristocrazie più povere di quelle antiche.
Contadini
La condizione contadina è uno dei dati più sfuggenti perché totalmente esclusi dalla produzione di
documenti scritti ma possono essere visti o indirettamente o per via archeologica. I contadini
rappresentavano la stragrande maggioranza della popolazione (90-95%). Una massa deputata a
fornire i prodotti di base destinati a garantire sia la propria sussistenza sia lo stile di vita dell’èlite
oltre che, in età antica, a mantenere l’esercito e l’enorme popolazione della capitale e delle altre
città. La transizione al medioevo fu segnata da un parziale abbandono delle città e quindi da un
aumento relativo della popolazione rurale. In linea generale possiamo dire che l’autonomia
contadina è inversamente proporzionale alla ricchezza aristocratica: le forti concentrazioni di
ricchezza fondiaria in mano aristocratica riducono i contadini circostanti a lavorare come servi,
salariati o coloni degli aristocratici; quando invece la quota di terra in mano aristocratica è minore,
possiamo più facilmente trovare piccoli proprietari contadini, la cui sussistenza non dipende dalla
volontà di un padrone. L’aristocrazia era complessivamente più povera di quella romana , e il
controllo che esercitava sui contadini era meno diretto e meno opprimente di quanto era stato
prima o sarà dopo. Tutto ciò si tradusse in forti variazioni regionali: basti contrapporre le
aristocrazie impoverite di molte regioni italiane, che lasciavano spazio a piccoli nuclei di
autonomia contadina, alle potenti famiglie e chiese del nord della Gallia che operavano un
controllo diretto ed efficace nei confronti di una società contadina dipendente. Le loro condizioni
materiali di vita non mutarono in modo sensibile, dato che la più elaborata produzione artigiana e
i prodotti di importazione non erano mai stati accessibili a questa quota di popolazione, per cui la
crisi della produzione e degli scambi non incise in modo rilevante su loro stile di vita.
Le ambizioni universali dell’Impero di Giustiniano
La parte orientale dell’Impero romano lungo il IV secolo gravitava attorno a Costantinopoli,
fondata da Costantino nel 324, che aveva inizialmente una funzione di residenza privilegiata
dell’Imperatore, affiancato da un Senato che rappresentava una sorte di sede distaccata del
Senato di Roma. Alla fine del secolo, con la divisione tra parte orientale e parte occidentale
dell’Impero, Costantinopoli si pose al centro di un dominio che comprendeva gran parte del
Mediterraneo orientale e meridionale. Nel corso del V secolo, Costantinopoli assunse la funzione
di capitale dell’Impero, in parallelo al declino di Roma, con l’Occidente che si dissolse in una serie
di dominazioni romano – germaniche, mentre l’Oriente riuscì a opporre un freno alle spinte
barbariche. Lungo il V secolo Costantinopoli si pose in diretta continuità con l’Impero cristiano del
secolo precedente. Tre aspetti possono permetterci di cogliere le forme di questa continuità e i
punti di forza e di debolezza dell’Impero: le successioni al trono, l’organizzazione burocratica e il
sistema fiscale. Un ulteriore elemento connotante dell’Impero fu il rapporto intenso con il
Cristianesimo e con l’organizzazione ecclesiastica. La successione imperiale non si era mai fondata
su una semplice e diretta ereditarietà: il modello romano tradizionale attribuiva al consenso del
popolo la legittima successione al trono, e su questo si era innestata una visione cristiana che
collegava l’ascesa al trono alla volontà divina. A Costantinopoli non esisteva una dinastia imperiale
e la lotta politica di vertice si espresse anche nei ripetuti tentativi di occupare il trono, un

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

obbiettivo che non era precluso anche a figure di ordine relativamente umile. Proprio il grande
imperatore Giustiniano costituisce un ottimo esempio: salì al trono nel 527 perché vi fu associato
dallo zio Giustino, un militare di famiglia contadina, con una grande carriera militare, che culminò
nell’ascesa al trono del 518. Solo nel X secolo (prima solo guerre civile e lotte per l’ascesa al trono)
cominciò ad affermarsi un principio dinastico. Nella capitale si assisteva a una viva conflittualità
politica, che trovava la sua espressione più vistosa all’interno dell’ippodromo: qui, associazioni
nate con uno scopo ludico – sportivo, potevano divenire vere e proprie strutture di pressione
politica, corpi organizzati in grado di dare vita a rivolte urbane, che gli imperatori si trovavano ad
affrontare con grande frequenza. L’instabilità politica era compensata dalla stabilità dell’apparato
burocratico. Nell’Impero si conservò la separazione tra incarichi militari e civili, che impedì
fenomeni di eccessiva concentrazione dei poteri nelle mani di un singolo funzionario. In ambito
amministrativo, lo Stato viveva sulla relazione tra la corte imperiale, nelle capitale, e le province,
un centinaio di distretti in cui l’Impero era suddiviso; dal punto di vista militare (modello romano),
la grande distinzione era tra gli eserciti limitanei (sul limes) e quelli comitatenses (che affiancavano
l’imperatore, la sua più immediata forza d’intervento). Questo quadro non deve trasmettere
l’immagine di un apparato perfettamente coordinato attorno al potere imperiale. La separazione
tra burocrazia e esercito connotò in modo specifico le forme di governo imperiali. Questo sistema
burocratico fu il principale strumento per gestire il prelievo fiscale. In piena continuità con
l’Impero si prelevavano regolari tasse sulle persone e sui loro beni: la tassa fondamentale era
l’annona, un’imposizione che integrava un prelievo sulle terre (iugatio) e sulle persone su di esse
insediate (capitatio), che era calcolato considerando sia il valore della terra sia il numero di
persone che la lavoravano. Quest’azione richiedeva la produzione di un complesso sistema
documentario e amministrativo per accertare i patrimoni e le persone presenti (catasti).
Nell’Impero per rendere più stabili le entrate fiscali, si cercò di vincolare le persone alle terre,
vietandone lo spostamento verso altri fondi, e dando vita così alla figura dei coloni, persone
giuridicamente libere ma vincolate alla terra, su cui erano obbligati a risiedere e lavorare. Queste
operazioni garantirono all’Impero una buona stabilità finanziaria, resa possibile anche da una
circolazione monetaria. L’organizzazione di questo sistema burocratico e fiscale richiedeva la
presenza di corsi di formazione scolastica, in particolare in campo giuridico (nesso tra apparato
amministrativo e le grandi scuole di diritto di Roma, Costantinopoli e soprattutto Beirut, la più
prestigiosa). Questo sistema di formazione giuridica fu alla base della grande riforma legislativa di
Giustiniano, che si espresse nella redazione del Corpus iuris civilis, un insieme articolato di testi
giuridici. Il primo problema affrontato fu l’affollarsi disordinato di leggi emanate nell’Impero
precedente, testi spesso contraddittori perché emanati in momenti e situazioni diverse della
storia; il nuovo Impero richiedeva che i testi fossero coordinati e selezionati per dare vita a un
Codice legislativo unitario e coerente. Questo è il primo incarico che Giustiniano affidò a una
commissione di 7 giuristi guidati da Triboniano, che l’anno seguente presentò all’imperatore il
Codex, una raccolta delle principali norme imperiali dall’età di Adriano (fine II secolo) fino al 529.
Nel 533 i giuristi di corte presentarono all’imperatore il Digesto (o Pandette), una raccolta selettiva
di scritti di giuristi, e le Institutiones, testi per l’insegnamento universitario del diritto. In seguito
furono pubblicate le Novellae, nuove disposizioni imperiali, emanate dopo la redazione del Codex.
Questi quattro testi (Codex, Digesto, Institutiones, e Novellae) andarono a costituire il Corpus iuris
civilis. Il campo giuridico fu quello in cui Giustiniano lasciò il segno, ma all’epoca le sue azioni più
vistose furono quelle condotte sul piano militare e territoriale, nel tentativo di riconquistare
l’Occidente e quindi riunificare l’Impero. L’ampia azione militare, che portò alla riconquista della

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

Tunisia, dell’Italia e delle coste mediterranee della Spagna, fu l’esito di una serie di processi che
integravano aspetti militari, ideologici ed economici. Possiamo individuare tre premesse
fondamentali: la relativa tranquillità del limes persiano permise all’impero di alleggerire questo
fronte e destinare le truppe ad altri scopi; l’ampia riflessione giuridica e politica condusse a un
rafforzamento ideologico e a una riaffermazione della centralità e del ruolo universale
dell’impero; infine la politica fiscale e l’alleggerirsi dell’impegno bellico a est garantirono il
consolidamento finanziario e una nuova prosperità. Questi tre elementi resero possibile la ripresa
della tutela dei mari e della navigazione nei confronti di una diffusa pirateria più o meno
organizzata. Questo richiese il consolidamento della flotta imperiale, che divenne a sua volta lo
strumento per compiere un passo ulteriore, ovvero avviare spedizioni di conquista verso
Occidente, per ricreare l’unità mediterranea romana. Il primo obbiettivo fu il regno vandalo di
Tunisia: i Vandali, per la loro posizione centrale e la loro ostilità nei confronti dell’Impero ,
rappresentavano la principale minaccia alla sicurezza della navigazione mediterranea, al centro
degli interessi imperiali; al contempo il controllo imperiale sulla Tunisia avrebbe consentito di
riprendete possesso delle sue grandi produzioni agrarie e artigianali. Le truppe imperiali, guidate
dal generale Belisario, conquistarono il regno vandalo con una certa facilità, tra 533 e 534. Ben più
faticose furono le altre campagne militari imperiali: la Spagna visigota e l’Italia ostrogota
(campagna di quasi 20 anni). Quest’ultima vede le armate bizantine , guidate da Belisario,
conquistare la Sicilia e risalire la penisola fino alla conquista di Ravenna nel 540, che indusse le due
parti a una trattativa (spartizione dell’Italia: regione a nord del Po agli Ostrogoti). Questo equilibrio
fu rotto l’anno seguente, quando salì sul trono italico Totila, che rilanciò l’azione militare gota.
Giustiniano, allora, sostituì Belisario con Narsete, attraverso il quale intraprese una nuova
campagna via terra che nel 533 portò alla piena conquista dell’Italia.
La resistenza e la durata del conflitto provocarono danni materiali e umani, che colpirono
soprattutto la grande aristocrazia senatoria: dopo la conquista Giustiniano emanò la Prammatica
sanzione, che aveva lo scopo di ristabilire le condizioni precedenti al regno di Totila (soprattutto i
possessi): la ricchezza fondiaria dell’aristocrazia era il fondamento politico e fiscale del potere
imperiale. Al contempo l’imperatore ricostituì un quadro di governo imperiale sull’Italia,
organizzato attorno a un grande funzionario, l’esarca di Ravenna e lasciò l’Urbe nelle mani del suo
vescovo. La fragilità del dominio imperiale in Italia emerse pochi anni dopo (568), quando i
Longobardi valicarono le Alpi e diedero vita a una conquista lunga, violenta e discontinua. Si
impadronirono prima del Friuli e del nord-est, poi dell’interno della pianura padana, e con un po’
più di impegno assediarono Pavia e rimasero sempre esclusi dalla zona di Ravenna. Da questo
nucleo partirono una serie di spedizioni: verso la Toscana, verso il centro e il sud dell’Italia, ma
anche oltre le Alpi, nelle aree controllate dai Franchi.
Si crearono così due Italie: i Longobardi dominavano la pianura padana, la Tuscia e due regioni
poste più a sud, i ducati di Spoleto e Benevento; all’Impero restavano il Lazio, l’area di Ravenna, la
laguna veneta, le Marche, la Liguria, gran parte del Meridione continentale e le grandi isole. In
area umbra i domini imperiali e quelli longobardi si intrecciavano. Il confine tra i due domini non
era una linea netta e semplice, ma una trama fitta e complessa di territori e confini.
Dal punto di vista territoriale l’eredità di Giustiniano fu nel complesso fragile: l’Africa restò
imperiale fino alla conquista araba; in Spagna il consolidamento del regno visigoto non lasciò
spazio alla presenza imperiale e l’Italia subì la conquista longobarda. Un ulteriore piano dell’azione

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

di Giustiniano fu quello teologico ed ecclesiastico, in un tentativo di ricostruire l’unità religiosa


dell’Impero che dovette scontrarsi con una dimensione regionale ormai dominante.
Dibattiti teologici e identità locali
Se nel V e VI secolo la distinzione tra cattolici e ariani aveva modificato le forme di convivenza
all’interno dei regni, in questo stesso periodo il dibattito teologico si era spostato dal piano
trinitario a quello cristologico: la questione era la convivenza nella figura di Cristo di una natura
divina e una natura umana. Cristo dev’essere pienamente Dio, per garantire l’efficacia salvifica
dell’incarnazione e della morte; ma al contempo dev’essere pienamente uomo, perché solo così gli
si può riconoscere una piena e reale sofferenza nella carne. Ma come possono convivere due
nature in una sala persona?
In questo lungo conflitto si elaborarono formulazioni teologiche raffinatissime che coinvolse
l’insieme dei fedeli. Il ruolo di Maria fu al centro del dibattito fin dalle prime importanti
formulazioni, quelle di Nestorio, un sacerdote formato ad Antiochia (Siria), divenuto vescovo di
Costantinopoli nel 428: Nestorio sosteneva la presenza in Cristo di due persone distinte (umana e
divina) e di conseguenza rifiutava a Maria il titolo di “madre di Dio”, sostituendolo con quello di
“madre di Cristo”, cioè di Gesù congiunto con il Figlio. Il Nestorianesimo fu condannato nel concilio
di Efeso del 431, su iniziativa dell’imperatore Teodosio II. Il Nestorianesimo aveva una debolezza
intellettuale, perché fondava in modo insufficiente l’unità delle due nature di Cristo: se le due
persone erano distinte, la morte dell’uomo non aveva coinvolto la parte divina e questo non
garantiva l’efficacia salvifica dell’incarnazione e della morte. Fu un grande dibattito teologico e al
contempo la divisione tra le più importanti sedi della Chiesa, un’articolazione regionale che andò
differenziando le forme della fede e del culto nelle diverse parti del Mediterraneo. Il
Nestorianesimo si conservò negli episcopati sottoposti all’Impero persiano dei Sassanidi.
La via teologica opposta, elaborata in ambito alessandrino, fu il cosiddetto Monofisismo (mone
physis, una sola natura): in questa interpretazione umanità e divinità si fondono fino a dare vita a
una sola natura, in grado sia di soffrire concretamente come uomo, sia di operare la redenzione in
quanto Dio. Questa posizione subì una condanna nel concilio di Calcedonia del 451. Il Monofisismo
offuscava le due nature, ne cancellava la specificità, mentre l’efficacia salvifica dell’incarnazione
deriva si dall’unione di umanità e divinità, ma anche dalla conservazione delle due nature
pienamente integre. Il concilio propose una soluzione di compromesso, il cosiddetto Diofisismo
(dyo physeis, due nature), che sostenne la presenza di due nature distinte e integre unite in modo
indissolubile nella persona del Cristo, formula tuttora adottata dalle Chiese cattolica e ortodossa.
La questione era anche politica e ecclesiastica: la posizione diofisita fu infatti sostenuta da Roma,
Antiochia e Costantinopoli contro Alessandria. Di nuovo una divisione tra le grandi sedi patriarcali
con la centralità di Costantinopoli: fu infatti il concilio di Calcedonia a ratificare l’ascesa della
capitale al ruolo di sede patriarcale, in una prospettiva di pieno parallelismo tra Roma e
Costantinopoli. Le divisioni teologiche avevano quindi una loro piena autonomia intellettuale ed
esprimevano profonde scelte religiose e culturali, ma al contempo erano una delle espressioni
dell’articolazione del Mediterraneo romano in spazi, politici, economici e di civiltà, sempre più
chiaramente distinti. La responsabilità imperiale per la disciplina ecclesiastica e per l’ortodossia
religiosa era una componente fondamentale dell’ideologia universalistica: non ha senso ragionare
in termini di Stato e Chiesa come due entità separate, perché il primo compito dell’imperatore era
la difesa delle chiese. Obbedire o non obbedire ai decreti conciliari significava anche aderire più o

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

meno solidamente al sistema di potere imperiale, ed era quindi un’urgenza prioritaria per
l’imperatore sanare questi conflitti e ricondurre i territori dell’Impero a un’unità teologica ed
ecclesiastica. L’impegno imperiale tendente a tutelare l’unità della teologia cristiana proseguì nel
secolo successivo, ed è in questo quadro che dobbiamo porre l’intervento di Giustiniano, che
condannò i cosiddetti Tre capitoli, testi diofisiti le cui formulazioni più spinte portarono all’accusa
di Nestorianesimo. Potrebbe sembrare una rottura all’interno del quadro teologico vincente; si
trattò invece di un tentativo consapevole di avvicinare i monofisiti d’Egitto, rifiutando le
formulazioni diofisite più estreme. Ma il progetto fallì, perché le chiese d’Occidente respinsero le
posizioni imperiali e, se il vescovo di Roma Vigilio decise di adeguarsi all’orientamento imperiale (
nel concilio di Costantinopoli del 553), altre importanti province ecclesiastiche (Milano, Aquileia e
le diocesi del Nordafrica) diedero vita a un vero e proprio scisma, sanato solo nel secolo
successivo. Ci fu un nuovo tentativo di unione teologica della Chiesa sotto l’imperatore Eraclio nel
VII secolo, mirante a riavvicinare i monofisiti: l’imperatore, in accordo con le sedi di Costantinopoli
e Alessandria, promosse la posizione detta Monotelismo (monos telos, un solo scopo), ovvero
l’idea che in Cristo fossero presenti due nature, unite però da un’unica attività e un’unica volontà
connessa alla fondamentale unità della persona. Ma anche questo tentativo fallì perché il
monotelismo fu condannato nel concilio di Costantinopoli nel 681, mentre ormai le regioni
sudorientali erano passate in modo permanente in mani islamiche. Il Diofisismo era dominante
nell’Impero e in Occidente; le altre posizioni erano vive in regioni sfuggite al controllo imperiale. La
divisione teologica non minava l’unità imperiale, il suo superamento non era più un obbiettivo
politico rilevante.
Nobili, chiese e re: ricchezze e poteri.
Nel VI e VII secolo, la geografia politica dell'Europa Occidentale appare più stabile grazie al
rallentamento della mobilità dei popoli germanici e alla ormai definita fisionomia territoriale dei
principali regni .Tre sono le chiavi fondamentali attraverso cui leggeremo i funzionamenti sociali di
questi secoli: l'equilibrio politico tra le aristocrazie e i re; lo sfruttamento delle risorse agrarie e
l'apertura di nuove reti di scambio. Il quadro territoriale su cui ci concentreremo considera le isole
britanniche, il regno visigoto e il regno franco.
Nobili e re
Nei regni altomedievali ci troviamo di fronte a un equilibrio tra la capacità regia di coordinamento
e l’azione politica autonoma dell'aristocrazia. Gli elementi comuni che in tutti questi regni
connotano il rapporto tra re e aristocrazia si possono individuare nei processi di redistribuzione
clientelare e nel fondamentale carattere militare del potere regio. Per quanto riguarda la
redistribuzione, i re erano più poveri degli imperatori romani; le risorse erano minori per i processi
di redistribuzione ma, nonostante ciò, il processo era relativamente efficace tanto che le famiglie
aristocratiche furono sempre attente a conservare un legame con la corte; era per loro
fondamentale partecipare al circuito di solidarietà e di redistribuzione che faceva capo al re, un
circuito che offriva grandi opportunità economiche e politiche. Nodo di questo circuito era il
carattere militare del potere regio: la principale funzione del re restò sempre quella di capo
militare, e così l'esercito ebbe sempre una doppia connotazione, come esercito di popolo e come
seguito del re.
Caratteri specifici dell'evoluzione dei singoli regni:

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

• Regno visigoto : all'inizio del VII secolo il regno visigoto completò la conquista della
penisola iberica, al contempo, la conversione al Cattolicesimo si era completata con una
cancellazione quasi totale dell'Arianesimo ; avvenne così un processo di centralizzazione
del potere, espresso nella redazione delle leggi ( Liber iudiciorum) completata da re
Recesvinto nel 654. Questo è un testo in cui sono palesi le influenze del diritto romano, che
viene integrato solo in parte con le tradizioni di origine germanica. L'emanazione di un
sistema normativo richiamava alla tradizione imperiale. Qui il modello efficace era l'Impero
Cristiano, fondato sulla cooperazione tra il sovrano e i vescovi, che nel caso visigoto trovò
un'espressione nei concili di Toledo. I concili erano assemblee ecclesiastiche e organi di
governo del regno e avevano una funzione complessiva di guida del popolo sotto il doppio
aspetto di cura delle anime e di governo degli uomini. La centralità assunta dal potere regio
si può notare anche dai numerosi colpi di Stato nei tentativi da parte dell'aristocrazia di
impadronirsi del regno . In sostanza, il potere regio era una struttura forte a cui
l'aristocrazia voleva avvicinarsi e di cui voleva ottenerne il controllo. Ma questo
consolidamento del potere regio lasciava spazio a un imperfetto controllo militare del
territorio ( VIII secolo -> conquista della penisola iberica da parte degli islamici che fu, per
loro, nel complesso semplice).
• Le isole britanniche : nel VII secolo restarono caratterizzate da un'alta frammentazione
politica:
➢ Irlanda : la conversione al Cristianesimo aveva posto al centro i monasteri, sia per
l'organizzazione ecclesiastica, sia per l'apertura verso orizzonti europei (opere
missionarie). Non cambiò invece la struttura politica dell'isola, divisa in una
moltitudine di regni, in cui la teoria giuridica cercò di mettere ordine distinguendo
diversi livelli di dominazioni, tutte connotate dal titolo regio.
➢ Britannia : stessa pluralità di regni, ma qui si assiste a una più chiara tendenza alla
gerarchizzazione. Il VII secolo è segnato dal completamento del processo di
conversione al Cristianesimo e dall'apertura a influssi provenienti dalla Gallia franca
( matrimoni che unirono le diverse famiglie rege, circolazione di monete franche).
Rimase invece debole il livello di urbanizzazione, con uno sviluppo delle città
portuali che appare significativo solo a partire dalla fine del VII secolo. Per quanto
riguarda i rapporti tra i diversi regni presenti, da un lato sono attestati molti regni di
diverse dimensioni e importanza; dall'altro, il principale cronista inglese del secolo,
il monaco Beda, mostra chiaramente di pensare all'Inghilterra come a uno spazio
unitario di civiltà (forme di civiltà e modelli politici analoghi connotano l'intera
isola, senza implicarne l'unità politica). Possiamo quindi affermare alcune cose:
 Esisteva una pluralità di regni con diversi livelli di importanza;
 Alcuni di questi appaiono più definiti e stabili, in particolare i due regni
principali ( Mercia e Northumbria);
 Tra VII e VIII secolo si affermò in modo discontinuo un egemonia dei re di
Mercia sui regni meridionali ( tutti tranne la Northumbria);
 Il contenuto effettivo di questa egemonia è assai difficile da definire
• Merita uno spazio maggiore il regno dei Franchi: è necessario partire dai funzionamenti
interni al regno merovingio, lungo il VII secolo. Rispetto al VI secolo, il dominio franco subì
una parziale riduzione territoriale: l'attuale Francia e la parte più occidentale della
Germania. I Merovingi, privi di una capitale stabile, furono sempre itineranti tra i diversi

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

palazzi , mobilità che dipendeva in larga misura dalle contingenze e dalle emergenze
militari e che si concentrava solo in alcune aree. Il fondamento principale del potere
merovingio era il legame con l'aristocrazia, legame talmente solido che l'aristocrazia franca
non accettava un re che non fosse della dinastia merovingia e fondato sulla chiara
affermazione della diversità dei Merovingi da ogni altra dinastia presente nel regno. Infatti
i Merovingi erano molto più ricchi di qualunque altra famiglia, si legavano
matrimonialmente con dinastie rege esterne al regno franco e compivano una serie di atti
rituali destinati a riaffermare simbolicamente la loro differenza.
All'interno dell'aristocrazia franca, in particolare quella del regno di Austrasia, crebbe la famiglia
dei Pipinidi/ Carolingi. Nei primi anni del VII secolo, nel contesto delle lotte per il potere interne
alla stirpe merovingia, Arnolfo di Metz e Pipino di Landen, i leader dei due principali clan
aristocratici dell'Australia, si allearono per appoggiare l'ascesa al trono del re Clotario II e ne
furono ricompensati: Arnolfo con la carica di vescovo di Metz, Pipino con quella di maestro di
palazzo del regno di Austrasia. Dal matrimonio tra la figlia di Pipino e il figlio di Arnolfo nacque un
sistema parentale potentissimo, che si andò affermando a partire dalla carica di maestro di
palazzo attribuita Pipino. Il maestro di palazzo ( o maiordomus) era il punto più alto di potere al di
sotto del re: era il capo della corte regia, colui che coordinava la vita politica attorno al re e
metteva in atto le decisioni rege.

La forza della dinastia si espresse nei momenti in cui un suo esponente (Carlo Martello, ad
esempio), riuscì a ricoprire contemporaneamente le funzioni di maestro di palazzo nei diversi regni
della dominazione franca. Territorio franco diviso ma unito dalle azioni dei maestri di palazzo
pipinidi. Non era possibile prendere direttamente il potere regio perché l’aristocrazia franca era
fedele alla dinastia dei merovingi e non accettava l’ascesa di potere di un’altra dinastia:
Grimoaldo, esponente della famiglia pipinide, nel 656, esiliò il merovingio Dagoberto, per mettere
al trono il figlio Childeberto, ma fu sconfitto e giustiziato. Per comprendere la forza dei pipinidi
bisogna concentrarsi sul rapporto con l’aristocrazia franca, soprattutto quella austrasiana. I
pipinidi si mossero legando a sé, per via clientelare, le maggiori famiglie austrasiane, regione
dominata da un’aristocrazia ricca di terre e a forte orientamento militare. Fu proprio il
coordinamento di questa aristocrazia a fondare la forza dei Pipinidi. Si tratta di rapporti di
solidarietà militari: la loro capacità di coordinamento dell’aristocrazia si tradusse in forza armata
autonoma, non sempre e necessariamente al servizio dei re merovingi. La centralità della
componente militare si vede bene nella vicenda di Carlo Martello ( “Martello” = piccolo Marte,
centralità della componente militare nell’immagine di Carlo), maestro di palazzo di Austrasia, di
Neustria e di Burgundia, morto nel 741. Dagli storici più contemporanei alla dinastia, viene
ricordata la sua impresa più celebre, la battaglia di Poitiers del 732, quando Carlo sconfisse una
spedizione proveniente dalla Spagna islamica, che mise fine a incursioni e saccheggi, e che viene
vista come momento determinante per salvare il regno da una minacciata conquista islamica.
Quindi componente militare importante sul piano concreto, nel garantire la forza politica dei
maestri di palazzo, sia su quello ideologico, come base per la celebrazione dinastica.
Carlo Martello non fu mai re: fu il figlio Pipino III (il Breve), a prendere la corona nel 751,
deponendo gli ultimi Merovingi; ma è chiaro che già nei primi decenni del secolo VIII la famiglia si
muoveva in una prospettiva di pieno controllo dell’intero mondo franco. Il mito dei “re fannulloni”

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

(ultimi re merovingi), è un mito costruito nel IX secolo dalla corte carolingia, per riaffermare la
legittimità del proprio colpo di Stato del 751. Ma non c’è dubbio che i re dell’VIII secolo fossero
indeboliti. La capacità dei Pipinidi di agire in una prospettiva ampia si può cogliere anche
osservando l’appoggio dato da Carlo Martello e da Pipino III alle missioni del monaco Wynfrith
nelle regioni orientali dell’attuale Germania. Wynfrith era un monaco originario del Wessex, che
papa Gregorio II nominò vescovo e inviò come missionario tra Turingi, Frisoni e Sassoni, dove
operò dal 722 al 754, per cercare di costruire la rete delle città e delle diocesi che in quelle aree
era tutta da costruire. Carlo e Pipino appoggiarono a lungo questa missione, e la loro azione ci dice
tre cose importanti sulla politica pipinide di questi anni:

• Apertura verso i territori orientali, sui quali, alla fine del secolo, si affermerà il dominio
franco.
• La tutela delle chiese e della loro espansione, funzione tipicamente regia.
• Collegamenti indiretti con il vescovo di Roma, legame che acquistò rilievo divenendo
un’alleanza stabile, solo in seguito al colpo di Stato del 751.

Terre e uomini
Le gerarchie sociali altomedievali erano costruite sulla base della ricchezza fondiaria: essere ricco
significava avere molte terre, che servivano per ricompensare i propri fedeli, beneficiare le chiese,
fornire ricche doti alle figlie per stipulare utili alleanze matrimoniali. In tutta Europa il
popolamento era più basso di quello attuale (forse 15-20 milioni per la popolazione europea
altomedievale) e le campagne altomedievali erano uno spazio a bassissima densità abitativa. Il
territorio era dominato da boschi, al cui interno si aprivano le radure che accoglievano i villaggi e i
terreni coltivati. Possiamo immaginare il villaggio come un nucleo di case contadine attorno a cui si
sviluppavano una serie di cerchi concentrici, che comprendevano le principali risorse agrarie: nelle
immediate vicinanze delle campagne c’erano gli orti e le colture specializzate; attorno al villaggio
si estendevano i campi coltivati a cereali e i pascoli, che alternavano gli usi delle stesse terre
secondo un sistema di rotazione biennale: metà delle terre erano coltivate a cereali e metà
lasciate incolte e destinate al pascolo, per poi invertire gli usi l’anno successivo; in tal modo su tutti
i campi si alternavano un anno di sfruttamento per la cerealicoltura e una anno di riposo e di
arricchimento e concimazione della terra grazie al pascolo. Data la diversa specializzazione delle
terre e questa alternanza di usi, è naturale che la terra di una singola famiglia contadina fosse
frammentata e dispersa, a coprire le diverse esigenze economiche della famiglia. Il modello era a
case inserite in villaggi, a cui facevano capo una pluralità di pezze di terra, disperse nel territorio
circostante. All’esterno dei campi, si trovavano grandi distese boschive, dove la società contadina
prendeva la legna (per le costruzione e per scaldarsi), si raccoglievano frutti, si allevavano animali
(soprattutto maiali), si cacciava e si pescava. Queste erano beni comuni, gestiti e sfruttati
collettivamente dagli abitanti del villaggio. Constatiamo qui la distinzione tra due termini: il
nemus, il bosco, spazio non coltivato ma vissuto, curato e sfruttato dall’uomo; e la silva, la foresta,
boschi lontani e inaccessibili, usati in modo più sporadico da aristocratici e re per la caccia. I
villaggi altomedievali non furono un ambito di opposizione tra mondo contadino e mondo
pastorale, ma piuttosto un contesto di integrazione di diversi sistemi produttivi e alimentari,
l’espressione concreta della fusione latino – germanica (cereali – carne). In tutte le regioni di
Europa convivevano grandi e piccole proprietà; dove la grande proprietà era dominante, re,

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

aristocratici e chiese avevano una maggiore capacità di condizionamento della società circostante
(contadini costretti, per sopravvivere, a coltivare le terre dei potenti, e quindi a dipendere dalle
loro concessioni e benevolenza).
Tra VII e VIII secolo si elaborò una peculiare forma di gestione delle grandi proprietà fondiarie, la
cosìddetta curtis, affermatasi in ambito franco e diffusasi con l’espansione del dominio carolingio;
rimase il modello prevalente fino all’XI secolo. La grande proprietà non è sinonimo di latifondo; la
prima era un insieme di campi, prati, case e diritti dispersi in villaggi diversi, inframezzati alle terre
di altri proprietari, il secondo era una distesa di terra compatta e uniforme controllata dallo stesso
proprietario. Curtis = unità gestionale e non territoriale. Erano difficili da amministrare ma
portavano dei vantaggi: in una singola curtis confluivano terre con caratteristiche diverse, in grado
di garantire al proprietario produzioni diversificate; e questa dispersione dava al proprietario un
ruolo importante in villaggi diversi. La curtis era una forma di gestione delle ricchezze fondiarie di
un grande proprietario; il villaggio era una struttura insediativa di cooperazione contadina e di
organizzazione dello spazio agrario. Le due entravano continuamente in interferenza. Dal punto di
vista gestionale vi è un ulteriore articolazione della curtis: divisione tra dominicum e massaricium.
Il primo era gestito direttamente dal proprietario tramite un proprio agente e con l’impiego di
manodopera servile; il secondo era la parte suddivisa in terre date in concessione a contadini
liberi, che ottenevano ognuno un manso ( insieme di terre sufficienti a mantenere la famiglia), in
cambio di questo il massaro aveva una serie di obblighi nei confronti del proprietario: talvolta un
censo in denaro, talvolta una quota di prodotti e sempre una serie di corvèes, giornate di lavoro
che il massaro doveva compiere sul dominicum nei periodi più intensi di lavoro. Il sistema curtense
portava però anche a delle difficoltà, ovvero non tutte le annate erano uguali, c’erano quelle più
abbondanti che esigevano un’alta quantità di manodopera e c’erano quelle meno abbondanti. Gli
obblighi dei massari erano definiti e stabili. Ogni tipo di cambiamento avrebbe significato a
riassestamenti e riorganizzazioni non facili da attuare perché avrebbero inciso sulle consuetudini
locali. Le curtis inoltre erano un modello adeguato a un’economia con una debole circolazione
monetaria come quella di questi secoli. Non in tutte le zone l’organizzazione della manodopera era
uguale: in un dominicum di area mediterranea, basato su ulivi e vite, era necessaria una
manodopera limitata nel tempo, ma specializzata; in uno di una grande pianura europea la
manodopera doveva essere abbondante e fornita da animali da tiro, perché erano campi di grandi
superfici. La distinzione tra dominicum e massaricium era fondamentalmente una distinzione tra
servi e liberi. Nel medioevo di usa il termine servi, il termine schiavo veniva utilizzato in antica: si
trattava comunque di uomini e donne non liberi, comprati e venduti, ed esclusi dal rapporto
diretto col potere regio. La differenza è che nel medioevo, i servi erano considerati parte della
comunità cristiana, persone a pieno titolo ; in età romana, invece, lo schiavo era un utensile
dotato di voce, inoltre i servi potevano ottenere terre in concessione, erano una minoranza e non
erano l’elemento base su cui si fondava l’economia altomedievale. Questo si riflettè all’interno
della struttura curtense : in alcuni casi si realizzò uno squilibrio tra un’abbondante manodopera
servile e la disponibilità di terre del massaricium, per cui si scelse di affidare mansi a famiglie servili
che, non solo mantennero la propria condizione servile ma la proiettarono sul manso e sugli
obblighi connessi. Talvolta i contadini liberi erano costretti a prendere un manso servile, quando
non ne erano disponibili di normali. Essi restavano giuridicamente liberi, ma con carichi di lavoro
superiori, derivanti dalla condizione servile del manso. A lungo termine, la conseguenza di questa
mobilità degli uomini e della frammentazione delle curtes, fu che all’interno di un villaggio ci si

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

poteva trovare di fronte a condizioni giuridiche molto diverse. Tutto ciò non implica che la società
contadina fosse appiattita in un’unica condizione socio – giuridica, spesso identificata come la
“servitù della gleba”: non tutti erano servi, e soprattutto chi era servo lo era personalmente, non
per un vincolo alla terra, alla gleba. Chi era massaro, era legato al signore da un contratto (scritto o
più spesso orale), chi era servo era proprietà del signore. Entrambi erano quindi legati al grande
proprietario. Nel contesto carolingio questa distinzione aveva ancora un grande rilievo: essere
liberi significava in primo luogo essere sudditi del re, aver diritto alla sua protezione e alla sua
giustizia; i liberi erano coloro che fruivano di un rapporto diretto col loro re, i non liberi erano
coloro che invece dipendevano sempre dal proprio padrone/signore, coloro che non potevano
accedere alla giustizia regia.
Reti di scambio
Da sempre si è ritenuto che la curtis fosse un sistema chiuso e autosufficiente, dove vi era la
produzione di tutte le materie prime e tutte le lavorazione artigianali in un contesto di debole
circolazione monetaria e di scambi ridotti al minimo, per lo più nelle forme di baratto. Questo è
quello che ci fa pensare il “Capitulare de villis”, ovvero “Legge sulle curtes” (villis e curtes sono
sinonimi), norma emanata da Carlo Magno che prevede che ogni curtis sia fornita di ogni tipo di
attrezzo e di artigiano e nella quale si elenca nel dettaglio una grande varietà di prodotti agrari e di
oggetti che dovranno essere raccolti all’interno dell’azienda. Tutto ciò offre, appunto,
un’immagine di autosufficienza economica. Ma la legge non è sempre una raffigurazione della
realtà e Carlo Magno stava imponendo questo tipo di funzionamento solo alle curtes rege, nel
modo in cui avrebbero dovuto funzionare. Il Capitulare ci mostra quindi una volontà di autonomia
economica. Le fonti, però, ci attestano la presenza di mercati settimanali, la confluenza dei
prodotti delle curtes verso le città e una piccola disponibilità di moneta nelle mani dei coloni: tutti
segnali di un sistema di scambi commerciali locali.
i re, le chiese e i nobili franchi erano ricchi e potenti, e questa loro potenza era costituita dalla loro
ricchezza fondiaria , che si traduceva in una forte capacità di pressione sulle risorse e sui contadini.
Le curtes erano uno strumento fondamentale per gestire questa ricchezza e offrivano ai
proprietari la massima redditività possibile. Cercare una redditività delle terre significava trarne il
necessario per conservare il proprio stile di vita, ma anche trarne un surplus che poteva essere
commercializzato, in modo da garantire ai nobili le risorse per procurarsi armi, vestiti, cavalli,
preziosi apparati liturgici etc. a questo serviva la capacità di pressione sui contadini e sul loro
lavoro: trarre dalle terre il massimo possibile. Grazie al loro potere derivante dalla ricchezza
fondiaria, la società contadina era messa in una condizione di oggettiva debolezza (i contadini
dipendevano dalla terra concessa dai signori) e consentiva all’aristocrazia di imporre forti richieste
di censi e di lavoro, per la creazione di un significativo surplus, nelle mani di nobili e chiese, che
potevano sfruttarlo per via commerciale. Le città erano centri con la massima quantità di
popolazione non contadina, che cercava un regolare afflusso di derrate dalle campagne; le curtes
erano i principali centri di produzione e di mercato, perché lo scambio commerciale di prodotti
agrari era fortemente condizionato dai grandi proprietari fondiari, in grado di portare sul mercato
grandi quantità di prodotti e quindi di determinare di fatto i prezzi.
Le abbazie erano in gradi di accumulare e convogliare verso i mercati masse imponenti di grano e
di vino, così da essere non solo partecipi allo scambio ma anche il motore portante di questi

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

mercati, come dimostra il passo della Cronaca di Novalesa, che descrive un carro in legno
intagliato, sovrastato da una campanella squillante.
A una lettura rapida, i mercanti che attendono l’arrivo dei carri di Novalesa sembrerebbero
esprimere solo rispetto per il santo monastero; ma da un punto di vista economico, i prodotti di
un grande monastero potevano stravolgere i prezzi, e quindi i mercanti aspettavano a vedere
quanto fossero abbondanti i beni messi in vendita da queste grandi abbazie. Da queste e altre
fonti, emerge con chiarezza l’immagine dei grandi proprietari fondiari come figure attive sul
mercato. La capacità commerciale dei grandi proprietari fondiari rendeva per loro più interessante
prelevare censi in natura piuttosto che in denaro, perché grazie ai prodotti del dominicum e del
massaricium erano in grado di condizionare il mercato locale, e guadagnare somme maggiori di
quelle che avrebbero potuto trarre dai censi in denaro pagati dai contadini. La cronaca ci segnala
anche i trasferimenti dalle corto al monastero. I patrimoni monastici erano costituiti da nuclei
dispersi, il che implicava problemi di gestione e trasporto, ma permetteva il confluire una grande
varietà di produzioni, grazie alle terre poste in contesti ambientali diversi. Ciò garantiva
l’autonomia economica del monastero e la creazione di una quota importante di prodotti
commerciabili.
Circolazione monetaria: in epoca romana c’era la circolazione di moneta in oro, argento e bronzo,
che nel VI secolo lasciò spazio a numerose zecche, disperse in diversi regni europei , e a una netta
prevalenza della monetazione in argento. Il sistema destinato ad affermarsi a livello europeo fu
definito dai Carolingi nei primi decenni del loro regno: la base di riferimento era la libra, una libbra
d’argento (400 g), che era divisa in 20 solidi, a loro volta divisi in 12 denarii. Librae e solidi erano
solo valori di conto; l’unica moneta che veniva realmente coniata era il denarius, che equivaleva ai
nostri € 10 – 15. Era una moneta che veniva utilizzata esclusivamente nel commercio e negli
acquisti di terre, e non di uso quotidiano. Azioni economiche quotidiane passavano attraverso
scambi di oggetti e di servizi. La diffusione di moneta è il segnale del costituirsi di reti commerciali,
vista la comparsa di monete franche in Inghilterra e in Frisia, che indica un coinvolgimento di
queste regioni in una rete di scambi. Questo coinvolgimento indica l’espressione sul piano
economico e monetario di un processo di coinvolgimento in un sistema di civiltà europeo e
cristiano che si stava polarizzando attorno all’egemonia franca (conversione dell’Inghilterra al
Cristianesimo, missioni di Wynfrith verso le regioni dell’attuale Germania, sottomissione dei
Sassoni sotto Carlo Magno). Il surplus agrario trovò uno sbocco anche verso le coste del mare del
Nord che rappresentavano zone economiche con produzioni integrabili: i Franchi mettevano in
gioco ceramiche, cereali e vino, dal nord provenivano pellicce e schiavi.
Scambio commerciale = scambio economico tra èlite, scambio diseguale, perché prodotti
artigianali franchi erano molto prestigiosi e molto richiesti dall’èlite del nord perché non prodotti
nelle loro zone. Questo scambio commerciale diede vita agli emporia, centri abitati con finalità
commerciali, organizzati attorno ai porti e segnati da un rapido sviluppo demografico. Nei contesti
di assenza di tradizione urbanistica romana, assunsero caratteristiche urbane, decretando il
successivo sviluppo delle città: in Quentovic ( estremo nord della Francia) e in Dorestad (sul Reno),
gli emporia si sovrapposero a una rete urbana preesistente; in Inghilterra (Londra e York)
rappresentarono una fase di rinascita dopo la rottura dell’urbanesimo romano; in Scandinavia
(Ribe, in Danimarca, e Birka, in Svezia) furono delle vere novità( no tradizione urbana). Emporia =
nuovo sistema di scambio dalla Manica al mar Baltico, connesso all’egemonia del mondo franco, la

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

cui fine segnerà il declino di molti porti. Questi centri furono anche colpiti dalle incursioni
vichinghe a causa dell’allentamento del controllo militare, prima garantito dal controllo franco.
La vitalità commerciale di questi secoli trovò punti di riferimento anche nelle fiere che si tenevano
a cadenza regolare in luoghi di rilievo politico e religioso (fiera di Saint – Denis a Parigi o fiera di
Piacenza).
Nuovi quadri politici: il regno longobardo
Il regno longobardo fu la prima dominazione germanica in Italia a porsi in netta contrapposizione
con l’Impero ma al contempo rappresentarono una dominazione esclusivamente italiana prima
della conquista franca, infine il regno longobardo convisse con le ambizioni egemoniche del
papato, in una contrapposizione politico – territoriale che assunse anche connotati religiosi, tra
Longobardi ariani e Romani cattolici. Il regno longobardo è stato anche visto come un momento di
possibile unità italiana, libero da egemonie straniere. È rimasta al centro la questione etnica,
ovvero l’identità longobarda, i rapporti tra le due popolazioni e la loro assimilazione. Il patrimonio
documentario su cui si può fare riferimento per la storia di questa popolazione non è
particolarmente povero ma limitato vista la mancanza di atti documentari ( vendite, donazioni,
sentenze ). Le informazioni disponibili derivano soprattutto da due grandi testi: la storia dei
Longobardi di Paolo Diacono, scritta dopo la caduta del regno longobardo (IX secolo) e la raccolta
delle leggi promulgate dai re longobardi, a partire dall’editto di Rotari del 643. Si deve tenere
presente che le fonti non sono nate per rappresentare o descrivere la realtà, ma per intervenire su
di essa: le leggi nacquero dal tentativo dei re di consolidare il proprio potere e il testo di Paolo non
fu una libera narrazione, ma un racconto pesantemente condizionato dal contesto in cui nacque.
Longobardi in Italia
Potremmo definire la dominazione longobarda come un regno romano – germanico di seconda
generazione, che si impose un secolo più tardi degli altri regni, ma si mosse in un contesto
profondamente mutato, di egemonia franca e di profonda ridefinizione dell’Impero orientale.
I Longobardi erano all’estrema periferia dell’Impero romano, con contatti sporadici e influssi
deboli. Il popolo ha una probabile origine scandinava, protagonista di una serie di spostamenti e
stanziamenti, prima nella Germania settentrionale, poi nella Pannonia: qui i Longobardi si
stanziarono vincendo l’ostilità dei Gepidi, ma questo non pose fine alle tensioni militari,
soprattutto in seguito alle pressioni degli Avari; qui i Longobardi stipularono un foedus con
l’Impero, per cui combatterono occasionalmente come mercenari, senza però integrarsi. La
migrazione verso l’Italia nacque sia dall’accentuarsi delle tensioni militari con gli àvari, sia dalle
possibilità di bottino offerte dalla penisola, territorio ricco e debole politicamente e militarmente.
I Longobardi erano un popolo – esercito, ovvero un popolo la cui attività principale era
combattere, e il cui esercito era formato dall’insieme dei maschi adulti liberi. La conquista
dell’Italia fu sia una conquista violenta ma anche una migrazione perché si mosse tutto il popolo
longobardo, che abbandonò le terre in Pannonia e si traferì in Italia.
Sappiamo che, per questo popolo in particolare, dobbiamo ragionare in termini di etnogenesi
(continua costruzione e trasformazione dell’identità etnica). Quindi quando parliamo di
Longobardi dobbiamo intendere l’insieme delle persone che si riconoscevano come Longobardi,
che aderivano a quel nesso politico e identitario. Visto l’obbiettivo di arricchimento, al momento

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

della spedizione, si unirono all’esercito molti gruppi che nulla avevano a che fare con i Longobardi,
ma che vollero approfittare di questa occasione. Unirsi all’esercito significava unirsi al popolo,
riconoscere lo stesso re, in poche parole divenire Longobardi.
Jörg Jarnut -> esercito longobardo in viaggio verso l’Italia = “magnete in movimento”, per la sua
capacità di attrazione che derivava proprio dal suo avviarsi verso le ricche terre italiane, che
comporta una brusca accelerazione del processo di etnogenesi, che integrò nel popolo longobardo
nuovi gruppi, i quali rafforzarono Alboino e migliorarono le prospettive della sua spedizione.
Nel 568 i Longobardi valicano le Alpi e conquistano alcuni territori dell'Italia: pianura padana,
Tuscia e i ducati di Spoleto e Benevento, che nel territorio italiano sono contrapposti ai domini
dell'Impero bizantino ( Lazio, Ravenna, laguna veneta, Marche, Liguria, Puglia, Calabria e le grandi
isole) e i domini papali. Questa discontinuità territoriale è importante per capire le persistenti
tensioni che nei due secoli successivi contrapposero i Longobardi all’Impero e al vescovo di Roma
Struttura del popolo longobardo: al vertice troviamo il re, che però non era l'unico potere alla
guida del popolo, organizzato in corpi militari (farae -> fahren = viaggiare) uniti da solidarietà
militare e attivi soprattutto durante le spedizioni. A capo delle farae troviamo i duces, le guide
militari, coloro che guidavano l’intero popolo longobardo ( vista la coincidenza tra popolo e
esercito). Il potere regio nasceva dal coordinamento delle farae e dei duchi. Questi ultimi
esercitavano una certa autonomia nelle varie iniziative: si spinsero fino a Spoleto e Benevento e
tentarono un'espansione oltre le Alpi, che però fu respinta dai Franchi. Essi si stanziarono,
accompagnati dal loro seguito armato, in diverse regioni che diventarono le loro sedi fisse, le quali
non erano ducati dal momento che non erano circoscrizioni territorialmente definite, ma erano
semplici sedi ducali, città in cui i singoli duchi si insediavano. In poche parole, i duces avevano ben
chiaro su quali persone comandassero, ma molto minore era l’interesse a definire su quali spazi
questo potere si esercitasse. Semplicemente il loro potere si estendeva fino a dove non andava a
scontrarsi con il potere di un altro duca.
Su questa struttura si innestava il potere regio. Il re era prima di tutto una guida militare, infatti il
primo requisito per la sua ascesa al trono era rappresentato dalla forza fisica. Egli veniva eletto
nell'assemblea degli esercitali ( guerrieri) e nominato dai duchi ( il re era superiore ma non poteva
eleggere i duchi). C'è da precisare che le elezioni non impedivano ricorrenti tendenze dinastiche,
che non furono mai lunghe quanto quelle dei Merovingi. Nei primi decenni del regno longobardo
in Italia emergono alcuni cambiamenti importanti proprio dal punto di vista del potere regio, dei
meccanismi di successione e del rapporto tra re e duchi. Il re Alboino fu ucciso e nel 572 e a lui
succedette Clefi, che venne ucciso un paio d'anni dopo. Dalla morte del re Clefi fino al 584, il regno
longobardo non ebbe un re e questo perché non ce n'era bisogno visto che non era presente alcun
tipo di emergenza militare e in quella situazione era sufficiente il potere esercitato dai duchi. Nel
584 fu eletto un nuovo re a causa delle pressioni dei Franchi , che ci è noto come Autari, figlio di
Clefi. Da questo momento i Longobardi ebbero sempre un re e da qui andarono di pari passo il
principio elettivo e quello dinastico, che non prevedeva solamente la successione padre e figlio ma
qualsiasi tipo di parentela; Teodolinda, per esempio, sale al trono alla morte del marito Autari e
sposa Agilulfo, rendendolo il nuovo re. Molti dei successivi re sarebbero discesi da questa coppia
regia. Dobbiamo notare, come al contempo, fin dai primi anni, si affermasse l’identificazione di
una capitale, che non era una scelta così scontata, dal momento che nemmeno i Franche ce
l’avevano. Delle tre capitali italiane del tardo Impero (Roma, Ravenna e Milano) le prime due

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

erano precluse ai Longobardi, i quali a Milano preferirono Pavia, già residenza do Teoderico. Pavia
rimase capitale fino al secolo XI. Non dobbiamo pensare ai Longobardi come a un popolo ostile alle
città, anzi, essi fecero delle città italiane i centri politici e militari. Le città in questi decenni
subirono un forte declino, manifestazione chiara del mutamento delle funzioni urbane nel
contesto del passaggio dai funzionamenti politici e fiscali di tradizione romana a quelli tipici dei
regni altomedievali.
Longobardi e Romani
La coppia regia composta da Teodolinda e Agilulfo si presta bene per avviare una riflessione sulle
identità etniche nel regno: questa coppia era infatti costituita da un turingio e una bavara.
Nessuno dei due era longobardo di sangue, ma la lor o adesione al nesso politico longobardo ne
faceva candidati idonei a divenire regina e re. Questo dato ci offre un’immagine del continuo
processo di etnogenesi. I segni di questo continuo processo si colgono in modo evidente nella
Origo gentis Langobardorum ( metà del VII secolo), un racconto delle vicende del popolo dalle
origini fino alla costruzione del regno d’Italia. Raccontare la storia di un popolo è di per se un
modo per rafforzarne l’identità. L’Origo si concentra appunto sull’origine, sul momento in cui un
gruppo di persone aveva assunto un nome e un’identità collettiva, riconoscendosi come popolo.
L’origine dei Longobardi si pone tra guerra e religione: i Winnili combattono i Vandali al seguito dei
propri capi (Ibor e Aione), ma sarà solo il dio Wotan, concedendo loro la vittoria e attribuendo il
nome di Longobardi, a sancire la vera genesi di questo popolo.
Per quanto riguarda il rapporto fra Longobardi e Romani, al momento dell’invasione, i ceti
eminenti romani subirono una profonda riduzione delle ricchezze e dei poteri, furono esclusi dal
potere del regno e si riunirono attorno alle grandi chiese vescovili di Roma e Ravenna. Nel regno, il
potere si concentrò nelle mani dei Longobardi e soprattutto dei loro duchi: nei primi decenni dopo
l’invasione l’identità etnica era probabilmente chiara, con la prevalenza di Longobardi; ma nel giro
di poche generazioni la convivenza negli stessi luoghi, i matrimoni misti e l’assimilazione degli stili
di vita tolsero rilievo alla distinzione etnica, all’interno di quello che era la circoscrizione
territoriale sulla quale governava il re longobardo.
Esiste un aspetto importante dell’identità collettiva longobarda, ed è la religione, che
comprendeva credenze pagane tradizionali e Cristianesimo ariano. La loro parziale conversione al
Cristianesimo, nella versione ariana, è una manifestazione della loro debole romanizzazione
rispetto agli altri popoli germanici. Non si delineò una chiara distinzione od opposizione tra
Romani cattolici e Longobardi ariani, ma indubbiamente la fede ariana divenne un perno attorno a
cui i Longobardi poterono consolidare una propria identità etnica distinta dai Romani: la presenza
all’interno delle città di vescovi e sacerdoti ariani, al fianco di quelli cattolici , contribuì a delineare
due comunità affiancate. Questa convivenza religiosa ce lo dimostra anche la coppi regia:
Teodolinda era cattolica, al suo fianco , il re Agilulfo restò ariano , ma acconsentì al battesimo
cattolico del figlio Adaloaldo, e appoggiò l’opera missionaria del monaco irlandese Colombano e la
sua fondazione dell’abbazia di Bobbio. Questo non fu l’avvio di una conversione dell’intero popolo
al Cattolicesimo, ma una lunga convivenza di Cattolicesimo e Arianesimo e al contempo una
tendenza alla conversione dei Longobardi al Cattolicesimo. Questo implicò una non realizzazione
di quel processo di simbiosi tra il regno e i vescovi, che ebbe grande rilievo nei regni franco e
visigoto. L’identità ariana e la lenta e contrastata conversione al Cattolicesimo contribuirono anche
all’ostilità che oppose il regno al vescovo di Roma. Questa ostilità ebbe un’origine politico –

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

territoriale, ovvero l’opposizione tra due contrapposte ambizioni egemoniche sull’intera penisola.
La componente religiosa intervenne a dar forza ideologica alla tensione. Le potenzialità politico –
territoriali del papato si leggono bene seguendo l’azione di papa Gregorio Magno (590 – 604), di
cui si conservano scritti e lettere. Discendente di una famiglia aristocratica, Gregorio fu
espressione di questo gruppo sociale, sia per il suo altissimo livello culturale, sia per la sua capacità
di muoversi sul piano politico e amministrativo. In questa fase la società romana dovette prendere
atto di quanto fosse ormai illusorio conservare alcune funzioni e simboli del governo imperiale,
visto che la centralità dell’urbe era definitivamente tramontata. Così in questi anni abbiamo le
ultime attestazioni della carica di praefectus Urbis (funzionario imperiale incaricato di governare
da Roma gran parte dell’Italia), carica ricoperta dallo stesso Gregorio prima di divenire vescovo di
Roma; e a questi stessi anni risale l’ultima riunione del Senato di Roma, ormai privo di funzioni
reali. Gregorio e i suoi successori si trovarono quindi a rifondare su nuove basi il ruolo politico
della città, visto il vuoto di potere lasciato dall’Impero. In questi secoli tutti i vescovi erano figure
centrali dal punto di vista religioso, ma anche sociale e politico. Era quindi normale che la
comunità cittadina, in tutti i momenti di crisi o di assenza del potere regio, facesse riferimento
proprio al vescovo. Nel caso di Gregorio constatiamo una prospettiva più politica, quando lo
vediamo contrattare con i Longobardi, definire forme di equilibrio tra due dominazioni.
Oltre a Roma e Ravenna (capitale imperiale nella tarda antichità e sede dell’esarca, funzionario
imperiale incaricato di governare l’Italia), anche la Sicilia era un’area di particolare rilievo: nei
decenni centrali del VII secolo, gli arabi conquistarono sia l’Egitto, sia la provincia della
Proconsularis, ovvero i due grandi granai dell’Impero; così tale funzione fu attribuita alla Sicilia,
che assunse un grande rilievo fiscale ed economico, fino alla conquista araba nel IX secolo.
Come abbiamo già accennato, la capacità di intervento imperiale in Italia era discontinua e
particolarmente debole, soprattutto tra la metà e la fine del VII secolo, quando dovette affrontare
le pressioni militari di Arabi, Bulgari e àvari, che portò a una crisi militare, alla perdita del Medio
Oriente e del Nord Africa, fino all’assedio di Costantinopoli nel 717, da parte degli Arabi. Una
nuova crisi si delineò nel secolo seguente, quanto l’orientamento iconoclasta della corte imperiale
determinò una profonda frattura religiosa con l’Occidente sul piano delle forme di culto. Questa
ostilità ebbe un’incidenza significativa nell’orientamento papale a favore dei Franchi, visti come i
migliori possibili difensori della Chiesa di Roma. Queste ricorrenti crisi favorirono un’ulteriore
polarizzazione della società italiana attorno alle grandi sedi vescovili, e in particolare attorno a
Roma.
Crescita e fine del regno
Una delle principali fonti scritte per lo studio di quest’età è rappresentata dalle leggi promulgate
dai re longobardi, a partire dall’editto di Rotari (643), che ci permette di cogliere molti
funzionamenti interni alla società longobarda; ma prima di tutto il fatto stesso di scrivere leggi è
un’azione di grande rilievo. La redazione dell’editto va posta nel contesto del regno di Rotari (636
– 652), che estese il dominio longobardo verso la Liguria e parte del Veneto, e avviò un processo di
rafforzamento regio, con un progressivo indebolimento del potere ducale. La scrittura delle leggi
fu pienamente parte di questo processo. La questione chiave è se ci troviamo di fronte a una
trascrizione di antiche consuetudini o a un’opera di legislazione condotta ex novo. Il prologo
dell’editto di Rotari ci permette di leggere con grande chiarezza questo processo: Rotari pone
subito al centro la propria persona, datando le leggi secondo gli anni del suo regno e quelli della

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

sua vita; il testo è redatto a Pavia; e dopo aver sottolineato l’esigenza di tutelare i più deboli,
spiega che la legge non viene trascritta, ma promulgata, e il suo scopo è integrare le norme ed
eliminare quelle superflue; non si tratta quindi di una passiva trascrizione di consuetudini ma di
un’azione innovativa, di cui Rotari si proclama autore. Solo a questo punto si introduce il tema
della memoria, con l’elenco dei suoi predecessori, per 11 generazioni.
La centralità del re è posta in luce anche dai primi articoli: l’editto pone in piena evidenza
l’inviolabilità del re, che vede nell’attentato alla sua vita il più grave dei delitti; e al contempo
individua nella volontà regia ciò che distingue la violenza lecita da quella illecita. Dobbiamo vedere
nel prologo la rivendicazione da parte di Rotari di una più forte centralità regia, di un pieno
dominio sui sudditi: con questo termine la connotazione non è scomparsa (da notare che non
utilizza “gens Langobardorum”), ma è più importante la connotazione politica, l’identificazione del
popolo come insieme di persone sottomesse allo stesso re. Bisogna dedurne che l’editto fosse
destinato ad applicarsi a tutta la popolazione presente nel regno, a tutti i sudditi di Rotari. Le sue
leggi sono, inoltre, una fonte preziosa per leggere le condizioni dell’Italia longobarda a metà del VII
secolo: era una società impoverita, rurale, in cui il principale fondamento della ricchezza era
costituito dalla terra. Era un mondo dominato dall’èlite militare, che articolava la propria capacità
di agire grazie all’uso delle fedeltà personali. Compaiono i cosiddetti gasindii, persone al servizio
dei duchi con compiti specificatamente militari; ma l’unica distinzione giuridicamente rilevante era
quella tra servi e liberi. Su tutto ciò si impose il potere regio che rivendicava il potere legislativo, la
centralità giudiziaria, la capacità di regolare i conflitti interni alla società in forme regolate di
compensazione pecunaria per chi subiva danni fisici. Da Rotari in poi, l’attività legislativa divenne
un’azione normale dei re, l’espressione di una loro prerogativa riconosciuta. Il processo di
rafforzamento regio avviato da Rotari, continuò nella seconda metà del secolo VII e lungo il secolo
seguente. L’espansione territoriale fu proseguita da Grimoaldo che ampliò il dominio longobardo
sul Veneto e si spinse fino il Puglia. Di fatto la crescita militare longobarda e la declinante capacità
di intervento dell’Impero lasciarono spazio a un quadro politico italiano polarizzato attorno al
regno longobardo e al papato. Questo rafforzamento regio dovette sempre convivere con
l’egemonia ducale sulla società, in un equilibrio tra duchi e re che si può leggere considerando i
meccanismi di ascesa al trono. Lungo il VII secolo, al fianco del tradizionale meccanismo di
elezione regia, emerse in modo ricorrente una tendenza dinastica, ma questo principio non arrivò
mai a prevalere sul meccanismo elettivo, al massimo potè condizionarlo. La tendenza al
rafforzamento del potere regio si accentuò sotto il regno di Liutprando (712 – 744), che da diversi
punti di vista può essere considerato un punto di svolta. Fu prima di tutto un momento in cui si
rafforzarono le tendenze dinastiche. Liutprando succedette al padre Ansprando, e lo stesso
Liutprando riuscì a trasmettere la corona al figlio Ildeprando. Quello di Liutprando fu un regno che
durò trent’anni, e questo gli permise di incidere su diversi piani: militarmente agì su un orizzonte
pienamente italiano, nella prospettiva di costruire un dominio longobardo sull’intera penisola
(sottomise i ducati di Spoleto e Benevento, che avevano sempre difeso la propria autonomia,
conquistò per un breve periodo Ravenna e portò le proprie truppe di fronte alle mura di Roma).
Liutprando non arrivò mai a dominare l’Italia intera, ma questa fu una possibilità reale.
Un secondo aspetto in cui il regno di Liutprando ebbe grande rilievo fu quello legislativo: non fu
l’unico re a integrare l’editto di Rotari, ma fu colui che intervenne in modo più ampio, con più di
150 articoli di legge, che evidenziano una chiara ideologia cattolica del regno, impegnato a
estirpare usanze di matrice pagana e a proteggere le chiese. Tuttavia questo non permise al regno

