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“MANUALE DI STORIA MEDIEVALE”: ANDREA ZORZI

SNODO 1 “Mille Anni di storia”.


La nozione di medioevo è un invenzione intellettuale moderna, successiva al millennio- tra V e XV secolo
dopo Cristo- convenzionalmente indicato come tale, e costantemente rielaborata nelle idee e nell’
immaginario dell’Occidente. Sul medioevo grava un forte pregiudizio negativo, che perdura fino ai giorni
nostri, che lo identifica come un periodo di decadenza. Per reazione, in più momenti, esso è stato oggetto di
rivalutazione, come testimonia l’a trazione che continua ad esercitare. La storia medievale è inanzitutto la
storia del lungo periodo in cui venne formandosi l’identità storica dell’ Europa come originario contro la civiltà.
La storia medievale appartiene dunque alla storia Occidentale. Il medioevo è però privo di coerenza interna.
Il millennio appare piuttosto come un insieme di età che gli storici usano per distinguere perlomeno in 3
periodi: quello iniziale, dove si colloca la sua genesi tra il IV e VII secolo; quello intermedio che conobbe le
trasformazioni più significative; e quello finale tra il XIV e XV di transizione verso l’età successiva.

1 L’IDEA DI MEDIOEVO E LE SUE INTERPRETAZIONI


1.1 Un’età di decadenza
Gli uomini e le donne che viissero tra il V e il XV sec. non ebbero mai la percezione di vivere nel medioevo. La
nozione di medioevo è infatti un’invenzione intellettuale posteriore a quel lungo millennio; un’invenzione
moderna continuamente rielaborata. Di più l’idea di Medioevo fu inizialmente formulata nell’ambito di un
forte pregiudizio negativo, che perdura fino ai nostri giorni. Le popolazioni medievali erano convinte di vivere
nella continuità ininterrotta del quadro politico che dalla Roma pagana si era trasformato nell’universalismo
cristiano e che era pertanto destinato a durare fino alla fine del mondo terreno. A percepire la sensazione
che l’età antica fosse ormai estranea alla società che si era delineata nei tempi recenti furono due umanisti
italini del XIV e XV. Iniziò a diffondersi nei loro scritti l’espressione di “età di mezzo” (“media tempora”,”media
aetas” e infine “medium aevum”) che separava l’età classica dalla più recente. L’idea di una lunga decadenza
culturale e artistica fu rielaborata dai protestanti tedeschi con la Riforma di Martin Lutero. Per i protestanti
la causa del declino del mondo antico non andava identificata con le invasioni barbariche, ma con la
mondanizzazione della Chiesa legata all’affermazione del papato.

1.2 Un periodo della storia


La cultura cattolica rispose alla polemica dei protestanti con una ricostruzione della storia della Chiesa intesa
a rivendicare la legittimità del primato papale, i valori positivi della fede e del cattolicesimo. Il movimento
intellettuale dell’Illuminismo rielaborò a sua volta l’idea di Medioevo che era venuta emergendo nei secoli
precedenti. Nel 1776 lo storico inglese Edward Gibbon interpretò il millennio intercorso tra il 476 e il 1453
come la storia del lungo declino e della caduta dell’impero romano, il medioevo espresse comunque valori
propri, come quelli delle popolazioni germaniche arabe e turche, e fenomeni come quelli delle crociate e le
trasformazioni religiose.

1.3 La rivalutazione dii un’epoca


Nel XVIII secolo l’ immagine negativa del medioevo fu messa a revisione, in primo luogo dall’erudizione
storica, che moltiplicò le raccolte di documenti e lo studio del passato. Ludovico Antonio Muratori tra il 1723
e il 1751 diresse un imponente raccolta di cronache relative al periodo compreso tra il VI e XVI sec.- i “Rerum
Italicarum Scriptores”. Egli si rese conto che, pur non essendo politicamente unita, l’Italia condivideva una
tradizione storica comune che si era formata non in età antica ma nel medioevo. La diffusione di un’immagine
positiva del medioevo presso un pubblico ampio maturò nel clima culturale del Romanticismo che si diffuse
in Europa dalla fine del XVIII sec. La nuova sensibilità fu attirata dagli aspetti passionali e irrazionali del
medioevo, rivalutato in primo luogo come età di fede religiosa rasicurante e pacificatrice. Il Romanticismo
contribuì a sviluppare anche un’originale interpretazione del medioevo come epoca in cui rintracciare le
radici dello spirito nazionale.

1.4 Il medioevo degli storici


Nel 1818 fu fondata la Società per la documentazione dell’antica storia tedesca, con lo scopo di pubblicare
sistematicamente e in forma critica le fonti della storia medievale tedesca. In Italia fu fondato a Firenze nel
1842, lì Archivio storico italiano, il primo periodico scientifico dedicato alla promozione dello studio della
storia nazionale. Nel clima culturale del Positivismo della seconda metà del XIX sec, gli storici puntarono a
individuare nel passato le leggi di funzionamento della società, nel presupposto che esse avessero la stessa
natura oggettiva di quelle osservabili delle scienze della natura.

1.5 Un millennio unitario o plurale?


Per reazione all’aspirazione positivistica di identificare delle costanti nella storia, nella prima metà del XX
secolo alcuni storici si impegnarono in interpretazioni coerenti o unitarie del medioevo tese a rivendicarne
l’originalità. Nei decenni più recenti gli storici hanno rinunciato alle interpretazioni organiche del medioevo,
privilegiando ricerche su singoli temi, crescentemente influenzate dall’antropologia e dalle scienze politiche
e sociali. La globalizzazione del mondo attuale induce sempre di più gli storici del medioevo a superare il
punto di vista eurocentrico e ad aprirsi a considerare fenomeni come le migrazioni, le diaspore, le reti
economiche e sociali, le ibridazioni e il meticciato.

SNODO 2 “La fine del mondo antico”.


La fine del mondo antico maturò, tra III e VII sec. d.C., per effetto di tre grandi fenomeni: la crisi sociale,
economica e politica dell’impero romano, la diffusione del cristianesimo e le invasioni barbariche. La crisi
dell’impero fu affrontata con una serie di riforme, la più importante delle quali fu la sua divisione in due parti
alla fine del IV secolo: l’Occidente, dove la crisi fu più intensa, crollò sotto la spinta delle migrazioni dei popoli
barbarici nel corso del V secolo; l’Oriente ,invece, fu capace di respingerle e di porre le basi per un successivo
impero bizantino. Il cristianesimo si diffuse progressivamente fino ad essere adottato quale religione ufficiale
dell’impero alla fine del IV secolo. Le relazioni che, sin dai primi tempi, i barbari avevano intrattenuto con
l’impero si tramutarono in invasioni tra IV e V secolo; ciò portò alla dissoluzione della struttura imperiale in
Occidente e alla formazione di una pluralità di regni.

3 LA TRASFORMAZIONE DEL MONDO ROMANO


3.1 La crisi dell’impero romano (secoli III-V)
Fino all’inizio del III secolo l’Impero romano aveva assicurato sviluppo economico e stabilità politica su
un’area vastissima gravitante sul Mediterraneo. Ai popoli che erano entrati a farne parte, la “pax romana”
aveva garantito il mantenimento delle proprie istituzioni e religioni, in cambio della fedeltà a Roma.
L’estensione della cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi dell’impero nel 212 copriva enormi differenze
tra le diverse regioni: aree popolate da città ed altre più rurali, province occidentali in cui permaneva l’uso
della lingua greca e province occidentali in cui permaneva l’uso della lingua greca e province occidentali più
profondamente romanizzate, dove si impose il latino. A tenere insieme questo organismo, che giunse a
contare 50 milioni di abitanti, concorrevano non solo il sistema statale di comunicazioni stradali, marittime e
postali, e lo sviluppo di apparati burocratici e militari, ma l’unità dei gruppi dirigenti dell’impero:
un’aristocrazia culturalmente omogenea, urbana ma dotata di grandi patrimoni fondiari. Terminate le guerre
di espansione l’economia cominciò a ristagnare. I costi per il mantenimento degli apparati statali
determinarono un inasprimento del prelievo fiscale. Si creò cioè un crescente squilibrio tra risorse e necessità:
la spesa pubblica superò l’ammontare delle entrate e la coniazione di moneta di sempre minore valore fece
crescere l’inflazione. Il divario tra ricchi e poveri si accentuò: moltissimi artigiani e piccoli proprietari terrieri
furono costretti a vendere i propri beni e a cercare lavoro come braccianti nei latifondi dei senatori. Nel corso
del III secolo l’elezione degli imperatori dipese sempre più dall’esercito. Le legioni finirono con l’acclamare
imperatori i propri comandanti: tra 235 e 284 se ne succedettero ben 28. Carestie, epidemie e saccheggi
compiuti dagli stessi soldati provocarono rivolte tra i contadini. Fu Diocleziano, imperatore dal 284 al 305, ad
avviare un periodo di riforme, che conseguì alcuni effetti positivi. Per rilanciare l’autorità imperiale egli
associò al trono Massimiliano, cui affidò il governo delle regioni sul Reno mentre si prese cura diretta di quelle
danubiane e orientali, spostando la sua residenza da Roma a Nicomedia in Asia Minore. Il governo fu
trasformato in “tetrarchia” nel 293, quando ai due “augusti” furono associati due “cesari” (Galerio e Costanzo
Cloro) allo scopo di sottrarre la nomina dei successori al controllo dell’esercito, e di definirne precise
competenze territoriali. Nel 297 le province furono rese più piccole. L’aristocrazia senatoria fu estromessa
dai comandi, mentre vennero promossi di grado militari di carriera provenienti da ceti meno elevati. Il
numero di soldati arrivò a contare 500mila uomini, raddoppiando i costi di mantenimento. Per sostenere
l’espansione della spesa furono adottate varie misure. In primo luogo, una più razionale amministrazione del
fisco, attraverso il catasto. Diocleziano cercò anche di arginare l’inflazione fissando i prezzi massimi dei beni
di consumo e delle prestazioni d’opera, ma il calmiere non produsse gli effetti sperati. Dopo una lunga serie
di conflitti che l’opposero, tra 306 e 324, agli altri pretendenti, il figlio di Costanzo Cloro, Costantino, rimase
l’unico imperatore fino alla morte ne 337. Sul piano amministrativo, egli proseguì nel solco delle riforme
promosse da Diocleziano, rafforzando gli uffici ministeriali, separando definitivamente le carriere militari da
quelle civili, diminuendo le truppe di confine e incrementando l’esercito mobile. Sul piano economico legò il
sistema monetario all’oro, coniando una nuova moneta, il “solidus”. Soprattutto, egli prese atto che il
baricentro politico, economico e culturale dell’impero era andato progressivamente spostandosi verso
Oriente: per questo trasformò l’antica città di Bisanzio sul Bosforo (l’attuale Istanbul), in una “nuova Roma”,
che da lui prese il nome di Costantinopoli nel 330. Il trasferimento della capitale evidenziò la divaricazione
tra la “pars Orientis” e la “pars Occidentis” dell’impero. Le città decaddero in Occidente mentre in Oriente
mantennero un ruolo centrale nei commerci e nelle produzioni. Le ricchezze tesero quindi a confluire verso
Oriente, dove le differenze tra ricchi e poveri furono meno accentuate. Teodosio, imperatore dal 379 al 395,
dispose la suddivisione dell’impero alla sua morte tra i due figli, affidando ad Arcadio l’Oriente e a Onorio
l’Occidente. Da allora i destini dei due imperi avrebbero seguito percorsi diversi: mentre in Oriente lo sviluppo
dell’ordinamento pubblico continuò a essere sostenuto della crescita economica, in Occidente la sua crisi
ampliò le disparità sociali e accentuò la disgregazione delle istituzioni.

3.2 La diffusione del cristianesimo


Alla trasformazione del mondo romano contribuì decisivamente la diffusione di una religione salvifica che,
nella figura di Cristo, prometteva la redenzione dal male e la salvezza individuale. Ancora agli inizi del IV
secolo il cristianesimo era infatti una religione minoritaria fra le molte praticate nell’impero. Esportato
dall’ambito originario della Palestina per opera di Paolo di Tarso nei decenni centrali del I secolo, il messaggio
cristiano si era diffuso in Siria, in Asia Minore e in Grecia, in primo luogo attraverso i grandi centri costieri,
per poi propagarsi, tra II e III secolo, in Africa settentrionale, in Italia, nella Gallia e nella penisola iberica,
restando circoscritto prevalentemente alle città. La religione politeistica tradizionale era intanto venuta
fondendosi a culti influenzati dai riti solari, come per esempio quello di Mitra, divinità della luce e della verità.
Tali culti trovarono larghe adesioni nell’esercito e in alcuni imperatori, che mirarono a farne la religione
ufficiale. Proprio il rifiuto intransigente dei cristiani di tributare atti di culto all’imperatore valse loro accuse
di scarso lealismo o addirittura di cospirazione, e fu all’origine delle sistematiche persecuzioni di massa
disposte da Decio nel 249, da Valeriano nel 258, e, la più sanguinosa di tutte, da Diocleziano nel 303. La
concessione della libertà di culto da parte di Costantino nel 313 assicurò invece all’imperatore l’appoggio
incondizionato dei cristiani. Nel corso del secolo, il cristianesimo fu progressivamente accettato dall’impero
fino a essere riconosciuto come religione ufficiale. Ciò fu l’esito della convergenza di due scelte. Da un lato,
gli imperatori individuarono nelle strutture organizzative delle chiese un formidabile strumento di
legittimazione del potere imperiale. Dall’altro, fu proprio la progressiva adesione al cristianesimo dei gruppi
dirigenti romani ad orientare le scelte delle autorità civili: infatti, i capi delle comunità cristiane locali, e in
primo luogo i vescovi, furono scelti sempre più tra le famiglie che costituivano le élites urbane. Costantino
adottò le misure in favore dei cristiani continuando ad agire come “pontifex maximus”, cioè come capo della
religione di stato romana. Fu lui infatti a convocare a Nicea, nel 325, il primo concilio ecumenico, cioè la prima
grande assemblea dei vescovi di tutta la cristianità, preoccupato che le divisioni teologiche tra le chiese
potessero minare la ritrovata unità dell’impero. Tra le eresie condannate, la più diffusa era l’arianesimo, una
dottrina formulata da un prete di Alessandria d’Egitto, Ario, per cui a Cristo si attribuiva soltanto la natura
umana, considerandolo gerarchicamente inferiore al Padre. (arianesimo: un prete egiziano, Ario, che negava
la natura divina a Gesù, sostenendo la usa inferiorità rispetto al Padre; pur condannata come eretica nel
concilio di Nicea del 325 continuò a essere seguita da molte chiese in Oriente e da alcuni popoli barbarici, per
i quali costituì a lungo un elemento di identità). Il cristianesimo divenne la religione ufficiale dell’Impero nel
380 in seguito all’editto emanato a Tessalonica da Teodosio. Con esso si imponeva a tutti i sudditi
l’accettazione dell’ortodossia cattolica secondo i dettami definiti dai concili di Nicea del 325 e poi di
Costantinopoli del 381, che sancirono le caratteristiche della Chiesa: una, santa, cattolica e apostolica.
(cattolico: termine di origine greca, “katholikòs”, univerale, impiegato per indicare la “retta fede” in
contrapposizione ai gruppi eretici o scismatici, e pertanto la Chiesa cristiana universale, che riconosceva una
sola natura nelle tre persone della trinità, Padre, Figlio, Spirito Santo). Nel corso del IV secolo il cristianesimo
fu oggetto di un più generale processo di istituzionalizzazione, che lo dotò di una propria organizzazione
fondata su una gerarchia ecclesiastica, su un corpo di norme e su formule di fede progressivamente condivise.
In Italia, per esempio, se gli ostrogoti guidati da Teodorico (493 – 526) cercarono la collaborazione con i
romani e ne rispettarono la confessione cattolica, i longobardi, anch’essi ariani ma ancora legati a feroci riti
guerrieri tipici del paganesimo germanico, nel primo periodo della dominazione (569 – 584) compirono
invece violenze, uccidendo preti e distruggendo chiese e monasteri, tra i quali l’abbazia di Montecassino.
L’opera di conversione fu promossa soprattutto dai vescovi cattolici. L’obiettivo fu quello di convertire i re e
i capi militari delle popolazioni, nella fondata convinzione che, data la natura sacrale che era riconosciuta alla
regalità tra le etnie barbariche, la scelta dei re sarebbe stata seguita dal resto della loro gente. Per tal via, il
primo a convertirsi fu il re dei franchi salii Clodoveo, battezzato nel 496 da Remigio vescovo di Reims, seguito
poi da quasi tutti i sovrani degli altri regni: nel 511 si convertì il burgundo Sigismondo, nel 589 Recaredo.
L’adozione della fede cattolica costituiva per i sovrani un allargamento della base di legittimazione del loro
potere, che, proponendosi come protettori delle chiese, si estendeva così anche alla popolazione romana.
Ancora per tutto il VII secolo si manifestarono vigorose spinte anticristiane un po' tra tutte le aristocrazie
germaniche dell’Occidente. Tra V e VI secolo monaci provenienti dalla Gallia cristianizzarono dapprima
l’Irlanda e poi la Britannia, la cui rete ecclesiastica era stata spazzata via dagli angli e dai sassoni. Tra VI e VII
secolo l’iniziativa fu invece rilanciata dal papa, Gregorio Magno, e dall’Irlanda un flusso di missionari investì
il continente fondando monasteri importanti come Luxeuil in Borgogna.

3.3 Le invasioni barbariche


Accanto alla diffusione del cristianesimo, l’altro grande fenomeno che trasformò il mondo romano fu
l’incontro di civiltà determinato dalle migrazioni dei popoli barbarici all’interno dell’impero tra IV e VI secolo.
I romani vissero le ondate migratorie come delle “invasioni”, ma più propriamente si trattò di “migrazioni”,
cioè di spostamenti di intere popolazioni dell’ordine di decine di migliaia di persone. Per il probabile
peggioramento delle condizioni climatiche, su di esse cominciarono a premere dalle steppe euroasiatiche
anche altre tribù seminomadi alla ricerca di nuovi spazi verso ovest. “Barbari” erano, per i greci dapprima e
poi per i romani, quei popoli che non parlavano il greco o il latino ma delle lingue incomprensibili (da qui
l’espressione “bar – bar”) e che non condividevano i loro costumi. Per estensione, il termine, che mantenne
sempre una connotazione negativa, designava tutte le popolazioni stanziate al di là del limes, cioè il confine
dell’impero. Le popolazioni barbariche si formarono in un clima di forte contaminazione: in origine le varie
tribù non avevano un’identità etnica o culturale precisa, ma erano gruppi eterogenei. L’incontro tra i barbari
e i romani era cominciato ben prima delle invasioni. L’impero aveva rinunciato alla conquista della Germania
già al tempo di Tiberio (14 – 37). Si preferì invece consolidare il limes in corrispondenza dei due grandi fiumi
europei, Reno e Danubio, provvedendo a dotarlo di un sistema di fortificazioni. Le popolazioni barbariche
confinanti cominciarono così a entrare nell’orbita del sistema imperiale. I capi ebbero frequenti contatti con
la corte imperiale, i guerrieri furono arruolati nell’esercito romano, i rapporti commerciali videro il volume
degli scambi raggiungere il suo massimo tra il II e III secolo. Incursioni sempre più frequenti si susseguirono
dal III secolo, ma fu lo spostamento dei visigoti alla ricerca di uno stanziamento definitivo l’elemento che
destabilizzò l’equilibrio politico dell’impero tra la fine del IV secolo e l’inizio del V secolo. Aggrediti dagli unni,
essi erano stati accolti in Tracia nel 375, ma la loro presenza si risolse in saccheggi e rapine fino allo scontro
con l’esercito romano, che fu clamorosamente sconfitto presso Adrianopoli nel 378 dove trovò la morte lo
stesso imperatore Valente. Nel 401 saccheggiarono Aquileia e minacciarono Milano, prima di essere respinti
dall’esercito guidato dal generale di origine vandala Stilicone. Guidati da Alarico, essi tornarono in Italia
puntando direttamente su Roma, che saccheggiarono nel 410. Risalita la penisola ottennero di potersi
stanziare nella Gallia meridionale, dove, combattendo come alleati contro altre popolazioni, misero sotto
controllo l’intera Aquitania, costituendo di fatto nel 418 il primo regno barbarico all’interno del territorio
imperiale. Da quel momento si badò a preservare il territorio da ogni significativa infiltrazione barbarica,
cercando anche di deviarne le incursioni verso Occidente, e in tutto l’impero si cominciò a guardare a
Costantinopoli come all’unico baluardo contro i pericoli esterni. In Occidente, soluzioni pragmatiche furono
tentate attraverso le formule della “foederatio” e dell’ “hospitalitas”. Con la prima, truppe barbare
sottoposte al comando dei capi tribali vennero inquadrate in veste di alleate, ricevendo un compenso: la
soluzione si rivelò efficace. La seconda prevedeva invece la concessione di un terzo delle tasse sulle terre di
una determinata ragione a gruppi etnici di rilevanti dimensioni che, insediandovisi, dichiaravano fedeltà
all’impero e si impegnavano a fornire un appoggio militare pur rimanendo indipendenti. Il sistema era
appetito dalle popolazioni: la sua mancata concessione indusse, per esempio, i visigoti al saccheggio di Roma
nel 410, che suscitò un’eco vastissima nella romanità. All’inizio del V secolo cedettero le frontiere dell’impero.
Per affrontare i visigoti, il grosso dell’esercito era stato spostato in Italia, sguarnendo i confini settentrionali.
La Britannia fu abbandonata nel 406 esponendola alle incursioni dei pitti e degli scoti. Per fronteggiarle fu
favorito l’insediamento come federati degli angli e dei sassoni, provenienti dalle coste continentali
settentrionali, che crearono dei regni che indussero le popolazioni britanniche a ritirarsi nell’attuale Galles (il
termine “Welsch” era usato per indicare i “non germani”) e, oltre Manica, nella regione che da loro prese il
nome di Bretagna. Il limes del Reno fu attraversato nell’inverno del 406 – 407 da diversi gruppi, soprattutto
alani, burgundi, suebi e vandali, che dilagarono nella Gallia incontrando la sola opposizione dei federati
franchi, che nel 409 li spinsero a stanziarsi oltre i Pirenei. I visigoti vi dispersero gli alani, stringendo i vandali
nell’estremo sud, che prese il nome di Vandalusia (l’odierna Andalusia). Sotto Valentiniano III (425 – 455)
l’impero seppe reagire in Gallia attraverso azioni militari decise che rivelarono la debole coerenza delle etnie
barbariche. Il generale Ezio ebbe un ruolo decisivo alla guida di un esercito innervato da contingenti barbarici:
contenne le pressioni dei visigoti a sud e dei franchi sul Reno, respinse l’invasione degli unni guidati da Attila,
sconfitti in battaglia nel 451 e ritiratisi anche dall’Italia nel 452, probabilmente sazi delle razzie compiute nelle
città padane. Ma per intrighi di palazzo Ezio fu fatto uccidere dall’imperatore nel 454, che subì analoga sorte
l’anno dopo. I vandali si erano spostati nell’Africa del nord nel 429. Sotto la guida di Genserico essi
occuparono Cartagine nel 439, da dove esercitarono una continua azione di pirateria nel Mediterraneo e
invasero le isole: la Sicilia dal 440, le Baleari, la Corsica e la Sardegna dal 455. Sempre via mare,
saccheggiarono Roma nel 455. Quando le migrazioni sembrarono finalmente cessate, i contrasti ai vertici
dello stato ne indebolirono le capacità di controllo, ormai limitate all’Italia e a una parte della Gallia. Qui il
generale romano Siagrio resse dal 464 al 486 un dominio personale tra la Loira e la Senna che costituì l’ultimo
avamposto gallo – romano in un contesto ormai germanizzato. In Italia, invece, nel 476 il generale sciro
Odoacre depose il giovane Romolo Augustolo e restituì le insegne imperiali, dando vita a un dominio
personale che non fu però riconosciuto dall’imperatore d’Oriente Zenone affidò invece l’amministrazione
della prefettura dell’Italia a Teodorico, che nel 488 aveva guidato gli ostrogoti al saccheggio di Costantinopoli.
Sconfitto Odoacre nel 493, Teodorico diede vita a un regno che avrebbe governato la penisola fino al 533.
4 L’Occidente post imperiale
4.1 I regni romano – barbarici
Lo stanziamento dei barbari entro i confini dell’impero d’Occidente promosse la formazione di una serie di
regni nel corso del V secolo. Ciò non significò la fine dell’impero romano, perché esso continuò a esistere
nella parte orientale. Per questo, la deposizione di Romolo Augustolo nel 476 passò quasi inosservata al
confronto dell’eco che ebbero invece il cedimento della frontiera sul Reno nel 407 o i saccheggi di Roma nel
410 e nel 455, che suggerirono l’impressione del crollo di un’intera civiltà. Non a caso i regni vengono chiamati
romano – barbarici proprio a sottolineare la natura mista sul piano etnico e istituzionale. La società romana
mantenne infatti forme di coesione, nonostante l’accentuazione di fenomeni di crisi che si erano manifestati
già dal III secolo, come la diminuzione della popolazione, la divaricazione delle condizioni sociali e l’inaridirsi
delle attività economiche. Al crescente abbandono delle città corrispose la sempre maggiore importanza del
mondo rurale, dove le grandi proprietà fondiarie divennero il luogo primario dell’organizzazione economica
e sociale. I latifondi rimasero saldamente in mano all’aristocrazia senatoria. La conversione si accentuò anche
per effetto della diffusa sensazione di angosciosa fine di un’epoca. Furono le istituzioni ecclesiastiche a
garantire l’inquadramento delle popolazioni latine e la continuità con il passato. Nelle campagne, i monasteri
si offrirono come nuclei importanti di coesione sociale e culturale. I barbari dovettero misurarsi con questa
realtà, ancora saldamente radicata nelle proprie tradizioni sociali e civili. Essi furono ovunque una netta
minoranza rispetto alle popolazioni di origine romana. Il loro stanziamento si concentrò in territori
relativamente ristretti, intorno ai centri politici e ai luoghi di difesa strategica. I re erano innanzitutto capi
militari eletti dagli uomini armati riuniti in assemblea. Nel corso del tempo la loro funzione dovette tramutarsi
dalla semplice abilità di comandare sugli uomini alla più complessa capacità di governare un territorio. I loro
poteri erano ampi in linea di principio, per il diritto di punire e di confiscare ricchezze anche ingenti, di
comandare su tutti gli abitanti, sia barbari sia romani, e di disporre come patrimonio di tutto il territorio che
non avesse un padrone. (fisco: nell’impero romano con il termine “fiscus” si indicava il patrimonio
dell’imperatore, quello che oggi chiameremmo il demanio, ossia l’insieme dei beni mobili e immobili di
provenienza pubblica, distinti dal suo patrimonio privato. Nei regni romano – barbarici e poi nell’impero
carolingio la ricchezza pubblica fu costituita dal patrimonio fiscale, vale a dire dalle proprietà fondiarie del re,
senza più alcuna distinzione fra patrimonio pubblico e patrimonio del sovrano. Il termine fisco venne allora
ad indicare le aziende agrarie appartenenti al sovrano, la cui amministrazione era affidata ad appositi ufficiali).
L’amministrazione centrale si limitava a poche persone, spesso appartenenti alla popolazione romana, l’unica
ancora alfabetizzata. Queste compilazioni, redatte in lingua latina, erano il segno del processo di
acculturazione che era in atto tra le popolazioni barbariche. Le leggi barbariche subirono l’influsso del diritto
romano e di quello canonico, e con l’andare del tempo finirono con l’assumere una validità tendenzialmente
territoriale, estesa a tutti i sudditi del regno. Furono pochi i regni che durarono nel tempo. Ciò dipese dal
grado di integrazione che si stabilì tra i barbari e i romani: determinanti furono i tempi di conversione al
cattolicesimo, e là dove le istituzioni imperiali furono rimodellate in funzione di una convivenza le esperienze
si rivelarono più durature. L’assetto più fragile fu quello del regno dei vandali nell’Africa del nord. Essi si
resero fautori di un duro dominio militare, di un pesante sfruttamento economico e di una rigida intolleranza
religiosa, che alienarono loro l’appoggio delle popolazioni romane. La conflittualità permanente all’interno
del regno offrì all’imperatore Giustiniano il pretesto per intervenire nel 533, nel quadro del suo disegno di
ripristino dell’integrità territoriale dell’impero. Con una rapida campagna militare, che non incontrò
particolare resistenza, i bizantini riconquistarono all’impero nel 534 l’Africa e le isole mediterranee, ponendo
fine al regno e disperdendo i vandali, che divennero schiavi o furono incorporati nell’esercito dell’impero
romano d’Oriente. Nel regno ostrogoto in Italia i romani conservarono le proprie prerogative di fronte alla
minoranza barbarica, insediata attraverso il sistema dell’”hospitalitas”. Re Teodorico attuò inizialmente una
politica di convivenza, con un governo rispettoso delle istituzioni romane e dei cristiani di fede nicena. La
soluzione fu quella di tenere separate le popolazioni, ciascuna con proprie leggi, lingua e religione.
L’amministrazione civile fu appannaggio della popolazione latina, mentre il comando militare delle
guarnigioni fu assunto dai goti. Fu tutelata anche la diversa confessione: ariani i goti, con proprie chiese e
sacerdoti, niceni i romani, che mantennero intatte le proprie strutture ecclesiastiche. Teodorico continuò a
fare di Ravenna la capitale. La convivenza “condominiale” si risolse però in una coesistenza sul medesimo
territorio di due corpi distinti, senza sforzi significativi di assimilazione reciproca pur nella collaborazione per
il governo del regno, che restituì all’Italia un trentennio di pace. Essa si rivelò fragile quando Bisanzio lanciò
una politica di unità religiosa, perseguitando gli ariani in Oriente e minacciando gli stessi goti. Teodorico
rispose con una dura repressione antiromana e antinicena. Le lotte per la successione al trono si intrecciarono
alla lunga guerra con l’esercito bizantino che pose fine al regno nel 553. Il regno dei visigoti durò a lungo nel
tempo fino all’avanzata degli arabi nel 711 – 716, a testimonianza della solidità della loro esperienza
convivenza con le popolazioni romane. L’integrazione fu progressiva muovendo dall’”hospitalitas” e
dall’iniziale distinzione di ruoli, militari per i goti e civili per i latini. Superata la fase delle guerre che nel V
secolo consolidarono il regno della penisola iberica difendendolo anche dall’avanzata bizantina nel 553 – 554,
re Leovigildo creò strutture di governo ispirate al modello romano, rinnovò l’apparato legislativo, e spense
gli ultimi focolai di ribellione. La fusione etnica, favorita anche da sempre più frequenti matrimoni misti, fu
suggellata al tempo di re Recesvindo dalla pubblicazione di un corpo di leggi (Liber iudiciorum) valido per
entrambe le popolazioni.