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

longobardo di costruire un forte rapporto di collaborazione coni vescovi, a causa della lunga
tensione religiosa, della gravitazione dell’episcopato italiano attorno alle sedi di Ravenna e Roma,
e della persistente conflittualità politico – territoriale tra aree longobarde e imperiali. La mancata
collaborazione con i vescovi privò il regno di un sostegno materiale (chiese ricche), politico ( chiese
capaci di influenzare i cittadini) e culturale ( chiese = soli centri di elaborazione di una cultura
scritta di alto livello). Di particolare rilievo sono le nuove forme di controllo che nacquero sotto il
regno di Liutprando: i gastaldi, funzionari regi incaricati di gestire il patrimonio regio, andarono a
formare un concreto e capillare contrappeso al potere dei duchi, un canale di efficace
comunicazione politica tra il re e i sudditi. Al contempo i re valorizzarono le forme di fedeltà
personale. I gasindii sono attestati al seguito dei duchi e di altri potenti, ma le leggi si
concentrarono a definire lo status speciale dei gasindii regi, coloro che si erano legati alla persona
del re tramite uno speciale e personale rapporto di fedeltà. Gastaldi e gasindii regi andarono a
costituire una rete di fedeltà raccolta intorno al re, suoi rappresentanti, compito che i duchi non
assunsero mai.
Al contempo si era ormai completato il lungo processo di integrazione tra Romani e Longobardi,
segno evidente di questa integrazione è, nelle leggi emanate da re Astolfo nl 750, la normativa
sugli obblighi militari, modulati in base alla ricchezza fondiaria o mobile, senza alcun riferimento a
una distinzione etnica. Su queste basi i Longobardi dell’VIII secolo sembrano costruire un regno
militarmente forte, in particolare con la presa di Ravenna da parte di Astolfo, nel 751, premessa
della fine del regno. Negli anni centrali dell’VIII secolo l’equilibrio politico tra Franchi, Longobardi e
papato si ruppe definitivamente. I papi videro neo Franchi dei validi protettori della chiesa
romana, a sostituire l’Impero ormai incapace di intervenire, e a contrapporsi al regno longobardo.
L’alleanza tra il papato e i Carolingi si concentrò in due spedizioni: nel 754 Pipino il Breve scese in
Italia, sconfisse il re Astolfo, tolse ai Longobardi la regione di Ravenna, dandola alla chiesa di
Roma. 20 anni dopo, Carlo Magno, sconfisse definitivamente i Longobardi, annettendo l’Italia
centro – settentrionale al dominio franco. Nonostante la conquista franca pose fine al regno
longobardo, la storia longobarda non terminò del tutto: Carlo Magno si intitolò “rex Francorum et
Langobardorum”; il regno d’Italia, con gli stessi confini di quello longobardo, fu una della grandi
partizioni dell’Impero carolingio; Pavia continuò a essere la capitale. Inoltre l’antico ducato di
Benevento sopravvisse, ma a causa delle spinte militari franche favorirono un consolidamento
della dominazione longobarda. Nei secoli successivi, il ducato si andò frammentando ,
ricostituendo una sorta di unità solo con l’annessione al regno normanno, nel secolo XI.
Impero carolingio, ecclesia carolingia
Impero carolingio ed ecclesia carolingia non rappresenta ne una distinzione ne un’opposizione, ma
una piena simbiosi tra due realtà che appaiono separate ai nostri occhi, ma non a quelli degli
uomini del IX secolo: l’ecclesia era l’insieme dei fedeli cristiani che trovavano la propria guida nei
vescovi e nell’imperatore, che convergevano con strumenti diversi verso un doppio fine, la
giustizia in terra e la salvezza oltre la morte. Impero ed ecclesia non erano Stato e Chiesa, ma due
modi per leggere la stessa realtà.
Dal regno all’Impero
Tra VII e VIII secolo, i regni merovingi furono l’ambito di affermazione dei Pipinidi, che seppero
costruire un potere egemone sull’intero mondo franco, grazie a diverse azioni politiche: l’iniziativa

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

militare, la costruzione di una rete clientelare nell’aristocrazia di Austrasia, l’occupazione della


carica di maestro di palazzo, la protezione offerta alle azioni missionarie del monaco Wynfrith. Il
751 (deposizione di Childerico III da parte di Pipino III), deve essere visto prima di tutto come
punto d’arrivo, il completamento di un lungo processo di consolidamento del potere pipinide nei
regni merovingi. Il punto più sfuggente è rappresentato dal ruolo del papato, che gli Annali del
regno dei Franchi pone prima dell’incoronazione, per meglio legittimare l’azione di Pipino; ma
nella deposizione di Childerico l’effettivo ruolo papale fu probabilmente minimo e la scelta nacque
invece all’interno del mondo franco: fu la grande aristocrazia a raccogliersi attorno ai Pipinidi e ad
attuare attraverso l’intervento cerimoniale dei vescovi la sostituzione della dinastia regia. I pipinidi
deposero Childerico, lo rinchiusero in un monastero, gli tagliarono la folta chioma ( simbolo della
sua forza) e procedettero al rito dell’unzione del nuovo re, Pipino, da parte del monaco Wynfrith
(nuovo rito della tradizione franca che riprendeva il modello biblico dell’unzione di David).
Probabilmente l’intervento di papa Zaccaria giunse dopo, ad approvare ciò che già era avvenuto. Il
nesso tra papato e Pipinidi divenne rilevante e incisivo nel 754, quando papa Stefano II si volse
verso i Franchi per cercare un nuovo alleato, vista la minaccia dei Longobardo e l’incapacità di
intervento dell’Impero. Il papa valicò le Alpi per incontrare Pipino a Saint – Denis, dove ripetè
l’unzione sia del re sia dei suoi figli, come a sancire l’idea che il carisma regio fosse legato
all’insieme del gruppo parentale. L’incontro di Saint – Denis fu quindi la premessa per una
spedizione franca in Italia, ma l’attribuzione a Pipino di patricius (protettore della Chiesa di Roma)
orientava il regno franco a un impegno permanente di collaborazione e protezione del papato. Al
contempo, il nuovo re aveva urgenza di legittimare il proprio potere, dal momenti che, per de
secoli e mezzo, questo era stato nelle mani della dinastia merovingia. Pipino si trovò quindi di
fronte alla necessità di mettere in gioco un sistema di atti di legittimazione sul piano cerimoniale,
politico e storico: l’unzione da parte di Wynfrith; il rinnovo dell’unzione da parte di Stefano II;
l’alleanza stabile con Roma e la costruzione di un racconto dell’ascesa al trono, orientato a
legittimare la deposizione di Childerico (Annali del regno dei Franchi). È proprio da Eginardo,
biografo di Carlo Magno, che nacque la tradizione che a lungo a rappresentato gli ultimi re
merovingi come rois faineants, “re fannulloni”. La discesa in Italia di Pipino non fu una spedizione
di conquista, ma piuttosto un’azione tendente a frenare le ambizioni politico – territoriali
longobarde e a bloccare la loro pressione nei confronti del papato e delle terre imperiali. Questa
spedizione non avviò quindi un periodo di tensione e di conflittualità endemica tra Franchi e
Longobardi, come si vede dalla politica matrimoniale volta a creare una rete di legami e di
solidarietà tra Franchi, Longobardi e Bavari: Carlo o il fratello si unirono in matrimonio con due
figlie del re longobardo Desiderio. Fu una politica di equilibrio che resse per pochi anni: dopo la
morte di Carlomanno, nel 771, Carlo si mosse in una chiara prospettiva di espansione, rompendo i
rapporti amichevoli con Longobardi e Bavari. Per comprendere l’azione militare di Carlo,
dobbiamo seguire i passaggi che permisero di concentrare nelle sue mani il controllo dell’intero
popolo dei Franchi. La tradizione politica franca prevedeva infatti che il potere regio fosse
considerato come parte del patrimonio del re e perciò fosse diviso tra tutti i suoi figli maschi. Per
svariate vicende, per 90 anni, dal 751 all’840, ci fu un solo re dei Franchi, e ciò contribuì a dare loro
forza d’azione. Carlo avviò un’impressionante campagna di espansione territoriale, che gli meritò
l’appellativo di Magno e che lo portò a costituire un dominio comprendente larga parte
dell’Europa occidentale (attuali Francia, Belgio, Olanda, Germania, Svizzera, Austria e Italia centro
– settentrionale). La conquista più importante fu quella del regno longobardo perché fu qui che

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

Carlo si trovò ad affrontare la struttura politico – territoriale più definita e fu con la conquista
dell’Italia che il rapporto con il papato fece un salto di qualità fondamentale, premessa per la
trasformazione del regno in un Impero. Dal punto di vista militare la conquista non fu difficile e
non andò a comprendere tutta l'Italia, e neppure tutta l'Italia longobarda ( no terre bizantine,
papali e ducato di Benevento). La geografia politica dell'Italia non subì quindi una semplificazione
con la conquista carolingia, ma piuttosto un’ ulteriore articolazione tra aree franche, bizantine,
papali e longobarde. La sottomissione al dominio franco non cancellò del tutto l'identità politico-
territoriale dell'Italia longobarda, perché lo stesso Carlo si intitolò “rex Francorum et
Langobardorum”, conservò la capitale a Pavia e assimilò progressivamente l'aristocrazia
longobarda all'interno del proprio seguito e del proprio apparato di governo. L'azione militare di
Carlo non si limitò all’Italia. L'espansione verso la penisola iberica fu modesta: una serie di brevi
conflitti, tra il 778 e l’813, portarono alla costituzione della cosiddetta marca Hispanica, fascia
territoriale a sud dei Pirenei, inquadrata nel regno franco ( la marca era un distretto militare e
amministrativo). Fu invece di grande rilievo l'azione verso le terre poste a oriente, in particolare in
Sassonia, ovvero la Germania settentrionale. I conflitti con i sassoni si erano ripetuti a più riprese
nel corso dell’VIII secolo. Sotto Carlo Magno l'azione militare franca cambiò progressivamente
natura, divenendo il tentativo di incorporare la Sassonia nel regno e di assimilarne
complessivamente la popolazione: da questo derivarono sia un'iniziativa bellica tendente alla
conquista, sia una coloritura religiosa del conflitto. I Sassoni erano pagani e nel 772, durante la
prima campagna militare, Carlo fece distruggere l’Irminsul, un idolo di grande importanza per la
religiosità sassone. Lo scopo di Carlo era la sottomissione e l'assimilazione del popolo sassone, e in
questo contesto la dimensione religiosa era una delle componenti di una identità di popolo che si
voleva cancellare. Il processo di assimilazione si espresse anche nella fondazione di una serie di
diocesi in ambito germanico che funzionassero sia sul piano religioso sia per un inquadramento
delle popolazioni sottomesse. Sempre verso est, nelle aree più meridionali, la Baviera fu posta
sotto un più diretto controllo, limitando le ambizioni autonomistiche del duca Tassilone, vassallo
dei re carolingi; al contempo venne costituita una grande circoscrizione politico-militare, la
cosiddetta marca orientale ( nucleo originario dell'Austria), destinata a tenere sotto controllo le
popolazioni slave pagane estranee al dominio carolingio. In Spagna e in Austria le marche erano
luoghi di difesa e di scambio nei confronti delle popolazioni poste all'esterno dell'Impero. In area
austriaca, Carlo sconfisse gli Avari e impose agli Slavi una forma di egemonia sostanzialmente
pacifica, resa possibile dalla concentrazione di forza militare rappresentata dalla marca. Dinamiche
simili si istituirono più a nord, nel confronto con i Danesi, le cui continue incursioni indussero Carlo
alla costruzione di una grande opera fortificatoria, un lungo terrapieno noto come Danewirke, la
cui efficacia militare creò un quadro di sicurezza in cui poterono crescere gli scambi, nel contesto
del complessivo sviluppo commerciale del Mare del Nord. Sempre sul piano commerciale si
articolano i rapporti tra il mondo franco e i regni anglosassoni, ma qui fu particolarmente
significativo l'influsso dei modelli politici: Il re Offa di Mercia adottò linguaggi e modelli politici di
evidente imitazione franca. Questa è la dimostrazione evidente dell'influenza carolingia ben oltre
gli effettivi confini politici. Nel complesso fu un dominio immenso, la cui novità radicale fu sancita
dall'attribuzione a Carlo del titolo di Imperatore, che possiamo comprendere solo ripartendo dai
rapporti tra il re franco e la sede papale. La conquista carolingia dell'Italia fu coerente con le
aspettative del papato, ma l'esito non fu quello auspicato: il papato aveva maturato un'ambizione
di egemonia sull'insieme del territorio italiano ma con l'intervento dei Franchi questo non era
stato possibile. La linea di azione papale negli anni a cavallo tra VIII e IX secolo fu volta da un lato

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

al consolidamento di un egemonia sull'Italia centrale, e dall'altro alla definizione di un rapporto


stabile di cooperazione con il regno franco. In questo quadro va posta l'incoronazione di Carlo, il
giorno di Natale dell'800: papa Leone III, fuggito da Roma per scampare ai suoi oppositori, fu
riportato nell'Urbe e reinsediato sulla cattedra papale da Carlo; riottenuta la pienezza dei suoi
poteri, Leone incoronò Carlo imperatore. Questo titolo diede maggior rilievo al potere di Carlo, ne
affermò simbolicamente la superiorità rispetto a ogni altro sovrano dell'Europa occidentale,
ratificando il fatto che il suo dominio era profondamente diverso da quello dei predecessori, sia
per ampiezza, sia perchè riuniva al proprio interno territori che in precedenza erano totalmente
distinti. Dal punto di vista papale, il primo significato del titolo imperiale era quello di associare
Carlo alla memoria di Costantino, il primo imperatore cristiano, la cui funzione principale era vista
nella protezione della Chiesa di Roma. La nozione chiave non fu quella di Impero, ma quella di
imperatore: non si pose l'accento sulla dimensione territoriale del dominio di Carlo, ma piuttosto
sulla dimensione personale, sulla dignità della persona di Carlo e sul suo compito di protettore
della chiesa romana. La collaborazione tra Impero e papato fu quindi un dato di fondo e il titolo
imperiale di Carlo fu espressione di questa unione. Ma sotto traccia rimase viva una potenziale
tensione: proprio alla fine dell’VIII secolo la curia papale produsse la cosiddetta Donazione di
Costantino, un falso documento del IV secolo che attestava la cessione al papato di tutte le regioni
occidentali dell'Impero. Il papato in questi anni non usò la Donazione, non rivendicò apertamente
il controllo su regioni che andassero al di là del Patrimonium Petri ( terre della Chiesa di Roma); ma
Il fatto stesso che sia stata prodotta la falsa donazione è segno che la pacifica collaborazione con i
carolingi non era l'unica opzione politica della corte papale. Quando Leone incoronò Carlo
imperatore, un Impero già esisteva a Bisanzio, e questo comportò ovvie tensioni ideologiche: il
titolo imperiale era per definizione universale e quindi sul piano concettuale non appariva lecito
affermare l'esistenza di due imperatori; peraltro, il titolo imperiale di Carlo era un richiamo molto
specifico a Costantino e all' Impero romano, quella struttura politica rispetto a cui l'Impero di
Bisanzio si poneva in piena continuità. L'incoronazione imperiale fu quindi oggettivamente un atto
di concorrenza e di ostilità nei confronti di Bisanzio, reso possibile da una debolezza dell'Impero
orientale, governato dall’ imperatrice Irene e indebolito da un conflitto religioso importante (
movimento iconoclasta), che aveva reso particolarmente difficili i rapporti con Roma. Peraltro la
concorrenza tra Franchi e Bisanzio si era in parte avviata prima dell'incoronazione dell'800, con
alcuni atti di Carlo come il sostegno all'azione missionaria verso est, la convocazione di concili
ecclesiastici e la costruzione di una nuova capitale ad Aquisgrana.
Conti, vassalli e liberi
La costruzione dell’Impero pose grandi problemi di governo; il re era itinerante, ma non per
questo poteva dare vita a una forma di governo diretto; era quindi necessario un sistema di
deleghe che garantisse sia il controllo dei sudditi da parte dei rappresentanti regi, sia il controllo
regio su questi ultimi. In linea generale, l’efficacia del potere carolingio si fondava sul
coordinamento dell’aristocrazia laica e delle chiese. Per quanto riguarda l’aristocrazia laica, la
funzione chiave era quella dei conti, funzionari incaricati di governare a nome del re un territorio
(comitato), al cui interno assolvevano di fatto tutte le funzioni spettanti al re: guida militare,
giustizia e prelievo. Alcune aree, poste ai confini o militarmente delicate, erano organizzate in
circoscrizioni più grandi, le marche, e affidate ai marchesi (marca orientale e marca di Spagna,
marca nel Friuli). Al di là delle dimensioni del distretto, il potere dei marchesi non era molto
diverso da quello dei conti. Conti e marchesi erano esponenti di grandi gruppi parentali

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

aristocratici. Gli aristocratici assumevano funzioni di conte o di marchese in aree lontane dalle
proprie regioni di provenienza: le due basi di potere erano nettamente separate, e là dove
assumeva le funzioni di conte, la sua potenza derivava dalla delega ricevuta, non dalla ricchezza
personale. La carica di conte era temporanea: si veniva sostituiti o si veniva trasferiti ad altri
compiti per conto del regno, in modo che il controllo imperiale su di loro fosse più efficace. I
legami tra l’imperatore e le realtà locali erano garantiti anche dai missis regis, gli inviati del re. Le
competenze di questi funzionari sono meno chiaramente definibili: talvolta avevano un ambito
territoriale specifico di riferimento, talvolta no; in alcuni casi si sovrapponevano all’ordinamento
comitale, in altri sembra fossero gli unici rappresentanti dell’imperatore. Possiamo definire i missi
come funzionari in grado di garantire il collegamento tra centro e periferia affiancando,
controllando o sostituendo i conti. È importante sottolineare come l’apparato di governo fosse
fatto di fedeli del re, di aristocratici direttamente e strettamente a lui legati; occorre soffermarsi
sulle forme e le implicazioni di questi legami di fedeltà. Queste forme di fedeltà assunsero una
forma più definita negli ultimi decenni del secolo VIII, sotto Pipino III e Carlo Magno, in quello che
viene definito il rapporto vassallatico. Durante il regno di Pipino si constata sia la sua diffusione,
sia una nuova accezione del termine: il vassallo era un uomo che giurava fedeltà militare a un
potente, impegnandosi a servirlo e in specifico a combattere per lui, ottenendone in cambio
protezione e un sostegno economico (concessione di terra – beneficium).
La novità di questi decenni fu la creazione di un rapporto più formalizzato, con una più netta
implicazione militare e il suo uso anche per definire rapporti politici ad alto livello. Una delle prime
e più chiare attestazioni è rappresentata dal legame che unì il duca di Baviera Tassilone a Pipino:
gli Annali del regno di Franchi narrano che Tassilone, dopo una fase di conflitto si presentò alla
corte di Pipino e, secondo l’uso franco, si raccomandò a lui in vassallaggio, mettendo le proprie
mani nelle mani del re e giurando fedeltà a Pipino e ai suoi figli per tutta la vita. Questa narrazione
è una descrizione del cerimoniale che portava alla formazione del legame vassallatico, con
l’enunciazione di elementi importanti: giuramento prestato sulle reliquie, l’immixtio manuum (
momento in cui il vassallo poneva le mani tra quelle del signore, come simbolo di protezione), il
giuramento che univa Tassilone a Pipino per tutta la vita. La rete di fedeltà attraversava tutta
l’aristocrazia franca: vediamo ampie clientele vassallatiche dei re, ma anche dei maggiori
aristocratici, la cui potenza era fatta in larga misura proprio di forza militare, cioè di creazione e
controllo di un seguito armato, ovvero una rete di vassalli. La stessa forza dei re carolingi era
costituita prima di tutto dalla capacità di coordinare al proprio seguito l’aristocrazia franca e di
tradurre tutto questo coordinamento in forza militare, ponendosi al vertice di una trama di
rapporti vassallatici. Il vassallaggio divenne quindi un integrazione del sistema politico franco,
consolidando la solidarietà interna all’aristocrazia e polarizzandola attorno al potere regio. I
vassalli regi furono l’ambito di normale reclutamento dei conti e dei marchesi: non tutti i vassalli
regi diventavano conti, ma i conti erano reclutati tra quelli di cui il re poteva fidarsi. Le funzioni
comitali avevano un carattere duplice: da un lato erano un servizio che il conte svolgeva a nome
del re; dall’altro lato erano un’opportunità per questi aristocratici per acquisire potere e per
guadagnarsi la benevolenza del re. In questo senso, i rapporti vassallatici e l’apparato funzionariale
devono essere considerati anche come parte del meccanismo redistributivo tramite il quale i
Carolingi concedevano ai propri seguaci ricchezze e risorse politiche. Coordinare l’autonoma
potenza aristocratica, coinvolgendola in una rete di clientele e di funzioni, significava anche
limitarne il potere in forme compatibili con la superiorità regia. Il re era potente perché coordinava

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

in modo efficace un’aristocrazia che disponeva a sua volta di ricchezze e potere: era un equilibrio
precario ma efficace, che si ruppe nella seconda metà del IX secolo. Nelle fasi di maggior forza il
regno rivendicò la propria capacità di saltare la mediazione aristocratica e di conservare un
rapporto diretto con i liberi, con i pauperes, termine che non indicava i poveri da un punto di vista
economico, ma piuttosto gli inermi, in opposizione ai potentes. Da alcune fonti giudiziarie
sappiamo che, lungo l’età carolingia, in diverse occasioni, gruppi di contadini che si presentavano
davanti alla giustizia del conte o anche del palazzo regio per chiedere di essere difesi da un
potente (in genere una chiesa) che tentava di sottometterli o asservirli. Questi contadini, nella
documentazione che ci è pervenuta, sono sistematicamente sconfitti, e questo a causa di due
elementi strutturali:
1. La solidarietà che univa il re ai potenti e che orientava a loro favore le decisioni della
giustizia regia;
2. La conservazione documentaria: solo le grandi chiese avevano le capacità culturali e
organizzative per costituire un archivio in cui conservare gli atti utili a provare i loro diritti,
e quindi le sentenze a loro favorevoli. Perciò se ci furono sentenze contrarie a queste
chiese, non si sono conservate.
L’elemento più interessante è il fatto che le liti venissero aperte e portate davanti alla giustizia
regia: gruppi rurali non aristocratici avevano la possibilità di accedere alla giustizia regia e
ritenevano tale giustizia sufficientemente credibile ed equa da affrontare i costi e le difficoltà
derivanti da questi processi, nella convinzione che una sentenza favorevole fosse possibile.
Le chiese carolingie
Dall’800 in poi si definì un intimo e stabile rapporto di cooperazione tra papato e Impero. Ma per
comprendere le relazioni tra regno e chiese dobbiamo concentrarci sulle chiese episcopali e sui
monasteri posti all’interno del dominio franco e sulla loro cooperazione con il potere regio. I
chierici non potevano giurare (norma canonica) e non potevano combattere né portare armi:
quindi il legame tra il re e i vescovi del suo regno non assunse mai le forme del vassallaggio. Né i
vescovi divennero conti: le funzioni di governo territoriale dell’Impero carolingio furono sempre
affidate ai laici. Spesso vediamo vescovi in qualità di missi regi, in cui la componente giudiziaria e
politica, di mediazione tra il re e la società locale, prevaleva su quella prettamente militare.
Imperatore e vescovi, con strumenti diversi, convergevano verso lo stesso duplice fine, ovvero la
giustizia in terra e la salvezza oltre la morte; perciò a prescindere da specifici incarichi, i vescovi
consideravano connaturato alla propria funzione, in quanto vertici e guide della comunità cristiana
della propria diocesi, l’impegno a cooperare con l’imperatore per garantire giustizia e salvezza,
ovvero per governare la società. La cooperazione vescovile alla politica carolingia usava strumenti
peculiari del clero (capacità di orientare le anime dei fedeli verso l’ubbidienza al re, capacità
culturali, etc.) ma erano in gioco anche le concrete risorse delle chiese vescovili, le loro ricchezze e
le loro clientele vassallatiche. I monasteri non avevano compiti pastorali, non guidavano le anime
dei fedeli laici, non avevano le funzioni complessive di guida delle comunità che erano connaturate
alla carica vescovile. I monasteri erano centri di preghiera e di ascesi, erano luoghi fondamentali
per l’elaborazione culturale e grandi gruppi di concentrazione di ricchezze, che potevano fornire
un aiuto importante al potere regio. Tutti questi aspetti devono essere tenuti presenti per
comprendere l’impegno regio nel tutelare i centri monastici, che culminò nella riforma promossa
da Ludovico il Pio e attuata da Benedetto di Aniane, che impose all’interno dei monasteri la Regola

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

di Benedetto come unico testo formativo di riferimento. Un’attività di riforma che dal mondo
monastico si allargò al clero in cura d’anime: in una serie di concili indetti da Ludovico il Pio e
tenuti ad Aquisgrana, i chierici di corte promossero la definizione di un testo normativo destinato
a regolare le forme di vita in comune del clero. Fu una delle espressioni della volontà imperiale di
intervenire direttamente all’interni delle forme di vita religiosa, ed è un’ulteriore testimonianza
del fatto che per questi secoli sarebbe impossibile ragionare nei termini di un rapporto tra Chiesa
e Stato come due enti separati: era invece l’ecclesia carolingia, la comunità cristiana guidata dai
vescovi e dall’imperatore verso la salvezza. Appare chiaro come le chiese fossero concepite come
articolazioni locali del potere regio, perchè esse per loro stessa natura cooperavano al controllo
regio sulla società. Le ampie donazioni e concessioni regie alle chiese devono essere viste come un
trasferimento di risorse dal fisco (patrimonio regio) alle chiese, sempre restando all’interno del
sistema di potere che faceva capo all’imperatore. In particolare è importante comprendere bene il
significato di una concessione: l’immunità. I diplomi di immunità, concessi di norma alle chiese,
vietavano a qualunque funzionario regio di entrare negli edifici e sulle terre del beneficiario per
riscuotere tasse o per amministrare la giustizia. Non era una concessione di potere, si definiva
però uno spazio inviolabile, un ambito in cui il potere stesso dei funzionari regi era limitato. Per
quanto riguarda la giustizia, era prassi che la chiesa immunitaria consegnasse al conte gli uomini
che dovevano essere giudicati, mentre dal punto di vista fiscale si trattava senza dubbio di
un’ampia esenzione. La simbiosi ideologica tra le chiese e l’Impero andava oltre il rapporto che
univa i singoli enti religiosi al potere regio, per trovare a corte le sue espressioni culturalmente e
ideologicamente più alte. Gli intellettuali che si riunirono alla corte di Carlo Magno e Ludovico il
Pio, così come le grandi chiese solidali con il potere imperiale, collaborarono a costruire la
memoria del popolo franco e della dinastia carolingia, destinata a legittimarne e celebrarne il
potere. Pressochè tutto ciò che sappiamo dell’ideologia politica dei Carolingi ci è arrivato
attraverso le elaborazioni e la mediazione di questi intellettuali: le stesse leggi carolingie furono
prodotte dai grandi ecclesiastici attivi alla corte imperiale e si sono tramandate solo grazie
all’opera di conservazione, compilazione e selezione condotta dalle chiese vescovili. In altri
termini, sono le chiese a offrire ai nostri occhi la rappresentazione del potere carolingio. Era un
sistema di circolazione di uomini e idee tra a corte imperiale e le chiese interne al dominio
carolingio, ma che coinvolgeva anche nuclei di potere e di cultura esterni all’Impero; una
circolazione fortemente polarizzata, con intellettuali che soggiornavano alla corte carolingia, come
nel caso di Paolo Diacono, che soggiornò a lungo alla corte di Carlo per cui scrisse varie opere. La
cultura di corte operava su ambiti diversi e strumentale a tutto ciò era la lingua latina. È indubbio
che nel IX secolo vediamo emergere le lingue volgari: così un concilio dell’813 impose ai chierici di
tradurre le proprie omelie in rustica Romana lingua aut Thoetisca, ovvero in volgare romanzo o
germanico, per andare incontro alle capacità linguistiche dei fedeli; cosi a Strasburgo nell’842
Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico si scambiarono i giuramenti nelle rispettive lingue e, più
tardi, un notaio incaricato di registrare le testimonianze presentate in un processo a Capua scelse
di scriverle in volgare ,lasciandoci il primo scritto in volgare italico. Ma la lingua del potere, della
liturgia e in generale dello scritto era il latino, la cui efficacia attraversava tutti i territori
dell’Impero.
Dall’Impero ai regni
Gran parte del IX secolo può essere letta come una fase di sostanziale continuità nei
funzionamenti politici. Ma l’oggetto di questo paragrafo è l’articolarsi dell’Impero carolingio in

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

regni distinti, processo che si attuò negli anni centrali del secolo. Abbiamo visto come per 90 anni
il regno franco, e poi Impero, sia stato caratterizzato dalla presenza di un solo re ma non avesse
cancellato quella concezione che vedeva nel potere un elemento del patrimonio regio da spartire
tra tutti i figli maschi. Durante i decenni di potere di Carlo e Ludovico, si sviluppò quindi sotto
traccia la tensione tra una concezione unitaria dell’Impero e le aspirazioni dei diversi membri della
famiglia regia. Il problema si pose prima di tutto a Carlo di fronte alla prospettiva di una divisione
tra i suoi tre figli: Carlo ( a cui destinò la parte centrale del dominio), Ludovico (insediato in
Aquitania, parte sudoccidentale della Francia) e Pipino (a cui assegnò l’Italia). La Divisio regni
dell’806 individuò diversi regni all’interno del dominio carolingio, ma insistette al contempo sul
totum corpus regni e su un’idea di Impero come sovrastruttura istituzionale che trovava la sua
origine nel nesso con Roma. Tuttavia la morte precoce dei due figli fece sì che alla morte di Carlo
nell’814, l’unico erede fosse Ludovico il Pio. Il nuovo imperatore dovette gestire le ambizioni dei
propri figli e anche quelle di Bernardo, re d’Italia, figlio del fratello Pipino. Egli affrontò la
questione nell’817, con la Ordinatio imperii, in cui affermò con maggiore forza l’idea di unità
dell’Impero e di fatto ruppe con la tradizione franca di spartizione: nominò quindi il primogenito
Lotario coimperatore e suo unico erede, attribuendo ai figli Pipino e Ludovico nuclei territoriali
minori, rispettivamente in Aquitania e in Baviera. Fu una scelta che creò tensioni e portò alla
ribellione di Bernardo, che si vide escluso da ogni prospettiva ereditaria. La ribellione non ebbe
successo, Bernardo fu imprigionato e accecato, ma la sua vicenda è importante perché ci mostra
come le clientele aristocratiche potessero dar vita a forme di solidarietà di respiro più regionale: il
radicamento italiano prima di Pipino, poi del figlio Bernardo, aveva dato vita a una rete clientelare
specificatamente italica, che si andò a contrapporre all’imperatore. Non fu un’identità nazionale o
patriottica, ma certo il sistema clientelare coordinato da Bernardo, aveva una connotazione
territoriale. Un ulteriore motivo di squilibrio all’interno della dinastia carolingia derivò dalla nascita
nell’823 di Carlo il Calvo, figlio di Ludovico il Pio e della sua nuova moglie Judith, che negli anni
successivi agì per garantire al figlio un futuro politico e cercò di riaffermare il principio tradizionale
della patrimonialità del potere regio. Il regno di Ludovico fu quindi contrassegnato da ricorrenti
tensioni all’interno della famiglia carolingia, il cui punto più alto fu rappresentato dagli
avvenimenti dell’833: Ludovico fu sconfitto a Colmar dai figli Lotario, Pipino e Ludovico, che si
vedevano minacciati dal ruolo crescente di Carlo e arrivarono fino a far deporre il padre in un
concilio in cui i vescovi franchi costrinsero l’imperatore a fare penitenza per i suoi peccati, per poi
dichiararlo indegno del titolo imperiale, che rimase nelle mani di Lotario. Le discordie tra i figli
permisero a Ludovico di tornare sul trono l’anno successivo, ma appare evidente che le tensioni
ereditarie non fossero affatto risolte. Alla morte di Ludovico il Pio (840), queste tensioni sfociarono
in un conflitto aperto, che oppose Lotario, Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo. Tra passaggi
sono significativi:
1. La battaglia di Fontenoy nell’841 -> si risolse con un massacro (sconfitta di Lotario),
mostrando come l’unità dell’aristocrazia attorno al potere imperiale fosse finita, sostituita
da reti di solidarietà clientelare che facevano capo ai diversi re;
2. I giuramenti di Strasburgo nell’842 -> Ludovico e Carlo si coalizzarono contro Lotario
attraverso un doppio giuramento: per farsi comprendere dai due eserciti, Carlo prestò
giuramento in tedesco, Ludovico in lingua romanza, l’antenato del francese. Questo
giuramento esprime su un piano concreto e visibile la presa d’atto dell’esistenza di spazi di
civiltà diversi, che si tradusse sul piano politico – militare l’anno dopo con;

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

3. La pace di Verdun dell’843 -> che pose fine al conflitto e i fratelli si spartirono l’Impero: a
Carlo andò il regno dei Franchi occidentali ( approssimativamente l’attuale Francia), a
Ludovico il Germanico quello dei Franchi orientali (l’attuale Germania), mentre a Lotario
una fascia intermedia che, da Nord a Sud, andava dall’Alsazia fino all’Italia e mantenne il
titolo imperiale perché era il primogenito.
La divisione territoriale non fu la novità di questi anni. Ciò che è veramente mutato è il concetto
stesso di Impero: se si riconobbe a Lotario il titolo imperiale, questo non si tradusse in alcun modo
in una forma di coordinamento unitario, si rinunciò esplicitamente a un’idea di Impero come
struttura operativa unitaria. Si andarono a costituire forme di organizzazione politica di respiro
regionale, grazie al coordinamento dell’aristocrazia attorno ai diversi re. La seconda metà del
secolo fu segnata dall’articolarsi della famiglia carolingia, con una progressiva centralità assunta da
Carlo il Calvo, che culminò nella sua incoronazione imperiale nell’875; i figli di Lotario assunsero in
vari momenti poteri regi in Italia, in Provenza e in Lorena; mentre i figli di Ludovico il Germanico si
affermarono in Baviera e in generale nell’area tedesca. Nell’888 Carlo il Grosso (figlio di Ludovico)
che aveva formalmente unito il dominio carolingio (senza un reale controllo sui singoli territori),
segnò con la sua morte la fine della dinastia: non la fine biologica, ma la sua esclusione dai vertici
del potere. Negli anni successivi i Carolingi tornarono a tratti sul trono dei singoli regni, ma non
furono più la dinastia dominante e soprattutto il loro potere non fu più un fattore unificante dei
territori dell’Impero.
Il Mediterraneo bizantino e islamico
Tra VII e VIII secolo si assistette a una trasformazione dei quadri di vita di gran parte del
Mediterraneo meridionale e orientale: la nascita dell'Islam fu prima di tutto una trasformazione
religiosa e si tradusse anche in una ridefinizione dei sistemi politici di ampi territori già
appartenenti all'Impero romano/ bizantino e ai regni romano germanici. Partendo dall'esperienza
religiosa di Muhammad e dalla sua predicazione, possiamo analizzare i primi secoli di storia
islamica come un processo di mutamento su molti piani. In particolare, all'affermazione dell'Islam
dobbiamo collegare i processi di ridefinizione dell'Impero bizantino: una riduzione degli orizzonti
territoriali; una ridefinizione dei funzionamenti interni; una nuova centralità dell'esercito.
Le origini dell'Islam
La penisola araba nel tardoantico era strutturata attorno alla convivenza di due grandi gruppi: da
un lato le popolazioni urbane di città come la Mecca e Yathrib ( la futura Medina), attive sul piano
commerciale; dall'altro lato tribù nomadi di pastori, che rifiutavano sia la vita urbana, sia le forme
di più ampio coordinamento politico. In questo quadro era riconoscibile una centralità della Mecca
per le sue funzioni commerciali e per il prestigio connesso al culto della Ka’ba, una pietra nera di
origine meteorica, meta di pellegrinaggi. Sul piano religioso, nella penisola prevalevano forme di
politeismo corrette da alcune tendenze al monoteismo ( gerarchizzazione delle divinità attorno a
un Dio superiore), in parte derivanti da influssi ebraici e cristiani. Questo era il contesto in cui si
mosse, nei primi decenni del VII secolo, Muhammad, nato alla Mecca intorno al 570 da una
famiglia mercantile, iniziò la sua opera religiosa nel 612, quando alcune visioni lo convinsero di
essere un inviato di Dio, incaricato di declamare la parola divina, che invitava a una fede
rigidamente monoteista, organizzata attorno ad alcuni precetti fondamentali. Dall'idea di
declamazione deriva il Corano, il libro sacro dell'Islam; la differenza fondamentale rispetto agli altri

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

libri sacri, è che il Corano non è solo parola ispirata da Dio, ma è direttamente parola di Dio, di cui
Muhammad fu il solo il portavoce. La predicazione di Muhammad fu prima trasmessa oralmente,
poi raccolta in una relazione scritta. La predicazione di Muhammad costituiva una minaccia per il
potere dei grandi clan quraishiti della Mecca, che trovavano un elemento di forza e ricchezza nei
pellegrinaggi alla Ka’ba. L'isolamento politico di Muhammad lo convinse nel 622 a fuggire a
Yathrib. La Fuga del Profeta (l’égira) è considerata un momento fondativo, tanto da segnare l'inizio
del calendario islamico .Lo spostamento a Medina cambiò totalmente le prospettive politiche,
avviando l'organizzazione attorno al Profeta di una comunità politico-militare a base religiosa,
senza limitazioni etniche, dato che la umma (comunità) si basava unicamente sulla comune
osservanza di precetti religiosi. Muhammad potè divenire un fattore unificante delle tribù arabe; il
monoteismo salvifico proposto dalla predicazione del Profeta divenne il collante per un efficace
coordinamento politico-militare, e questa convergenza garantì a Muhammad una forza tale da
consentirgli nel 630 di rientrare alla Mecca, dove seppe coinvolgere i gruppi quraishiti più potenti
e dove valorizzò il pellegrinaggio alla Ka’ba, purificato dagli elementi politeisti e trasformato in
senso islamico. La religione islamica permise di dare unità politica a forze prima disperse e su
questa base avviare un'azione militare che nel giro di pochi decenni sottomise agli arabi territori di
straordinaria ampiezza. Sotto la guida dei primi califfi ( i successori di Muhammad), negli anni ‘30
gli arabi cancellarono l'Impero persiano, conquistando la Siria e la Palestina e avviando la
conquista del Nordafrica, a partire da Alessandria d'Egitto. L'azione si sviluppò via terra e via mare
e rapidamente ridusse la capacità militare bizantina a uno spazio ristretto, tra Costantinopoli e
l’Egeo. Le armate arabe compirono una rapida espansione che comprese tutto il Nordafrica
romano, fino a conquistare la Spagna visigota. Di fatto l'espansione si arrestò nel 717- 718: la
conquista della Spagna e il fallimento di un nuovo attacco diretto a Costantinopoli andarono a
definire i limiti del dominio islamico sulle coste mediterranee. Negli stessi anni seppero affermare
il dominio islamico in Oriente, fino al Uzbekistan e alla valle dell'indio. L'azione politico-militare dei
califfi fu segnata da fratture legate alla successione a Muhammad. Si contrapposero tre posizioni:

• I Sunniti, che si rifacevano alla tradizione e ritenevano che il califfo dovesse essere eletto
sulla base del consenso degli anziani all'interno della tribù di Muhammad.
• Gli Sciiti, seguaci di Alì ( cugino e genero di Muhammad), che davano la massima
importanza al carisma familiare e ritenevano che il califfo dovesse essere scelto all'interno
della famiglia del Profeta.
• I Kharigiti, che ritenevano che il califfo dovesse essere scelto unicamente per merito.
La rottura si realizzò nel 661 con l'uccisione di Alì: nella maggioranza del mondo islamico prevale
l'orientamento sunnita e la funzione califfale fu assunta dalla dinastia degli Omayyadi, un
importante clan della tribù quraishita. Opposizione al dominio sunnita degli Omayyadi, in alcuni
settori si conservò una tradizione che si richiamava ad Alì. Qui ebbe origine l'opposizione tuttora
viva tra Sunniti e Sciiti. Gli Omayyadi posero fine al califfato elettivo e conservarono il potere fino
al 750; fu proprio sotto di loro che si completò l'espansione territoriale dell'Islam e questo pose
importanti problemi di convivenza tra gli arabi e le popolazioni sottomesse. Il califfato aveva una
doppia natura: da un lato un carattere etnico, come dominio degli arabi su altre popolazioni;
dall'altro un carattere religioso, come affermazione dei musulmani sui non credenti. La prima
distinzione, ovvero la contrapposizione di fede, non si tradusse in forme di persecuzione, dato che
fu ampia la tolleranza verso altre fedi; la divisione interna ai fedeli islamici, tra arabi e non arabi,
non era formalizzata in modo così chiaro, ma concretamente il sistema di potere islamico era un

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

sistema arabo e i nuovi fedeli potevano integrarsi solo legandosi come clienti a una tribù araba.
Prima di tutto gli Omayyadi posero il proprio centro a Damasco, in Siria, e questo ridusse La Mecca
e Medina a centri di rilievo esclusivamente religioso. Inoltre questa fu la fase di sistemazione della
fede islamica: il Corano fu oggetto di una profonda opera di interpretazione e commento, che
costituì la base di riferimento per l'Islam dei secoli successivi. Ma quest'opera di riflessione si
sviluppò in parallelo alla grande conquista e all'islamizzazione di nuovi territori, e quindi fu
influenzata dalle tradizioni culturali delle popolazioni sottomesse. Tra VII e VIII secolo vediamo una
piena affermazione dell'arabo come lingua ufficiale, sul piano non solo religioso, ma anche
amministrativo. Nel complesso il secolo omayyade fu segnato da un lento processo di
affermazione del carattere universale dell'Islam. Se l'espansione araba determinò una rottura
profonda sul piano politico, religioso e culturale, il Mediterraneo del VII secolo da tempo non era
più un unità economica; dal punto di vista amministrativo e fiscale il califfato fu pienamente un
erede delle strutture romane e conservò un sistema di prelievo coerente con i precedenti modelli
imperiali.
Bisanzio: crisi e riorganizzazione di un Impero
Dalla metà del VII alla fine dell'VIII secolo, l'Impero romano d'Oriente subì i pesanti effetti
dell'affermarsi di due nuove dominazioni: l'espansione dell'Islam sottrasse all'Impero ampi
territori, riducendolo a una potenza di rilievo regionale, priva del sostegno economico delle ricche
produzioni del Nordafrica; l'affermarsi in Europa del dominio carolingio intaccò in minima parte i
territori imperiali, ma si pose in diretta concorrenza sul piano ideologico, con l'attribuzione a Carlo
Magno del titolo imperiale. È a partire da questa fase che possiamo parlare di Impero bizantino. I
mutamenti tra VII e VIII secolo tolsero all'Impero una prospettiva universale, trasformandolo in
modo definitivo in un'importante dominazione regionale, polarizzata attorno all’Egeo e alla
capitale. Per comprendere questi mutamenti, bisogna risalire alla crisi dopo Giustiniano della fine
del VI secolo, durante la quale i successi militari erano stati effimeri, si erano rinnovate le pressioni
sui confini di popolazioni ostili; il lungo impegno militare aveva svuotato le casse imperiali e aveva
portato a un’irrequietezza di settori dell'esercito che faticavano a ricevere gli stipendi; infine le
tensioni religiose avevano reso difficili i rapporti con la cristianità occidentale e con le regioni che
avevano conservato posizioni monofisite condannate dai concili del V e VI secolo. Sul piano
militare, una svolta significativa fu segnata dal regno di Eraclio (610- 641), che si affermò
sull'Impero persiano fino a eliminarne di fatto la minaccia per Bisanzio; sotto il suo regno Eraclio
introdusse il cosiddetto ordinamento tematico. L'Impero bizantino, nei primi secoli di vita, aveva
conservato alcune scelte fondamentali dell'età romana, e in particolare da un lato la netta
separazione tra potere amministrativo e potere militare e dall'altro un esercito stipendiato grazie
alle tasse. La riduzione territoriale e la costante pressione militare suggerirono agli imperatori di
attuare in specifiche regioni una forte concentrazione di truppe e di attribuire pieni poteri
amministrativi ai comandanti militari. Si abbandonò il sistema provinciale organizzato da
Costantino, in favore di un’organizzazione per temi: la parola thema, che in origine si riferiva a un
corpo militare, passò a indicare una struttura istituzionale, il complessivo inquadramento militare
e giurisdizionale di una piccola regione. Al suo interno, la difesa fu affidata a militari di professione,
il cui mantenimento era garantito dalla concessione di terre e di esenzioni fiscali. Fu la perdita
delle grandi provincie cerealicole dell'Egitto e della Tunisia a rendere impraticabile il sistema
tradizionale romano, basato sul prelievo delle tasse e sull'uso di militari stipendiati. Su un piano
profondamente diverso, un nuovo momento di rottura nella storia bizantina fu rappresentato, tra

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

la metà dell'VIII secolo e la metà del seguente, dal movimento iconoclasta e dalla sua affermazione
alla corte imperiale. L’Iconoclasmo fu un orientamento religioso che riteneva necessaria, per un
culto più puro, la distruzione delle immagini religiose. È possibile che all'origine di questo
movimento ci sia stato un influsso dell’Islamismo, contrario alle immagini, ma occorre sottolineare
come tendenze contro le immagini religiose fossero ben presenti anche nel Cristianesimo antico.
Le immagini di Cristo, per esempio, potevano rappresentare la sua natura umana, ma certo non
quella divina, per definizione inconoscibile e irrappresentabile. Se quindi l’iconoclasmo trovava
fondamenti importanti sul piano teologico, l'editto con cui nel 730 l'imperatore Leone III vietò la
venerazione delle immagini era necessariamente destinato a creare gravi conflitti, all'interno e
all'esterno dell'Impero: all'interno perché il culto delle immagini aveva un ruolo di grande rilievo
per la religiosità di monaci e laici; e all'esterno perché questa scelta poneva Bisanzio in diretta
contrapposizione alla chiesa di Roma e in generale alla cristianità occidentale. È chiaro che Leone
III e i suoi successori compirono questa scelta ben consci delle tensioni che avrebbero provocato e
dobbiamo quindi riflettere sulle loro motivazioni .Il punto di partenza per comprendere l'azione
imperiale deve essere prettamente religioso: imperatori come Leone III e Costantino V erano alla
ricerca di una religiosità più austera. Al fianco di queste motivazioni, contribuirono anche esigenze
di natura politica: possiamo vedere nell’iconoclasmo la volontà di rivendicare il ruolo
dell'imperatore come centro assoluto della società bizantina, come principale mediatore tra il
mondo e Dio; la connotazione religiosa del potere imperiale appariva offuscata dal diffusissimo
culto dei santi e delle immagini, ritenute vie più efficaci per accedere alla benevolenza di Dio.
Questa urgenza di riaffermare la supremazia imperiale era connessa alle pressioni militari che
richiedevano una piena coesione attorno all'imperatore. La politica iconoclasta raggiunse il suo
culmine nel concilio di Hierea del 754, quando Costantino V ottenne la condanna formale del culto
delle immagini. Ricordiamo però che la condanna di Hierea non fu l'esito di un concilio ecumenico,
ma fu opera solo della chiesa bizantina. La condanna non fu accolta pacificamente da tutte le
chiese dell'Impero; negli anni successivi infatti i monaci furono i promotori della resistenza
all’iconoclasmo e furono oggetto di condanne e persecuzioni, tanto che sono ben assestati i casi di
monaci fuggiti in Occidente. La pressione iconoclasta si attenua con Leone IV, asceso al trono nel
775, e poi con la vedova Irene, che alla morte del marito ,nel 780, assunse la reggenza in nome del
figlio. Il concilio di Nicea del 787 riaffermò la liceità del culto delle immagini, senza per questo
porre fine ai conflitti tra iconoclasti e iconoduli . Il movimento iconoclasta andò a indebolirsi, fino a
essere condannato in un nuovo concilio di Costantinopoli nel 843, questo perché era stata
riaffermata l'assoluta centralità del potere imperiale di derivazione divina. Fu importante anche il
riflesso dell’iconoclasmo nei rapporti di Bisanzio con l'Occidente, e in particolare con la Chiesa di
Roma: orientamenti intellettuali in senso contrario alle immagini furono presenti in Occidente ma
non divennero mai la posizione ufficiale. L'orientamento iconoclasta di Bisanzio fu quindi un
elemento di allontanamento tra le due Chiese, che fu sanato nel corso del IX secolo con il ritorno
di Bisanzio al culto delle immagini. I decenni centrali del IX secolo saranno segnati da nuove
contese teologiche e conflitti di natura gerarchica, fino ad arrivare alla rottura tra le due Chiese nel
corso dell’ XI secolo. Queste tensioni furono probabilmente uno dei fattori che indussero i vescovi
di Roma a individuare nel regno franco un protettore più affidabile. Ma questa scelta papale aveva
alle spalle anche un concreto fondamento geopolitico, ovvero la progressiva marginalizzazione
dell'Impero bizantino rispetto al territorio italiano. Le fonti tra VIII e IX secolo mostrano che molti
dei territori italiani formalmente appartenenti all'Impero bizantino seguirono strade che li
portarono verso forme di ampia autonomia o verso una lenta ma chiara assimilazione all'Impero

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

carolingio. La più solida base italiana dell'Impero bizantino fu la Sicilia, che nel VII secolo divenne la
principale provincia cerealicola dell'Impero e quindi la sua principale base fiscale; la sua rilevanza
economica si tradusse in un ampio e diretto impegno degli imperatori nell'area e in una
complessiva opera di ellenizzazione dell'isola. L’azione imperiale in Sicilia fu però interrotta dalla
conquista islamica.

Le articolazioni del mondo islamico e bizantino


Nel 750 si compì un cambio di potere ai vertici del califfato: gli Omayyadi furono deposti da una
nuova dinastia, gli Abbasidi, discendenti di uno zio di Muhammad, che potevano richiamarsi a una
forma di carisma ereditario. Gli abbasidi segnarono fin dai primi anni un mutamento importante
rispetto agli equilibri di potere costruiti dagli Omayyadi: lo spostamento della capitale nella
neonata città di Baghdad fu il chiaro segno di una trasformazione della natura del califfato, che
perse le caratteristiche arabe per divenire più pienamente un dominio islamico, privo di
connotazioni etniche. Nell'età abbaside, l'articolazione territoriale ed etnica del califfato si
tradusse in una sua più chiara articolazione politica: in diversi contesti gli emiri, delegati del califfo
a governare ampi territori, assunsero una piena autonomia di azione. Nell'Ottocento il califfo
Harun al-Rashid delegò il governo del Nordafrica all'emiro Ibrahim al- Aghlab e gli concesse di
trasmettere la dignità all'interno della propria famiglia, gli Aghlabiti che realizzarono la conquista
della Sicilia . Alla fine del X secolo fu invece l'Egitto a rendersi autonomo, grazie all'iniziativa della
dinastia dei Fatimidi, che si allontanarono dal controllo dei califfi abbasidi e rivendicarono per se
stessi il titolo califfale, con cui governarono con larga autonomia l'Egitto fino alla fine del XII
secolo. La penisola iberica assunse una fisionomia politica più definita attorno alla metà dell'VIII
secolo, quando prese il potere un principe omayyade sfuggito al colpo di stato che aveva portato
gli Abbasidi al potere califfale. L'emirato di al- Andalus, la parte islamica della penisola iberica,
convisse a lungo con i regni cristiani della penisola in una dinamica non sempre e non
necessariamente conflittuale; ma soprattutto seppe coordinare sotto di sè una popolazione molto
varia. Questa grande capacità di governo permise all’emirato di affermarsi come una delle
maggiori potenze europee del secolo X, ponendosi su un piano di parità rispetto al califfato di
Baghdad, tanto che gli emiri di al -Andalus assunsero il titolo califfale in concorrenza sia con gli
Abbasidi sia con i Fatimidi. Il dominio islamico rimase nel complesso lungo tutto il X secolo, per poi
articolarsi in dominazioni autonome, che a partire dalla fine dell’XI secolo subirono la pressione
militare dei regni cristiani, nel cosiddetto movimento della Reconquista. Lungo il IX secolo, sia
affermò un secondo importante nucleo di dominazione islamica sulle coste settentrionali del
Mediterraneo, con la conquista della Sicilia. La presenza stabile in Sicilia si trasformò in un dominio
organizzato e unitario, e divenne anche una base per incursioni nelle aree peninsulari, fino ad
affermare per alcuni decenni il controllo islamico su Bari. A partire dal 916-17 la Sicilia fu
sottomessa alla potente dinastia dei Fatimidi, ma lo spostamento verso l'Egitto dei loro interessi
lasciò spazio alle dinastie locali fino alla fine dell’ XI secolo, quando l'isola fu conquistata dai
Normanni. Per quanto riguarda il dominio bizantino, nell’ 867 salì al trono Basilio I, i cui
discendenti ( Basilidi o Macedoni) conservarono il potere fino al 1025 e segnarono una fase di
rafforzamento di Bisanzio. La dinastia realizzò un ampiamento dell'Impero e al contempo gli
imperatori basilidi costruirono una rete di fedeltà e di legami politici e spirituali con le dominazioni
confinanti, un insieme di territori formalmente autonomi ma che rientravano pienamente

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

nell'orbita di influenza dell'Impero, che ne subivano l'egemonia e un efficace controllo indiretto.


L'Europa orientale e l'Italia meridionale furono l'oggetto della pressione egemonica degli
imperatori bizantini e carolingi, in lotta tra di loro per attirare nella propria orbita questi territori.
Fu una divisione politica tra due Imperi egemonici e una divisione tra le chiese di Roma e di
Costantinopoli, contrapposte sul piano teologico e su quello dell'ordinamento ecclesiastico. Sul
piano delle gerarchie ecclesiastiche si raggiunse una forma di compromesso alla fine del IX secolo,
con il riconoscimento di una superiorità formale di Roma; ma sul piano teologico le divisioni non
furono mai sanate. Una questione chiave fu quella detta dei Filioque: il Credo elaborato a Nicea
nel 325 aveva subito un interpolazione nella sua versione latina, che recitava quindi che lo Spirito
Santo procede dal Padre e dal Figlio, posizione ritenuta inaccettabile dal clero orientale, che
affermava invece che lo Spirito procedesse unicamente dal Padre. La questione del Filioque è
tutt'ora uno dei punti che dividono i cattolici dagli ortodossi.
Oggetto delle pressioni concorrenti dei due Imperi furono in particolare gli Slavi, un mondo
variegato e frammentato: si trattava di un insieme complesso di popoli, con alcuni caratteri
culturali e linguistici comuni, che in alcune fasi trovarono forme di ampio coordinamento politico.
Due sono le dominazioni da ricordare, i Bulgari e la cosiddetta Grande Moravia. I Bulgari
esercitarono una pressione militare i confini imperiali lungo l'VIII secolo e i primi anni del X, che
culminò in una minaccia diretta alla capitale e in un trattato di pace largamente favorevole ai
Bulgari, con un accordo matrimoniale tra la figlia del khan Simeone e l'imperatore minorenne
Costantino VII, patto che fu cancellato dall'affermazione a Costantinopoli di un nuovo imperatore.
Il potere dei Bulgari declinò dopo la morte di Simeone. Tra IX e X secolo, andò affermandosi la
Grande Moravia, un dominio esteso tra i territori delle attuali Germania, Boemia e Ungheria, che
arrivò a coordinare molte popolazioni slave, per poi dissolversi nel corso del X secolo. Queste
diverse dominazioni slave si orientarono in questi secoli verso il Cristianesimo, che offriva un
riferimento religioso forte ma anche un modello di organizzazione e gerarchizzazione della società
(tramite la rete dei vescovi) e una nuova legittimazione del potere regio, che era visto come una
derivazione divina. I principi slavi cercavano quindi la conversione, ma ne temevano alcune
implicazioni politiche, ovvero che la conversione implicasse una sottomissione a uno dei due
grandi Imperi cristiani. La chiave del successo di Bisanzio fu la lingua: negli anni centrali del IX
secolo operarono nelle terre slave due fratelli missionari, esperti conoscitori della lingua slava, che
crearono una grafia apposita per rendere fedelmente i suoni di questa lingua ( la scritta glagolitica,
da cui derivò quella cirillica). Con questa scrittura poterono tradurre i principali testi sacri e liturgici
e di fatto avviare un processo di profonda assimilazione culturale delle popolazioni slave, che
rientrarono nell'orbita di influenza di Bisanzio. Per quanto riguarda i territori dell'Italia del IX
secolo, da un lato il neonato Impero carolingio attirò nella sua orbita i territori bizantini del centro-
nord; dall'altro la conquista islamica della Sicilia privò l'Impero della sua principale base fiscale.
Basilio I dovette fare i conti con la realtà: non potè intervenire in modo significativo né nella Sicilia
islamica, né nelle terre in mano carolingia; cercò invece di coordinarsi con i sovrani carolingi per
cancellare le basi islamiche nelle aree peninsulari, consolidando così il proprio controllo tra Puglia
e Calabria.
Società e poteri nel X secolo
Nel X secolo i diversi regni svilupparono proprie dinamiche politiche specifiche ma le principali
linee di tendenza furono comuni. Il periodo di cui trattiamo è la cosiddetta età post carolingia. Nel

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

X secolo vediamo tramontare definitivamente la struttura imperiale unitaria; non si tratta quindi di
negare questo declino, ma di rileggerlo cercando anche e soprattutto le novità, i meccanismi di
costruzione del potere e della società, che nel X secolo assunsero forme oggettivamente nuove. In
questa fase gli elementi residui dell'ordinamento carolingio si unirono con una liberissima
sperimentazione di forme di potere totalmente nuove.
I mutamenti dei poteri comitali
L'impero mutò natura dall'interno, in conseguenza della divisione in regni distinti e per un
cambiamento capillare dei comportamenti politici dell'aristocrazia e delle chiese. Le incursioni che
caratterizzano questo periodo non furono la causa della crisi dell'Impero, ma ne furono piuttosto
la conseguenza; furono rese possibili dalla ridotta capacità militare carolingia. Le divisioni
dell'Impero tra diversi esponenti della dinastia carolingia indussero una profonda trasformazione
nei rapporti tra i re e la grande aristocrazia. Questi rapporti avevano assunto sotto Carlo Magno
una duplice veste, con la convergenza attorno al re di rapporti vassallatici e incarichi funzionariali.
Era un rapporto fondato sullo scambio tra servizi e redistribuzione di ricchezze che il re operava in
favore degli aristocratici .Nella seconda metà del IX secolo questo equilibrio mutò perché si ridusse
in modo sensibile la capacità redistributiva dei re: le grandi espansioni erano terminate e i re non
potevano più disporre di un continuo afflusso di nuove terre, popoli da governare, bottino e
prigionieri (risorse che Carlo aveva potuto concedere ai propri seguaci per consolidarne la fedeltà).
Al contempo, proprio le divisioni e i ricorrenti conflitti facevano sì che gli eredi di Carlo avessero un
continuo bisogno dell'appoggio militare aristocratico. In sostanza, nella contrattazione politica tra i
re e i grandi aristocratici, l'equilibrio si era spostato in favore di questi ultimi: i re avevano un
grande bisogno del loro aiuto e avevano meno risorse con cui ricompensarlo, per cui furono più
disposti a cedere alle loro richieste; e ciò che più di tutto richiedevano era la stabilità, la possibilità
di conservare a lungo la propria funzione e di trasmetterla ai propri figli. Questo processo fu
accompagnato da un progressivo mutamento nella natura stessa della funzione, con una saldatura
tra funzioni di governo e benefici vassallatici. In piena età carolingia appariva chiaro che essere
vassallo del re era cosa ben diversa da essere un suo funzionario. Ma non così nei decenni
successivi: dobbiamo considerare da un lato che la carica di conte era sì un servizio in favore del
re, ma era anche un'opportunità, una risorsa politica ed economica; e dall'altro lato che i re, più
deboli dei loro predecessori, non avevano un pieno controllo della rete funzionariale e si
appoggiavano soprattutto sui legami personali, sulle clientele vassallatiche. Perciò le stesse
funzioni di conti e marchesi si andarono sovrapponendo e confondendo con i benefici vassallatici:
il conte era anche vassallo e la funzione di governare un comitato era per lui un'opportunità e una
risorsa, qualcosa di non troppo diverso da un beneficio vassallatico. Solo all'inizio dell’ XI secolo
vediamo comparire nelle fonti l'affermazione esplicita che una carica comitale era concessa in
beneficio. In questo quadro va inserito il capitolare di Quierzy- sur- Oise dell’ 877, una legge
ingiustamente famosa: ingiustamente perché di fatto Carlo il Calvo non deliberò nulla di
rivoluzionario, ma per noi è importante perché dal testo della norma possiamo cogliere quale
fosse la prassi politica diffusa. Ciò che Carlo definì in queste norme era solamente una procedura
straordinaria per gestire i comitati nel caso in cui il conte morisse mentre il figlio era impegnato in
spedizione con l'imperatore. Sostanzialmente, si stabilirono forme di gestione provvisoria, affidata
ai parenti del conte, ai suoi funzionari, al vescovo, in attesa che giungesse la decisione imperiale.
Se il figlio del conte non avesse seguito l’imperatore in Italia, sarebbe toccato a lui prendere la
gestione del comitato alla morte del padre. L'imperatore rivendicava il diritto di nominare poi un

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

altro detentore stabile della carica, ma appare chiaro che nella prassi e nella cultura del tempo, il
successore naturale di un conte era sempre il figlio, a meno che ne fosse impedito. Questa
funzione è ancora più evidente quando si stabilisce che i fedeli del re, dopo la sua morte, potranno
ritirarsi a vita religiosa trasmettendo le proprie funzioni a un figlio o un parente capace di servire
lo stato. Carlo aggiunge che “ugualmente dovrà essere fatto anche dai nostri vassalli”: conti e
vassalli non erano la stessa cosa, si conservava con piena chiarezza la distinzione dei due piani.
Sebbene nessun'altra legge deliberò mai la stabilità o l'ereditarietà delle funzioni, la prassi politica
si orientò in questa direzione e la stabilità ereditaria della funzione rese possibile la
concentrazione del patrimonio del conte all'interno delle aree da lui governate. Tra la fine del IX
secolo e l'inizio del X vediamo come la lunga durata delle cariche e la loro trasmissione ereditaria
mutarono profondamente le politiche di queste dinastie. Fu un generale processo di
regionalizzazione delle aristocrazie. Questo comportò un ulteriore mutamento nel momento in cui
il conte era anche un grande proprietario all'interno del comitato; le diverse aree del distretto non
erano per lui tutte uguali: era più attento e più presente nelle aree in cui disponeva di terre,
chiese, castelli e vassalli. In alcuni casi questo astensionismo aveva un validissimo motivo giuridico,
quando riguardava le terre delle chiese immunitarie: i diplomi di immunità imponevano infatti agli
ufficiali regi di non entrare nelle terre delle chiese. Sul lungo periodo questi comportamenti
portarono alla formazione di poteri locali, campi di affermazione di diverse chiese e dinastie, che
fondavano la propria potenza prima di tutto sul potere fondiario. Possiamo cogliere alcune
implicazioni di questo processo attraverso un diploma concesso a un conte nel 940. Il conte
Aleramo ottenne qui sia un grande possesso, sia il pieno potere pubblico sul villaggio di Ronco. Da
questo momento questi diritti giurisdizionali saranno suoi, non in quanto funzionario delegato del
re, ma come parte a tutti gli effetti del suo patrimonio: se anche in futuro il re imponesse un altro
conte al suo posto, il potere giurisdizionale su Ronco resterà nelle mani di Aleramo e dei suoi
eredi. Nel corso del X secolo un ulteriore elemento di diversificazione del territorio fu, soprattutto
in Italia, la formazione dei poteri vescovili sulle città: la convergenza delle comunità cittadine
attorno ai vescovi, le concessioni regie in loro favore, la difficoltà di controllare comunità
complesse e socialmente stratificate, indussero o costrinsero in molti casi gli ufficiali regi ad
allontanarsi dai centri urbani per concentrarsi sui propri possessi fondiari nelle campagne. Fu
un’evoluzione fondamentale per la storia delle chiese. Ma qui ci interessa soprattutto per
dimostrare come il potere dei conti fosse discontinuo. Tutte queste evoluzioni ci mostrano
chiaramente un indebolimento del controllo del re sul territorio e sui propri funzionari, ma anche
una discontinuità dello stesso controllo dei conti sui territori; dal punto di vista militare, appare
tramontata la capacità di difesa relativamente omogenea da parte del re e del suo apparato. È
questo il contesto in cui dobbiamo situare le nuove minacce armate che colpirono l'Europa
occidentale dalla fine del IX secolo.
Minacce esterne: le incursioni di Saraceni, Ungari e Normanni
Il periodo tra gli ultimi decenni del IX secolo e la metà del X fu segnato da un'intensa mobilità di
gruppi armati che dall'esterno dell'Impero carolingio partirono per una serie di incursioni e
saccheggi nelle ricche terre dell'Italia, della Francia e della Germania, oltre a impegnarsi in una
lunga opera di conquista dell'Inghilterra. La crisi del potere carolingio fu prima di tutto una crisi
della capacità imperiale di controllare militarmente i territori, e lasciò quindi campo aperto a
iniziative di piccole bande che compivano incursioni più o meno rapide, con intenti di saccheggio.
Queste bande possono essere ricondotte a tre identità etniche fondamentali: i Normanni,

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

provenienti dalla Scandinavia; gli Ungari insediati nell'attuale Ungheria; e i Saraceni, bande di pirati
attivi in diversi punti del Mediterraneo.

• Saraceni: ci troviamo probabilmente di fronte a gruppi etnicamente misti, impegnati in


attività di saccheggio via mare, con incursioni attestate a partire dagli anni ‘60 del IX
secolo. Alla fine del secolo costituirono basi permanenti sulle coste settentrionali del
Mediterraneo, tra cui la Fraxinetum, nella baia di Saint - Tropez, da cui partirono una serie
di spedizione di saccheggio nell'entroterra e sulle Alpi, che cessarono quando il conte di
Arles e il marchese di Torino si allearono per attaccare e distruggere la base saracena.
Queste incursioni non tendevano mai a una conquista durevole, ma al saccheggio. Resta
difficile capire l'effettiva consistenza e ampiezza dell'azione saracena perché le fonti che ci
descrivono queste scorrerie sono costituite dalle narrazioni prodotte nelle chiese e nei
monasteri che subirono le razzie, testi che non si concentravano sulla composizione e sugli
intenti di queste bande, ma mettevano in rilievo i danni, le violenze e il terrore che esse
provocavano. È la paura dei “pagani”, il termine con cui vengono indicati nelle fonti i
Saraceni e gli Ungari; ma dobbiamo notare come i testi prodotti dalle chiese e dal regno
spesso, nel condannare le violenze in atto, associno i pagani ai cattivi cristiani.
• Ungari: tra la metà del IX secolo e la metà del X si sono contate una trentina di pesanti
incursioni di cavalieri Ungari tra la Germania e l'Italia settentrionale. Gli Ungari erano soliti
attraversare le grandi pianure dell'Europa centrale e le Alpi a cavallo, e sempre a cavallo
combattevano. Questa efficacia militare li rese dei nemici pericolosi, ma anche dei preziosi
alleati. Nel regno Italico, per esempio, i diversi aspiranti al trono si allearono con
contingenti di Ungari per farli combattere al proprio servizio. La conflittualità interna ai
regni di Germania e d’Italia fu quindi una grande opportunità per gli Ungari perché, non
solo permise loro di saccheggiare chiese e città mal difese, ma offrì anche la possibilità di
combattere, ben ricompensati, per i potenti locali. Ottone I di Sassonia guidò l’aristocrazia
tedesca nella battaglia di Lechfeld ( 955) ,che segnò la sconfitta definitiva degli Ungari e
avviò la trasformazione del loro regno. Nei decenni successivi l’Ungheria divenne un regno
stabilmente alleato della Germania.
• Normanni: lo sviluppo degli scambi nel Mare del Nord aveva stimolato la mobilità dei
popoli scandinavi, in operazioni commerciali e di pirateria, due livelli che spesso si
confondevano: chi voleva commerciare viaggiava armato perché doveva difendersi, ma
queste armi potevano diventare strumento di saccheggio se si arrivava in porti e luoghi
poco o per nulla difesi; e d'altronde il pirata era pronto a trasformarsi in commerciante nel
momento in cui la difesa locale non consentiva operazioni violente. Questa mobilità è
evidente già tra VIII e IX secolo, in direzioni diverse: verso la Russia, verso l’Inghilterra e
verso le coste settentrionali dell'Europa. In queste diverse zone, popolazioni
sostanzialmente affini furono identificate con nomi diversi: i Vareghi a est, i Vichinghi sulle
isole britanniche, i Normanni nel nord della Francia. A est prevalse la dimensione
commerciale: le navi a fondo piatto che permettevano di risalire i grandi fiumi,
consentirono un commercio in profondità ai Vareghi, che seppero trasformare la propria
azione economica in stanziamento stabile, con la creazione di emporia. Questi centri
crebbero dal punto di vista demografico insediativo e alcuni di essi, come Kiev e Novgorod,
diedero vita a costruzioni politiche territoriali autonome. In occidente, l'azione militare dei
Normanni può essere scandita in tre fasi:

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

1. Dai primi decenni del IX secolo attuarono piccole incursioni di rapina sulle coste
dell'Inghilterra e della Frisia;
2. A partire da decenni centrali del secolo, le incursioni crebbero di scala, con flotte di
decine di navi che permettevano di risalire i fiumi e attaccare città come Londra e
Parigi;
3. Da ultimo, alla fine del IX secolo le incursioni si trasformarono in insediamenti
stabili, all'interno dei regni inglesi e nel nord del regno franco, attorno alla foce
della Senna; quest'ultimo insediamento fu infine riconosciuto e legittimato dal re
Carlo il Semplice, che nel 911 investì di questa regione il capo normanno Rollone,
dando vita al ducato di Normandia.
La formazione di questo ducato fu un evento completamente diverso dalla vittoria di Ottone I sugli
Ungari , ma dobbiamo notare come in entrambi i casi fosse l'azione regia a consentire l'avvio di un
processo di assimilazione pacifica della popolazione che aveva condotto le incursioni . Ma anche in
questo caso si avviò un processo di assimilazione politica e culturale: i Normanni si convertirono al
Cristianesimo e il ducato divenne in tutto e per tutto analogo ai grandi principati territoriali. Il
ducato di Normandia divenne anzi un elemento di stabilità militare, perché la sua forza costituì un
freno a ulteriori incursioni dei Normanni. L’espansione normanna /vichinga ebbe un esito
importante dato che il Mare del Nord divenne un mare normanno: tra Scandinavia, Danimarca,
Normandia e Inghilterra si confrontavano poteri regi o principeschi strettamente collegati da
parentele e alleanze; questa trama fu la base grazie a cui nei primi anni del secolo XI il re Knut
riuscì a riunire per un certo tempo in una dominazione unitaria i regni di Inghilterra, di Danimarca
e di Norvegia. Tra queste tre minacce armate i Normanni furono i soli a trasformare la propria
azione militare in stanziamento permanente e in dominio politico. In definitiva fu la debolezza del
controllo militare regio ad aprire le porte a forme di brigantaggio e saccheggio più o meno
sistematico; e fu la reazione delle forze interne al mondo carolingio a consentire una pacificazione
e un controllo di questa mobilità. Questa esigenza di organizzare la difesa si ritrova a livello locale,
dato che è proprio nei decenni iniziali del X secolo che assistiamo alla prima diffusione dei castelli.
Le incursioni non furono l'unica causa del processo di costruzione di fortificazioni; anche perché
dopo la fine di queste, chiese e signori continuarono a innalzare fortificazioni, destinate a
difendere non dalle minacce esterne, ma piuttosto dall'azione militare degli altri signori.
Il potere dei re
In questa fase scomparve totalmente l'attività legislativa regia. Questo non significa che i re non
intervenissero nella vita politica dei loro regni, ma lo fecero con azioni e testi diversi, prima di
tutto i diplomi, ovvero concessioni accordate a un singolo destinatario. Conservarono una relativa
centralità politica grazie alla loro grandissima capacità redistributiva, sia in termini di risorse
concrete, sia per la protezione garantita a chiese e ad altri individui. In molte aree i re dovevano
quindi limitarsi a una constatazione attiva dei nuovi poteri signorili; constatazione perché i
fondamenti del potere signorile erano locali e pienamente autonomi, sotto il totale controllo dei
signori; ma è una constatazione attiva, perché il regno era comunque in grado di legittimare,
promuovere e indirizzare gli sviluppi politici locali. I numerosi diplomi favorirono quei poteri che
conservavano un rapporto di fedeltà con il re, concedendo loro sia risorse materiali, sia risorse
immateriali (soprattutto legittimità). I poteri locali ritenevano i diplomi utili e preziosi, necessari
per risolvere a proprio vantaggio le liti con i poteri signorili vicini. La crisi post carolingia non

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

corrispose quindi a una cancellazione dei poteri regi, ma a una profonda ridefinizione della loro
funzione politica, fondata su alcuni caratteri comuni a tutti i regni. Gli effettivi processi di
ridefinizione del potere regio possono però essere compresi solo considerando le vicende dei
singoli regni. L'Impero carolingio si articolò in quattro regni: Germania, Italia, Francia e Borgogna.
La Borgogna fu la struttura politica di minor durata: si affermò alla fine del IX secolo come
territorio autonomo, controllato dai Rodolfingi con un dominio concentrato tra le Alpi e il Rodano,
a cavallo dell'attuale Francia e Svizzera francese. Nel 933 il dominio si allargò alla Provenza, ma
una crisi dinastica, iniziata con la morte di Rodolfo II, aprì la strada ai re di Germania per affermare
il proprio patronato e controllo sulla Borgogna. Nel 1034 il regno passò direttamente nelle mani
del re di Germania, Corrado II.
Italia
Per l'Italia una data chiave fu sicuramente l’888, la morte di Carlo il Grosso, l'ultimo carolingio ad
aver riunito nelle sue mani l’intero Impero. Il periodo tra 888 e 961 fu segnato da conflitti politici
particolarmente complessi e violenti, con diversi potenti che si contendevano il trono, nessuno dei
quali poteva però vantare una diretta ascendenza carolingia per via maschile. L'opposizione
fondamentale fu tra i marchesi del Friuli e quelli di Spoleto: Berengario del Friuli fu incoronato re
nel 888, ma fu sconfitto da Guido di Spoleto; e mentre Guido veniva incoronato prima re e poi
imperatore, Berengario non scomparve dalla scena politica, ma si concentrò sulla regione che
meglio controllava, il nord - est. Riprese un ruolo centrale dopo la morte di Guido, regnando fino
alla morte, nel 924. Il regno di Berengario fu tutt'altro che pacifico: dovette subire la concorrenza
e gli attacchi di Lamberto di Spoleto, figlio di Guido, prima e di Ludovico di Provenza poi,
impegnandosi in conflitti che si risolsero con la morte del primo e con la sconfitta e il ritorno in
Provenza del secondo. Era l'opposizione tra le maggiori famiglie dell'aristocrazia italica, le grandi
dinastie marchionali che cercavano di controllare la corona direttamente o indirettamente. La
politica italiana restò quindi polarizzata attorno a diversi pretendenti al trono, fino a che non
crebbero le ambizioni egemoniche del re di Germania Ottone I, che prima scese in Italia e impose
la propria egemonia a Berengario; poi, una volta rafforzato il proprio potere in ambito tedesco,
affermò il proprio pieno e diretto controllo sul regno italico, unendo i regni di Germania e Italia,
con un legame politico che rimase poi un dato permanente per tutto il basso medioevo.
Germania
L'ultimo re carolingio a controllare il regno dei Franchi orientali fu Ludovico il Fanciullo, che morì
nel 911, lasciando però aperto lo spazio politico per l'affermazione di re nuovi. Tutta la storia di
questo regno dal X secolo in avanti può essere letta nell'ottica della convivenza tra potere
principesco e potere regio, e quindi tra principio elettivo e principio dinastico: il re, nelle fasi di
maggiore forza, era in grado di imporre il proprio figlio come successore; ma nei momenti di
debolezza tornava in primo piano il principio elettivo, ed erano quindi i grandi principi a stabilire
chi dovesse prendere la corona. Alla morte di Ludovico, fu scelto come re uno dei grandi duchi,
Corrado di Franconia. Principale avversario di Corrado fu Enrico di Sassonia, con cui il re giunse a
un accordo fondato sulla reciproca fedeltà e sulla non ingerenza del re nei domini del duca
sassone. Questo accordo fu premessa per l'ascesa di Enrico quando, alla morte di Corrado,
l'aristocrazia tedesca scelse lui come nuovo re (919). Da quel momento in avanti, per più di un
secolo la corona si trasmise all'interno della dinastia dei duchi di Sassonia, prima direttamente di
padre in figlio (da Enrico I a Ottone I, Ottone II e Ottone III), poi a un cugino, Enrico II. Il dominio

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

dei re sassoni ampliò rapidamente i propri orizzonti: nel 925 Enrico sottomise il regno di Lotaringia
(fascia intermedia tra Germania e Francia), ma l'ampliamento più rilevante fu la conquista del
regno di Italia, attuata dal figlio Ottone I, a partire dal 951. L'azione di Ottone si situò in un
contesto particolarmente complesso: da un lato le divisioni interne all'aristocrazia italica, tra chi
sosteneva Berengario e chi si richiamava alla potente regina Adelaide, vedova di Lotario; dall'altro
la posizione di Berengario, che negli anni precedenti si era posto sotto la protezione di Ottone ; e
infine i conflitti tra lo stesso Ottone e il figlio primogenito Liutdolfo, che ambiva ad affermare il
proprio potere personale sull'Italia. L'intervento di Ottone in Italia fu l'affermazione sia della sua
protezione della regina vedova, che sposò, sia della sua superiorità su Berengario II. Il controllo sul
regno d'Italia non si poteva attuare immediatamente proprio perché il re dovette impegnarsi a
condurre il difficile scontro con il figlio in Germania. Il quadro politico italiano fu quindi
temporaneamente pacificato con il riconoscimento di Berengario II e del figlio Adalberto come re
sottoposti a Ottone. La pacificazione interna al regno e l’accresciuto controllo sull'aristocrazia
furono le premesse per la grande vittoria della battaglia con cui Ottone mise fine alla minaccia
delle incursioni ungare e affermò la sua condizione di massimo potere politico militare dell'Europa
di tradizione carolingia. Nel 961 Ottone potè scendere di nuovo in Italia, prendere direttamente
possesso del regno e ottenere a Roma la corona imperiale, che poteva pretendere proprio in
quanto detentore del regno d'Italia e quindi effettivo protettore della Chiesa di Roma. Da questo
momento in avanti si definì un quadro istituzionale che si mantenne sostanzialmente stabile per il
resto del Medioevo, con l'Impero costituito dall'unione dei regni di Germania e Italia. A partire da
Ottone, si affermò una vera e propria dinastia regia: la forza della famiglia sassone potè
condizionare in modo determinante le scelte dei duchi. Se quindi si ripropose una continuità
familiare, dobbiamo notare due differenze importanti: prima di tutto la successione al trono
avveniva sì all'interno della dinastia, ma sempre con il consenso dei grandi del regno, attraverso
una forma di elezione; inoltre fu più chiara un'idea di linea dinastica, di successione a vantaggio
esclusivo del primogenito, tale da escludere dal trono gli altri figli del re. La forza di Ottone I e del
figlio si espresse infatti nella sistematica occupazione delle diverse sedi ducali per mezzo di
membri del loro stesso gruppo parentale, nominando come duchi cugini, cognati e i generi del re.
Le cose cambiarono con Enrico II, chi promosse l’ascesa alla dignità ducale di nuovi aristocratici,
non appartenenti al gruppo parentale regio. Ottone III pose al centro della propria ideologia la
nozione di Renovatio Imperii Romanorum: il linguaggio e il cerimoniale imperiale si arricchirono di
elementi tratti sia dalla tradizione occidentale, sia da quella bizantina, al fine di esprimere un'idea
imperiale alta. Il riferimento a Roma non era solo un richiamo al passato, ma una precisa volontà
di intervento nel presente: nel 996 giunse al re la notizia della morte di papa Giovanni XV; a quel
punto Ottone impose come papa un proprio cugino, Bruno di Worms, che divenne Gregorio V,
che pochi mesi dopo incoronò Ottone imperatore. La nomina di Gregorio fu un fatto del tutto
nuovo perché il nuovo papa proveniva da Oltralpe, dall'aristocrazia tedesca. La novità fu tanto più
radicale che i Romani si ribellarono duramente all'elezione di Gregorio, tanto che dovette
intervenire militarmente lo stesso Ottone. Alla morte di Gregorio, l'imperatore impose come papa
Gerbert d’Aurillac, uno dei più grandi intellettuali di quei decenni, che assunse il nome di Silvestro
II, a richiamarsi direttamente al papa che aveva battezzato Costantino. Queste due nomine sono
una testimonianza importante degli ideali politici che guidavano l'azione di Ottone III e della nuova
centralità assunta da Roma negli equilibri politici dell'Impero. Ma le nomine di Gregorio e di
Silvestro indicarono anche una possibile evoluzione del papato: pontefici di alto livello intellettuale
avrebbero potuto consentire una crescita del papato da tutti i punti di vista, sia sul piano

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

ecclesiastico, sia su quello culturale, sia infine nel suo ruolo negli equilibri politici europei. Nel
1002 la morte precoce di Ottone III ( 22 anni e senza figli) aprì una breve crisi dinastica, che in
Germania si risolse rapidamente all'interno dello stesso gruppo parentale, con l'ascesa al trono del
cugino Enrico II. Poche settimane dopo la morte di Ottone, un gruppo di grandi aristocratici
dell'Italia settentrionale si radunò a Pavia per incoronare re d'Italia Arduino, marchese di Ivrea.
Dopo una breve resistenza, fu sconfitto da Enrico nel 1004. Non fu una sconfitta definitiva, e la
successiva lontananza di Enrico dall'Italia lasciò spazio ad Arduino per ricostruire una rete di
solidarietà e alleanze; solo nel 1014 una nuova discesa in Italia di Enrico pose fine alla vicenda di
Arduino, la cui elezione rese visibile una tensione sotterranea, ovvero una ricorrente volontà
dell'aristocrazia italica di imporre le proprie decisioni nella nomina del re.
Francia
Anche in Francia il declino della dinastia carolingia aprì il campo a nuove dinamiche nella lotta per
il regno, e una svolta fondamentale fu segnata dalla morte di Carlo il Grosso, che lasciò spazio al
primo re estraneo al gruppo parentale carolingio; prese infatti il potere il conte Oddone di Parigi.
Anche qui si trovarono a contendersi la corona le maggiori dinastie principesche del regno, ma un
primo elemento peculiare della Francia fu la sopravvivenza politica dei carolingi: alcuni settori
dell'aristocrazia scelsero infatti di appoggiare Carlo il Semplice, che fu incoronato a Reims nel 893
e si contrappose a Oddone, la cui morte rese Carlo unico e indiscusso re di Francia. Fu un re debole
che potè frenare le incursioni normanne solo concedendo a Rollone un ampio settore del regno ; e
la sua debolezza divenne palese ed estrema nel 922, quando i grandi del regno decisero che non
era in grado di regnare e lo deposero. In Francia il cambiamento più profondo fu costituito dal
diversificarsi del territorio del regno, dalla sua suddivisione in principati regionali largamente
autonomi. Negli anni successivi si scelsero i re all'interno del gruppo parentale derivante da
Oddone, quelli che identifichiamo come i Robertini. Come negli altri regni, in questi decenni i
grandi principi di Francia, liberi dal peso condizionante del carisma regio carolingio, cercarono di
affermare il proprio potere di scegliere il nuovo re; ma al contempo nessuno poteva ignorare la
presenza forte di quella che si stava affermando come la principale dinastia principesca, ovvero i
Robertini. Ugo il Grande, figlio di Oddone, nonostante la sua potenza, scelse di non imporre la
propria elezione e preferì far tornare dall'esilio il figlio di Carlo il Semplice, Ludovico IV, con cui i
Carolingi ripresero il trono di Francia, che tennero fino al 987. La scelta di Ugo fu probabilmente un
segno di realismo: se la forza dei Robertini era notevole, essi non erano certo gli unici potenti del
regno, ma dovevano convivere con altri grandi principati territoriali. Rinunciando a rivendicare la
corona evitò probabilmente di affermare simbolicamente la propria superiorità rispetto agli altri
principi, fatto che avrebbe sicuramente suscitato la loro ostilità. Il processo che in questi decenni
segnò i meccanismi politici del regno di Francia fu la costruzione dell'egemonia dei Robertini, che
culminò nel 987 con l'ascesa al trono del nipote di Ugo il Grande, Ugo Capeto, da cui prese il via la
dinastia capetingia, che conservò la corona di Francia fino al 1328. Il 987 è tradizionalmente
considerata una data chiave della storia francese, momento fondativo della monarchia nazionale,
momento in cui si chiuse una lunga fase storica (dinastia carolingia) e se ne aprì un'altra ancora più
lunga, con la piena affermazione dei Capetingi. L'ascesa al trono di Ugo Capeto fu l'esito coerente
di un lungo processo di affermazione della dinastia ai vertici del regno, avviato quando il conte
Oddone di Parigi era stato incoronato re alla morte di Carlo il Grosso. I Robertini espressero un
potere analogo a quello regio e furono senza dubbio la dinastia principesca che con maggiore forza
si mosse in un orizzonte politico che comprendeva l'intero regno. Non furono i re a creare la

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

struttura politica locale o a imporre modelli di ordine politico: è sul piano locale, dei poteri signorili
e principeschi, che si crearono nuovi funzionamenti politici e furono i grandi vescovi a elaborare
modelli di ordine politico che, in larga misura, facevano a meno del re.
Ai margini del mondo carolingio
I processi di costruzione del potere regio si realizzarono anche in aree poste al di fuori degli antichi
confini dell'Impero, e in particolare in Inghilterra e in Spagna. La tradizione politica inglese lungo
l’alto medioevo vedeva un alta frammentazione politica, che in seguito era organizzata in un
numero relativamente ridotto di regni e in una discontinua e incerta egemonia del regno di
Mercia, soprattutto sotto la guida del re Offa, alla fine dell'VIII secolo. Il secolo IX può essere letto
alla luce di due processi: da un lato la progressiva crescita delle incursioni normanne; dall'altro lato
una crescente egemonia del Wessex, regno nella parte sud- occidentale dell'Inghilterra, che riuscì
a lungo a conservarsi autonomo dall'espansione normanna. Il culmine di questo potenziamento fu
il regno di Alfredo il Grande, che sottomise la Mercia e arrivò a controllare tutti i regni inglesi non
compresi nella dominazione normanna. Ma questa fase non segnò l'inizio di uno stabile dominio
unitario sull'Inghilterra centro-occidentale: alla morte di Alfredo salì al trono il figlio Edoardo, alla
cui morte i destini di Mercia e Wessex si separarono di nuovo. Di fatto, per tutto il X secolo non si
può parlare di un regno inglese unitario, ma ancora di una pluralità di regni che a tratti si legavano
e si staccavano, con una discontinua egemonia di singoli re su ampi settori del territorio. Fu solo
all'inizio del secolo XI che si costituì infine un regno inglese unitario: fu il re norvegese Knut che nel
1016, partendo dai domini normanni dell’Inghilterra orientale, arrivò ad affermare il proprio
controllo sul Wessex e quindi su tutti i principali regni inglesi. Knut controllava al contempo i regni
di Danimarca e Norvegia. Questo immenso potere non ebbe seguito, ma due elementi della sua
vicenda ebbero esiti di lungo periodo: da un lato l'unificazione dell'Inghilterra; dall'altro lato la
profonda integrazione tra i regni che si affacciavano sul Mare del Nord, controllati da re diversi ma
strettamente legati tra di loro grazie alla loro comune origine normanna. La rottura dell'unità
politica realizzata da Knut non comportò una netta separazione dei destini delle diverse sponde
del Mare del Nord. Alla morte di re Edoardo, nel 1066, la corona potè essere contesa da diversi
personaggi: la rivendicarono il duca di Wessex Harold Godwinson, il re di Norvegia Harald e il duca
di Normandia Guglielmo. Il primo fu rapidamente incoronato re, ma nell'autunno subì attacchi
quasi contemporanei degli altri due, sconfiggendo Harald, per essere sconfitto e ucciso da
Guglielmo ad Hastings il 14 ottobre. La battaglia di Hastings è stata tradizionalmente vista come un
momento di svolta fondamentale nella storia inglese: si trattò dell'affermazione sul territorio
inglese dell'aristocrazia normanna. I decenni successivi furono quindi segnati da due processi: da
un lato l'integrazione tra aristocrazia normanna e inglese, dall'altro un'intensa ridefinizione delle
gerarchie sociali, con una nuova ed efficace centralità del potere regio. Per quanto riguarda la
penisola iberica, la conquista araba nell'VIII secolo non aveva coinvolto l'intera penisola, ma aveva
dissolto l'unità visigota: la parte centrale e meridionale della penisola aveva costituito l'emirato di
al - Andalus, mentre nel nord si erano formati i regni cristiani delle Asturie e di Pamplona /Navarra.
La convivenza tra gli emiri e i regni cristiani fu segnata indubbiamente da una tensione di fondo.
Assistiamo piuttosto a una continua interferenza tra le diverse dominazioni, a intrecci politici da un
territorio all'altro. Per esempio, i re cristiani cercarono di operare attivamente nelle dinamiche
interne all’emirato, sostenendo singole fazioni in lotta per il potere. La dinamica politica restò
intensa, con scontri militari, azioni politiche e scambi matrimoniali, ma senza che in questa fase si
possa delineare con chiarezza un’univoca linea di tendenza. Dobbiamo notare che già dalla fine del

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

IX secolo erano presenti nella cultura politica dei regni cristiani iberici alcuni elementi
che andarono poi a costituire le basi ideologiche della Reconquista (l'opposizione militare
ammantata di ideali religiosi, la visione dell'azione militare contro gli emiri come guerra giusta….).
Nella penisola iberica del X secolo, i regni cristiani e l'emirato erano protagoniste. Fu quindi un
equilibrio dinamico e conflittuale, ma definì un quadro di sostanziale stabilità territoriale delle
diverse dominazioni; solo alla fine del secolo XI, in parallelo con la formazione dell'ideale crociato,
la Reconquista assunse una forma strutturata, efficace, ideologicamente organizzata e sostenuta
dal papato, segnando l'avvio di un processo di espansione territoriale dei regni cristiani ai danni
dell'emirato.
Modelli di ordine sociale
Se le evoluzioni del potere regio seguirono dinamiche specifiche e diverse nelle varie regioni
d'Europa, sono tuttavia riconoscibili alcune linee di tendenza comuni. Abbiamo visto come in tutti i
regni europei il re non avesse la stessa centralità che abbiamo potuto cogliere in età carolingia.
Questi non erano in grado di creare assetti politici, ma al più di condizionarli o legittimarli. I
protagonisti della vita politica erano in modo sempre più evidente le grandi dinastie discese dagli
ufficiali pubblici, le chiese vescovili e monastiche e i nuovi nuclei signorili. Questa stessa perdita di
centralità si riscontra nei processi che portarono all'elaborazione di nuove forme di cultura politica
e di nuovi modelli di ordine sociale, che ebbe il suo fulcro nelle grandi sedi vescovili. La questione
chiave era come si potesse costruire un ordine in assenza di un'efficace potere regio. Il modello
più noto è quello che gli storici chiamano la “tripartizione funzionale”. In breve nei primi anni del
secolo XI, due vescovi del nord della Francia, Adalberone e Gerardo, enunciarono in testi diversi
una teoria simile, ovvero che il corpo sociale dovesse essere diviso tra chi pregava (oratores), chi
combatteva (bellatores) e chi lavorava ( laboratores). Il dato davvero qualificante è la necessaria
reciprocità tra le diverse condizioni: chi pregava lo faceva per salvare le anime di tutti, chi
combatteva garantiva la sicurezza e chi lavorava assicurava il sostentamento. Proprio da questa
reciprocità potevano nascere equilibrio e ordine. Ciò che qui è più importante notare è il contesto
specifico in cui questa teoria nacque: i primi anni di potere della dinastia capetingia, sotto Roberto
il Pio, figlio di Ugo Capeto, un momento in cui il potere regio era quanto mai incerto. La
tripartizione non è quindi un dato di fatto, una struttura sociale reale di tutto il medioevo, ma un
ideale politico, formulato da ben precise figure politiche in un ben preciso contesto: alcuni grandi
vescovi in un momento di fragilità del potere regio. Un modello profondamente diverso fu
rappresentato dalle “paci di Dio”: siamo di fronte a un sistema cerimoniale. Alcuni vescovi del sud
della Francia, a partire dagli ultimi anni del X secolo ,convocarono delle grandi assemblee di
chierici e laici destinate a ristabilire la pace in una regione: i vescovi radunavano un gran numero
di reliquie e su di esse tutti gli abitanti della regione dovevano giurare il rispetto di alcune norme
fondamentali (prima assemblea tenuta Charroux nel 989). La novità non era rappresentata dalle
norme, che di fatto riprendevano alcune garanzie fondamentali già presenti nelle leggi carolingie;
la novità nasceva invece dal fatto che queste norme non erano affermate dalla volontà regia, ma
dalla convergente volontà della popolazione, guidata dai vescovi. Le paci di Dio erano quindi la
pace del re in assenza del re: le stesse norme trovavano fondamento nell'iniziativa dei vescovi,
nella loro capacità di assumere la guida della popolazione e nella loro forza patrimoniale e politica.
Due modelli politici elaborati da vescovi nello stesso contesto e nello stesso periodo, per
rispondere ai problemi posti dalla crisi del potere regio; eppure la tripartizione funzionale e le paci
di Dio sono modelli opposti principalmente perché la prima era fondata sulla separazione dei ruoli

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

e delle competenze, con una chiara centralità dei vescovi, destinati a fungere sia da garanti della
salvezza eterna, sia da guide intellettuali nel presente; le paci di Dio invece, seppur guidate dai
vescovi, si fondavano sulla convergenza di tutti i corpi sociali nello stesso rito e nello stesso
giuramento. In comune tra i due modelli c'è soprattutto una profonda trasformazione del rapporto
tra i vertici delle chiese e i fedeli: sfumò la distinzione tra suddito e fedele perché la piena
appartenenza alla società passava attraverso la piena sottomissione alla fede e ai vescovi. Essere
fedeli significava essere sudditi di un complessivo sistema di dominazione.
Nuove chiese, nuovi poteri
Le riflessioni di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente vanno collocate anche in un
processo di profonda trasformazione delle chiese e del loro ruolo nella società e nel quadro
politico. La trasformazione si avviò già nel X secolo, su due piani: da un lato un profondo
rinnovamento del monachesimo con l'affermazione di Cluny e con la diffusione di nuove forme di
vita religiosa, a più chiaro orientamento eremitico; dall'altro lato un nuovo e diverso
coinvolgimento dei vescovi nelle strutture del potere locale. Nel 909 o 910 il duca Guglielmo
d'Aquitania fondò l'abbazia di Cluny, in una diocesi non lontano da Lione, e la affidò all’abate
Bernone. La prima peculiarità di questa fondazione fu la rinuncia del duca a esercitare qualsiasi
forma di controllo sulla vita successiva di Cluny. In questo modo i monaci della prestigiosa abbazia
ottenere il pieno diritto di scegliere al proprio interno i nuovi abati; inoltre la protezione e
benedizione del monastero erano affidati direttamente al vescovo di Roma, che per la sua
lontananza garantiva il fatto che non si sarebbe intromesso concretamente nelle vicende
dell'abbazia. In questo quadro, i primi abati seppero dare vita a una forma di vita religiosa
peculiare. Pur muovendosi all'interno della regola benedettina, i cluniacensi le diedero infatti
un’interpretazione specifica, che pose al centro la dimensione della liturgia e della preghiera, una
preghiera che andò a occupare la massima parte del tempo dei monaci. Il monachesimo di Cluny
propose un’accentuazione coerente con la tradizionale impostazione benedettina, con un ulteriore
ampliamento del tempo dedicato alla preghiera, un’accresciuta solennità di momenti liturgici e
una specifica attenzione alle preghiere per l'anima dei defunti. Cluny fu quindi l'espressione di un
monachesimo dalla disciplina e dalla spiritualità rigorose, un modello di vita religiosa che garantiva
ai propri benefattori le efficaci preghiere di uomini santi e fu pienamente parte del sistema
aristocratico di dominazione, un'abbazia ricca e potente, alleata dei principi e della grande
aristocrazia. Nel giro di poco i cluniacensi acquisirono una grande fama e già il secondo abate,
Oddone, fu incaricato di riformare la vita monastica in abbazie antiche e prestigiose. In questa
capacità di Cluny di rinnovare la vita religiosa in altri monasteri possiamo cogliere gli inizi del
connotato più specifico e innovativo del monachesimo cluniacense, ovvero la costituzione di una
rete di monasteri coordinati dall'abbazia borgognona: una congregazione, un insieme di enti
religiosi che riconoscevano tutti la propria guida nell'abate di Cluny .La congregazione fu
prevalentemente composta dalla costituzione di nuovi enti monastici che non erano abbazie, ma
priorati. In questi nuovi enti monastici l’abate non c'era, perché l'unico abate era quello di Cluny.
Molti aristocratici del X e XI secolo, quando vollero fondare un ente monastico, scelsero di
compiere una donazione a Cluny perché venisse creato un priorato, sottoposto all’abate della
prestigiosa abbazia. La scelta era dettata proprio dalle esigenze spirituali di questi laici, che
cercavano nei monaci i garanti della propria salvezza spirituale, e quindi ambivano a ottenere le
preghiere di monaci santi. In tutto questo periodo l'abbazia seppe acquisire grande prestigio,
anche grazie al suo legame con la sede papale; ma fu soprattutto lungo il secolo XI che i priorati

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

cluniacensi si diffusero in larghi settori d'Europa. L'influenza di Cluny peraltro andò al di là della
stessa congregazione: come abbiamo visto per il caso di Fleury; se quindi non rientrarono
propriamente nella congregazione, il loro monachesimo fu profondamente influenzato dalla
spiritualità e dalle forme di vita di Cluny. Questa congregazione non fu un caso isolato; si
realizzarono per esempio attorno alle abbazie di Fruttuaria, in Piemonte, e di Sassovivo, presso
Foligno: nessuna congregazione raggiunse dimensioni e prestigio paragonabili a Cluny, ma sono
per noi il segno di una diffusa volontà di riforma del monachesimo. Il punto di massimo trionfo di
Cluny fu raggiunto negli ultimi anni del secolo XI: nel 1088, l'elezione al soglio pontificio di
Oddone, priore di Cluny, che assunse il nome di Urbano II. Fu un papa importante; a lui infatti si
deve, nel 1095, la proclamazione della prima crociata.
In parallelo alla crescita di Cluny e di altre congregazioni analoghe, il secolo XI fu segnato
dall'emergere di altre spinte riformatrici del monachesimo, basate su orientamenti diversi, con
una più netta ispirazione eremitica. Su questa linea si posò prima di tutto Romualdo, che attorno
al 1023 fondò il monastero di Camaldoli. Un modello simile è quello di Vallombrosa, fondato nel
secondo quarto dell’ XI secolo da Giovanni Gualberto, monaco benedettino : la comunità era
nettamente e rigidamente isolata dal mondo, in una sorta di eremitismo collettivo. Proprio in
questo aspetto possiamo individuare l'elemento connotante di queste esperienze monastiche: non
erano forme individuali di eremitismo, ma esperienze in cui la volontà eremitica si risolveva in una
dimensione comunitaria, dove si operavano scelte radicali di isolamento, povertà e penitenza. A
differenza del passato, successo e santità si andavano divergendo lentamente attorno a un ideale
di religiosità povera, priva di potere, lontana dal mondo. Parallelamente alla trasformazione del
mondo monastico, mutò anche il ruolo dei vescovi nei rapporti con le comunità cittadine e in
generale con la società e i poteri circostanti. Con la fine dell'Impero e la crisi della capacità regia di
controllo, la natura del potere vescovile mutò, e si affermò il loro pieno controllo politico e sociale
sulle città, fondato sui profondi legami tra vescovo e società cittadina, sul progressivo
allontanamento dalle città dei funzionari regi, ma anche su specifiche concessioni regie. Proprio da
questi diplomi regi dobbiamo partire ,per comprendere gli equilibri che portarono ovunque
all'affermazione di un pieno potere vescovile sulle città. Partiamo da un caso specifico, il diploma
concesso da Ottone I al vescovo di Parma nel 962: la concessione al vescovo Uberto è enorme,
Ottone gli assegnò tutti i beni fiscali compresi nella città e nel comitato, ogni diritto di prelievo in
città e per una fascia di tre miglia attorno, il potere giudiziario sulla città. L’imperatore , nel
conflitto che opponeva vescovo e conte, prese decisamente posizione a favore del primo. Questo
non significa che il vescovo assumesse le funzioni di conte: i poteri non gli furono delegati, ma
furono concessi in piena e completa proprietà alla sede vescovile. La concessione a Uberto di
Parma non fu un caso isolato tra il X e XI secolo. Non fu nemmeno una politica sistematica, ma
certo fu una scelta adottata in molti contesti diversi, nel quadro di una politica imperiale molto
pragmatica, pronta a sostenere di volta in volta il potente locale più favorevole agli interessi
imperiali. I conti, ormai, avevano solidamente dinastizzato la propria carica, senza che il regno
fosse concretamente ed effettivamente in grado di opporsi; ma quest’ ultimo era sicuramente in
gradi di intervenire nelle successioni vescovili, imponendo i propri candidati o almeno impedendo
l’elezione di vescovi ostili. Perciò nei casi di conflitti locali, un re forte come Ottone I, poteva
intervenire, riducendo l’autorità del conte in favore del vescovo, che costituiva un potere
affidabile per il re. Affidare ampi poteri ai vescovi permetteva ai re un efficace controllo della
società locale. I vescovi erano uno strumento di potere efficace prima di tutto grazie ai loro

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

profondi legami con la città e con i suoi ceti eminenti, perché le principali famiglie andavano a
costituire sia il gruppo dei canonici (il clero che più direttamente assisteva il vescovo), sia la
clientela vassallatica vescovile. Questi gruppi familiari fungevano quindi da raccordo tra vescovo e
società e da guide della comunità cittadina, soprattutto sul piano militare. È evidente che qui, il
potere vescovile e la crescita politica della comunità non fossero in opposizione, ma fossero invece
due processi direttamente collegati, in cui il vescovo accompagnava la crescita politica della
comunità e ne legittimava l’identità politica agli occhi degli imperatori. I diplomi imperiali erano sì
importanti, ma spesso andavano a confermare e sostenere processi avviati prima e
indipendentemente da essi. Caso emblematico è costituito dagli arcivescovi di Milano: nel secolo
XI agirono alla guida della città e di un’ampia clientela vassallatica, con un rilevantissimo potere
politico, pur senza ottenere mai dall’Impero un diploma che ratificasse tale potere. Le concessioni
imperiali ai vescovi italiani si concentrarono nell’età dei re sassoni, ma l’azione imperiale perse
efficacia nei decenni successivi e questi diplomi accompagnarono il definirsi di un equilibrio
politico che ebbe un rilevante impatto nella storia delle città italiane, in quella simbiosi tra potere
vescovile e comunità cittadina che condizionò pesantemente la formazione dei comuni cittadini.
PARTE TERZA: Poteri locali e poteri regi tra l’XI e il XIII secolo
Le istituzioni della Chiesa e l’inquadramento religioso delle popolazioni fra XI e XIII secolo
Nel corso dell’XI secolo, le chiese conservarono una maggiore capacità rispetto ai regni di
modellare i quadri sociali delle popolazioni europee, di dare una parvenza di ordine al caos, e di
immaginare schemi di governo in grado di individuare chiaramente una gerarchia di comando. Si
mise in moto un processo di ripensamento della funzione della Chiesa conosciuto come il nome di
Riforma. Nei primi decenni del secolo XI si individuarono i temi portanti di questa nuova visione
della Chiesa: recupero dei beni delle chiese, affermazione della natura inalienabile e indisponibile
delle cose sacre (le cariche non potevano essere cedute per denaro – simonia), esaltazione del
carattere sacro del sacerdozio da non contaminare con i rapporti carnali, necessità di un vertice
della Chiesa libero da condizionamenti esterni. Le resistenze vennero in primo luogo dagli stessi
quadri episcopali, che si opposero all’ondata moralistica dei riformatori radicali che mettevano in
discussione le basi tradizionali del loro potere. Sotto il pontificato di Gregorio VII questo scontro
coinvolse, oltre ai vescovi, anche l'imperatore Enrico IV. La vera scintilla fu il tentativo del papa di
inserire i vescovi in una gerarchia solo religiosa, guidata dal pontefice di Roma, eliminando il ruolo
dell'imperatore nella creazione delle cariche ecclesiastiche. Ne seguì una lotta violentissima fatta
di scomuniche, deposizioni e maledizioni incrociate, con risultati tutto sommato modesti: dopo 50
anni di scontro, il compromesso che mise alla fine alla lotta lasciava le cose più o meno come
erano al tempo di Gregorio. Cambiò invece il modo di pensare la Chiesa come istituzione. Le
istituzioni dovevano avere una vita propria, dovevano seguire delle regole senza farsi troppo
condizionare dalle azioni dei singoli. La riflessione dei giuristi diede corpo a questo insieme di
regole per definire i funzionamenti delle chiese episcopali, del clero associato alle chiese, del
papato e degli uffici centrali. Si inquadrano anche i nuovi movimenti monastici, riattualizzati
secondo le diverse necessità degli ordini. Questo ampio processo di produzione di norme
esprimeva una profonda esigenza di stabilità della chiesa, stabilità che era condizione necessaria
per svolgere il compito fondamentale di quest'ultima sulla terra: portare alla salvezza il maggior
numero possibile di uomini. I modi di raggiungerla dovevano essere decisi solo dalla Chiesa. Non
era quindi necessario capire, era sufficiente ubbidire. Il processo di inclusione dei fedeli in un

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

percorso salvifico si interrompeva solo in caso di aperta ribellione agli ordini del clero o di
disobbedienza palese ai suoi precetti di vita. Accadeva spesso che gruppi di persone decidessero in
proprio come leggere il messaggio evangelico e quale forma di vita poteva assicurare meglio la
salvezza. Questa scelta errata divenne presto un grave peccato perché offendeva la maestà divina.
Ad allontanare il fedele dalla Chiesa era la sua ostinazione a negare la natura malvagia del suo
comportamento eretico e a ripeterlo ancora nonostante il divieto. Il fedele disobbediente
diventava eretico, qualcuno che erra, sbanda, si perde; ma anche scismatico, che crea divisioni,
porta disordine. L'eresia doveva quindi essere recisa con decisione, bisognava quindi salvare il
corpo dei fedeli anche se questo comportava l'uso della forza. A questo dovevano pensare i poteri
laici, incaricati di dare la morte agli eretici. Dio li avrebbe perdonati.
Per una riforma della Chiesa: vescovi, imperatori e papi nella prima metà dell’XI secolo
Una spinta importante per una riforma della Chiesa venne anche dai vescovi impegnati nella
riorganizzazione delle loro diocesi. Riprendendo un linguaggio della tarda età carolingia, che
equiparava i beni delle chiese alle cose sacre, i vescovi si impegnarono in una serie di recuperi
delle sostanze e dei diritti dati in beneficio sui quali si era perso il controllo, o che semplicemente
erano stati usurpati dai laici nel corso del secolo precedente. Questo contribuì a ricostruire un
apparato istituzionale delle chiese locali, in grado di esercitare una vera funzione pastorale, che
vedeva i vescovi porsi come guida della società. In questa fase della riforma, il papato fu sostenuto
dall'imperatore e dalla sua curia formata dai principali vescovi del regno di Germania. Questo
avvenne in particolar modo sotto Enrico III ( 1017- 1056) che, circondato da ecclesiastici di
altissimo livello culturale, si pose come garante di un processo di riforma della Chiesa in generale,
estendendo questa azione di controllo anche al papato di Roma, allora in balia delle famiglie
romane in lotta fra loro. Per rimediare alla situazione romana l'imperatore Gregorio VI fece
deporre a Sutri, nel 1046, i tre papi romani e impose come candidato il vescovo di Bamberga,
membro della sua curia, eletto papa con il nome di Clemente II. Fu l'inizio di una lunga serie di papi
tedeschi, consiglieri del re e esponenti di un clero episcopale convinto da tempo della necessità di
una riforma radicale della chiesa. Questi furono tutti personaggi impegnati a diffondere una
profonda riforma del clero, impostata soprattutto sulla lotta alla simonia e al concubinato del
clero, chiamato anche nicolaismo. La simonia era un peccato grave e sacrilego che riguardava la
vendita o l'alienazione di cose sacre, dai beni delle chiese alle stesse cariche ecclesiastiche. Il
termine viene da un personaggio degli Atti degli Apostoli, Simon Mago, che chiese agli apostoli
Pietro e Giovanni di vendergli il potere di imporre lo spirito santo con le mani. Era questa volontà
deliberata a essere condannata, perché conteneva l'assurda pretesa di valutare con un metro
umano un oggetto assolutamente invalutabile come lo spirito santo. Naturalmente si trattava di
una posizione di principio, dovuta in buona misura alla rivalutazione del potere sacramentale
donato in via esclusiva agli uomini di chiesa. La vendita delle cariche si riferiva in realtà a una
pratica assai diffusa tra le èlite politiche dell'occidente cristiano fin dall'età carolingia: pagare per
la carica era una forma di ringraziamento per chi l'aveva assegnata e di investimento per chi
l'aveva comprata; uno scambio accettato nella mentalità dei potenti del tempo. Per il partito
riformatore criminalizzare la simonia era dunque un passo obbligato per riaffermare il valore
sacrale della funzione sacerdotale, l'unicità della chiesa e la necessità storica della sua funzione
salvifica. Un secondo campo di tensione si creò intorno al celibato del clero. Per una buona parte
dell'alto medioevo, gli esponenti del clero potevano, in alcuni casi, avere una moglie. Il matrimonio
del clero non era sconosciuto nè del tutto vietato; ma se si accedeva al sacerdozio dopo il

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

matrimonio, la situazione del prete sposato rimaneva sospesa in un limbo di tolleranza . A volte Le
consuetudini locali legittimavano pienamente lo stato matrimoniale anche negli ordini maggiori,
nel pieno rispetto dell’essenza sacramentale del legame; molti ecclesiastici invece rivendicavano
la legittimità e il valore morale del legame matrimoniale, rifiutandosi di scioglierlo solo per
obbedire a un mandato moralistico privo di un saldo fondamento nelle Scritture. Ancora più
diffuso era il concubinato. In molti casi, queste coppie, spesso con figli, erano in grado di
assicurare ai propri eredi una carica ecclesiastica. Questa prassi fu presa di mira e severamente
censurata dal partito imperiale e riformatore. Contro queste pratiche la reazione del clero
imperiale è stata sempre molto ferma. Sia l'offerta di denaro per ottenere cariche sia la domanda
di contributi per amministrare i sacramenti furono atti severamente condannati in tutte le sinodi
provinciali, dal concilio di Pavia del 1046 in avanti. In particolare, nel concilio di Reims del 1049,
l'iniziativa riformatrice assunse i toni teatrali e drammatici di un processo pubblico. Alcuni vescovi,
chiamati a discolparsi dall'accusa di aver acquisito la propria carica con pratiche simoniache,
furono denunciati pubblicamente e quindi deposti; altri preferirono confessare subito. Ciò che
colpisce è la violenza usata contro i simoniaci e soprattutto la messa in opera di una procedura di
accusa pubblica che permetteva di rimuovere i prelati anche molto radicati nella propria diocesi.
La confessione spontanea portava ugualmente all'abbandono delle sedi e della carica di vescovo.
Si ponevano così le basi di un primato del papa di Roma sulla sorte dei vescovi. Le tensioni
fortissime che interessavano le istituzioni ecclesiastiche in quei decenni non riguardavano solo il
vertice del papato, ma anche la base dei fedeli, chiamati spesso in causa dalle frequenti lotte tra
vescovi di opposti schieramenti. Milano fu sede di un conflitto assai aspro tra i riformatori,
chiamati patarini, e l'alto clero locale. Lo scontro fu aperto dalla contestazione del clero corrotto
da parte di un chierico del clero minore, Arialdo, che riuscì a trascinare una parte dei fedeli in una
sollevazione violenta contro i preti giudicati indegni. La predicazione di Arialdo non si limitava a
denunciare i costumi corrotti del clero milanese, ma sosteneva la nullità dei sacramenti impartiti
dai preti indegni, invitando i fedeli a disertare le loro chiese. I patarini tennero in scacco la chiesa
milanese per decenni, costringendo con la forza gli ecclesiastici milanesi a giurare un editto di
castità redatto da Arialdo. Anche dopo l'uccisione di quest'ultimo, il movimento continuò,
ricevendo l’appoggio dei papi riformatori che inviarono il vessillo di San Pietro a Erlembaldo, un
cavaliere nobile che si era posto alla guida dei laici armati. Le violenze contro le chiese suscitarono
una reazione dell'alto clero milanese, che non risparmiava un uso altrettanto deciso della violenza
armata. Gradualmente venne meno anche l'appoggio della Chiesa di Roma. In particolare la
negazione del valore dei sacramenti impartiti dai preti indegni implicava una svalutazione della
natura divina dei sacramenti che potevano essere macchiati dalla persona fisica del prete. Una
visione così terrena del sacro non era accettabile dal papato e fu condannato come eresia pochi
anni dopo. La conclusione ingloriosa del movimento patarino mostra bene la natura
contraddittoria della riforma: da un lato le spinte verso una religiosità più vicina al messaggio
evangelico trovavano un appoggio genuino presso i fedeli laici che richiedevano un clero più puro;
dall'altro questi interventi dei laici erano sempre più spesso respinti dalle istituzioni ecclesiastiche
come indebite intrusioni nei dogmi della fede e come minaccia all'autonomia del clero. Anche se in
difetto, i chierici dovevano essere giudicati solo da altri uomini di chiesa e in ogni caso i peccati del
clero non intaccavano la natura divina dei sacramenti. La chiesa doveva essere superiore e
indipendente rispetto ai comportamenti dei suoi ministri e rispetto ai fedeli che doveva guidare
verso la salvezza. Il primato di Roma andava rafforzato sia verso l'esterno, sia verso l'interno: verso
l'esterno una polemica contro il patriarca di Costantinopoli generò uno scisma definitivo; verso

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

l'interno il papato doveva essere protetto dai suoi stessi pretendenti, soprattutto nel momento
delle elezioni. La questione dell'unità della chiesa si pose intorno al 1053, in occasione di una
nuova diatriba che si era aperta con il patriarca di Costantinopoli. In realtà da secoli le due Chiese
seguivano riti e credenze diverse. Ne è una testimonianza la lettera scritta dal patriarca Michele
Cerulario, in cui i vescovi latini venivano invitati ad abbandonare pratiche da lui ritenute giudaiche.
Il documento suscitò una polemica violentissima con il papa di Roma, Leone IX, che rispose con
un'ambasceria di due cardinali, fra cui Umberto di Silvacandida, con effetti disastrosi. Negli scritti
di Umberto emergeva chiara la nozione di una chiesa romana, istituita da Pietro, come testa,
madre, fonte, asse di tutta la cristianità. Dunque per il papa le altre chiese erano ridotte a serve di
Roma, mentre Bisanzio ammetteva come proprio capo solo Gesù e non Pietro. L'ambasciata di
Umberto finì con la scomunica del patriarca che formalizzò la rottura con la Chiesa di Roma. I
destini delle due Chiese furono ufficialmente distinti. La rottura non solo fornì argomenti a favore
della tesi dell'unicità della Chiesa di Roma come guida della cristianità, ma rafforzò anche la
convinzione che solo il vescovo di Roma fosse depositario dell'eredità di Pietro. Qualche anno
dopo lo scisma, si aprì la questione dell'elezione del Papa. I papi tedeschi erano protetti dalla forza
di Enrico III, ma il papato, come istituzione, non era ancora stabile. In assenza di procedure certe,
ogni lezione poteva essere contestata. Ne fu un esempio il breve pontificato di Benedetto X, che fu
breve e ininfluente, ma che ebbe la funzione di far emergere un gruppo di intellettuali riformatori
che prese in mano la reazione, contestando le modalità irregolari della sua elezione. In particolare
Ildebrando di Soana, al servizio di tutti i papi riformatori di quei decenni, aveva acquisito
sufficiente autorità nella curia romana da imporre come papa il vescovo di Firenze, Gerardo, che fu
eletto a Siena sotto il nome di Niccolò II. Una volta consacrato, il nuovo papa presentò nel concilio
di Roma del 1059 un diverso sistema di elezione papale, che limitava il diritto di voto solo ai
cardinali- vescovi, riducendo il popolo e il clero di Roma e lasciando uno spazio ambiguo
all'approvazione imperiale. La sottrazione dell'elezione papale dal ristretto ambito romano
contribuì a dare un rilievo universale al papato. Fu in questo contesto che si svolse il pontificato di
Ildebrando di Soana. Salito al trono papale sotto il nome di Gregorio VII.
Il momento del conflitto. Il pontificato di Gregorio VII
Il pontificato di Gregorio VII ha rappresentato un momento particolare della definizione del ruolo
della Chiesa nella società cristiana. Sotto il suo governo si raggiunse la fase di massimo conflitto tra
Chiesa di Roma e poteri laici ed ecclesiastici dell'Impero. Le ragioni si devono in parte alle tensioni
accumulate negli anni precedenti tra il papato e l'episcopato, in parte all’intransigenza del
programma di Gregorio VII che inseguiva un obiettivo altissimo: un inquadramento della società e
dei poteri laici ed ecclesiastici in una gerarchia unica con al vertice il pontefice di Roma. Il papato
veniva presentato come fulcro della cristianità come sinonimo di società. Gregorio, in sostanza,
non costruì una vera teocrazia, ma fornì la Chiesa di strumenti culturali e ideologici per
immaginarla, rompendo la vecchia tradizione della spartizione delle aree di governo della società
tra papa e imperatore. Divenuto papa nel 1074, dopo un elezione per acclamazione, tutt'altro che
regolare, proseguì con vigore l’azione di riforma del clero. Dopo i primi tentativi di imporre un
rigido programma di controllo sui comportamenti degli ecclesiastici, Gregorio dovette prendere
atto delle accanite resistenze alla sua azione riformatrice: in particolare contro i decreti di
purificazione del clero che prevedevano una severa repressione della simonia e del nicolaismo. In
Italia l'accoglienza dei canoni moralizzatori fu assai debole. In Germania le reazioni furono ancora
più violente: al concilio di Erfurt, riunito nell'ottobre del 1074, il clero locale, invece di accogliere

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

gli indirizzi riformatori del papa, accusò Gregorio di essere eretico e di sostenere dogmi folli. In
Normandia, per lo stesso motivo, il vescovo riformatore Giovanni fu preso a sassate dal suo clero.
Naturalmente l'opposizione dei vescovi francesi e tedeschi riguardava non solo il tema del clero
sposato, ma l'ampiezza dei poteri rivendicati dal papa di Roma. Era in gioco l'autonomia delle
chiese episcopali nei confronti del nuovo modello di gerarchia ecclesiastica voluto e imposto dal
papa. Davanti a queste ripetute ostilità, Gregorio VII rispose attaccando direttamente il clero
ribelle. Durante il concilio di Roma del 1075 colpì i vescovi disobbedienti minando la base del
potere politico dell'episcopato: l’investitura laica dei vescovi, vale a dire il potere del re, o di
un’autorità laica, di concedere a un ecclesiastico beni materiali, terreni, edifici e a volte anche la
carica di vescovo. L’investitura laica dei vescovi non era certo una novità del secolo XI. Gregorio
contrastò questo sistema politico attaccando, appunto, l'investitura dei benefici e cambiò
radicalmente il significato dell'investitura, condannando l'intervento dei laici come indebita
intromissione nelle cose sacre. Nel concilio di Roma si dispose che “nessun chierico o prete riceva
in alcun modo una chiesa dalle mani di un laico, gratuitamente o per denaro”. Era inevitabile che
la pretesa di vietare a tutte le autorità laiche di intromettersi nelle elezioni dei vescovi doveva
finire per coinvolgere anche l'Impero. In effetti, Gregorio VII rivendicò per la Chiesa di Roma
un’onnipotenza senza rivali. Lo mostra bene il Dictatus papae, una lista di 27 tesi che elencavano i
poteri riservati solo al papa come guida spirituale e politica della Chiesa. In base a questo testo,
solo il papa poteva deporre un vescovo o riconciliarlo, emanare nuove leggi, dividere e unire
episcopati, spostare i vescovi da una diocesi a un'altra, e ancora, usare le insegne imperiali, essere
omaggiato dai principi con il bacio del piede e scomunicare e addirittura deporre gli imperatori. A
questi poteri sovrani corrisponde un’indiscussa superiorità giurisdizionale: nessuno poteva
giudicare il papa, modificare le sue decisioni o condannare chi presentava appello alla sua corte. Di
più, la Chiesa di Roma comprendeva tutti i veri cattolici: chi non faceva parte della Chiesa romana
non era considerato cattolico. Resta l’impressione di un tentativo reale di Gregorio di imprimere
alla chiesa di Roma un crisma istituzionale nuovo, in grado di garantire la preminenza pontificia nei
confronti di tutti gli altri poteri laici ed ecclesiastici, Impero compreso. Dei vari canoni che
compongono il Dictatus uno in particolare sembra essere stato inserito proprio da Gregorio: il
potere di deporre l’imperatore. Dopo la deposizione del vescovo di Milano, il simoniaco Goffredo,
Gregorio aveva nominato come unico vescovo legittimo Attone. Incurante di questa scelta, Enrico
IV nominò invece il suddiacono Tedaldo, aprendo un contenzioso lunghissimo e di estrema
violenza. Nel concilio di Worms del 1076, Gregorio VII fu deposto dai vescovi riuniti sotto l’Impero,
in virtù della funzione regia di tutela della Chiesa. Nel sinodo romano del 1076 fu invece
scomunicato e deposto Enrico IV. Il re rispose che dipendeva solo dalla volontà di Dio che gli aveva
conferito il compito di difendere la cristianità. Sulla base di questo rapporto diretto con la divinità,
l’imperatore doveva agire per liberare la Chiesa dal tiranno. Dalla sua Enrico IV aveva non solo la
forza militare, ma anche il sostegno di una parte rilevante dell'episcopato. Fu in grado così di
convocare concili con un'ampia partecipazione dei vescovi italiani e tedeschi che rinnovarono la
deposizione di Gregorio eleggendo un nuovo papa ( antipapa per Roma) nella figura del vescovo
Guiberto, che per 10 anni governò come pontefice legittimo agli occhi dei fedeli dell'imperatore.
Dopo una tregua raggiunta con la mediazione di Matilde di Canossa nel 1077, (Enrico chiese
perdono e dopo tre giorni Gregorio lo concesse) il conflitto riprese più violento di prima. Nel
concilio di Roma del 1080 Gregorio scomunicò e depose nuovamente l'imperatore, sciogliendo i
sudditi dal vincolo di fedeltà al sovrano. Enrico scese a Roma insediando Guiberto e facendosi
incoronare imperatore del 1081. Gregorio fu salvato dai Normanni ma dovette abbandonare Roma