4.2 I franchi
Una piena integrazione fu invece realizzata nel regno dei franchi. Più che una popolazione etnicamente
definita essi costituivano un insieme eterogeneo di tribù sparse, tra le quali emergevano i “salii”. Rispetto
alle altre popolazioni, i franchi si stabilizzarono più precocemente. Essi vissero a lungo sottoposti ai romani.
Nel 406 parteciparono alla difesa del confine imperiale sul Reno, come federati dei romani, e negli anni
sessanta combatterono contro i visigoti sulla Loira guidati da Childerico, che si propose come difensore
“romano” dell’intera popolazione del nord della Gallia. Fu Clodoveo (discendente di Meroveo, da cui il nome
di Merovingi attribuito alla dinastia) a superare il frazionamento tribale e ad affermare la sua autorità sugli
altri capi militari, ponendo le basi per la costruzione del regno ed estendendolo a nuovi territori. Nel 486 egli
sconfisse l’ultimo nucleo di resistenza gallo – romana e innestò il suo potere sulle precedenti strutture
amministrative romane, che erano ancora sostenute da un’attiva aristocrazia locale, da cui rilevò anche gran
parte del patrimonio fiscale. Clodoveo comprese l’importanza di stabilire dei rapporti stretti con l’episcopato
cattolico: nel 496 si fece battezzare dal vescovo di Reims, Remigio, presentandosi così alla popolazione gallo
– romana come protettore delle chiese. Il suo ruolo di sovrano fu ulteriormente rafforzato nel 508, quando
ricevette dall’imperatore bizantino il titolo di “patricius”, e nel 510, quando fece redigere il “Pactus legis
salicae”, che fissava per iscritto le norme di convivenza della sua popolazione. La morte di Clodoveo, nel 511,
portò alla spartizione del regno fra gli eredi. Quello dei franchi fu in realtà sempre un insieme di regni tra loro
conflittuali, benché non fosse venuta mai meno l’idea di un rganismo politico comune: ogni re si intitolava
“re dei franchi”. Nella grande potenza territoriale che venne così formandosi si distinguevano alcune regioni:
l’Austrasia (la “terra dell’est”), che restò sempre la regione più fortemente germanizzata; la Neustria (la
“nuova terra dell’ovest”), dove più profonda era stata la compenetrazione tra civiltà latina e germanica; la
Burgundia, l’antico regno dei burgundi, che conservò tenacemente la sua individualità politica e culturale; e
l’Aquitania che non costituì mai un regno a sé, dove assai scarsa era la presenza dei franchi e più radicate le
tradizioni gallo – romane. I regni riuscirono a superare i conflitti e a trovare una certa unità solo sotto i re
Clotario II (613 – 629) e Dagoberto (629 – 639). Essi dovettero però concedere ampie prerogative di governo
locale all’aristocrazia. Dalle famiglie aristocratiche locali erano reclutati anche gli ufficiali pubblici: i conti che
perlopiù risiedevano nelle città con compiti giudiziari e militari, e i duchi, a capo di più ampie circoscrizioni
territoriali. Approfittando della debolezza dei re nel corso del VII secolo l’amministrazione dei vari regni fu
sempre più controllata dai maestri di palazzo, i massimi funzionari di corte. Una grande famiglia
dell’aristocrazia austrasiana, quella dei Pipinidi, riuscì a rendere ereditaria tale carica e, con Pipino II di Herstal,
a riunire nelle sue mani nel 687 i ruoli di maggiordomo dei regni di Austrasia, Neustria e Burgundia. Il figlio
Carlo detto Martello (cioè piccolo Marte) avviò una forte espansione contro alamanni, bavari, turingi e
sassoni, e nel 732 condusse l’esercito franco nella vittoria di Poitiers contro una spedizione islamica,
arrestandone definitivamente l’avanzata verso nord. La vittoria fu di preludio alla deposizione del re
Childerico III ad opera del figlio di Carlo Martello, Pipino il Breve, che fu acclamato re dai grandi del regno nel
751. L’affermazione dei Pipinidi fu legittimata dalla loro alleanza con la Chiesa di Roma: Pipino si fece ungere
con il sacro crisma nel 754, dal papa Stefano II, che consacrò anche i figli Carlomanno e Carlo, il futuro Carlo
Magno.

4.3 L’Italia fra longobardi e bizantini


Le lotte per la successione al re ostrogoto Teodorico offrirono l’occasione all’imperatore Giustiniano per
inviare truppe in Italia nel 535. Dopo un lungo conflitto protrattosi fino al 553 che segnò la vera fine della
civiltà antica nella penisola, Giustiniano ristabilì il dominio imperiale sull’Italia. Con la “Prammatica sanzione”
del 554 egli estese la legislazione bizantina all’Italia, riorganizzò le circoscrizioni territoriali e mantenne divisa
l’amministrazione civile da quella militare. Ma il paese era ormai allo stremo: ne fu prova la pressoché nulla
resistenza opposta all’invasione dei longobardi. I longobardi migrarono in Italia attraverso il Friuli nel 569
guidati da re Alboino, e si insediarono in modo disomogeneo, senza un piano preciso, in tre aree principali:
la pianura padana, la Toscana e i territori intorno a Spoleto e Benevento. Le coste rimasero invece in mano
ai bizantini, con l’Istria, Ravenna, la Pentapoli, Roma, Napoli e il suo entroterra, la Puglia, la Calabria e le isole
maggiori. L’Italia si trovò così divisa sotto due dominazioni profondamente diverse per tradizioni, istituzioni,
costumi e lingua: una frattura che avrebbe segnato e che si sarebbe ricomposta solo nel XIX secolo.
L’insediamento dei longobardi ebbe un impatto violento sulla società italica e comportò la dispersione
dell’antica aristocrazia senatoria. Le terre furono confiscate e distribuite tra i membri dell’esercito
longobardo, i quali si trasformarono in proprietari fondiari, pur mantenendo la caratteristica di uomini in
armi (arimanni: nella società longobarda erano così indicati gli uomini liberi capaci di portare le armi e dunque
tenuti a fare parte dell’esercito) distinti dai servi e dai semiliberi (aldii: individui semiliberi, che a differenza
dei servi non erano proprietà di un padrone e, non possedendo terra, erano costretti a mettersi sotto la
protezione di un padrino e lavorare per lui). I longobardi si distribuirono in raggruppamenti familiari con
funzioni militari (fare: raggruppamenti familiari ampi, costituiti appositamente per le spedizioni militari e
guidati da capi guerrieri). Questi erano cristiani di fede ariana, mentre la gran parte del popolo seguiva ancora
i culti religiosi di tradizione germanica. Dopo un decennio (574 – 584) di divisione politica senza alcun re,
dapprima Autari (584 – 590) e poi Agilulfo (590 – 616) si diedero ad un’opera di rafforzamento dell’autorità
regia emarginando i duchi più riottosi e costituendo un vasto patrimonio fiscale. Un graduale superamento
della contrapposizione fra i longobardi ariani e i romani cattolici fu avviato, grazie a Teodolinda, con papa
Gregorio Magno. I sovrani vennero convertiti al cattolicesimo. Nel 653 re Ariperto abolì ufficialmente
l’arianesimo, benché molto duchi restassero fedeli a tale dottrina. Costituita stabilmente a Pavia nel 626 la
corte (palatium) fu soprattutto con Rotari (636 – 652) che fu rafforzato il potere del re sviluppato un apparato
di governo e organizzato il territorio in distretti più ordinati. Le grandi aziende regie, che costituivano la base
economica del sovrano, erano affidate alla gestione di gastaldi (gastaldi: gli amministratori delle “curtes
regiae” cioè delle aziende agrarie di patrimonio del re). L’affermazione dell’autorità del sovrano fu sancita
dalla promulgazione, nel 643, di un editto che raccolse in forma scritta le norme relative alla vita civile, ai
rapporti patrimoniali, alla disciplina militare. L’insieme dei territori rimasti sotto il controllo bizantino era
stato riorganizzato alla fine del VI secolo e affidato a un funzionario, l’esarca (esarca: titolo dei comandanti
militari bizantini che, dal VI secolo, indicò i governatori inviati a Ravenna e Cartagine come rappresentanti
dell’imperatore), che risiedeva a Ravenna e riuniva le funzioni civili e militari. Lo stato di guerra costante e le
difficoltà di collegamento tra le diverse aree resero indipendenti i vari ducati, sui quali l’autorità imperiale
finì con l’essere spesso solo nominale: solo la Sicilia era governata direttamente da Bisanzio. Passata la fase
della conquista e dell’occupazione delle terre, le condizioni della popolazione italica migliorarono. La società
ormai etnicamente mista trovò ulteriore consolidamento durante il regno di Liutprando (712 – 744), che si
fregiò del titolo di “christianus et catholicus princeps” con l’intento di fare delle istituzioni ecclesiastiche un
elemento di sostegno alla monarchia. Approfittando dell’indebolimento dell’autorità bizantina, dilaniata
dalla crisi iconoclastica e oggetto di una vasta sollevazione delle popolazioni italiche nel 727, Liutprando
puntò alla conquista dell’esarcato e dei territori bizantini sino al ducato di Roma. Il papato sollecitò una vasta
mobilitazione internazionale contro i longobardi. I re Astolfo e Desiderio, che occuparono ripetutamente
Ravenna, subirono le spedizioni dei franchi sollecitate dai papi, che culminarono nella conquista del regno
nel 774 da parte di Carlo Magno. Carlo unì al titolo di “re dei franchi” quello di “re dei longobardi”. Il regno
longobardo mantenne cioè la propria identità anche dopo la conquista franca. La tradizione longobarda
rimase viva nella toponomastica. Caduto il regno, i duchi di Benevento assunsero il titolo di “principes”,
dando continuità al regno nel meridione d’Italia. Il principato riuscì a evitare la conquista franca e a
mantenere a lungo la propria indipendenza, complicata nel corso del IX secolo dalla conquista della Sicilia da
parte degli arabi, che posero anche un emirato a Bari nell’842. Solo l’avvento dei normanni mise fine alla
autonomia politica longobarda: Salerno fu l’ultima città a cadere nel 1076. Nell’eclissi del potere bizantino, il
papato aveva assunto sempre maggiori funzioni di governo su Roma e sul suo ducato sostituendovi
progressivamente una propria amministrazione e puntando a tutelare gli immensi patrimoni fondiari che la
Chiesa aveva accumulato. I rapporti con l’impero si interruppero quando il papa non seguì gli orientamenti
iconoclastici sostenuti da Leone III nel 726. Minacciati dai longobardi, i papi decisero di rivolgersi alla nuova,
potente e cattolica, dinastia franca dei Pipinidi, che nel 756 donò “ai beati apostoli Pietro e Paolo” numerosi
territori ripresi ai longobardi compresi tra Ravenna e la Pentapoli. Intorno a questi nuclei prese corpo nel
cuore della penisola il dominio territoriale del papato, destinato a durare per oltre un millennio.

SNODO 3 “Dal Mediterraneo all’Europa”


Tra VI e VII secolo il Mediterraneo si trasformò da mare solcato incessantemente dai mercanti a mare di
confine. La fine dell’unità mediterranea corrispose all’emersione di tre aree do civiltà spesso in conflitto.
L’impero continuò a esistere a Oriente, ridefinendosi nella civiltà di Bisanzio e accentuando la tradizione
culturale greca e quella cristiana ortodossa. Le sponde meridionali del Mediterraneo furono invece testimoni
dell’espansione arabo – islamica: il carattere multietnico dell’impero ne provocò la frantumazione politica
tra IX e XI secolo. La più arretrata area occidentale ritrovò l’unità politica intorno alla dinastia franca dei
Carolingi, di cui la Chiesa di Roma appoggiò la riproposizione della sovranità, in aperto contrasto con la Chiesa
imperiale di Bisanzio.

5 BISANZIO
5.1 La tradizione dell’impero
Dissolto a Occidente nel V secolo, l’impero romano continuò la sua millenaria vicenda a Oriente. L’imperatore
Giustiniano elaborò un programma di restaurazione (renovatio imperii) per ridare all’impero la sua
estensione originaria e un assetto unitario. Gli eserciti imperiali abbatterono con successo il regno dei vandali
nell’Africa settentrionale nel 553 – 554. Le imprese comportarono però lunghe campagne militari e ingenti
oneri economici. Il grandioso programma di Giustiniano fu sostenuto da varie riforme. Sul piano religioso egli
si impegnò a tutela della Chiesa, rendendosi garante dell’ortodossia e perseguitando tutti i culti non cristiani,
dall’ebraismo a residui del paganesimo antico. Giustiniano cercò di rafforzare la rete dei funzionari statali e
promosse anche una sistematica revisione del diritto che portò alla redazione di un nuovo codice il “Corpus
iuris civilis”. I successori non ebbero le risorse finanziarie e militari per governare stabilmente l’intero spazio
Mediterraneo. La conquista parziale dell’Italia da parte dei longobardi nel 569 e l’abbandono definitivo della
penisola iberica nel 629 spostarono il baricentro verso l’Oriente. Nel 632 – 634 la Siria e la Palestina, nel 639
– 640 la Mesopotamia e l’Armenia ed entro il 645 l’Egitto, caddero sotto il dominio degli arabi. In poco meno
di un secolo, l’impero si ridusse a potenza regionale gravitante tra Egeo e Anatolia. Nel 678 gli arabi
assediarono Costantinopoli, nel 681 i bulgari crearono un regno nei Balcani, e negli anni successivi Bisanzio
perse gli ultimi avamposti nell’Africa settentrionale. Solo il cristianesimo restava a baluardo dell’identità
collettiva dell’impero. Una controversia religiosa divenne così un affare politico che ne travagliò a lungo la
vita. Nel 726 l’imperatore Leone III proibì la venerazione delle immagini sacre. La lotta iconoclastica era volta
a creare un fronte interno compatto contro il pericolo islamico. La mancata adesione delle regioni bizantine
segnò però l’irreversibile allontanamento della Chiesa di Roma da quella orientale. Approfittando della crisi
dell’impero islamico, Bisanzio riprese l’iniziativa nella seconda metà del IX secolo. I discendenti di Basilio I
(867 – 886) riuscirono ad affermare la successione ereditaria. Ciò permise alla dinastia dei Macedoni (867 –
1057) di guidare l’impero a una rinnovata fase di sviluppo politico, economico e militare. La riconquista si
spinse fino alla Siria, alla Mesopotamia e all’Armenia. Nell’871 si verificò una ripresa dell’economia che favorì
anche la rifioritura delle città. Qui venne formandosi una nuova aristocrazia (arconti) che possedeva terre ma
soprattutto uffici pubblici. I mercanti erano sottoposti invece a forti vincoli da parte dello stato.
L’investimento nel commercio fu sempre marginale nella società bizantina. La ricchezza continuò a basarsi
sulla terra. I vincoli posti al commercio si trasformarono in fattori di debolezza quando cominciarono ad
operare in Oriente i mercanti occidentali: la concessione nel 1082 di privilegi commerciali ai veneziani segnò
l’inizio del declino economico di Bisanzio. Nel 1054 si era prodotto anche lo scisma tra la Chiesa di
Costantinopoli e quella di Roma. Pur avviandosi al declino, la civiltà bizantina mantenne vive le proprie
caratteristiche: le tradizioni imperiali, il predominio dell’elemento greco e la connotazione ortodossa del
cristianesimo.

6 Islam
6.1 La civiltà in espansione
L’Arabia era abitata da tribù di beduini che praticavano l’allevamento e il commercio lungo le grandi piste
carovaniere che collegavano le oasi verso i mercati dell’Egitto, della Siria e della Mesopotamia. Il nomadismo
del popolo dava vita a confederazioni di tribù politicamente instabili. L’unico elemento di coesione era
costituito dai pellegrinaggi ala Ka’ba in occasione della fiera annuale che si trovava nella città di Mecca. Nato
qui nel intorno al 570 da un ramo del clan dominante, Maometto crebbe nel mondo delle carovane ed entrò
così in contatto con le religioni più diffuse, dall’animismo politeista al monoteismo ebraico e cristiano.
Ritirandosi in meditazione spirituale ebbe nel 610 la rivelazione fondamentale: l’angelo Gabriele gli ordinò di
diffondere la parola di Dio (Corano). La predicazione di un monoteismo rigoroso, senza compromessi, che
richiedeva la sottomissione assoluta (islam) del fedele alla volontà di Dio (Allah). Il profeta fu costretto a
riparare con i seguaci nell’oasi di Medina nel 622, data della cosidetta migrazione (ègira) da cui ha iniziato il
calendario islamico. La comunità raccolta intorno a Maometto si organizzò in forme nuove, non più sulla base
dei vincoli tribali bensì sulla condivisione della stessa fede, che sottoponeva tutti i mussulmani alla suprema
autorità del profeta. Maometto guidò personalmente le razzie contro i vari clan, constringendoli a
sottomettersi. Dopo anni di conflitti anche Mecca cedette nel 630 e fu eletta a luogo sacro dell’islam. La
predicazione di Maometto riuscì a dare un’identità unitaria a una moltitudine di irrequiete tribù. Alla morte
di Maometto nel 632 i problema della successione nella guida fu risolto con la crazione della figura del califfo,
incaricato di tenere unita la comunità e di fare rispettare la legge divina (sharia). I primi quattro califfi, tutti
parenti di Maometto, guidarono anche sistematiche campagne di guerra contro i più ricchi e fertili territori
bizantini e persiani. Nel giro di pochi decenni caddero iin mano degli arabi l’Egitto,la Palestina, la Siria, la
Mesopotamia e la Persia. Con l’elezione di Alì nel 656 esplose il conflitto tra quanti (i seguaci di Alì)
pretendevano che il califfo dovesse appartenere alla famiglia di Maometto e quanti (i kharigiti) sostenevano
il principio che potesse essere eletto qualsiasi fedele. Nel 661 questi ultimi ebbero la meglio sui partigiani di
Alì, che fu ucciso. Lo scontro aprì anche una frattura dottrinale fra mussulmani sunniti e mussulmani sciiti,
che perdura tutt’oggi. >Sotto la dinastia omayadde l’impero raggiunse la sua massima estensione: penetrò
fino all’Indo, completò la conquista del Nord Africa fino all’Atlantico e occupò la Spagna visigota. L’espansione
si arrestò solo di fronte alla reazione dei franchi, che si opposero agli arabi a Poitiers nel 732 e dei bizantini
che sconfissero l’esercito islamico in Anatolia nel 740. Un discendente di Maometto, Abul Abbas, rovesciò gli
Omayaddi nel 750 dando via alla dinastia califfale degli Abbasidi. Muovendo la capitale da Damasco a
Baghdad sviluppò un apparato burocratico distinto in tre rami (cancelleria, esattoria fiscale e
amministrazione militare) e posto sotto il controllo del visir , potentissimo funzionario di corte. Il territorio fu
suddiviso in province rette da governatori locali, gli emiri. La lingua ufficiale rimase l’arabo. Sul piano religioso
l’interpretazione sunnita della fede islamica impose definitivamente sulle altr. La ricchezza si fondò
soprattutto sul gigantesco bacino commerciale costituito dall’immenso ambito geografico imperiale. L’unità
politica dell’islam cominciò a disgregarsi quando gli emirati cominciarono a promuovere politiche autonome.
Si affermavano così dinastie locali che si sottrassero progressivamente al potere centrale degli Abbasidi. A
Baghdad, nel 945, la dinastia persiana dei Buwayhidi ebbe la delega del governo dagli Abbasidi, che
conservarono solo nominalmente il titolo califfale.