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

per morire in esilio a Salerno. Lo scontro violentissimo sul piano culturale e militare divise le chiese
locali in partiti e sottopose anche le popolazioni urbane a un difficile esercizio di equilibrio tra
fazioni del clero così nettamente contrapposte. La sovrapposizione dei provvedimenti di
scomunica incrociata causò un clima di incertezza e di sconcerto presso le masse di fedeli- sudditi.
In realtà, tra gli effetti reali del conflitto, emerse proprio il ruolo assunto dalle popolazioni locali. Si
affermò una nuova coscienza nei laici sull’importanza di intervenire, almeno in parte, sulla natura
e la trasmissione del messaggio religioso. E le investiture? I papi seguenti continuarono a
sostenere la visione rigorista di Gregorio, rinnovando periodicamente il divieto di ricevere
investiture di chiese da parte dei laici: tutte le investiture, senza distinzione fra lo spirituale (
consacrazione) di competenza ecclesiastica, e il temporale ( terre immobili) che poteva dipendere
anche da donativi dell'imperatore. Urbano II, per esempio, impose nel 1095 il divieto per i chierici
di prestare giuramento di fedeltà a un laico; impedendo qualsiasi subordinazione feudale di un
ecclesiastico a un laico. Il papa Pasquale II aveva raggiunto un accordo con il re di Francia e
Inghilterra che rinunciarono a eleggere i vescovi con anello e pastorale, limitandosi alla conferma
dell’eletto. Quando il papa cercò un accordo nel 1111 con Enrico V, in cui tutti i vescovi del regno
dovevano rinunciare i poteri temporali, furono gli stessi vescovi italiani e tedeschi a protestare
contro queste decisioni, tanto più che Enrico V aveva sconfessato il patto con il papa. Pasquale II
sospese allora l'incoronazione dell'imperatore, ma fu arrestato e, dopo 2 mesi di prigionia,
capitolò riconoscendo il potere del re di investire con l'anello e il pastorale dei vescovi. Una
capitolazione completa che sollevò altre proteste da parte romana. Pasquale fu costretto nel
concilio lateranense del 1112 a confermare la condanna di Enrico, senza raggiungere grandi
risultati. Era chiaro a tutti che il dissidio non poteva essere risolto con un atto di separazione
violenta delle sfere spirituale e temporale dell'azione dei vescovi. I due piani dovevano coesistere:
si doveva tener conto sia della profonda implicazione politica dei vescovi, inseparabili dalla trama
dei poteri laici, sia della natura sacrale del loro potere spirituale, riservato alla Chiesa. Così a
Worms, Enrico V e il papa Callisto II trovarono un accordo: al papa spettava l'investitura con
l'anello e il pastorale, simbolo del potere spirituale e del matrimonio mistico del vescovo con la
sua chiesa; al re l'investitura dei regalia con lo scettro.
Pretese universali e definizione istituzionale della Chiesa
Il papato aveva trovato una soluzione al conflitto ma ne era uscito fortemente indebolito sul piano
politico. Nel corso della lotta per le investiture, erano stati più numerosi gli antipapi che i papi
eletti e riconosciuti. I papi ufficiali raramente risiedettero a Roma per un tempo lungo: più spesso
erano in viaggio nelle terre dell'Impero da cui provenivano; altrettanto frequentemente erano
cacciati da Roma e in esilio volontario per incapacità di restare nella loro città (come accadde a
Gregorio VII). Lo scontro diretto con Enrico IV aveva anche dimostrato che non era difficile
deporre un papa, convocando un concilio di vescovi fedeli. Nonostante queste debolezze
strutturali, era un papato diverso quello che emerse da queste crisi continue. Il papa di Roma si
presentava alla fine del secolo XI come un’istituzione nuova, un centro di potere spirituale e
politico in grado di condizionare non solo i contesti locali, ma la stessa politica dei regni europei. Il
papa rivendicava un ruolo di guida delle anime che prescindeva dai confini territoriali dei regni e si
sovrapponeva alle fedeltà locali. La Chiesa aveva un altro fine, la salvezza delle anime; usava un
altro potere, l'ordine sacramentale consegnato da Dio in via esclusiva al clero; aveva un nuovo
esercito, il clero inquadrato in diocesi dipendenti da Roma ;e un nuovo popolo che coincideva con
tutti i fedeli abitanti nei regni. Su questa visione ideologica di una Christianitas, che coincideva di

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

fatto con tutta la società, la Chiesa elaborò un immenso edificio istituzionale e religioso in grado di
condizionare per secoli la vita religiosa, sociale e politica delle società europee. é opportuno dare
uno sguardo da vicino alle fondamenta di questo edificio, a partire dalle trasformazioni interne alle
istituzioni ecclesiastiche e religiose. L'intensa produzione normativa della Chiesa di Roma nei
decenni della riforma si nutriva di una più ampia e capillare attività dei concili provinciali delle
chiese cristiane. Raccolte di decisioni conciliari e di lettere pontificie furono preparate già alla fine
del secolo XI. Per mettere ordine su queste materie così complesse, un maestro di nome Graziano
mise insieme, nel corso di alcuni anni e in redazioni diverse, una raccolta di canoni chiamata
Decreto. Si tratta di un'opera che riuniva concili, lettere papali, passi biblici intorno alle materie del
diritto ecclesiastico affrontate con metodo dialettico: Graziano voleva rendere coerenti passi
diversi in aperta contraddizione. A dispetto della sua disorganicità, il Decreto rimase per lungo
tempo la principale compilazione di diritto ecclesiastico studiata e commentata dai giuristi di
chiesa, che presero il nome di decretisti. Lo sviluppo di un ceto di giuristi esperti di materie
ecclesiastiche fu un evento cruciale per la storia della Chiesa, perché sempre di più
l'organizzazione delle istituzioni ecclesiastiche fu sottoposta a regole giuridiche. I canonisti
intervenivano su tutto, partendo però sempre dal caso concreto, analizzato nel suo contesto e
nelle sue specificità. Per i canonisti e in generale per il diritto della chiesa, non ci sono leggi
assolute da applicare a tutti, ma casi da risolvere secondo equità, tenendo conto delle specifiche
circostanze. La decisione finale poteva affidarsi in gran parte alla discrezione o arbitrio del giudice,
che doveva avere solo Dio davanti agli occhi. Un sistema così duttile aveva però bisogno di alcune
linee guida. In primo luogo emerse la necessità di un rafforzamento della gerarchia interna alla
Chiesa. I vescovi furono sempre più incardinati nelle proprie diocesi: il vescovo era il responsabile
del clero cittadino e delle parrocchie di campagna, accentrava su di sé una serie di funzioni di
controllo e soprattutto giudicava le cause ecclesiastiche della diocesi; dall'altro lato, invece, i papi
avevano cercato di creare una rete di controllo sui vescovi locali, attraverso propri rappresentanti,
chiamati legati apostolici, incaricati di giudicare i conflitti locali e di avocare a Roma la soluzione
delle cause in corso. Il potere locale del vescovo ne usciva sottoposto a quello del pontefice in caso
di conflitto. I casi da decidere ( liti sul possesso o accuse penali) furono così distribuiti in base alla
gerarchia dei grandi interni alla chiesa: le materie di base erano competenza del clero
parrocchiale, altre erano riservate al vescovo e altre ancora, per esempio quando era coinvolto lo
stesso vescovo, dovevano essere giudicate solo dal papa. Negli ultimi anni del XII secolo si affermò
una nuova procedura giudiziaria per conoscere e perseguire i reati: l'inchiesta d'ufficio ( inquisitio
ex officio), che divenne uno strumento utile per imporre la supremazia politica del papa attraverso
l'esercizio di un potere giurisdizionale superiore. L'inchiesta partiva dalla fama: una voce collettiva
su una persona o un fatto, suscitata dal comportamento riprovevole di un chierico. Per i giudici
ecclesiastici, questo delitto notorio rischiava di allontanare i fedeli dalla Chiesa, impedendo loro di
ricevere i sacramenti: in termini tecnici creava uno scandalo, un impedimento alla salvezza.
Quando il reato era noto l’ecclesiastico doveva essere processato e punito, di qualunque grado
egli fosse. La novità consisteva proprio nel fare diventare la fama, che solo i delegati del papa
potevano verificare, il motore dell'inchiesta, mentre la difesa della chiesa diventava la ragione
ultima del processo. Si trattava di valutare se e quanto il comportamento di quella persona, una
volta conosciuto da tutti, potesse danneggiare la chiesa nel suo complesso. Con la procedura
inquisitoria si potevano controllare tutti i gradi della gerarchia, cosa che avvenne soprattutto sotto
papa Innocenzo III, che si distinse per il grande numero di vescovi rimossi. In altre parole, il papa
riusciva a imporsi sui vescovi perché aveva il potere di giudicare le cause che li riguardavano,

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

scegliendo, caso per caso, i rimedi da prendere. Un potere duttile, arbitrario, adattato ai singoli
casi, legato alla sapienza illuminata detenuta solo dal pontefice. Proprio in questi anni finali del XII
secolo si modificò anche la titolatura del papa. Gradualmente si iniziò a usare un titolo più
ambizioso, vicario di Cristo .Lo sviluppo del primato si tradusse anche in una diversa e più
ragionata articolazione istituzionale della curia romana: le decisioni collettive della chiesa erano
prese all'interno del concilio ecumenico che riuniva tutti i vescovi del mondo cristiano. Intorno al
papa si formò un sacro collegio formato dai cardinali. Gli affari di governo venivano affidati alla
curia, con uffici, tribunali e la Camera apostolica, che gestiva le finanze della Chiesa di Roma.
Ricordiamo che a Roma affluivano le decime da tutte le diocesi. Roma e la curia papale divennero
nel corso del XIII secolo uno degli enti più ricchi e potenti. Anche i riformatori volevano una Chiesa
potente e ricca, perché la sua funzione era quella di redistribuire la ricchezza ai poveri.
Parallelamente si definirono meglio sul piano giuridico e istituzionale le presenze ecclesiastiche
locali. Sia il clero urbano sia le diversissime esperienze religiose monastiche andavano definite e
sottoposte a una regola comune. Nelle città episcopali si cercò di ristabilire una disciplina della vita
del clero, secondo una regola stabilita già in età carolingia e largamente disattesa nei secoli X e XI.
I canonici, vale a dire i chierici adibiti al servizio della cattedrale, furono nuovamente chiamati
negli anni della riforma a condurre una vita di penitenza, di rinunce e di castità. La vita in comune
nelle canoniche fu la risposta a questa tensione organizzativa nuova: un dormitorio comune, una
tavola comune e il possesso comune di tutti i beni. Nelle varie diocesi europee si iniziò così la
costruzione di nuovi edifici collettivi per ospitare il clero cittadino, chiamate canoniche. Nelle
canoniche adottarono la regola detta di Sant'Agostino. Intorno alle cattedrali si costituirono i
capitoli formati dai canonici del vescovo. Il capitolo cattedrale acquisì presto una personalità
giuridica autonoma, con propri beni immobili e una mensa (dotazioni economiche) separata da
quella del vescovo. Composti dai membri delle maggiori famiglie aristocratiche della città e
provvisti di un patrimonio fondiario spesso assai ingente, i capitoli costituirono un centro
importante di concentrazione del potere politico: erano fortemente gerarchizzati al loro interno,
avevano un proprio tribunale e si ponevano alla guida della vita religiosa cittadina. I canonici
conservarono sempre funzioni pastorali. L'organizzazione in capitoli non coinvolse solo i canonici
del vescovo, ma i sacerdoti di tutte le chiese importanti. Ogni capitolo, collegiata o chiesa entrava
in un sistema governato dal vescovo, ma assumeva una personalità giuridica autonoma .L'idea di
gerarchia era forte, ma la moltiplicazione delle istituzioni comportava anche la moltiplicazione di
strutture organizzative con interessi religiosi, economici e culturali propri, spesso in conflitto con
altre istituzioni religiose. Si trattava di un processo a due facce: da un lato un ordine gerarchico
imposto dal papato, dall’altro una diffusione di istituti diversi sparsi in tutta la società cristiana. Fra
XI e XII secolo videro la luce nuovi movimenti di ispirazione monastica, con una netta
accentuazione della natura ascetica e pauperistica. Alcuni di questi diedero vita a ordini monastici,
come i cistercensi e i certosini. I cistercensi presero il nome dal luogo della prima congregazione,
nata a Citeaux, in Borgogna. Il monastero di Citeaux era stato fondato da Roberto, che predicava
un ritorno alla vita delle origini, fatta di preghiere, ascesi e duro lavoro manuale come penitenza e
disciplina dell'anima. Anche i luoghi erano scelti in funzione di questa vita solitaria e ritirata: si
trattava in genere di posti isolati, poco raggiungibili. Pasquale II mise il monastero sotto la sua
protezione due anni dopo la sua fondazione. In pochi anni, grazie all’arrivo di nuovi monaci,
sorsero in Francia 4 nuove abbazie, figlie di Citeaux. Nel 1119, Stefano Harding scrisse la carta di
carità, una regola dell'ordine approvata nel 1119 da Callisto II e nuovamente da Eugenio III nel
1152. Se la prima generazione di monasteri doveva adattarsi alle condizioni locali e godere di una

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

relativa autonomia, con il moltiplicarsi delle abbazie figlie sì dovete imporre un coordinamento più
stretto. Intorno al 1150 si stabilì il principio che un capitolo generale ,da tenere una volta l'anno a
Citeaux, poteva discutere gli affari relativi gli altri monasteri e prendere decisioni valide per tutti. I
cistercensi divennero in breve tempo degli esperti colonizzatori e dei grandissimi proprietari
terrieri, grazie alle ingenti donazioni ricevute da laici devoti, da vescovi e da semplici fedeli. Le
aziende agrarie cistercensi, basate sulla concentrazione dei possessi e l'uso di tecniche di
coltivazione d'avanguardia, divennero in effetti dei modelli di efficienza e di produttività, ma
furono anche causa di un arricchimento rapido dell'ordine. Anche sul piano politico il successo del
modello cistercense provocò conseguenze inattese e forse lontane dall'ispirazione iniziale. Alcuni
abati divennero figure di riferimento per l'intera cristianità. Fu il caso di Bernardo Chiaravalle, al
centro delle più intense esperienze politiche religiose della prima metà del secolo XII. Dietro
questa lunga attività politica e intellettuale si intravede tuttavia una tendenza radicata ad
affermare le ragioni di una Chiesa combattente in difesa della fede senza compromessi, senza
aperture, senza incertezze. L'ordine cistercense produsse uomini di potere come vescovi e papi,
promosse crociate e fu impegnato in lunghe e sanguinose campagne di repressione dell'eresia.
Anche i certosini, nati nel 1084 su iniziativa di Bruno di Colonia, maestro della scuola cattedrale di
Reims, cercavano l’isolamento e il ritiro del mondo. Realizzarono con maggiore rigore e coerenza
una comunità ascetica di preghiera, inseguendo l'ideale del deserto: un luogo fisico senza uomini e
senza contatti, isolato ma soprattutto impervio e irraggiungibile, dove la solitudine era vera e
unica dimensione di vita del monaco. Il modello fu proprio il monastero fondato nel 1084 sul
massiccio della Chartreuse, nella Francia del sud. I certosini elaborarono un modello misto tra
l'eremitismo e la vita comune del modello cenobitico. Il monaco per la maggior parte del tempo
viveva nella cella, erano escluse attività manuali, contatti esterni, ma anche attività di carità e di
apostolato presso i laici. Solo durante le funzioni religiose e la domenica il monaco si univa agli altri
per consumare i pasti in comune. Inoltre i certosini avevano un limite per tutto: il numero dei
monaci (12), il numero dei conversi, il numero di oggetti da tenere nella cella o degli animali etc. Il
limite numerico era insomma la garanzia di preservare la dimensione eremitica che non doveva
essere compromessa dalle necessità di una collettività troppo ampia. Anche per i certosini,
tuttavia, sì pose il problema della forma di vita da regolare. Non subito, visto che Bruno morì nel
1101 senza lasciare nulla di scritto. Solo nel 1127 Guigo I, priore della Chartreuse, mise insieme
una raccolta di Consuetudini, riprese da regole monastiche antiche e aggiornate secondo le
esigenze dell'ordine. Come i cistercensi, anche i certosini scelsero di assegnare al capitolo generale
il potere di decidere le forme di vita da adottare per tutti i monaci e di regolare la vita interna e i
conflitti tra i diversi monasteri che si rifacevano alla Certosa madre. I monaci delimitavano lo
spazio del deserto ideale con confini concreti, inglobando possessi di altri soggetti, signori o
contadini che fossero. All'interno di questo perimetro i monaci pretendevano di restare isolati,
non permettevano il passaggio di donne, lo sfruttamento dei boschi, la caccia e la pesca e anche il
lavoro sui campi dei contadini della zona. Una pretesa in parte assurda, che doveva provocare
numerosi scontri con i signori e i contadini locali, spesso risolti in favore dei monaci. è indubbio
che sia i certosini che i cistercensi trovarono immediato appoggio nell'episcopato. Le regole furono
redatte dietro le richieste dei vari priori, ma anche su impulso vescovile. Il riferimento costante a
una regularis disciplina negli atti pontifici potrebbe testimoniare una esplicita volontà di
appoggiare queste esperienze proprio perché portatrici di ordine, di disciplinamento regolare delle
nuove forme di vita monastica. Una necessità di ordine che si estendeva anche al mondo laicale,
che andava guidato nel percorso verso la salvezza.

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

L’inquadramento religioso dei laici


Nella complessa costruzione dottrinale e giuridica della chiesa ai laici spettava un ruolo tutto
sommato passivo, di fedele e obbediente, consapevole della propria debolezza carnale e della
necessaria sottomissione alla guida dei chierici. Due condizioni che il mondo composito del laicato
non era disposto ad assecondare senza resistenze. La parola latina laicus indicava, nella Bibbia, la
parte della popolazione non consacrata a Dio, l'insieme dei fedeli non insignito del sacerdozio.
Questi potevano ascoltare, ma non dovevano cercare da soli una verità che gli era preclusa quasi
per natura. Nel decreto di Graziano veniva ribadita la differenza fra la natura regale dello stato
clericale, libero dai legami mondani, e quella popolare dei laici. Ai chierici spettava la preminenza
nelle processioni, il diritto di essere mantenuti in virtù dell'utilità sociale della loro funzione, e
quello di essere difesi dalla violenza dei laici, dipinti sempre come rapaci e risolutamente ostili al
clero. Per questo era necessaria anche una protezione giuridica dell'ordine clericale. In tribunale,
solo un membro del clero poteva giudicare un altro chierico. La lettura pubblica delle Sacre
Scritture, così diffusa numerose congregazioni laiche e religiose non clericali, divenne un ministero
propriamente sacerdotale, che non si poteva esercitare senza avere ricevuto il sacramento
dell'ordine. In base a questo potere spirituale ,gli uomini di chiesa avevano il potere e il dovere di
inquadrare il popolo dei laici e di condurlo alla salvezza. La rivalutazione fortissima della funzione
del sacerdote aveva portato con sé una nuova e più potente rivalutazione dei sacramenti che
finivano per inquadrare in una cornice sacrale l'intera esistenza del fedele. La vita terrena si
svolgeva interamente sotto il segno del sacro, un lungo viaggio scandito dai riti religiosi
amministrati dalla Chiesa. Il battesimo di bambini si affermò come necessario rito di entrata del
fedele nella comunità di appartenenza. L'eucaristia acquistò una nuova centralità, divenendo il
perno della liturgia della messa. La dottrina ufficiale sostenne che, attraverso il miracolo
eucaristico, Dio trasforma l'ostia nel vero corpo di Cristo e il vino nel vero sangue; solo questa
trasformazione miracolosa permette il rinnovo della grazia del fedele che gli consente di
procedere nel cammino della salvezza. Nei decenni centrali del secolo XII, si delineò anche una
dimensione più costrittiva e individuale della penitenza, il dolore interiore per un peccato
commesso, che doveva essere riconosciuto come tale dal fedele e confessato al prete. Solo dopo
la confessione il peccatore poteva ritornare nel gregge dei fedeli. Si aprì così la conquista graduale
dell'interiorità dei fedeli. La sottomissione dei laici alla pratica della confessione fu uno dei
principali strumenti impiegati dagli uomini di Chiesa per inculcare l'obbedienza nelle coscienze dei
fedeli. Il matrimonio, riconosciuto come sacramento proprio negli anni della riforma, sottopose a
un controllo assai stretto la vita sociale dei fedeli ( non ci si poteva sposare fino al settimo grado di
parentela e i rapporti sessuali furono considerati sempre peccaminosi se compiuti al di fuori della
procreazione). E infine la morte, con i riti dell'estrema unzione e soprattutto della sepoltura
benedetta, fu interpretata come una soglia di entrata in una nuova vita ultraterrena che
continuava e prolungava la vita dell'anima. Con l'invenzione del Purgatorio si aprì un canale diretto
di comunicazione tra vivi e morti: non solo le preghiere per i morti aiutavano a mantenere il
ricordo delle persone scomparse, ma ora potevano anche abbreviare le pene e accumulare un
capitale di meriti che aiutava l'anima del defunto a superare gli ostacoli del regno di mezzo. Nelle
loro ultime volontà, i fedeli dovevano pensare non solo agli eredi, ma anche alle istituzioni
ecclesiastiche che avrebbero assicurato la celebrazione delle messe in suffragio del defunto,
aiutando l’ascensione della sua anima verso il paradiso. Prese forma così una nuova economia
religiosa. Le chiese divennero lentamente un luogo collettivo di culto delle memorie familiari, un

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

luogo di intensa mediazione fra il regno dei vivi e quello dei morti, dove preghiera e ricordo
univano i due mondi in un unico sistema di salvezza. Rispetto ai secoli precedenti, le azioni terrene
potevano modificare, almeno in parte, l'entità delle pene e delle ricompense nel regno celeste.
Questa pretesa di dominio assoluto degli uomini di Chiesa sulla vita dei laici si scontrò con
numerose altre forme di vita religiosa, classificate come eresie. La lotta antiereticale serviva a
definire meglio ciò che la Chiesa doveva essere. Le eresie erano le idee, le dottrine e i
comportamenti che negavano le basi della missione divina della Chiesa. Ciò che sappiamo delle
numerosissime correnti definite ereticali proviene solo da fonti ecclesiastiche. Il problema è che
queste eresie erano ricostruite non tanto secondo le reali parole delle persone condannate, ma
secondo gli schemi culturali e le fonti dottrinali di chi indagava e di chi scriveva. Di certo, sappiamo
che già nei decenni centrali del secolo XI comparvero una serie di movimenti religiosi di ispirazione
pauperistica, che contestavano le strutture ecclesiastiche in nome di un ritorno allo spirito e alla
lettera del Vangelo. Alcuni di questi movimenti negavano il battesimo, il valore della croce come
simbolo di Cristo, la dottrina della Chiesa, negavano l'eucaristia e i santi oppure si astenevano dal
cibo e praticavano la castità. Questi fenomeni di ascetismo religioso testimoniano l’ampia
circolazione dei temi monastici della povertà, del rifiuto della carne e del ritorno a un modello di
vita evangelico; ma mostrano anche la pericolosità di queste ricerche individuali di una purezza
originaria, una volta slegate dai riti ufficiali della Chiesa. Colpiva in particolare il rifiuto dei
sacramenti accompagnato spesso da una resistenza accanita alle richieste economiche delle
chiese, come le decime dei raccolti e i beni dei laici. Questi movimenti attaccavano la Chiesa in
quanto istituzione, non la dottrina cristiana in sè. Le eresie del secolo XII rafforzarono questa
immagine. Numerosi furono infatti i movimenti scoperti e condannati come eretici che
rivendicavano con forza la loro natura di veri cristiani contro la chiesa corrotta e potente. Eretici
divennero tutti quelli che rifiutavano la mediazione della Chiesa, rivendicando un rapporto diretto
con Dio e con lo spirito santo; ma eretici furono definiti soprattutto tutti quelli che rifiutavano di
obbedire ai precetti della Chiesa, continuando a praticare scelte di vita religiosa vietate. Valdo o
Valdesio di Lione era un mercante al servizio del vescovo di Lione, aveva fondato una comunità di
ispirazione pauperistica, dove predicava e leggeva il Vangelo tradotto in volgare. In un primo
momento, Valdo cercò e ottenne l’approvazione del papa, che gli impose di non predicare il
Vangelo. Valdo rifiutò di obbedire e per questo fu scomunicato come eretico nel 1184. Il vero
reato consisteva nel disobbedire a un ordine di Roma. Diverso si presenta invece il caso delle sette
dualiste conosciute sotto il nome di catari, che forse significa puro. A queste sette si attribuiva una
dottrina apertamente non cristiana: un dualismo di fondo, che riconosceva due principi, il bene e il
male come coesistenti in conflitto continuo tra di loro. Nella sua forma radicale questo dualismo
intendeva la vita terrena come una forma di purificazione continua dalla materialità del corpo fino
all'autoconsunzione e al suicidio assistito. Ai catari si attribuisce una natura istituzionale di vera
antichiesa. In alcune fonti di parte cattolica si ricorda l'esistenza di chiese catare locali, organizzate
sul modello cattolico, con vescovi e preti divisi per diocesi, e addirittura un papa venuto
dall'Oriente. Il catarismo venne visto come espressione di un disegno diabolico esterno alla
cristianità, da estirpare senza esitazione con la violenza. La diffusione del credo cataro sembra sia
stata particolarmente intensa nei centri urbani, tra artigiani e lavoratori che contestavano
apertamente la Chiesa cattolica. Di certo, la repressione più violenta colpì veramente migliaia di
persone classificate come eretiche. La legislazione antiereticale fu gradualmente inasprita con la
messa in opera di un sistema di controllo e di punizione che coinvolse direttamente i laici. Ne è un
esempio lampante la decretale di Lucio III Ad abolendam, preparata insieme all'imperatore

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

Federico Barbarossa di 1184. In prima battuta si colpirono tutte le eresie; in secondo luogo il vero
reato degli eretici è la presunzione di predicare dopo una proibizione. L'eresia è in primo luogo
disobbedienza. Contro queste persone un semplice sospetto era sufficiente a portarle davanti al
vescovo per discolparsi pubblicamente. La ricerca dei sospetti era infatti affidata al vescovo che
doveva indagare nelle parrocchie, una o due volte l'anno, per scoprire i possibili eretici. Il dovere di
denunciare i sospetti ricadeva su alcune persone degni della parrocchia, una sorta di informatori
del luogo. Infine le autorità laiche erano incaricati dell'esecuzione materiale delle sentenze su
convocazione dell'autorità ecclesiastica: i meccanismi di autocontrollo dei parrocchiani
individuano e denunciano i sospettati, giudicati dai vescovi e puniti dai poteri laici che dovevano
inscrivere la lotta all'eresia nei loro compiti fondamentali. In un'altra bolla papale, la Vergentis in
senium del 1199, l’eresia fu equiparata a un reato di lesa maestà, che nel diritto imperiale romano
era severamente punito con la morte. L'eretico doveva essere quindi scomunicato, isolato, privato
dei beni e della possibilità di fare testamento. La fantasia linguistica dei giudici produsse
moltissime metafore sulla presenza pericolosa degli eretici; prevalse l'immagine medica, dove il
sacerdote, medico dell'anima, scopre la malattia, il cancro dell'eresia e opera con decisione per
salvare il corpo: deve tagliare la parte malata. La Chiesa dei secoli XI e XII fece la medesima scelta:
l’eretico andava sterminato da parte dell’autorità pubblica. Si doveva dunque legittimare la
violenza giusta e disciplinare gli uomini armati che monopolizzavano l'arte della guerra.
La guerra, la Chiesa, la cavalleria
Dalla fine del X secolo l'assenza di una forte autorità centrale era stata avvertita dagli ecclesiastici
come un pericoloso vuoto di potere, un elemento di disordine che liberava una violenza
incontrollata e senza limiti. Tra X e XI secolo alcuni vescovi tentarono di frenare questa violenza, di
incanalarla verso un uso legittimo della forza, sottoposto al controllo etico degli uomini di chiesa e
a quello politico delle autorità laiche. Nel corso della seconda metà del secolo XI si assiste a un
ampio processo di legittimazione della guerra da parte dei pontefici di Roma. Sulla spinta di questa
sacralizzazione della violenza contro i nemici della chiesa, il tradizionale pellegrinaggio verso i
luoghi santi subì un'improvvisa torsione bellica: invece di partire per pregare sul Santo Sepolcro,
quattro armate partirono per combattere. Il pellegrinaggio si trasformò in guerra santa. Nacquero
nuovi stati cristiani nell’Oriente musulmano e nuove forme di unione di vita religiosa e vita
militare: gli ordini monastici cavallereschi, esperimento ultimo dello sforzo della cultura
ecclesiastica di creare un modello di cavaliere che combattesse per la salvezza della Chiesa.
Tentativo poco efficace sul piano del disciplinamento delle clientele militari, così poco disposte a
sottomettersi a Dio, figuriamoci a un signore unico .Lo strato alto del ceto militare, quello che
aveva maggiore disponibilità di beni e di uomini fedeli, cercò di rispondere con una rinnovata
concezione dei doveri impliciti nel legame di vassallaggio: aumentarono le occasioni di sequestro
del bene concesso in caso di disobbedienza, fu imposta ai vassalli una fedeltà esclusiva e un
impegno a non attaccare il proprio signore. Anche la diffusione di modelli letterari di cavalieri
ideali contribuì a rafforzare l'idea di una comune appartenenza a un ceto eletto. Il mondo
composito dei militari non si chiuse in una classe nobile esclusiva e impenetrabile; rimase un
gruppo mobile, contraddistinto dall’uso professionale delle armi. La differenza non era ancora fra
nobili e non nobili, ma fra signori potenti e signori meno potenti.

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

Il controllo della violenza e le paci di Dio


Nelle cronache dei secoli X e XI, quasi tutte redatte da religiosi o in monasteri, il tema della
violenza di una milizia senza regole, si fa prepotente. I racconti mettono sotto accusa non solo i
barbari del nord e dell'est, ma anche i “mali cristiani” che attaccano e saccheggiano le chiese,
usurpano le terre, uccidono i contadini dei monasteri, rapinano le chiese che dovevano
proteggere. Dietro queste narrazioni si cela una profonda esigenza di ordine e una strategia di
difesa di lunga durata .L'azione di pacificazione aveva connotati più concreti, molto lontani
dall’universalismo carolingio. Lo si è visto già nei primi concili delle cosiddette paci di Dio. Le “paci”
o “tregue” erano riunioni di vescovi di una o più diocesi che disponevano la sospensione delle
violenze in nome di Dio: si faceva divieto di portare armi, attaccare battaglia, molestare i poveri e
invadere le chiese. In queste assemblee miste di laici ed ecclesiastici si ordinava la sospensione
dell'attività bellica in momenti e in spazi determinati, in genere nei giorni del Signore o nei periodi
festivi. Le paci di Dio non sono più intese come una generica condanna della violenza, ma come
una difesa dei beni delle chiese dalle rapine degli aristocratici violenti e ribelli. Una difesa che, in
assenza di un re, era presa in carico da autorità laiche fedeli all'episcopato. Nei concili si affermava
quindi la presenza di un'autorità laica legittima che doveva amministrare la giustizia, far rispettare
la pace e usare una violenza lecita per proteggere le chiese.
La sacralizzazione della guerra e le prime crociate
Questa violenza militare regolata aprì la strada a un processo più ampio di inserimento della
guerra nella vita religiosa, o meglio di definizione di una dimensione religiosa della guerra come
difesa della fede e strumento di espansione della religione cattolica. Un processo che coinvolse
anche la figura del cavaliere e le funzioni del ceto armato. Si sviluppò, nei decenni successivi al
1050, un'intensa attività bellica per conquistare o liberare le regioni periferiche dell'Europa in
mano agli infedeli e agli eretici (tutte le forze locali che si opponevano in qualche modo alla chiesa
di Roma). I papi riformatori sostennero attivamente queste guerre, concedendo ai cavalieri non
solo privilegi spirituali, ma un vero e proprio statuto di combattente di Cristo. Nel 1063 papa
Alessandro II concesse una bolla di remissione dei peccati per chi partiva combattere in Spagna i
musulmani. Contro i Normanni, Gregorio VII schierò una milizia di San Pietro nel 1074, ma poi
furono gli stessi Normanni, una volta tornati alleati del papa, a riconoscersi come milites sancti
Petri. Gli appelli alle spedizioni militari sotto il vessillo di San Pietro si fecero numerosi sotto
Gregorio VII, che invitò nuovamente i principi cristiani a liberare il regno di Spagna, restituendolo
alla Chiesa di San Pietro. A più riprese invitò i milites a soccorrere i cristiani di Costantinopoli.
Combattere contro gli eretici e gli infedeli assunse una nuova dimensione religiosa: la qualifica di
soldato di Cristo si diffuse e venne concessa a molti principi laici che si impegnavano in conflitti
religiosi. Per questo tutti questi soldati meritavano una ricompensa nel regno dei cieli: ai morti in
battaglia in difesa della Chiesa, fu assicurato l'ingresso in paradiso.
Le spedizioni in Terrasanta
Per la ricerca di una perfezione nell'esercizio della violenza e dell'attività bellica, la Chiesa
predispose altri strumenti di inquadramento, a cominciare dalla concessione di indulgenze e della
remissione dei peccati per i morti nelle guerre di liberazione o nei pellegrinaggi armati. I
pellegrinaggi, come forma di devozione, ebbero uno straordinario successo nel secolo XI. Le folle
di pellegrini in movimento erano spinti da motivazioni diversissime. Inoltre, un ricchissimo
mercato di reliquie attivava da tempo una serie di circuiti locali di chiese e monasteri che

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

conservavano i resti dei santi o dello stesso Salvatore. Si scatenò una competizione internazionale
per accaparrarsi le reliquie importanti. Gli stessi principi laici parteciparono alla ricerca e alla
circolazione degli oggetti sacri. Il possesso delle reliquie, la difesa dei luoghi e delle vie di
pellegrinaggio furono importanti strumenti di legittimazione per un’aristocrazia militare in cerca di
un sistema ordinato di preminenze locali. Emersero così alcuni poli di attrazione religiosa, come ad
esempio San Giacomo di Compostela in Spagna, che attrasse presto le attenzioni dei cavalieri
francesi, i quali parteciparono alle spedizioni benedette dal papa, tra il 1060 e 1080, proprio per
proteggere il cammino di Santiago dalle incursioni dei Mori. Ma fu la via per Gerusalemme a
interessare maggiormente insiemi molto diversi di fedeli: il viaggio era pericoloso, l'ostilità di
alcuni gruppi musulmani impediva a volte di arrivare a destinazione e quindi il ricorso alla
protezione armata di soldati era relativamente diffuso; ed era un ricorso, ancora una volta,
benedetto dalla Chiesa. L'appello del pellegrinaggio a Gerusalemme fu lanciato da Urbano II
durante il concilio di Clermont nel 1095. Durante questa occasione si era tornati con insistenza sul
tema dell'inutilità e anzi della pericolosità della guerra fra i cristiani, incitandoli a combattere i
nemici della fede, i pagani in generale. Il papa offriva dunque l'indulgenza plenaria a tutti i
pellegrini intenzionati a partire. Fu questo il primo atto ufficiale di quelle che furono chiamate le
crociate. Ancora oggi il termine crociata indica una guerra a sfondo religioso da combattere senza
esitazioni e con una cieca fiducia nelle virtù salvifiche della fede. Nelle fonti del secolo XI il termine
ancora non esisteva e nemmeno l'idea. Nel 1095, durante il concilio di Clermont, il papa Urbano II
aveva confezionato una bolla con materiali ampiamente usati anche dai suoi predecessori: il
pellegrinaggio come penitenza, la necessità di proteggere i pellegrini anche con le armi, la
liberazione dei luoghi sacri dagli infedeli e la remissione dei peccati promessa ai morti in battaglia
per la fede. Nuova era l’inaspettata risposta all'appello papale, con la partenza di una serie di
spedizioni penitenziali e militari alla volta della città santa; le armate in realtà erano quattro e si
mossero in piena autonomia una con l'altra: i lorenesi, i cavalieri della Francia meridionale, i fedeli
del duca di Normandia e i contingenti dei Normanni d'Italia del sud. Tutti rispondevano al
medesimo appello: riaprire il pellegrinaggio verso il Santo Sepolcro e rivendicare i luoghi santi
come possesso della cristianità. Nella bolla non erano presenti appelli allo sterminio del nemico,
anche se la vendetta implicava chiaramente l'uso della violenza e la penitenza comprendeva la
guerra santa come via di salvezza. Non deve stupire, dunque, la coesistenza di fini religiosi e
militari all'interno della stessa spedizione. Dopo un lungo viaggio gli eserciti europei raggiunsero
Costantinopoli e, spinti dall’imperatore di Bisanzio, che li vedeva come un utile strumento per
riaffermare la sua presenza nei territori orientali occupati dai musulmani, iniziarono una lenta
discesa verso la Palestina. Una serie di fortunate campagne militari permise ai cavalieri europei di
conquistare numerose città importanti come Nicea e Antiochia, dove i gruppi militari si divisero;
alcuni, scoraggiati dalle condizioni durissime delle guerre in territori desertici, si ritirarono. Quelli
che decisero di arrivare a Gerusalemme dovettero organizzare un nuovo lungo assedio della città
che, dopo 5 settimane, nel 1099, entrarono dentro Gerusalemme, la quale fu luogo di eccidi e
saccheggi che durano almeno 15 giorni. Baldovino di Boulogne si fece incoronare re lo stesso
anno, mentre i territori conquistati negli anni precedenti furono organizzati in principati autonomi,
senza legami con i potenti del continente europeo. La prima crociata ottenne risultati
assolutamente non previsti e impose una presenza cristiana in Medio Oriente. Le successive
spedizioni non ottennero lo stesso successo: nel 1144, Luigi VII di Francia organizzò una seconda
spedizione, con la benedizione del papa e il concorso dell'imperatore Corrado III, ma finì in nulla di
fatto. Peggio ancora andò la terza crociata, successiva alla dura sconfitta inflitta ai latini ad Hattin

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

nel 1187 dal Saladino: l'imperatore Federico I morì attraversando un fiume; un’epidemia colpì
numerosi crociati; il re di Francia abbandonò la spedizione; mentre gli altri capi dovettero venire a
patti con il Saladino. Nel corso delle crociate presero vita alcuni ordini monastici di natura militare.
Si tratta di una creazione originale del primo secolo XII, che univa la preghiera e la vita monastica
con una difesa armata attiva della fede. Le origini affondano nel contesto crociato del
pellegrinaggio a Gerusalemme. I primi, con caratteri più volti all'assistenza, furono gli ospedalieri
di San Giovanni, che assistevano i pellegrini del Santo Sepolcro. I templari, fondati in Terrasanta
nel 1119, ebbero invece una connotazione più decisamente militare già nella fase iniziale. Otto
cavalieri giurarono davanti al patriarca di Gerusalemme di osservare i voti monastici, continuando
ad esercitare l'arte della guerra; si distinsero per la capacità di combattere e fondarono nei
decenni successivi numerose piazzeforti e castelli in Terrasanta. L'ordine ebbe uno straordinario
successo anche in occidente e inoltre si incaricarono di gestire le decime per la crociata che
ammontavano a cifre enormi .I componenti di tali ordini erano monaci -guerrieri, e una doppia
natura avevano anche le sedi dove si riunivano: monasteri -caserme, soggette al rispetto di una
regola religiosa. I militi di Cristo, al contrario della milizia secolare ( laica), impegnata in attività
belliche senza scopo, combattendo per la fede usavano una violenza non solo legittima ma
salvifica ,in grado appunto di assicurare la vita eterna al cavaliere. Questa attenzione ai valori della
guerra si tradusse nell’intervento attivo di monaci cistercensi nella fondazione di nuovi ordini
militari, soprattutto nelle zone di frontiera . In Spagna nacque nel 1158 l'ordine militare di
Calatrava, fondato dall'abate cistercense Raimondo di Fitero e, sebbene fu sconfessato, l'ordine
continuò a colonizzare zone di frontiera per anni. Nel 1202 un altro monaco cistercense, Dietrich,
radunò alcuni cavalieri tedeschi sotto l'ordine della milizia di Cristo di Livonia, attivo invece nei
paesi baltici. Contenere la violenza per difendere i luoghi sacri dall'attività predatoria della milizia
fu solo uno degli obiettivi delle chiese regionali nell'Europa dei secoli XI e XII. La forza militare
poteva diventare anche un elemento di stabilizzazione della società, o addirittura di salvezza e di
difesa della fede. Restava ugualmente irrisolto il problema di coordinare un ceto militare laico
molto fluido, che se in parte rispondeva a questi appelli religiosi, doveva vivere comunque in un
mondo dove i rapporti sociali e politici rispondevano a logiche diverse da quelle immaginate dagli
intellettuali ecclesiastici.
Da guerrieri a cavalieri: la disciplina del ceto militare
Nell'Europa dei secoli XI e XII furono essenzialmente due le vie tentate per inquadrare il ceto
militare in un ordine politico territoriale stabile. Il primo cercava di inserire i membri della milizia
in una rete di rapporti di fedeltà tendenzialmente gerarchica. Il secondo sistema era invece di
natura culturale e ideologica, e tendeva a imporre un modello di comportamento basato
sull’autolimitazione dell'azione violenta in base a un'etica propria del cavaliere. Si creò un
immagine letteraria del cavaliere ideale, diffusa nei romanzi e nei trattati cavallereschi, e si
elaborò anche una ritualità specifica del mondo cavalleresco in grado di individuare i tratti
unificanti di un ceto militare ormai distinto dal resto della società. L’addobbamento (il rito di
vestizione del cavaliere), il torneo, la vita di corte dovevano segnare l'appartenenza dei singoli
individui a un mondo cavalleresco che condivideva funzioni e modi di vita. Sotto questa patina
unificante, permanevano le differenze sociali ed economiche di un gruppo sociale tutt'altro che
omogeneo. La fedeltà militare, giurata durante l'investitura e resa obbligatoria dall'idea di servizio
armato in aiuto al signore, era spesso messa in secondo piano rispetto ai disegni di affermazione
personale dei cavalieri. Inoltre, specialmente nelle regioni della Francia, la fedeltà poteva essere

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

concessa a più signori contemporaneamente: il vassallo non avrebbe combattuto contro alcun
personaggio con cui aveva precedenti legami di fedeltà .Se contiamo che l'aiuto militare era a
tempo, durava in genere 40 giorni, è chiaro che radunare i propri fedeli equivaleva a mettere
insieme i pezzi di un puzzle quasi impossibile. Anche il modo di intendere il bene materiale
concesso in cambio della fedeltà, il beneficio, era cambiato. Il beneficio era sentito dai vassalli
come un bene proprio, che poteva essere trasmesso ai figli in eredità. Del resto questa stabilità dei
benefici era stata sancita anche dall'imperatore Corrado II, che per sedare la ribellione dei vassalli
a Milano, emanò nel 1037 un editto in cui oltre a rafforzare il ruolo di giudice dell'imperatore, si
stabiliva sia il divieto generalizzato di sequestrare i benefici dei vassalli senza giusta colpa sia la
possibilità di trasferire il beneficio in eredità per via maschile. Non sorprende che, col tempo, si
diffondesse anche la tendenza ad alienare i benefici con una vendita o una sotto- infeudazione che
sottraeva al signore la scelta del nuovo concessionario. Si arrivava in tal caso a una vera rottura del
legame di fiducia e di dipendenza tra il vassallo e il signore. Eppure la pratica di alienare o acquisire
feudi anche con il denaro si diffuse ovunque e interessava sia i feudi minori che quelli maggiori. In
Italia il legame tra servizio e feudo era ormai scisso del tutto: nei contratti scritti del primo secolo
XII non si faceva più cenno a un vero servitium .Il feudo era concesso come atto di benevolenza del
senior, dopo un generico giuramento di fedeltà del vassallo che conservava un'amplissima
disponibilità del bene, trasmissibile in eredità ai discendenti. I giuristi milanesi del secolo XII
attribuirono al vassallo un diritto quasi uguale a quello del proprietario. Si tratta di categorie
giuridiche non rigidissime, che cercavano di definire una realtà in movimento dove i
comportamenti delle persone avevano creato nuove regole che sfuggivano alle tradizionali
categorie di bene In concessione o di bene in allodio ( piena proprietà). La cultura giuridica non
poteva che prendere atto della raggiunta autonomia del vassallo e della natura prevalentemente
patrimoniale del feudo. Per contrastare la dispersione delle fedeltà e dell’ereditarietà dei benefici
furono inventate alcune regole di protezione dei diritti del signore, come la commise: il sequestro
del feudo in caso di disobbedienza ,pratica che permetteva di intervenire in maniera coercitiva
contro i vassalli infedeli, ma che provocava anche numerosi conflitti armati. Ricorrere alla
commise richiedeva una capacità militare in grado di piegare le resistenze del vassallo e un
prestigio riconosciuto dagli altri vassalli della curia che dovevano giudicare il loro compagno
infedele. Più diffuso era il ricorso al feudo ligio, una fedeltà privilegiata che si doveva a un signore
in particolare ( tentativo di gerarchizzare le fedeltà). Funzionò anche una clausola di riserva
negativa, giurata dal vassallo di non combattere contro il proprio signore. Alla base dei rapporti
feudali restava ancora, fortissima, la natura contrattuale e reciproca del fatto. Anche in caso di
concessioni di terreni in feudo, la natura del feudo era legata più al modo di intendere la relazione
fra i due contraenti che al carattere giuridicamente definito del feudo. La giustizia dei secoli XI e XII
ricoprì essenzialmente questa funzione di redistribuzione concordata, dove i giudici, ormai
sostituiti dai vassalli dei signori superiori, dovevano garantire l'applicazione del nuovo patto
raggiunto nel corso del processo e mostrare a tutti, soprattutto al perdente, la forza di
persuasione del signore giudicante. Ma la sentenza raramente assegnava un bene interamente a
uno dei due litiganti. Più spesso si operava una compensazione fra le due parti: nessuno doveva
vincere o perdere troppo, perché, per quanto forte fosse la posizione del signore, era sempre
meglio tenere l'approvazione del perdente al giudizio espresso nel processo. Non si arrivò mai a
costruire uno schema piramidale di fedeltà che dal basso sale verso l'alto per finire con il re.
Questa è un'immagine tarda e in buona parte inventata (assai diffusa nei manuali scolastici) per
dare spessore al tentativo dei re di imporre un ordine da sempre esistito.

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

L’ideale cavalleresco e la socialità di corte


Le èlite ecclesiastiche e laiche dovevano controllare le masnade militari irruente e pronte allo
scontro armato. L'invenzione letteraria di un’etica cavalleresca poteva servire a questo scopo. I
romanzi cavallereschi propagandarono un'immagine idealizzata del cavaliere, che si sceglieva
nemici più forti, prepotenti, violatori delle chiese e persecutori dei deboli. Il cavaliere li cercava e li
affrontava come prova di un percorso di ricerca della propria identità. Il cavaliere era uno status
che aveva riti di entrata e modelli di comportamento sempre più codificati nel corso del secolo XII.
In particolare il cosiddetto addobbamento, il rito di entrata nella cavalleria, con la consegna delle
armi da parte di un signore superiore, il giuramento, la veglia in chiesa, veniva esaltato come un
momento di passaggio e di trasformazione del cadetto in cavaliere, del ragazzo in uomo, del milite
errante in crociato. L’addobbamento era un rituale giuridico e sociale che metteva in moto una
serie di meccanismi a catena: ricevere le armi segnava la sua legittimità come erede e questo
nuovo status provocava spesso la reazione negativa dei parenti prossimi che potevano condividere
quote di quel bene o dei signori vicini che avanzavano pretese su di esso. Questo di solito poteva
alimentare una lunga serie di guerre di successione, guerre che a loro volta generavano uno stato
di conflitto regionale che andava tenuto sotto controllo. Per questo, durante l’addobbamento,
intervenivano spesso i principi locali e loro masnade di alleati. La parata dei cavalieri serviva a
indicare a tutti l'entrata del giovane cavaliere in una rete di alleati potenti che facevano capo a un
principe. e serviva al principe addobbatore per legare a sè il giovane armato, mostrando
pubblicamente da chi aveva ricevuto l'onore delle armi, o meglio la capacità di difendere con le
armi il proprio onore, parola che aveva ancora un significato prettamente patrimoniale: honor è la
terra, il feudo, il patrimonio. L’addobbamento era un primo passo, ma poi ne dovevano seguire
altri: l'esaltazione del valore personale e della forza da sfogare in momenti ludici, come i tornei,
ritualizzando una violenza brutale e distruttiva; e una maggiore solidarietà tra fedeli dello stesso
signore da rafforzare in rituali di corte. L'invenzione di un’etica del cavaliere poteva servire a
indicare un modello di comportamento, ma le guerre feudali non avevano nulla di eroico. Forse
come rimedio parziale a questi elementi negativi, si svilupparono forme embrionali di
combattimenti ristretti a pochi campioni, che non coinvolgevano l'esercito intero. Sono scontri
limitati e sottoposti a regole condivise, ricordati nelle cronache, quando sfumarono sempre di più
in una rappresentazione ritualizzata della battaglia da giocare in occasioni pubbliche: i tornei. Il
torneo, sul piano simbolico, consentiva di mostrare il valore individuale come uomo d’armi in un
combattimento singolo; sul piano sociale, si poneva come punto di incontro dei cavalieri di livello
diverso in un rito che aumentava la socialità interna; sul piano politico serviva al signore per
affermare la sua capacità di coordinare le forze militari nel proprio territorio, riuniti in una
corte. Alcuni vedono nella graduale emersione di un ordine militare l'affermazione di un ceto
nuovo, formato da guerrieri di umile origine, innalzati socialmente dalla valorizzazione delle
attività militari; altri invece sminuiscono gli elementi di rottura, per far risaltare le continuità della
preminenza del ceto militare già dall'età carolingia. Sul piano militare il termine miles indica
chiaramente un combattente a cavallo, contrapposto ai pedites ( fanteria a piedi) e ai rustici ( i
contadini). Identifica, in altre parole, un ceto superiore, dotato di forza militare e di potere di
coercizione. Al suo interno il ceto degli uomini armati costituiva un gruppo sociale molto variegato.
Lo strato superiore era composto dai grandi aristocratici discendenti dell'elite carolingia. Lo strato
inferiore era occupato dai vassalli minori, custodi di castelli, giovani scudieri in attesa di
promozione. Era un ceto composito e multiforme in grado di rivestire più funzioni oltre quella

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

militare: erano anche amministratori, funzionari di signori potenti, dislocati nelle corti periferiche
o in città. Si trattava di un gruppo mobile e molto instabile, pronto a rivendicare i diritti sui benefici
ricevuti e a ricercare una maggiore libertà d'azione. Per questo andava a stabilizzato. In alcune
regioni, come quelle tedesche, al servizio armato accedevano anche i ministeriali, uomini armati di
condizione quasi servile. Difficile dire se l'addobbamento e il titolo di cavaliere fossero sufficienti a
garantire l'ingresso nell’aristocrazia di un ceto basso, nobilitato dall'esercizio delle armi. Che
esistessero casi di ascesa eccezionale di modesti milites fino alle sfere più alte del servizio armato
non vi è dubbio; ma sono ascese lente, costruite grazie a un'attenta scelta dei signori più disposti a
cedere benefici e a una politica matrimoniale altrettanto fortunata. È invece da escludere che
l’addobbamento fosse una soglia di ingresso nella nobiltà. Le condizioni sociali non cambiano con
un rito, semmai il rito segna la fine di un percorso individuale di promozione coronato dal
successo. Cavalleria e nobiltà, almeno fino alla metà del secolo XIII, non coincidono; se la gran
parte dei nobili faceva parte della cavalleria, non tutti i cavalieri erano nobili. La signoria era il
quadro di affermazione del ceto militare.

Il dominio signorile
I secoli X e XI in tutta l'Europa furono teatro di un mutamento profondo delle forme di potere: si
indebolì la capacità regia di controllo, si frammentano i distretti affidati a conti e marchesi, le
chiese e le dinastie aristocratiche costituirono poteri locali autonomi, signorie di piccole e
piccolissime dimensioni. Le signorie non erano poteri concessi dal re ai suoi fedeli, ma costruzioni
politiche dal basso. I poteri signorili partivano dalla terra, dal grande possesso fondiario: solo chi
era ricco di terra aveva le risorse per imporre il proprio dominio sui vicini più deboli.
Un potere senza delega: terre, castelli, clientele
I protagonisti del mutamento furono i signori, ma con questa parola ci riferiamo sia alle dinastie,
sia alle chiese, che in questi secoli furono caratterizzate dall'efficacia locale e dalla piena
autonomia dal controllo regio. Ogni signoria segui una storia a sé, ma gli elementi furono in linea
di massima gli stessi: terre, castelli e clientele rappresentarono le fondamentali basi dei nuovi
poteri signorili. Nell'altomedioevo, fino al XII secolo, essere ricchi significava prima di tutto essere
ricchi di terre: la circolazione monetaria era debole e discontinua. La terra serviva per mantenere
uno stile di vita aristocratico (cavalli, armi, abbigliamento…), ma anche per legare a sè una
clientela di fedeli ( i benefici dei vassalli erano in linea di massima fatti di concessioni fondiare);
con le concessioni di terra si esprimeva la propria devozione nei confronti delle chiese, ottenendo
preghiere per la propria anima. Le terre avevano un'importanza economica, una rilevanza sociale e
un efficacia simbolica. Tutto ciò subisce però una distorsione importante nelle fonti che ci sono
giunte: le transazioni fondiarie erano le azioni più sistematicamente registrate per iscritto. La
rilevanza sociale della terra era alta già in età carolingia: il potere regio riusciva a coordinare
efficacemente l'autonomia aristocratica, ma al contempo si attuò una vera e propria
polarizzazione della società locale attorno ai grandi possessori, con i contadini che cercavano di
ottenere dei vantaggi economici (terra da coltivare), ma anche protezione, in un contesto in cui la
pace garantita dal re era comunque incerta e discontinua. Le curtes erano frammentate e disperse
in molti villaggi. La terra assunse un ulteriore rilevanza sul piano sociale quando il coordinamento
regio venne meno, quando chiese e dinastie poterono tradurre con grande libertà la propria
eminenza economica in potere signorile. La giustizia regia era lontana, il conte non interveniva più

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

all'interno di tutti i villaggi: i contadini si trovarono così a cercare protezione nell'unico potente
con cui erano in rapporto, ovvero il proprietario della terra che coltivavano. Era un rapporto
economico, di scambio tra terra e lavoro, ma c'erano tutte le premesse perché si evolvesse in un
rapporto di più completa sottomissione. Questo avvenne quando il signore costruì castelli e
raccolse clientele armate: fu questa forza militare a consentire il salto di qualità, il passaggio da
una dominazione del grande proprietario sui contadini che coltivavano la sua terra, e quella di un
signore sui suoi vicini: una dominazione più ampia che emulava le prerogative e i compiti del
potere regio (giustizia, protezione, fisco); in altri termini, questa capacità di azione militare
aristocratica avviò la trasformazione dei contadini in sudditi dei signori. Il potere signorile trovò la
propria base nel castello, ma occorre capire perché nel contesto dei secoli X e XI un'azione di
contenuto essenzialmente militare come la costruzione di un castello avesse forti implicazioni
politiche. Da tempo si è accantonato una lettura tradizionale, che vedeva nelle incursioni ungare e
saracene il fattore scatenante dell'incastellamento; ma si è potuto constatare come non ci sia una
corrispondenza geografica e cronologica tra le incursioni più minacciose e le fasi di
incastellamento più intense. Inoltre, se l'incastellamento fosse nato solo per difendersi da Saraceni
e Ungari, non potremmo spiegare la persistenza dei castelli dopo la fine delle incursioni, nella
seconda metà del X secolo: castelli semplici, fatti perlopiù di terrapieni e palizzate in legno,
sarebbero scomparsi nel giro di pochi anni se non ci fosse stato un continuo lavoro di
manutenzione, ovvero se non avessero risposto alle esigenze permanenti della società locale ,vive
anche dopo la fine delle incursioni. Occorre vedere nel castello un passaggio del processo che
permise di trasformare la superiorità economica dell'aristocrazia in una forma di dominio sulla
società circostante. E per questo dobbiamo partire dal contesto: le incursioni saracene e ungare
non furono la causa dell'incastellamento, ma la conseguenza della debolezza militare del re e della
sua incapacità di garantire sicurezza e pace sociale. Per la prima metà del secolo X si sono
conservati i diplomi regi che autorizzavano chiese, signori o comunità a costruire castelli, per
difendersi. Sono fonti importanti, che mettono in luce diversi meccanismi: la presa d'atto regia
della propria incapacità di proteggere tutto il territorio; il riconoscimento di una legittima iniziativa
militare di altri attori politici; la presenza di una violenza diffusa, di una minaccia alla pace sociale
che derivava anche dai comportamenti dei cattivi cristiani, ovvero membri della stessa
aristocrazia. Non è il castello autorizzato dal re che in quanto tale diventa centro di potere; ma è
piuttosto qualunque castello, nato per iniziative e su basi diverse, a divenire luogo di esercizio
della giurisdizione, e quindi a essere legittimato dalla sua stessa efficacia. Se il regno non poteva
proteggere i suoi sudditi, questi dovevano cercare protezione dove la potevano trovare: nelle città
ci si raccolse in genere attorno ai vescovi; nelle campagne furono i grandi possessori fondiari ad
avere le risorse e l'interesse a costruire un piccolo apparato militare, un sistema di fortificazioni e
di uomini armati. Per questo furono fondamentali i castelli: un meccanismo politico e mentale di
lungo periodo che portava a riconoscere come potere legittimo chi era in grado di proteggere .Nel
secolo XI attorno ai castelli si sviluppa un processo di coinvolgimento e sottomissione della
popolazione circostante. Chi trovava protezione nel castello aveva rapporti molto diversi con il
signore, dalla piena dipendenza dei servi fino all'estraneità dei vicini; ma il castello permise di
creare e intensificare questi rapporti. La possibilità per i vicini di rifugiarsi nel castello fu la base
per imporre loro alcuni servizi, a partire dai turni di guardia e dalle corvèes per la manutenzione
del castello. Questo diede vita a un rapporto di scambio tra protezione e servizi, e più In generale
si affermò in modo concreto ed evidente la capacità del signore di sostituire il potere regio nel
difendere la pace. Proprio nel secolo XI si affermò la centralità della cavalleria, prima dal punto di

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

vista militare, poi da quello sociale. Sono questi gli armati di cui un signore aveva veramente
bisogno: persone specializzate, ben equipaggiate, in grado di combattere a cavallo e quindi di
contrastare i signori concorrenti e di prevalere sui contadini appiedati e male armati. Due erano gli
ambiti in cui i fedeli del signore dovevano esercitare la propria forza: da un lato combattere i
potenti vicini, che minacciavano i beni del signore; dall'altro lato minacciare gli stessi sudditi,
ottenere la loro obbedienza e il pagamento di quanto dovuto. Protezione e minaccia
convergevano nelle stesse mani, che proteggevano e minacciavano le stesse persone. Per
coordinare queste bande armate i signori si servivano prima di tutto dei legami vassallatici: la
natura fondamentale di questo rapporto non era mutata, ma si erano arricchite le sue funzioni
sociali e politiche. I decenni tra X e XI secolo furono segnati da un ulteriore evoluzione dei rapporti
vassallatici .In questa fase possiamo vedere nei rapporti vassallatici la principale forma di
“coesione gerarchizzata” all'interno dell'aristocrazia militare: “coesione”, perché il legame
vassallatico creava un sistema di solidarietà personale che vincolava sia il vassallo nei confronti del
signore, sia il signore nei confronti del vassallo, sia i vassalli di uno stesso signore tra di loro;
“gerarchizzata”, perché tutte le trasformazioni del vassallaggio non arrivarono mai a cancellare
l'idea della superiorità del signore. Il vassallaggio era sempre prima di tutto l'atto cerimoniale con
cui il vassallo riconosceva di essere inferiore. Questo non significa in che in questi secoli si
definisce la cosiddetta piramide feudale. Non c'era nessun ordine precostituito. Da tempo gli
storici hanno scelto di sostituire l'immagine della piramide con quella della rete. Anche questa
immagine ha dei difetti perchè tende a suggerire una realtà ordinata e paritaria di legami tra
eguali, ma resta migliore della piramide, perché mette in rilievo sia la marginalità del re, sia la
fondamentale funzione del vassallaggio come struttura di coesione sociale, sia verticale sia
orizzontale. Per le dinastie impegnate a costruire poteri signorili locali, i rapporti vassallatici
rappresentarono un importante integrazione, in due direzioni opposte: riunendo attorno a sé dei
vassalli, i signori poterono costituire la propria forza armata, garantirsi la capacità di proteggere e
di minacciare i sudditi; ma al contempo, diventando vassalli di figure più potenti ,i signori
potevano integrare la propria base fondiaria, grazie ai benefici spesso cospicui che potevano
ottenere. Vediamo quindi che il vassallaggio non era il fondamento necessario di ogni potere
signorile, ma questi legami intervenivano in modo importante a integrare due basi fondamentali
del potere dei signori, ovvero la loro ricchezza fondiaria e la loro capacità militare.
La formazione dei poteri signorili
Il punto di partenza del processo di sviluppo signorile è rappresentato dalla struttura del potere in
età carolingia, fondata sul controllo delegato dal re ai suoi ufficiali, conti e marchesi, a cui spettava
la giurisdizione su un territorio ampio e abbastanza uniforme. Il punto di arrivo è, nel secolo XI, la
trasformazione territoriale dei distretti comitali e marchionali: i confini dei distretti perdettero
rilievo, il potere si proiettò su quadri sociali e territoriali molto piccoli, costruiti sulla base della
concreta capacità di azione delle singole dinastie signorili. Si pone quindi l'esigenza di
comprendere in che modo gli ufficiali regi partecipassero a questo processo e in che misura la loro
identità politica si assimilasse a quella dell'insieme dell'aristocrazia signorile. Conti e marchesi non
furono i difensori dell'ordinamento regio, in opposizione alle spinte signorili; furono invece
pienamente parte del mutamento. L’attenuarsi della capacità regia di controllo lasciò maggiore
spazio all'iniziativa autonoma delle dinastie di conti e marchesi. Da questo punto di vista bisogna
distinguere tra l'Italia e gli altri regni di tradizione carolingia. Nella maggior parte del regno italico
le dinastie di tradizione funzionariale svilupparono poteri analoghi alle altre famiglie signorili; in

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

Francia, in Borgogna e in Germania poterono invece sviluppare veri e propri principati territoriali,
che erano molto più ampi e strutturati delle normali signorie di castello. In Italia in linea generale
conti e marchesi non riuscirono a controllare l'insieme del distretto, ovvero non trasformarono il
comitato o la marca in un dominio dinastico autonomo; costituirono invece poteri signorili sulla
base delle proprie terre, castelli e clientele. Il potere delle famiglie di conti era spesso più ampio di
quello di una normale dinastia signorile, univa molti castelli e questo avveniva perché i conti erano
al vertice dell'aristocrazia locale ed erano più ricchi delle altre dinastie. Ma questa era
semplicemente una differenza dimensionale e non qualitativa. Se quindi ci concentriamo sulla
realtà italiana, l'unica vera differenza qualitativa era nei titoli: i documenti fanno riferimento ai
signori con il titolo di dominus, mentre i discendenti dei conti e dei marchesi continuavano a usare
i titoli che richiamavano le funzioni un tempo ricoperte dai loro antenati (comes) per affermare la
propria maggiore legittimità a esercitare il potere. L'aristocrazia funzionariale e i grandi possessori
si assimilarono progressivamente e giunsero a risultati analoghi: dominazioni patrimonializzate,
fondate sul concreto controllo di terre e persone, organizzate attorno alle fortificazioni. Questa
similitudine derivò da una forma di imitazione reciproca: i grandi possessori imitarono i poteri
pubblici e si impossessarono del potere di giudicare ,delle imposte pubbliche, del controllo militare
del territorio; i conti imitarono invece la capacità signorile di agire direttamente sulla società
locale, la capacità di fondare il potere su basi materiali come le terre e i castelli. L'esito fu una
società rurale organizzata attorno a una moltitudine di dominazioni signorili che condividevano la
capacità di unire poteri di matrice diversa: ai tradizionali rapporti di dipendenza economica e
personale che univano i contadini ai grandi proprietari fondiari, si erano aggiunte sia le concrete
protezioni armate imposte dal signore, sia giurisdizioni e imposte di tradizione pubblica. All'interno
dei singoli villaggi questi poteri e i prelievi erano condivisi e spartiti tra diversi signori. Dobbiamo
considerare che le basi fondamentali del potere signorile avevano una proiezione sul territorio
molto diversa: da un lato il castello era un efficace forma di difesa per tutte le persone che
vivevano abbastanza vicine per rifugiarvisi, e la sua efficacia si estendeva quindi omogeneamente
al territorio circostante; il patrimonio fondiario di un signore era invece normalmente
frammentato e disperso, e all'interno di un singolo villaggio coesistevano patrimoni di diverse
chiese e dinastie aristocratiche. I signori cercavano prima di tutto di trasformare i propri contadini
in sudditi, ovvero di creare un potere ricalcato sul proprio patrimonio fondiario; al contempo, chi
aveva costruito un castello lo usava per cercare di sottomettere l'intera popolazione dell'area
circostante. Questo diede vita a conflitti tra diversi signori, tra chi controllava un castello e chi
disponeva di un grande patrimonio fondiario nei pressi di quel castello. Ma ne derivarono
soprattutto forme di convivenza e di spartizione del potere signorile all'interno dei singoli villaggi,
spartizioni diverse da luogo a luogo, modellate sui concreti equilibri tra i diversi signori. Così,
all'interno di una signoria organizzata attorno a un castello e proiettata sul territorio circostante
(signoria territoriale), convivevano signorie minori, costruite sul patrimonio fondiario dei signori e
sul controllo dei contadini che lo coltivavano (signorie fondiarie); alcune tasse andavano al signore
territoriale, altre al signore fondiario, e analogamente erano spartiti i diritti di giustizia, con il
signore di castello che si riservava il diritto di giudicare delitti più gravi. Ma spesso la spartizione
era ben più complessa, con accordi che andavano a definire i singoli diritti. Un ulteriore elemento
di complessità derivava poi dal fatto che questi poteri signorili erano considerati come parte del
patrimonio del signore, e quindi subivano gli esiti delle spartizioni ereditarie, delle vendite, delle
concessioni in pegno, come qualunque altro bene. Ciò che viene ceduto non è l'insieme dei poteri
su villaggio, ma un singolo diritto, il prelievo di una specifica imposta. L'esito è un quadro di

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

altissima frammentazione del potere, per cui non esisteva un singolo signore del villaggio, ma di
fatto ogni contadino si trovava a pagare diverse imposte a diversi signori.
Chiese potenti e chiese private
Ogni discorso condotto fin qui sui poteri signorili si può applicare sia alle dinastie aristocratiche, sia
alle grandi chiese. Al di là delle fonti, chiese e dinastie presentano alcune importanti differenze
nella propria azione politica locale. Dobbiamo prima di tutto ricordare come le chiese fossero
punti di fortissimo addensamento fondiario: i laici donavano le proprie terre alle chiese per
garantirsi le preghiere. C'era quindi un flusso quasi continuo di beni, soprattutto di terre, dai laici
alle chiese, patrimoni che non subivano poi gli stessi processi di frammentazione e dispersione,
dato che non subivano divisioni ereditarie e al contempo il diritto canonico non permetteva alle
chiese di vendere i propri beni. Questi patrimoni erano quindi connotati da un lungo processo di
accumulo. Proprio qui vediamo che le chiese facevano le stesse cose delle dinastie, usando le terre
per legare a sè i contadini e i cavalieri, ma lo facevano con mezzi maggiori perchè avevano più
terre da redistribuire e quindi da usare in senso politico .Un altro elemento importante è
rappresentato dall' immunità: non era una concessione di potere, piuttosto una larga esenzione
fiscale e una tutela dei beni delle chiese, un ambito in cui gli ufficiali regi non potevano intervenire.
La capacità di ottenere il controllo dei sudditi tramite la violenza e la minaccia era in larga misura
condivisa da dinastie e chiese, che compivano e soprattutto facevano sistematicamente compiere
atti di violenza nei confronti dei propri concorrenti e dei propri sudditi, la cui intimidazione
violenta era un passaggio normale e necessario per la riaffermazione del dominio signorile. Le
chiese non erano solo protagoniste dello sviluppo signorile, ma anche strumenti di questo
sviluppo: erano infatti molte le cosiddette chiese private, enti religiosi fondati e controllati da una
dinastia o da un'altra chiesa. Occorre però distinguere tra monasteri e chiese in cura d'anime e
condurre due discorsi parzialmente distinti. La definizione di chiese in cura d'anime comprende
tutti quegli enti religiosi la cui finalità era quella di officiare i culti destinati ai laici, dalle cattedrali
cittadine fino alle piccole chiese di villaggio. Nell'alto Medioevo, il sistema dominante era quello
delle pievi: erano le articolazioni della diocesi, chiese create dai vescovi e destinate a guidare la
cura delle anime di un gruppo più o meno ampio di villaggi. Ciò che davvero le connotava era
prima di tutto la presenza del fonte battesimale: la pieve era il passaggio obbligato per i nuovi nati.
Al fianco delle pievi c'erano molte chiese e cappelle minori in tutti i villaggi che rappresentavano il
luogo di normale frequentazione dei riti religiosi, i luoghi in cui la società locale si riuniva
regolarmente. Queste chiese nascevano spesso dall'azione dei signori, che procedevano sia a
costruire l'edificio, sia a garantire al suo interno la presenza di chierici. Le ragioni di questa azione
signorile sono diverse e in parte si possono ricondurre al tentativo di mettere le mani su una quota
della decima, l'imposta dovuta da tutti e destinata a garantire il mantenimento del clero. La chiesa
era il centro della vita sociale locale anche per trattare le questioni pratiche che coinvolgevano la
collettività ( gestione dei pascoli, delle acque etc..). L’atto di costruire e proteggere la chiesa era
per il signore un modo per impadronirsi di uno dei centri simbolici della società locale .Quindi il
signore oltre che garantire la sussistenza di molti contadini e la loro relativa sicurezza, garantiva
anche un normale accesso al sacro. Un discorso diverso deve essere condotto per quanto riguarda
i monasteri privati. Per molti monasteri, l’atto di nascita è rappresentato dall'iniziativa di un
aristocratico, che oltre a fondare il monastero su una terra di sua proprietà, istituiva la comunità di
monaci, nominava l’abate, trasferiva in loro possesso un'enorme quantità di beni fondiari e
riservava a sé e ai propri discendenti il diritto di nomina dei futuri abati; mentre i monaci presero

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

l'impegno di pregare per la salvezza dell'anima dei fondatori e per una serie di parenti
attentamente elencati. Per un laico quindi fondare un monastero era un modo efficace per
ottenere importanti benefici spirituali. La fondazione aveva anche un'importanza materiale: il
monastero privato poteva infatti avere una funzione di riserva patrimoniale sicura per il signore e i
propri discendenti, poteva essere un ente a cui affidare quote importanti delle proprie ricchezze
nella sicurezza che il monastero non avrebbe potuto alienarle e che la famiglia del fondatore ne
avrebbe avuto sempre ampia disponibilità, grazie al controllo sulla nomina dell'abate. Ma a lungo
termine questa prospettiva ebbe successo in pochi casi, alcuni monasteri a partire da secolo XI si
svincolarono dal controllo dei laici e spesso usarono il patrimonio per le proprie specifiche
politiche. Uno dei primi impegni dei monaci era quello di pregare per la salvezza dell'anima del
proprio fondatore e del suo gruppo familiare. L'atto di fondare un monastero era per il signore
anche un'azione tramite cui dare forma alle proprie solidarietà familiari, evidenziarne l'estensione
e i limiti. Questa manipolazione delle strutture familiari emerge con chiarezza se si considerano
diritti e doveri del patronato, ovvero i contenuti della protezione che la famiglia signorile garantiva
al monastero: da un lato il diritto a ricevere le preghiere dei monaci, a essere seppelliti all'interno
del monastero, a nominare i nuovi abati; dall'alto il dovere a proteggere il monastero, i suoi
membri, i suoi beni. Questo insieme di diritti e doveri passava ereditariamente all'insieme dei
discendenti del fondatore e il monastero diventava così un elemento costitutivo dell'identità
familiare. Questo rendeva i legami parentali più forti è più definiti, era più chiaro chi
effettivamente facesse parte del gruppo. Il legame con un monastero aiutava a chiarire e a
celebrare in modo evidente la comune ascendenza, e quindi la comune eredità .La presenza di un
ricco e prestigioso monastero non era priva di conseguenze per la società locale. Dai monaci si
potevano ottenere preghiere per la propria salvezza spirituale, in cambio di donazioni; ma si
potevano anche ottenere terre in concessione, tali da garantire la sussistenza dei contadini più
poveri o da integrare il patrimonio di piccoli aristocratici. Nel complesso, quindi, un monastero
andava spesso a costituire un punto di riferimento per la società locale, e se si trattava di un
monastero privato questa sua centralità si rifletteva sulla famiglia del signore, era uno degli
elementi che permetteva ai signori di porsi al centro di molti meccanismi della società locale.
Produzione e prelievo in un’età di sviluppo
Il dato fondamentale è che nel corso del XI secolo i contadini diventarono sudditi, mentre i signori
erano un potere pienamente pubblico, che faceva, su piccola scala, tutto ciò che un tempo aveva
fatto il re attraverso i suoi funzionari. Così i signori erano in grado di controllare efficacemente i
propri sudditi e operare un pesante prelievo: in assenza di qualunque potere di controllo, i signori
usavano la propria forza armata per togliere ai sudditi la maggior quantità possibile di prodotti e di
denaro, frenati in questo solo dalla concorrenza degli altri signori e dalla resistenza contadina.
Questa pressione signorile non rispondeva solo a una volontà di arricchimento o di accumulo; non
si trattava di dissipare le ricchezze, ma di usarle per costruire il proprio potere: erano spese
destinate a consolidare la capacità militare del signore, la sua forza politica, il suo controllo sulla
piccola aristocrazia. E un analogo atteggiamento orientato alla spesa si ritrova nelle grandi sedi
monastiche che destinavano ricchezze crescenti agli edifici monastici, alle chiese e alla liturgia
(edifici, oggetti e azioni destinati a rafforzare agli occhi dei fedeli la funzione dei monaci, come
garanti della mediazione tra il mondo e Dio, attraverso un ricco sistema liturgico). Per sostenere
queste spese, i signori accentuarono la pressione economica sui sudditi, traendo vantaggio dalla
crescita demografica ed economica che caratterizzò tutta l'Europa dal XI al XIII secolo. Le famiglie

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

contadine facevano più figli, si moltiplicarono i flussi migratori e gli spostamenti di popolazione
che alimentarono la creazione di nuovi centri rurali in funzione di colonizzazione; si spinsero molto
in avanti i confini i confini delle terre coltivate, con gruppi di famiglie contadine intente a
disboscare e mettere a coltura zone prima mai lavorate. Sistemare gli uomini divenne una
preoccupazione costante dei signori nel secolo XIII: farli insediare nei villaggi vicini al castello,
costruire case nei pressi della cinta muraria ,fondare i nuovi borghi furono scelte diverse ma tutte
dovute a questa nuova pressione demografica che aumentava rapidamente il numero dei soggetti
da governare. Mutarono anche le condizioni di lavoro grazie anche a un generale innalzamento
della qualità degli strumenti tecnici a disposizione, soprattutto riguardo le tecniche dell’aratura. In
primo luogo si nota un maggiore ricorso agli attrezzi in ferro, in particolare gli aratri a versoio che
incidevano in profondità il terreno permettendo al seme di superare i mesi freddi. La sua
diffusione era associata all'avanzata delle colture nelle zone incolte e forse anche alle
sperimentazioni tecniche degli ordini monastici. I cistercensi erano famosi per la perizia con cui
lavoravano il ferro. Esiste un legame stretto fra il nuovo aratro in ferro, il numero delle arature che
era possibile fare e i tempi di lavorazione del terreno, con periodi alternati tra riposo e semina:
l'aratro in ferro tirato da cavalli permetteva arature più profonde e più frequenti, aumentando la
produttività dei semi; un’osservazione più attenta dei cicli produttivi favorì invece la diffusione del
riposo periodico dei campi per non esaurire in cicli troppo brevi le capacità nutritive del terreno.
Un terzo o la metà del campo era così lasciato a maggese, ovvero non coltivato, mentre sulla parte
rimanente erano concentrati gli sforzi di aratura e concimatura. Si ha la sensazione che si lavorasse
la terra con uno scopo economico più esplicito rispetto ai secoli precedenti: lavorare meglio la
terra nella speranza di produrre di più per scambiare o vendere le eccedenze. Gli investimenti
tecnici e lavorativi sulla terra alzarono sicuramente le rese rispetto all'età carolingia. Si tratta
sempre di calcoli ipotetici, redatti sulla base di inventari largamente approssimativi. Non ovunque,
ma in ampie zone d'Europa, l’ investimento sull'agricoltura divenne redditizio: era possibile
accumulare eccedenze, alimentare i mercati locali situati in città, sostenere insediamenti rurali più
popolosi; era possibile anche guadagnare di più per i contadini, anche se quel denaro non restò a
lungo nelle mani dei rustici. Questo significa che più uomini erano disponibili, più erano le terre
coltivate e più erano i sudditi da cui prelevare le imposte, dalle quali deriva una maggiore
ricchezza in circolazione. L'intento dei signori non era quello di promuovere lo sviluppo
complessivo dell'economia locale, ma solo quello di ottenere la maggior quantità possibile di
ricchezze per sostenere il proprio stile di vita e la propria azione politica. I prelievi signorili
aumentarono; alcuni erano di origine pubblica come il fodro ( mantenimento dell'esercito regio),
l’albergaria ( i costi per l'alloggiamento del re); altri erano invece di natura signorile come la taglia
(tassa per il contributo alla difesa), il focatico ( che gravava sul nucleo familiare); altri ancora erano
richieste dal signore per il mantenimento del territorio come i telonei ( tassa sul pedaggio) o quelle
che insistevano sull'uso dei fiumi ( ripatico) o dei boschi ( boscagio). Se quindi ci troviamo di fronte
a un quadro complessivo di crescita economica, tale crescita non andò a vantaggio dei contadini,
ma andò a sostenere lo stile di vita e le spese dell'aristocrazia. In poche parole, si produceva di più
per pagare di più.
L’inquadramento delle popolazioni rurali e l’azione politica contadina
Al di sotto dei signori e dei loro vassalli, la stragrande maggioranza della popolazione delle
campagne era costituita dai contadini, da rustici, ma questa definizione copre una realtà assai
diversificata. Dobbiamo constatare un'ampia varietà di condizioni economiche, che andavano dal

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

bracciante privo di qualsiasi patrimonio, fino al medio proprietario terriero, che disponeva di un
patrimonio fondiario molto più ampio di quello che lui e la sua famiglia avrebbero potuto coltivare
direttamente, e che quindi sfruttava in parte tramite la manodopera salariata dei braccianti, in
parte dando la terra in affitto ai contadini vicini. Tra questi due estremi c'è tutta una serie di
sfumature intermedie e di varianti. Tutte queste persone erano escluse dall'aristocrazia militare e
inoltre all'interno del mondo contadino le figure più deboli dipendevano da quelle più forti, dalle
terre e dal lavoro che potevano ottenere da loro. La diversificazione del mondo contadino non si
limitava però al piano economico e assunse connotati più propriamente i politici, grazie alla
capacità degli strati superiori della società contadina di entrare a far parte dei sistemi di solidarietà
clientelare che facevano capo alle chiese e ai signori locali. Al contempo vediamo contadini che
svolgevano specifiche funzioni per conto dei signori: controllo quotidiano sui contadini, sulla loro
produzione, sui conflitti ,riscossione dei censi, controllo del rispetto dei confini dei campi, gestione
delle infrastrutture signorili come forni o mulini. Tutto ciò era delegato a uomini del luogo, che
grazie a queste funzioni instaurarono con il signore un rapporto che si tradusse in uno scambio di
servizi, vantaggi e protezione, ovvero un legame clientelare. Questo è un gruppo che possiamo
definire come un èlite dal punto di vista economico, ma che manifesta anche in una particolare
capacità di azione politica, nei confronti sia dei vicini, sia dei potenti; ed è a questo gruppo che
dobbiamo far riferimento per comprendere i comuni rurali, che si diffusero lungo il XII secolo.
Parliamo di comuni rurali per tutti quei casi in cui la popolazione di un villaggio si organizzava,
agiva collettivamente sul piano politico e si dava una piccola struttura istituzionale. Dal punto di
vista delle forme istituzionali e delle intitolazioni, si trattava in larga misura di imitazioni dei
comuni cittadini, ma i comuni rurali sono interessanti perché ci fanno vedere che il potere
signorile non era assoluto e fondato unicamente sulla forza, ma in qualche misura era sempre
contrattato, era l'esito del confronto tra signore e sudditi. I testi che meglio mostrano l'esistenza e
i funzionamenti dei comuni rurali sono le cosiddette franchigie, atti in cui i signori e i sudditi
mettevano per iscritto diritti e doveri, andando così a ridefinire le forme e i contenuti del potere
signorile. In alcuni casi l'atto nacque da una debolezza contingente del signore, costretto ad
alleggerire la propria pressione sui sudditi. È ad esempio il caso di una tra le più antiche carte di
franchigia italiane, l'accordo tra la grande abbazia di San Silvestro di Nonantola e gli abitanti del
villaggio posti nei pressi dell'abbazia. L’abate Gotescalco concesse alcune garanzie fondamentali
agli abitanti del villaggio, sia sul piano giudiziario, sia su quello del libero possesso delle loro terre; i
contadini ottennero inoltre il pieno uso degli incolti e si impegnarono in cambio a costruire tre lati
delle mura del castello, lasciando all'abate la costruzione dell'ultimo lato; infine le due parti si
diedero garanzie reciproche del rispetto dell'accordo. Ovviamente reciprocità non significa parità e
questo è sottolineato anche dall'ammontare della penalità: 100 lire nel caso di violazione dei patti
da parte dell’abbazia, 1,2 o 3 lire se il violatore sarà uno dei sudditi. Lo stesso nucleo centrale
dell’atto, ovvero l'accordo per spartirsi i lavori di fortificazione, ci mostra come la protezione fosse
un esigenza condivisa da signori e sudditi. Un altro dato importante è costituito dalle clausole
iniziali, ovvero le garanzie relative alla giustizia signorile e al possesso delle terre. Un'esigenza
fondamentale dei sudditi era sempre quella di avere a che fare con un potere regolato e limitato,
non un dominio esercitato secondo i capricci del signore. Le ricorrenti forme di resistenza
contadina non puntavano mai a un’irrealistica cancellazione del dominio signorile, ma a ottenere il
rispetto delle norme fondamentali, vedersi garantiti il regolare possesso delle terre, un
imposizione fiscale prevedibile e di peso tollerabile, una giustizia efficace che desse loro un
minimo di sicurezza nei normali conflitti tra vicini . Anche la concessione dei beni comuni ai

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

contadini aveva un peso importante, sia sul piano economico per la legna, il pascolo, la pesca etc),
sia su quello politico, come nodo della contrattazione con i signori e della cooperazione contadina.
Le possibilità di creare nuovi centri abitati aumentarono nel secolo XII, per iniziativa sia dei signori
laici sia dei grandi monasteri che favorirono l'insediamento dei contadini in zone di frontiera.
Esigenze di ripopolamento suggerirono ai grandi possessori di creare condizioni favorevoli per
attrarre abitanti, attenuando le richieste fiscali e gli obblighi signorili. In molti casi in questi
insediamenti i suoli furono subito concessi in proprietà agli abitanti. Per esempio le sauvetès (spazi
salvaguardati) della Francia sud orientale, agglomerazioni di abitati in funzione di colonizzazione
agricola poste sotto la protezione della chiesa: gli abitanti erano infatti protetti da un perimetro
segnato da croci, all'interno del quale erano liberi, e dovevano corrispondere ai signori un normale
canone agrario e una tassa per i casali che ricevevano. In Italia queste fondazioni in funzione dello
sfruttamento agricolo furono leggermente più tarde e presero il nome di villenove a villefranche,
villaggi in cui si attribuirono agli abitanti gli stessi diritti dei cittadini. Alla rivoluzione agricola si
accompagna una rivoluzione insediativa, una tendenza all'accentramento della popolazione in
luoghi di convivenza collettiva. Fu in questo contesto che si svilupparono, negli stessi decenni, i
centri urbani nell'Europa medievale.
La città nell’Europa medievale
Nel corso del secolo XI si sviluppò una fitta rete di città in molte regioni europee. Gli storici hanno
avanzato spiegazioni molto diverse per giustificare questa rinascita urbana così ampia: per alcuni
le città erano l'esito inevitabile dello sviluppo economico e della formazione di una nuova classe di
borghesi, i mercanti; per altri il frutto di iniziative signorili, appoggiate dagli abitanti; per altri
ancora le città si formarono solo dopo una rivolta della popolazione urbana contro i poteri
signorili. Sono tutte letture parzialmente valide, ma insufficienti a spiegare un processo che
riguarda campi troppo diversi per avere una sola causa. La città europea non può essere separata
dal suo territorio: viveva con il territorio circostante, ne assorbiva le risorse in surplus, attirava
nuovi abitanti, assicurava lo scambio di prodotti e merci lavorate. Era legata anche ai centri di
potere signorile che governavano I principati regionali. Le mura definirono ovunque lo spazio
urbano separato dalla campagna, atti giuridici ufficiali sanzionarono lo statuto politico di città;
l'affermazione di una nuova èlite economica cambiò il modo di fare politica e la stessa struttura
sociale. Nel corso del XIII secolo un processo di stratificazione sociale mise in luce i contrasti e le
gerarchie interni al mondo urbano ( emarginazione delle frange basse dei ceti salariati).
Le basi dello sviluppo urbano
La città è da intendere come un processo di trasformazione continua di più elementi materiali
culturali. Possiamo approfondire almeno tre di questi elementi, che più di altri hanno determinato
le vicende dello sviluppo urbano nell'Europa medievale:

• il legame con il territorio;


• la capacità di trasformare la condizione degli abitanti;
• il decisivo impulso dei signori territoriali alla promozione di centri urbani.
Il primo elemento è di natura economica e demografica e mette in relazione i centri urbani con il
territorio circostante. Non esiste un centro abitato che non dipendesse direttamente dai
movimenti di popolazione e dai processi produttivi del territorio circostante. I dati demografici
segnalano un aumento sensibile della popolazione nelle campagne, un surplus che trovava sfogo o

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

nella colonizzazione di nuove terre da mettere a coltura, oppure nello spostamento verso i borghi
vicini che stavano prendendo la forma di città. Dunque un aumento delle migrazioni e dell'attività
agricola. Lo si vede dallo studio dei cognomi dei nuovi abitanti, che spesso riportano il luogo di
provenienza: le città grandi avevano un raggio di reclutamento dei nuovi abitanti assai ampio, di
centinaia di chilometri; ma nella stragrande maggioranza dei centri medio-piccoli, i nuovi arrivati
provenivano dalle campagne circostanti. Il rapporto con il territorio restava dunque assai stretto.
Inoltre, la città non riusciva a mantenersi da sola. Con il suo territorio, il centro urbano conservò
un rapporto costante e vitale: si riforniva di prodotti agricoli e di materie prime, redistribuiva
prodotti finiti ,una volta lavorati. Il territorio rappresenta sempre un nodo di scambio
indispensabile, un insieme di relazioni socio-economiche che alimentavano la funzione di centro
redistributivo svolta dalla città. Il secondo elemento dinamico riguarda la composizione sociale
delle popolazioni urbane. Due lati sembrano di correre in maniera costante. In primo luogo, la
dipendenza signorile del nucleo originario di abitanti delle città: piccoli contadini, artigiani, agenti
dei signori laici ed ecclesiastici, cavalieri della curia, grandi vassalli, e i loro signori si addensavano a
ridosso della citè, la residenza signorile fortificata con la chiesa e il castello, e poi nei borghi
circostanti, abitati in maniera stabile da una popolazione mista. I legami di dipendenza degli
abitanti con i signori erano ancora forti. Spesso il suolo dove si costruivano le case era proprietà
del signore e gli abitanti pagavano un censo. Il secondo dato insiste maggiormente sulla capacità di
trasformazione degli abitanti delle città. Sia i vecchi residenti che gli immigrati tendono a
riconoscersi nel secolo XII come membri di un insieme sociale nuovo, che condivide diritti e doveri
derivanti dall'appartenenza alla città. Li univa soprattutto una comune aspirazione all'autonomia
delle proprie attività economiche. Il principale processo di trasformazione sociale nella città
riguarda proprio la costruzione di una nuova identità politica degli abitanti, fondata sul
riconoscimento di uno statuto giuridico condiviso da tutti i residenti in città: una relativa libertà
personale, estesa anche alle persone di origine servile, una solidarietà necessaria per dar corpo
alle richieste collettive da indirizzare ai signori, il comune bisogno di uno stato di pace che
salvaguardasse le persone e le cose dei cittadini. I primi giuramenti collettivi delle comunità
cittadine insistevano molto su questi punti. Alcuni signori li accettarono volentieri, a patto di non
mettere in discussione l'assetto generale dei poteri locali .Il terzo elemento è proprio quello
politico, vale a dire i rapporti fra i centri urbani e i poteri signorili della regione che spesso avevano
sede in città. In alcuni casi questi rapporti furono di collaborazione immediata, anzi di vera
promozione dello sviluppo urbano, come i duchi normanni che sostennero la fondazione di nuovi
centri cittadini. In queste città gli abitanti ottennero presto la proprietà dei suoli abitativi, dopo
aver acquistato il censo dal signore: non sempre i cittadini possedevano i suoli urbani; molto
spesso pagavano l'affitto per il terreno. In tal modo i residenti in città diventano proprietari e
poterono così lasciare in eredità i loro beni urbani, creando una popolazione di cittadini
indipendenti dagli oneri signorili sul suolo. A questa forma di autonomia, si aggiunsero alcuni
privilegi giudiziari, l'esenzione da alcune imposte sui beni commerciali e il permesso di costruire le
mura come protezione e delimitazione dello spazio urbano. Per esempio le città tedesche non solo
furono fondate dai signori ma veniva promosso all'interno il popolamento dei nuovi centri, gli
venne applicato uno schema urbanistico a croce, impostato su una strada-mercato principale. La
natura strategica della fondazione della città mercato richiede la creazione di una nuova
popolazione di abitanti-proprietari con una debole ma persistente relazione di dipendenza dai
signori. Lo sviluppo precoce di una rete urbana favorì una maggiore stabilizzazione delle regioni
interessate, grazie al popolamento di zone prima poco attive, al potenziamento delle vie

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

commerciali che assicuravano lo scambio di merci nella regione, e alla crescita delle entrate
signorili, garantite dalle imposte pagate dai cittadini. Non sempre però le cose andavano in questo
modo. In molte regioni del regno di Francia, per esempio, la nascita di un'autonoma
rappresentanza della città, chiamata in maniera ancora generica comune, fu osteggiata
fortemente dei poteri signorili. Questi casi di scontro violento erano più frequenti nelle città
antiche dominate da autorità ecclesiastiche, che avevano più da perdere della concessione di
autonomia, soprattutto economica, ai cittadini. Sia in caso di collaborazione che di opposizione, è
indubbio che le città presero una forma istituzionale dopo aver ottenuto un riconoscimento
dell'autorità superiore. Tanto i giuramenti di comune, che dovevano essere approvati dal potere
locale, quanto le franchigie (carte di libertà concesse ai cittadini) che provenivano direttamente
dal signore riguardavano in primo luogo la concessione dei poteri giudiziari civili alle corti cittadine
e alcune esenzioni delle tasse sui commerci e sui suoli urbani. Nelle città della Francia meridionale
l'autonomia era maggiore: negli anni trenta del secolo XII si elessero dei magistrati chiamati
consoli, su modelli romani. A differenza delle città del nord si trattava di un governo collegiale di
cittadini, coadiuvato da un consiglio che poteva contare un centinaio di membri. La nomina dei
consoli era interna a una èlite urbana formata dalle famiglie dell'aristocrazia militare più in vista
che si passavano le cariche di padre in figlio: fino alla seconda metà del XII secolo i borghesi non
nobili ne rimasero sostanzialmente esclusi. Nonostante ciò, i consoli restavano sempre magistrati
riconosciuti da un potere superiore. I consoli amministravano sia la giustizia civile, in tema di
eredità, sia quella penale, ingiurie, ma non potevano toccare il dominio e i diritti dei signori
maggiori, vale a dire dell'arcivescovo stesso. Un'autonomia controllata o meglio contrattata. La
sensazione che le città europee avessero una natura doppia, quasi bicefala, era forzata del resto
della presenza di due apparati istituzionali in città: da un lato gli ufficiali signorili, balivi e
siniscalchi, che detenevano il controllo militare e la giustizia alta di sangue per conto del signore;
dall’altro gli scabini, i giudici della città, e i consoli che rappresentavano la fascia di popolazione
ammessa alla vita politica della città. Questa sistemazione apparentemente semplice nasconde
una costruzione più complessa. All'interno di un quadro politico incardinato sui poteri signorili,
molti principi laici ed ecclesiastici trovarono opportuno riconoscere l'esistenza di nuovi soggetti
sociali ed economici che reclamavano un ruolo attivo nella vita politica della regione. I residenti
nelle città chiedevano soprattutto la difesa dei propri interessi, la possibilità di espandere le
attività produttive e le relazioni commerciali assicurando un flusso di interscambio con il territorio.
Al contempo si riconoscevano fedeli del principe. I signori a loro volta dovevano garantire queste
sfere di autonoma organizzazione dei cittadini, limitare le loro pretese fiscali, premiare con dei
privilegi. Restava fermo che il comando militare rimaneva saldamente nelle loro mani. La città
manteneva da un lato le contraddizioni di un sistema misto, dove le tensioni e gli interessi diversi
spingevano le istituzioni locali e territoriali a riformulare continuamente gli accordi presi, dall'altro
godeva dei vantaggi di un dominio signorile unitario, che integrava l'èlite urbane in reti sociali ed
economiche di ambito regionale.
Le città tra XII e XIII: unificazione e differenziazione sociale
Dalla metà del secolo XII in avanti, il fenomeno urbano sia assestò. In primo luogo le città, formate
spesso da parti differenti ( borghi, citè, castello, chiese, in mano ad autorità diverse), furono
riunite in un'unica realtà territoriale e urbana. La costruzione di nuove mura intervallate da torri
rese visibile questo processo. La nuova cerchia abbracciava una superficie due o tre volte
superiore rispetto alle fortificazioni precedenti, anche perché inglobava ampie zone di terreno non

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

costruito, messo a coltivazione. Le mura divennero comunque il simbolo delle città e segnarono un
confine più netto con il territorio esterno. La concessione di carte di franchigia o di carte di
comune era ormai una pratica generalizzata. Le città erano contraddistinte da questo
riconoscimento ufficiale della libertà dei pochi abitanti. Libertà significava avere per iscritto
l'elenco dei propri diritti: in primo luogo la possibilità di organizzare la vita economica delle città,
assicurando lo sviluppo delle attività produttive e di scambio. Nel Duecento le città divennero
ottimi contribuenti del fisco regio e giocarono di conseguenza un ruolo politico importantissimo
nella costituzione dello Stato. Lo sviluppo economico acuiva le differenze sociali. Non tutti erano
liberi allo stesso modo. La popolazione urbana nel corso del XII e XIII secolo è percorsa da un
inarrestabile processo di stratificazione sociale e differenziazione fra gruppi diversi. Il comune
urbano non era meno gerarchizzato del territorio circostante. In primo luogo all'interno dei ceti
che guidavano il comune: il ceto dirigente del comune formato dai vecchi funzionari signorili
asserragliati nella citè fu costretto a integrare nuove famiglie dei borghesi; non tutte, solo quelle
che avevano fatto fortuna nei commerci, e che potevano vantare le relazioni più utili a sostenere
l'espansione commerciale della città, moltiplicando le rotte e i guadagni. Le accumulazioni di
denaro liquido furono rapidissime e sconvolsero in pochi anni le gerarchie consolidate. Gli
strumenti di governo usati dalla piccola nobiltà funzionariale non bastavano più ( il controllo di
alcune entrate pubbliche), erano poca cosa rispetto alla capacità di muovere capitali in breve
tempo, assicurando introiti enormemente superiori ai vecchi censi signorili. Questa èlite
economica conquistò così il potere nel corso del Duecento: si appropriò dei posti di comando e del
controllo della vita economica della città. Esisteva un frastagliato mondo artigianale che
abbracciava gran parte della popolazione urbana e aspirava una presenza politica non solo passiva.
Esisteva una doppia gerarchia sociale: una tra i diversi mestieri, che vedeva primeggiare i mercanti
e i banchieri, seguiti dai proprietari di botteghe tessili, orafi, fabbri, cuoiai e merciai; e un'altra tra
le funzioni che venivano svolte all'interno dello stesso mestiere. Il prestigio sociale raggiunto da
alcune corporazioni di mestiere riguardava in realtà solo i maestri in possesso dei mezzi tecnici più
costosi e avanzati. Maneggiare le cose sporche, svolgere fasi di lavorazione solo meccaniche
macchiava la persona, ne riduceva la qualità umana e giuridica, isolando un gruppo sociale
sospetto, inaffidabile, sempre a rischio di caduta verso la condizione irredimibile di infame. Infame
del Medioevo era un termine tecnico che indicava persone senza diritti e senza reputazione,
escluse dai tribunali, non potevano chiedere giustizia nè essere testimoni ( la loro parola non era
creduta), e soprattutto privi di qualsiasi rappresentanza politica. Il salariato urbano, nel corso del
Duecento, fu spinto lentamente verso questa condizione di marginalità. Il capo bottega poteva
tenere il lavorante a tempo, licenziarlo a suo piacere e decidere autonomamente il salario. Le
tensioni accumulate nel corso del XIII secolo alimentarono i numerosi movimenti di rivolta del
Trecento.

I regni e i sistemi politici europei fra XI e XIII secolo


Il reticolo dei poteri dell’Europa nei secoli centrali del medioevo sembra lasciare poco spazio ai
tentativi di creare una dominazione politica unitaria sotto il governi di un re. I re esistevano ma il
loro potere aveva limiti ben precisi: controllavano un territorio ristretto, dovevano contrattare le
principali azioni di governo con i grandi potentati locali, provenivano da dinastie poco legittimate

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

che faticavano a imporre i propri candidati alla successione al trono. Per stabilire un governo
monarchico ben definito bisognava in primo luogo affermare un diritto a esistere come entità
politiche superiori, e quindi sforzarsi di recuperare un coordinamento dei poteri sparsi in mani
diverse e contesi da principi regionali da tempo abituati a governare in piena autonomia i propri
territori. Gli strumenti usati variano moltissimo da regione a regione, ma ovunque furono
improntati a un opportunismo politico, a una capacità di adattarsi alle realtà circostanti e di
superare i vincoli posti dai rapporti di forza esistenti. Fu questa la chiave del successo dei re.
Seguiremo alcuni casi più importanti: l’Inghilterra normanna, la Francia, la Spagna e la Germania.
Limiti dei regni nei secoli XI e XIII
All’affacciarsi del secolo XII, i poteri di tipo monarchico che si erano affermati dopo la dissoluzione
del regno carolingio mostravano una serie di debolezze strutturali che si traducevano in vincoli e
limiti alle capacità d'azione dei singoli re. In primo luogo le dinastie regnanti si fondavano ancora
sul terreno assai incerto delle alleanze matrimoniali tra le grandi famiglie aristocratiche del
continente europeo. Una trama debole, che veniva disfatta al primo mutare delle alleanze tra le
famiglie. Una trama che era in grado di disegnare quadri territoriali molto diversi nel giro di pochi
anni. Pensiamo alla Francia: il suo assetto mutò quando il ducato di Aquitania fu unito, per via
matrimoniale, alla contea di Angiò e alla Normandia, e quindi all'Inghilterra sotto il dominio della
dinastia Plantageneta. Prese vita una configurazione politica sovraregionale che sovrastò a lungo il
re di Francia, per eclissarsi all'inizio del 1204. Anche la Germania subì ritagli sempre diversi dei
ducati storici, ricomposti ogni volta che una ribellione permetteva all'imperatore di dividere un
ducato in più parti. Il regno dei Normanni nell'Italia del sud è ancora un altro esempio
macroscopico di unione e divisione di territori : Ruggero II unì Sicilia, Puglia e Calabria in un solo
regno e questo passò per via matrimoniale all’imperatore svevo Enrico VI che lo trasmise a suo
figlio Federico II in eredità, il quale si trovò ad essere re di Sicilia e candidato all’Impero. È difficile,
in questa situazione, tracciare una chiara geografia dei regni, fatto salvo il caso inglese. I regni
erano soprattutto potenze regionali; o meglio dovevano avere una base territoriale su cui fondare
materialmente la propria esistenza, visto che un'effettiva supremazia politica era ancora incerta e
poco sostenuta dagli altri principi. Più che di veri e propri regni, dovremmo allora parlare di
principati a tendenza egemonica o di regioni inquadrate in sistemi di alleanze con al vertice un re.
A questa mobilità dei quadri territoriali si aggiunse anche la difficoltà tecnica di coordinare sul
piano feudale una miriade di signorie con obblighi e diritti diversi a seconda dei singoli signori di
riferimento. I sistemi di alleanze feudali non disegnavano ancora ordinate reti di fedeltà in senso
gerarchico ( il vassallo di un vassallo del re, non è un vassallo del re). Ultimo grande limite dei regni
era l'assenza di un vero apparato di funzionari pubblici. Esisteva un ristretto ma solido apparato
burocratico di corte in mano ad ecclesiastici di grande levatura, ma il loro intervento si limitava per
lo più a garantire il funzionamento della corte regia sul piano culturale e politico e non potevano
certo diventare uno strumento di governo dei singoli territori. è questo il contesto da cui bisogna
partire per capire il ruolo delle monarchie europee tra la fine del secolo XI e i primi decenni del
XIII. Nessuna affermazione inevitabile della forma di Stato nella storia occidentale. Semmai si può
concedere che nel XII e nel XIII secolo si pose una questione cruciale sulle forme del potere laico:
con quali mezzi e con quali fini si potevano coordinare le diversissime realtà locali; come è
possibile far convivere poteri territoriali disseminati in mani diverse. Per comandare sulle persone
bisognava in un certo senso possedere i beni e i luoghi su cui i sudditi abitavano.

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

L'Inghilterra della conquista al Duecento


Guglielmo il Conquistatore ( re 1066- 1087) sbarcò in Inghilterra dalla Normandia nel 1066. La
veloce invasione del regno di Inghilterra portò a un completo rovesciamento delle istituzioni
precedenti e alla sostituzione immediata dell'èlite aristocratiche anglosassoni da parte dei baroni
normanni. I normanni non trovarono un deserto e fondarono il loro dominio su una base solida di
istituzioni politiche. Il regno normanno conservò molte caratteristiche dell'epoca precedente, sia
per necessità sia per opportunismo. Il regno di Inghilterra prima della conquista era diviso in
circoscrizioni di origine militare e fiscale chiamate shires, assegnate a ufficiali pubblici chiamati
ealdormen o earls. Al di sotto degli shires esistevano circoscrizioni minori, le centene (hundreds)
formate da tithing, gruppi di dieci famiglie. Queste unità godevano di ampia autonomia
organizzativa e avevano come fine principale l'amministrazione della giustizia attraverso il
mantenimento della pace. Le assemblee di hundreds e dei villaggi discutevano anche di questioni
fiscali, ma il carattere giudiziario delle sedute era prevalente e mostra bene come la questione
della giustizia fosse centrale nelle forme di autogoverno dei distretti inglesi. l processi applicavano
quello che lo stesso re chiamava il folkright, il diritto della gente. La pace era centrale anche nella
legislazione regia; i re inglesi continuavano a fare leggi. Anche Guglielmo riprese questa tradizione,
tanto più che il tema della pace era per lui urgente dopo le guerre di conquista. Il giuramento con
cui fu incoronato conteneva molti elementi del tradizionale patto tra il re e il popolo: Guglielmo si
impegnava a mantenere i riti delle chiese e a governare il popolo suddito in modo giusto e
attraverso le leggi. Ma la realtà era un'altra. Da un lato, I baroni normanni che avevano seguito
Guglielmo in Inghilterra esigevano, come premio della loro fedeltà, l'assegnazione di gran parte
delle terre dei nobili inglesi, ma anche una relativa autonomia politica nei rispettivi possessi e un
ruolo di controllo sulle azioni del re. Dall'altro il dominio del re, se voleva sopravvivere, doveva
continuare a fondarsi sulla nozione di popolo, conservando la libertà di base dei possessori e
l'appoggio dei vescovi e degli abati. Insomma il regno inglese si dibatteva tra queste spinte
contraddittorie, essere minacciato dalla stessa forza militare che ne assicurava l'esistenza, ma a
differenza dei monarchi sul continente sviluppò prima e meglio gli strumenti di governo che
assicurarono al regno una propria autonoma esistenza. In primo luogo Guglielmo, che restava
duca di Normandia, dovette nominare un suo rappresentante in Inghilterra, chiamato giustiziere,
dotato di pieni poteri in assenza del sovrano. Inoltre eliminò i conti e nominò al loro posto gli
sceriffi, ufficiali pubblici incaricati di amministrare la giustizia e soprattutto di controllare le finanze
nei singoli shire. Cercò anche di conservare il diritto dei liberi uomini a mantenere le proprie cose
contro le prepotenze dei baroni e dei potenti in genere. Tutti i liberi furono così dichiarati sudditi
del re e tutta la terra data in concessione ai baroni fu sottoposta a concreti obblighi di fedeltà
militare nei suoi confronti. Per molti storici questo segnò l'inizio del feudalesimo inglese, con la
creazione di una gerarchia basata sul possesso di terre che iniziava dal re per scendere fino agli
uomini liberi contadini, che, in teoria, tenevano la terra per concessione regia. Non tutte le forme
di possesso nell'Inghilterra potevano essere ricondotte a concessioni feudali ( il possesso per
eredità o la semplice acquisizione di terre successiva alla conquista; ma, in questo senso, ricorrere
al sistema feudale da parte del re poteva essere di aiuto a creare un nuovo ordine politico:
qualificare i grandi possessi come concessioni regie permetteva di legare al possesso di terra
l'assolvimento di precisi obblighi militari. Chi aveva la terra era tenuto, in quanto feudatario, a
partecipare all'esercito o a fornire un equivalente in denaro. Proprio per la necessità di conoscere
quanti erano gli effettivi e di quali risorse il regno poteva disporre spinse Guglielmo a ordinare una

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

grande inchiesta in tutte le contee inglesi sullo stato delle terre nel regno inglese prima e dopo la
conquista. Fu questa l'origine del Domesday book, il libro del giorno del Giudizio, il più completo e
ambizioso censimento medievale di uomini e terre e del potenziale economico dei beni . Le
migliaia di dati raccolti gli avrebbero permesso di sapere su quanti uomini poteva contare per
l'esercito regio e quanto poteva richiedere in tasse da tutti i possessori. Il Domesday book è
organizzato per contee, per scendere poi ai feudi, alle centine, alle ville e infine ai manor, l'unità di
base della proprietà contadina. Il piano fiscale era quello che più interessava al re, perché
permetteva allo stesso tempo di tenere sotto controllo sia i baroni, tenuti alle prestazioni militari o
alla loro conversione in denaro, sia i sudditi del regno come corpo politico direttamente
sottoposto al re. La tensione fra questi due poli si fece sentire presto. Enrico I , figlio di Guglielmo,
ricercò assiduamente un rapporto con il popolo inglese come freno all'arroganza dei baroni ed
emanò una famosa carta delle libertà in cui prometteva un ritorno alle antiche consuetudini inglesi
contro quelle nuove illegittime e ingiuste dei Normanni. Queste nuove consuetudini che
opprimevano il popolo erano chiaramente di natura fiscale: i baroni e i loro vassalli esigevano
tasse eccessive e non motivate sulla tutela dei minori, i matrimoni, la riassegnazione dei feudi
dopo la morte del tenutario, imponendo anche ai liberi prestazioni non dovute.Con la sua carta,
Enrico si ergeva a difensore di questo regno oppresso: limitò il campo d'azione dei baroni
attraverso un controllo sulla trasmissione ereditaria delle terre baronali, che prima di passare agli
eredi, dovevano essere riassegnate al re, e la punizione delle loro malefatte secondo la legge. Al
contempo, rafforzò la giustizia regia nelle singole località come antidoto alle prepotenze dei
grandi. Alla morte di Enrico, fu incoronato re il nipote, Stefano di Blois, cui si contrappose la figlia
di Enrico, Matilde, dalla quale scaturì una guerra di successione e dei conflitti civili che
provocarono un rafforzamento del potere dei baroni: non solo si impossessarono delle maggiori
cariche pubbliche, ma cercarono anche di renderle ereditarie. Enrico II, nipote di Enrico I, intese
porre rimedio a questo stato di violenza: la guerra civile e l'erosione del potere regio. Il regno di
Enrico II è stato forse il periodo più importante per l'Inghilterra del XII secolo, non solo perché con
il matrimonio con Eleonora d'Aquitania unì la Normandia, l'Inghilterra e l'Aquitania in una grande
dominazione internazionale; ma perché sotto il suo governo presero forma in maniera più
definitiva le istituzioni monarchiche del regno inglese. La corte divenne il punto di raccordo fra il
centro e le comunità. L'elemento qualificante della sua azione fu proprio la capacità di connettere
la curia con i sudditi attraverso lo sviluppo di due sistemi istituzionali. Il primo sistema era fisso,
incentrato sul giustiziere e la curia regia, composta dai grandi del regno, laici ed ecclesiastici, che
dovevano esprimere formalmente un consenso alle decisioni del re. A queste si aggiunse lo
Scacchiere, il responsabile delle finanze pubbliche con potere di controllo su tutti gli ufficiali: due
volte l'anno questi potenti ufficiali dovevano fare un minuto rendiconto del loro operato
finanziario e giudiziario ( un modo per tenere sotto pressione i valori). Il secondo sistema era
mobile e prevedeva un collegio di giudici itineranti che amministravano l'alta giustizia per conto
del re nelle singole contee. Enrico predispose una riforma ancora più importante: la costituzione
del sistema delle giurie dei 12 uomini saggi nelle comunità, incaricati di giudicare i colpevoli e
tenerli in custodia fino all'arrivo dei giudici regi. La giustizia locale affidata agli uomini della
comunità era sottoposta al controllo dei giudici regi itineranti. In più, per quelli che non potevano
aspettare l'arrivo dei giudici, il re potenziò le funzioni giudiziarie della corte centrale a Londra. I
casi dibattuti davanti al re aumentarono e formarono la materia per una nuova corte di giustizia
situata a Westminster, il Bench. Enrico estese la protezione regia agli eredi dei vassalli dei feudi
maggiori, assicurando la successione ereditaria dei feudi minori, non più soggetti all’arbitrio dei

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

loro signori. Un modo per rendere più autonoma la piccola e media aristocrazia locale. Infine,
Enrico si rese conto della necessità di rendere più stabile un esercito nazionale per la difesa del
regno e ordinò a tutti i sudditi possessori e liberi di partecipare all’esercito con un armamento
proporzionale al reddito. Queste grandi riforme furono accompagnate da strumenti di governo
particolarmente aggiornati. Sull'esempio del Domesday, Enrico usò di frequente l'inchiesta come
forma di conoscenza collettiva delle situazioni del regno. Nel 1166 fece redigere un elenco di feudi
militari e di feudatari del re che non avevano prestato giuramento ligio nei suoi confronti. Sotto
Enrico le inchieste rivestirono una funzione più strettamente politica: distinguere i baroni fedeli da
quelli infedeli, separare i ricchi dai meno ricchi, e controllare i comportamenti della grande
aristocrazia attraverso un aggiornamento continuo dei loro doveri. Enrico riuscì inoltre a tenere in
scacco i re francesi per lungo tempo, ma questo stato di guerra continua richiedeva un pesante
aggravio delle tasse sia nel regno insulare che nei domini francesi. Il servizio armato dei baroni
nelle guerre esterne fu eseguito con crescente disimpegno; e ancora meno popolari furono le alte
imposte che Enrico e i suoi successori furono costretti a esigere con frequenza crescente. La crisi
del regno sotto i figli di Enrico II fu accelerata dalle lotte dinastiche tra i due fratelli, Riccardo e
Giovanni Senzaterra, dalla lontananza del re ( per il quale governarono i giustizieri e altri ufficiali),
e dalla pressione fiscale ancora più dura dopo la perdita dei possedimenti in Normandia nel
1204. Sotto il regno di Giovanni Senzaterra i rapporti con la chiesa e i baroni si deteriorarono
rapidamente. Dopo la sconfitta subita a Bouvines, Giovanni fu apertamente contestato dai grandi
del regno. Uniti dalla comune esigenza di limitare i suoi poteri, lo costrinsero a firmare un
documento di concessione assai ampie al popolo, meglio conosciuto come Magna Carta. La carta
riprendeva le antiche libertà concesse da Enrico I, ma in realtà configurava un nuovo equilibrio di
potere tra il re e i baroni. La Magna Carta si configura in effetti come un grande patto di
limitazione delle prerogative regie in materia fiscale e in materia feudale, in particolare riguardo
alla fiducia e alla trasmissibilità del feudo. Sul primo punto i limiti erano chiari: Il re non poteva
imporre tasse senza il generale consenso dei baroni e doveva convocare pubblicamente
l'assemblea mediante lettere di citazione rivolte a tutti i grandi del regno. Riguardo al secondo
punto, il ritorno alle consuetudini serviva a diminuire i pesanti obblighi fiscali che Giovanni aveva
imposto sul passaggio dei feudi agli eredi :l'erede doveva pagare una cifra fissa per riscattare il
feudo paterno; se era minorenne poteva ottenere il bene senza riscatto; gli ufficiali regi non
potevano sequestrare beni immobili in caso di debito o prendere prodotti della terra senza il
consenso del proprietario. Le norme sulla gestione dei beni immobili erano numerose, a segnare
l'importanza delle garanzie sul possesso per l'autonomia politica del ceto dei grandi. La libertà
politica era prima di tutto libertà di possedere beni al riparo delle molestie degli ufficiali pubblici. I
re successivi dovettero tenerne conto.
Il regno di Francia da Luigi VI a Filippo Augusto
In Francia il re aveva solo qualche debole privilegio nominale sui principati vicini. La maggior parte
dei territori meridionali gli sfuggivano completamente: il ducato d'Aquitania in mano alla potente
dinastia di Guglielmo IX, per esempio. Il nord presentava ugualmente le sue difficoltà: Bretagna e
Normandia gravitavano in una sfera mista, con poteri condivisi con l'Inghilterra; la contea di
Champagne era in mano a una dinastia di conti e la contea di Fiandra non si percepiva
minimamente come parte del regno francese. D'altronde i principi dei ducati più estesi e antichi
non riconoscevano il re neanche come referente simbolico dell'antico regno nazionale carolingio.
Avevano del resto la possibilità di farlo: i loro principati erano più estesi, più potenti, più

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

organizzati del regno di Francia, e da tempo si erano dati una struttura monarchica di dimensioni
regionali. Avevano creato una corte di castellani fedeli, di grandi vassalli in competizione ma che
riconoscevano al principe una relativa superiorità di coordinamento. Sotto il suo regno, Luigi VI,
provò a concentrarsi soprattutto su due punti: disciplinare i castellani ribelli all'interno del suo
dominio; e all'esterno frenare l'espansione del re inglese, Enrico I; e fronteggiare le aspirazioni dei
conti di Fiandra e di Champagne-blois. Il fronte interno era quello più promettente perché,
sostenuto da alcuni vescovi e da un consigliere prezioso, Sugerio abate di Saint Denis, Luigi VI si
lanciò in una serie di battaglie punitive contro i potenti locali interni ed esterni al suo dominio.
Sugerio sostenendo la teoria che ogni feudo muoveva da un altro feudo e che solo il re non aveva
superiori, poteva presentare tutti gli altri principi come necessariamente dipendenti dal re. Allo
stesso tempo però, Sugerio ricordava come le azioni militari del re fossero sempre sollecitate da
un esplicito mandato degli uomini di chiesa. Luigi interveniva contro i castellani quando questi
minacciavano le chiese e turbavano la pace pubblica; in quei casi, la spedizione militare era
approvata da un concilio provinciale di vescovi che invocava nel re come difensore armato della
Chiesa. La presenza costante della mediazione ecclesiastica poteva apparire come un elemento di
debolezza, ma divenne quel tempo un punto di forza. Poco alla volta questa funzione di paciere fu
assunta dal re. E fu questo uno dei grandi meriti di Sugerio: trasmettere al re il dovere di
mantenere la pace. Il cambiamento avvenne sotto Luigi VII, sempre coadiuvato da Sugerio, che fu
nominato anche reggente quando il re partì per la seconda crociata nel 1144. Nei due anni di
reggenza, Sugerio riuscì a disegnare una nuova funzione della monarchia attraverso una serie di
atti di governo fatti in nome e per il bene del regno. Si configurava così un'entità astratta che
esisteva anche in assenza del re, imponendosi ora come soggetto politico da rispettare e temere.
La lotta contro i castellani ribelli continuò anche dopo il ritorno di Luigi VII in patria. Nel 1155,
durante il concilio di Soissons, Luigi VII proclamò la pace per tutto il regno. Il concetto fu ribadito
nel concilio di Reims del 1157, quando si attribuì al re il compito di assicurare la pace e di punire i
colpevoli che i signori locali non avevano perseguito. Da un lato si assegnava al re una funzione
superiore; dall'altro si indicava chiaramente come mantenere la pace equivalesse ,di fatto e di
diritto, a esercitare la giustizia coercitiva e punitiva contro tutti. Le guerre continue non portarono
nessuno accrescimento territoriale vero. Ma è anche vero che neanche i poteri regionali in quel
senso fecero grandi progressi. Solo in un caso i principi minacciarono direttamente i confini del
regno: quando per ragioni matrimoniali si unirono i ducati di Normandia, di Aquitania e il regno di
Inghilterra sotto il dominio dei duchi d'Angiò (Plantageneti). Luigi VII aveva infatti sposato
Eleonora d'Aquitania. Il re francese decise di divorziare da Eleonora, che dopo pochi mesi sposò il
giovane conte d'Angiò, Enrico II. L'attrito con i re francesi fu inevitabile, perché se Enrico come
duca di Normandia era vassallo di Luigi VII, come re inglese si sentiva suo pari se non superiore.
Iniziò così quella che alcuni storici chiamano la prima guerra dei 100 anni fra i re francesi e i re
inglesi: una serie di guerre e tregue che si prolungò fino alla morte di Luigi VII senza grandi
conseguenze sul piano territoriale. Luigi VII morì nel 1180, lasciando il figlio Filippo in balia di due
potenti clan di protettori: i conti di Champagne per via di madre, e i conti di Fiandra per via
matrimoniale ( aveva sposato la nipote del conte Filippo d'Alsazia). Il regno si apriva dunque sotto
le stesse urgenze di sempre: contenere le pretese dei baroni vicini da un lato, e difendersi dalla
minaccia plantageneta dall'altro. Il regno di Filippo Augusto è considerato il punto di svolta della
monarchia francese, sia per la durata quarantennale, sia per le trasformazioni che impresse ai
metodi di governo. In primo luogo le guerre contro i baroni vicini furono questa volta fruttuose e
fortunate: il re costrinse Filippo d'Alsazia a cedere al regno due contee importantissime, nella

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

Francia settentrionale ( il Vermandois e l’Artois). Nel corso dello scontro ventennale con gli anglo-
normanni, Filippo sfruttò invece le divisioni interne alla dinastia plantageneta, indebolita dalla
competizione tra Giovanni Senzaterra e Riccardo. A fasi alterne, Riccardo si dichiarò vassallo di
Filippo re di Francia. Alla sua morte, Giovanni subentrò come erede unico, ma senza avere un reale
supporto ne fra i vassalli inglesi né fra quelli normanni. Questo portò alla conquista della
Normandia da parte di Filippo. Il re francese riuscì ad allearsi con i baroni normanni, ai quali
riconobbe ampie autonomie, e a estendere un'influenza diretta sui ducati dipendenti, come quello
di Bretagna. La battaglia a Bouvines nel 1214 fu uno dei rari eventi bellici a influenzare in
profondità le vicende dei regni europei nella prima metà del Duecento. Contro Filippo si erano
uniti tutti i suoi avversari storici: il re inglese Giovanni Senzaterra, l’imperatore tedesco Ottone IV,
il conte di Fiandra, il duca di Brabante e molte città fiamminghe. Sconfiggere questa coalizione
permise a Filippo di superare nello stesso momento le maggiori resistenze alla sua espansione
verso la Fiandra e il nord del regno. Dopo Bouvines, Filippo potè iniziare una politica più
aggressiva, anche se a volte con esiti fallimentari, come è successo nel ripetuto tentativo di
invadere l'Inghilterra. La cosiddetta crociata albigese, la spedizione che i baroni del nord della
Francia dal 1209 avevano condotto per conto del papa contro il conte di Tolosa, aveva aperto
un’insperata via di penetrazione verso i principati del sud. I cavalieri francesi al comando di
Simone di Montfort erano riusciti a sostituire temporaneamente il conte di Tolosa. L'impresa di
Simone di Montfort aveva consegnato nelle mani di Filippo una potentissima arma per giustificare
un intervento armato contro un vassallo, il conte di Tolosa, che nulla aveva fatto per essere
attaccato: la lotta contro l'eresia. Il conte era stato accusato di eresia da papa Innocenzo III e gli
eretici erano sciolti dai giuramenti di fedeltà e potevano essere privati dei beni. Filippo poteva così
rivendicare la spedizione come atto in difesa della fede ,una risorsa che i re francesi sfruttarono
con grande abilità. Sostenere a lungo uno stato di guerra richiedeva una grande capacità di
accumulare e mobilitare risorse economiche. Filippo, più di altri, riuscì ad assicurare al regno una
superiorità economica in grado di sostenere un apparato militare così imponente e incerto. Le
spese del regno erano infatti occupate per circa l’80% dai costi della guerra e dal mantenimento
dell'esercito. Ma sulle entrate il regno di Filippo si mostrò superiore ai suoi concorrenti. Il budget
del 1202- 1203, fortunatamente sopravvissuto, mostra bene come il re francese fosse riuscito a
razionalizzare la contabilità e a sfruttare con abilità le pieghe finanziarie dei rapporti feudali. Le
entrate in quegli anni ammontarono a 115.000 lire; erano composte per la metà dai proventi delle
rendite agricole del dominio regio; per il 20% dalle tasse sulle città; per il 7% dalla giustizia; per il
16% da una quota di cui non è specificata la provenienza. La possibilità di sfruttare meglio il
dominio regio fu sostenuta anche dalla creazione di una nuova figura di ufficiale pubblico, il balivo,
responsabile del governo, della giustizia e della fiscalità in una circoscrizione definita. Migliorarono
anche le tecniche contabili e di controllo: i balivi dovevano redigere dei rendiconti mensili della
loro attività in libri di entrate e uscite. Questa gestione diretta del dominio assicurò entrate più
stabili e prevedibili. L'amministrazione centrale era stata affidata a un personale diverso; furono
chiamati esponenti della media cavalleria e della nobiltà urbana, membri dell'ordine templare
specializzati nella contabilità finanziaria, un ceto amministrativo fedele al re, non legato da
pericolose dipendenze verso i grandi vassalli del regno. Ma a rendere ragione della novità furono
le entrate straordinarie, che riguardarono in gran parte le tasse feudali. Filippo usò quegli elementi
ideologici che già Sugerio aveva elaborato per il padre, quando impose l'idea che non era tenuto a
prestare omaggio a nessun principe di cui pure era vassallo. Forte di questa superiorità politica,
Filippo riuscì a sfruttare sul piano economico tali prerogative feudali. Richiese enormi somme per

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

riassegnare i grandi feudi in caso di morte del vassallo. Altrettante le chiese per la custodia dei
feudi regi nei momenti di minorità dell'erede. Il re riuscì anche a monetizzare il mancato servizio
militare. Distribuì anche molto: nelle zone contese creò dei feudi-rendita da assegnare a cavalieri e
signori locali per comprare la loro neutralità in caso di guerra. Filippo era diventato uno dei
principi più potenti e solidi sul piano finanziario, in grado di resistere più a lungo nelle guerre
locali, ma anche di offrire di più, rispetto ai suoi concorrenti, a tutti quei dominati locali che
avessero accettato la sottomissione al regno di Francia.
I regni spagnoli
La Spagna del secolo XI era divisa in numerose contee con aspirazioni monarchiche nella parte
settentrionale della penisola. Il grosso del territorio era ancora sottoposto al dominio musulmano.
Un regno cristiano avrebbe continuato a esistere per poi risvegliarsi nel secolo XI e iniziare una
lenta riconquista dei territori verso sud. Reconquista è infatti il termine usato dagli storici ancora
oggi per indicare la formazione dei regni spagnoli del Basso Medioevo. I regni spagnoli nel secolo
XI erano di fatto contee di dimensione regionale, che occupavano solo la parte settentrionale della
penisola, dai Pirenei alla Galizia. La contea di Barcellona rimase a lungo strettamente legata alle
vicende della Francia meridionale, che presentava formazioni territoriali fluide fra unioni
dinastiche e separazioni successive. Una maggiore stabilità fu raggiunta solo nel Duecento
avanzato, quando le formazioni di carattere regio, Castiglia e Aragona, definirono meglio la loro
natura territoriale. Anche l'identità etnica delle popolazioni era incerta. La lunga permanenza della
dominazione araba aveva chiaramente creato una popolazione nuova, che solo dopo la
formazione del dominio musulmano si riconobbe come ispanica. Infine la separazione dei due
mondi, cristiano e musulmano, non era così netta come ci si aspetterebbe, anzi questa fase di
storia spagnola risiede nella profonda commistione politica fra i regni cristiani del nord e i vari
califfati del centro-sud. Furono innumerevoli i casi di collaborazione, protezione, scambio e
alleanza fra i re spagnoli e i diversi potentati delle città della frontiera. E ancora profondi erano i
contratti di collaborazione nel secolo XII con alcuni califfi, senza contare il grande scambio fra la
cultura musulmana e quella latina, favorita da un intenso lavoro di traduzione di opere nelle due
lingue. Senza la crisi della dominazione almoravide fra XI e XII secolo, la Spagna musulmana non
avrebbe cessato di esistere. È vero, tuttavia, che la guerra agli infedeli era da tempo un motivo
ricorrente del linguaggio politico dei regni spagnoli, soprattutto con il nuovo ideale di pre-crociata.
I sovrani più impegnati nelle guerre di espansione, il re di Castiglia e quello di Aragona- Catalogna,
affrontarono conflitti armati con i califfati confinanti e trovarono nell’esaltazione religiosa delle
attività belliche un sostegno ideologico forte alle loro pretese monarchiche. Si legittimano re in
quanto liberatori, o almeno ci provarono. Le guerre che segnarono la prima metà del secolo
XII furono poco decisive sul piano territoriale. Sia le battaglie dei re spagnoli nelle regioni
meridionali in mano i califfati, sia le guerre di razzia dei principi musulmani verso il nord cristiano
furono episodi bellici di segno altalenante, ma erano appunto razzie e saccheggi, non guerre di
occupazione. La possibilità di uno scardinamento del sistema di governo musulmano fu aperta
dalla crisi interna nel regno almoravide. Provenienti dal Maghreb, gli Almoravidi avevano esteso
una pesante dominazione militare in tutta la regione andalusa. La rigidità dei costumi religiosi
imposti dai loro capi, la differenza linguistica e culturale dall'èlite precedente e soprattutto un
regime fiscale opprimente resero il governo almoravide lontano e ostile alla popolazione andalusa.
La crisi era anche più profonda. La reazione agli Almoravidi partì dal Marocco, dove una setta
denominata Almohadi, riuscì in un decennio a conquistare il Marocco e a espandersi in Andalusia.