7 EUROPA CAROLINGIA
7.1 La rinascita dell’impero
Alla morte del padre Pipino il Breve nel 768 e del fratello Carlomanno nel 771, Carlo (poi detto Magno) ereditò
il regno franco, secondo le tradizioni germaniche. Carlo guidò un’spansione militare su larga scala che procurò
terre e bottini alle grandi famiglie franche, e che nel volgere di un trentiennio diede vita a un imponente
costruzione politica nell’Occidente europeo. Nel 772 fu avviata, olltre il Reno, una lunghissima guerra contro
i sassoni ai quali fu imposta con la forza l’evangelizzazione e l’assimilazione ai franchi. Nel 774 fu conclusa la
conquista del regno longobardop. Nel 778 fu sottomessa la Baviera e nel 796 distrutto il regno degli avari sul
Danubio. Nel natale dell’anno 800 Carlo Magno fu eletto imperatore da papa Leone III. Carlo si presentava
come il sovrano cristiano, difensore della Chiesa di Roma. L’incoronazione rafforzava il ruolo del papa quale
autorità suprema della cristianiytà ed indeboliva quello dell’impero bizantino, dilaninato dalle lotte
iconoclastiche. L’impero franco si proponeva infatti come erede di quello romano e delle sue ambizioni
universalistiche, ma mentre l’impero di Roma era incardinato nel bacino mediterraneo, quello carolingio
spostava verso nord, nel cuore del continente europeo. Seguendo la tradizione franca il re si spostava
costantemente per affermare la sua presenza in tutto il dominio, soggiornando nella proprietà del fisco regio.
Nondimeno, Carlo stabili una sede privilegiata ad Aquisgrana, dove a imitazione delle capitali della cristianità,
Roma e Costantinopoli, fece erigere una reggia e una cappella. Il territorio fu suddiviso in circoscrizioni
centrate in genere sulle città “comitati” e, nelle regioni di confine “marche”. A loro capo furono posti dei
conti e dei marchesi, reclutati tra le famiglie aristocratiche. Più che una compagine unitaria fu una costruzione
incoerente,tenuta eccezzionalmente inseme inanzitutto dall’autorevolezza personale del suo arteficie, Carlo
Magno, e della sua capacità di vincolare a se personaggi che già godevano di particolare prestigio nei singoli
territori. Essi erano legati al sovrano da rapporti che implicavano una fedeltà personale i cambio di beni
vitalizi, e che si usano indicare con rapporti vassallatico-beneficiari. Carlo reclutò la maggior parte dei conti e
marchesi tra i propri vassalli, per poter contare su personaggi di fiducia. Ma, attenzione, non tutti i suoi
vassalli divennero ufficiali, ne essere tali significava essere vassalli del re. Tanto più i personaggi reclutati
ocme conti e marchesi erano potenti in proprio, tanto meno il sovrano poteva contare su una loro indiscussa
fedeltà. Carlo stese allora la rete di controllo dei missi dominici, gli “inviati del signore” incaricati di sorvegliare
l’operato dei fiunzionari locali, e in genere nominati a coppie: un laico e un ecclesistico. I missi dovevano
diffindere nei territori le leggi emanate dal sovrano, note col nome di capitolari. Il coinvolgimento del clero
nel governo dell’impero fu imprescindibile nell’attività della cancelleria, ossia l’ufficio di corte in cui venivano
scritti i capitolari, gli atti pubblici e la corrispondenza ufficiale. Dal V sec. la capacità di leggere e scrivere si
era concentrata nelle mani del clero; Carlo Magno (che non sapeva scrivere) sostenne lo sviluppo di una fitta
rete di scuole vescovili e di centri scrittorii presso i monasteri. Carlo Magno attuò riforme anche in ambito
economico. Furono introdotte gabelle sul transito dele merci sulle strade e nei porti, cioè indirette, ma a
differenza di Bisanzio, nell’impero carolingio le entrate venivano soprattutto dalle rendite del fisco regio. Da
esse erano ricavate anche le dotazioni di terre (res de comitatu) che servivano a compensare gli ufficiali
pubblici, che non erano remunerati in moneta. Fu reintrodotto anche un sistema monetario basato
sull’argento, che si adeguava alle esigenze di un’economia di tipo locale. Monete d’oro continuavano a essere
coniate solo da Bisanzio e dagli stati islamici, per servire economie più ricche e articolate rispetto ai modesti
scambi praticati dall’Europa carolingia. Espugnata Pavia e catturato re Desiderio, Carlo Magno aveva messo
fine nel 774 all’esperienza politica longobarda in Italia. Il regno fu incorporato al dominio dei franchi ma
mantenne la sua autonomia: Carlo e poi il figlio Pipino si fregiarono del titolo di re dei longobardi. Lìèlite
longobarda non fu radicalmente esclusa, bensì assimilata. Né l’importazione dei legami franchi di natura
vassallatico-beneficiaria o delle forme di gestione curtense delle proprietà fondiarie alterò particolarmente
gli ordinamenti economici e sociali preesistenti. Fedel alla tradizione, Carlo Magno dispose nel 806 la
suddivisione patrimoniale dell’impero tra i figli. Unico sopravvissuto, Ludovico ne ereditò il potere alla morte
nel 814, favorendo un profondo ricambio degli uomini di corte, rafforzando il ruolo pubblico dei vescovi e
accentuando i caratteri sacarali dell’ideologia imperiale: nel 824, con la Constitutio romana, vincolò la
consacrazione papale a un preventivo giuramento di fedeltà all’imperatore. La sua successione, aprì invece
lotte violente tra gli eredi ben prima della sua morte nell’840. L’accordo siglato a Verdun nel’843 riconobbe
a Ludovico i territori a est del Reno, a Carlo il Calvo quelli più a Occidente, e a Lotario quelli compresi nella
fascia intermedia dal nord del regno all’Italia, al quale fu abbinato, da quel momento il titolo imperiale. La
morte senza eredi di Ludovio II nelò’875 avviò il tracollo della dinastia carolingia che si estinse nel’887 con la
deposizione del malato e incapace Carlo il Grosso per mano dei grandi del regno. Le lotte dinastiche infatti
avevano finito col rafforzare il potere delle dinastie locali, che inglobarono progressivamente nel proprio
patrimonio le cariche pubbliche di conte, duca e marchese.

SNODO 4 L’età postcarolingia


Il calo della popolazione, la crisi delle città e la fine dell’economia antica determinarono tra VI e VIII secolo
un impoverimento materiale della società dell’Occidente europeo, caratterizzata ora dal predominio della
vita rurale. Segnali di ripresa si ebbero durante l’età carolingia, quando le aziende agrarie tornarono a
produrre ricchezza e a favorire una nuova domanda economica. Nuove ondate di incursioni da parte di
popolazioni esterne contribuirono però a rideterminare tra IX e X secolo gli assetti politici. Alla dissoluzione
dell’impero carolingio fece seguito la formazione di regni e di principati che frammentarono la geografia
politica europea.

8 ECONOMIA SOCIETÁ E POLITICA


8.1 Nuovi sviluppi economici
Dal III secolo la popolazione dell’area europea calò progressivamente di numero fino a toccare il punto più
basso nel VI secolo. Al declino demografico contribuì soprattutto il negativo intrecciarsi di guerre, carestie ed
epidemie. Ondate di peste si susseguirono soprattutto tra il 541 e la fine del VII secolo. Pesanti erano
soprattutto i tassi di mortalità e le speranze di vita. Le invasioni delle popolazioni barbariche e le ondate
epidemiche si attenuarono nel corso del VII secolo. A determinare la crisi economica non furono le invasioni
barbariche o l’espansione dell’islam, quanto piuttosto la fine dell’economia statale romana. Pe secoli
l’impero aveva incentivato le attività produttive e garantito le infrastrutture per le attività commerciali (le
strade, i porti, i mercati, le navi, le corporazioni, etc.), grazie a un efficiente sistema fiscale. Il venir meno della
fiscalità pubblica un po' in tutti i regni romano – barbarici nel corso del VI secolo segnò la fine di alcuni
meccanismi economici. I sovrani protessero e incentivarono i nuovi mercati portuali (emporia) che vennero
sviluppandosi sulle coste del Mare del Nord, dove si commerciavano merci di lusso e beni di largo consumo.
La schiavitù persistette fino al X secolo nelle campagne europee. Fra III e IV secolo anche i liberi coltivatori
(coloni) furono costretti dalle leggi imperiali a risiedere sulla terra presa in affitto per non sfuggire al
pagamento delle tasse. In tal modo la condizione dei coloni e quella degli schiavi tesero ad assimilarsi. Ciò
contribuì a fare del “servus” un uomo dalla condizione giuridica precisa, al punto che alcuni storici
preferiscono parlare di condizione servile più che di schiavitù per l’alto medioevo. Solo dopo il Mille la servitù
cominciò progressivamente a sparire, per il diffondersi di “affrancamenti” individuali e collettivi. La
caratteristica di fondo della trasformazione dell’Occidente europeo fu la profonda ruralizzazione della società,
conseguente alla crisi delle città. La società si raccolse soprattutto intorno a grandi proprietà fondiarie, dette
“villae” o “curtes”. Allo scarso numero degli uomini fece riscontro un ambiente più difficile da vivere.

8.2 Le città
Le città avevano costituito l’ossatura dell’ordinamento civile e politico dell’Impero Romano. Gli spazi abitati
si ridussero, quasi tutte le città subirono una profonda ruralizzazione. Venuti meno gli organi
dell’amministrazione municipale romana (la curie), i poteri pubblici delle città furono quasi ovunque suppliti
dalle gerarchie ecclesiastiche raccolte intorno ai vescovi. Per tal via, le città non persero mai del tutto le
antiche funzioni amministrative, politiche, religiose e culturali, pur con significative differenze tra le diverse
aree di dominazione. Con l’impero carolingio, le città tornarono a essere valorizzate nelle loro funzioni
giurisdizionali: esse furono sede delle nuove circoscrizioni politico – amministrative dipendenti dai conti. Si
usa parlare, infatti, di rinascita carolingia delle città anche dal punto di cista culturale: alcuni componimenti
poetici (le “laudes civitatum”) esaltarono nuovamente sia le vestigia dell’impianto urbanistico romano sia gli
edifici del nuovo ordine cristiano. Il destino economico delle città romane fu segnato dalla residenza dei
grandi poteri terrieri. I grandi possessori si spostarono a risiedere in campagna, come nel regno dei franchi,
e furono poche le città che mantennero un’importanza economica. Alla conservazione della centralità politica
della città contribuì in maniera determinante la presenza del vescovo. Il vescovo acquisì la pienezza dei poteri
pubblici quando la dissoluzione dell’impero carolingio rese inefficace la presenza dei conti nelle città. La fase
matura del regime politico episcopale nelle città si sviluppò nell’XI secolo, quando il vescovo agiva ormai
come primo rappresentante dei suoi cittadini. Sin dalle origini il vescovo fu espressione dei gruppi dirigenti
locali, delle maggiori famiglie cittadine. Per questo egli poté accogliere accanto a sé le istanze della
popolazione urbana e proporsi come figura autorevole intorno alla quale si congregarono spontaneamente i
cittadini (cives) alla ricerca di guida, tutela e conforto.

8.3 La crisi dell’impero


L’esito finale, alla deposizione di Carlo il Calvo nell’887, fu la disarticolazione dell’impero in più regni e
l’attribuzione della dignità imperiale al titolare del regno italico. Sia gli imperatori sia i re dovettero la loro
posizione all’appoggio dei gruppi aristocratici locali. il loro potere fu però quasi sempre precario perché
all’interno dei regni si formarono grandi dominazioni politiche quasi autonome, che si usano indicare col
termine “principati”. Gli ufficiali pubblici inizialmente di nomina imperiale riuscirono a rendere ereditaria la
propria funzione, riducendo la capacità di controllo del sovrano e l’efficacia del suo governo. I conti e i
marchesi, cioè, si trasformarono in grandi signori e dinasti locali. I conti e i marchesi esercitarono le loro
funzioni su territori ormai differenti dalle circoscrizioni pubbliche, perché di minore e diversa estensione, e
che gli storici preferiscono chiamare contee e marchesati. (contea: gli storici indicano il territorio sul quale,
in seguito alla dissoluzione dell’impero carolingio, alcuni conti crearono una propria dominazione su cui
esercitavano poteri signorili. Questi territori vanno distinti dai “comitati” nei quali era in precedenza diviso
l’impero: i “comitati” erano delle circoscrizioni amministrative affidate ai conti, le contee erano invece dei
veri e propri domini signorili la cui estensione non corrispondeva più a quella dei “comitati”) (marchesato: gli
storici indicano il territorio sul quale, in seguito alla dissoluzione dell’impero carolingio, alcuni marchesi
crearono una propria dominazione su cui esercitavano poteri signorili. Questi territori vanno distinti dalle
“marche” che in precedenza costituivano le circoscrizioni amministrative di frontiera dell’impero. I
marchesati erano dei veri e propri domini signorili, la cui estensione non corrispondeva più a quelle delle
“marche”, ma le travalicava). In particolare, vescovi e monasteri ottennero dai sovrani delle concessioni di
immunità che esoneravano le loro proprietà dall’autorità e dal controllo degli ufficiali pubblici. (immunità:
privilegio concesso inizialmente dai sovrani ad alcuni proprietari, perlopiù ecclesiastici, che garantiva il diritto
a non essere sottoposti nei propri possessi alla giurisdizione dei funzionari pubblici). Il regno dei franchi subì
un accentuato frazionamento causato dall’emersione di potenti principati. Solo alla fine del X secolo si
affermò la potenza dei conti di Parigi che con Ugo Capeto ottennero il titolo regio nel 987. Il re non riuscì mai
a esercitare una vera autorità su tutte le regioni. Il suo dominio si limitò ai territori che riusciva a controllare
direttamente e in una regione compresa fra la Senna e la Loira, intorno a Parigi e a Orléans. Il titolo regio si
risolse soprattutto nel coordinamento delle grandi dinastie signorili e delle gerarchie episcopali. Nel sud della
Francia, dove accanto a vari ducati e contee si formarono anche due regni di carattere regionale lungo il
bacino del Rodano, quello di Borgogna e quello di Provenza, poi assorbito dal primo. Più instabile fu la
situazione che si determinò nel regno italico. A contendersi la corona furono soprattutto gli esponenti di
quattro grandi famiglie: i duchi e i marchesi di Spoleto, di Toscana, di Ivrea e del Friuli. Schierati, essi
coinvolsero nei loro conflitti anche i re di Borgogna e di Provenza e i duchi di Carinzia. Dopo Berengario del
Friuli fu poi la volta di Rodolfo di Borgogna, di Ugo di Provenza e di Berengario II di Ivrea. Al titolo di re d’Italia
era connessa la dignità imperiale, con la consuetudine carolingia dell’incoronazione da parte del pontefice.
Nel regno dei franchi orientali si verificò la crisi dell’autorità regia, che anche in Germania dovette
fronteggiare la presenza di ampi ducati regionali di origine etnica o di derivazione carolingia (Lotaringia e
Franconia). Il re ebbe soprattutto un ruolo simbolico, di giudice supremo e di guida militare. Ottone I, nel suo
lungo regno (936 – 973), rafforzò in modo decisivo l’autorità regia. Integrò nella gestione del potere vescovi
e abati di grandi monasteri, di cui si assicurò la nomina. Respinse le invasioni ungare, vinte definitivamente
nel 955 a Lechfeld, e avviò l’espansione verso Oriente slavo inglobando il ducato di Boemia. L’incoronazione
a Roma nel 962 di Ottone I restaurò l’autorità imperiale su nuove basi. Rispetto all’età carolingia, essa era
ormai fortemente centrata sull’area tedesca. Gli imperatori rinunciarono a emanare leggi e a esercitare la
giustizia, puntando a concedere privilegi ai propri interlocutori locali attraverso diplomi. Con il “privilegium”
del 962, Ottone riconobbe le donazioni carolingie alla Chiesa, ma stabilì che il papa, una volta eletto, dovesse
prestare giuramento all’imperatore. Fu il nipote Ottone II a vagheggiare una “renovatio imperii” carica di
elementi simbolici di tradizione romana. Il suo progetto ideologico “universale” si scontrò con la realtà dei
forti poteri locali e, alla sua morte, l’impero sopravvisse come impero “teutonico”.

8.4 Le nuovi invasioni


La perdita di autorevolezza degli ultimi imperatori carolingi fu determinata in parte anche dall’incapacità di
garantire la sicurezza del territorio dell’impero dalle incursioni che dal IX secolo furono condotte da alcune
popolazioni ad esso estranee. Le prime a manifestarsi furono le incursioni dei saraceni dalle sponde del
Mediterraneo. (saraceni: nella cristianità venivano chiamate le popolazioni di varia origine etnica, e dunque
non solo araba, stanziate lungo le coste e le isole del Mediterraneo e accomunate dalla conversione all’islam.
Il termine indicò in particolare i gruppi di musulmani dediti ad attività di pirateria). Dopo che l’espansione
militare dell’islam era stata bloccata nel corso dell’VIII secolo, le incursioni via mare erano iniziativa di
autonomi gruppi di predoni, che utilizzarono per esempio gli emirati italiani di Taranto e Bari come basi per
attacchi mirati soprattutto verso le grandi abbazie. Il saccheggio più celebre fu quello della basilica vaticana
a Roma nell’846. Dalla fine del IX secolo cominciarono a compiere periodiche spedizioni di saccheggio in vaste
regioni dell’Europa centrale e in Italia anche gli ungari, una popolazione di nomadi allevatori e cavalieri
proveniente dalle steppe attorno agli Urali settentrionali e insediatasi nell’antica Pannonia, la regione che da
loro prese il nome di Ungheria. In Italia compirono la prima incursione nell’899 e saccheggiarono Pavia nel
924. Furono i re di Germania della dinastia sassone a imporre loro delle disastrose sconfitte tra il 933 e il 955.
Da quel momento gli ungari si stabilizzarono nel proprio territorio e si convertirono al cristianesimo cattolico
sotto il re Stefano I. Con la denominazione di “nortmann” apparvero sulle coste dell’Europa del nord dalla
metà del IX secolo gruppi di pirati provenienti dalla penisola scandinava. Dalla Norvegia mossero verso la
Scozia, l’Irlanda, l’Islanda e la Groenlandia i cosiddetti “vichinghi”. Dalla Svezia, risalirono i grandi fiumi
dell’Europa orientale, fino a spingersi verso Bisanzio, i cosiddetti “vareghi” o “rus”, che diedero poi vita al
primo embrione della Russia incentrato su Kiev. Dalla Danimarca si spinsero verso l’Inghilterra e la Francia i
“normanni”. Nel X secolo le iniziali incursioni si trasformarono infatti in vere e proprie conquiste territoriali.
Fu la creazione di un ducato nella Francia settentrionale, che da loro prese il nome di Normandia, a opera del
capo Rollone cui il re Carlo il Semplice assegnò il titolo di conte (e poi di duca) ottenendone in cambio il
giuramento di vassallaggio.

9 I POTERI LOCALI
9.1 L’organizzazione economica: il sistema curtense
In età carolingia le grandi proprietà fondiarie organizzarono l’attività agricola intorno ad aziende (curtes e
villae) caratterizzate da una bipartizione funzionale. Nella riserva padronale, o “domìnico” il proprietario
faceva condurre i lavori direttamente dai propri schiavi, che vi risiedevano a totale carico, alloggio e vitto, del
padrone. Nella parte a conduzione indiretta, o “massarìcio”, i lavori erano portati avanti da famiglie di
coltivatori liberi o servi. Lo stretto legame tra le due parti era rappresentato dall’obbligo per i contadini del
massaricio di prestare “corvées” sulle terre del dominico, a integrazione del lavoro degli schiavi. (“opera
richiesta”, indica le prestazioni lavorative gratuite che i contadini erano tenuti a garantire al proprietario.
Consistevano in giornate di lavoro che i coloni dedicavano ai lavori agricoli stagionali sulla riserva padronale,
o domìnico. Talora oltre alle braccia contadini erano tenuti a mettere a disposizione anche animali e
strumenti di lavoro). Il “surplus” agricolo fu commercializzato, insieme con gli strumenti di lavoro e gli altri
manufatti artigianali prodotti nei laboratori presenti nel dominico, in centri di scambio rurale (stationes), nei
mercati delle città vicine o negli “emporia” sul Mare del Nord per gli scambi a lunga distanza. La
frammentazione della proprietà fondiaria, distribuita talora tra centinaia di appezzamenti, favorì l’emersione
di una piccola e media proprietà di contadini indipendenti. Coesistette infatti una varietà di condizioni
contadine. Erano tenuti a corrispondere al padrone un canone, in natura o in denaro, nei villaggi convivevano
proprietari di varia estrazione sociale: piccoli contadini proprietari dei loro fondi, e medi proprietari che non
coltivavano direttamente le proprie terre, e che costituivano le élites dei villaggi.

9.2 il potere politico: l’ordinamento signorile


Alla metà del IX secolo i beni fondiari della Chiesa ammontavano ormai a un terzo circa di tutta la terra
disponibile: gli abati e i vescovi più potenti controllavano territori pari a quelli dei proprietari laici e
svilupparono la loro egemonia in modi simili. Venne così affermandosi un sistema sociale orientato in senso
aristocratico che si fondava anche sugli arricchimenti resi possibili dal sistema curtense. I patrimoni
dell’aristocrazia erano costituiti da nuclei di provenienza diversa. Accanto ai terreni posseduti in piena
proprietà, detti allodi, quasi sempre si annoveravano terre concesse in beneficio dal re o da un signore
maggiore, e poi rese ereditarie. (allodio: il termine, di matrice germanica, finì col designare la libera e piena
disponibilità di un bene fondiario senza interferenze da parte regia o signorile. Si intende in tal modo la piena
proprietà di una terra). Intorno alle grandi proprietà, laiche ed ecclesiastiche, vennero così affermandosi
poteri di comando, di giustizia e di esazione fiscale, che costituirono il fondamento del potere signorile. Tra
X e XI secolo, la natura dei poteri e dei diritti che il signore esercitava su persone e beni era molto ampia:
l’amministrazione della giustizia, l’organizzazione della difesa militare, e la riscossione delle tasse. A proventi
che erano tipici dei sovrani (il fodro e l’albergaria) i signori sommarono altri tributi, spesso straordinari, e
donativi. (fodro: una tassa di natura pubblica che tutti i liberi possessori erano tenuti a pagare per il
mantenimento del re e dei suoi funzionari civili e militari, in genere consistente in foraggio per i cavalli)
(albergaria: diritto dei conti a essere alloggiati, con i propri uomini e cavalli, in casa e a spese dei contadini e
dei monasteri). Quando il signore esercitava tali diritti nei limiti del suo possesso fondiario e sui suoi lavoratori,
servi e affittuari, si usa parlare di “signoria fondiaria”. Il caso più frequente era però la signoria estesa a tutti
i residenti di una determinata area, indipendentemente dalla proprietà delle terre, che potevano
appartenere al signore stesso, ad altri proprietari o agli stessi contadini: in tal caso si parla di “signoria
territoriale” o di “banno”. Ovunque però si verificarono fenomeni di sovrapposizione e di concorrenza fra i
diversi poteri signorili, dando luogo a contenziosi spesso violenti.

9.3 i legami sociali: vassalli e benefici


Le tendenze alla frammentazione locale del potere furono controbilanciate anche nell’età delle signorie dalla
fitta trama di relazioni personali, soprattutto vassallatiche, che legavano tra loro i grandi e i piccoli signori, e
i signori ai propri seguaci. Tra le popolazioni barbariche era consuetudine che i singoli guerrieri si legassero
personalmente a un capo. Furono i franchi a perfezionare nel corso dell’VIII secolo uno speciale rapporto di
natura personale che vincolava tra loro due individui, prevedendo uno scambio tra servizio militare e
beneficio corrispettivo. Il successo politico e militare dei carolingi dipese in larga misura dalla diffusione di
tali legami di fedeltà armata. Con il giuramento di fedeltà a un individuo eminente (senior, signore) il vassallo
(vassus, servitore) entrava nella clientela di un potente, impegnandosi a prestare per lui un servizio in genere
di carattere militare. In cambio, il signore si impegnava a mantenerlo concedendogli delle fonti di reddito,
quasi sempre terre da sfruttare. Il bene concesso era chiamato “beneficio”. Questo tipo di rapporti
vassallatico – beneficiari si diffuse in tutto li territorio dell’impero carolingio a ogni livello: il re aveva un largo
seguito di vassalli e fra questi sceglieva gli ufficiali del regno per tenerli vincolati a sé; a loro volta gli
aristocratici si dotavano di proprie clientele armate, che ne incrementavano il prestigio e il potere.
Nell’ordinamento carolingio alla morte dei titolari sia le cariche di ufficiale pubblico sia i benefici dovevano
ritornare al re che li assegnava a un’altra persona. Nella prassi era però comune che i grandi benefici e gli
uffici pubblici fossero riconfermati agli eredi del defunto.