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

intorno agli anni 1144-1147, anche le maggiori città spagnole passarono dalla parte degli
Almohadi, che elessero capitale Siviglia. La reazione iniziò nei primi anni del Duecento, con la
proclamazione di una crociata anti-musulmana nel 1211 da parte di Innocenzo III. Dopo questa
data, la penetrazione delle regioni sottoposte ai musulmani si fece più veloce e i territori nelle
mani dei principi cristiani, soprattutto in quelle del re di Castiglia, raddoppiarono e si
moltiplicarono conquistando la regione dell'Estremadura e dell'Andalusia. Meno ampi furono i
possedimenti acquisiti dal regno catalano-aragonese, anche se la conquista delle Baleari e del
regno di Valencia, aprì alla dinastia uno scenario nuovo di proiezione verso il Mediterraneo. In
realtà, un processo di graduale colonizzazione dei territori di frontiera andava avanti fin dal secolo
XI, prima ancora dell'occupazione politica di quelle regioni. La creazione di villaggi e di città abitati
da contadini e piccoli cavalieri divenne un tratto distintivo della Reconquista. Il ripopolamento si
basava sulla fondazione di città con un esteso territorio e sulla concessione di lotti di terre agli
abitanti, incaricati anche della difesa militare della zona. Un misto di colonizzazione agraria e
militare che conferiva agli abitanti la natura duplice di contadino-soldato. Dell'esercito si
conservavano anche le disuguaglianze: le terre erano distribuite in base alla capacità militare delle
persone e i cavalieri erano favoriti sia come proprietari sia come militari. Queste iniziative di
ripopolamento tenevano conto anche dei contesti sociali e militari dei luoghi colonizzati. Nella
parte più settentrionale l'iniziativa dei Cristiani era più chiara; ma in quella centrale intorno a
Toledo, la popolazione era necessariamente mista, con musulmani ed ebrei. Se ci spingiamo più a
sud, nell'Andalusia musulmana, la presenza di villaggi fondati dagli ordini monastici militari era più
consistente: per esempio l'ordine di Calatrava. Più la conquista si stabilizzò, più il destino delle
popolazioni di origine musulmana divenne un problema, risolto il più delle volte con
l'emarginazione economica e spaziale degli ex infedeli, rinchiusi in quartieri etnici nelle città o
relegati nelle campagne. Rimane da ricordare il carattere pubblico di queste iniziative. Furono i re
ad autorizzare l'insediamento, la divisione delle terre e anche le forme di autonomia che
comunque tali comunità conservavano. Le città e in genere i centri abitati, godevano in Spagna di
un’autonomia protetta, in uno sviluppo armonico di competenze locali e inquadramento regio del
popolamento nelle regioni di frontiera. I re si trovarono davanti infatti gruppi sociali con una
precisa fisionomia politica, provvisti di autonomia e con una spiccata propensione a rivendicare
una rappresentanza collettiva davanti agli organi regi. Le monarchie spagnole mantennero a lungo
un carattere pattizio che spinse i re, fin dal XII secolo, a convocare ampie assemblee dei grandi del
regno, con le città e i consigli comunali: le Curie generali o Cortes che deliberavano sui grandi temi
della politica regia. Questa molteplicità di presenze istituzionalizzate, il carattere fortemente
militare dell'aristocrazia del regno e la necessaria condivisione delle decisioni maggiori in
assemblee composite rimasero caratteristiche di fondo dei regni spagnoli per lungo tempo.
La Germania e l’Impero
La Germania del secolo XI presenta a prima vista un quadro territoriale più stabile rispetto ai regni
vicini. I quattro ducati tradizionali (Franconia, Sassonia, Baviera e Svevia) erano ben saldi nelle
mani delle grandi famiglie dell’aristocrazia che coordinava una galassia di conti e castellani, scabini
di città privi di una reale autonomia. Esistevano le marche di frontiera dove famiglie militari più
intraprendenti inseguivano una propria politica di radicamento nei territori orientali (Austria,
Stiria, Brandeburgo e i ducati di Pomerania e di Slesia), ma le espansioni più consistenti ad est
furono guidate sempre dalle grandi casate ducali, con l’appoggio successivo dell’Impero. I dati
demografici disegnano una crescita impressionante della popolazione ( quasi il doppio dal XII al XIII

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

secolo); una crescita che alimentò un ampio movimento migratorio verso est, con un
emarginazione crescente dei residenti slavi costretti a spostarsi verso est. L'Impero come
istituzione continuò ad avere un funzionamento intermittente. Per tradizione, l’imperatore era
eletto dai grandi principi a capo dei ducati maggiori. Era una base cospicua ma non tale da
superare nettamente quella dei grandi principi elettori suoi concorrenti. Così già nei primi decenni
del secolo XI, il problema principale dei sovrani fu quello di resistere alle ribellioni dei vassalli.
Come abbiamo accennato, il noto editto dei benefici del 1037 aveva come scopo primario il
rafforzamento del ruolo imperiale e la stabilizzazione delle clientele vassallatiche. La crisi dei
rapporti con il papato e lo scontro violentissimo con Gregorio VII colpirono duramente il prestigio
dell'Impero sotto Enrico IV. In quegli anni non solo moltissimi principi gli si rivoltarono contro, ma
fu anche eletto, da parte papale, un altro re, Rodolfo di Rheinfelden. Come dire che il principio
dinastico poteva essere rimesso in discussione. E così avvenne con i successori di Enrico V, quando
furono eletti imperatori Lotario III e Corrado III, appartenenti a una casata diversa da quella
precedente, scelti dai principi elettori anche per la loro relativa debolezza. Dei conflitti diffusi fra
re e principi troviamo conferma di un dato importante: la dimensione personale del potere
detenuto da queste famiglie ducali era basata su una grande base terriera allodiale, cioè di terre in
proprietà. Una base che rendeva i principi poco dipendenti dalle concessioni feudali del re. Inoltre
la tendenza dell' ereditarietà delle cariche portò ben presto a una dispersione dell'autorità di
origine pubblica in un pulviscolo di potentati locali che cessavano, in caso di conflitto, di
rispondere al re. In questo contesto di debolezza iniziò il regno di Federico I di Hohenstaufen di
Svevia, chiamato Barbarossa. Federico è una figura molto importante perché riuscì in quasi 40 anni
di regno (1152-1190), a rendere almeno temporaneamente unita la Germania dei grandi ducati.
Federico combattè e sottomise le casate più riottose alla fedeltà imperiale, seguendo alcune vie
principali. Come Luigi VII in Francia, fece proprio la funzione di pacificatore del regno, ordinando
una pace generale dell'Impero nel 1158 e promuovendo alcune fasce territoriali nei territori
tedeschi. In secondo luogo fece ricorso al diritto feudale per confiscare i ducati ai principi ribelli,
come mostra la lunga lotta contro Enrico il Leone, esponente della casa di Welfen, al quale
confiscò i suoi immensi territori. La lotta tra le fazioni di Welfen e dei Weiblingen, prolungò uno
stato di guerra interna che favoriva il passaggio di un ducato da una fazione all'altra. Ogni volta
che riusciva a entrare in possesso di un ducato, Federico lo divideva e da uno ne creava due,
diminuendo la forza dei singoli principati. Così fece per la Baviera tolta a Enrico il Leone, e per La
Sassonia. Creò nuovi ducati in Austria e in Stiria. Infine cercò di rafforzare la sua base patrimoniale
in Franconia attraverso un'intensa opera di passaggio di feudi. Ancora una volta, l'uso dello
strumento feudale servì come connettore della fedeltà dei grandi verso il centro, dopo aver
ridotto l’ambito d'azione dei principi. Nella dieta (assemblea dei grandi) di Roncaglia del 1158,
dopo aver elencato quali erano i diritti regi, aveva stabilito che ogni potere di natura pubblica
doveva provenire dal re, attraverso un’investitura formale ( “ogni giurisdizione viene dal re e tutti i
giudici, ufficiali pubblici, devono ricevere dal re l'amministrazione e prestare giuramento”) ,che
consentiva a Federico di ordinare la restituzione al sovrano di tutti i poteri e diritti di natura regia
in mani private. Federico usò il diritto romano per rafforzare le sue prerogative feudali,
confermando i poteri esistenti attraverso le investiture. Nella stessa dieta Federico rinnovò il
divieto di alienare i feudi, di venderli o dividerli, di giurare fedeltà a più signori, indurendo le
punizioni contro i vassalli infedeli; aveva ordinato anche che in tutti i giuramenti di fedeltà si
facesse eccezione in favore dell'imperatore ( la fedeltà al sovrano era sempre superiore), si vede
come il Barbarossa cercasse di imporre il suo potere come vertice di una tradizionale gerarchia

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

feudale, non come sovrano assoluto di stampo classico. La dieta di Roncaglia riguardava
soprattutto il regno d'Italia, dove l'opposizione di alcune città lombarde aveva provocato una dura
reazione dell'imperatore. La struttura nel complesso resse, e i principi tedeschi rimasero fedeli
all’imperatore anche dopo la non vittoria contro i comuni italiani sancita dalla Pace di Costanza
1183. Resta comunque l'impressione di una fedeltà ancora personale, legata al prestigio di
Federico e non certo alla dinastia. Lo provano i dissidi che scoppiarono nuovamente sotto il regno
del figlio, Enrico VI, che aveva cercato di imporre il diritto di successione dinastica all'Impero
abbandonando il criterio elettivo. In cambio aveva proposto ai principi tedeschi la quasi completa
libertà di lasciare in eredità i propri feudi in linea maschile e femminile. I principi tedeschi
rifiutarono definitivamente il patto di Enrico e mantennero il diritto di scegliere il futuro
imperatore. Enrico VI aveva guadagnato tuttavia una posizione di forza quando prese in moglie nel
1186 l'ultima erede dei re normanni, Costanza d'Altavilla, dalla quale ebbe, nel 1194, un figlio
chiamato Federico Ruggiero ( poi Federico II). Fu uno di quei casi nei quali la via matrimoniale
incise realmente sull'assetto politico dei regni. Enrico riuscì a entrare a Palermo nel 1194 e fu
eletto re di Sicilia. Il figlio Federico si trovò così ereditare nello stesso momento il regno di Sicilia e
il titolo imperiale (quindi re di Germania e re d’Italia). Il piccolo erede, che aveva 3 anni, dopo la
scomparsa di Enrico VI nel 1197, fu messo subito da parte per quanto riguarda la successione
imperiale. Più salda era la sua posizione nel regno normanno di Sicilia.
Il regno di Sicilia
I cavalieri normanni si erano insediati nelle regioni meridionali dell'Italia nei primi decenni del
secolo XI. Fu un processo lungo e ci volle almeno un secolo prima di poter parlare di un regno. Le
iniziative militari dei Normanni cambiarono rapidamente la natura dei poteri locali. Il controllo
esercitato sui territori da questa aristocrazia militare fu infatti violento e inedito: i Normanni
chiedevano di più e imponevano obblighi maggiori alle popolazioni contadine, alle chiese e alle
comunità soggette. Inoltre non avevano un vero ordinamento gerarchico all'interno di un sistema
istituzionale unico. La vecchia aristocrazia longobarda e bizantina in Campania e in Puglia fu in
buona parte sostituita dai cavalieri normanni o si dovette riadattare ai modi di gestione del potere
di questi: in altre parole, divennero tutti signori di castello, attraverso matrimoni e alleanze con i
nuovi venuti. Una vera dinastia di comandanti sovraregionali faticò ad affermarsi. Solo una
cinquantina d’anni dopo i primi sbarchi, intorno al 1070, la dinastia degli Altavilla si impose come
punto di riferimento di un coordinamento unitario fra i diversi territori conquistati. Presenti in
Sicilia, in Puglia e in Calabria intorno al 1040, i vari discendenti della famiglia seppero sfruttare
bene non solo le debolezze dei potentati bizantini, ma anche le contrapposizioni tra il papa e
l'imperatore, cercando di legittimarsi presso entrambi i poteri. Roberto detto il Guiscardo e suo
fratello Ruggero operarono su più fronti: in Puglia occuparono Bari, ultimo avamposto bizantino in
Italia meridionale; in Sicilia avevano iniziato una campagna contro i musulmani che portò alla
conquista di Palermo nel 1072. Il riconoscimento papale si rafforzò nel 1098 quando fu conferita a
Ruggero in Sicilia una carica simile a quella di legato apostolico: poteva eleggere i vescovi,
controllare le finanze della Chiesa e dirimere le controversie fra ecclesiastici. Ruggero ottenne così
un controllo diretto sulle istituzioni ecclesiastiche dell'isola che aiutò moltissimo la costruzione di
una nuova amministrazione pubblica nell'isola. Il modello di governo musulmano in Sicilia era
particolarmente accentrato e basato su un capillare controllo economico e politico-istituzionale
delle sue articolazioni locali. È probabile che proprio questo esempio abbia spinto Ruggero II, figlio
di Ruggero I, a impostare un disegno monarchico che abbracciasse tutti i territori dell'Italia

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

meridionale, a cominciare dalla Puglia, la regione più lontana e riottosa a sottomettersi. Quando
Ruggero provò a esportare queste forme di controllo regio sul continente, si moltiplicarono le
congiure e le sollevazioni dei baroni. L'autonomia dell'aristocrazia normanna sul continente, specie
nelle regioni più remote, rimase a lungo un ostacolo serio alla tenuta della monarchia. Colpa del
feudalesimo? no, il regno normanno non era feudale. A complicare il quadro, si era diffusa la
concezione mista del possesso di terra, a volte chiamata anche feudo: da un lato, le terre che
erano state acquisite dai cavalieri durante la conquista erano sentite come proprie dai discendenti;
dall'altro si conservava comunque un legame di fedeltà con il condottiero di riferimento, e si
riconosceva ai capi il diritto sulle terre, non perché ne fossero proprietari ma per averle
conquistate. Siamo davanti a un’ambiguità del linguaggio delle fonti. Il più importante documento
apparentemente feudale del periodo normanno, il Catalogo dei baroni del 1142, non contiene
affatto l'elenco dei feudatari del re, ma l'elenco dei soldati che i baroni normanni, in base ai loro
patrimoni, potevano armare in caso di guerra, ovvero quanto ogni barone poteva dare in termini
militari. Fu il Catalogo a creare un nesso feudale di fedeltà militare dei baroni verso il re. Davanti
all’instabilità del ceto militare, i re normanni ricorsero anche ad altri strumenti di governo per
assicurare una solida base economica alla monarchia. In primo luogo lo sfruttamento delle estese
terre demaniali di diretta pertinenza regia. Lo sfruttamento del demanio fu la chiave di volta del
sistema economico normanno, perché si crearono nuovi ufficiali pubblici nelle città del dominio e
quindi un apparato locale di controllo che garantiva gettiti fiscali più sicuri; e anche perché nelle
terre demaniali si sperimentarono con successo nuove forme signorili di sfruttamento del lavoro
contadino. Furono gli ufficiali regi a praticare con maggiore attenzione un controllo diretto del
lavoro contadino e a prelevarne sotto varie forme il surplus disponibile. Anche sul piano legislativo
i re normanni si mostrarono attivi. Prima nelle assise di Melfi del 1129 Ruggero II proclamò una
pace del regno, vale a dire il divieto di guerre private in favore della giustizia del re. In una
successiva assemblea del 1132 riaffermò l'obbligo di fedeltà per i baroni. Anche le più impegnative
assise di Ariano del 1140 contengono tracce di un autentico sforzo di affermare la superiorità regia
e il controllo pubblico sui baroni, soprattutto sul piano fiscale e giudiziario. I re della dinastia
Altavilla rivendicarono un potere con carattere di esclusività verso i sudditi latini, musulmani e
greci; stabilirono una dipendenza dei baroni al re sul piano delle fedeltà militari e raggiunsero
realmente una relativa egemonia politica in tutte le regioni del regno. I re cercarono in primo
luogo di limitare le prerogative giurisdizionale dei baroni, attraverso una rete di giustizieri regi che
avocavano a sè le cause maggiori, controllando i matrimoni per impedire eccessive concentrazioni
di patrimoni e stemperando le richieste arbitrarie dei signori verso i propri dipendenti. Le
comunità o i singoli potevano rivolgersi con una relativa facilità ai tribunali regi per lamentarsi di
richieste eccessive dei loro signori. Il regno normanno, alla fine del secolo XII, viveva dunque in
questa polarità di tensioni politiche: una forte instabilità delle fedeltà locali dei baroni conviveva
con un governo molto accentrato, culturalmente evoluto ed efficace sul piano giurisdizionale.
La successione imperiale e il regno di Federico II
Il figlio di Enrico VI e Costanza, Federico, ereditò subito il regno di Sicilia, ma per il titolo imperiale
le cose erano più complicate. Il primo conflitto per la successione vedeva contrapposti Filippo di
Svevia e Ottone di Sassonia, una riproposizione della tradizionale faida fra Guelfi e Ghibellini.
arbitro della competizione fu il papa Innocenzo III, che cambiò più volte idea. Il papa era però
anche tutore legale del giovane Federico, che poteva essere un altro pretendente all'Impero, con
la complicazione che Federico era già re di Sicilia e una nomina imperiale gli avrebbe consegnato

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

anche il regno d'Italia accerchiando completamente Roma e i domini pontifici. Nel 1211 Innocenzo
III appoggiò Federico, che fu eletto re di Germania nel 1214. Uscito vincente dalla battaglia di
Bouvines, Federico fu prima eletto re dei romani e poi, nel 1220, consacrato imperatore da papa
Onorio III. Ora nelle sue mani riuniva le sorti dell'Impero e di tre regni, Germania, Italia e Sicilia.
Federico II operò subito per un rafforzamento dei suoi domini nelle regioni meridionali
dell'Impero. Qui agì con successo nel recupero dei beni della sua casata e del regno, favorito dagli
alleati degli Svevi e dall'appoggio dei ministeriali, i cavalieri di basso rango di cui Federico fece
ampio uso nell'amministrazione del regno. Quando agiva come signore, Federico rafforzò molto il
controllo politico dei suoi domini personali, incrementando le forme di governo diretto con
ufficiali pubblici ( sculdasci, margravi, procuratori) e promuovendo le città del ducato. Quando
però agiva come re di Germania le cose andavano in maniera diversa. Federico risiedette
veramente poco in terra tedesca e da lontano doveva creare le condizioni per mantenere la pace
del regno attraverso compromessi continui con i potentati regionali per non provocare ribellioni
aperte contro il suo governo. Al momento dell’elezione imperiale, nel 1220 ,Federico emanò un
atto molto importante per i futuri assetti del regno: un privilegio ai principi ecclesiastici di
Germania in cui si concedevano amplissime autonomie giurisdizionali, tali da rendere assai labile il
controllo regio su estese porzioni del regno, che si trasformò in un pericoloso precedente politico.
Federico confermò le concessioni nel 1233, rafforzando ulteriormente l'autonomia dei principi.
Anche in Sicilia, Federico operò per recuperare i beni usurpati dai nobili durante il periodo della
reggenza materna. Appena maggiorenne, Federico aveva formato un consiglio di giuristi
incaricato di elencare tutte le possessioni del re e un inventario dei beni sottratti dalla corona. Nel
1220 in un assise a Capua, Federico ordinò una severa politica di recupero dei beni demaniali in
mano ai baroni: richiese a tutti i possessori di presentare i privilegi emanati dal padre Enrico VI o
dalla madre Costanza, con la perdita dei diritti per chi non presentava titoli validi o li aveva
contraffatti. Nel 1231 Federico emanava a Melfi il più importante atto legislativo del suo regno: il
Liber constitutionum o Liber Augustalis, dove l'ideologia regia riceveva una sistemazione di grande
spessore culturale. Ma il regno d'Italia continuava a sfuggirgli. Divisa in distretti cittadini
largamente autonomi, sotto il governo collettivo dei comuni, l'Italia centro-settentrionale aveva
seguito una via parzialmente diversa dalle altre regioni e lo sforzo di autogoverno delle città, che
ben sapevano di essere inserite in un regno assente, creò un sistema di territori cittadini che non
ebbe eguali in Europa.
Nuove strutture politiche nell’Italia medievale: città e comuni
Nascita del comune consolare: una rappresentanza autonoma delle forze cittadine

Le città italiane si presentavano come una collettività senza capo, una comunità di cittadini che si
autogovernava al di fuori di un preciso ordine gerarchico di poteri delegati. Il conte, imposto dai
carolingi, era ormai un ricordo lontano. I suoi discendenti si erano da tempo rifugiati nei loro
castelli nel contado, disinteressandosi della vita cittadina. Il vescovo era sicuramente la figura di
maggior rilievo: guidava la vita cittadina, ne assicurava l'unità religiosa e la pace sociale, mediava i
conflitti, e soprattutto deteneva importanti diritti pubblici ( il mercato, i dazi sulle merci, la
giustizia civile) che certo costituivano la base per un potere superiore di coordinamento della vita
politica. Tuttavia il vescovo non prese mai il posto del conte come funzionario pubblico inserito
nella gerarchia del regno. Il vescovo rappresentava l'unità spirituale politica della città, ma era al
contempo un grande signore feudale, con interessi economici da tutelare: doveva inquadrare i

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

suoi vassalli in una clientela stabile, fornirgli dei terreni come ricompensa della loro fedeltà e
spesso venire a patti con loro per non essere contestato o addirittura cacciato. Le città allora
dovettero cercare un delicato equilibrio tra forze sociali diverse. Le famiglie di tradizione militare,
legate al vescovo grazie al giuramento di fedeltà che in cambio dava terreni in beneficio,
trovavano nel servizio feudale uno sbocco politico ed economico necessario per mantenere il
prestigio della dinastia, ma non rinunciavano ad ampliare la propria potenza privata con frequenti
usurpazioni di terreni di proprietà vescovile. I conflitti interni erano frequenti e contrassegnarono
la vita interna delle città italiane per lungo tempo. Nelle città si muovevano gruppi sociali diversi in
grado di condizionare il governo del publicum, la sfera pubblica e collettiva della vita dei cittadini,
e anzi questo publicum si configurava come un coacervo di alleanze e di cooperazioni forzate fra il
vescovo, i suoi milites e i cives, un insieme ancora indeterminato di abitanti politicamente attivi. In
molte realtà urbane i cittadini erano gli abitanti di estrazione non militare, distinti secondo livelli di
ricchezza e di mestiere. La parte alta della cittadinanza era composta da alcune categorie di
professionisti distinti dai semplici abitanti: giudici, avvocati notai, grandi mercanti impegnati
nell'amministrazione cittadina. Si trattava di un nucleo di persone centrale per la costruzione delle
istituzioni cittadine. La cultura tecnica del giudice era necessaria per dare forma ai governi
cittadini: fornire regole di funzionamento ( come si prendono le decisioni), inquadramenti culturali
dell'azione di controllo degli uomini ( giustificazione del potere decisionale del vescovo) assistenza
diretta nelle questioni giudiziarie. Al ceto dei giudici si affiancavano spesso le èlite economiche
della città, i mercanti, i cambiatori ( coloro che valutavano e cambiavano le diverse monete), i
prestatori di denaro. Questi costituivano un ceto tecnico ormai necessario al governo della città. Al
di sotto, si trovavano tutti gli abitanti senza particolari qualifiche, soggetti al potere del vescovo,
esposti alle angherie dei suoi vassalli, ma capaci di farsi sentire come corpo collettivo nelle
assemblee pubbliche che dovevano ratificare le decisioni più importanti. Questo groviglio di
interessi divergenti trovava nel vescovo un punto di raccordo relativamente stabile. Nei momenti
di conflitto, era il presule a risolvere le liti e imporre la pace. Chi la rompeva si poneva fuori e
contro la comunità e veniva bandito, cacciato dalla città come un criminale. Nel corso del secolo XI
le città crescevano per numero di abitanti, per attività economiche, per rilievo culturale e per
importanza delle decisioni politiche che regolavano sempre di più la vita delle persone, anche del
contado. Proprio l'aumento delle funzioni di coordinamento economico e politico spinse i vescovi
e le èlite urbane a creare una nuova istituzione che si occupasse specificatamente del governo
urbano. Fra il 1090 e il 1120 circa, compaiono in quasi tutte le città italiane dei magistrati chiamati
consoli, nome che rimandava al momento glorioso della repubblica romana. Il consolato
medievale era formato da un numero variabile di membri che si riunivano in genere nel palazzo
del vescovo ,inoltre provenivano spesso da famiglie dei suoi vassalli, della media e alta aristocrazia
urbana, con l'apporto determinante dei giudici. Un’ origine sociale che ne condizionavano a lungo
le scelte di governo, chiaramente a difesa degli interessi delle classi alte. Tuttavia delle somiglianze
con il modello antico rimanevano, come la durata annuale della carica e soprattutto il carattere
elettivo della nomina. I consoli erano eletti da un organo collettivo della città, l'assemblea
generale dei cives, detta concio, che li investiva del potere di governo. Nel corso degli anni si rese
necessario coinvolgere le forze sociali più attive nella vita politica della città. Si creò allora un
consiglio cittadino, formato da un centinaio di persone, in grado di affiancare i consoli nelle scelte
più importanti. Lentamente prese piede nei comuni italiani una politica di tipo parlamentare. Il
principio di maggioranza entrò così nella politica dei comuni italiani. Era questo il fondamento
della libertà delle città italiane: l'autonomia di scelta dei propri governanti e le decisioni politiche

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

legittimate dalla maggioranza di un'assemblea cittadina eletta dagli stessi cives. Fra i cittadini e le
istituzioni si stabiliva un legame diretto, rafforzato da un giuramento reciproco dei consoli verso la
civitas e dei cives verso i consoli. Era un patto giurato di natura pubblica, chiamato breve, che
legittimava i nuovi magistrati ad agire come rappresentanti ufficiali della comunità, a imporre un
ordine delle relazioni sociali garantito da strumenti coercitivi come il bando ( la cacciata dalla città)
e regolare la vita economica della collettività. Fu un processo di maturazione anche sul piano
culturale e lessicale, come mostra la comparsa, solo nei decenni finali del secolo XII, della parola
“comune”. Nato come aggettivo, “ di tutti”, “l'insieme di”, assunse nel tempo una connotazione
politica che lo trasformò ben presto in sostantivo, “ciò che è comune “, “il comune della città”.
Le funzioni di governo: giustizia, economia e controllo del territorio
Tra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo l'aumento demografico, con correnti migratorie che
portavano in città persone di vari livelli sociali; l'ampliamento delle zone abitate, con la creazione
dei sobborghi (quartieri poco fuori la prima antica cinta muraria); l'inserimento sociale dei nuovi
arrivati e infine la richiesta dei nuovi ceti urbani di ampliare gli spazi di partecipazione politica e di
riformulare le istituzioni comunali secondo differenti equilibri sociali, portava con sé nuove
tensioni. Il consolato si presentò subito come un organo superiore in grado di risolvere questi
conflitti senza ricorrere alla violenza. Ben presto la giustizia divenne una funzione prioritaria della
nuova magistratura. Con l'aiuto dei giudici e dei notai si instaurarono delle corti comunali, aperte a
tutti, dove era possibile presentare una lamentela e ottenere giustizia dopo un processo. La
giustizia ordinaria consentiva ai più deboli di accedere a un tribunale terzo in caso di dispute
contro signori potenti. La giustizia pubblica divenne una funzione necessaria al mantenimento
della vita associata e del comune come ente collettivo. Un altro compito fondamentale riguardava
il mantenimento dell'istituzione comunale, un problema economico e politico al tempo stesso. Il
comune e la città avevano bisogno continuo di finanziamenti, di entrate garantite da un costante
afflusso di denaro da parte dei cives. Bisognava convincere i cittadini a pagare le tasse, che in città
erano straordinarie, a differenza del contado dove erano invece ordinarie, raccolte ogni anno
come segno di dipendenza dalla città. Questi pagamenti dovevano essere giustificati come
necessarie contribuzioni di tutti alle urgenze del momento, o alla salvezza della patria. Essere cives
era anche un dovere, assunto nel momento in cui si voleva abitare in città; e la traduzione
materiale di questo dovere era appunto la contribuzione volontaria, ma allo stesso tempo
doverosa alle necessità finanziarie del comune. Chi non pagava perdeva la qualifica di civis e la
protezione pubblica della sua persona e dei suoi beni. Anche l'amministrazione economica si rivelò
un compito fondamentale dei consoli. Con l'aumento della popolazione era necessario assicurare
l'arrivo del grano in città, organizzare i mercati urbani, e anche disciplinare le attività produttive.
Tutti i compiti che richiedevano non solo competenze tecniche nuove, ma anche un controllo del
territorio circostante. Lo stretto legame della città con il territorio circostante, il contado, fu una
delle principali conseguenze dell'affermazione del sistema comunale. Il rapporto con il territorio
era rimasto vitale grazie all'opera di coordinamento religioso ed economico assicurato dal
vescovo, da cui dipendevano le diocesi. Ma nel XII secolo, i comuni progettarono di estendere il
loro potere sull'intero territorio diocesano come naturale conseguenza della superiorità politica
del centro urbano rispetto al territorio. Si cercò di ottenere un potere di coordinamento sul
territorio circostante la città, soprattutto sul piano militare ed economico. Era importante disporre
liberamente dei centri strategici disseminati nel territorio, per proteggersi dai nemici esterni; e
altrettanto importante era, sul piano economico, la possibilità di imporre delle tasse al contado,

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

come contributo al mantenimento della città. Queste funzioni ai signori rurali apparivano come
una forma ingiusta di sottomissione politica e di sfruttamento, che la città non poteva imporre
senza contropartite. Fu così che i comuni percorsero vie diverse per ottenere dalle forze del
contado il riconoscimento della propria superiorità politica. Con i signori disposti ad allearsi, si
raggiunsero dei compromessi onorevoli. Molti di questi divennero cittadini e iniziarono una nuova
vita politica come esponenti di spicco del comune. In alcuni casi gli stessi signori, una volta donato
il castello al comune, lo ricevevano in feudo dai consoli conservandone il controllo di fatto ( feudo
oblato). Nei casi più gravi si ricorreva alla forza, assediando i castelli dei signori ribelli. Numerosi
privilegi furono invece concessi alle comunità di villaggio che si sottraevano al dominio di un
signore. Gli abitanti furono dichiarati liberi, sottomessi solo alla città e in alcuni casi trasferiti in
altri luoghi con un nuovo nome. Molti di questi nuovi centri, chiamati villefranche o villenuove
avevano una condizione giuridica ibrida: gli abitanti erano considerati cives, anche non residenti in
città, ma con forme di dipendenza quasi rurale verso il comune di pertinenza. Quando era
possibile, infine, il comune comprava direttamente i castelli situati in posizioni strategiche,
sottraendone il controllo a famiglie signorili impoverite. Da considerare anche che il dominio su
vaste zone del contado era spesso più virtuale che reale, e molte comunità erano contese con altre
città. Rimanevano fuori ancora ampie zone di territorio in mano alla nobiltà militare, che in alcuni
casi riuscì a costruire dei veri e propri principati con una piccola capitale: è il caso, per esempio, dei
Saluzzo in Piemonte. L'Italia medievale era un composto di tessere molto diverse: città e territori
comunali punteggiati da isole signorili autonome; principati signorili che inglobavano città minori;
territori senza città, e ancora costellazione di piccole città dipendenti da un centro maggiore.
All'inizio del secolo XIII si nota una rilevanza politica ed economica di alcune città sul mare, le
cosiddette repubbliche marinare: Genova, Pisa, Venezia e Amalfi, che nel XII secolo era di minore
importanza, erano diventate grandi empori commerciali, ma anche centri con forti istituzioni
cittadine, consolari le prime due, e già orientata verso un modello regale Venezia, che era
governata da un doge. Pisa e Genova si lanciarono alla conquista del Mediterraneo Occidentale;
Venezia costruì un ampio dominio sull'Adriatico e sui porti d'Oriente. Anche nell'Italia continentale
abbiamo linee di espansione evidenti. Milano appariva già come città di indiscussa supremazia
politica ed economica nella regione padana e divenne il terminale dei traffici commerciali tra
l'Italia e le terre dell'Impero germanico. Poco più a sud, le città emiliane si erano giovate della
ripresa dei commerci attivi lungo il Po e la via Emilia. La Toscana aveva molte città con territori
piuttosto grandi, in perenne lotta fra di loro. In Umbria e nelle Marche la dimensione dei centri
urbani era di taglia minore, eccetto il caso di Perugia; erano centri dipendenti da una economia
agraria. Nel corso del secolo XII le città dell'Italia centro-settentrionale divennero comuni,
sperimentarono le stesse forme di governo e usarono un medesimo linguaggio per rappresentarsi
e comunicare tra loro. A favorire questo omogeneità di fondo del sistema politico comunale
concorsero vari fattori: la circolazione, intensissima, di uomini e di idee fra i centri urbani e
regionali e i comuni minori, la spontanea diffusione di forme assembleari di autogoverno nelle
comunità rurali, la funzionalità della forma consolare per governare città di diversa taglia e misura;
la necessità di fronteggiare la sfida posta al sistema cittadino italiano dalle pretese dell'Impero nei
decenni fra il 1154 e il 1183, sotto il regno di Federico I di Hohenstaufen.
Le città italiane alla prova della guerra: lo scontro con Federico Barbarossa
L'importanza del periodo federiciano consiste in un processo di definizione politica delle istituzioni
comunali davanti e contro l'imperatore. Vista da fuori, l'Italia offriva un’immagine di unità e di

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

distanza dai costumi e dai modi delle terre dell'Impero. Ottone, vescovo di Frisinga, cancelliere e
zio di Federico I di Svevia, descrisse gli italiani come amanti della libertà, gelosi della propria
autonomia, e scandalosamente aperti verso le classi inferiori. Il primo contatto tra le due forze fu
traumatico: Federico si vide arrivare in sua presenza, durante una riunione a Costanza nel 1153,
due ambasciatori di Lodi vestiti di stracci, con una pesante croce di legno sulle spalle, simbolo dei
dolori che i milanesi avevano inflitto alla cittadina lombarda. Federico impose dunque ai milanesi
di presentarsi da lui e riparare l'offesa commessa contro la dignità imperiale. I milanesi cercarono
di comprare con denaro contante il permesso dell'imperatore di mantenere il dominio sulle due
città di Lodi e Como, ma l'imperatore naturalmente rifiutò e mise al bando i milanesi. Fu guerra.
Nel 1155 l'imperatore conquistò Asti e nel 1158 attaccò Brescia e saccheggiò la stessa Milano. Si
annunciava una guerra lunga. In una dieta tenuta a Roncaglia nel novembre 1158, Federico
proclamò il principio che ogni potere discendeva dall'imperatore e richiese ufficialmente la
restituzione di tutti i diritti regi (regalie) : le tasse regie (fodro), il potere di elezione dei consoli, i
palazzi pubblici, le imposte sulle strade e sui fiumi e così via; una lista che avrebbe svuotato di
contenuto il potere dei consoli e di risorse le casse del comune. Dopo la distruzione di Milano nel
1158, Federico impose alle città ribelli dei rettori di nomina imperiale, i cosiddetti podestà
imperiali, che si distinsero per la capacità con cui raccoglievano le tasse da destinare alla guerra,
esborsi di denaro anche nei comuni alleati, che non restavano in città e che alimentavano un
sistema di dominio sovra-cittadino e centralizzato. Il fisco pubblico da sistema di integrazione dei
riferimenti in una collettività di cittadini, tornò ad essere un segno di sottomissione. A queste
condizioni nessuna città avrebbe accolto il governo imperiale spontaneamente, nemmeno quelle
amiche e alleate dell'imperatore, che iniziavano a vedere nel governo imperiale una minaccia
grave alla propria autonomia e decisero di reagire. Le città venete avevano creato in quegli anni
una lega di comuni alleati impegnati a prestarsi aiuto in caso di attacco. L'idea funzionava e la
ripresero le città lombarde che nel 1168 giurarono la prima alleanza inter-cittadina, chiamata Lega
Lombarda ( Milano, Cremona, Como, Lodi, Bergamo, Brescia, Piacenza e Bologna). La lega era
governata dai rettori, eletti da tutte le città; aveva un tribunale proprio per risolvere le
controversie fra i comuni; coordinava sul piano militare le azioni delle singole città, spostando
eserciti e aiutando i membri in difficoltà anche attraverso l'invio di podestà della Lega,
contrapposti a quelli imperiali. Inoltre, diffuse fra tutti i comuni alleati un modello unico e
coerente di città comunale, governata da consoli eletti, gravitante su un territorio di pertinenza
del comune intoccabile da parte delle altre città. L'alleanza con il papa Alessandro III rafforzò la
natura ideologica della Lega. In un momento di stanchezza e dopo un decennio di battaglie
cruente ma non risolutive, avvenne nel 1176 lo scontro di Legnano in cui i comuni lombardi
riuscirono a sconfiggere l'esercito imperiale. Nel 1177 il papa riuscì a strappare all'imperatore una
tregua di 5 anni (pace di Venezia) e allo scadere del termine, nel 1183, si raggiunse una concordia
definitiva tra l'Impero le città, a Costanza. La pace di Costanza era intesa da Federico Barbarossa
come una grazia imperiale, un atto di generosità con cui consentiva alle città di continuare a
godere dei diritti pubblici ( sempre di origine regio); e dalle città come una loro carta
costituzionale, una sorta di riconoscimento di fatto delle istituzioni consolari come forma di
autogoverno delle città. Da allora le istituzioni comunali non furono più messe in discussione e
Federico pose fine alle guerre d'Italia. La situazione delle città italiane dopo il pericolo imperiale,
fece emergere nuovi conflitti politici e sociali. Gli anni della guerra avevano richiesto un grande
sforzo collettivo da parte della cittadinanza, non solo in termini economici (spese per il
mantenimento degli eserciti), ma anche in termini di impegno personale. Il grosso degli eserciti

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

comunali era composto di pedites; la partecipazione all'esercito rendeva visibile a tutti


l'appartenenza alla città, e allo stesso tempo rendeva insopportabile l'esclusione dal governo
sancito di fatto dal ceto consolare al potere. Si aprì così una competizione violentissima, aggravata
dall'inadeguatezza del regime consolare, dominato da una ristretta e litigiosa oligarchia di famiglie.
Da qui la ricerca di nuove soluzioni .
L’affermazione del comune aperto: podestà, consigli e governi di Popolo
Dopo le guerre federiciane, tra gli ultimi anni del secolo XII e i primi del Duecento in quasi tutte le
città scoppiarono disordini violenti, che si ribellavano all’iniqua ripartizione delle tasse imposte dei
consoli in occasione di costose imprese militari. Non si contestava tanto il comune in sé, ma la
ristrettezza del ceto dirigente che prendeva le decisioni per tutti, la sua sordità alle richieste di
giustizia sociale e anche la prepotenza di un ceto militare che moltiplicava le guerre senza badare
agli interessi della città. Fra l'altro, i milites erano esenti dalla maggior parte delle imposte e in più
si accaparravano una parte delle entrate grazie al risarcimento dei danni. Fu subito chiaro ai
cittadini che, se non si entrava di prepotenza nel consiglio della città, non si potevano cambiare
queste regole del gioco. Si organizzarono nuovi raggruppamenti politici che univano i cittadini non
nobili, le societates. Sorsero le società rionali, o società d’armi, che radunavano tutti gli abitanti di
una parrocchia o di una vicinia con compiti di autogoverno locale e di difesa delle mura. In un
secondo momento si aggiunsero le società di mestiere, o corporazioni di Arti, composte da
artigiani e mercanti. In una fase iniziale, prevalse uno spirito unitario e federativo. Le società
avevano inizialmente uno scopo di protezione armata dei propri membri, ma col tempo si diedero
una struttura comune, che radunava tutte le Arti sotto un organismo unitario, chiamato Popolo,
una vera istituzione pubblica che si affiancava il comune come ente esterno e interno allo stesso
tempo. Ben presto le società avanzarono richieste di natura politica come riservare ai membri
delle società popolari una quota di posti in consiglio, far pagare le tasse a tutti secondo le proprie
ricchezze, ridurre i privilegi dei nobili, impiegare le risorse per opere pubbliche, creare alleanze
utili agli scambi commerciali e soprattutto assicurare una pace interna della città, limitando la
violenza dei nobili. Davanti a queste pressioni, il sistema consolare si rivelò incapace di superare le
divisioni interne e di soddisfare le richieste di apertura dall'esterno. alcune città presero atto di
questa crisi e cercarono soluzioni alternative. Una via fu quella di sostituire i consoli con una
magistratura di emergenza che tentasse di riportare la pace in città. Questo magistrato fu
chiamato podestà, che era un rettore unico, eletto per un anno e investito dei maggiori poteri di
governo della città: il potere politico, la giustizia, la direzione economica e il comando degli eserciti
cittadini. I primi incarichi furono dati a podestà locali, grandi esponenti della nobiltà urbana, ma
presto la scelta si dimostrò infelice, perché le rivalità interne aumentarono invece di diminuire.
Allora si decise di chiamare come podestà delle personalità esterne alla città, provenienti da altri
comuni, sempre in carica un anno, e con uno stipendio adeguato a pagare i giudici e i notai al suo
seguito. Il podestà forestiero dava maggiori garanzie di imparzialità rispetto alle lotte interne. Il
compromesso funzionò e nel giro di qualche decennio, tra il 1190 e il 1220, tutte le città passarono
dal regime dei consoli al governo del podestà forestiero, con istituzioni simili e problemi comuni. Il
podestà doveva intervenire per sanare le discordie, mediare i conflitti, assicurare gli scambi,
difendere il comune dagli attacchi esterni, guidare l'attività dibattimentale dei consigli e
amministrare la giustizia. Il podestaiato era divenuto una vera professione. Furono scritti dei
manuali specifici per istruire i podestà sui possibili modi di parlare, di presentarsi in pubblico, di
formulare le proposte, di tenere discorsi in occasioni solenni. Per introdurre la nascita delle

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

istituzioni urbane, gli intellettuali comunali ripresero da Cicerone e Agostino il mito della parola
civilizzatrice: dopo un età primitiva, ferina, era venuta un’età della parola e della civilitas che portò
gli uomini a riunirsi per vivere in comunità, a costruire le città, a sottomettersi alle leggi. Due sono
gli elementi fondanti di questa rappresentazione delle origini: la centralità della parola nella
scienza del governo; e la centralità della legge come fondamento del vivere civile. La legge era
creata dagli stessi cives nei consigli. Per compensare il potere consegnato nelle mani del
magistrato forestiero, bisognava infatti rafforzare il consiglio comunale, allargato a centinaia di
cittadini, che divenne così il cuore politico del comune perché doveva eleggere il podestà,
approvare le sue decisioni e perché al suo interno si prendevano le scelte principali per la vita
politica ed economica della città. Il podestà proponeva gli argomenti da discutere, i membri del
consiglio discutevano sulla proposta e alla fine decidevano se approvarla o respingerla con una
votazione a maggioranza, che poteva essere palese o segreta. I voti erano espressi con delle palle,
o delle fave, di colore bianco e nero che ogni consigliere depositava in una sacca al momento del
voto. Rispetto al secolo precedente, Tuttavia, trovare una sintesi generale degli interessi dei
cittadini era diventato molto più difficile. Innanzitutto erano aumentati gli abitanti. Moltissimi
erano i nuovi abitanti immigrati dal territorio circostante o da altre città e fu necessario trovare
nuove forme di integrazione nelle strutture urbane. Molti divennero lavoranti salariati, alle
dipendenze dei maestri, ma altri riuscirono a trasformarsi in artigiani in proprio. Il ceto artigianale
emerse prepotentemente sia sul piano economico, sia su quello politico. Le corporazioni, che
raggruppavano lavoratori dello stesso ramo, contavano ormai diverse migliaia di membri. Iscriversi
alle Arti era diventato dunque molto importante per i cittadini del XII secolo. In primo luogo per un
motivo economico, perché le le corporazioni controllavano il lavoro e stabilivano i prezzi delle
merci e i salari dei lavoranti. La seconda ragione era di natura politica, perché i consoli delle Arti
erano confluiti in un consiglio unitario detto del Popolo che prendeva decisioni sempre più
importanti per tutta la città. In molti comuni fu liberalizzata l'iscrizione alle Arti: non si doveva per
forza esercitare un mestiere, era sufficiente avere l'intenzione di appartenere a quella società e
avere sufficienti conoscenze per essere accettati.
Il governo delle corporazioni nel Duecento
Dalla seconda metà del Duecento, le Arti si candidarono al governo della città in nome di una
nuova idea di comunità, fondata sul lavoro artigianale e sui commerci, su una giusta divisione delle
spese pubbliche e sulla pace sociale. Affiancarono al podestà e al consiglio del comune, un proprio
magistrato, sempre forestiero e a tempo, chiamato il Capitano del Popolo. Nei comuni in cui
riuscirono a prevalere, instaurarono un nuovo governo dominato direttamente dal gruppo
dirigente delle Arti ( Bologna, Firenze, Perugia e Siena), un governo collegiale formato dal podestà,
dal capitano, dai due consigli, del comune e del Popolo, coordinati dai rappresentanti delle Arti. Il
processo di razionalizzazione delle pratiche di governo subì una brusca accelerazione. In tutte le
città furono create liste generali di appartenenza qualificata alla città. Si censirono, in primo luogo,
i residenti; poi i contribuenti. Le dichiarazioni dei contribuenti venivano trascritte in grandi registri
e alla somma dei beni dichiarati veniva attribuito un valore totale che rappresentava la cifra di
estimo di quel civis, la sintesi della sua ricchezza. Fu un'operazione lunga e costosa, che aprì la via
all'adozione di un criterio proporzionale nella raccolta delle imposte pubbliche: vale a dire che si
pagavano le tasse in proporzione alla ricchezza reale, come il Popolo aveva richiesto nei decenni
precedenti. In base a questi elenchi generali si elaborarono liste secondarie di appartenenti ai
consigli, alle società territoriali corporative, agli uffici comunali. Il presupposto di questa

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

rivoluzione delle prassi documentarie fu il controllo delle condizioni individuali dei cittadini, un
controllo da attuare con strumenti completi, ma sintetici e facilmente aggiornabili, che misuravano
l'affidabilità o meno dei singoli cives. Si formarono elenchi di appartenenti alla parte riconosciuta
come nemica e posta al bando e la giustizia divenne più severa. Inoltre si presero provvedimenti
severi contro le speculazioni economiche dei grandi proprietari. In città si pose un limite ai prezzi
degli affitti delle case. Nel contado, la necessità di assicurare rifornimento di grano per le città,
spinse quasi tutti i comuni a vietare tassativamente di esportare grano fuori del contado o di
ammassare il frumento nei periodi di carestia per far aumentare il prezzo. In generale il contado fu
oggetto di una profonda ristrutturazione nelle sue articolazioni amministrative. Negli ultimi
decenni del Duecento le pretese delle città comunali aumentarono: divisero il territorio per zone
amministrative corrispondenti grossomodo ai prolungamenti dei quartieri cittadini; al loro interno,
queste partizioni furono suddivise a loro volta in aree minori, affidate a un ufficiale cittadino, il
vicario o il podestà, responsabile della condotta degli abitanti; i castelli furono controllati
direttamente da contingenti militari anche se di provenienza urbana. Soprattutto si impose alle
comunità del contado una serie di doveri fiscali e annonari che scaricavano sui comitatini una
parte rilevante del costo del mantenimento della città e della sua popolazione in crescita. Anche la
disciplina sull’accoglimento dei comitatini in città si fece più rigida, con provvedimenti di chiusura
verso gli immigrati rurali meno integrabili nel tessuto urbano. Nonostante queste tensioni, il
comune di Popolo ricercava una legittimità più alta del regime podestarile, fondata sulla disciplina,
ma anche su una reale compartecipazione agli interessi collettivi raggiunta attraverso un sistema
di rappresentanze a catena che mettevano in contatto i membri delle associazioni di mestiere con
gli organismi dirigenti del Popolo e dunque con le istituzioni comunali. La divisione in fazioni o
parti, gruppi di famiglia alleate politicamente contro la parte avversa, si era diffusa durante le
guerre contro Federico I e Federico II. Fu in quel periodo che le famiglie e le città si contrapposero
in guelfi, alleati del papa, e ghibellini, alleati dell'imperatore. La scelta di aderire a una fazione
dipendeva da fattori diversi, di carattere sociale più che da una reale fedeltà alla Chiesa o
all’Impero. In molte città le parti, guelfa o ghibellina, divennero un'istituzione, con propri consigli e
podestà. In tal modo le parti offrirono ai loro aderenti un'altra via di accesso al potere. Ma la
conflittualità aumentava: alle tensioni di classe, si aggiungevano gli odi di fazioni. Per questo il
popolo cercò di combattere l'eccessiva carica di violenza di queste forze centrifughe, facendo del
tema della pace l'ideale politico della città. Era un tentativo di sostenere l'equilibrio assai fragile
tra governi di popolo e fazioni grazie a una potente molla ideologica che legittimasse governi
sempre più di parte. Molti comuni di Popolo emanarono a fine Duecento delle leggi speciali,
chiamate ordinamenti di giustizia o leggi antimagnatizie, per assicurare la pace interna contro i
magnati. Per magnati si intendevano tutti quei grandi che si opponevano al comune e lo
minacciavano con atti di sovversione violenta. A queste persone fu vietato di assumere cariche
comunali, fu imposto un regime speciale nelle questioni giudiziarie ( dovevano pagare pene
raddoppiate o quadruplicate per i reati violenti); e infine, a molti di coloro che non rispettavano
questi precetti, fu comminato il bando e l'esilio dalla città. In questi casi il sistema delle liste
funzionava bene. Il comune poteva controllare i singoli cittadini in base al loro comportamento e
spostare gli individui ribelli o inaffidabili dalle liste di inclusione a quelle di esclusione con un
semplice atto amministrativo. Proprio in questi anni di forte divisione interna si affermò la teoria
del bene comune come fine ultimo della politica ( su modello di un'opera di Aristotele, la Politica,
che giudicava giusti e legittimi solo i regimi che inseguivano il bene di tutti e non del singolo).
Naturalmente il Popolo, nella sua opera di propaganda, si presentò come l'unica forma di governo

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

in grado di raggiungere il bene comune, perché favoriva un sistema consiliare aperto, difendeva il
benessere collettivo inseguiva la giustizia, l'equità e la pace. Ideali e realtà purtroppo non
coincidevano. In molte città l'esperimento del Popolo finì precocemente. I conflitti sociali e le lotte
di fazione provocarono una reazione di rigetto delle istituzioni comunali e il potere fu assunto da
personalità di prestigio, spesso provenienti da famiglie nobiliari. Un signore, dominus in latino, che
si impose sulle forze cittadine, sostituendosi al comune nella guida della vita politica. In Lombardia
si sperimentarono alleanze ibride tra i movimenti di Popolo e le prime figure tendenzialmente
signorili. Non subito e non ovunque, tuttavia, nelle città signorili, i consigli comunali furono sciolti
o lasciati in vita come semplici organi di ratifica delle decisioni prese dal signore. Tuttavia, non si
trattò di una svolta definitiva. Le città italiane entrarono infatti in una fase di sperimentazione
ancora incerta, con momenti di governi autocratici in mano a un signore e ritorni improvvisi a
governi comunali. Sia nei governi repubblicani-comunali, sia in quelli signorili, il potere politico
doveva tornare nelle mani delle forze politiche cittadine.
PARTE QUARTA: crisi e inquadramento delle società europee (metà XIII-XV secolo)
Il papato, gli ordini mendicanti e la crisi della Chiesa (1215- 1378)
Il concilio Lateranense IV, tenuto a Roma nel 1215 sotto papa Innocenzo III, disciplinava e
rinnovava la procedura giudiziaria interna alla Chiesa, la lotta agli eretici, le pratiche pastorali da
seguire nelle diocesi, inquadrando queste regole in un sistema istituzionale sempre più centrato
sulla figura del papa come guida spirituale e politica dell’intera cristianità. Si preparava il terreno
per la dottrina della potestà assoluta del papa e della sua infallibilità. Il concilio Lateranense IV
promulgò anche due canoni che cercavano di dare una forma ai nuovi movimenti religiosi nati nei
primi anni del Duecento. Soprattutto ai due principali ordini mendicanti, i predicatori, fondati da
Domenico di Caleruega, e i minori, seguaci di Francesco d'Assisi ( più tardi chiamati i domenicani e
francescani). La nascita e la rapidissima diffusione dei due ordini rappresenta senz'altro una delle
maggiori novità nella vita religiosa delle società europee e si posero come mediatori fra le istanze
di ordini della Chiesa e le domande dei laici di una partecipazione attiva alla vita religiosa. Come
inquisitori esercitarono anche una funzione di polizia, ma questo rientrava nei loro compiti di
difensori della fede e di devoti servitori del papa di Roma. L'eresia divenne un campo di tensioni
fortissime: da un lato esisteva l'eresia religiosa, quella perseguita dagli inquisitori; dall'altro, però,
il reato di eresia fu sempre di più applicato alla politica; l'infedeltà politica divenne anche infedeltà
religiosa. Nello stesso periodo si verificò una crisi politica senza precedenti: prima lo scontro tra
Bonifacio VIII e il re di Francia 1303, culminato con un processo per eresia intentato contro il papa
ormai defunto; poi l'abbandono di Roma e il trasferimento del papato ad Avignone per un
settantennio; e infine dopo il primo tentativo di riportare la sede a Roma, uno scisma fra papa
romano e un antipapa francese che divise in due l'Europa per un'altra cinquantennio.
La Chiesa del papa: apogeo e crisi del papato
Il Concilio Lateranense IV riassumeva una stagione di riforme e innovazioni istituzionali che
riguardavano il governo della Chiesa. Sotto la guida autoritaria di Innocenzo III, fu approvata e resa
ordinaria la procedura inquisitoria contro i chierici; fu stabilito l'obbligo di scrittura degli atti
giudiziari; mentre il divieto di intervento dei chierici alle ordalie ( prove del fuoco e dell'acqua
usate per affermare una verità) rese la giustizia più razionale, estendendo a tutti i processi il
ricorso alle testimonianze e alle prove scritte. Si collegano i sacramenti in un unico sistema di

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

salvezza: i fedeli dovevano confessarsi almeno una volta all'anno e ricevere l'eucaristia a Pasqua;
chi si rifiutava non poteva entrare in chiesa nè esservi sepolto. Anche il matrimonio doveva essere
celebrato in chiesa ed erano vietati gli sposalizi fatti in segreto, mentre disertare le funzioni
religiose era considerato un atto di rifiuto che meritava l'esclusione dagli spazi sacri. Tutte le
posizioni eterodosse, giudicate errate da un tribunale ecclesiastico, furono condannate con la
scomunica, l’espulsione del colpevole dalla comunità, il sequestro dei beni e il divieto per i figli di
ereditare i beni di una persona scomunicata. Il concilio fu guidato con mano ferma da Innocenzo
III; l'assemblea dei vescovi si era limitata il più delle volte a ratificare i documenti senza intervenire
nel merito. Era un riconoscimento aperto del grande potere assunto dal pontefice romano nelle
decisioni che riguardavano lo Stato della Chiesa, vale a dire il suo assetto istituzionale. Verso la
metà del Duecento, le correnti di pensiero a favore del pontefice si concentrarono sulla natura
giuridica di questo potere, formalizzando la concezione di una potestà assoluta del papa. Il cambio
di titolazione da vicario di San Pietro a vicario di Cristo andava già in questa direzione e
sottolineava l'origine divina delle prerogative papali, che non potevano essere messe in
discussione da persone o istituzioni terrene. I canonisti di metà Duecento distinsero inoltre un
potere ordinario del papa, in accordo con le leggi, e un potere assoluto, sciolto dalle leggi e
superiori alle leggi stesse, che il papa poteva esercitare in caso di necessità e per il bene della
Chiesa. I teorici della supremazia papale arrivarono sostenere anche che il papa non poteva
sbagliare, era infallibile, e questo per un passo del Vangelo di Luca in cui Cristo esorta Pietro, che
da Innocenzo III in avanti, venne interpretato letteralmente, affermando che era proprio Pietro a
non sbagliare mai e questo potere si era trasmesso naturalmente ai pontefici suoi successori.
Queste esaltazioni del ruolo del papa costituivano una base teorica alle concrete pretese di
governo del papa sulle istituzioni ecclesiastiche. Furono rafforzate le competenze dei legati
pontifici che, sotto Innocenzo III, divennero dei veri rappresentanti plenipotenziari del papa,
soprattutto per le questioni interne alla Chiesa ( superiorità rispetto ai vescovi locali). Nel corso del
Duecento, i pontefici cercarono in ogni modo di mettere sotto controllo le elezioni dei vescovi e si
riservarono il potere di trasferire i vescovi da una sede all'altra. Le tensioni generate dai contrasti
tra il papa ai vescovi durarono a lungo e diedero vita a una vera e propria corrente politica
chiamata conciliarismo che affermava la superiorità del concilio sul papa. La questione diventava
urgente quando si poneva il caso della deposizione di un papa giudicato eretico, evento tutt'altro
che infrequente nella storia della Chiesa. La possibilità di una spaccatura interna alla Chiesa, con
una duplicazione di centri di potere in conflitto, rimaneva quindi sempre aperta. Il diritto della
Chiesa è profondamente rinnovato nel Duecento. Alla base del nuovo diritto furono poste proprio
le lettere pontificie chiamate decretali, che assunsero un valore generale e furono raccolte in
cinque collezioni ( le Cinque Compilazioni), che divennero presto punti di riferimento importanti
per regolare la vita delle chiese. Una tappa rilevante fu una redazione di un Codice unico, che
riordinò le compilazioni precedenti: il cosiddetto Liber Extra, voluto da Gregorio IX. Si ottenne così
una serie di regole che disciplinavano tutte le materie di diritto canonico in armonia con le
decisioni prese dai diversi pontefici e dai concili ecumenici. L'operazione ebbe un enorme successo
e rimase il testo normativo di riferimento fino al primo vero codice di diritto canonico del 1917. La
curia romana cercò di articolare meglio le funzioni di governo del papato che si muoveva ormai in
uno spazio d'azione di ambito europeo, soprattutto in due settori: quello finanziario, con l'afflusso
delle decime da tutto il mondo cristiano, e quello giudiziario, con un numero crescente di cause
che giungevano a Roma per essere risolte dal papa (diritto d'appello stabilito da Alessandro III). I
cappellani del papa, che prima si occupavano degli affari giudiziari, furono sostituiti da una nuova

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

magistratura, gli auditori delle cause, che si spartivano i processi con i cardinali romani. Il controllo
sulla gerarchia episcopale divenne ancora più assiduo quando si perfezionarono due fondamentali
strumenti di governo: i peccati riservati al papa, vale a dire i peccati dai quali solo il pontefice
poteva assolvere; e il potere di concedere una dispensa dall'osservanza di alcune norme
canoniche, secondo il principio che solo il legislatore che aveva fatto la legge poteva sciogliere dal
rispetto della regola. Il sistema delle dispense accolse un numero crescente di nelle materie che
disciplinavano matrimonio, la concessione di benefici e le carriere degli ecclesiastici. Fu istituita
anche la Penitenzieria, in genere affidata ad un esponente degli ordini mendicanti. La Chiesa
romana aveva dunque raggiunto una centralità indiscussa nel mondo politico e religioso del
medioevo europeo. Ma le sfuggiva il controllo pieno delle sensibilità religiose presenti nelle
società medievali sempre più articolate.
Nuove forme di religiosità monastica: gli ordini mendicanti
In questo contesto di grandi conflitti fra una Chiesa sempre più centrata sul papa di Roma e una
massa di fedeli che chiedeva, e si guadagnava, nuovi spazi di vita religiosa dentro e fuori le
istituzioni ecclesiastiche, presero forma due movimenti religiosi: i predicatori fondati da
Domenico di Caleruega e i minori fondati da Francesco d'Assisi, chiamati ordini mendicanti. Dopo
la loro affermazione, ai due ordini fu affidata l'Inquisizione contro l'eresia, un tribunale contro i
crimini ideologici e politici. L'origine dei frati predicatori (domenicani) è strettamente legata alla
lotta antiereticale, che fu condotta intensamente in Francia meridionale agli inizi del Duecento. Fu
proprio attraverso le terre della Francia meridionale infestate dai catari che un canonico spagnolo,
Domenico da Caleruega decise di prestare la sua opera missionaria per contrastare l'eresia. Il
catarismo che si trovavano ad affrontare si basava su un’accesa contestazione dei poteri
sacramentali della Chiesa. Domenico ebbe l'intuizione di unire una predicazione esemplare con
una preparazione dottrinale in grado di rispondere alle teorie degli eretici. Esemplare voleva dire
che il predicatore doveva essere di esempio e dunque fare propri gli ideali di povertà e di
semplicità che la popolazione sembrava apprezzare come segno di coerenza di vita e di fede.
Domenico scelse così di presentarsi vestito umilmente e a piedi e di accettare il confronto con
tutti. Sostenuto inizialmente dal vescovo di Tolosa, Domenico organizzò un primo gruppo di
seguaci che aumentò nel corso degli anni Venti e Trenta del Duecento in maniera notevole. Il
nuovo ordine fu approvato da Onorio III nel 1216, e nel 1221 ne furono redatte le Costituzioni, che
definirono le forme di vita in comune ( povertà, elemosina come sostentamento, predicazione,
vita in comune nei conventi, formazione di un capitolo generale che doveva eleggere un maestro
generale dell'ordine). Caratteristica principale dei predicatori tuttavia fu la formazione culturale
richiesta ai nuovi frati, necessaria per contrastare con argomenti teologici corretti le teorie degli
eretici. Una formazione scolastica o poi universitaria fu da subito un criterio necessario per entrare
nell'ordine. L'origine dei Minori è legata indissolubilmente alla figura di Francesco d'Assisi, nato nel
1182 da Pietro di Bernardone, mercante di Assisi. Francesco pose come inizio della sua
conversione l'incontro con i lebbrosi, grado ultimo dell'umanità. bisognava iniziare dagli ultimi e
scorgere in tutte le forme di emarginazione una traccia della presenza di Cristo. Fu un’intuizione
fecondissima, che animò la scelta di povertà assoluta e di rinuncia a tutti i segni di potere che
Francesco abbracciò subito dopo l’incontro con i lebbrosi. Tra il 1207 e il 1208, iniziò la
predicazione itinerante con i primi fratelli, portando il suo messaggio e il suo esempio nelle regioni
dell’Italia centro - settentrionale. Maggiori informazione fornisce la regola “non bollata” del 1221
dove si presentano alcuni punti fissi dell’ordine minoritico: i fratelli dovevano rinunciare a tutti i

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

beni, donarli ai poveri, vestire semplicemente di una tunica di panno vecchio, lavorare sempre per
fuggire l’ozio, non avere possessi ed evitare in tutti i modi il contatto con il denaro, ma potevano
ricorrere all’elemosina. La ricerca di beni doveva quindi essere limitata al soddisfacimento dei
bisogni naturali (mangiare, vestirsi) e il valore delle cose era determinato dalla loro utilità in caso
di necessità. La povertà per Francesco aveva due dimensioni: una esterna, che prevedeva la
rinuncia totale alle cose materiali e al possesso; e una seconda interna, che richiedeva invece la
rinuncia alla propria interiorità per consentire a Dio di entrare nell’animo umano e di portarlo
verso la salvezza. Un patto che si rinnova mediante l’eucarestia. Tuttavia i conflitti interni ed
esterni all'ordine erano comunque destinati a crescere. L'ordine doveva essere inquadrato in un
sistema di regole comuni, anche se i confratelli faticavano a seguire una spiritualità così alta come
quella proposta da Francesco: alcuni, per esempio, non riuscivano a capire il rifiuto totale del
denaro. Nel 1220 Francesco rinunciò a guidare la fraternità e chiese al papa un cardinale
protettore che si prendesse cura dell'ordine: Ugolino d'Ostia, futuro papa Gregorio IX, divenne il
cardinale di riferimento dei minori e scrisse, insieme a Francesco, la seconda regola dell'ordine,
questa volta approvato ufficialmente da papa Onorio III nel 1223, detta perciò bollata. Negli ultimi
anni, Francesco accentuò la dimensione mistica della sua ricerca di una vita pienamente cristiana.
Si ritirò sul monte della Verna e lì ricevette il dono delle stimmate. Nel suo ultimo scritto, il
Testamento, ribadì i punti fermi della sua spiritualità ( povertà, penitenza, eucarestia e
obbedienza), ma avverti anche la distanza che si era creata tra la fraternità che aveva immaginato
all'inizio, e l'ordine che aveva sotto gli occhi. Nel testamento chiedeva ancora ai suoi frati di non
farsi coinvolgere nelle cose del mondo, di vivere del proprio lavoro in povertà. Chiedeva anche ai
suoi successori di leggere il Testamento insieme alla regola e di considerarlo come un atto
fondante dell'identità minoritica. Francesco morì nel 1226, ma il suo culto iniziò prestissimo, grazie
all'identificazione con la corporeità di Cristo, suggerita dalla notizia delle stimmate ,che ne fece
subito una figura eccezionale e inarrivabile. Le storie della sua vita si moltiplicarono. Nel 1254,
dopo diverse missioni in Lombardia e in Francia, ai minori, insieme ai predicatori, fu assegnato
l'ufficio di inquisitori contro l'eresia. Nel 1260 il maestro Bonaventura di Bagnoregio riformò le
costituzioni dell'ordine e riscrisse una nuova storia di Francesco, la legenda maior approvata come
versione ufficiale. Bonaventura impose la figura del santo fondatore come altro Cristo, un esempio
inimitabile di santità. La nuova immagine di Francesco serviva dunque a fondare una nuova
identità dell'ordine come colonna che sosteneva l'intero edificio della Chiesa cattolica. Nei decenni
successivi l'ordine tornò a dividersi su innumerevoli temi. All'inizio del Trecento la formazione di
un nucleo duro di rigoristi della povertà chiamati spirituali creò una spaccatura profonda in seno
all'ordine dei minori. La ricerca di una povertà assoluta fu portata alle sue estreme conseguenze:
non solo i frati non potevano avere una proprietà, ma l'ordine stesso non doveva possedere nulla,
a imitazione di Cristo che non possedevano nulla, e dunque negava il principio proprietario, che
rendeva incerta la posizione della Chiesa ufficiale che non si era mai preoccupata dell'enorme
quantità di beni che aveva in proprietà. Il papato reagì prima isolando e punendo gli spirituali, poi
vietando le posizioni teoriche più estreme e infine, dal 1319, eliminando i fraticelli come eretici.
I mendicanti e l’inquadramento dei fedeli
Entrambi gli ordini ricevettero il privilegio di predicare e di confessare, celebrare messa e
accogliere i morti, in aperta concorrenza con il clero ordinario che si vide minacciato nel
monopolio della cura d’anime. Il successo dei mendicanti come predicatori fu enorme: erano
seguiti da masse di fedeli nelle città. Tanto successo si dovette alle capacità di presa sulla realtà

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

cittadina da parte dei frati, spesso provenienti dai ceti medi urbani. Una conoscenza diretta dei
problemi, dei punti deboli e delle aspirazioni delle classi artigianali e mercantili, che aiutò
moltissimo a impostare una nuova tipologia di predicazione per “esempi”, brevi storie che
illustravano un singolo aspetto della vita religiosa dei fedeli in maniera narrativa. L’uso di un
linguaggio piano (le prediche erano in volgare), la semplificazione dei problemi teologici, la
capacità tecnica di tenere viva l’attenzione attraverso una sapiente distribuzione di emozioni,
permisero ai frati di trasmettere ai fedeli modelli di comportamento eticamente positivi. Per
esempio, in molti manuali di predicazione si insisteva contro le tentazioni della “cupidigia” e della
“superbia”. Come rimedio si proponevano appunto l’umiltà e la penitenza: vale a dire la necessità
di riconoscere che le sorti umane dipendono da Dio e di accettare la propria condizione sociale
come parte di un disegno superiore. La predicazione doveva spingere alla confessione e
all’ammissione della propria debolezza. Predicazione e confessione erano strettamente unite in
una sola grande opera di inquadramento pastorale dei fedeli: si predicava per spingere i fedeli a
confessarsi e ci si confessava per essere pronti a ricevere il corpo di Cristo nell’eucarestia. La
penitenza era dunque un passaggio necessario per la salvezza. Si classificavano i peccati secondo i
“casi chiusi”, in base alla professione, allo status delle persone, alla loro età, alla loro disposizione
a peccare. Ogni categoria sociale o di mestiere aveva i “suoi” peccati e soprattutto ogni persona
poteva peccare in maniera diversa secondo le circostanze. I fedeli spesso non “sapevano” di
peccare e non erano in grado di valutare se quel dato era un peccato grave o veniale. Così alcuni
manuali iniziarono a presentare elenchi di peccati, o di comportamenti considerati peccaminosi,
per istruire sia i preti, sia i penitenti a riconoscere gli errori da emendare. Il sacerdote confessore
non doveva limitarsi ad ascoltare il racconto del penitente, ma doveva sollecitare con domande
appropriate i fedeli a sondare le proprie coscienze. Il prete decideva la gravità della colpa e l’entità
della pena. La confessione diventava così un piccolo processo. I laici premevano per un
ampliamento delle forme di partecipazione alla vita religiosa e Innocenzo III aveva prospettato una
possibilità importante di vita religiosa per i laici: limitata a un impegno di condurre una vita più
vicina ai modelli monastici, “più dura e semplice di quella degli altri”. Così molte associazioni
laicali, che conducevano una vita comune in castità e preghiera, erano state recuperate e
approvate dalla Chiesa ( umiliati, poveri valdesi, poveri lombardi). Numerose erano poi le
associazioni di penitenti che imponevano ai loro membri uno stile di vita moderato, lontano dagli
eccessi, dai banchetti, dal lusso e segnato invece dai digiuni, dalla continenza tra sposati in certi
periodi dell’anno, da una serie di attività culturali e chiaramente penitenziali. Un insieme di
pratiche che li dovevano rendere distinti dal resto dei fedeli. Fu proprio questa funzione esemplare
di vita ascetica, di rinunce e di fratellanza, che la Chiesa approvò con maggiore convinzione,
sforzandosi di fornire un inquadramento istituzionale efficace attraverso la formula della
confraternita. Le confraternite dovevano essere approvate dalla Chiesa, avere uno statuto che ne
regolasse la vita interna, le preghiere, i digiuni, i rapporti tra confratelli e naturalmente
l’obbedienza verso il clero diocesano. Molte confraternite si specializzarono in una serie di attività
diverse (carità pubblica o assistenza ai malati, etc). Questa galassia di movimenti laicali fu
ricondotta, con una certa forzatura, sotto l’ala protettiva degli ordini mendicanti, in particolare dei
minori. In una bolla del 1289, papa Niccolò IV (il primo papa proveniente dai minori) istituì un
nuovo ordine religiosa laicale dipendente dai minori, il terz’ordine francescano, e stabilì che i
penitenti potevano essere assimilati ai francescani. Tutti gli ordini mendicanti formarono quindi
dei “terz’ordini” composti dai laici e, insieme alle altre confraternite, riuscirono a dare un indirizzo
comune alla vita religiosa di un gran numero di abitanti delle città. Questa era la parte costruttiva

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

dell’azione ordinatrice della Chiesa. Diversa era chiaramente l’azione di controllo e di


contenimento delle esperienze religiose giudicate eterodosse. I minori sono documentati come
inquisitori ben prima del 1254, nel medesimo anno si assiste invece alla piena istituzionalizzazione
dell’Inquisizione, che divenne un’ istituzione stabile della Chiesa romana, con il concorso degli
interi ordini francescano e domenicano. Innocenzo IV aveva diviso l’Italia in due province: una
segnata ai predicatori (Emilia, Lombardia, Piemonte, Liguria) e una ai minori (marca di Treviso,
marca di Ancona, Romagna, Toscana). La procedura adottata dagli inquisitori era chiamata
inquisitio ex officio, non era chiaro il caso di imputazione: nella gran parte dei casi non era tanto la
fede in un determinato credo religioso a essere punita, quanto la frequentazione del gruppo
sospetto, l’adesione alla setta, l’aiuto indiretto o la semplice conoscenza. Dell’eresia importava in
primo luogo la rete sociale che la sosteneva, non la dottrina. La classificazione degli eretici si
ampliò , distinguendo i ribelli, che rifiutavano di convertirsi; i relapsi, che tornavano al loro credo
dopo essersi pentiti; i fautori, che intralciavano l’Inquisizione; i sospetti, che rifiutavano di giurare
fedeltà alla Chiesa. Il canonista Raimondo di Penafort aveva classificato le tipologie di “fautori”
degli eretici, che andavano dal sodale della setta al semplice conoscente dei componenti, secondo
il gradi di informazioni in loro possesso. Negli interrogatori dei processi inquisitoriali, la maggior
parte delle domande era diretta a scoprire quali persone il teste aveva visto, in quale luogo, chi
erano i presenti, quali di questi erano in contatto con gli eretici. Accusare qualcuno come eretico
divenne uno stratagemma spesso necessario per sottrarsi a un processo lungo e penoso. L’azione
sul campo degli inquisitori cercava di colpire questa rete di solidarietà, attraverso la confessione
degli adepti più deboli della setta. Quando gli inquisitori arrivavano in un paese o in un villaggio
dichiaravano un “periodo di grazia” durante il quale venivano ascoltati tutti quelli che avevano
qualcosa da dire. Dopo la fine di questo periodo, che durava tra i 15 e i 30 giorni, l’inquisitore
iniziava il processo contro i sospetti, le persone infamate, quelle indicate come vicine agli eretici.
Per scoprire e colpire la rete dei sospetti, molti inquisitori lanciavano inchieste collettivi, mettendo
sotto accusa interi villaggi. L’accusa di eresia fu usata anche come strumento di vendetta per i
conflitti di fazione interni alla comunità. Le persone indicate come eretiche, venivano prelevate e
interrogate singolarmente. Usata con abilità, la tortura cresceva di intensità ogni volta che veniva
rinnovata, fino all’ottenimento della confessione. Una volta che aveva capitolato, l’imputato
poteva scegliere: pentirsi o mantenere ferma la propria fede. Il fine dell’Inquisizione non era
quello di sterminare gli eretici, ma di spingere al pentimento e all’abiura. I pentiti venivano fatti
sfilare in processioni guidate dal clero e dalle autorità civili del posto, che percorrevano il paese
mostrando a tutti gli eretici che confessavano le loro colpe e i loro complici. Le pene per gli
irriducibili erano severe. Innocenzo IV nella bolla ad extirpanda del 1252, aveva inserito nella
legislazione ecclesiastica un esplicito assenso alla pena di morte da infliggere agli eretici
impenitenti, che dovevano essere consegnati al braccio secolare e bruciati. Era lecito anche il
ricorso alla tortura, il sequestro dei beni, la distruzione delle case. L’Inquisizione dimostrava così
tutta la potenza di uno strumento eccezionale dotato di mezzi eccezionali per scoprire e abbattere
i nemici della Chiesa e della fede, ma anche i nemici della società. La lotta all’eresia aveva creato
un nuovo ambito di potere: la difesa dell’ordine sociale come ordine istituito da Dio. Fu inevitabile
che su questo si aprisse una serrata competizione con le autorità civili.
L’uso politico dell’eresia: re e pontefici alla ricerca del carisma
Ne corso del Duecento, la lotta all’eresia divenne un’arma politica di prim’ordine, molto ricercata
anche dai poteri laici. Fin dal 1220 Federico II aveva accettato di combattere l’eresia affianco della

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

Chiesa; aveva represso gli eretici “ patarini” in Sicilia ed emanato importanti leggi contro ogni
corrente eretica, contro i ribelli del regno e nei comuni italiani, non aveva esitato infatti a usare
l’accusa di eresia, equiparandola al reato di lesa maestà. Quando però Federico ruppe
violentemente con il papato, si trovò improvvisamente additato come eretico e massimo nemico
della Chiesa. La lotta del papato contro l’imperatore si trasformò in una crociata per la difesa della
fede. Ezzelino da Romano, ghibellino e erede di una nobile stirpe militare veneta, aveva creato un
potentato intercittadino tra Padova, Treviso e Verona, e aveva instaurato un dominio tirannico di
estrema violenza in queste tre citta, che fornì alla Chiesa romana un modello di “tiranno eretico”
destinato a lunga fortuna. Il tiranno uccideva e rapinava i beni dei sudditi. Ma nei documenti
papali Ezzelino non era solo violento, nemico della Chiesa e protettore degli eretici: era un vero
agente del demonio, una sua personificazione terrena, incaricata di sterminare il genere umano.
La sua partica di uccidere i nemici e di far evirare i loro figli tendeva, a impedire la moltiplicazione
degli uomini, contravvenendo all’imperativo divino di propagare la vita sulla terra. Ciò richiedeva
appunto una guerra condotta nel nome di Dio. Grazie agli sforzi compiuti dalla cultura
ecclesiastica, l’eresia era diventata un reato politico. Essendo dunque chiamato in causa il potere
politico in generale, era chiaro che il papa non poteva essere l’unico a usare l’armamentario
ideologico religioso costruito intorno all’eresia e contro l’eresia potevano e dovevano intervenire i
re cristiani dell’Europa medievale. Due episodi devono essere ricordati come emblematici di
questa nuova via di affermazione del potere regio: il conflitto con Bonifacio VIII e il processo
contro i templari; due atti che cambiarono sensibilmente la natura del potere regio e i suoi compiti
di guida anche religiosa del regno. Il conflitto con Bonifacio VIII verteva su due elementi
fondamentali della politica pontificia: la difesa dell’immunità della Chiesa da fisco e dalla giustizia
dei re. Per due volte, invece, Filippo IV il Bello aveva forzato la mano: la prima, imponendo una
tassa al clero francese in occasione della guerra; la seconda, mettendo sotto processo un vescovo.
In entrambi i casi la reazione di Bonifacio fu violentissima, minacciò il re di scomunica e riaffermò
in una bolla il potere assoluto del papa su tutti i principi laici. Naturale quindi la subordinazione del
potere temporale a quello spirituale. Filippo il Bello usò invece lo scontro per affermare una reale
indipendenza del re di Francia da poteri superiori. Di più: accusando Bonifacio di essere un
pontefice eletto illegalmente (sospettato di aver costretto il precedente papa alle dimissioni), si
ergeva a vero protettore della Chiesa contro gli abusi di un papa indegno. Filippo inviò in Italia il
suo cancelliere Guglielmo di Nogaret, che fece prigioniero Bonifacio ad Anagni, costringendolo a
non pubblicare la bolla di scomunica contro il re. Dopo un mese, nel giugno del 1303, Bonifacio
morì, e si aprì una delle più importanti crisi del pontificato medievale. Il processo a Bonifacio
venne aperto una prima volta nello stesso anno di morte e ripreso nel 1308 e nel 1311. Due
lunghe serie di accuse imputavano al papa defunto ogni sorta di nefandezze. Il processo a
Bonifacio si intrecciava con un’altra celebre causa, intentata dal re di Francia, questa volta contro i
templari; entrambi i processi condotti dal re andavano a detrimento della curia pontifica “esiliata”
dal 1309 ad Avignone. Filippo aveva bisogno di denaro ma i templari, che custodivano il tesoro
regio, gli negarono dei prestiti ingenti. La mattina del 7 ottobre, con un ordine impartito in tutto il
regno, Filippo fece arrestare i generali dell’ordine e tutti i templari del regno. I capi di imputazione
erano numerosi e giravano intorno, ancora una volta, al nesso tra eresia, culto demoniaco e
condotte sessuali illecite. Il rituale di entrata nell’ordine, secondo le accuse dei giudici regi,
prevedeva tutti questi reati nello stesso momento: il maestro istigava il candidato ad accoppiarsi
con uomini, a maledire il crocefisso, a giurare fedeltà al demonio. Davanti a questo atto il re
doveva agire perché investito da Dio della funzione di protettore della fede. Ecco forse la più

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

chiara formulazione della presa in carico da parte di un’autorità laica del compito di difendere la
fede. In pochi anni il reato di stregoneria, di patti segreti con l demonio, uniti a comportamenti
sessualmente illeciti come la sodomia, divenne un modulo di accusa molto usato nei casi di
opposizione politica e di lesa maestà . I processi lanciati da Giovanni XXII tra il 1315 e il 1320 erano
i segni evidenti di un papato sotto attacco: confinato ad Avignone da una decennio, il papato
doveva governare la cristianità da una città piccola lontana dall’Italia, con tutte le difficoltà di
tenere sotto controllo un territorio vastissimo e assai poco disposto a sottomettersi a un papa
lontano e straniero, e sotto l’influenza diretta, se non proprio il controllo, del re di Francia. Eppure
il lungo settantennio avignonese rappresentò per la Chiesa un momento di forte sviluppo delle
pratiche amministrative di gestione dei beni e degli affari. Ma sul piano politico le cose erano
cambiate: la contrapposizione diretta fra le due spade, quella spirituale e quella temporale, aveva
mostrato quanto più resistente fosse ormai quella secolare, e soprattutto con quale forza il re di
Francia avesse rivendicato per sé la difesa della fede e dell’ordine naturale come un mandato di
Dio. Il ritorno del papato a Roma nel 1378 non riuscì a pacificare la Chiesa. L’elezione del papa
italiano Urbano VI fu contesta dai cardinali francesi che elessero a loro volta Roberto di Ginevra,
sotto il nome di Clemente VII, insediato ad Avignone. La spaccatura in seno alla Chiesa fu tale da
provocare per decenni una divisione delle osservanze nei diversi paesi europei: una parte
sosteneva il papa romano e un’altra il papa francese. Davanti a questi limiti evidenti, la stessa
istituzione pontificia fu messa in discussione. Si sviluppò un vasto movimento riformatore che
vedeva la Chiesa come un organo tendenzialmente collettivo, formato sulla collegialità del
concilio. Una visione organica della Chiesa che affidava il potere sovrano su di essa all’assemblea
dei vescovi. Il concilio di Basilea elaborò una teoria ultra- democratica, identificando il concilio
stesso, come assemblea dei vescovi, con la Chiesa. Alla fine il papa Martino V, tornato a Roma
riuscì a imporre la conferma della supremazia papale.
La costruzione dello spazio politico dei regni europei
Nel corso del XIV secolo, le società europee furono inquadrate in strutture regie più ampie e più
definite. Presero forma anche una serie di nuovi regni nell’Europa dell’est: Boemia, Ungheria e
Polonia. Come è successo nelle regioni scandinave. Per molto tempo si è pensato che le monarchie
si affermassero contro le altre forze sociali. Nuove ricerche hanno messo in luce aspetti prima
poco noti o poco studiati. Si tende a dare un peso maggiore a quelle regioni che componevano gli
stati conservando una propria fisionomia politica, anche nei regni più accentrati come la Francia.
Davanti alle richieste di un’autorità esterna, le società regionali furono spinte a presentarsi come
istituzioni, sotto forma di assemblee, parlamenti, Stati provinciali, diete; elaborarono una cultura
politica, che legittimava la difesa degli interessi regionali davanti alle ingerenze dei re. Per alcuni
storici, fu proprio questa dimensione “negoziata” la caratteristica maggiore dello stato moderno:
non l’imposizione di un potere assoluto, ma la lenta integrazione di entità regionali autonome in
un regno composito, mobile, che si basava anche sull’ascolto dei propri sudditi.
La difficile costruzione di uno spazio politico dei regni di Francia e Inghilterra
Mai come nel XV secolo, l’esistenza stessa delle monarchie è stata messa in discussione e ridefinita
secondo le necessità del momento, con paesi divisi e ricomposti nel giro di pochi anni, pretese
dinastiche avanzate senza tener conto dei contesti locali, assetti territoriali ancora strettamente
legati alla casualità degli eventi. Matrimoni, morti e battaglie continuano a essere importanti per
tutto il XV secolo come momenti, spesso traumatici, di ridefinizione degli spazi politici dei singoli

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

regni europei. Le monarchie sopravvissero a dispetto dei re e si reinventarono anche grazie alla
loro debolezza, alla possibilità di rimodellar velocemente i sistemi di governo in caso di necessità.
Le monarchie europee usarono tutti gli strumenti a disposizione per far fronte alle tensioni
politiche e istituzionali che li minacciavano. La Francia del basso medioevo partiva avvantaggiata
nella costruzione di un regno “nazionale”. Poteva giovarsi dell’eredità di almeno due grandi
sovrani: Luigi IX, che governò dal 1226 al 1270, rimanendo nella memoria collettiva come il
modello di buon re; e Filippo IV il Bello, in carica fra il 1285 e il 1315. Sotto Luigi IX, il regno di
Francia si era esteso ed era cresciuta ancor di più la sfera delle competenze riservate al re, a
cominciare dall’attività legislativa: il re riprese a legiferare ufficialmente, emanando numerose
ordinanze. Le più note riguardavano le inchieste contro gli ufficiali regi e i loro abusi. La giustizia
divenne sempre di più un attributo sovrano che Luigi IX fece come dimensione etica del suo
governo. Sotto Filippo il Bello, le finanze furono rinnovate aumentando molto il carico fiscale sui
sudditi; la giustizia rimase nelle mani del re, che estese le sue pretese anche sulle persone e i beni
della Chiesa. Il re si lanciò in ardite speculazioni finanziarie, cambiando più volte valore alla
moneta ufficiale. L’esperimento fu un mezzo disastro, suscitando numerose opposizioni nei
confronti della sua politica. Nel 1315, una rivolta dei baroni del regno costrinse il re (Luigi X) a
concedere un’ampia autonomia politica ai paesi ribelli. Fu un episodio importante perché le carte
di libertà presentate dai vari principati regionali misero sotto accusa le funzioni pubbliche basilari
della monarchia: il controllo della giustizia e la fiscalità. La tenuta del regno era a rischio. Ne 1328 il
passaggio del regno alla linea dei Valois riaccese il contenzioso con l’Inghilterra, che avanzava
pretese dinastiche sul trono francese in virtù della parentela di Edoardo III con i Capetingi. Fu una
guerra cruciale, non solo perché durò a lungo (guerra dei Cento anni), ma perché mise in luce le
debolezze del sistema politico francese: un esercito lento, basato ancora sui cavalieri; una scarsa
capacità di mobilitazione della popolazione; un sistema fiscale largamente imperfetto, incapace di
finanziare una guerra prolungata nel tempo; una fortissima frammentazione territoriale. Il regno di
Francia, soprattutto nei primi decenni del Quattrocento, si riscoprì piccolissimo e accerchiato,
perché le regioni atlantiche erano inglesi, la Borgogna un ducato indipendente e le regioni del sud
riassorbite dai re spagnoli. La prima fase della guerra mise in rilievo drammaticamente la
vulnerabilità dell’esercito francese, più volte battuto dagli inglesi. Nella seconda fase, gli aspetti
politici prevalsero. Non era solo la presenza degli inglesi a minacciare il regno, ma una spaccatura
interna all’alta aristocrazia francese. La guerra civile era iniziata intorno al 1392, quando si era
aperto un conflitto fra due membri della corte che avevano tentato di influenzare Carlo VI, un re
debole e impazzito: da un lato il duca di Borgogna, Giovanni senza Paura e dall’altro il fratello del
re, Luigi duca d’Orleans. Lo scontro aperto scoppiò quando Luigi impose una nuova tassa. Presero
allora forma due partiti: gli Armagnacchi, fedeli a Luigi, e i Borgognoni, seguaci del duca di
Borgogna, i quali riuscirono a prendere il controllo di Parigi e della Francia settentrionale, che
come prima cosa abolirono tutte le tasse nella città. Gli orleanisti abbandonarono Parigi e la
Francia settentrionale, per creare un regno itinerante nelle regioni centrali, detto regno di
Bourges. Per diversi anni, non si seppe chi fosse veramente il re di Francia. La complicazione arrivò
quando in seguito al trattato di pace di Troyes, il re d'Inghilterra Enrico V sposò Caterina, la figlia del re
francese Carlo VI, rendendo Enrico V suo successore. Alla morte dei due re, l'erede inglese Enrico VI,
pretese legittimamente di essere eletto re di Francia. La minaccia di avere un re straniero fu sfruttata dagli
orleanisti, che sostenevano l'altro figlio del re francese, Carlo VII. Due partiti e due re: i Borgognoni, alleati
di Enrico VI ; gli Armagnacchi a sostegno di Carlo VII, il vero re francese. Fu tra il 1428 e il 1431 che si svolse
la parabola di Giovanna d'Arco, una donna condottiera, ispirata dalle voci divine che le indicarono Carlo VII

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

come vero re francese. Autorizzata dal re a portare le armi, Giovanna fu protagonista di miracolosi scontri
armati e di riconquiste impossibili di città occupate dagli inglesi. La condottiera fu subito messa al servizio
della propaganda regia, anche dopo il processo e la condanna a morte per stregoneria, eseguita nel 1431 da
un vescovo al servizio dei Borgognoni. Nell'ultimo ventennio della guerra una serie di campagne vittoriose
permisero a Carlo VII di riconquistare alcuni territori in mano inglese, anche se la guerra si spense
soprattutto per le divisioni che investirono l'Inghilterra, secondo uno schema molto simile a quello
francese. Luigi XI divenuto re, cercò in vari modi di riaffermare la sovranità francese su tutti i principati. A
lui si contrapposero suo fratello Carlo, il duca di Borgogna, i signori di Armagnac, Alencon e Bourbon.
Contro questi ultimi Luigi XI mise in atto una spietata repressione giudiziaria, dopo averli accusati di lesa
maestà. Sotto questo strato mobilissimo di eventi politici, emergeva lentamente la costruzione istituzionale
di un regno. Le ordinanze regie sulla fiscalità, la moneta, la chiesa, la giustizia, l'esercito e gli ufficiali
pubblici e, allo stesso tempo, il crescente monopolio esercitato dal re sulle nobilitazioni portarono verso un
oggettivo rafforzamento dello Stato. Tuttavia, la costruzione di uno spazio politico francese riposava ancora
sulle alleanze dinastiche, sui matrimoni e soprattutto sulle morti senza eredi dei principi vassalli, che
assegnavano al re di Francia, come tutore legittimo, il principato vacante. Solo in questo modo, tra il 1460 e
1490, le regioni più distanti e autonome furono attaccate al regno di Francia.

Per quanto riguarda l'Inghilterra del primo Trecento, dopo il lungo regno di Edoardo I , i successori
misero in evidenza la debolezza strutturale della monarchia: un regno incapace di finanziarsi e
impoverito; un ruolo spropositato dei baroni, che per decenni attaccarono i detentori della
Corona; un Parlamento ( assemblea di nobili, ecclesiastici, i rappresentanti dei comuni) molto forte
nell’ imporre un controllo stretto intorno al re e alla gestione delle finanze regie, ma non
altrettanto forte nel proporsi come garante di un assetto istituzionale stabile. La monarchia
inglese, nel corso del XIV secolo, fu segnata da una rapida successione di re deposti, dimessi uccisi.
Tra i 1420 e il 1440, il regno fu affidato a un reggente durante l'infanzia di Enrico VI. Davanti a
questo vuoto di potere due erano le forze che potevano aspirare a trovare un ordine, e in
particolare si sovrapponevano il Parlamento e i Grandi, la nobiltà militare dei pari. Il Parlamento
inglese assunse nel Trecento un ruolo vero di controllo e di indirizzo della politica regia. Cercò di
proporre un rimedio alle deficienze finanziarie del regno, sottoponendo a un controllo le finanze
pubbliche; propose di istituire un consiglio permanente composto dai baroni; trovò un
compromesso con il re riguardo a una postazione fissa della lana esportata per incrementare le
entrate pubbliche; cercò di porre rimedio all’aumento dei salari, riportando i livelli retributivi al
decennio precedente; si oppose alla giurisdizione dei tribunali ecclesiastici. Un periodo glorioso ma
non risolse il problema della stabilità. Non lo risolse perché i baroni non esaurivano nella loro
azioni in quella sede ma agivano anche da potenti signori locali. L'assenza dei re, la guerra in
Francia e la competizione per il trono favorirono un frazionamento del regno inglese in ducati semi
- indipendenti. Nel 1453 questa ostilità fazionaria si polarizzò intorno al conflitto tra la casa di
Lancaster e quella di York. La guerra, chiamata delle due Rose, che vide la morte violenta di due re
e degli eredi di Edoardo IV, terminò con l'ascesa al trono di una nuova dinastia, quella dei Tudor
nel 1485. Sul piano territoriale l'unità dell'Inghilterra era tutt'altro che scontata. I re scozzesi,
deboli e tenuti prigionieri in Inghilterra per lunghi periodi, riuscirono a mantenere un regno di
Scozia separato da quello inglese. Anche il dominio del Galles era incerto e indebolito da continue
ribellioni. In sostanza, anche in Inghilterra il prolungato stato di guerra aveva messo a dura prova il
sistema istituzionale monarchico: aveva costretto tutta la popolazione a fare fronte alle continue
assenze dei re. L'idea di monarchia doveva staccarsi dai re in carne e ossa e trasferire alla corona la
nozione astratta ma durevole di un istituzione monarchica. Anche nelle monarchie spagnole il
peso delle lotte interne per la corona determinò una serie di cambiamenti a catena delle dinastie e

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

di scontri fra pretendenti. In Castiglia, la successione dinastica fu sempre un problema. Contestata


quella di Alfonso X, contestatissima quella di Alfonso XI ,intenzionato a lasciare il trono al figlio
primogenito, e per questo attaccato dagli altri cinque figli illegittimi e dai loro discendenti
appartenenti alla casata detta di Trastamara, che riuscirono effettivamente a diventare re
succedendosi sul trono castigliano dal 1369 al 1516. Un esponente del ramo cadetto dei
trastamara divenne re di Aragona nel 1412 come Ferdinando I di Aragona. Il figlio Alfonso V di
Aragona, detto il Magnanimo, acquisì il regno di Napoli nel 1442 dopo una lunga lotta con i
francesi, e dopo essersi assicurato anche la Sardegna. La galassia catalano-aragonese abbracciava
così tutta l'Italia meridionale e insulare, controllando l'intero bacino del Mediterraneo
Occidentale. La struttura interna dei singoli regni era tuttavia molto diversificata e poco aperta
una vera unificazione politica. In tutti i regni i re dovettero confrontarsi con assemblee
rappresentative, le Cortes, il cui ruolo e composizione cambiava di caso in caso. In Castiglia, le
Cortes non comprendevano i nobili ed erano formate dai rappresentanti delle città, che erano le
maggiori contribuenti dello Stato. In effetti da tempo i letrados avevano trovato nel rapporto con il
re il sistema di promozione e di ascesa sociale e divennero i più grandi difensori della monarchia
assoluta del re e del suo potere di imporre liberamente le tasse. In Catalogna e Aragona i
rappresentanti dei tre ordini del regno (chiesa, nobiltà e città) ebbero amplissimi poteri sulle
finanze e sulla legislazione. I re di Aragona e di Navarra erano costretti a chiedere consiglio e
consenso alle Cortes quasi per ogni cosa. Le Cortes crearono istituzioni permanenti, le
Deputazioni, che non si limitavano a esercitare poteri di controllo, ma amministravano
direttamente alcune funzioni politiche, stipendiavano una milizia e riscuotevano in proprio una
tassa del 10% sul valore delle produzioni tessili. Questa struttura pattista del regno di Aragona fu
in qualche modo un freno alla formazione di una monarchia centralizzata. Un matrimonio e una
successione contestata portarono all'unificazione delle corone di Castiglia e di Aragona. Nel 1469
Isabella di Castiglia sposò l’erede del regno di Aragona, Ferdinando. Si trattava di un'unione solo
personale delle due corone, ma di fatto l'unificazione di tutta la Spagna, a guida castigliana, si
completò lungo il corso del loro regno, dopo la caduta dell'ultima enclave musulmana di Granada
e l'assorbimento del regno di Navarra.
L’Impero e i regni dell’est: crisi e flessibilità della forma monarchica
La Germania imperiale non sembra fare eccezione a questo schema. Fra il Duecento e il
Quattrocento l'Impero perse uno dei suoi pezzi fondamentali, l'unione dei regni d'Italia, di
Borgogna e di Germania. Gli imperatori successivi della dinastia di Lussemburgo e poi di Boemia si
concentrarono sulla Germania e sui regni dell'est, che trovarono un assetto stabile solo alla fine
del Quattrocento, sotto la dinastia degli Asburgo, detentrice del titolo imperiale fino al 1805. Da
un lato, i candidati alla carica ad imperatore erano relativamente deboli, dall'altro la natura
elettiva del regno garantiva ai principi elettori un potere di intervento diretto nelle vicende
politiche della corte. La famosa bolla d'oro del 1356, concessa da Carlo IV ai principi elettori,
concedeva loro la piena autonomia giurisdizionale nei propri territori e un potere di controllo
sull'attività imperiale. Si confermava così il ruolo guida assunto da tempo dai principi tedeschi. Il
collegio degli elettori era assolutamente convinto di essere un'entità superiore al re-imperatore.
Insignito del potere di eleggere l'imperatore, si impadronì anche del potere di deporre il regnante
in caso di necessità. Anche i principi regionali non elettori conservarono sempre un autonoma
linea d'azione. Per gli Asburgo, una famiglia ducale in competizione per la corona imperiale,
rivendicava con forza la piena autonomia del ducato d'Austria dall’Impero. Rodolfo IV rese

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

pubblico e confermò il “privilegio grande”, un diploma falso in cui si concedeva all'Austria una
totale autonomia dall'Impero e che di fatto faceva del duca un sovrano di pari grado
all'imperatore: con una cancelleria, un sigillo con il duca incoronato, e la costituzione di un
patrimonio dell'Austria. L'imperatore reagì: Carlo IV, che per altro era il genero di Rodolfo, impose
la distruzione del sigillo regale del duca e rifiutò di riconoscere l'annessione del Tirolo. Questo non
impedì ai discendenti di Rodolfo di accedere al trono imperiale. Nel 1439 Alberto d'Asburgo fu
eletto imperatore e trasmise la carica al cugino Federico III e questi a suo figlio Massimiliano I, re
dal 1493, il vero fondatore del nuovo Impero ormai asburgico. In questo quadro difficilmente
poteva emergere una riforma dell'Impero che imponesse a tutti i ducati modi di governo uniformi.
Il nuovo Impero rimase così ripartito fra l'imperatore e i principi, come ricordava anche il simbolo
che lo rappresentava, l'aquila a due teste. L'espansione verso est, la difesa dei confini dagli slavi
pagani e dal turco invasore a sud, divennero i compiti della nuova configurazione regia imperiale
del Sacro Romano Impero di nazione germanica. I regni dell'Europa dell'est rappresentano un caso
interessante di esportazione di modelli regi in territori relativamente nuovi. Il regno di Boemia era
strettamente legato alle sorti dell'Impero, visto che il suo re era uno dei sette principi elettori. Il
regno di Ungheria, fu contestato da alcune dinastie locali e si unì, in momenti alterni, alla Boemia e
alla Polonia, ma soprattutto trovò una sua dimensione territoriale e ideologica come frontiera
contro l'avanzata dei Turchi che nel XV secolo ne conquistarono un'ampia porzione. La Polonia si
era unita con l'enorme ducato di Lituania nel 1386, sotto la dinastia degli Jagelloni. In una
prospettiva strettamente eurocentrica erano regni di frontiera; e su questa funzione di difensori
dei confini della cristianità costruirono una parte importante della loro identità politica.
Nonostante le differenze fra i tre paesi, le vicende della Boemia, dell'Ungheria e della Polonia
rimasero strettamente collegate, sia sul piano dinastico sia su quello politico. In periodi diversi i
regni si unirono a due o a tre: Ungheria e Boemia vennero unite prima sotto i figli di Carlo IV di
Lussemburgo e poi sotto il re ungherese Mattia Corvino, tra il 1469 e il 1490; Ungheria, Boemia e
Polonia furono sottoposti invece a un unico re sotto la dinastia polacca degli Jagelloni ( 1376-
1572). Queste unioni furono possibili perché le aristocrazie dei tre paesi, in momenti diversi,
accettarono di delegare una parte del potere regio a una persona esterna al regno. Tutti e tre i
paesi avevano istituzioni rappresentative assai forti, una Dieta o degli Stati Generali, sottoposti a
una nobiltà fortissima. Si trattava di una nobiltà di fatto bipartita in due livelli: un livello alto di
grandi magnati, in Ungheria, di cavalieri, in Boemia, e di latifondisti; e un livello inferiore formato
dalla piccola e media nobiltà, anch'essa assai estesa come in Polonia, dove tutti liberi erano nobili.
Al sovrano veniva riconosciuto solo un formale coordinamento della politica sovralocale. Alcuni
episodi mostrano bene questa insofferenza per la monarchia. In Boemia in seguito alla
predicazione di Jan hus, un sacerdote, il regno fu di fatto diviso in due: la Dieta e la città di Praga si
schierarono in difesa della riforma hussita, mentre la Moravia, sotto Sigismondo, che fu anche
imperatore, vi si oppose. Ci furono 17 anni di guerra civile senza re. Solo nel 1436, dopo che
Sigismondo di Boemia riconobbe la Chiesa hussita, si riformò l'unità del paese, ma con due
confessioni diverse. Ugualmente in Ungheria, dopo la morte di Mattia Corvino, un re fortemente
accentrato che aveva impostato la sua azione sulla difesa militare del regno, i nobili non elessero
più un re autoctono, ma preferirono unirsi sotto il governo del re Ladislao II Jagellone, già re di
Boemia, che aveva garantito loro ampie autonomie locali. Lo Stato Ottomano nacque da uno dei
numerosi emirati presenti nella penisola anatolica, dopo la crisi dello Stato selgiuchide. Le
conquiste dell'Anatolia e poi delle regioni bizantine della Tracia e dell'Europa sud-orientale furono
il risultato di un’abilissima campagna di unificazione politica e militare delle diverse tribù nomadi

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

realizzata dall' èlite delle tribù turcomanni installate in tutta la penisola. Un'elite nomade militare
ma anche commerciale, che scelse di gravitare verso occidente e il Mediterraneo, pur conservando
la fede islamica. L'espansione ottomana fu inarrestabile dalla metà del Trecento in avanti ;gli
ottomani assoggettarono gradualmente la Macedonia, la Bulgaria, l'Albania, fino a una parte del
regno di Ungheria. La dominazione ottomana si insinuava dunque in profondità nelle terre dei
regni europei, e rappresentò per secoli un nemico e una minaccia che alimentava le ideologie
religiose dei regni dell'est e dell'Impero e con minor successo una serie di sfortunate crociate
contro i Turchi, spesso neanche iniziate. L'Impero ottomano era uno stato solidissimo sotto il
potere assoluto del sultano, in grado di resistere tranquillamente ai colpi di re europei poco saldi e
di un'aristocrazia regionale in cerca di autonomia. Ma riflettè anche la duplicità pragmatica dei
regni europei che trattarono da subito con il sultano alleanze e accordi economici, riservando lo
spirito di crociata ai momenti di crisi.
Il caso italiano: gli Stati regionali dal XIV alla fine del XV secolo
Nel Trecento, in questo quadro di frammentazione relativa possiamo distinguere tra aree politico-
territoriali principali:
1. I grandi Stati regionali principeschi:
• il ducato dei Savoia, tra il Piemonte e la Savoia
• lo Stato dei Visconti, tra Lombardia, Piemonte ed Emilia
• lo Stato estense, comprendente parti di Emilia e di Romagna, con capitale Ferrara
• lo Stato della Chiesa, dai confini ancora incerti tra Lazio, Marche, Umbria e
Romagna
2. Le formazioni regionali ancora sotto regimi repubblicani:
• La repubblica di Venezia con la Terraferma (Veneto e Friuli)
• La repubblica di Firenze, quasi tutta la Toscana, dopo la conquista di Pisa (1406)
• La repubblica di Genova
3. Le regioni meridionali inserite nei regni:
• La Sicilia sotto gli Angioini e poi gli Aragonesi
• Il regno di Napoli sotto gli Angioini e poi unito alla corona d’Aragona
Rimanevano ancora numerosi piccoli stati incentrati su singole città, come i Gonzaga a Mantova, o
su contee rurali. Si trattava di piccoli stati tendenzialmente autonomi che univano più
dominazione cittadine in una compagine nuova. Questi dominati ebbero un'origine segnata da una
sperimentalissima capacità di riadattare istituti comunali alla nuova realtà di poteri personali o
familiari. La prima generazione di signorie cittadine erano di fatto dominazioni personali, ancora
bisognose di legittimazione dal basso. Stratagemmi e formalismi istituzionali che nascondevano un
atto di forza e un'implicita debolezza di queste prime signorie cittadine. La forza consisteva
nell'aperta deformazione del quadro istituzionale comunale; la debolezza stava invece nella
necessità di ricorrere comunque a forme di legittimazione esterne al proprio potere; per esempio,
a Verona, Cangrande della Scala si riservava la possibilità di intervenire o di prescindere dalla
normativa comunale qualora le necessità del governo lo richiedessero. Eppure nessuno di questi
signori poteva fare a meno di costruirsi una sorta di mandato, dal basso o dall'alto che fosse.
Neanche la più forte ed estesa dominazione regionale del XIV secolo, quella dei Visconti di Milano,
riuscì a sfuggire all'obbligo di formulare le basi di legittimità del proprio governo. Via via si

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

sottomisero ai Visconti con la forza, o più spesso dietro una pattuizione concordata, tutte le
maggiori città lombarde, i principali centri urbani piemontesi e in periodi intermittenti anche
alcuni grandi comuni emiliani, da Reggio a Modena, alla stessa Bologna. L'esperienza viscontea,
insieme a quella estense, rappresenta un momento di forte rottura con quel modello di città
comunale, multipartitico, aperto, conflittuale che aveva reso instabili e ingovernabili la maggior
parte delle città padane. I visconti si presentavano programmaticamente come i restauratori
dell'ordine, i salvatori della città dilaniata dalle lotte civili. Per questo molte città si sottomisero ai
Visconti. Sta nascendo un nuovo linguaggio con nuovi valori: quiete, pace, tranquillità, stabilità.
Non era più il bene comune il fine della politica, ma l'esaltazione e buono stato dei magnifici
signori Giovanni e Luchino Visconti, che ora avevano il totale e completo arbitrio di governare, di
giudicare e di creare leggi. Un arbitrio attribuito di frequente anche ai collegi ristretti ( dei Priori o
degli Anziani) delle città repubblicane, ma che i Visconti usavano con un'estensione talmente
ampia da apparire come usurpatori. I signori potevano fare leggi oltre, contro, e a prescindere
dallo statuto. Una pretesa ad assumere un potere di natura esplicitamente regia. Ma i signori non
erano piccoli re. Le loro pretese erano poco fondate, i loro atti di potere spesso fuori dai sistemi
riconosciuti di derivazione del potere. non solo, i signori si appropriano anche di alcuni attributi
della sovranità, come la qualifica di legge animata in terra, riservata agli imperatori. Era troppo,
ma l'esagerazione dimostra quanto deboli fossero in realtà le basi di legittimazione del dominato
visconteo e quanto il signore avesse bisogno di sostegni legali. Un aiuto in tal senso dalla cultura
giuridica non arrivò mai in forma piena. Anzi, il maggiore giurista italiano del Trecento, Bartolo di
Sassoferrato, aveva sostenuto che il conferimento della potestà legislativa dal popolo al signore
era valido solo quando la scelta dei consigli era libera e non costretta dalla forza. Invece, la
maggior parte delle deviazioni di città al signore era condizionata dalla presenza di armati del
signore che non lasciavano molta scelta ai presenti. Per questo, secondo Bartolo, la maggioranza
dei signori rimanevano comunque tiranni. Sul piano politico la costruzione dello Stato regionale
procedette per gradi. Un tratto comune a tutte le dominazioni territoriali va identificato proprio
nell'acquisizione per blocchi separati di città e territori che parteggiavano col signore modi e forme
dell’entrata nel dominio. Il ducato sabaudo, che copriva gran parte dell'attuale Piemonte e la
Savoia fu quello che di più di tutti conservò la struttura originaria dei territori che nel corso di un
secolo ne formarono l'ossatura; solo nel 1418 è possibile riunire formalmente il principato d'Acaia
(Torino e il Piemonte) con il ducato. Le pretese del papato sui vasti territori umbri, marchigiani e
romagnoli rimasero a lungo disconosciute dai signori e dalle città interessate. Le ribellioni furono
quindi costanti, molto pericolosa quella promossa dai Montefeltro di Urbino. L'assenza del papa
dall'Italia dal 1309 al 1378 chiaramente ebbe un peso notevole nel frenare questa unificazione. In
quei decenni si formarono numerose signorie autonome, alcune di carattere quasi statale, come
quelle dei Malatesta, dei Montefeltro, dello Sforza nella marca di Ancona. Il ducato veneto
estendeva la dominazione veneziana sulla Terraferma, che comprendeva Verona, Vicenza, Padova
e Treviso. Saggiamente, lo stato veneto rispettò la precedente struttura comunale delle città,
integrando le oligarchie urbane in un sistema di governo condiviso. La costruzione di una sorta di
burocrazia centrale faceva progressi ovunque. Nuovi organismi nascevano, come la cancelleria
principesca, i segretari, una camera dei conti che gestiva le finanze dello Stato, collegi segreti di
consiglieri occupati sempre più frequentemente da giuristi ed esperti di diritto. In alcuni casi i
signori puntarono molto sulla promozione culturale, sostenendo o fondando università di
prestigio, come i Visconti a Pavia, o i Savoia a Torino. Qualche progresso ci fu: per la prima volta la
fiscalità e il diritto furono armonizzati in gran parte dei luoghi del dominio. Si trattò tuttavia di un

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

percorso lungo, basti pensare che solo dal 1355 le decisioni dei Visconti valevano per l'intero
dominio, mentre prima erano applicabili solo per la città cui erano destinate; e solo nel 1395 Gian
Galeazzo fu investito dall’Impero del titolo di principe e lo Stato visconteo divenne infine un
ducato. Questo consentiva di superare momentaneamente il problema della legittimità, ma
soprattutto di rafforzare le pretese di coordinare i poteri locali attraverso le investiture feudali. La
chiave di volta degli stati signorili o principeschi rimase la capacità del signore di assicurare un
rapporto diretto tra il centro e le singole comunità rurali e urbane del dominio. Il grado di
autonomia delle comunità rimase molto elevato quasi ovunque. Il governo centrale si assicurava
infatti il controllo sulle decisioni politiche attraverso l'invio o la scelta di magistrati esterni da
affiancare ai collegi cittadini o ai consigli comunali che erano rimasti in vita e difendevano
gelosamente le prerogative del governo urbano. Il rapporto fra questo strato di ufficiali signorili e
le oligarchie cittadine era spesso tormentato, ma trovò in molti casi delle forme di mutua
convenienza a spartirsi pacificamente aree di potere diverse. Un conflitto di più vaste proporzioni
ci fu ma riguardava la città e il suo territorio: lamentele delle comunità locali con il signore contro
l'oppressione della città, richieste di esenzioni, suppliche di essere sottoposti solo al governo
centrale e non agli avidi ufficiali cittadini. Molte comunità lombarde chiesero addirittura agli Sforza
di essere riconosciute come comunità separate, autonome, vale a dire enti sovrani. Questo
scoppio di localismo esasperato dimostrava quanto ancora provvisoria e imperfetta fosse la
sottomissione del contado attuata in età comunale, e quanto radicati ancora fossero i diritti
particolari, sia delle comunità sia dei signori. Le numerose e sparse signorie locali, insediate in
castelli o in piccoli centri, rivendicarono un'autonomia politica e giurisdizionale piena sui territori
di loro pertinenza. Sfrondati gli eccessi di alcuni signorotti potenti che vollero farsi piccoli principi, i
Visconti e i Savoia, ma anche gli Sforza e i pontefici, furono generosi nel riconoscere e inserire
nello Stato le signorie locali con una formale investitura feudale che rendeva palese la nuova
gerarchia dei poteri pur lasciando intatto il prestigio dei signori. Le infeudazioni attuate dai principi
avevano proprio questa duplice funzione: da un lato riconoscere poteri signorili effettivamente
operanti sul territorio, che non erano in grado di contrastare, dall'altro far riconoscere a questi
poteri la supremazia politica del signore. A fare difetto era proprio lo Stato centrale, il nucleo
istituzionale di riferimento che doveva coordinare questo insieme variegato di rapporti. Non si
trattava solo di una questione di legittimità, ma anche di continuità del potere e di mentalità di
governo. La prima rimase a lungo una chimera per molti principati italiani: non solo per la fragilità
dinastica delle famiglie signorili, spesso interrotte per mancanza di eredi possibili, ma anche per
una connaturata incapacità di concepire la successione come un elemento ordinario dello Stato, di
mantenere unito il dominio, di pensare lo stato come altro da sè, separato dalle vicende familiari.
Alla morte del principe si scatenava una competizione selvaggia per impossessarsi del titolo, o di
parti del principato, che spesso veniva smembrato. Un problema che non doveva toccare le regioni
italiane inserite in compagini monarchiche: la Sicilia e il regno di Napoli. Le strade dei due regni si
erano separate nel 1282, quando la Sicilia era passata sotto il re d'Aragona, dopo una rivolta della
popolazione di Palermo contro gli angioini ( Vespri siciliani). Il governo aragonese investì di
privilegi, di esenzioni, di compiti di autogoverno i baroni e ne fece i protagonisti della vita politica
dell'isola. I re aragonesi aumentarono il numero di cavalieri, concessero loro un’ampia
disponibilità di feudi che potevano essere liberamente venduti e trasmessi in eredità e affidarono
alle comunità la riscossione delle imposte dirette. Un elemento di debolezza fu probabilmente la
vendita di beni demaniali per aumentare le entrate. Il rafforzamento dei poteri baronali nella
seconda metà del Trecento indebolì la politica regia. Una fase di instabilità dinastica e politica

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

portò a un governo condiviso 4 vicari che si spartirono l'isola. Il periodo vicariale, dal 1377 al 1392,
assai poco documentato, favorì la nascita di centri di potere autonomo che non riconoscevano il
re. Una crisi simile fu attraversata dal regno di Napoli sotto la dominazione angioina, quando,
dopo la morte della regina Giovanna d'Angiò, il ramo degli Angiò di Provenza e quello degli Angiò -
Durazzo, si contesero la successione . Da allora e per più di un settantennio, le due corti si
scontrarono in una serie di guerre. Guerra che si spostò con il re d’Aragona, Alfonso il Magnanimo,
che nel 1442 sconfisse gli Angioini e unì il regno di Napoli ai domini della corona d’Aragona. Non
stupisce che in questi decenni i baroni del regni, già forniti di privilegi, non solo rafforzarono i loro
diritti feudali, ma riuscirono a costruire, in alcuni casi, dei veri Stati regionali semi – indipendenti.
In tale contesto di disseminazione di quote di potere pubblico per via graziosa, il principe di
Taranto, Orsini, riuscì a costruire un esteso dominato regionale che comprendeva gran parte della
Puglia e della Basilicata. Il progetto del principe di Taranto sembrava puntare verso il
riconoscimento di una vera autonomia del regno; e in parte ci riuscì, quando ottenne dal re
Ferrante d’Aragona, nel 1462, il privilegio personale di non prestare omaggio feudale al re.
Tuttavia, l’anno successivo, nel 1463, alla morte dell’Orsini, lo stesso re Ferrante invase il
principato e lo smantellò completamente. Nella mente dei re, tutte le concessioni ai baroni erano
revocabili e tutte le competenze assegnate ai sudditi erano date in funzione del governo del regno.
Certo era un equilibrio precario, ma nel complesso la politica del regno era articolata ed efficace.
La riforma del fisco promossa da Alfonso il Magnanimo aveva rimesso in funzione la fiscalità
diretta, con la redazione di catasti per censire la proprietà dei sudditi e tassarli in proporzione ai
beni. Il re aumentò anche le entrate indirette, a cominciare dai diritti provenienti dalla dogana
delle pecore alimentata da una ricchissima transumanza delle greggi. Anche la formazione di un
esercito permanente andava nella direzione di una razionalizzazione delle spese. Proprio la
compartecipazione all'amministrazione dello Stato, anche se attuata nelle forme privatistiche del
privilegio, era il punto di forza della monarchia aragonese. Anche gli stati repubblicani furono in
qualche modo attraversati dalla lunga fase di instabilità dovute alle incertezze dei sistemi
istituzionali. A Firenze l'oligarchia finanziaria che guidava le Arti maggiori iniziò a modificare in
profondità l'assetto istituzionale della Repubblica. Nonostante le congiure e le sollevazioni
popolari, Firenze era rimasta una repubblica, con istituzioni consiliari relativamente aperte e un
sistema di ricambio periodico del personale politico. Nel XV secolo si affermò una nuova cultura
politica che privilegiava la stabilità dello Stato rispetto alla legalità repubblicana. In termini
generali si può dire che l’èlite fece di tutto per affermare una forma di governo oligarchico: un
vertice ristretto che prendeva le decisioni più importanti e un'ampia base popolare, esclusa dalle
istituzioni, ma coinvolta nelle sorti dello Stato. Uno degli strumenti più importanti in questa
direzione fu la costruzione graduale del monte delle prestanze, un istituto che stabilizzava il debito
pubblico del comune. Il comune aveva da tempo chiesto prestiti volontari e coattivi ai cittadini e
decise di non restituire più il capitale ma solo gli interessi, in rate annuali. Dopo un primo
momento di incertezza, i cittadini fiorentini accettarono il patto e iniziarono a comprare delle
cedole del debito pubblico: davano denaro in prestito e ricevevano nel tempo gli interessi. Il
metodo ebbe un enorme successo. La repubblica, che ispirava evidentemente fiducia, ottenne
enormi quantità di denaro per finanziare lo Stato e la sua espansione in Toscana. Il sistema del
debito pubblico finanziato dai cittadini era in uso in altri due grandi stati repubblicani: Genova e
Venezia, che avevano costruito vasti domini coloniali a carattere commerciale, dalle coste africane
alle isole dell'Egeo. Venezia aveva anche sottomesso una lunga fascia costiera della Dalmazia. I
sistemi istituzionali riconobbero presto la necessità di stabilizzare il governo con un capo supremo,