9.4 violenze e conflitti: l’incastellamento


A partire dalla seconda metà del IX e lungo tutto il X secolo nelle campagne dell’Occidente europeo fu
edificata una fitta trama di nuovi castelli. Le ragioni del fenomeno furono molteplici. Certamente ebbe un
peso la necessità di difendersi dalle incursioni saracene, ungare e vichinghe. Ma rispetto alle epoche
precedenti l’iniziativa di erigere un castello rispose ora all’esigenza dei signori di garantirsi una base della
quale esercitare la propria egemonia sul territorio. Erigere un castello divenne un mezzo per estendere
l’autorità dei signori su tutti i residenti delle aree limitrofe: in cambio della difesa, essi potevano pretendere
di esercitare le prerogative di natura pubblica, il “districtus” o “banno”. La moltiplicazione dei castelli, che gli
storici usano chiamare “incastellamento” fu un fenomeno complesso. La popolazione, prima dispersa nei
villaggi e nelle fattorie isolate, si concentrò ora nei nuovi abitati fortificati. Ovunque i castelli rafforzarono la
fisionomia locale del potere, e furono presupposto del rafforzamento della signoria territoriale. Il castello,
infatti, attirava abitanti e si proponeva sovente anche come sede di mercato e di attività artigianali oltre che
di servizi amministrativi. La diffusione delle signorie incentrate sui castelli favorì la formazione di specialisti
della guerra che aiutavano i potenti nell’esercizio del loro dominio e ne difendevano i beni. In una prima fase
fu il servizio militare più che l’origine sociale a determinare la loro fortuna: non solo figli cadetti di famiglie
aristocratiche, ma anche contadini agiati che possedevano armi e cavalli. Affrancati dagli oneri signorili,
questi guerrieri furono chiamati “cavalieri” (milites) perché in un mondo di contadini disarmati che andavano
a piedi, erano i soli, accanto ai signori, a spostarsi e a combattere a cavallo, formando un gruppo ben distinto
dalla maggioranza della popolazione.

SNODO 5 La trasformazione della cristianità


Fino al secolo XI la Chiesa cattolica non ebbe un vertice gerarchico quale sarebbe poi stato il pontefice di
Roma. I vescovi si riunivano invece nei concili, spesso convocati dagli imperatori. La fondazione di chiese e
monasteri da parte. La fondazione di chiese e monasteri da parte dell’aristocrazia condizionò crescentemente
la vita del clero e delle sue istituzioni, accentuandone anche i fenomeni di degenerazione di costumi. Dalla
metà del secolo XI fu il papato a coordinare la riforma della Chiesa. Tendenze in senso evangelico e
pauperistico diedero vita a esperienze di rinnovamento spirituale che, furono riconosciute in nuovi ordini
come quelli mendicanti. Scomparsa, con l’impero romano, la scuola pubblica, la cultura divenne patrimoni di
pochi e monopoli degli uomini di Chiesa, gli unici capaci di garantire una formazione scolastica presso le sedi
vescovili e i centri monastici.

10 LE ESPERIENZE CRISTIANE NEL PRIMO MILLENNIO


10.1 Le chiese locali e l’età dei concili
La diffusione del cristianesim o nell’impero romano fu accompagnata da un’organizzazione sempre più
ordinata di fede chiamata “chiese” (assemblee di credenti). Tendenza di fondo fu la separazione tra laici e
clero (insieme di chierici, che si distinguono dai laici per un rapporto più immediato con il sacro), e che
progressivamente si definì come gruppo sociale a se stante. Responsabile di ogni comunità era il vescovo,
guida spirituale e amministrativas della comunità, affiancando dei preti, incaricati della predicazione e delle
celebrazioni liturgiche (sacerdoti), e dai diaconi, che svolgevano compiti di assistenza e amministrazione. I
laici partecipavano insieme al clero, all’elezione dei vescovi e alla gestione degli afari delle comunità. Dal V
secolo le campagne furono evangelizzate attraverso la fondazione di chiese battesimali, le pievi,
direttamente contrpllate dalò clero cittadino. Essi venivano scelti tra le famiglie che costituivano le èlites
urbane, e diventarono punti di riferimento di gruppi e di clientele di laici ed ecclesiastici. Tra IV e V secolo i
raggruppamenti di diocesi erano messi sotto l’autorità del vescovo. Le sedi maggiori furono: Roma in
Occidente, Alessandria in Egitto, Antiochia in Oriente. A lungo, fino a tutto il X secolo, la Chiesa cattolica fu
infatti priva di un’organizzazione centralizzata e di un vertice quale sarebe stato poi il papa. Un ruolo centrale
nella vita delle chiese fu infatti svolto dalle assemblee del clero. Erano convocate periodicamnete dai
metropoliti per decidere questioni organizzative e disciplinari; si regolamentavano i riti liturgici e si
emanavano le leggi ecclesiastiche (canoni). Il problema centrale fu quello di coinciliare il principio del
monoteismo con la molteplicità delle perosne divine (la Trinità). La varietà delle interpretazioni dottrinali era
anche esito della indipendenza delle sedi comunali. Gli imperatori cercavano di salvaguardare l’unità della
cristianità emanando diritti e convocando concili per formulare dogmi universalmente accettati di contro a
credenze ritenute erronee (eresie). Così per esempio, il concilio indetto a Nicea nel 325 da Costantino
condannò come ereticale l’arianesimo. Tra le pratiche del culto cristiano si diffuse una speciale venerazione
per i santi e più in generale per le figure religiose esemplari, protagoniste dell’affermazione del cristianesimo.

10.2 Il monachesimo
Accanto al fenomeno istituzionale centrato sulle chiese urbane, l’altra principale esperienza di vita cristiana
fu caratterizzata dalla scelta individuale, monastica (monaco significa solitario), in risposta a un esigenza
diffusa di distacco dal mondo, di rinuncia ai beni terreni e di redenzione attraverso la preghiera e l’ascesi
(cioè il dominio delle passioni). Le prime pratiche di ricerca di solitudine spirituale assunsero le forme di
eremitismo. Accanto alle forme eremitiche, si diffuse la pratica monastica del cenobitismo: ossia della “vita
in comune” dei monaci. Il sorgere di comunità sempre più numerose richiese la redazione di norme che
regolassero la vita dei monaci in tutti i suoi aspetti. Nel 817 Ludovico il Pio stabilì che la regola benedettina
(fondata da Benedetto da Norcia a Montecassino) diventasse di riferimento per tutti i monasteri dell’Europa
carolingia. I monasteri furono spesso centri di irradiamento politico, economico e culturale e divennero
presto destinatari di donazioni e lasciti delle famiglie aristicratiche. Per questo il monachesimo altomedievale
fu un esperienza aristocratica.

10.4 Le riforme della Chiesa


Lo sviluppo di poteri territoriali da parte dei vescovi, diede vita a una fitta trama di signorie ecclesistiche
largamente autonome. Le famiglie aristocratiche che avevano fondato chiese e monasteri “privati” e che
erano in grado di condizionare la designazione dei vescovi. Tali cariche erano lucrose, perché permettevano
di incrementare prestigio e potere. Gli aristocratici che riuscivano a ottenerle anche sprovvisti di
un’inadeguata preparazione e spesso di un autentica vocazione. La necessità di interventi di riforma fu
avvertita già dai sovrani carolingi. Obbiettivo principale dei loro interventi furono quelli di restituire prestigio
religioso alle autorità ecclesiastiche. In primo luogo si puntò a migliorare la formazione del clero, rafforzando
la rete di scuole episcopali ecclesiastiche. Fu istituita la decima (la decima parte del raccolto e del reddito in
generale, che proprietari e coltivatori pagavno alla Chiesa per il sostentamento del clero). Soprattutto in
Germania i legami tra il re e i vescovi rimasero stretti, particolarmente con la dinastia degli Ottoni. Vescovi e
abati divennero parte dell’organico di supporto regio. Con il “Privilegium”, Ottone I ribadì il controllo
imperiale sull’elezione pontificia, che era già stato sancito dalla “Constitutio romana” di Ludovico il Pio (824).
Da allora e fino al 1058 i papi furono tutti legati al trono imperiale. Dal X secolo si fecero sempre più avertite
due esigenze principali di riforma: la moralizzazione dei costumi del clero, e la tutela delle istituzioni
ecclesiastiche delle ingerenze e dai condizionamenti del mondo laico. Presero corpo, così, sia all’interno della
Chiesa che al di fuori, iniziative molteplici,e a volte inattese di riforma. Anche nel clero secolare (che vive nel
mondo, cioè nella società al di fuori di conventi e monasteri) emersero nel corso del X secolo impulsi e forme
di vita più rigorose e spirituali. Ferivano la sensibilità dei fedeli l’attaccamento alle richezze materiali, la
compravendita delle cariche ecclesiastiche (simonia), le pratiche di concubinato (nicolaismo), gli interessi
dinastici più che pstorali. L’offensiva moralizzatrice, puntò alla deposizione dei sacerdoti simoniaci e alla
scomunica dei preti concubinari. Oggetto di contestazione furono le ricchezze accumulate e gestite dai prelati
(mebri del clero secolare che esercitano le cariche maggiori:vescovi e abati) e il loro coinvolgimento nelle
questioni temporali. Come rimedio si incominciò a predicare la povertà, la rinuncia ai beni secolari e il ritorno
alla Chiesa delle oriigni. Lotte violente si ebbero nei decenni centrali del secolo XI a Firenze e soprattutto a
Milano, dove il movimento popolare prese il nome di “pàtaria” e giunse a non riconoscere la validità dei
scramenti amministrati da sacerdoti concubinari e indegni e a chiedere l’accessi diretto dei laici alle scritture
in assenza di chierici adeguati al compito. Niccolo II convocò nel 1059 un concilio che fissò nuove regole per
l’elezione pontificia. La scelta fu riservata ai soli cardinali (indicava i vescovi titolari delle basiliche confinanti,
cioè incardinate, con quella di Roma e infine i diaconi di San Giovanni in Laterano e dei rioni di Roma),
escludendo di fatto la partecipazioni dei laici, compresa quela dell’imperatore.

11.1 L’affermazione monarchica del papato


Fino all’elezione a pontefice del cluniacense Ildebrando di Soana (che sancì il culmine del processo di riforma
delle istituzioni ecclesiastiche), il papa aveva goduto solo di un primato onorifico tra i vescovi, in quanto il
successore dell’apostolo Pietro, e di particolare autorevolezza in materia di fede. La sacralizzazione del potere
imperiale diede spazio a frequenti prevaricazioni sulla Chiesa, sintetizzate dalla plurisecolare pratica
imperiale di eleggere i papi. Privare l’imperatore di tale prerogativa significava minare la sacralità del suo
potere. Gregorio VII diede fondamento dottrinale al primato papale attraverso un testo-redatto nel 1075 e
noto come “Dictatus papae”. Esso ribadiva l’autorità superiore del papato sia sulla Chiesa sia sui poteri laici:
solo il papa poteva istituire e deporre i vescovi, convocare i concili, giudicare e legiferare senza essere a sua
volta giudicato, deporre gli imperatori, sciogliere i sudditi dall’obbedienza ai sovrani. Chi si opponeva alla
Chiesa romana era accusato di eresia. La contrapposizione tra papato e impero si focalizzò sulle designazioni
dei vescovi. Preoccupati di difendere le ricchezze materiali e la loro autonomia, i vescovi si schierarono in
genere con l’imperatore. Nel 1076 Enrico IV convocò un concilio di vescovi tedeschi che dichiarò deposto il
papa, aprendo un duro conflitto. Gregorio VII reagì scomunicando l’imperatore. L’imperatore indusse il
ponteficie a revocare la scomunica con un atto di penitenza clamoroso: nell’inverno del 1077 si umiliò
restando per tre giorni davanti al castello appenninico della contessa Matilde di Canossa, dove Gregorio era
ospite, finchè non fu ricevuto. Rileggittimato, Enrico IV riprese presto le ostilità, facendo eleggere come
entipapa l’arcivescovo di Ravenna, Guiberto, e inediandolo con forza a Roma nel 1084. Tratto in salvo dai
fedeli normanni Gregorio VII morì a Salerno nel 1085. Dopo conflitti e trattative si giunse a un accordo
sottoscritto a Worms nel 1122 da Callisto II ed Enrico V. Il concordato di Worms stabiliva che l’elezione dei
vescovi dovesse essere fatta ovunque, e distingueva la consacrazione spirituale (riservata al clero),
dall’investitura temporale (lasciata all’imperatore). In Germania il sovrano poteva investire i vescovi di
funzioni e beni prima della loro consacrazione (a rimarcare la sovranità imperiale in Germania); in Italia e
Borgogna questa doveva precedere all’investitura imperiale. Dal conflitto uscì comunque rafforzata l’autorita
pontificia, mentre l’ideologia imperiale fu minata: da allora le ambizioni universalistiche degli imperatori
furono irreversabilmente ridimensionate. La Chiesa romana cominciò a operare come “curia”, cioè come
centro di governo. Tornarono a essere frequenti i concili ecumenici, ora convocati dal papa direttamente a
Roma, e perciò dei detti “lateranensi” (dal nome del palazzo Laterano che li ospitava). Proponendosi come
guida suprema della cristianità, il papato animò anche la lotta contro i suoi nemici, guidando il movimento
crociato che alla fine dell’XI secolo si propose la liberazione dei luoghi santi della Palestina, occupati dai
mussulmani. Inizialmente gli eretici furono scomunicati, attraverso bolle papali (lettera del papa in materia
spirituale e temporale) come la “Ad abolendam” di Lucio III, che nel 1184 condannò catari e valdesi.
Successivamente, alcuni decretali (lettera del papa, in risposta a una richiesta di parere) di Innocenzo III del
1199 li equipararono ai rei di lesa maestà, condannandoli a morte. La sensibilità per le nuove esigenze di
spiritualità si rivolse in particolare verso nuove forme di religiosità regolare (termine che indica chi fa parte
di un ordine monastico e ne accetta la regola di vita in comune), nuovi ordini che diffondevano il messaggio
evangelico attraverso l’azione pastorale e caritativa (carmelitani, crociferi, serviti etc.). Essi non seguivano i
modelli della vita monastica, ma operavano nella realtà sociale, soprattutto nei popolosi ambienti urbani.
Straordinario successo e vastissima difusione in tutta Europa ebbero soprattutto gli ordini fondati dal
castigliano Domenico di Guzman e dell’umbro Francisco di Assisi. Entrambi gli ordini furono detti “mendicanti”
perché non possedevano beni e vivevano nelle elemosine e delle offerte dei fedeli tra i quali insediavano i
propri conventi. I frati dominicani ebbero approvata la propria regola da Onorio III nel 1216, e si distinsero
nei decenni successivi come inquisitori. Francesco d’Assisi fu invece uno straordinario esempio di una vita
improntata alla povertà assoluta, all’ umiltà, all’esaltazione degli ideali di pace e di fratellanza. Solo la sua
dichiarazione di fedeltà all’autorità della Chiesa consentì la costituzione del’ordine dei francescani, detti
“minori” in segno di umiltà e sottomissione. Su incoraggiamento di Francesco, Chiara d’Assisi fondò un
gruppo dii “sorelle” caratterizzato da un’intensa spiritualità e da un’ideale di vita di povertà e di preghiera.

11.3 Il cristianesimo orientale: ortodossia e scismi


Nell’impero bizantino la Chiesa continuò a dipendere dal ruolo sacrale attribuito al sovrano. Dal VII secolo le
sedi patriarcali di Alessandria, Gerusalemme e Antiochia si ritrovarono fuori dall’impero per l’avanzata
islamica. A differenza della Chiesa cattolica, però, le chiese locali mantennero una forte autonomia, in una
struttura centrata sulle assemblee consiliari e priva di un vertice gerarchico come quello che in Occidente si
venne stabilendo dal’XI secolo intorno al’autorità del papa. Il protagonismo degli imperatori nelle
controversie dottrinarie e l’aspirazione del papato a difendere la propria autonomia nei confronti di ogni
potenza temporale furono alla base del graduale allontanamneto del mondo religioso e culturale bizantino
da quello occidentale che si produsse tra VIII e XI secolo. L’espansione bizantina nei Balcani acuì tra IX e X
secolo la competizione con la Chiesa romana per l’evangelizzazione delle popolazioni slave e bulgare. In un
clima conflittuale, papa Niccolò I si ingerì nella scelta del patriarca di Costantinopoli scomunicandone nell’863
il titolare Fozio, nominato dall’imperatore al posto del monaco Ignazio nell’858. Sancendo lo scisma, Fozio
accusò a sua volta di eresia la Chiesa cattolica, condannandone la formula concernente lo Spirito Santo
introdotta da tempo nel Credo, ed estranea a quella fissata dal concilio di Nicea del 325, che lo faceva
discendere solo dal Padre. In gioco c’era anche il controllo delle diocesi dell’Italia meridionale, e le
controversie dottrinarie e liturgiche offrirono il pretesto per la scomunica reciproca tra il papa Leone IX e il
patriarca Michele Cerulario nel 1054. Lo scisma tra la Chiesa orientale, che da allora si proclamò “ortodossa”
è quella cattolica, che rivendicò il primato universale del pontefice, non fu ricomposto.

11.4 Gli ebrei: dalla tolleranza alle persecuzioni


La storia del popolo ebraico coincise per lungo tempo con quella del regno di Israele, fino alla definitiva
conquista dei romani nel 63 d.C. Alcune rivolte portarono nel 135 d.C. alla sua soppressione politica a
Gersulamme fu vietata agli ebrei. Ebbe cosi inizio la loro diaspora nel mondo, e comunità ebraiche si diffusero
nella città dell’impero. L’ostilità e l’intolleranza nei confronti degli ebrei furono alimentate dal loro forte sensi
di identità, visto dagli antisemiti come estraneità nazionale e religiosa. Nella cristianità, l’accusa principale fu
quella di deicidio (ovvero di essere colpevoli per l’omicidio di Gesù). La Chiesa fu perciò alla loro favorevole
emarginazione dalla vita civile. Agli ebrei furono impediti l’acquisto di terre e l’iscrizioni alle corporazioni dei
mestieri: le uniche attività a loro consentite furono il commercio e il prestito d’interesse, proibito invece ai
cristiani. Gli ebrei furono così additati spesso come usurai e affamatori. Il concilio lateranense del 1215
impose loro di portare un segno di riconoscimento sull’abbigliamento (un cerchio di stoffa gialla) per evitare
i rapporti coi cristiani. Dal XIII secolo in varie città d’Europa, ma anche nei paesi mussulmani, comparvero
zone riservate obbligatoriamente agli ebrei (ghetti). Fu nelle città tedesche che si verificarono nel 1096 i primi
casi di sommosse popolari antiebraiche (pogrom). I massacri e gli incendi dei luoghi di culto (sinagoghe)
posero le basi dell’antisemitismo europeo. Dal XIII secoli i sovrani li espulsero dai loro regni, confiscandone i
beni e annullandone i crediti che avevano loro praticato. La comparsa della peste nel 1348 avviò una nuova
ondata di pogrom: accusati di aver provocato volontariamente l’epidemia.

SNODO 5 La ripresa economica


Tra il X e il XII secolo l’Europa entrò in una fase di espansione sempre più accentuata, caratterizzata
dall’aumento della popolazione, dalla crescita della produzione agricola, dallo sviluppo degli insediamenti
rurali e delle città, dal rifiorire dei commerci e delle attività manifatturiere e dell’aprirsi di nuovi orizzonti
culturali. Vari furono gli aspetti caratteristici della crescita dei secoli X-XII. In primo luogo, l’infittirsi dei villaggi
nella campagne e la rinascita delle città che mutarono il volto del paesaggio europeo, rendendolo meno
rurale e tracciando la rete dell’attuale urbanizzazione. La crescita economica spostò progressivamente l’asse
della produzione di ricchezza delle rendite della terra ai profitti generali dallo scambio delle merci e del
denaro.

12 CRESCITA DEMOGRAFICA, ESPANSIONE AGRARIA E SVILUPPO DEI COMMERCI


12.1 L’aumento della popolazione
A partire dal IX-X secolo iniziò un po' ovunque nell’Occidente europeo una lunga fase di incremento
demografico destinato a durare fino a tutto il XIII secolo. Frenato forse dalle invasioni di ungari, saraceni e
normanni, l’aumento demografico si fece continuo quando esse si fermarono dal X secolo. Alla crescita
contribuirono probabilmente la scomparsa delle grandi epidemie dalla metà del VIII secolo, l’aumento della
natalità e una vita media più lunga, che furono possibili grazie a un generale miglioramento della qualità della
vita, a cominciare da un’alimentazione ricca di vitamine e proteine, capace di migliorare la difesa immunitaria
da malattie infettive. Cifre attendibili della popolazione si hanno per l’Inghilterra con il cosidetto “Doomsday
book”, una sorta di censimento a fini fiscali degli abitanti del regno (compilato tra 1080 e 1086).

12.2 L’espansione delle campagne


La crescita della popolazione andò di pari passo all’estensione delle coltivazioni. La crescente pressione
demografica costrinse infatti a produrre una quantità maggiore di risorse, inanzitutto alimentari. Condizione
favorevole fu il miglioramento naturale del clima europeo, con un’alternanza più equilibrata tra siccità e
freddo e un rialzo medio dele temperature. I limiti tecnologici del tempo resero però determinante per
l’incremento della prodozione agricola l’ampliamento delle superfici coltivate. Si diffuse un vasto fenomeno
di occupazione delle terre. Le zone incolte ai margini delle aziende curtensi e dei villaggi furono l prime ad
essere dissodate. Negli ambienti più isolati e diasabitati, invece, furono inviati coloni per mettere a coltura
nuovi terreni. All’espansione dell’agricoltura, contribuì anche il miglioramento degli strumenti di lavoro, e
l’introduzione degli strumenti di lavoro e l’introduzione di nuovi sistemi di coltivazione. I progressi si ebbero
nell’aratura. Si diffuse il collare rigido che si poggiava sulle spalle del bue e non più sul collo; questo permise
una maggior forza di trano e quindi una maggior efficienza di lavoro. A partire dal XII secolo fu introdota
anche la rotazione triennale dele terre, che metteva a riposo una parte dei campi ogni tre anni, anziché due,
accrescendone la fertilità. Nell’anno intermedio vi si coltivavano cereali primaverili e leguminose, destinabili
anche al foraggio degli animali da tiro e quindi alla loro migliore efficienza. La crisi del sistema curtense, dove
già nel X secolo l’equilibrio tra la riserva signorile e i mansi aveva comiciato a favorire i secondi, si accentuò.
Il dominico, cioè la terra gestita dal signore attraverso i servi, tese a scomparire tra XI e XII secolo, frazionato
tra contadini di varia condizione giuridica. Le aziende si trasformarono e i campi furono tutti concessi in affitto.
Le corvèes cui i contadini erano stati tenuti scomparvero, sostituiti da canoni in denaro. I coltivatori più
intraprendenti approfittarono dell’aumento della produzione agricola e della sua comercializzazione,
accumulando ricchezze. Furono essi a consolidare quelle èlites rurali che dal XII secolo cominciarono ad
essere attratte dalle città.

12.3 Dall’economia della terra all’economia degli scambi


L’aumento delle rendite fondiarie e della conseguente disponibilità di spesa da parte delle famiglie
aristocratiche si tradusse in una domanda di beni e di servizi che creò nuovo reddito nei settori delle
produzioni manifatturiere e della loro commercializzazione. Lo sviluppo economico ebbe origine nelle
campagne. Da un’economia basata esclusivamente sulle rendite agrarie si passò rogressivamente a
un’economia trainata dagli scambi. Merito dei signori fu anche quello di investire in infrastrutture che
favorirono lo sviluppo commericiale delle campagne: mulini, ponti, strade, approdi fluviali, luoghi di mercato,
che si rivelarono utili a sostenere l’economia rurale. Lungo le vie di comunicazione si moltiplicarono i luoghi
di scambio e di mercato. L’espansione degli scambi fu sostenauta da una crescente disponiibilità di moneta.
Alla riforma monetaria di età carolingia fece seguito la proliferazione di zecche e la moltiplicazioni di emissioni
di denaro, a base d’argento, per iniziativa di molti signori laici ed ecclesiastici e di alcune città.
12.4 La rinascita delle città
Fenomeno connesso alla crescita demografica, agricola e manufatturiera e commerciale fu quello dello
sviluppo urbano. Il tessuto urbano europeo era composto da borghi che svolgevano una funzione di mercato
nei confronti del territorio e nei quali viveva una popolazione di qualche migliaio di abitanti. Al di sopra di
esse si troovavano piccole città di 10000/15000 abitanti che erano anche capoluoghi amministrativi ed
ecclesiastici. Poche città si trovavano al centro inserite in una rete di commerci a lungo raggio, con importnti
attività manifatturiere, e talora, erano residenza del potere politico o sede di università. La fioritura urbana
fu l’esito della rinascita di molte città antiche. Quasi tutte le odierne città dell’Europa occidentale ebbero
origine o si svilupparono in quel moto d’espansione. Se le città romane erano dominate dall’aristocrazia dei
grandi propietari fondiari, nelle città medievali gli abitanti si differenziavano da quelli delle campagne per
una marcata divisione del lavoro: si svolgevano attività legate alla produzione manifatturiera, al commercio,
alle professioni giuridiche, all’insegnamento. Mentre le città italiane erano sempre di origine italiana, quelle
del nord si erano sviluppate di recente intorno a porti e mercati (burg, port, wick). Rispetto a queste ultime,
abitate quasi esclusivamente dai mercanti e artigiani (borghesi:nel medioevo indicava gli abitanti del “burg”,
ovvero del borgo che avevano avuto origine da una comunità di mercanti e artigiani). Le nostre città
mantennero sempre una funzione di centralità (ecclesiastica, amministrativa, economica) rispetto al
territorio.

12.5 La crescita delle attività produttive e dei commerci


I progressi tecnologici non riguardarono solo le coltivazioni agricole, ma investirono anche negli altri settori.
Gli scavi archeologici attestano il ritorno alle costruzioni di edifici in pietra, che richiedevano maggiori
capacità tecniche: case dunque e non più capanne. Nelle campagne si diffuse dall’XI secolo il mulino ad acqua.
Nelle città si svilupparono gruppi di artigiani specializzati, organizzati in corporazioni (associazioni di tutti
coloro che in una città esercitavano lo stesso mestiere o la stessa attività commerciale. Si diffusero per
tutelare gli interessi comuni in condizioni di monopolio: nessuno poteva esercitare l’arte senza essere scritto
all’ordine). La più ampia disponibilità di beni ampliò le attività commerciali. Questi furono favoriti anche dalla
maggiora cura delle vie di comunicazione, ma anche dei miglioramenti tecnici nei trasporti: bussole, carte
nautiche e portolani. Per la posizione geografica al crocevia dei flussi di scambio tra Oriente e Occidente e
tra nord e sud dell’Europa, i mercanti italiani furono gli inziali protagonisti dell’espansione commerciale.

SNODO 7 Gli sviluppi politici


L’Occidente europeo conobbe una sistematica diffusione dei legami feudali solo tra XI e XIII secolo, quando
la garantita ereditarietà dei benedici trasformò la fedeltà vassallatica in un formidabile strumento di
collegamento politico. Protagonisti di questa nuova fase furono i poteri monarchici. Il ricorso ai raccordi
feudali, lo sviluppo di una burocrazia di ufficiali, il consolidamento dinastico e patrimoniale e la
sacralizzazione del poere furono i principali strumenti di afermazione delle monarchie. Nell’area imperiale,
invece, la frammentazione politica rimase notevole, per la debolezza cui l’autorità imperiale era ridotta dalla
crescita del potere papale. La riconquista della Spagna e della Sicilia mussulmane e la cristianizzazione
dell’Europa orientale furono solo due aspetti dell’affermazioni armata della cristianità, che trocò nelle
crociate in Terrasanta l’espressione più compiuta.

13 LA DIFFUSIONE DEI RAPPORTI FEUDALI


13.1 Dalla fedeltà personale al raccordo politico
L’aristocrazia sviluppò un sistema di rapporti fondato sullo scambio tra fedeltà militare offerta da un vassus
e impegno di protezione garantito da un senior attraverso la concessione dii un beneficio. Gli storici usano
distinguere perlomeno 2 fasi del’evoluzione di questo sistema. Nella prima, che durò fino al X secolo, i
rapporti vassallatico-beneficiari servivano da collante dell’ordinamento pubblico. Nell’impero carolingio i
vassalli non erano ufficiali del regno, ma l’imperatore scelse i conti, i marchesi e i missi principalmente tra i
suoi vassalli, proprio per poter contare su personaggi di fiducia. Il vassallo non poteva esercitare le funzioni
pubbliche (fiscalità, giustizia, etc.) sulle terre ottenute in beneficio, ma gli erano concesse solo come
compenso economico della sua fedeltà militare. Fu solo con la dissoluzione dell’impero tra il IX e X secolo che
le grandi famiglie aristocratiche resero ereditarie sia le cariche pubbliche sia i benefici. La seconda fase dei
rapposti vassallatico-beneficiari si aprì nel XI secolo. Fu l’estrema frammentazione del potere pubblico che
trasformò la natura dei rapporti vassalatici. Col tempo,infatti, era venuto meno l’obbligo del servizio armato.,
anche perché i vassalli si erano spesso legati a una pluralità di signori creando crescenti problemi di priorità
in caso di conflitto. Inoltre, i benefici, erano ormai incorporati nei patrimoni dei vassalli, e resi ereditari dall’
“Edictum de beneficis” di Corrado II del 1037. Da quel momento i rapporti vassallatici mutarono
definitivamente, trasformandosi da legami di fedeltà personale di tipo militare in raccordi di tipo
eminentemente politico. Anche il modo di dindicarli cambiò significatamente: il termine “feudo” venne
sostituendosi a quello di “beneficio”. Solo per questa età è dunque appropriato parlare di rapporti di tipo
feudale. Il feudo divenne loo strumento preferenziale di concessione di diritti pubblici e ciò consentì di
coordinare intorno a nuove gerarchie quei poteri locali che l’eccessiva frammentaziine esponeva al pericolo
di diolamneto e di conflitti esiziali. Vicerversa, tali poteri poterono inquadrarsi in rapporti di subordinazione
che non intaccavno la loro autonomia. Dal XII secolo dall’elaborazione di un vero eproprio diritto feudale. I
giuristi contribuirono a chiarire l’intricata materia dei rapporti feudali secondo i principi della delega del
potere. Poteva avvenire che i signori locali, donassero le proprie terre a un principe che glie le resttuiva subito
come feudo: i diritti esercitati su quel luogo erano quindi di tipo fedudale e in questo caso si parla di feudo
“oblato”. Per assicurarsu la fedeltà dei vassalli taluni principi imposero loro di prestare un omaggio cosidetto
“ligio”, che in caso di conflitto era considerato superiore a tutti gli altri omaggi prestati. Il tradimento di
obblighi di fedeltà feudale tra il signore e il vassallo fu configurato nei termini del crimine di “fellonia”. Nel
XII e nel XIII secolo i giuristi e consiglieri di re e imperatori cominciarono a elaborare lo schema ideologico di
uno struttura piramidale del potere, discendente da un sovrano. In particolare, l’immagine della piramide
feudale ben si adattò ai regni più centralizzati, come quelli normanni d’Inghilterra e dell’Italia meridionale.
Nemmeno i cavalieri vanno confusi con i vasalli: poteano diventarlo ma non lo erano in quanto tali.
L’addobbamento cavalleresco, invece, non era un rapporto tra pari, bensì una promozione sociale che un
membro della nobiltà compiva a vantaggio di un uomo di sua fiducia.

13.2 Autorità universali e legami feudali


Le aspirazioni universalistiche del papato trovarono nei raccordi vassallatici lo strumento ideale per attuarsi.
La consacrazione papale rafforzava l’autorità dei regnanti, che grazie al legame feudale non erano costretti,
a rinunciare alla piena sovranità sui poteri feudali. Attraverso la gerarchia feudale il papato poteva così
proporsi al vertice della società cristiana (societas christiana). A differenza dei pontefici, gli imperatori non
furono in grado di utilizzare gli strumentio feudali a sostegno delle proprie ambizioni universalistiche. Essi
riuscirono a imporli solo nei territori che riuscivano a controllare.

14 LA FORMAZIONE DEI REGNI


14.1 Le monarchie feudali
Il processo di ricomposizione territoriale che appare caratterizzare la storia politica dell’Occidente tra XI e XIII
secolo ebbe i suoi principali protagonisti delle monarchie. Si trattò di un fenomeno lento e tortuoso. Dalla
frammentazione politica che era seguita all’impero carolingio presero corpo intorno ai nuovi poteri
monarchici alcune aree che avrebbero poi definito alcune delle principali identità politiche nell’epoca
successiva: la Francia, l’Inghilterra, l’Italia meridionale, la penisola iberica. Ogni re era in origine un grande
signore territoriale. La novità fu rappresentata quindi dalla capacità di alcune casate di imporsi sulle altre con
le conquiste militari , attraverso le relazioni diplomatiche, o mediante le vicende dinastiche. Nel processo di
ricomposizione politica e territoriale ebbero un ruolo centrale le relazioni feudali, al punto che gli storici
usano correttamente l’espressione “monarchie feudali”. I nuovi re se ne servivano per affermare e
mantenere la propria superiorità rispetto ai principi e ai signori locali. Le nuove dinastie regie non intesero
infatti superare la pluralità di soggetti titolari di diritti e poteri. Il loro ruolo fu essenzialmente di
coordinamento politico. I re portarono anche al governo diretto del territorio attraverso ufficiali che
esercitavano localmente poteri giudiziari, fiscali e di varia amministrazione in rappresenza del sovrano. Le
monarchie si dotarono cioè di apparati burocratici sempre più articolati. Questi ufficiale-si noti- non erano
vassalli del re, bensì degli stipendiati. Si noti bene come i funzionari, non fossero dei vassalli dei vassalli, bensì
degli ufficiali incaricati di svolgere i compiti amministrativi, a cominciare da quelli giudiziari e fiscali, in cambio
di un salario e non di un feudo.

14.2 Il regno di Francia


Il regno dei franchi occidentali, dopo la dissoluzione dell’impero carolingio, corrispondeva grosso modo
all’area della Gallia romana e costituiva, tra X e XI secolo, un’area politica caratterizzata da un sistema di
principati. La dinastia dei Capetingi che aveva asusnto nel 987 il titolo regio controlloava infatti solo uno dei
principati territoriali in cui era frammentata la Francia dell’epoca. Il loro potere non si differenziava, rispetto
a quello dei duchi e dei conti vicini. Il dominio dei Capetingi era limitatp a un’area ristretta tra la Loira e la
Senna e intorno a Parigi. La debolezza del potere dei Capetingi si trasformò paradossalmente in un fattore di
forza per la loro affermazione monarchica. Proprio perché debole, il loro esercizio della regalità non era
avvertito come una minaccia effettiva dagli altri potentati locali, che lo accettavano come simbolo dell’unità
del regno e come garante della pace e della giustizia, per esempio nell’intervento arbitrale nelle dispute tra
grandi signori. Il ruolo simbolico dei re capetingi fu addirittura rafforzato dalla figura del re traumaturgo,
ovvero dotato di poteri di guarigione. Fu a partire dal’epoca di Luigi VI e, soprattutto, di Luigi VII che si avviò
un primo deciso processo di consolidamento delle strutture del regno. Furono sviluppati gli apparati centrali,
inoltre la graduale espansione del regno condusse all’assorbimento di altre realtà regionali, sia attraverso
alleanze matrimoniali sia per via militare. Luigi VII dovette affrontarea un lungo e duro conflitto con i più
potenti dei loro vicini, i Plantageneti. Il loro figlio Enrico sposò nel 1152 Eleonora, signora di Aquitania e del
Poitou, e nel 1154 ricevette anche la corono d’Inghilterra. Egli venne così concentrando sotto un’unica
autorità un dominio vastissmo, che andava dalla Scozia ai Pirenei. L’aspetto paradossale fu dato dal fatto che
Enrico era formalmente vassallo del re di Francia per il possesso dei vari feudi, soprattutto in Bretagna, ma
era ben più potente di lui, in quanto controllava di fatto la maggior parte del territorio francese. Il problema
della potenza Plantageneta fu risolto da Filippo II, detto Augusto, con decise azioni militari furono strappate
agli eredi di Enrico d’Inghilterra la maggior parte dei territori francesi. Il re d’Inghilterra, Giovanni
Plantageneto, detto Senza Terra dovette cedere alla Francia tutti i possedimenti a nord della Loira.

14.3 Il regno d’Inghilterra


Alla fine del IX secolo il re anglosassone del Wessex Alfredo il Grande era riuscito a fermare l’espansione
vichinga in Inghilterra e ad avviare un’energica azione di governo, che fu poi interiormente rafforzata dai
successori. Dalla prima metà del X secolo il regno anglosassone unificò i numerosi poteri locali presenti sul
territorio dell’isola britannica. Il regno era diviso in circoscrizioni territoriali in cui operavano gli agenti del re
(sherifs), incaricati della riscossione dei tributi e dell’amministrazione della giustizia. La società loclae era
organizzata n insediamenti rurali (tuns, da cui poi towns). I grandi possessori fondiari (earls) svolgevano per
il re compiti di coordinamento militare su base territoriale. Dal 1016 si impadronì della corona, il danese
Canuto II, detto il Grande perché capace di creare un dominio esteso anche alla Danimarca e alla Norvegia.
A sua volta Canuto III designò come proprio successore sul trono anglosassone il fratelastro Edoardo il
Confessore, il figlio di Emma della Normandia, che fu eletto re nel 1042 dall’assemblea dei nobili. Il regno di
Inghilterra pervenne così ai normanni per rivendicazione dinastica. Avvenne che il duca di Normandia
Guglielmo, alla morte senza figli del cugino Edoardo il Confessore re d’Inghilterra nel 1066, che lo aveva
indicato sin dal 1051 come suo erede al trono inglese, si oppose all’inconorazione di Aroldo del Wessex.
Attraversata la Manica sbarcò sull’isola ed ebbe facilmente ragione delle truppe sassoni nella battaglia di
Hastings nel 1066, dove fu sconfitto e fatto ucciso Aroldo; nel natale dello stesso anno Guglielmo fu
consacrato re d’Inghilterra (con l’epiteto di Conquistatore) nell’abbazzia di Westminster. La conquista fu
completata solo nel 1071, con l’eccezione del Galles e della Scozia. Guglielmo impiantò una maglia di castelli
su tutto il territorio del regno, posti su unità fondiarie (manors), che concesse in feudo ai baroni. Con il
colossale censimento detto Doomsday Book (1086) il sovrano registrò ai fini fiscali tutte le proprietà fondiarie,
i nomi dei vassalli e il numero dei capifamiglia del regno, anche per evitare eventuali usurpazioni. Le lunghe
assenze dall’Inghilterra di Riccardo Cuor di Leone, impegnato nella crociata e nella guerre in Francia,
lasciarono nuovamente spazio alle rivendicazioni della nobiltà. Giovanni Senza Terra subì la deposizione del
papa per contrasti con l’arcivescovo di Canterbury, fu sconfitto a Bouvines nel 1214 e perse i possessi in
Francia. I sacrifici imposti a finanziare le guerre in continente lo costrinsero a concedere nel 1215 un ampio
documento- la “Magna Charta Libertatum” che ridefiniva i rapporti tra il sovrano e i sudditi. Il sovrano era
richiamato a rispettare le antiche consuetudini e a riconsocere le prerogative dei nobili, del clero e delle
comunità mercantili cittadine; nel caso di nuove imposizioni fiscali era richiesta la loro approvazione; e fu
formato un consiglio (magna curia) di 25 baroni che avrebbe dovuto assistere il re nel governo del regno.

14.4 Il regno normanno nell’Italia meridionale


L’Italia meridionale tra X e XI secolo appariva caratterizzata da una forte frammentazione politica. In un
contesto così frammentato, giunsero al principio del XI secolo dal ducato di Normandia numerosi cavalieri
chiamati dai principi longibardi e bizantini in lotta tra loro. Nel giro di pochi decenni alcuni avventurieri
normanni riuscirono a costituire piccolo domini quali ricompensa per i servizi militari prestati. Rainolfo
Dregnot ottenne la contea di Aversa dal duca di Napoli nel 1029, e Guglielmo “Bracciodiferro” d’Altavila la
contea di Melfi dal principe di Salerno nel 1041. Il loro inserimento nella rete dei poteri locali trasformò i
mercenari normanni in signori locali. I capi normanni strinserò con Niccolo II a Melfi nel 1059 un importante
accordo che, in cambio della sottomissione feudale al papato, conferiva a Roberto dìAltavilla il titolo di duca
di Puglia e di Calabria. L’accordo di Melfi garantiva al papato un prezioso alleato nello scenario mediterraneo.
Sotto la sua guida i normanni occuparono quasi la totalità dell’Italia meridionale, conquistando la Calabria
nel 1060, la Puglia nel 1071, e le città campane di Amalfi e di Salerno nel 1077. La sua azione mise fine alle
presenze longobarde e bizantine in Italia. Il fratello Ruggero avviò la conquista della Sicilia, che si prolungò
per un trentennio, inoltre fu conquistata Palermo nel 1072. A differenza della conquista dell’Inghilterra, che
puntava a un regno già organizzato, la conquista normanna del Mezogiorno italiano dovette dare luogo alla
costruzione di una nuova monarchia. Il regno si fondava su una solida organizzazione feudale e si affidava a
una struttura burocratica ereditata dai mussulmani e dai bizantini. Ruggero II rafforzò gli uffici centrali e
impiegò appositi ufficiali periferici per controllare per controllare le realtà locali, riscuotere imposte ed
amministrare la giustizia. Ruggero II perseguì anche una politica espansionistica in Africa e in Grecia.
Acrebbero tensioni che esplosero in aperte rivolte da parte dei baroni e delle città dopo la morte di Ruggero
II. Esse furono fronteggiate dal successore Guglielmo I. Alla morte di Guglielmo II senza eredi maschi, la
corona passò a Costanza, figlia di Ruggero II, che avendo sposato nel 1186 l’erede al trono imperiale Enrico
degli Hohenstaufen, portò in dote il regno di Sicilia in mano sveva. Alla morte del conte di Lecce Tancredi d’
Altavilla, Enrico VI si impadronì del regno. Il sovrano morì però prematuramente nel 1197.

15 L’ESPANSIONE DELLA CRISTIANITÁ


15.1 La reconquista e i regni iberici
Nella penisola iberica la riorganizzazione monarchica si svolse in relazione con il grande movimento della
reconquista, ovvero il movimento da parte dei cristiani di rioccupazione dei territori conquistati dai
mussulmani. Nuclei di partenza furono piccoli regni nel nord della penisola. Alla base della reconquista era la
crisi generale del mondo mussulmano. Come la Sicilia, anche il califfato del’ “al-Andalus” si era frammentato,
specialmente dopo la morte del califfo che proliferarono dopo la sua definitiva dissoluzione nel 1031. L’ XI
secolo vide la continua avanzata degli eserciti cristiani verso sud, fino alla conquista di Toledo nel 1085 da
parte del re di Castiglia e Leòn, Alfonso VI. La seconda fase della reconquista riprese solo verso la fine del XII
secolo lungo tre direttrici principali, corrispondenti all’espansione dei regni di Portogallo, Castiglia e Aragona.
Decisiva si rivelò la vittoria degli eserciti cristiani uniti a Las Navas de Tolosa, presso Cordova, nel 1212 che
aprì la strada alla riconquista delle principali città per mano di Ferdinando III di Castiglia, e delle isole Baleari
per inziativa di Giacomi I di Aragona. Nel regno di Castiglia e Leòn fu Alfonso VI il primo sovrano a puntare
sulla sacralizzazione del potere monarchico per esaltarne l’autorità: egli si proclamò “imperatore” di tutta la
Spagna.

15.2 L’area imperiale e l’espansione verso est


Fra XII e XIII secolo l’area imperiale, e soprattutto il regno germanico e l’Italia centro-settentrionale, rimasero
caratterizzate da una notevole frammentazione locale dei poteri. L’impero non riusciva a imporsi con la
medesima capacità delle altre monarchie come struttura di inquadramento del territorio, a fronte della forza
persistente delle signorie territoriali, dei principati, delle città e delle comunità alpine. Il titolo regio era
elettivo, e la nomina di ogni imperatore continuava a essere soggetta all’approvazione dell’assemblea dei
principi. Federico I incrementò i domini della casata degli Hohenstaufen, affidandoli all’efficiente
amministrazione dei propri ministeriali. Inoltre, le frequenti assenze della Germania degli imperatori li
indussero a riconoscere con sempre maggiore frequenza. Federico II per esempio, concesse ampi poteri ai
vescovi nel 1213 (Bolla d’oro) e ai principi nel 1231 (Statum in favorem principum), tra i quali il divieto ai loro
sudditi di potersi appellare alla giustizia dell’imperatore. Grande importanza nella storia tedesca ebbe anche
il movimento di espansione territoriale verso l’ Europa orientale abitata da popolazioni ancora pagane. Agli
inzi del XIII secolo protagonisti della cristianizzazione forzosa furono soprattutto gli ordini monastici dei
Cavalieri teutonici e dei Portaspada.

15.3 Le crociate in Terrasanta


Uno degli aspetti del rinnovamento religioso dell’XI secolo fu la diffusione crescente della diffusione del
pellegrinaggio nei luoghi sacri della cristianità: a Roma, sede delle tombe degli apostoli Pietro e Paolo, a
Gerusalemme, dove si trovava il sepolcro di Cristo, e anche a Santiago di Compostela nella Spagna nord-
occidentale, dove si riteneva fosse stato sepolto l’apostolo Giacomo. Dalla metà dell’XI secolo si consolidò
anche l’uso da parte dei pontefici di concedere l’indulgenza (sacramento della confessione che cancella il
peccato, rimane da scontare una pena temporale che può essere scontata in vita attraverso opere buone o
nel Purgatorio), cioè la remissioni dei peccati a chi partecipasse alla reconquista armata della penisola iberica
contro i mussulmani. Si sancì l’idea di difendere la fede cristiana con le armi. Il “pellegrinaggio armato”
acquistò dimensioni imponenti nel momento in cui fu indirizzato alla liberazione in Terrasanta, cioè dei luoghi
in cui era nato e vissuto Gesù, che erano stati occupati ormai da secoli dagli infedeli. L’esortazione venne
direttamente dal ponteficie, Urbano II, in occasione di un’assemblea di feudatari e cavalieri francesi tenuta
nel 1095 a Clermont, luogo da dove partiva uno dei più frequentati percorsi dei pellegrinaggio per il santuario
di San Giacomo di Compostela. Il papa fece appello ai cavalieri cristiani a porre fine alle lotte fraticide e a
intraprendere un pellegrinaggio di espiazione in Terrasanta. Nel 1096 si avviò una spedizione armata che
raccolse alcuni dei maggiori esponenti dell’aristocrazia francese e normanna, e che dopo aver espugnato
varie città mediorientali conquistò Gerusalemme nel 1099 dopo sanguinosi combattimenti e massacri di
popolazioni inermi. Nei territori conquistati furono costituiti vari regni cristiani: quello di <Terrasanta,
affidato a Goffredo di Buglione, il pricipato di Antiochia, la contea di Edessa, quella di Tripoli. L’organizzazione
politica si basava soltanto sui legami feudali che legavano i cavalieri ai loro signori. Furono istituiti ordini
monastici militari: dapprima i cavalieri del Santo Sepolcro e gli Ospedalieri di San Giovanni nel 1099, poi i
Templari nel 1118. Sottoposti a disciplina monastica, i cavalieri dovevano osservare i voti di povertà, castità
ed obbedienza, e difendere la cristianità con le armi. I regni cristiani non furono in grado di resistere a lungo
di fronte alla reazione mussulmana. La perdita di Edessa nel 1144 indusse il re di Francia a promuovere una
nuova spedizione. Condotta tra 1147 e 1148, la spedizione si risolse però in un nulla di fatto. Pochi decenni
dopo si formò una nuova potenza islamica tra Egitto e Siria, sotto il dominio di “Saladino” che riconquistò
quasi tutti i territori occupati dai cristiani ed entrò trionfalmente in Gerusalemme nel 1187. Egli consenti ai
pellegrini e ai mercanti cristiani di continuare ad accedervi, ma l’evento ebbe vasta eco in Occidente. Una
nuova spedizione fu guidata direttamente di persona dell’imperatore e dai re di Francia e di Inghilterra tra
1189 e 1192. Anche questa volta i risultati militari furono scarsi, per le divisioni tra i sovrani. I cristiani si
arroccarono in alcuni centri fortificati sulle coste. La riconquista mussulmana di San Giovanni d’Acri, nel 1291,
segnò la fine della presenza crociata in Oriente. A partire dal pontificato di Innocenzo III fu messa a fuco l’idea
di crociata. In precedenza, infatti le spedizioni militari in Terrasanta erano state nei termini di pellegrinaggio.
Da allora si diffuse l’idea di crociata per indicare le azioni militari dirette sia alla difesa dei luoghi della
cristianità sia alla repressione dei suoi nemici interni, in primo luogo gli eretici. Indusse nel 1208 una crociata
contro i catari della Francia meridionale. I crociati potevano partire individualmente o aggregarsi alle
spedizioni minori che ogni anno muovevano per la Terrasanta o l’est europeo. Le crociate non si nutrirono
solo si ideali religiosi e di interessi che si insediarono nelle città costiere degli stati crociati per incrementare
i propri commerci. Temendo un peggioramento delle condizioni di commercio a Bisanzio, i veneziani offrirono
ai crociati che si erano radunati a Venezia nel 1202 di trasportarli in Oriente in cambio di una spedizione
contro Costantinopoli. La città fu presa e saccheggiata nel 1204: anziché puntare a Gerusalemme i crociati si
spartirono con i veneziani i territori dell’impero, dando vita a un nuovo “impero latino d’Oriente” destinato
a sopravvivere per circa un sessantennio. Nel corso del XIII secolo- il movimento crociato venne esaurendo
gli ideali religiosi originali e si dimostrò incapace di realizzare gli obiettivi militari. Conseguenza negativa fu
anche la crescente intolleranza da parte dei mussulmani nei confronti dei pellegrini e dei mercanti occidentali.

15.4 Nobiltà e cavalleria


Protagonisti della grande espansione crociata tra XI e XIII secolo furono i cavalieri. Intorno al Mille i milites
(guerrieri a cavallo) potevano avere umili origini: talora si trattava di servi che, come i “ministeriali” in area
tedesca, servivano con le armi il proprio signore. Il costo crescente delle armi contribuì a restingere la
cavalleria a un’èlite sociale, mentre il prestigio dell’attività di cavaliere indusse un numero sempre più elevato
di persone di alto rango a intraprendere il mestiere delle armi, costituirono un vero e proprio ceto ereditario.
La nobiltà, cioè, utilizzò progressivamente la dignità cavalleresca per differenziarsi dagli altri gruppi sociali.
L’aristocrazia dell’alto medioevo era costituita da un’aristocrazia “di fatto”, definita da un gruppo in continuo
ricambio, cui potevano accedere tanto i discendenti di famiglie aristocratiche quanto coloro che avessero
ccumulato ricchezze e poteri. Tra XII e XIII secolo la cavalleria e i privilegi feudali chiusero invece a nuovi
ingressi una nobiltà “di diritto”: una classe ereditaria giuridicamente privilegiata e progressivamente
organizzata in una gerarchia di titoli e dignità dispensati dalla corona.