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

eletto a vita, il doge, contornato da una serie di consigli ristretti e larghi che bilanciassero i poteri
all'interno dell'aristocrazia urbana. Il modello veneziano raggiunse quasi la perfezione. Nessuna
istituzione aveva il pieno controllo della vita pubblica della città. Naturalmente si trattava, nel caso
veneziano, di una società politica bloccata. Dal 1297 in avanti, una serie di norme del Maggior
Consiglio individuò le famiglie che potevano partecipare al governo inserendole in elenchi fissi:
solo i discendenti di queste famiglie avevano diritto a sedere nel consiglio. Un’oligarchia chiusa.
Questi governi intercittadini fondati sull'unione personale e sulla dedizione di città a un signore
non portarono a una maggiore stabilità degli assetti politici italiani. Violente competizioni si
accesero tra il ducato milanese e gli stati forti della penisola: con Firenze in primo luogo; con
Venezia, ormai potente nella Terraferma e abilissima nel creare alleanze prima a favore e subito
dopo contrarie a Milano; con lo Stato della Chiesa, che cominciava ad agire come potenza
regionale di interposizione contro ogni progetto egemonico. Un gioco di spinte che mostrava
tuttavia lo stato di debolezza estrema del sistema italiano. Lo stato di quiete raggiunto con la
cosiddetta Pace di Lodi del 1454 tra Milano e Venezia (la pace era garantita dalla Lega Italica tra i
maggiori stati italiani) non riuscì a nascondere un fatto evidente: le cose d'Italia erano ormai un
problema europeo e solo in un contesto europeo potevano trovare soluzione. Le invasioni
straniere di fine Quattrocento e l’inglobamento del ducato sforzesco nel regno di Francia e poi in
quello di Spagna segnarono una rottura nella tradizione degli stati principeschi italiani. La struttura
regionale resistette fino alla fine dell'antico regime, ma dal punto di vista politico le signorie
italiane contarono sempre di meno. Durarono di più i due grandi stati di impronta repubblicana,
Firenze e Venezia, e l'unico vero stato organizzato in forma monarchica, lo Stato della Chiesa. Ma
dovettero fare i conti direttamente con le monarchie europee che dominavano il sud e il nord
della penisola e non più con stati principeschi autonomi.
Società politiche del basso medioevo. Un processo di integrazione conflittuale
La corte centrale e l'ideologia monarchica si definirono meglio sul piano culturale e
amministrativo: elaborarono una nuova ideologia regia e svilupparono un costoso apparato
burocratico in grado di estendere il controllo pubblico in modo capillare nei territori del regno.
Separarono anche la figura concreta del re da quella astratta della Corona. Dall'altro lato, anche i
paesi si organizzarono per proprio conto. Eleggevano i rappresentanti nei singoli luoghi,
elaboravano le richieste da fare al re, votavano a maggioranza le decisioni dei comuni. La loro
esistenza tuttavia era strettamente legata a quella del regno. Le regioni dovevano essere regioni di
un regno per contare politicamente; da qui lo sforzo di usare le assemblee rappresentative come
luogo dove mediare e negoziare le richieste dei re con le esigenze locali. Nei parlamenti e negli
stati sedevano in prima fila le forze aristocratiche più vicine al potere e quindi più interessate a
trovare un accordo per loro vantaggio. Nonostante queste assemblee funzionassero con il voto a
maggioranza, i voti si pesano e non si contavano. L'aristocrazia il suo peso lo fece sentire sempre, e
lo fece accettando una relativa integrazione nelle strutture pubbliche. Trasformandosi in nobiltà
del regno, si inseriva in un nuovo ordine politico, un grande corpo della nazione, con la monarchia
come testa e guida delle altre componenti che in armonia dovevano svolgere le funzioni assegnate
secondo una scala gerarchica.
Immagini e ideologie del re
Fra Tre e Quattrocento l'ideologia monarchica si sviluppò sia sul piano rituale della
rappresentazione, dall'incoronazione all'immagine simbolica del re-padre, sia su quello giuridico-

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

istituzionale, con l'elaborazione di una solida base dottrinale a fondamento delle pretese politiche
del re. L'ingresso dei giuristi e dei teologi negli organi consiliari segnò per la cultura di corte uno
stacco netto rispetto al passato: manuali, trattati, scritti di propaganda e storie ufficiali crearono
nuove immagini del sovrano, potentissimo se non quasi onnipotente, voluto da Dio come guida
naturale della società. Immagini diverse si sommarono in un grande mosaico che aveva come
punto comune il principio di una superiorità politica e istituzionale del re rispetto agli altri poteri
territoriali. I giuristi di cui si avvalsero i sovrani bassomedievali erano in genere dei pratici, persone
laureate in qualche università che spesso avevano fatto carriera all'interno dell'amministrazione
regia, come giudici, balivi, contabili finanziari. Conoscevano la legge insieme al funzionamento
della macchina pubblica. La natura del potere regio era chiaramente il tema che attirava
maggiormente la loro attenzione. Secondo la tradizione giuridica romana, ripresa per definire il
potere del papa, il potere del re poteva assumere due forme: un potere ordinato e ordinario per
amministrare il regno, e un potere assoluto, sciolto dal rispetto delle leggi, in base al quale il re
poteva derogare alle sue regole. Alcuni giuristi cercarono di mettere dei limiti a questo potere: il re
doveva comunque avere una causa necessaria per non rispettare la legge, un fine superiore per
conseguire il bene pubblico. Altri però affermarono che questa causa doveva essere considerata
sempre implicita e poteva anche non essere dichiarata. Naturalmente queste posizioni suscitarono
reazioni accese e vedute diverse. Una corrente assai diffusa in Inghilterra legava il re alla legge. Nel
suo trattato sul “Le leggi e le consuetudini dell'Inghilterra” Henry Bracton, il più importante
giurista inglese del Duecento, pur attribuendo al re una superiorità lo riteneva comunque
sottoposto alla legge. La tradizione inglese conservò questa dimensione di monarchia regolata.
Tuttavia anche la figura del re si era complicata: o meglio la figura del regno. La debolezza delle
successioni e la fragilità dei re favorirono la nascita di un concetto più astratto di regno. Emerse
così la nozione di Corona, come astrazione personificata del regno, investita dei beni e dei diritti
pubblici. Questi erano inalienabili e indisponibili, non potevano essere ceduti dal re perché non
appartenevano a lui personalmente. In Inghilterra questo processo fu relativamente precoce. In
Francia arrivò a maturazione più tardi. Il re doveva incrementare e difendere i beni come un
amministratore che gestiva un patrimonio non suo. La monarchia, come istituzione, ne uscì molto
rafforzata, perché poteva contare su una base patrimoniale e ideale e staccata da quella del re. La
guerra dei 100 anni e il pericolo di avere re stranieri misero in luce una nozione più complessa di
regno, inteso come comunità di persone che appartenevano, per nascita, allo stesso paese. La
natio (nascita) comune era un legame naturale e l'ordine naturale delle cose imponeva che fosse
un re francese a governare sul popolo francese. Con il termine naturale si indicava dunque
un'obbligazione necessaria e spontanea verso il proprio paese e il proprio signore, che era
necessario difendere dagli attacchi esterni. Le dominazioni di re stranieri erano infatti usurpazioni
innaturali e potenzialmente eretiche perché i reati contro natura erano un'offesa a Dio. Le correnti
filo monarchiche, molto forti in Francia e in Castiglia, insistevano anche sul carattere religioso
della missione dei re. Se il potere dei re era di origine divina era evidente che non erano solo fedeli
come gli altri, ma persone sacre, predilette dal Signore. In Francia, già nel ritardo Duecento, il re fu
chiamato re cristianissimo, in onore della sua funzione di difesa della fede e della Chiesa. Una
predilezione che giustificava la superiorità del re francese sulle altre autorità, a cominciare dall'
Impero e dal papato, come dimostrò il conflitto tra Filippo il bello e Bonifacio VIII. Anche i teologi
portarono nuova materia alla riflessione sui re. Tutta una manualistica pensata per il buon re
aveva da tempo recuperato modelli biblici di re giusti, elevando la giustizia a primo compito del re
sulla terra. Giustizia imposta con la spada, ma temperata dalla misericordia, dalla clemenza, dalla

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

protezione dei poveri dai potenti. Il re giusto riequilibrava le ineguaglianze sociali. La misericordia
poneva dunque il re su un piano superiore alla legge, più vicino alla giustizia divina da cui doveva
trarre ispirazione. Altri autori insistevano anche sull'amore che il re doveva avere per il suo popolo
e che doveva ricevere dai sudditi. La figura del re divenne oggetto di devozione religiosa: il re e la
sua dinastia dovevano essere ricordati nelle preghiere pubbliche e in quelle private dei sudditi-
fedeli, che assicuravano in tal modo la salvezza della nazione. Si diffusero simboli e culti religiosi
pubblici legati alla storia del paese. In Francia si affermò, in un primo momento, il culto di San
Dionigi, dal nome dell'abbazia dove erano custodite le spoglie dei re francesi. Le virtù assegnate al
re furono, in qualche modo, tradotte in poteri di governo in quasi tutti i regni:

• la protezione dei poveri e dei deboli richiedeva un rafforzamento della giustizia pubblica
verso i potenti arroganti;
• la misericordia del re si tradusse ben presto in un potere di grazia;
• l'amore verso il re portava con sé una celebrazione religiosa della sua superiorità
istituzionale;
• i fondamenti celesti del regno, infine, rafforzavano l'immagine della monarchia come scudo
protettivo, guida naturale della nazione.
La salvezza della nazione finiva così per giustificare una politica fiscale sempre più pesante, un
intromissione della giustizia pubblica che erodeva le giurisdizioni private e anche una richiesta
crescente del coinvolgimento diretto dei sudditi della difesa della patria.
L’amministrazione del regno: corti, ufficiali, fiscalità
La consapevolezza della monarchia di essere a capo di un corpo del regno, articolato in funzioni
diverse, si tradusse nella costruzione di un sistema burocratico a più livelli. Si ebbe da un lato un
rafforzamento sensibile dell'amministrazione centrale, articolata in organismi sempre più
complessi; e dall'altro la costruzione di una rete di ufficiali pubblici nei territori. Su questa base si
impiantò il sistema fiscale per finanziare lo stato e la sua politica di espansione. Lo sviluppo di una
burocrazia pubblica, nelle corti e nei territori, fu importante per diversi motivi:

• favoriva una vita autonoma del regno che funzionava anche senza re;
• assicurava una presenza capillare nei territori di un corpo di ufficiali che, nel bene e nel
male, rappresentavano il re in quel luogo;
• permetteva la promozione del ceto intermedio urbano, favorendo gli esponenti più
dinamici delle classi cittadine che avevano più facilmente accesso a una formazione di base
( scrivere e far di conto).
Lo sviluppo degli organi centrali dei regni era strettamente dipendente dalla formazione di una
corte intorno al principe. In genere, le funzioni della corte erano essenzialmente tre: fornire al re
un consiglio ristretto; assistere il re nelle principali funzioni di governo; amministrare le finanze. La
corte francese presenta un modello particolarmente ricco di questa struttura burocratica centrale.
Da una costola dell'antica curia del re si sviluppò il consiglio del re, un organo consultivo. Le
funzioni della corte furono assegnate dall'Hotel del re, che comprendeva tutti gli ufficiali al suo
servizio diretto, fra cui spicca il cancelliere, esperto nella scrittura e nella legittimazione degli atti
firmati dal re. La registrazione dell'attività contabile fu svolta da una Camera dei conti, retta da
due presidenti, un chierico e un laico, e da 8 maestri. Aveva come primo compito quello di

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

controllare due volte all'anno i conti degli ufficiali locali ( siniscalchi e balivi) ed era investita anche
di poteri giudiziari. Una parte importante della funzione giudiziaria era svolta invece dal
Parlamento, un organo giudiziario. Una parte importante delle funzioni degli organi centrali era
infatti assorbita dal controllo dell'attività di governo degli ufficiali territoriali. In Francia si rafforzò
la gerarchia fra balivi e prevosti: i balivi erano responsabili di una circoscrizione territoriale ampia
che comprendeva numerosi prevosti a capo di circoscrizioni minori; nelle regioni della Francia
meridionale erano invece presenti i siniscalchi, che avevano compiti simili ai balivi. Questi grandi
ufficiali rappresentavano il re nei vari territori, amministravano l'alta giustizia, raccoglievano le
tasse e convocavano l'esercito. Molti di questi ufficiali erano sostenitori attivi della monarchia: né
difendevano le prerogative imponendo anche con la violenza la giustizia regia. è chiaro che le
lamentele provenivano soprattutto dai potenti locali, ma tuttavia i re successivi aumentarono anzi
i poteri dei loro ufficiali, fedeli reclutati sempre più spesso dagli strati non nobili della popolazione.
La burocrazia pubblica divenne uno dei maggiori canali di ascesa nelle società del basso medioevo.
La necessità di reclutare in breve tempo migliaia di funzionari promosse infatti gli esponenti più
dinamici dei ceti urbani che avevano più facilmente accesso a una formazione di base. Nel corso
del Quattrocento un numero crescente di funzionari trasmetteva il proprio ufficio ai figli, creando
così una classe di impiegati. Maggiore competenza e fedeltà erano i vantaggi, ma non mancavano
casi di radicamento eccessivo di una famiglia in alcune cariche locali. Alla lunga, questo sistema
familiare poteva indebolire il controllo di regio sulle cariche locali, soprattutto quando molti re
iniziarono ad assegnare le cariche come ricompensa o a venderle in anticipo per aumentare le
entrate. Infatti i re si indebitavano con ricchi esponenti delle aristocrazie locali e davano come
pegno le funzioni pubbliche in quelle regioni. I re avevano continuo bisogno di denaro e facevano
pagare ai vassalli quante più tasse feudali era possibile. Ma un vero prelievo fiscale ordinario e
permanente non esisteva nell'Europa del Duecento. Il lungo Trecento, con le guerre continue,
cambiò le cose in maniera sensibile. I bisogni finanziari erano enormi, le spese per gli apparati
militari decuplicarono. Il sistema fiscale, il modo in cui il re chiedeva contributi e incamerava a
vario titolo le ricchezze dei sudditi, divenne il motore principale delle trasformazioni politiche dei
regni. Insieme alla guerra a cui era strettamente collegato. La fiscalità pubblica nel basso
medioevo aveva assunto due forme: una in diretta e una diretta. La fiscalità indiretta era
composta dalle imposte messe sui beni prodotti o sui beni di consumo; chiaramente i redditi più
bassi erano quelli più colpiti. La gran parte dei sistemi finanziari dei regni europei si basava su
questo tipo di imposte. Le tasse dirette gravavano invece sui beni dei singoli individui o dei nuclei
familiari. In teoria erano tasse straordinarie che si potevano chiedere solo in casi eccezionali come
contributo individuale al principe. Una volta deciso l'ammontare complessivo, la ripartizione era
delegata ai consigli cittadini o agli organi rappresentativi territoriali che suddividevano il carico fra
tutti gli abitanti secondo il livello di ricchezza dei singoli. In molte città italiane e francesi erano
preparati dei catasti. La tassazione diretta fu aggirata in vari modi, dall'occultamento delle
ricchezze alla falsificazione del valore dei beni. Alla fine del medioevo le classi alte ne erano
praticamente esenti e a pagarle rimasero gli abitanti delle campagne e qualche città meno
fortunata. Imporre una tassa senza consenso implicava un potere del re di fatto assoluto, in grado
di decidere senza limiti in merito al bene dei sudditi; accettare il consenso significava invece che il
potere del re doveva trovare un limite nella libertà dei sudditi. Il problema dello Stato coincideva
con il problema del finanziamento dello Stato. Le teorie assolutiste si applicarono anche a
giustificare il potere di prelevare tasse senza il consenso del popolo. Tutto era giustificato se fatto
per il profitto comune del regno. Nonostante queste affermazioni le resistenze al potere regio di

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

imporre tasse senza consenso furono sempre numerosissime. in Francia, si sviluppò una nutrita
letteratura politica relativa alla libertà naturale del popolo francese. Una teoria faceva risalire i
Franchi e poi i Galli alla discendenza di Enea, di nobile famiglia troiana. I discendenti dei Troiani
avrebbero poi conquistato la Gallia dando origine al regno dei Franchi. Un popolo libero e fiero
non soggetto ai Romani: anzi esenti dalle imposte per privilegio di Cesare. Franco significava così
libero dal tributo e, da sempre liberi, i Franchi francesi non potevano ora essere asserviti dal re. Il
rimedio proposto da Meziers era quello di convocare l'assemblea degli Stati Generali per
ridiscutere i diritti e le obbligazioni dei sudditi. Ugualmente un altro intellettuale di corte,
favorevole agli Stati Generali, consigliò al re di rispettare il proprio corpo, non chiedendo troppo.
Dunque la salvezza del regno dipendeva dal consenso espresso dalle assemblee.
Assemblee e parlamenti: la società locale nei sistemi monarchici
Per governare regni sempre più grandi e costosi era necessario chiedere l'aiuto delle comunità.
Così, già nel corso del Duecento, acquistarono un rilievo nuovo le tradizionali assemblee del regno,
formate dai rappresentanti dei diversi corpi del paese: in Inghilterra il Parlamento, diviso in una
Camera bassa dei comuni e nella Camera alta dei nobili (lords). In Francia gli Stati Generali erano
composti dai tre ordini: uomini di Chiesa, nobiltà e borghesi. Si distinguevano stati provinciali, che
discutevano problemi locali da sottoporre al re o eleggevano i rappresentanti della regione per gli
Stati Generali, e Stati Generali, convocati dal re per discutere questioni diverse, di natura
economica e politica, e naturalmente per ottenere il consenso alla levata delle tasse. In Spagna, le
Cortes comprendevano in Castiglia solo le città ed escludevano i nobili, mentre in Aragona e nelle
città catalane la formazione di Deputazioni stabili delle Cortes aveva consegnato nelle mani delle
assemblee di eletti un vero potere di controllo sull'operato del re. Ampia autonomia godevano,
nelle terre dell'Impero e nei regni danubiani, le Diete, distinte in genere in tre ordini ( ecclesiastici,
nobili e città). La loro convocazione era richiesta quando si trattavano questioni inerenti al regno
sul piano economico e militare, mentre il consiglio degli elettori aveva anche il potere di eleggere il
nuovo regnante. L'Inghilterra è il regno che più ha usato il sistema delle assemblee, sia sotto forma
di Parlamento, che affrontava casi giudiziari e questioni politiche, sia ricorrendo al consiglio
nazionale del re, un'assemblea composta appunto dai grandi e dai rappresentanti delle città. I
motivi di queste riunioni riguardavano le richieste finanziarie del re, che a loro volta
presupponevano pesanti imposizioni fiscali nei territori del regno. Dare soldi al re era un atto
politico: le domande di aiuto dovevano essere commisurate al grado di fedeltà del re ai suoi
impegni, alla legittimità della richiesta e alla sua utilità per il regno. L'esame delle domande regie
era quindi severo. Poteva accadere che una richiesta di finanziamento venisse respinta perché
illegittima. Naturale che, in un quadro così dinamico, le sedute delle assemblee assumessero
funzioni diverse. Non si votava solo se concedere o meno l'aiuto, ma si presentavano al re
lamentele sull'amministrazione pubblica, si disponevano riforme sullo stato del regno, e nuovi
regolamenti da sottoporre al re. In altre parole le assemblee svolgevano di fatto anche un attività
legislativa. In Inghilterra, le decisioni del Parlamento, chiamate statuti, non potevano essere
modificate dal re, ma solo da un altro statuto. Tuttavia è bene non generalizzare queste assemblee
come un potere contrapposto al re o, peggio ancora, come un'alternativa politica alla riforma
monarchica del regno. Queste assemblee conservavano alcune caratteristiche strutturali che è
bene ricordare:

• erano ancora temporanee e furono convocate con una periodicità variabile da caso a caso;

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

• avevano una rappresentanza sociale limitata, non rappresentavano tutti gli ordini nello
stesso modo;
• non erano ideologicamente contro la monarchia, ma furono proprio le assemblee che
sostennero l'unità della Corona;
• e infine, fissarono le divisioni in ordini, conferendo alla nobiltà un prestigio pubblico che ne
sostenne a lungo la preminenza politica oltre che sociale.
Nonostante la presenza dei tre ordini e i criteri elettivi usati per alcuni di essi, queste assemblee
non erano rappresentative nel senso moderno del termine: vale a dire che non erano eletti dal
popolo e aveva una composizione sociale interna molto sbilanciata. In genere, i membri degli
ordini maggiori, ecclesiastici e baroni, erano convocati individualmente ed erano presenti di
persona; mentre le città e le comunità, quando erano chiamate dovevano inviare solo dei
rappresentanti scelti tra i migliori e più saggi del luogo. Sul piano numerico erano spesso una
minoranza, e in più non erano consultati su tutte le questioni, ma solo su quelle che li
riguardavano direttamente. Il Parlamento inglese prevedeva una rigida gerarchia sociale: prima
dovevano essere convocati individualmente i membri del clero; poi i baroni e i conti o i proprietari
terrieri di pari livello; a seguire i rappresentanti dei cavalieri, eletti due per ogni contea; poi i
cittadini di Londra e di altre città, i rappresentanti dei borghi, sempre in numero di due per
località. La stessa composizione fissa si aveva nelle Diete tedesche e dei regni dell'est. La
frequenza con cui le assemblee furono riunite non ubbidiva a una periodicità fissa e regolare. Le
riunioni continuarono a essere occasionali. nei territori con molte città ,o a preponderanza di
assemblee cittadine, come la contea di Fiandra e i Paesi Bassi o nelle città tedesche, le riunioni
erano molto frequenti. Gran parte delle assemblee francesi, spagnole e tedesche riguardavano
territori regionali e a prevalente interesse agrario e furono convocate secondo la frequenza
relativamente lenta, con una media di una o due volte l'anno. In Francia gli Stati Generali furono
convocati circa due volte all'anno, per poi scendere a una volta all'anno. In Boemia le Diete ebbero
una frequenza assai alta durante e dopo la rivoluzione hussita, ma poi le convocazioni calarono. In
Ungheria, sotto il regno di Mattia Corvino, la Dieta fu convocata una o due volte all'anno, ma non
fu più riunita dopo il 1440. Le Cortes spagnole non si riunirono mai fra il 1420 e il 1498, quando più
violente erano le guerre di successione. Anche il Parlamento inglese si riunì 151 volte nel Trecento,
con una media di 28 giorni a seduta; per rallentare nel corso del XV secolo. La drastica diminuzione
delle convocazioni nell'ultima parte del Quattrocento pone delle domande circa la funzione di
queste assemblee come contropotere dei re alla fine del Medioevo. Le Cortes castigliane furono
esplicite nell'appoggio alla monarchia. Nelle Cortes di Olmedo del 1445 il re veniva definito
intoccabile e al di sopra della legge. Più complesso il caso francese, come mostra l'esempio di una
famosa assemblea degli Stati Generali convocata a Tours nel 1484. Nonostante sia stata
interpretata come la prima espressione di una voce del popolo contro le esorbitanti richieste
fiscali del re, la realtà dei testi consegna un'immagine dei rapporti stati-monarchia assai più
complessa. Da un lato il re e la sua corte fecero di tutto per trasformare la natura stessa
dell'assemblea in una celebrazione del buon re che ascolta il popolo, i suoi bisogni e accetta le
lamentele in suo amore. Riunire gli stati è divenuto un atto grazioso del buon re. Dall'altro lato,
anche i più accesi sostenitori del diritto di resistenza degli Stati non arrivarono mai a mettere in
dubbio la legittimità del re come potere superiore e di origine divina. Quando si tratta di proporre
misure più concrete, gli stati chiesero con insistenza di reintegrare il tesoro della corona disperso
sotto Luigi XI, nella speranza che un tesoro del re più cospicuo potesse limitare le sue richieste.

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

Anche un altro intellettuale di corte, tendenzialmente favorevole agli stati e alla corrente anti-
assolutista, non metteva in dubbio la liceità del re di imporre tasse senza il consenso degli stati. Il
solo limite che il re poteva avere consisteva nell'autolimitazione delle proprie pretese secondo
ragione e non certo nel rispetto di un patto con il popolo. Alla base del potere monarchico non ci
fu mai un patto con valore costituzionale, ma dei re che, in momenti alterni, per convenienza o
necessità si convinsero a stringere dei patti e in alcuni casi a rispettarli. Il governo politico dello
Stato si reggeva anche sulla negoziazione, sullo scambio, sulle pressioni incrociate tra un re che si
voleva assoluto e una serie di corpi che limitavano queste pretese senza rovesciarle del tutto.
L'aristocrazia del regno era il nucleo sociale che dalle assemblee rappresentative traeva i vantaggi
più consistenti; senza contare che in molti casi, in Inghilterra e in Francia con particolare intensità,
anche i rappresentanti dei comuni erano legati al re, anzi spesso erano ufficiali regi. Nel
parlamento inglese questo processo è visibile verso la fine del secolo XV, soprattutto fra i
rappresentanti dei cavalieri. Negli Stati Generali francesi avveniva lo stesso, erano numerosi i
membri eletti che ricoprivano una carica pubblica. Il declino delle assemblee rappresentative
avvenne alla fine del XV secolo. Convocate sempre più raramente, molte di esse non avevano più
la capacità di proporre una politica autonoma né di rivendicare un potere di veto sulle decisioni
del re; arrivavano, al massimo, a difendere i privilegi locali, come accadde a molti stati provinciali
del regno di Francia, che erano più utili dei caotici e costosi Stati Generali. I motivi di questo
declino furono diversi, ma tra loro collegati:

• i re, alla fine del Quattrocento, avevano in genere reintegrato i beni della corona, ridotto il
numero delle guerre e quindi diminuito le richieste di aiuto ai sudditi;
• la tassazione ordinaria era ormai un dato accettato e poco contestato anche dai territori: si
poteva discutere l'importo ma non la sua imposizione;
• infine, in quasi tutti i regni, la nobiltà e la medio-alta aristocrazia terriera e urbana erano
ormai esenti dalle imposte ordinarie; se prima dovevano partecipare alle assemblee per
difendere i propri interessi alla fine del XV secolo questo non era più necessario.
è indubbio che nella seconda metà del Quattrocento l'alta aristocrazia, chiusa in un ceto nobile è
sempre più definito dai titoli militari cavallereschi, cambiò strategia, espandendo la penetrazione
nell'amministrazione del regno a più livelli: monopolizzò alcune funzioni di governo, entrò nell'alto
funzionariato regio coprendo le cariche di ufficiali maggiori nei territori, contrattò con il re dei
privilegi pesanti, in grado di ridare alla nobiltà molte delle competenze formalmente cedute agli
ufficiali regi nel secolo precedente. In Francia, le guerre continue valorizzano la capacità di
comando militare e molti balivi e siniscalchi provenivano dalla nobiltà di tradizione cavalleresca,
soprattutto nei territori di frontiera prossimi a quelli del nemico. In Inghilterra la creazione di una
nuova figura di ufficiali locali, i giudici di pace, con funzioni giudiziarie e di polizia, videro di fatto la
promozione dei potenti locali. Un sistema economico per assicurare l'ordine pubblico affidandolo
al ceto già in possesso della capacità militare di quei luoghi. In Spagna la nobiltà, esclusa
inizialmente dalle Cortes e in parte dai consigli del re, rimase sempre sufficientemente potente da
condizionare la vita dei regni. Inoltre la parte più alta dei titulados poteva contare su ampie
dominazioni personali quasi autonome dal regno, gli estados, e su una rete fittissima di clienti
nella media nobiltà dei cavalieri e dei letrados di origine urbana, associati per privilegio alla
nobiltà. Il nesso con il regno divenne ancora più stretto nel corso del XV secolo, quando i re
cedettero ai signori gran parte delle tasse regie da riscuotere nei loro stessi territori: come dire
che i nobili erano gli esattori di se stessi nei loro domini. I re cercarono inoltre di coinvolgere una

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

parte della nobiltà in forme private di cogestione del potere. Privato in senso letterale: si
chiamavano infatti privados i signori entrati nella privanza del re a cui venivano affidate alcune
funzioni di governo come especiales servidores. Il servizio regio divenne un fattore di prestigio.
L'integrazione della nobiltà in varie forme, istituzionali e personali, rafforzò le monarchie, e in
genere i poteri territoriali di natura principesca; più lo stato riusciva a distribuire quote di potere
pubblico in amministrazione alla nobiltà territoriale, più le speranze di successo e di durata
aumentavano. Il regno divenne un corpo con il re come testa e tutti gli ordini sociali come organi,
ognuno con una propria funzione specifica, e coordinato con gli altri. L’unità e l'armonia di tutte le
parti serviva dunque a garantire la sopravvivenza del corpo. Ma armonia e unità richiedevano che
tutte le componenti facessero solo quello che spettava loro senza deviare dai propri compiti. Il
corpo divenne uno straordinario strumento di legittimazione della gerarchia e delle differenze
sociali, un grande stabilizzatore dell'unità del regno.
Gerarchie sociali alla fine del medioevo
Alla base del successo delle istituzioni rappresentative che negoziano con i re, ne giudicano le
prerogative, limitandone spesso le richieste, non vi erano dunque i territori, come un astratto
insieme di residenti in un luogo, ma gli esponenti di un'elite sociale ed economica che ne
rappresentavano gli interessi in maniera più efficace. Queste aristocrazie ormai si erano rafforzate
ovunque. Nelle campagne avevano radicato il loro potere attraverso un maggiore controllo sulle
terre, adesso date in concessione con contratti a breve termine che imponevano prestazioni più
pesanti e una dipendenza molto più stretta dal padrone. Una massa ingente di contadini fu di fatto
privata della terra, espulsa dalle campagne o costretta a lavorare come bracciante. Un processo
simile si ebbe con i lavoranti delle migliaia di botteghe artigiane nelle città europee. Una
degradazione costante delle condizioni di lavoro fra Tre e Quattrocento portò molti garzoni di
bottega a perdere la speranza di un lavoro in proprio, assimilandoli sempre di più ai lavoranti di
basso livello, una massa da far lavorare a salario, che aveva solo il lavoro come risorsa economica.
Le classi dirigenti giustificarono l'esclusione politica dei dipendenti salariati in base a un'antica
diffidenza per il lavoro manuale dipendente. Si poneva ugualmente il problema del sostentamento
di masse urbane che vivevano in uno stato di incertezza continua. Proprio il rischio di cadere in
povertà spinse le autorità laiche ed ecclesiastiche a costruire strutture permanenti di accoglienza e
di aiuto. La redistribuzione degli ingenti flussi di elemosine raccolti dalle istituzioni caritative fu
affidata a un’èlite mista che si incaricava di raccogliere le offerte, organizzare gli aiuti e soprattutto
decidere quali persone e per quali motivi potevano essere concessi. La carità istituzionalizzata
serviva anche a ridisegnare gerarchie sociali e a riaffermare un quadro di valori dominanti che
dovevano regolare la vita collettiva delle società.
Crisi e ristrutturazione dei rapporti sociali nelle campagne
Il basso medioevo si aprì con una fase di crisi acuta dei processi produttivi ed economici delle
società europee. In primo luogo una serie di carestie molto ravvicinate indebolirono le popolazioni
urbane e rurali tra il 1315 e il 1322. La pressione fiscale dovuta alle guerre colpiva sia i grandi
proprietari sia i contadini. Un esborso improvviso di denaro richiedeva spesso il ricorso al prestito
da parte dell'ente proprietario e un indebitamento crescente per far fronte alle richieste del fisco
regio. Anche i bassi prezzi del grano contribuirono ad accentuare la crisi delle campagne. Su
queste società indebolite da una crisi pluridecennale si abbattè l'epidemia di peste del 1348. La
peste del 1348 colpì duramente le città e le campagne europee. Arrivata probabilmente attraverso

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

navi provenienti da porti orientali, la peste si diffuse rapidamente in tutta Europa. I dati sulla
mortalità sono incerti, perché le cronache del tempo ingigantivano spesso gli effetti del morbo
riportando cifre altissime. Il carattere di punizione divina, assegnato da molti alla peste,
appesantiva questa macabra contabilità ( espressione della collera di Dio, che univa l'umanità per i
suoi peccati). Molti abitanti erano scappati dalla città, altri erano rimasti orfani e quindi non erano
registrati negli estimi, altri ancora erano da poco rientrati e ugualmente non figuravano nelle fonti
fiscali. Tuttavia Il calo della popolazione era comunque sensibile, soprattutto negli strati bassi della
popolazione, che avevano meno difese per resistere alle malattie. Nelle campagne la situazione
era inoltre complicata da un impoverimento della popolazione causato dai rigidi dispositivi della
fiscalità pubblica, urbana o signorile. Le tasse da imporre ai villaggi erano infatti calcolate in base a
un numero fisso di abitanti. Gli abitanti rimasti dovevano così pagare le tasse per un numero di
persone non più reale, caricandosi le quote delle persone decedute ed emigrate. La peste aggravò
dunque gli effetti della crisi colpendo la popolazione in crescita ma sottoposta a tensioni
fortissime, anche in ragione di una trasformazione profonda dei rapporti di lavoro e dei modi di
inquadramento della popolazione rurale. Lungo tutti i secoli centrali del medioevo, i rapporti
agrari in Europa furono dominati da poche tipologie contrattuali: in primo luogo il livello e
l'enfiteusi, due forme di affitto a lungo termine, dai 10 ai 29 anni, rinnovabili fino a 3 generazioni o
addirittura perpetua. In un periodo così lungo il contadino che usava la terra direttamente
acquisiva una certa disponibilità della terra stessa anche se non era il proprietario: poteva
decidere le colture, subaffittare la terra o anche venderla con il consenso del proprietario. Questo
diritto pesante legava Il contadino alla terra, ma legava anche la terra al contadino: difficile
sfrattarlo, altrettanto difficile modificare i canoni, esigere il pagamento degli arretrati, metter voce
nella gestione del terreno concesso. Una libertà d'azione che si tradusse per molti contadini in una
forma di ascesa sociale. Le cose iniziarono a cambiare nel corso del Duecento. Gli imponenti
processi di bonifica e di nuove terre, la creazione di villenove e il riassetto del popolamento rurale
che ne conseguì misero in luce una nuova intraprendenza dei signori e ne minarono le fondamenta
dei rapporti di lavoro, a cominciare dal ritorno al canone in natura. I motivi di tale rivolgimento
furono diversi. In primo luogo la crescita esponenziale della domanda di beni alimentari nelle città.
I mercanti cittadini divennero nel giro di pochi anni centri di scambio di dimensioni troppo grandi
per essere soddisfatti dalla miriade di piccoli e medi proprietari e di affittuari che popolavano le
campagne. Alla crescente domanda delle città risposero invece le grandi aziende agrarie,
specialmente quelle ecclesiastiche, che dopo secoli di crisi e di dispersione iniziarono proprio nel
tardo secolo XII un processo di riorganizzazione del patrimonio fondiario, indirizzando quote
crescenti della produzione verso i mercati urbani. È chiaro che cambiamenti così forti riflettevano
trasformazioni più ampie anche negli assetti proprietari. Nel corso del Duecento, nei paesi a più
alta densità urbana, una quota consistente della proprietà terriera passò di mano e fu acquisita da
quel ceto di speculatori attivi nel commercio e nel settore finanziario. Una buona parte dei capitali
era stata investita nelle campagne, consegnando nelle mani cittadine una quota ormai
preponderante dei possessi terrieri. I possessi dei cittadini sopravanzavano di molto quelli delle
ville del contado, in termini sia quantitativi sia qualitativi. In altre parole, gli appezzamenti più
grandi, più redditizi e più curati appartenevano ai proprietari cittadini. Differenze sostanziali
riguardavano anche i modi di conduzione dei fondi. Nei territori a prevalente dominio cittadino le
proprietà erano meno frammentate, richiedevano cure particolari nella gestione dei cicli produttivi
e una diversa organizzazione della forza lavoro. Le zone a prevalenza contadina erano invece
coltivate direttamente dai conduttori, spesso ancora in affitto enfiteutico. Il quasi monopolio

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

dell’affitto a lungo termine si frantumò e iniziarono a fiorire contratti di affitto sperimentali. La


novità più eclatante era la brevità dei termini di concessione. In questa fase di cambiamenti, anche
con un contratto a 10 anni risultava innovativo, ma nei casi di contratti a 5 o a 3 anni la differenza
con il passato diventava traumatica. La riduzione dei termini poteva avere ragioni diverse:
ridiscutere l'importo dei canoni, riappropriarsi della disponibilità della terra, mettere sotto
controllo l'attività del conduttore. In questo modo si liberava il contadino dalla terra, favorendo
una maggiore mobilità delle persone, ma si provocava anche una maggiore precarietà dei rapporti
di lavoro. L'aumento delle clausole di miglioria che i contadini dovevano portare al fondo concesso
rappresentò un secondo campo di novità: impianto di nuove colture specializzate, realizzazione di
fossati e irrigazione dei terreni, arature ripetute più volte all'anno, concimazione dei suoli. Un
insieme rilevante di lavori, interamente a carico dei contadini concessionari, che portarono un
generale miglioramento delle campagne prossime alla città. In Italia le novità più importanti si
ebbero nelle zone a forte concentrazione di proprietà cittadina. Qui si trovano le prime formazioni
del contratto di mezzadria, un affitto a breve termine con la divisione a metà dei prodotti tra il
proprietario e il contadino. Inizialmente la mezzadria aveva un contenuto innovativo limitato alla
breve durata del rapporto di lavoro, ma nel corso del Duecento aumentarono gli obblighi per il
contadino che doveva compartecipare, insieme al proprietario, alla fornitura delle scorte di semi e
di animali ;definire il calendario dei lavori, con l'obbligo di inserire nuove colture nel corso del
primo e del secondo anno di affitto; assicurare il miglioramento e il mantenimento delle colture
arboree specializzate già presenti. Con l'affermarsi del sistema dei poteri, fondi di un unico
proprietario affidati a un conduttore coadiuvato dalla sua famiglia, la mezzadria si avviò ad
acquisire i caratteri stabili che conservò poi per tutta l'età moderna e buona parte di quella
contemporanea. Oltre a questo si avvertì la necessità di definire nel contratto anche i compiti dei
singoli membri della famiglia. La reciprocità del contratto, la divisione a metà dei prodotti, la
compartecipazione al mantenimento delle strutture erano viste come un vantaggio morale oltre
che economico, ma non si consideravano la pesante ingerenza padronale della vita familiare del
mezzadro e la rendita in lavoro e non solo in prodotti che perveniva al padrone in forma quasi
gratuita ( i lavori erano a carico del contadino e comunque difficilmente divisibile a metà); e
soprattutto non si teneva conto del processo di indebitamento crescente dei contadini poveri,
privi di scorte iniziali, di bestie o semplicemente colpiti da un annata sfavorevole e quindi
insufficiente a coprire il fabbisogno alimentare della famiglia. Proprio la libertà del contratto
imponeva ai conduttori una serie di obblighi e di penalità che li costringevano spesso ricorrere
all'aiuto finanziario del proprietario. Da qui una serie di legami extracontrattuali che facevano
ricadere il contadino in una dipendenza personale non prevista al momento di entrare nel fondo.
Nei paesi dell'Europa occidentale si nota una progressiva scomparsa del servaggio. In Inghilterra e
in Spagna i re acconsentirono all'abolizione formale dei vincoli servili nelle campagne. Fra Tre e
Quattrocento ci fu un processo generale di abbandono della conduzione diretta della terra, troppo
onerosa per i padroni, a favore di contratti di affitto parziale, che prevedevano una spartizione dei
prodotti. In Francia questi contratti erano chiamati fermage o metayage. Ormai i signori vivevano
delle rendite di alcuni contadini concessionari, limitandosi a controllare la spartizione del
prodotto. In Inghilterra si registrò alla fine del XIV secolo la fine del servaggio e allo stesso tempo
la diffusione di unità produttive affidate a contadini in affitto di breve durata coordinate da un
responsabile di livello intermedio, il firmarius. Emerse così uno strato di contadini più elevato,
responsabile della conduzione dei fondi nei confronti del proprietario. Peggiorarono al contempo
le condizioni dei semplici coltivatori, piccoli concessionari costretti in gabbie contrattuali più

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

severe, pena la perdita del fondo .Questi processi di ristrutturazione delle scelte produttive e dei
rapporti di lavoro crearono anche fenomeni intensi di mobilità contadina. Le nuove colture
specializzate attrassero così una forza lavoro crescente, specie nelle zone a più alta produttività,
come l’Italia padana, che vide lo sviluppo di una fiorente attività di artigianato domestico legato
alla produzione di materie prime pregiate. In altri casi, gli interessi dei proprietari andarono in
direzioni diverse. In Inghilterra e in parte in Spagna la decisione dei grandi proprietari di puntare
sull'allevamento delle pecore per alimentare l'industria laniera portò a una riconversione a pascolo
di estese parti del territorio, sottratte così alla coltivazione. Naturalmente, l'occupazione
contadina crollò in queste regioni, favorendo una migrazione verso le città. Anche la diffusione dei
nuovi rapporti di lavoro favorirono una maggiore instabilità dei contadini, in parte perché i
contratti a breve termine alimentarono la nascita di un bracciantato stagionale delle campagne, un
ampio bacino di persone senza terra, slegato da rapporti di lavoro stabili e in movimento. Nei
periodi di maggiore crisi questo insieme di persone si riversava nei centri urbani, dove la possibilità
di occupazione e di sostentamento erano maggiori, ma le condizioni di vita in rapido
peggioramento. Lavoro non qualificato e povertà furono le due condizioni che una popolazione
urbana posta ai margini si trovò a dover affrontare.
La trasformazione del mondo del lavoro in ambito urbano: i salariati
Venire in città comportava in molti casi un cambiamento importante di stato e di condizioni di vita.
Nelle richieste di cittadinanza rivolte al comune di Siena nel corso del XIV secolo, gli immigrati dal
contado portavano come giustificazione del loro spostamento una sorta di inclinazione per la vita
cittadina. Il passaggio da coltivatori ad artigiani era esplicitamente richiamato dagli aspiranti
cittadini per affermare il loro nuovo statuto sociale e vincere le diffidenze dei governi urbani verso
gli immigrati legati ai lavori rurali. La natura incerta di questi nuovi abitanti era infatti motivo di
preoccupazione e anche di esclusione dalla vita politica. Ne abbiamo un riscontro nelle legislazioni
urbane; leggi restrittive, dettate dalla paura e dalla volontà di preservare una condizione
privilegiata ormai acquisita. Le città italiane, preoccupate più delle altre da questo afflusso di
residenti non cittadini, invisibili al fisco, ammassati nei borghi fuori dalle mura e di incerta
stabilità, furono tra le prime a porre un limite alla circolazione dei nuovi arrivati. In alcuni casi
chiedendo un loro allontanamento dalla città, in altri obbligandoli a iscriversi negli estimi urbani
per pagare le tasse; in altri ancora, limitando drasticamente la loro partecipazione alle cariche
politiche. Immigrati che tuttavia fornivano da tempo la manodopera salariata al mondo artigianale
urbano. È stato calcolato che circa la metà della popolazione di una città del basso medioevo era
occupata in lavori artigianali. Come si è visto, il ceto artigianale era già allora profondamente
diviso al suo interno in gerarchie di mestieri e di funzioni. Nel corso del Trecento, questo processo
di diversificazione si accentuò. Si crearono due canali di reclutamento e di formazione dei
lavoratori: da un lato i giovani apprendisti; dall’altro i giovani inservienti senza mezzi. Erano
appunto questi i salariati, la parte bassa dei lavoranti meno qualificati, che dipendeva quasi in
tutto dal padrone della bottega. Nel corso dei primi decenni del Trecento, l’abbassamento delle
condizioni lavorative coinvolse anche gli strati intermedi dei lavoratori artigiani, quelli che invece
nel corso del Duecento avevano ottenuto i maggiori vantaggi dall’ascesa politica delle Arti. Anche i
privilegi acquisiti dai maestri potevano essere messi in discussione. Non erano rari i casi di maestri
che tornavano a fare gli apprendisti. Era la spia di un processo più generale di declassamento del
ceto operaio. I lavoranti trovavano sempre più difficilmente un’occupazione stabile ed erano spinti
a prestare la loro opera a tempo, per una giornata o una settimana; oppure a cottimo (pagati

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

secondo la quantità di lavoro svolta). Il numero di queste persone si moltiplicò nella prima metà
del Trecento. Ne favoriva la crescita l’apertura dei grandi cantieri edili in molte città europee.
Come nelle campagne, si venne a creare un gruppo sociale ampio di non proprietari e quindi di
non cittadini, che potevano solo vendere il proprio lavoro senza avere reali possibilità di radicarsi,
comprare una casa o partecipare a qualche forma di vita politica della città. Nel pensiero
dottrinale del Due-Trecento pesava in primo luogo la cattiva reputazione di chi, ricevendo un
salario, diventava un mercenario che vendeva il suo lavoro a giornata, che abbassava la qualità
della persona, la sua libertà personale e in ultima analisi la sua affidabilità. Nei tribunali, per
esempio, la testimonianza dei salariati, come quella dei servi, era scartata o poco considerata.
Ricevendo uno stipendio fisso, con poche possibilità di aumento, i salariati e i piccoli artigiani non
avevano capacità di espandere i loro affari e quindi accrescere la ricchezza collettiva. Per questo,
secondo il teologo domenicano Tommaso d'Aquino, gli artigiani erano cittadini imperfetti,
equiparati ai servi e ai minori, non degni di sedere nelle istituzioni cittadine. La diffidenza dei
teologi era ampiamente condivisa dai ceti dirigenti urbani che avevano limitato in vari modi
l’ingresso dei lavoratori meno abbienti nelle istituzioni cittadine. Per diventare membri del
consiglio cittadino, in molte città, era necessario avere un reddito minimo relativamente alto, 50
lire. In altri casi, si vietava esplicitamente l'elezione negli uffici pubblici di alcune categorie di
lavoratori, dai vetturali, addetti al trasporto, ai panettieri o ai tavernieri, mestieri legati al
passaggio di genti e di merci, alla promiscuità anche fisica con un mondo in movimento che
destava sempre più diffidenza. Dopo la peste del 1348, i vuoti della popolazione urbana crearono
infatti una situazione paradossalmente favorevole ai lavoratori e agli artigiani rimasti: erano pochi,
più richiesti e pagati meglio rispetto agli anni della peste. Il miglioramento improvviso della
condizione dei lavoranti fu avvertito subito come una novità pericolosa. I datori di lavoro, come i
capi bottega, si lamentarono dell’inedita spavalderia dei garzoni che potevano permettersi di
contrattare il salario da una posizione di relativa forza e trovarono una causa morale al fenomeno.
L'aumento dei salari era una conseguenza della vita delle classi lavoratrici che si approfittavano
della scarsità di manodopera per imporre salari più alti. Numerosi interventi legislativi delle
autorità pubbliche erano tesi a limitare l'aumento dei salari e a costringere i lavoratori ad
accettare qualsiasi impiego venisse loro offerto secondo le paghe degli anni precedenti alla peste.
L'ordinanza dei lavoratori emanato in Inghilterra nel 1349 presenta bene gli argomenti di questa
reazione governativa contro i salariati. Nella stessa ordinanza si punivano con la prigione anche i
lavoratori che abbandonavano un'occupazione prima del termine e i padroni che accettavano di
pagare salari più alti del consueto. l'ordinanza del re di Francia del 1351 appare molto simile al
testo inglese, con una maggiore insistenza sul pericolo rappresentato dai poveri che non volevano
lavorare perché frequentavano le taverne. Nonostante il tono minaccioso, queste normative
ebbero un effetto assai limitato. I salari, dopo la peste, continuarono a salire, anche se questo non
voleva dire automaticamente che i lavoratori vivessero meglio. Tra il 1343 e il 1400, un numero
assai alto di rivolte nelle campagne e nelle città turbò la vita ordinata delle città europee, in realtà
già traversate da crisi ricorrenti dovute alle guerre e all'epidemia. Si trattò di sollevazioni violente
che portarono in alcuni casi all'instaurazione di governi provvisori composti in maggioranza da
piccoli artigiani alleati ad alcuni esponenti della borghesia mercantile. Le rivolte più importanti
furono quelle che saldarono le ribellioni delle campagne con un’agitazione interna alla città, anche
se i due processi non avevano all'inizio niente di comune. Così avvenne a Parigi nel XIV secolo con
le rivolte frequenti contro i re di Francia durante la guerra dei 100 anni. Tra queste l'episodio forse
più noto fu il governo provvisorio di Etienne Marcel, il prevosto dei mercanti che aveva

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

rappresentato il malcontento dei borghesi di Parigi per l'eccessivo carico fiscale imposto dal re
Giovanni il Buono. Marcel si appoggiò invece alla piccola borghesia artigiana, al popolo minuto,
alla strada, per mettere in piedi un governo della città che sostituiva quello regio. La crisi, tuttavia,
colpiva anche le campagne: l'aumento dei salari portò a un aumento dei prezzi dei vestiti, degli
attrezzi in metallo, in genere dei manufatti.I lavoranti guadagnavano di più, ma i contadini nelle
campagne pagavano di più per i beni a loro necessari. Nelle campagne vicino a Parigi l'insicurezza
militare e la crisi dei prezzi colpì lo strato alto dei contadini che si rivoltarono contro i loro signori
nel luglio del 1358. Il movimento prese il nome di jacquerie ( dal soprannome attribuito per sfregio
ai contadini, Jacques Bonhomme) e si accanì contro i piccoli nobili di campagna, quelli più vicini ai
contadini. In città, Étienne Marcel pensò di poter abbracciare anche questa rivolta, ma la
borghesia parigina si spaventò della violenza contadina, dello stato di incertezza politica del regno,
delle ambiguità del governo di Marcel e ne decretò la caduta. Marcel fu ucciso nei disordini del
luglio 1358; l'erede al trono entrò a Parigi, tolse di mezzo pochi seguaci del prevosto e iniziò subito
una politica di pacificazione. La rivolta inglese del 1381, scoppiata anch’essa nelle campagne e
portate in città dai rivoltosi, ebbe un esito simile. La rivolta contadina era nata in seguito alla
pressione fiscale della cosiddetta Polltax, una tassa diretta ma non proporzionale, da pagare in
base al numero delle persone: naturalmente per i redditi bassi il peso era molto maggiore. I
rivoltosi arrivarono a Londra e furono accolti dal popolo londinese e dal basso clero che li sostenne
nell'attacco ai palazzi della nobiltà. Il re fu costretto a trattare, concedendo l'abolizione della
servitù e altri privilegi. La rivolta venne domata ugualmente e il capo delle bande contadine, Wat
Tyler, fu impiccato insieme ad altri. In Italia la rivolta dei Ciompi seguì un percorso più complesso.
L'agitazione dei Ciompi, lavoratori salariati del tessile, insieme ad altre categorie di lavoranti, pose
la questione della rappresentanza interna alle Arti: si chiesero la formazione di nuove Arti Minori e
uno spazio nel governo. I Ciompi riuscirono a formare un governo nel 1378 e si mostrarono subito
particolarmente ostili ai monti, che consentivano ai cittadini benestanti di ricevere regolarmente
gli interessi del debito, finanziati con l'aumento delle tasse indirette che pesavano sui ceti bassi. Fu
questo a spaventare il resto della città e a promuovere una repressione feroce verso gli artigiani
più esposti. Si capì presto che ogni partecipazione politica degli artigiani era destinata al fallimento
perché metteva pericolosamente a repentaglio lo Stato e i suoi equilibri sociali. Determinare il
livello di vita dei salariati è un'operazione non facile. Di per sè un salario apparentemente alto o in
crescita non equivale automaticamente a un reddito maggiore. Molto dipendeva dal potere di
acquisto, vale a dire quante cose si potevano comprare con quei soldi. Per capire le reali condizioni
del salariato è necessario quindi conoscere i bisogni primari irrinunciabili dei lavoratori ( alimenti,
casa, vestiti), l'andamento dei prezzi di generi e quindi rapportare questi dati al salario. È chiaro
che se insieme ai salari aumentavano anche i prezzi dei beni di prima necessità, le condizioni dei
lavoratori peggioravano. Diversi tentativi di calcolare il costo della vita sono stati fatti, ma sono
calcoli ipotetici, che non tengono conto di fonti alternative di reddito o di possibilità alimentari
alternative al pane. Eppure, l’immagine che ci consegnano è ugualmente utile per capire i modi di
vita delle classi lavoratrici del tardo medioevo. In primo luogo non esiste una chiara divisione fra
poveri e non poveri; esistono invece condizioni diverse secondo i cicli di vita. A questa differenza
dei cicli di vita (celibe, coniugato, con figli), si aggiungevano le variazioni impreviste. Ogni minimo
cambiamento rischiava di sbilanciare le finanze del nucleo familiare che doveva immediatamente
cambiare la tipologia di spesa (anni buoni o anni cattivi); ma un aumento, anche basso, dei prezzi
alimentari o degli affitti eliminava subito queste spese non necessarie al sostentamento. Per
esempio, anche se la paga giornaliera era sufficiente, una diminuzione dei giorni lavorativi faceva

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

ricadere il lavoratore in una zona prossima all'indigenza. Il dato che emerge è proprio l'estrema
variabilità negli anni: una condizione di instabilità continua, di possibile caduta nel mondo della
povertà. Più che la povertà in sè, era il rischio della povertà che pesava sulle economie urbane.
Questa estrema incertezza era la condizione normale di vita delle classi lavoratrici salariate: non
erano sempre povere, ma lo potevano diventare con estrema facilità per periodi più o meno
lunghi.
Povertà e assistenza: nuovi modelli di solidarietà e la promozione di èlite sociali
Per fronteggiare questa povertà ciclica, le società urbane tardo medievali elaborarono un
complesso sistema di aiuti caritatevoli e di assistenza organizzata: ospedali, confraternite, chiese e
monasteri si impegnarono in una capillare opera di redistribuzione delle donazioni ai poveri delle
città. Capire chi erano i poveri meritevoli di assistenza, tuttavia, non era una cosa semplice. La
povertà nel medioevo poteva assumere significati molto diversi. Il grande successo degli ordini
mendicanti, in particolare di minori aveva posto la povertà al centro di tutti i sistemi di definizione
di una società giusta e ispirata alla carità di Cristo. L’etica francescana era però basata su un atto di
volontà. La rinuncia ai beni, era il risultato di una riflessione alta sulla povertà come condizione di
privazione raggiunta dopo una decisione interiore di rinuncia al mondo. Non a caso, nelle fonti, era
definita come povertà “volontaria”. Diverso era il caso della povertà involontaria che colpiva gli
indigenti di nascita e in generale i mendicanti: segnate dalla mancanza di mezzi di sussistenza e
dalla richiesta continua di elemosine. I poveri involontari, proprio per l’assenza di scelta, non
erano molto considerati dal mondo ecclesiastico. Canonisti e teologi avevano distinto i poveri
meritevoli, che erano grati della carità ricevuta e si impegnavano a trovare un’occupazione per
sopravvivere, dai poveri oziosi che spendevano le elemosine in taverna senza lavorare. Secondo
molto predicatori, gli oziosi sprecavano ricchezza e non andavano aiutati. Thomas de Chobham,
autore di un famoso manuale per confessori, condannava la tendenza dei poveri a fare i “poveri di
professione”. Non solo non lavoravano, ma sottraevano elemosine utili per altri. Era dunque
necessario indirizzare le elemosine vero i veri “poveri di Cristo”, vale a dire i poveri selezionati
dagli uomini di Chiesa. Erano loro a capire chi era veramente povero e di quanto aveva bisogno; ed
erano quindi i religiosi a dover amministrare la carità pubblica e organizzata sul piano istituzionale.
Il panorama delle città europee fu profondamente influenzato dallo sviluppo di numerosi istituti
assistenziali fra Tre e Quattrocento. Molte confraternite si specializzarono nell’assistenza ai propri
iscritti e nella distribuzione di elemosine ai membri più bisognosi. Si crearono, accanto alle loro
sedi, dei piccoli ricoveri per i soci anziani e malati. Anche gli ospizi, che in origine erano luoghi di
accoglienza dei viandanti, iniziarono a estendere l’ospitalità a persone malate e deboli. Nel corso
del Trecento, gli ospedali per malati si moltiplicarono. Gli ospedali, mantennero sempre un’attività
di assistenza ai poveri, sia con la distribuzione diretta di elemosine, sia con l’assistenza domiciliare
alle persone incapaci di muoversi. Gli assistiti erano crebbero moltissimo dopo la peste. Ma chi
erano i “poveri di Cristo” della città? Chi meritava veramente l’assistenza pubblica? I documenti
dell’ospedale fiorentino di Orsanmichele ci dicono che la maggioranza dei soggetti assistiti che
ricevevano l’elemosina erano donne, madri di famiglie numerose, vedove, malate e giovani da
sistemare. Le donne sposate, tuttavia, erano sempre la maggioranza. La necessità di mantenere la
famiglia e la relativa difficoltà di trovare un lavoro autonomo facevano delle donne, moglie e
madri, le destinatarie ideali dell’assistenza pubblica. Le donne erano oggetto anche di altri tipi di
assistenza garantita da istituti specializzati: per esempio gli ospedali per il parto e le confraternite
specializzate nel fornire le doti per le giovani donne povere, al momento del matrimonio. La

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

funzione di dotare le giovani povere aveva anche un esplicito significato morale: salvare le giovani
delle città dalla decadenza e dal peccato, visto che senza la dote non avrebbero trovato marito e
sarebbero cadute nella prostituzione. Come meritoria era l’assistenza ai bambini orfani e
abbandonati, che in numero crescente furono accolti in ospizi per infanti e mantenuti dalle
istituzioni pubbliche o dalle corporazioni di mestiere. Si chiariscono ora meglio i nodi sociali e
istituzionali che la carità metteva in luce. Da un lato bisognava far convergere tutte le donazioni e
le elemosine verso istituti specializzati in opere pie selezionate da religiosi e necessarie a garantire
il decoro collettivo della città. Dall’altro si dovevano assistere insiemi di persone scelte in base alla
loro capacità di mettere a frutto, sul piano lavorativo e morale, la beneficienza che la collettività
aveva concesso. Il modello cristiano dell’assistenza prevedeva due categorie entrambe virtuose:
ricchi generosi e poveri laboriosi. Per molti esponenti laici delle classi agiate, aiutare i poveri
mettendoli negli ospedali o nei ricoveri aveva anche un’altra funzione: evitare che torme di
mendicanti girassero indisturbate per le città. Il grande umanista fiorentino Leon Battista Alberti,
parlando degli ospedali nel suo Trattato di architettura, ricordava come alcuni governanti, pe non
vedere mendicanti andare “uscio a uscio a chiedere l’elemosina, disturbando gli onesti cittadini
inutilmente con l’accattonaggio e il loro aspetto ripugnante”, avevano vietato ai poveri di restare
in città senza fare niente per più di tre giorni. I poveri potevano essere aiutati, ma non dovevano
restare inattivi. Il criterio dell’utilità, inteso come attitudine al lavoro, entrò così nella gestione
pubblica dei poveri, favorendo politiche di riutilizzo a basso costo di una forza lavoro altrimenti
inattiva. Gli stesso orfanotrofi, allevavano i ragazzi peer avviarlo al lavoro nelle botteghe. Il povero,
dunque, doveva essere spinto a non cadere nell’ozio, a rendersi utile lavorando. Solo così
l’economia della carità chiudeva un circolo virtuoso del denaro e della ricchezza pubblica, che
sempre di più veniva concentrata nelle mani di un’èlite di laici illuminati dalla fede. La ricchezza
materiale, in beni e denaro, non era mai stata del tutto condannata dal pensiero cristiano, come a
lungo si è sostenuto. Di per sé la ricchezza non era un male, ma facilmente poteva essere usta
male. Per la cultura cattolica, l’accumulo di beni dettato dall’avidità e dalla falsa convinzione che il
benessere materiale fosse tutto merito della proprie capacità conduceva spesso i ricchi a cadere
nel peccato di vana glori. L’avidità era in effetti il peccato anti economico per eccellenza, perché
impediva la circolazione dei beni. La Chiesa aveva condannato queste pratico di accumulo degli
avari che ignoravano il vero senso dell’economia. I beni andavano messi in comune e fatti circolare
in un sistema di scambi fondato sulla carità. I minori francescani, insieme ai predicatori
consigliarono re, principi e governi cittadini, instaurarono un dialogo con le èlite economiche al
fine di mettere in comune i beni per assicurare il bene comune. I francescani attualizzarono la
metafora biblica del monte come luogo di concentrazione della grazia infinita di Cristo. Ora quel
termine fu traferito alle nuove istituzioni laiche che dovevano mettere in comune le ricchezze della
città per distribuirle ai bisognosi. Monti furono chiamati gli istituti pubblici fondati sui capitali
messi in comune con scopi morali e ispirati ai valori cristiano. Per esempio i monti delle doti, attivi
dal XV secolo, si incaricavano di fornire una dote alle donne nubili senza famiglia o di famiglia
povera. Altri erano più indirizzati al credito, come i monti di pietà, istituzioni importanti per
l’economia al minuto, che offrivano prestiti di basa entità a persone povere dietro consegna di un
pegno, un bene o un oggetto, anche di poco valore. L’intento dichiarato dal monte di pietà era
quello di sostituire il prestito ebraico giudicato usurario e anti cristiano con un prestito cristiano a
interesse modico e giusto. L’aspetto caritatevole non era separato da quello “morale”: il pegno
era un legame che impegnava la persona ad attivarsi per ottenere la restituzione dell’oggetto. La
povertà andava aiutata, ma sempre dietro una reazione positiva dell’assistito. In molte città l’èlite

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)


lOMoARcPSD|22123669

economica divenne anche politica e di governo, che monopolizzava le cariche e controllava


l’economia della città, la redistribuzione di beni e di ricchezza nella società urbana. I compratori
delle quote del monte del debito divennero i controllori della politica non solo fiscale del comune.
Si crearono istituti esterni che gestivano le finanze pubbliche in forme speculative ( Banco di San
Giorgio a Genova). Nel Quattrocento a Bologna, città ormai nello Stato pontificio, l’intero sistema
finanziario del comune fu appaltato a una società di persone, il Credito di Tesoreria. I membri della
Tesoreria prestavano al comune in anticipo una somma prestabilita e prendevano in gestione le
entrate pubbliche, cioè riscuotevano per conto del comune tutti i dazi e le imposte indirette.
Trasferivano a una società privata le entrate pubbliche, ma non era un grosso problema perché i
membri erano eletti dalle stesse famiglie che componevano il senato e l’ufficio del sedici
Riformatori, cioè l’èlite politica della città. Un’èlite bifronte e sdoppiata in apparenza: pubblica nel
Senato e privata nella Tesoreria, ma in realtà espressione unica di un gruppo di potere cittadino
che controllava l’economia urbana per conservare il potere politico. La chiusura dell’accesso agli
uffici, riservato solo a persone fidate dotate di un cittadinanza amplissima, perpetuò in effetti
questa oligarchia per secoli. Nuovi ingressi erano possibili solo per cooptazione delle istituzioni di
vertice. I consigli, i senati o altre assemblee sceglievano con cura i nuovi cittadini “onorati”, quelli
che potevano ricevere un onore (carica remunerata). È significativo quindi che l’eminenza sociale
delle persone non si basasse solo su una generica ricchezza degli individui o delle famiglie. Nel
resto d’Europa i processi furono in buona parte simili. Si trattava di riconoscere al ceto nobile il
possesso di una naturale virtù di governo degli uomini all’interno di una struttura politica guidata
dal re. Anche una parte della borghesia urbana stabilizzò la sua presenza negli uffici centrali e nella
amministrazione locale, e soprattutto si vide riconosciuto il privilegio di gestire la politica fiscale
delle città delegata dal re. La partecipazione alle istituzioni pubbliche, la guida delle istituzioni
“morali” comunitarie e la fedeltà al regno costituirono il nesso vitale che teneva in piedi il corpo
della nazione.

Scaricato da Giovanni Mariano (giovannimariano@iispraia.edu.it)

Potrebbero piacerti anche