Snodo 8 L’apogeo dell’Europa


Nel XII e XIII secolo l’Occidente europeo toccò il punto più alto della sua crescita demografica ed economica.
Il grande sviluppo produttivo e commerciale arricchì l’articolazione della società di figure nuove, come i
mercanti e i notai. Il lungo ciclo espansivo manifestò solo alla fine del Duecento i primi evidenti limiti di
sostenibilità. Nei propri domini i poteri monarchici rafforzarono la propria autorità scendendo a patti, ma
anche disciplinando le istanze della nobiltà, del clero e delle comunità urbane. Più debole rimase invece la
loro autorità nei regni dell’Europa orientale.

16 LA RICCHEZZA ECONOMICA
16.1 Il “boom” demografico
L’incremento di popolazione che si era avviato dal IX – X secolo, divenne impetuoso nel corso del XIII secolo.
La curva della crescita demografica raggiunse il suo culmine tra XIII e XIV secolo. La crescita demografica era
l’effetto combinato dell’assenza di gravi epidemie e del migliorato sistema alimentare, frutto dell’espansione
dei coltivi e dei progressi dell’agricoltura, che consentivano una riduzione della mortalità infantile e una vita
media più lunga. Le città furono attraversate da uno slancio edilizio mai conosciuto fino ad allora; è stato
calcolato che il 95% delle città medievali avesse tra i 500 e i 2000 abitanti. Milano e Parigi erano le più grandi
città dell’epoca con quasi 150.000 abitanti. Nonostante l’impetuoso fenomeno di inurbamento, la maggior
parte della popolazione europea rimase insediata nelle campagne. La crescita della popolazione urbana portò
a un certo punto al calo della manodopera rurale e alla crescita del fabbisogno alimentare delle città.
L’equilibrio tra il numero degli uomini e le risorse a disposizione si ruppe. Tra la fine del XIII e l’inizio del XIV
secolo, infatti, la popolazione, in crescita progressiva da secoli, smise di crescere. Prodromo della crisi
gravissima che sarebbe scoppiata alla metà del Trecento.
16.2 Il ciclo economico espansivo
Tra le manifatture ebbe grande sviluppo quantitativo e qualitativo quella tessile. L’impiego di nuovi
macchinari, come la gualchiera o il telaio a piedi orizzontale, permise di produrre tessuti più robusti e in minor
tempo. I tessuti costituivano il principale prodotto che veniva scambiato con seta e cotone grezzi. Il
commercio a largo raggio conobbe nel corso del XIII secolo una generale ripresa, favorita dalla maggiore
sicurezza delle vie di collegamento garantita dalle accresciute condizioni di stabilità politica. I mercanti si
concentrarono principalmente in tre aree: le fiere di Champagne; le Fiandre; e, in forte sviluppo, l’area del
Mar Baltico controllata dalle “Hanse” dei mercanti tedeschi. Nel successivo vi ebbero un ruolo di primo piano
soprattutto Venezia e Genova, che si scontrarono per la supremazia. Il saccheggio di Costantinopoli fruttò ai
veneziani enormi bottini. I genovesi tornarono attivi nell’area al seguito della restaurazione dell’impero
bizantino per opera di Michele Paleologo nel 1261, che compensò l’appoggio militare e finanziario dei
genovesi con ampie concessioni per commerciare a Costantinopoli e nel Mar Nero. L’ampliamento della sfera
dei traffici sollecitò una migliore organizzazione delle attività mercantili. Nell’ambito del commercio
marittimo si diffuse un tipo di contratto, detto prevalentemente “commenda” (dal latino “commendare”,
affidare), in cui un mercante raccoglieva i finanziamenti necessari al viaggio e al ritorno restituiva i prestiti e
una percentuale dei guadagni. Il commercio terrestre sollecitò invece la formazione di vere e proprie
compagnie, cioè associazioni di capitali a carattere continuativo, che non si esaurivano in un’unica operazione
ma duravano nel tempo. Per superare il disordine monetario numerose zecche coniarono nuove monete
d’argento (dette “grossi”) di maggiore valore rispetto alle circolanti. La circolazione di monete di specie
diversa sollecitò lo sviluppo di nuovi servizi finanziari, i cambiatori o banchieri, che assicuravano. Furono essi
a diffondere nuovi strumenti di pagamento come le lettere di cambio, che consentivano di trasferire il denaro
da un banco all’altro senza rischiosi spostamenti materiali di monete. (banco: il termine indicava la tavola di
legno su cui esercitavano il proprio mestiere i cambiatori di monete. Esso divenne il simbolo della loro attività
e l’origine dell’odierna “banca”). L’attività economica principale, fonte delle ricchezze maggiori, restò
l’agricoltura. Essa però raggiunse proprio nel secolo XIII limiti di sviluppo insuperabili per le tecnologie del
tempo.

16.3 Ricchezze e differenziazioni sociali


Rispetto ai secoli precedenti il Mille l’Europa appariva ora molto più popolata, più ricca e caratterizzata dallo
sviluppo delle città. La società non si raccoglieva più soltanto intorno alle grandi proprietà fondiarie laiche ed
ecclesiastiche, ma era distribuita in una miriade di villaggi e di centri urbani. La crescita delle attività
economiche creò nuove opportunità di arricchimento, divisioni e specializzazioni nel mondo del lavoro, e una
più accentuata differenziazione sociale. Fu soprattutto nelle città che la società si differenziò maggiormente.
La concentrazione di un numero crescente di abitanti sollecitò la domanda di prodotti diversi. L’aumento
degli scambi determinò la crescita del numero di commercianti, bottegai, mercanti e prestatori di denaro.
Per una società sempre più articolata occorsero anche scrivani, notai, maestri di scuola, giudici, avvocati,
medici, etc. la figura che più di ogni altra incarnò le trasformazioni del periodo fu quella del mercante. Gli
“uomini d’affari” diventarono presto membri dei gruppi dirigenti delle città europee. Problematica fu invece
la questione del prestito a interesse, condannato moralmente dalla chiesa come usura. (usura: prestito per
il quale si richiedeva un interesse a termine che oltrepassava la misura ritenuta illecita. Nel medioevo l’usura
era considerata un peccato grave perché con essa si vendeva il tempo, che era di Dio, e perché il guadagno
del prestatore derivava dal lavoro altrui):

17 Papato, impero e regni


17.1 Le autorità universali
Papato e impero rinnovarono tra XII e XIII secolo i rispettivi progetti di supremazia universalistica sulla
cristianità. Dopo il concordato di Worms del 1122 l’azione politica del papato divenne irreversibile. Allo stesso
modo, l’elezione di Federico I nel 1155 restaurò l’autorità imperiale sulla scena europea e mediterranea. Per
ragioni diverse, i disegni universalistici dell’impero e del papato entrarono in crisi. Da allora, infatti, la
sovranità dei regni e di altre formazioni politiche territoriali come le città italiane non poté più essere messa
in discussione. (sovranità: indica il potere politico supremo legittimato a essere esercitato nei confronti di
tutti coloro che risiedono in un determinato territorio). Federico II ingaggiò con i pontefici un conflitto
durissimo, fino alla deposizione, che scioglieva i sudditi dal giuramento di fedeltà, sancita da Innocenzo IV nel
1245. Federico I convocò, nel 1158 a Roncaglia, presso Piacenza, un’assemblea pubblica del regno d’Italia in
cui riaffermò le prerogative (regalìe) dell’autorità regia: esercizio della giustizia, riscossione delle imposte,
facoltà di battere moneta. Proibì inoltre le leghe fra città e le guerre tra privati, e impose all’aristocrazia
l’omaggio feudale. Milano non si assoggettò e fu attaccata dall’esercito di Federico I che ne distrusse le mura
nel 1162 e vi insediò un funzionario imperiale. Prima di morire nel 1190 durante la terza crociata, Federico I
assicurò al figlio Enrico VI l’eredità del regno di Sicilia combinandone il matrimonio con Costanza d’Altavilla.
Enrico VI morì però nel 1197, quando il figlio Federico era bambino. La madre ne affidò la tutela al papa
Innocenzo III. L’elezione a re di Germania nel 1212, dove confermò diverse prerogative regie imperiale nel
1220. Fu solo nel regno di Sicilia che egli riuscì a perseguire una politica di piena affermazione della propria
sovranità. Vano fu invece il tentativo di imporre l’autorità imperiale sulle città del centro – nord, sostenute
da papa Gregorio IX, che scomunicò Federico II per eresia nel 1227. Dopo gravi sconfitte militari a Parma,
Federico II morì nel 1250, lasciando incompiuto il progetto di unificare il potere imperiale dalla Germania alla
Sicilia. Dopo la morte nel 1254 del figlio Corrado IV, la dinastia sveva si estinse con il figlio di questi Corradino
sconfitto e condannato a morte dal nuovo sovrano Carlo I d’Angiò nel 1268. Si aprì allora una grave fase di
instabilità politica che vide sia il titolo regio tedesco sia quello imperiale vacanti fino al 1273 quando fu eletto
imperatore Rodolfo I d’Asburgo. Il lungo interregno incrinò il prestigio dell’autorità imperiale. L’imperatore
si ridusse a essere definitivamente un sovrano tedesco. Affinando la teoria teocratica, fu Innocenzo III a
sviluppare una coerente dottrina che ne affermava la supremazia universale. (teocrazia: “dominio di Dio”).
Espressa nel 1198, egli sancì il principio per cui il papa riceveva da Dio sia il potere spirito sia quello temporale,
delegando l’autorità temporale ai sovrani, che dovevano esercitarla sotto la guida della Chiesa. Innocenzo IV
sostenne il diritto papale di scegliere e deporre gli imperatori (come fece lui stesso con Federico II) e di
amministrarne il potere in caso di vacanza. La pretesa dei papi si fondava sul “Constitutum Constantini” (noto
come “Donazione di Costantino”), un documento che falsamente attribuiva al primo imperatore cristiano,
all’atto di trasferire la capitale a Costantinopoli, la concessione a papa Silvestro del dominio su Roma e sulla
“pars occidentis” dell’impero. (donazione di Costantino: documento apocrifo (“Constitutum Constantini”)
attraverso il quale si volle attestare la donazione di tutti i territori occidentali dell’impero alla Chiesa di Roma
nel 313 da parte di Costantino, grato a papa Silvestro I di averlo guarito da una grave malattia. La sua
autenticità, già posta in dubbio dell’imperatore Ottone III, fu smettila su base filologica dall’umanista Lorenzo
Valla nel 1440. Il documento fu redatto probabilmente durante il pontificato di Paolo I, 757 – 767, per
giustificare l’ambizione dei vescovi di Roma, presentanti come eredi dell’universalismo imperiale, di
assumere direttamente la guida del ducato di Roma e dei domini bizantini in Italia). Con il pontificato di
Innocenzo III (1198 – 1216) l’affermazione del potere pontificio al vertice della Chiesa raggiunse il suo punto
più alto. Egli dapprima appoggiò l’elezione a imperatore di Ottone IV incoronandolo nel 1209, e poi sostenne
l’alleanza tra il re di Francia e Federico II che lo sconfisse nel 1214. Elaborò inoltre quell’organica idea di
crociata che ispirò il rilancio della “reconquista” spagnola con la vittoria a Las Navas de Tolosa nel 1212, le
spedizioni in Oriente nel 1202 e nel 1217, e la crociata contro i catari nel 1208 – 1209. La misura del prestigio
acquisito dal papato grazie a Innocenzo III fu data dal IV concilio lateranense che egli convocò nel 1215, dove
convenne uno straordinario numero di prelati e di rappresentanti dei principi vassalli della Chiesa di Roma.
Un’intensa partecipazione alle vicende politiche europee contraddistinse l’operato dei pontefici per tutto il
XIII secolo, dal durissimo conflitto che li oppose a Federico II alla promozione degli Angiò a sovrani di Sicilia.
Alla fine del secolo si succedettero due papi che incarnavano opposte concezioni della Chiesa. Nel 1294 fu
eletto col nome di Celestino V l’eremita Pietro del Morrone, di rigorosa spiritualità ma digiuno di esperienza
politica, gradito alle componenti della Chiesa che ne invocavano un rinnovamento evangelico: resosi conto
delle insormontabili difficoltà che si opponevano ai suoi progetti, egli abdicò dopo pochi mesi. A succedergli
fu Benedetto Caetani, membro di una potente famiglia romana e uomo di curia, col nome di Bonifacio VIII.
Egli celebrò la preminenza dell’autorità politica pontificia attraverso la proclamazione nel 1300 del primo
anno santo (giubileo) che promise l’indulgenza plenaria ai pellegrini che avessero visitato le tombe degli
apostoli a Roma. Tra XII e XIII secolo, la Chiesa conobbe anche un processo di rafforzamento interno. Nel
1274 con l’istituzione del conclave fu disciplinata l’elezione del papa. (conclave: indica tuttora il luogo, chiuso
e isolato dall’esterno, dove si riuniscono i cardinali per eleggere il papa, perché una volta entrativi essi non
possono uscirne se non a elezione avvenuta). I cardinali rafforzarono anche il loro ruolo: facevano parte del
concistoro, il consiglio del pontefice, e lo assistevano nel governo quotidiano della Chiesa. (concistoro:
assemblea dei cardinali presenti a Roma, convocata dal papa come proprio consiglio). I cardinali erano
nominati dal papa, che in genere li sceglieva tra la propria clientela. Il papa si riservò anche la nomina dei
vescovi. Più in generale, si accentuò la tendenza a limitare la partecipazione dei laici al governo della Chiesa,
rafforzando, al contrario, la componente sacerdotale.

17.2 Il rafforzamento dei poteri monarchici


I poteri monarchici conobbero un ulteriore rafforzamento in quasi tutti i regni europei. Nel secolo XIII, a
contribuire decisivamente al consolidamento dei poteri regi furono altri fattori: l’espansione del territorio
controllato direttamente dai sovrani, spesso ottenuta per via militare, e il potenziamento degli apparati
burocratici. Il crescente esercizio regio delle funzioni militari, fiscali e giudiziarie determinò nuovi conflitti con
la nobiltà e le comunità urbane. Le conquiste territoriali avviate da Filippo II furono consolidate dai successori
Luigi VIII (1223 – 1226) e Luigi IX (1226 – 1270): la pace di Parigi del 1259 sancì la definitiva acquisizione di
gran parte dei territori francesi dei Plantageneti. Luigi IX operò sul piano internazionale favorendo la
conquista del regno di Sicilia da parte del fratello Carlo d’Angiò e promuovendo due sfortunate crociate, in
cui trovò la morte. Filippo IV il Bello (1285 – 1314), limitando l’autonomia giurisdizionale e fiscale del clero,
non esitò ad entrare in conflitto con papa Bonifacio VIII, a convocare per la prima volta il parlamento (“stati
generali”) nel 1302 per ottenere il sostegno dei sudditi, e a rivendicare la discendenza diretta da Dio del
potere regio. Le perdite in terra francese e la concessione della “Magna charta” avevano indebolito le
prerogative dei re inglesi. Nel suo lungo regno Enrico III (1216 – 1272) dovette confrontarsi ripetutamente
con le pretese dei baroni, della piccola nobiltà rurale (“gentry”) e delle città. Enrico III rafforzò l’apparato
amministrativo, in particolare quello fiscale, che permise di finanziarie l’estensione del dominio regio a tutta
l’isola intrapresa dal successore Edoardo I (1272 – 1302). Egli conquistò il Galles nel 1283 e, sia pure per poco,
la Scozia nel 1305. Fu lui a espellere gli ebrei dal regno nel 1290, e a convocare il parlamento regio nel 1295.
Il rafforzamento del potere regio in Sicilia fu perseguito da Federico II quando poté finalmente insediarvisi
dopo l’incoronazione imperiale nel 1220. Egli rivendicò a sé i diritti regi usurpati dai baroni e ribadì
l’assoggettamento delle comunità urbane. Innestandosi sulle preesistenti strutture normanne sviluppò
inoltre un efficiente apparato amministrativo. Nel 1231 Federico raccolse nel “Liber augustalis” la sua
legislazione. La sconfitta dei musulmani nel 1212 consentì ai regni iberici ulteriori conquiste territoriali. Il
Portogallo consolidò il controllo delle regioni atlantiche. Il regno di Castiglia gravitava sulle vaste pianure
intende della penisola, dove le grandi proprietà consolidarono il potere di una nobiltà che entrò spesso in
conflitto con la politica regia di accentramento. Il regno di Aragona, unione di diversi regni e domini, si basava
sul patto tra il sovrano e le diverse componenti del regno a rispettare le leggi. Grazie ai mercanti catalani
l’economia era soprattutto commerciale e proiettata sui traffici nel Mediterraneo, e sostenne l’espansione
politica e militare dei re aragonesi, che si insediarono in Sicilia tra 1282 e 1302 e avviarono la conquista della
Sardegna nel 1323. Agendo come un monarca, anche il papa rafforzò i poteri temporali sul proprio territorio
tra XII e XIII secolo. Nucleo iniziale era stato il cosiddetto “patrimonio di San Pietro”, cioè l’area tra Umbria e
Lazio dove si concentravano i maggiori possessi fondiari pontifici. Fu Innocenzo III ad espandere il territorio,
facendosi giurare fedeltà da nobili e città del Lazio, dell’Umbria e delle Marche. Nel 1278 fu aggiunta anche
la Romagna. I pontefici curarono lo sviluppo di un apparato burocratico destinato a riscuotere in tutta la
cristianità i vari tributi, in un sistema fiscale complesso.
Snodo 9 La civiltà urbana
Aspetto saliente dell’apogeo della cristianità occidentale fu l’importanza crescente assunta dalle città, sia di
tradizione antica sia di nuova fondazione. La cultura conobbe un generale moto di laicizzazione, che
ristrutturò il sistema scolastico e che contribuì alla diffusione delle lingue volgari in ambito letterario. Nelle
città si svilupparono quasi ovunque sistemi di governo comunale, dando luogo a forme di governo misto con
i funzionari regi e signorili. Solo in Italia l’autogoverno raggiunse una piena autonomia politica, contribuendo
a indebolire decisivamente il ruolo delle sovranità universali.

18 Il rinnovamento della cultura


18.1 Protagonisti laici
La crescita economica che si manifestò dall’XI secolo ebbe conseguenze anche sul piano culturale. Il numero
di persone in grado di leggere e scrivere si allargò considerevolmente, coinvolgendo i laici. Si fece così più
intensa la produzione e la conservazione di documenti. Nelle città sorsero così le scuole di base, dapprima
private, poi, dal XIII secolo, organizzate dalle autorità pubbliche, che insegnavano a leggere, a scrivere e a
fare di conto, sulla base dei libri d’abaco. È dunque possibile parlare di laicizzazione della cultura. Tra XI e XII
secolo si affermò un fenomeno nuovo: la messa per iscritto di testi in volgare. In precedenza lo scritto era
stato riservato quasi esclusivamente al latino. Da allora acquisirono dignità letteraria anche le lingue parlate
comunemente. Emblema di una rinnovata spiritualità, di forte impronta monastica, ne fu lo stile che fu poi
detto “romanico” nel XIX secolo. Esso si diffuse dapprima nell’Italia settentrionale e in Catalogna per poi
estendersi a tutto il continente. Le chiese romaniche rappresentarono il trionfo della pietra quale elemento
costruttivo. Le città si dotarono di nuove cattedrali, simboli della crescita economica e civile: tra gli esempi
più splendidi è il duomo di Pisa, eretto tra il 1065 e il 1118.

18.2 Università e nuovi campi del sapere


Il secolo XII rappresentò un periodo denso di novità anche dal punto di vista culturale. L’afflusso di nuove
conoscenze e la crescente richiesta di istruzione di carattere avanzato portarono alla formazione di nuovi
luoghi di formazione del sapere: gli “studi” (studia), come allora si indicarono le università, che ebbero sedi
urbane e origini le più diverse. Il primo “studium” sorse a Bologna alla fine dell’XI secolo per iniziativa di
associazioni di studenti interessati a ricevere lezioni di diritto da maestri laici qualificati. A Napoli, nel 1224,
fu Federico II a fondare l’università per formare i funzionari da impiegare nel regno, e a riconoscere nel 1231
come studium l’antica scuola medica di Salerno. L’organizzazione degli studi variava in ogni università. In
linea di massima il primo ciclo era fornito dalla facoltà delle arti (del Trivio e del Quadrivio), che durava circa
sei anni. Il conseguente titolo di “baccelliere” dava accesso alle facoltà maggiori di diritto civile, diritto
canonico, medicina e teologia, quasi mai presenti tutte nello stesso centro. Al termine degli studi era
rilasciato il titolo di “dottore”, che permetteva di insegnare ovunque. L’insegnamento era impartito in latino
e consisteva nella lettura (lectio) e nel commento (quaestio) di un testo fondamentale da parte del maestro,
che evidenziava i problemi interpretativi che venivano poi discussi con gli studenti (disputatio). Questo
metodo di insegnamento e di ricerca, che si usa indicare col termine “scolastico”, si proponeva di coniugare
verità di ragione e verità rivelata. Il mutamento dei tempi si rispecchiò anche nell’evoluzione dell’arte e
dell’architettura dallo stile romanico a quello che gli umanisti del secolo XV avrebbero chiamato “gotico”.
Esso si sviluppò dalla metà del XII secolo a partire dalla Francia, per poi diffondersi in tutto l’Occidente.
Rispetto alle forme spoglie e massicce tipiche del romanico, il gotico venne caratterizzandosi per lo slancio
verticale degli edifici, per una maggiore eleganza e raffinatezza dei tratti e delle decorazioni e, soprattutto,
per l’ampio uso della luce filtrata nelle chiese da larghe vetrate colorate.

19 Le autonomie politiche
19.1 Città e comuni
Lo sviluppo demografico, economico e sociale che le città europee conobbero tra XI e XIII secolo si tradusse
in forme di governo orientate all’autonomia. Tale assetto istituzionale fu in genere indicato col termine
“comune”, per la “messa in comune” di diritti e privilegi da parte delle collettività urbane. Le più precoci
furono le città italiane del centro – nord appartenenti al regno italico, dalla fine dell’XI secolo. La dimensione
del fenomeno dell’autogoverno cittadino fu europea, ma le aree italiane appartenenti al regno italico e allo
stato pontificio furono all’avanguardia del fenomeno. Si può anzi affermare che solo in quella regione si
sviluppò una vera e propria “civiltà” comunale, che assunse caratteristiche omogenee in tutte le città. Tra le
più importanti vanno ricordate almeno le seguenti: in primo luogo, dal punto di vista politico, l’alto grado di
effettiva autonomia; dal punto di vista istituzionale, l’intensa circolazione di esperienze da un centro all’altro,
che contribuì a uniformare il fenomeno; sotto il profilo sociale, la forte articolazione e differenziazione, che
offrì possibilità di ascesa e promozione; dal punto di vista territoriale, lo stretto legame con le aree
extraurbane coincidenti tendenzialmente con le diocesi, oggetto della costruzione di contadi; dal punto di
vista culturale, infine, l’esperienza italiana espresse un nesso organico tra la politica e le elaborazioni
intellettuali, che si impegnarono a legittimarne i regimi di autonomia. Le città dell’Italia meridionale non
conobbero invece una vera esperienza comunale. Lo sviluppo delle autonomie urbane fu bloccato
dall’affermazione della monarchia normanna. Le città non costituirono un proprio contado, limitandosi la
proiezione nel territorio a essere espressione dei legami economici, sociali e religiosi delle società locali, dove
forte rimase il condizionamento dell’aristocrazia rurale. Lo sviluppo di ampie autonomie politiche da parte
delle città italiane fu la conseguenza di due condizioni principali. Da un lato, della loro forza economica,
sociale e culturale; dall’altro, della debolezza dei sistemi politici entro cui esse erano inserite. Nella maggior
parte delle città italiane le prime esperienze di autogoverno in rapporto all’autorità vescovile. In alcune ciò
avvenne in continuità con il potere del presule, senza conflitti; in altre fu invece determinante
l’indebolimento delle figure episcopali. Le iniziative di pacificazione lasciarono spazio a un nuovo ordine
politico, quello del comune, che consistette inizialmente in assemblee (conciones o arenghi) di cittadini
eminenti (cives) che eleggevano come loro rappresentanti temporanei dei consoli (consules) per il governo
politico, militare e giudiziario della città. L’ampiezza delle rivendicazioni di autonomia si manifestò nello
scontro con l’impero. Le città non disconobbero la sovranità imperiale, ma rivendicarono il diritto
all’autogoverno, a una libera politica di alleanze, all’estensione della loro autorità sui contadi, rifiutando
l’invio di funzionari imperiali e l’imposizione arbitraria di tributi. Il conflitto con Federico Barbarossa portò
alla formazione di leghe tra le città venete e lombarde, poi fuse nella “lega lombarda” giurata a Pontida nel
1167, che si rivelarono capaci di sconfiggere clamorosamente in battaglia l’esercito imperiale a Legnano nel
1176, e di costringere Federico I a trattare. La pace di Costanza del 1183 garantì alle città il diritto di esercitare
i poteri regi, di eleggere i propri consoli, di costituire leghe, di esercitare diritti sul territorio e di erigervi
fortezze. Il rinnovato conflitto tra la lega lombarda e Federico II culminato nella battaglia di Cortenuova del
1237 in cui prevalse l’esercito del sovrano, si risolse in una provvisoria sottomissione delle città al governo
diretto di Federico II, che svanì con la morte di quest’ultimo nel 1250. Lo sviluppo politico maturò pienamente
nella prima metà del XIII secolo. Simbolo di questa nuova fase fu la magistratura del podestà, affiancata da
un consiglio ristretto di cittadini. Il podestà era reclutato ogni anno tra un novero di professionisti della
politica che si muovevano tra le città contribuendo a renderne omogenee le pratiche di governo. Il podestà
cominciò anche a fare redigere per iscritto le sue leggi e consuetudini (gli statuti). La crescita demografica e
lo sviluppo economico promossero la continua ascesa di gruppi sociali e familiari e cosiddetti di “popolo”
(mercanti, banchieri, notai e artigiani) fino ad allora esclusi dalla partecipazione politica. Furono dapprima i
fanti (pedites) a lottare, spesso con azioni violente, contro i privilegi dei cavalieri (milites) dell’esercito
cittadino per una più equa ripartizione delle imposte e per l’accesso ai consigli del comune. Il “popolo” riuscì
a mobilitare le sue società armate a base rionale, talora d’intesa con le corporazioni di mestiere, per imporre
nello spazio politico proprie istituzioni che affiancarono quelle del comune: un consiglio generale e uno
ristretto, un collegio esecutivo di “anziani” e una magistratura di vertice, il capitano del popolo, modellata su
quella podestarile. L’affermazione dei governi di “popolo” non fu, però, duratura. La proiezione territoriale
delle città italiane si tradusse nel controllo diretto del contado (comitatus), cioè di un’area corrispondente in
larga misura alla diocesi cittadina. L’assoggettamento politico e fiscale delle comunità rurali garantiva
approvvigionamenti alimentari.
19.2 L’Italia comunale e signorile
Alla morte di Federico II nel 1250, gli assetti interni alle città italiane non ritornarono allo stadio precedente
all’azione lanciata del sovrano contro la lega lombarda. Lo spazio politico delle città fu ora condiviso da più
soggetti: non solo dal “popolo” ma anche dalle corporazioni di mestiere (arti) e dalle parti (partes). Nel tempo
il sistema tese a farsi sempre più complesso e i conflitti a vertere sempre più duramente sull’accesso al
governo e ai consigli cittadini. L’effetto più evidente fu la moltiplicazione dei processi di esclusione dagli uffici
politici e, sempre più spesso, dalle città stesse. Il fenomeno delle esclusioni politiche si generalizzò.
Protagoniste principali ne furono le parti che erano venute formandosi all’interno delle città tra i fautori della
“pars imperii” e quelli della “pars ecclesiae”. Lo spazio politico cittadino si raccordò a reti di alleanze
intercittadine che, nella seconda metà del Duecento, assunsero i nomi di guelfa e ghibellina. L’affermazione
violenta di una parte si traduceva nell’esclusione dalla città dei nemici di quella avversa, spogliati dei beni e
privati della cittadinanza. I fuoriusciti, banditi o esiliati, si rifugiavano nei castelli del contado o nelle città
amiche congiurando per rientrare militarmente nelle città d’origine, e costituendo una minaccia costante.
Nella seconda metà del XIII secolo si compì quasi ovunque il superamento dei governi comunali in una varietà
di soluzioni spesso ibride, governi di parte, di “popolo”, dominazioni esterne, etc., che esprimevano
l’incessante ricerca di un assetto che conferisse maggiore coerenza allo spazio politico e lo traducesse in un
quadro istituzionale più stabile. L’alternanza tra forme di governo fu esperienza ricorrente. In numerose città
i consigli municipali cominciarono a conferire a un singolo cittadino eminente, spesso titolare di cariche come
quelle di podestà o di capitano del “popolo”. Al signore (dominus) così eletto erano assegnati compiti
particolari per la difesa militare, la sicurezza e la pacificazione interna della città, così come lo si autorizzava
a espellere membri delle fazioni avverse. Più stabili e durature si rivelarono le signorie. Il loro profilo sociale
poteva essere assai differente. Quello degli Este, per esempio, che si affermarono su Ferrara sin dal 1240, era
analogo a quello dei da Romano e dei Monferrato e la loro autorità si affidò molto ai legami feudali. Intorno
alle dinastie signorili cominciarono a formarsi delle corti, con ruoli, cerimoniali e stili di vita cavallereschi. La
ricerca del consenso passò anche attraverso un processo di legittimazione che adottò i linguaggi
dell’architettura, delle lettere e delle arti, per diffondere l’immagine encomiastica del signore. I governi
signorili non cancellarono i tratti più tipici del sistema politico comunale. L’eredità cittadina fu infatti una
delle caratteristiche dei poteri signorili: la partecipazione politica vi perse vigore propositivo e assunse un
tenore prevalentemente consultivo. Il sistema delle corporazioni sopravvisse in quasi tutte le città, e ben
saldi si mantennero gli organismi mercantili. Quando poi molte città furono sottomesse a signorie esterne,
come fu il caso per esempio di quelle assoggettate dai Visconti, i gruppi dirigenti non persero il loro ruolo.
Verso la metà del XIV secolo si erano ormai stabilmente affermati governi signorili in quasi tutte le città
comunali. Solo in pochissime erano sopravvissute esperienze a comune, a costo di pronunciate
ristrutturazioni in senso oligarchico.

Snodo 10 Crisi e nuovi sviluppi


Dopo alcuni secoli di crescita continua l’evoluzione demografica dell’Europa conobbe nel XIV secolo
un’inversione di tendenza. Per effetto di carestie, guerre e a un certo punto anche del ritorno di terribili
pestilenze, la popolazione calò drammaticamente in un contesto di forti mutamenti della sensibilità collettiva,
religiosa e artistica. Le attività mercantili e bancarie consolidarono le strutture decentrate e permanenti sulle
piazze internazionali, contribuendo ad allargare i traffici a nuove rotte commerciali centrate sull’Europa
atlantica e settentrionale. Le trasformazioni economiche allargarono però le differenze sociali, accentuando
l’impoverimento dei contadini e dei lavoratori urbani, fino a provocare diffuse rivolte nelle campagne e nelle
città.Solo dalla metà del XV secolo si avviò una lenta ripresa demografica ed economica che attenuò le
tensioni sociali.
20 DEPRESSIONE DEMOGRAFICA E RISTRUTTURAZIONI ECONOMICHE
20.1 La crisi demografica
La popolazione europea subì un drammatico calo nel corso del XIV secolo. La curva demografica toccò
probabilmete il suo apice già alla fine del Duecento. Da quel momento la crescita della popolazione che
durava ininterrottamente da alcuni secoli si fermò. La spiegazione più probabile appare quella dela cosiddetta
“sovrappopolazione relativa”, vale a dire dello squilibrio che a un certo punto si venne a creare tra la
disponibilità di risorse alimentari e l’eccessivo numero degli uomini. All’inizio del XIV secolo si manifestarono
in varie regioni europee crisi di sussistenza. Una successione di cattivi raccolti, dovuti all’eccesso di piogge o
lunghe siccità, si infittirono dalla fine del XIII secolo determinando carestie sempre più frequenti. Una prima
serie di gravi carestie colpì l’Italia nel 1271-1272 e 1275-1277 e l’Inghilterra nel 1293-1295. Su una
popolazione già rovata da anni di difficoltà e si abbattè nel giro di pochi mesi dal 1347 una terribile epidemia
di peste bubbonica (per i rigonfiamenti, detti bubboni) o “nera” (per le macchie scure che produceva sulla
pelle) proveniente dall’Asia. La malattia, infettiva, la trasmessa dalla puntura delle pulci parassite del ratto
nero e poi nella sua forma polmonare, ancora più micidiale. Il suo dilagare fu favorito dalle precarie condizioni
igeniche e dalla denutrizione che colpiva in primo luogo gli strati sociali più umili della popolazione. La peste
si diffuse attraverso le vie del commercio. Dal Kazakistan, dove era endemico, il bacillo giunse in Europa
attraverso le vie carovaniere che collegavano le steppe asiatiche agli empori mercantili del Mar Nero. Da qui,
trasportata da topi annidati nelle stive dell navi di mercanti genovesi, la peste “sbarcò” dapprima a
Costantinopoli e poi a Messina nel settembre del 1347. Dalla Sicilia essa risalì il continente, toccando il
culmine dell’infezione nel 1348, quando il contagio raggiunse l’Italia comunale, la Francia, la Spagna e la
Germania, e poi, l’Inghilterra, la Scandinavia e l’Ungheria. Si calcola che nella sua prima ondata la peste
falcidò circa un terzo della popolazione europea, con forti differenze tra le diverse regioni e tra le città e le
campagne, dove l’incidenza fu minore. Per circa un secolo furono ricorrenti le ondate di contagio, a cadenze
di 8-12 anni. Esse abbassarono ulteriormente i livelli della popolazione e resero effimero a lungo ogni
processo di ripresa demografica. Non si assistette, cioè, a un calo repentino della popolazione: essa subì un
calo graduale, a “scalini”, raggiungendo il punto più basso solo nei primi decenni del XV secolo. La
recrudescenza della guerra in molte regioni europee-in Francia e nelle Fiandre durante la guerra dei Cent’anni
tra inglesi e francesi, in Spagna per gli scontri dinastici tra i regni, nell’Italia dei principati degli stati territoriali
in formazione- ebbe un peso non trascurabile sul declino demografico delle campagne. Gli eserciti
saccheggiavano le aree rurali, razziando i raccolti e le bestie, compiendo violenze sulle donne, catturando
ostaggi. Inoltre, contribuivano a diffondere le epidemie. La popolazione europea aveva raggiunto intorno al
1300 oltre 70 milioni di persone; all’indomani della peste nera era diminuita a circa 50 milioni; all’inizio del
XV secolo si era ulteriormente ridotta a meno di 45. Intere regioni spopolate dalla crisi, come l’Andalusia e la
Maremma, non si ripresero più. Nelle campagne il calo demografico significò infatti una ristrutturazione
dell’habitat: diffuso il fenomeno dell’abbandono dei villaggi, scomparvero molti piccoli insediamenti,
soprattutto quelli non fortificati.

20.2 Le trasformazioni dell’economia


Il calo della popolazione significò meno bocche da sfamare. Conseguentemente i proprietari fondiari e gli
imprenditori si contesero un minor numero di lavoratori che li constrinsero a offrire loro migliori condizioni.
La crescita dei salari fece però aumentare i costi di produzione e i prezzi dei manufatti. A sua volta, il minor
numero di individui determinò un calo della domanda. Ciò comportò una riduzione dei margini del profitto
sia dei proprietari sia degli imprenditori. Generalizzato fu il calo della produzione agraria. Ovunque furono
abbandonate le terre marginali di bassa redditività, che tornarono a ricoprirsi di sterpaglie e di boschi: risvolto
negativo fu spesso l’abbandono delle bonifiche e dei contenimenti delle acque, che generò erosione dei suoli,
impaludimenti, desertificazioni. Le terre incolte furono trasformate in pascoli dando luogo a un eccezionale
sviluppo dell’allevamento, soprattutto ovino, come in Inghilterra, Germania, Ungheria e Sicilia.
Progressivamente fu ricostituito l’equilibrio tra le risorse disponibili e il numero degli uomini, capace di
fronteggiare meglio le carestie. Il calo dei prezzi dei generi alimentari e l’aumento dei salari permisero anche
un miglioramento dell’alimentazione. La carne cessò di essere una pietanza rara e tornò anche sulle tavole
dei contadini e dei salariati. Si diffusero contratti parziari che furono detrti di mezzadria, che assicuravano un
generale incremento produttivo. Il termine deriva dal latino “dividere a metà”, indicava il tipo di contratto
agrario in cui il coltivatore riceveva dal proprietario, oltre che alla terra, anche una casa e in taluni casi gli
attrezzi e bestiame. In cambio il contadino era tenuto a dare al proprietario la metà del raccolto, oltre ad
alcune quantità di prodotti e bestie di piccolo taglio. Il mutameto più evidente nella produzione maifatturiera
fu la diversicazione delle merci. Il sistema delle fiere declinò definitivamente, sostituito dalla rete delle filiali
cmmerciali e dal forte incremento dei trasporti marittimi, reso possibili anche da costanti migliormanti nelle
tecniche di navigazione e dall’adozione di navi di stazza crescente. Forte incremento ebbero le rotte che
collegavano i centri mercsntili del Mare del Nord ai porti della Francia, Portogallo e della Spagna. Da questi
scali cominciarono a muovere anche nuove rotte lungo le coste occidentali dell’Africa.

21 REAZIONI E RIPRESA
21.1 Mentalità e sensibilità di fronte alla crisi
La peste destò un enorme impressione tra i contemporanei per la velocità con cui si diffuse inizialmente, per
la rapidità del discorso, per la mancanza di rimedi e per l’ignoranza sulle sue cause e sui modi di contagio.
Vennero adottate misure per circoscriverne la diffusione: divieto di assembramenti, limitazione degòli
spostamenti e segregazione dei malati. Nelle città furono istituite apposite magistrature per isolare gli
indivisui e i quartieri. Alle porte furono effetuati controlli più rigidi, e si impose anche la quarantena delle
navi provenienti dagli scali asiatici. La congiuntura aveva seminato il terrore. La gente non riusciva a spiegarsi
le cause del susseguirsi dei cattivi raccolti, pestilenze etc. La risposta più immediata fu di interpretarli come
annunzio apocalittico. Si diffusero pratiche di penitenza in confraternite di devozione che praticavano la
flagellazione e compivano pellegrinaggi: nel 1399. Le processioni dei flagellanti che attraversavano l’Europa
accrebbero l’eccitazione contro coloro che si ritenevano complici del demonio nell’opera di setabilizzazione
della cristianità. Gli ebrei furono accusati di avvelenare i pozzi e di uccidere il bestiame, e divennero oggetto
di violente persecuzioni: 96 pogrom tra il 1348 e 1350. Nel 1348 in alcune zone deall’Inghilterra alcune donne
che vivevano da sole, praticando guarigioni, furono accusate di stregoneria e linciate dalla popolazione in
cerca di capri espiatori della peste. Questi episodi diedero avvio a un plurisecolare fenomeno di “caccia alle
streghe” che ebbe per oggetto le donne, ritenute responsabili del peccato originale e pertanto potenzioali
interlocutrici del demonio. La stregoneria era sempre stata combattuta dalla Chiesa cristiana. Dalla metà del
XIV secolo si sviluppò l’idea che la stregoneria fosse una setta ostile, fondata sul patto con il demonio e sul
suo sulto culminante nell’adunanza periodica del sabba. La sua repressione fu affidata, come eresia,
all’inquisizione e divenne più incisiva dalla metà del XV secolo.

21.2 Rivolta e marginalità


Tra XIV e XV secolo le campagne e le città dell’Europa furono attraversate da un’ondata di rivolte. A
determinarlo fu il peggioramento delle condizioni di vita per il susseguirsi di carestie, epidemie, guerre e
recessioni economiche. Essi si batterono invece per la redistribuzione della ricchezza e per la partecipazioni
politica. Le tensioni sociali, contrasto tra i ricchi e i poveri, furono esacerbate dall’introduzione di nuove tasse
per finanziare le guerre, che fu all’origine delle maggiori rivolte rurali. Improvvisa e violenta fu la rivolta dei
contadini, nota come jacquerie, che scoppiò nella Francia del nord nel 1358 prostrata dalla guerra che vi si
combatteva da anni e dalla pressione fiscale. La rabbia dei contadini si rivolse contro i nobili per il disprezzo
che riservavano agli aristicratici dopo le disfatte militari che avevano subito contro gli inglesi, e per il desiderio
di sottrarsi allo sfruttamento signorile appesantito dagli oneri della guerra. La rivolta si manifestò con assalti
e saccheggi ai castelli. I nobili soffocarono rapidamente la ribellione incendiando villaggi e sterminando non
meno di 20000 persone. In Inghilterra il malcontento crescente per l’aggravarsi dell’oppressione signorile,
fu inasprito da una legge del 1351 (Statuto dei lavoratori) che fissava un tetto massimo ai salari con cui i
coltivatori integravano i loro redditi lavorando alla giornata le terre altrui. L’introduzione di ua tassa
personale (poll tax) per finanziare la guerra fu la scintilla che scatenò la rivolta dei contadini del Knet e
dell’Essex nel 1381. A differenza dei rivoltosi francesi, essi avanzarono precise rivendicazioni, trovando una
copertura ideologica in alcuni preti che predicavano l’uguaglianza sociale contro l’egoismo dei ricchi. Tra le
richieste erano l’abolizione della servitù, il ripristino degli usi delle terre comuni, la soppressione dello statuto
del 1351. I rivoltosi saccheggiarono palazzi nobiliari a Londra e ottennero dal re kla concessione di alcuni
privilegi. Forte sviluppo avevano avuto tra XIII e XIV secolo le corporazioni (arti, gilde) dei mestieri, sorte per
tutelare gli interessi comuni nei diversi settori attraverdo propri organi di governo e statuti. Le arti
regolamentavano gli orari di lavoro, le modalità di produzione, la qualità dei prodotti. Di esse facevano parte
i proprietari e i capi delle botteghe, i soci e i collaboratori, talora gli apprendisti, ma non i lavoratori salariati,
che in settori importanti come quello tessile raggiungevano le migliaia di persone. Essi non avevavno diritto
nemmeno a costituire proprie corporazioni. Gli artigiani e i salariati aspirarono a costituirsi in corporazioni e
a garantirsi la partecipazione politica. In molte città gli artigiani tessili, in lotta con gli imprenditori, riuscirono
a prendere posto nei consigli cittadini e a imporre governi basati sulle arti. Il tumulto più noto fu quello che
esplose a Firenze nel 1378 per inziativa degli operai della lana, chiamati spregiativamente “ciompi” per la
loro sporcizia e trasandatezza, che svolgevano la parte meno qualificata della lavorazione. Anch’esse si
definirono le proprie richieste: partecipazione al governo del comune con una propria arte, aumento dei
salari, tutela delle vessazioni giudiziarie della corporazione della lana. I ciompi ottennero inzialmente un terzo
delle cariche di governo, ma come in molte altre rivolte, anch’essi furono duramente repressi dalla reazione
degli imprenditori. Le condizioni di vita dei braccianti e dei salariati erano misere e permanentemente
precarie. Senza fissa dimora, molti si davano alla mendicità, taluni alla piccola delinquenza. Il fenomeno si
fece massiccio e socialmente allarmante. Per combattere la povertà molti governi adattarono politiche di
assistenza, fondando enti caritativi e ospizi. Per impulso dei francescani, nelle città italiane furono fondati
“monti di pietà”, che erogavano piccoli prestiti su pegbo a interessi contenuti.

21.3 La ripresa nel Quattrocento


Il ritrovato equilibrio tra risorse alimentari e numero degli uomini e l’aumento della produttività dei raccolti
posero le basi per l’inversione della tendenza demografica. Il miglioramento dell’alimentazione aumentò la
resistenza alle malattie e alle avversità climatiche. Le epidemie cominciarono a farsi meno virulente e a
mietere meno vittime. Il recupero demografico fu più precoce in Spagna e in Italia, più tardivo in Francia e in
Ingjilterra. Nle corso del XV secolo si accentuò la trasformazione del mercante da negoziatore impegnato in
prima persona nei commerci a lunga distanza, a figura sedentaria a capo di grandi compagnie filiali estere
operanti non più solo nel traffico delle merci ma anche nel cambio del denaro, nella produzione
manifatturiera e egli investimenti fondiari. Un’organizzazione di genere consentì, per esmpio, ai mercanti
fiorentini di superare i fallimenti di metà Trecento e di tornare a essere protagonisti a livello internazionale
con banchi come quelli degli Alberti, degli Strozzi e dei Medici.

SNODO 10 Il declino dei poteri universali


Nei secoli XIV e XV maturarono ampie trasformazioni negli assetti politici europei. Il papato e l’impero, che si
erano a lungo contesi la guida della cristianità occidentale. Il papato fu condizionato dalla tutela politica del
regno di Francia e poi diviso da uno scisma ricomposto solo grazie alla ritrovata centralità dei concili. Tra le
conseguenze si ebbero lo sviluppo di Chiese nazionali legate agli stati, ma anche dei conflitti portarono allo
sfaldamento del movimento conciliarista. La corona imperiale fu legata definitivamente al titolo di re di
Germania, e i sovrani dovettero impegnarsi soprattutto ad affermare la loro residu autorità su un’area dove
il potere politico era ormai saldamente in mano ai principati territoriali. Il declino riguardò anche l’impero
bizantino, corroso da debolezze sociali e religiose interne, e travolto dall’impetuosa avanzata del nuov
protagonista della storia mediorientale, l’impero ottomano, che impose i turchi alla guida del mondo islamico
ed espugnò Costantinopoli.
20 IL PAPATO E LA SOCIETÁ CRISTIANA
22.1 Elaborazioni ideologiche
Tra la fine dell’ XIII e l’inzio del XIV secolo maturò il declino delle concezioni universalistiche del papato e
dell’impero. Bonifacio VIII, nella bolla “Unam sanctum” del 1302, riaffermò che il potere temporale era
affidato ai laici “secondo il comando e la condiscendeza del clero”, e la necessittà che “ogni creatura umana”
si sottomettesse all’autorità pontificia per la propria salvezza. Di conseguenza, ogni potere civile doveva
subordinarsi al papato. Ma la nuova realtà politica europea, dove l’antagonista del papato non era
l’imperatore ma un re forte del legame con ipropri sudditi, rese anacronistiche tali pretese. Si mantenne viva
l’idea della necessità di un’autorità civile superiore, autonoma rispetto a quella pontificia e garante della pace
e della giustizia di tutti i cristiani. Filippo IV il Bello, re di Francia, può essere considerato il sovrano che prima
di altri comprese le conseguenze della crisi dei poteri universali e le opportunità che si aprivano per una
nuova legittimazione di quelli monarchici. Nel conflitto che lo opose a Bonifacio VIII egli ricorse agli “stati
generali” per garantirsi il sostegno delle diverse componenti del regno.

22.2 Il papato ad Avignone e lo scisma


Al culmine dello scontro tra Bonifacio VIII e Filippo IV, il re fu scomunicato dal papa. Su consiglio di Guglielmo
di Nogaret, uno dei giuristi che orchestrava la campagna di discredito del pontefice, il re concepì il disegno di
condurre il papa davanti al tribunale francese per sottoporlo a giusizio di lesa maestà. Nel 1303 una
spedizione guidata dallo stesso Nogaret raggiunse Agnani (in quel momento sede della curia, ovvero tutti gli
uffici intorno ai quali va costruendosi il processo di gerarchizzazione del potere pontificio), dove Bonifacio
VIII fu coperto di insulti e arrestato. Il papa morì dopo pochi giorni, ma l’evento mostrò che le pretese
teocratiche dei pontefici non ebbero più alcuna possibilità di concreta realizzazione. Nonostante lo scandalo
sollevato, infatti, il re riuscì a far eleggere papa nel 1305 il suo candidato Bertrand de Got, vescovo di
Bordeaux, salito al soglio di Clemente V. Temendo un’accoglienza ostile da parte dei romani, nel 1309 il nuovo
pontefice trasferì la curia pontificia ad Avignone, dove sarebbe rimasta fino al 1377. La lunga permanenza
della curia ad Avignone rafforzò i rapporti tra il papato e il regno di Francia. I 7 pontefici del periodo furono
tutti frncesi come lo furono la maggior parte dei cardinali nominati:112 su 134. Anche il personale della curia
fu quasi tutto francese. Lontano dai conflitti delle famiglie romane che spesso l’avevano paralizzata, la curia
potè sviluppare un’efficiente apparato amministrativo che consentì ai pontefici di poter rafforzare la natura
monarchica del loro governo sulla Chiesa, riducendo sempre di più l’ autonomia delle istituzioni ecclesiastiche
locali. Gli uffici della curia frono rafforzati. La cancelleria fu riordinata ed ampliata nel 1331. Le spese politiche
del papato crebbero enormemente. Le ntrate di cui i papi avignonesi poterono disporre ne fecero la quarta
potenza economica d’Europa dopo Francia, Inghilterra e Napoli. La presenza ad Avignone fu caratterizzata
anche dall’accentuarsi dei fenomeni di corruzione che affliggevano la curia pontificia. Particolare sviluppo
ebbe la vendita delle indulgenze, cioè della remissione delle pene temporali inflitte ai peccatori Dal XIV secolo
fu sempre più facile ottenerle, bastando una sempre elargizione in denaro. Queste pratiche contribuirono
alla perdita di autorità morale del papato. La curia pontificia fu oggetto di accuse crescenti di amoralità e di
mondanizzazione. Dante Alighieri arrivò a descrivere l’evento come: “Cattività Avignonese”, cioè una
prigionia del papato da parte della corona francese. Le speranze di riforma furono presto deluse. La morte
improvvisa di Gregorio XI nel 1378 aprì un conflitto all’interno del collegio dei cardinali, che si spaccò con
l’elezion del nuovo pontefice per i contrasti tra prelati francesi ed italiani. Gli italiani elessero l’arcivescovo di
Bari Urbano VI; i francesi elessero Clemente VII e si trasferì ad Avignone. Si aprì così uno scisma interno alla
Chiesa d’Occidente. I papi diedero vita a due coplleggi di cardinali e due curie, una a Roma e l’altra ad
Avignone, ed entrambi ebbero dei successori. La divisione fu alimentata dallo schierarsi dei diversi sovrani
europei con un pontefice o con l’altro. Il mondo cristiano si trocò diviso per lunghi anni in due schieramenti
contrapposti, non solo religiosi ma anche politici, in conseguenza anche delle alleazne operanti con la guerra
dei Cent’anni.
22.3 Nuovi fermenti religiosi
La mondanizzazione della Chiesa acuì il disagio di chi manifestava esigenze di spiritualità più intima. Le
correnti francescane, assertrici di un pauperismo (dottrina secondo la quale il vero cristiano non deve
possedere niente) radicale, si contrapposero alla Chiesa come istituzione di potere. Dai francescani si distaccò
Gherardo Segarelli, fondando la setta degli “apostolici”, che si propose di rinnovare la purezza di dottrina e
di vita dell’età degli apostoli, rifiutando l’obbedienza all’autorità ecclesiastica e predicando la penitenza: il
movimento fu condannato come ereticale nel 1286 e Gherardo messo a morte sul rogo 1300. Ne subentrò
alla guida fra Dolcino, che aggiornò la profezione di Gioacchino da Fiore predicando l’avvento di una quarta
età, che sarebbe venuta dopo quella del Padre, di Cristo e della degenerazione (da Costantino in poi), in cui
il papa, i cardinali e i chierici sarebbero stati deposti inaugurando un nuovo avvento dello Spirito Santo.
Clemente V gli bandì contro una crociata: catturato e processato, Dolcino fu condannato a morte, insieme ad
alcuni compagni nel 1307. Le correnti pauperistiche e spiritualistiche indussero la Chiesa a riconoscervi dei
pericolosi fermenti di eresia da schiacciare duramente. Tra la fine del XIII e la prima metà del XIV secolo
l’Europa cristiana fu attraversata da un’ondata senza precedenti di processi. Chi si opponeva alla sovranità
pontificia fu sistematicamente tacciato di ribellione (“rebellis sanctae matris ecclesie”) e di eresia (“hereticus
manifestus”): la ribellione era considerata attentato alla sovranità. Esigenze di una religiosità più individuale
si diffusero nel corso del XIV secolo seguendo orientamenti mistici. Grazie all’influenza del domenicano e
docente di teologia a Parigi, Johannes Eckhart, le cui proposizioni furono dichiarate eretiche nel 1328, la
mistica ebbe notevoli sviluppi in area francese e tedesca. Anche alcune donne che ebbero atteggiamenti
profetici, estasi e visioni divine, vennero circondate da discepoli che ritenevano che Dio parlasse attraverso
di loro: fu il caso di Caterina da Siena che sollecitò il papa a tornare a Roma. Alcune eresie assunsero infine
un esplicito significato di rivolta sociale e di opposizione politica alla Chiesa di Roma. Alla “chiesa visibile” del
papa e dei sacerdoti, un teologo di Oxford, John Wyclif contrappose una “chiesa invisibile” costituita da tutti
i cristiani, con Cristo a capo. Le sue teorie furono dichiarate eretiche nel 1382, ma i suoi seguaci detti lollardi
continuarono a predicare per tutto il XV secolo, perseguitati dall’inquisizione.

22.4 il movimento conciliarista


Lo scisma inaugurò un periodo difficile per il papato. I papi contrapposti furono costretti a moltiplicare
concessioni e privilegi ai sovrani e ai principi che li sostenevano, ai banchieri che li finanziavano, alle chiese
locali da cui traevano legittimazione e consenso. L’effetto fu quello di un profondo indebolimento
dell’autorità pontificia. Tuttavia, la situazione si era a tal punto irrigidita che quando i prelati di entrambi i
fronti riuscirono a convocare a Pisa nel 1409 un concilio che depose e dichiarò scismatici ed eretici entrambi
i pontefici ed elesse un nuovo papa nella figura dell’arcivescovo di Milano, che prese il nome di Alessandro
V, gli altri pontefici si rifiutarono di abdicare. I papi divennero addirittura tre. Di fronte alla manifesta
incapacità dei vari papi a rappresentare la Chiesa universale e a governarla con efficacia, si diffuse la
convinzione che solo un concilio ecumenico, una grande assemblea di tutte le componenti della Chiesa,
avrebbe potuto riportare ordine al suo interno. Ripresero forza i sostenitori dell’autorità del concilio nel
governo della Chiesa, per frenare la spinta alla centralizzazione pontificia e per riaffermare il ruolo delle
chiese locali come era stato nei primi secoli del cristianesimo. A prendere l’iniziativa fu il re di Germania
Sigismondo, che convocò il concilio nella città imperiale di Costanza, inaugurandolo il 5 novembre 1414. Il
concilio di Costanza radunò centinaia di prelati e teologi, oltre a numerosi sovrani e loro rappresentanti e
durò fino al 1418, dopo avere assunto importanti decisioni in merito all’unità e alla riforma della Chiesa e alla
purezza della fede. L’approvazione dei decreti “Haec Sancta” del 1415 e “Frequens” del 1417 affermò che il
concilio, in quanto espressione della Chiesa universale, derivava il suo potere direttamente da Cristo ed
esercitava la sua autorità su tutti i cristiani compreso il papa, e stabilì che esso dovesse essere convocato
periodicamente. Nel 1417 fu eletto il primo papa ecumenico dopo 40 anni, Martino V (1417 – 1431), che
convocò regolarmente nuovi concili a Pisa nel 1423 e a Basilea nel 1431. Nel 1438 Eugenio IV dichiarò
decaduto il concilio e indisse una nuova assemblea a Ferrara, dove convennero anche prelati e teologi greci
per una soluzione dello scisma con la Chiesa ortodossa con la quale fu in effetti sancita una precaria
riunificazione nel 1439 a Firenze, dove il concilio si era spostato. La maggioranza dei conciliaristi rimase a
Basilea, processando Eugenio IV e nominando come suo successore nel 1439, col nome di Felice V, l’ex duca
di Savoia Amedeo VII, che da anni si era ritirato in monastero. Il pensiero radicale di Wyclif fu ripreso dal
boemo Jan Hus, teologo dell’università di Praga, che criticò aspramente le indulgenze, il potere temporale,
la ricchezza della Chiesa e l’indegnità del clero, finendo scomunicato dalla curia romana nel 1412. Fiducioso
di poter difendere pubblicamente le sue tesi davanti al concilio, Hus si recò a Costanza dove fu però
processato per eresia e condannato al rogo nel 1415. Il movimento conciliarista fu anche alla base della
fondazione di Chiese nazionali, che ruppero definitivamente l’unità della cristianità. L’indebolimento
dell’autorità pontificia consentì infatti ai sovrani di svincolare dal controllo della curia il governo delle
istituzioni ecclesiastiche locali, soprattutto in materia fiscale e giudiziaria e nell’assegnazione dei benefici. Nel
1438 il re di Francia emanò la “Prammatica sanzione”, che si richiamava ai decreti di Costanza e Basilea per
proclamare l’elezione locale dei vescovi e degli abati, la competenza dei tribunali civili in materia ecclesiastica,
e la drastica riduzione dell’intervento papale in tema di tasse e benefici.

22.5 La ritrovata autorità pontificia


Lo scioglimento del concilio nel 1449 segnò la prevalenza dell’autorità de papato all’interno della Chiesa.
Anche teologi che avevano inizialmente sostenuto le tesi conciliariste tornarono a insistere sull’importanza
di un governo unitario della Chiesa. L’esperienza conciliarista lasciò in molti fedeli l’idea che le assemblee
ingovernabili di dotti e prelati fossero soprattutto occasione di anarchia e di disordine. Dalla metà del XV
secolo tornarono a consolidarsi le tendenze alla centralizzazione del governo pontificio che si erano allentate
in conseguenza dello scisma. Le entrate fiscali si fecero nuovamente intense, grazie soprattutto alle decime
e alla tassazione dei benefici. Il collegio dei cardinali si dilatò fino a contare una settantina di membri, dando
rappresentanza alle varie famiglie sovrane e principesche europee e italiane. Soprattutto, il papato tornò a
integrarsi pienamente nella politica italiana, restaurando il proprio dominio sullo stato pontificio. Nel corso
del 400 le gerarchie ecclesiastiche accentuarono, pur con rare eccezioni, il loro orientamento mondano.
Divenne prassi abituale l’accumulo dei benefici ecclesiastici e l loro subappalto. I pontefici avevano affidato
cariche e benefici ecclesiastici a membri della propria famiglia. In questo modo, alcune famiglie avevano
arricchito le loro fortune secolari, sfruttando le entrate dei grandi uffici ecclesiastici e le rendite dei benefici.
Il fenomeno, indicato col termine di “nepotismo” e i cui aspetti deteriori furono giudicati negativamente dal
punto di vista morale, riprese vigore nella seconda metà del XV secolo. I papi conferirono nuovamente le alte
cariche ecclesiastiche a fratelli, cugini nipoti (e talora anche ai figli). Si crearono così vere e proprie dinastie
di cardinali, vescovi, alti prelati, etc., dotate di ingenti patrimoni: rendite, appannaggi, palazzi, etc. Dalla metà
del 400 la curia pontificia ritornò a essere un luogo ricco e fastoso, dove convenivano da tutta Europa artisti,
architetti e uomini di lettere. Roma si avviò a diventare la splendida capitale della Chiesa universale grazie ai
profondi interventi urbanistici. La restaurata autorità del potere pontificio lasciò però insoddisfatte le
esigenze di riforma religiosa. Con la fine del conciliarismo tramontò la possibilità di una riforma integrale
della Chiesa. La devozione dei fedeli si organizzò in nuove forme. Si rafforzarono le esperienze di vita in
comune, soprattutto femminile, dette di beghinaggio. I laici svilupparono attività caritative e assistenziali
attraverso l’opera delle confraternite.

23 GLI IMPERI
23.1 L’impero “tedesco”
Il potere dell’impero era stato ridimensionato dall’interregno seguito alla morte di Federico II e dalla
debolezza dei suoi successori, a cominciare da Rodolfo I d’Asburgo (1273 – 1291) che non si fece incoronare
in Italia, impegnato com’era ad affermare in Germania la propria incerta autorità. L’influenza degli imperatori
si ridusse definitivamente al territorio tedesco. L’autorità imperiale, però, non era riuscita a imporsi con
efficacia nemmeno all’interno della Germania, proprio perché distratta dalle aspirazioni universalistiche e dai
lunghi periodi trascorsi in Italia. Il patrimonio imperiale era andato disperso nel corso del XIII secolo per le
elargizioni dei sovrani e per le usurpazioni dei principi territoriali. A indebolire l’autorità dell’imperatore
concorreva anche il fatto che egli venisse eletto, senza riuscire a creare una stabilità dinastica. Nella prima
metà del XIV secolo venne affermandosi il ruolo di un certo numero di grandi elettori, laici ed ecclesiastici,
chiamati a designare il re di Germania. Nella dieta di Rhens del 1338 essi stabilirono che il futuro sovrano
avrebbe associato automaticamente la corona regia a quella imperiale, senza bisogno di conferma da parte
del papa. Carlo IV di Lussemburgo (1347 – 1378), però, avvertì ancora la necessità di scendere in Italia per
cingere nel 1355 la corona imperiale e legittimare la sua autorità. Nel 1356 egli emanò una disposizione nota
come “Bolla d’oro”. Essa fissò il collegio dei sette principi che avevano il privilegio di eleggere l’imperatore
secondo determinate ritualità e confermò come non fosse più necessario ottenere anche la corona d’Italia e
la consacrazione pontificia. Il titolo imperiale perse così definitivamente le prerogative universalistiche,
accentuando la sua natura prettamente tedesca. Il titolo imperiale fu conteso tra XIV e XV secolo tra alcune
grandi famiglie. Ad alternarsi sul trono furono soprattutto le casate dei Wittelsbach, del Lussemburgo e degli
Asburgo. I Lussemburgo riuscirono a controllare per circa un secolo dal 1348 al 1437. L’ultimo sovrano della
casata, Sigismondo, che era stato eletto anche re d’Ungheria dal 1387, diede in sposa la figlia Elisabetta ad
Alberto II d’Asburgo favorendo così la convergenza delle corone d’Austria, Boemia e Ungheria nelle mani
degli Asburgo. Con l’elezione di Alberto il titolo imperiale pervenne a questi ultimi, che la conservarono
ininterrottamente per tutta l’età moderna. Formalmente elettiva, la carica imperiale divenne da allora di
fatto dinastica. Data anche la sua enorme estensione, l’impero non ebbe mai una sovranità uniforme.
L’accentramento del potere regio non raggiunse mai i risultati e l’intensità delle principali monarchie
dell’Europa occidentale. L’autorità imperiale fu esercitata soprattutto attraverso l’organismo
rappresentativo del parlamento imperiale (Reichstag) che nel corso del XV secolo si riunì con crescente
regolarità. I territori su cui era esercitata una reale autorità di tipo statale erano i Lander (due puntini sulla
a), vale a dire i territori retti da un signore, accomunati da un unico diritto consuetudinario e spesso da patti
di pace territoriale (Landfriede) spontaneamente sottoscritti dai diversi organismi politici presenti al loro
interno: i signori minori, laici ed ecclesiastici, le città e le comunità rurali. Nei Lander i principi affermarono
strutture amministrative tipiche degli stati sovrani, con apparati fiscali, eserciti, tribunali d’appello,
assemblee rappresentative, etc. nell’area renana, nella Germania meridionale e sulle cose del Mar Baltico si
erano sviluppate le maggiori città tedesche, governate da un’attiva borghesia mercantile. Per vari decenni la
Germania fu travagliata da uno stato di guerra continuo tra i principi e le città. Le città dell’area baltica e
renana avevano dato luogo sin dalla metà del XII secolo a unioni di mercanti tedeschi indicate col termine
Hansa, che conseguirono presto la supremazia economica in tutta la regione, grazie alla modernità delle loro
navi e dei loro periodi di gestione. Nel 1364 le varie associazioni si fusero in unica lega, progressivamente
egemonizzata da Lubecca, che giunse a comprendere oltre 200 centri non solo tedeschi ma anche dei Paesi
Bassi, della Norvegia, della Svezia, della Polonia e della Lituania. L’Hansa divenne una potenza economica e
anche militare di primo piano. Un principato territoriale particolare fu quello costituito nelle regioni orientali
dall’ordine religioso militare dei Cavalieri teutonici, protagonista dell’espansione tedesca lungo le regioni
baltiche. Essa diede slancio alla conquista e all’evangelizzazione della Pomerania e della Prussia, concluse nel
1283; alla metà del XIV secolo furono acquisiti anche l’Estonia e altri territori più interni. Il principato
dell’Ordine teutonico si dotò di un’articolata organizzazione amministrativa centrata intorno al Gran maestro
residente a Marienburg nella Prussia orientale.

23.2 Il tramonto di Bisanzio


Dopo il saccheggio di Costantinopoli del 1204, i crociati si spartirono il territorio bizantino in principati
secondo le consuetudini feudali, dando vita a un cosiddetto “impero latino d’Oriente”, di cui i veneziani
monopolizzarono gli empori commerciali. Intorno alla dinastia dei Lascaridi (1204 – 1259) si organizzò a Nicea
il progetto di riconquista bizantina della compagine imperiale. L’alleanza con i mercanti genovesi consentì a
Michele Paleologo di riprendere Costantinopoli nel 1261 e di restaurare la sovranità imperiale su un territorio
che però era ormai ridotto alle sole regioni affacciate sul Bosforo e a qualche isola nel mare Egeo. Come
quello d’Occidente, anche l’impero bizantino si vide sempre più costretto a una dimensione regionale:
impero “greco” e non più “romano”. L’impero bizantino dovette crescentemente difendersi anche dagli
attacchi che provenivano dagli stati slavi nei Balcani e dall’avanzata dei turchi in Oriente. Sin dal XII secolo,
peraltro, l’apparato amministrativo e militare bizantino aveva perso importanza. La gerarchia burocratica
non fu più selezionata dal potere centrale ma basata su legami familiari. L’economia ne uscì ulteriormente
indebolita: il commercio e la finanza restarono nelle mani dei veneziani e dei genovesi, mentre sempre più
difficili da reperire diventarono le risorse per coprire le spese di eserciti ormai composti di soli mercenari; la
continua svalutazione della moneta contribuì a determinare un’irreversibile recessione. La stessa autorità
centrale fu minata dopo la morte di Michele Paleologo nel 1282 da guerre dinastiche che si protrassero per
alcuni decenni. L’unica autorità che non perse forza fu quella del patriarca di Costantinopoli, che assunse una
dimensione sempre più ecumenica.

23.3 L’islam dagli arabi ai turchi


Sin dal 1058 la dinastia turca dei Selgiuchidi aveva assunto la guida di fatto del califfato di Baghdad, dove la
dinastia araba degli Abbasidi conservò solo nominalmente il titolo califfale fino all’invasione dei mongoli nel
1258. Nelle regioallani occidentali dell’impero islamico anche l’Egitto passò sotto il controllo dei Selgiuchidi,
quando il sultano Salah ed-Din Yusuf (“Saladino”) dichiarò decaduta la dinastia araba dei Fatimidi e costituì
una vasta dominazione personale estesa fino alla Siria, alla Mesopotamia e all’Arabia. Dal 1250 vi si
installarono i mamelucchi, in origine soldati schiavi (questo il significato di “mamluk”) di etnia turca che si
erano emancipati al servizio dei vari potentati musulmani, il cui sultanato governò l’Egitto e la Siria fino al
1517, promuovendo una politica mecenatistica che fece del Cairo il centro della civiltà islamica. Nelle regioni
orientali l’invasione dei mongoli aveva reso i Selgiuchidi soggetti al gran khan, frantumando l’Anatolia in una
serie di piccoli emirati. Da uno di questi prese avvio l’affermazione degli Ottomani, una piccola tribù turca
che forte dell’abilità dei propri guerrieri a cavallo cominciò a espandersi in tutta l’Asia Minore. L’espansione
ottomana proseguì verso la Macedonia, la Bulgaria e la Valacchia, suscitando in Occidente una crescente
apprensione. Una crociata fu bandita dal papa Bonifacio IX non appena si sparse la notizia della caduta della
Morea bizantina: alla spedizione, guidata dal re d’Ungheria Sigismondo, parteciparono francesi, veneziani e
genovesi con l’intento di soccorrere Costantinopoli, ormai stretta in una morsa. L’esercito dei cavalieri
occidentali fu però sconfitto a Nicopoli nel 1396, e il califfo di Baghdad riconobbe al capo ottomano Bayazid
I (1396 – 1402) il titolo di sultano.

23.4 L’impero ottomano


Gli ottomani stavano per puntare alla conquista di Bisanzio quando furono investiti dalla rinnovata
espansione mongola. A promuoverla fu un capo tartaro, Timur-lenk (noto in Europa come Tamerlano), di
fede musulmana sunnita, che dalla regione di Samarcanda mosse una serie di fulminee campagne di guerra
che gli permisero di ricreare un grande impero asiatico. Entro il 1388 completò la conquista della Persia per
poi spingersi alla conquista della Mesopotamia, della Georgia e dell’Armenia compiendo incursioni in Siria e
saccheggiando Baghdad nel 1401. Nel 1402 sconfisse e catturò Bayazid I ad Ankara, arrestando l’ascesa
dell’impero ottomano e conquistando parte dell’Anatolia. Tamerlano morì nel 1405 alla testa di una grande
spedizione diretta alla conquista della Cina. Dopo la sua morte il vasto impero si disgregò in pochi decenni.
Dopo la morte di Tamerlano, gli Ottomani ripresero l’espansione in Asia, nel Mar Nero e nei Balcani. Di fronte
alla minaccia gli imperatori bizantini chiesero invano aiuto a un’Europa prostrata dalla guerra dei Cent’anni
e dalla crisi delle sovranità imperiali e pontificia. Maometto II cinse d’assedio Costantinopoli che cadde il 29
maggio 1453 e fu saccheggiata per giorni: l’ultimo imperatore bizantino, Costantino XI, vi morì combattendo.
La caduta in mano musulmana di Costantinopoli e la fine dell’impero bizantino suscitarono un’ondata di
sgomento in Occidente. Molti profughi greci vi ripararono portando con sé i tesori della propria cultura. Fu
Maometto II ad assicurare l’uniformità amministrativa e giuridica dell’impero, sul fondamento della legge
coranica musulmana (sharia). L’organizzazione politica e religiosa dell’impero ottomano fu accentrata nelle
mani del sultano. Nelle funzioni di primo ministro agivano i “vizir”, spesso uomini di umili origini, mentre le
province dell’impero e gli stati soggetti venivano governati tramite pascià e governatori: si trattava di
un’efficiente burocrazia in cui furono reclutati, anche in posizioni di potere, schiavi cristiani forzosamente
convertiti all’islam. Il nucleo della potenza militare era costituito dal corpo dei giovani cristiani delle province
balcaniche dell’impero, convertiti all’islam e sottoposti ad addestramento speciale. Peraltro, il governo turco
fu meno oppressivo di quello bizantino e tollerante della religione delle popolazioni sottomesse, che rimasero
in larga parte cristiane ortodosse.

SNODO XII La formazione degli stati


Dal punto di vista politico, il fenomeno più importante dell’Europa dei secoli XIV e XV fu rappresentato dal
rafforzamento in senso statale dei regni, vale a dire da una loro maggiore stabilità politico – amministrativa
e territoriale. La dove, come a Occidente, si erano già sviluppate delle forti monarchie feudali, il
consolidamento delle istituzioni fu più evidente. Nelle regioni orientali, invece, il ripiegamento dell’impero
nell’area tedesca liberò lo spazio per la creazione di regni finalmente più vasti benché caratterizzati da una
maggiore fragilità della monarchia. I sovrani dovettero pertanto elaborare nuovi strumenti per controllare il
territorio e per governare le diverse componenti in modo più consensuale. Presero corpo apparati
amministrativi affidati stabilmente a ufficiali specializzati e stipendiati, e assemblee rappresentative dove
venne formandosi, attraverso la collaborazione tra il sovrano e i vari poteri locali, la consapevolezza
dell’esistenza di una comunità di interessi. Essa si tradusse spesso in un senso di appartenenza a una
comunità politica e in certi paesi, anche in un sentimento di carattere tendenzialmente nazionale.

24 Dai regni agli stati


24.1 Continuità e trasformazioni
Il rafforzamento in senso statale dei regni europei tra XIV e XV secolo fu caratterizzato dall’evoluzione di
processi già in atto da secoli e dell’emergere di nuovi fenomeni. Tra gli elementi di continuità va evidenziato
come gli stati continuarono a essere costituiti da una molteplicità di organismi di base (signorie territoriali,
città, comunità rurali, istituzioni ecclesiastiche, etc.), ciascuno titolare di poteri e prerogative. La stessa
geografia politica dell’Europa occidentale, fatta di grandi monarchie e di principati territoriali, rimase
sostanzialmente immutata. Una trasformazione evidente investì invece l’Europa orientale, dove vennero
formandosi vaste e finalmente più stabili compagini statali. Solo in Francia e in Inghilterra si costituirono delle
monarchie di carattere nazionale: nelle altre regioni continuò infatti a essere forte il peso dei poteri
territoriali locali. Tra le continuità più evidenti era il perdurante potere della nobiltà. Le terre appartenenti ai
nobili erano parzialmente, e talora totalmente, esenti dalla tassazione regia. Le signorie rurali non cessarono
di costituire le strutture locali del potere. I sovrani continuarono a concedere le investiture feudali,
allargandole anche a nuove famiglie che ampliarono i ranghi della nobiltà. Ai membri dell’aristocrazia si
aprirono anche carriere ecclesiastiche prestigiose e fonte di ricchezza. Il processo di sviluppo economico e
sociale delle città rese crescente anche l’influenza politica dei ricchi gruppi dirigenti urbani nei confronti del
potere regio. Nei consigli cittadini e nelle magistrature maggiori crebbe anche, nel tempo, la presenza dei
membri delle corporazioni mercantili e artigiane. Anche il clero continuò a godere di privilegi giurisdizionali
e fiscali, nonostante la volontà crescente dei sovrani e dei principi di controllare le istituzioni ecclesiastiche.
Lo scisma e il movimento conciliarista ne ridussero fortemente le capacità d’intervento. I poteri civili
riuscirono così crescentemente a controllare il conferimento dei benefici, a ridurre la giurisdizione delle corti
ecclesiastiche, a imporre le tasse sui beni della Chiesa. I re finirono col rivendicare la tutela delle rispettive
Chiese nazionali, stipulando accordi e concordati con il papato romano dalla metà del XV secolo. La forza dei
poteri locali, che alcuni documenti dell’epoca indicano col termine di “corpi” politici, indusse i sovrani a
ricercare con essi un dialogo politico, a stringere accordi, a coordinarne le diverse istanze. I re si proposero
crescentemente come referenti delle varie componenti del regno offrendo sicurezza e pacificazione,
garantendo l’ordine interno e difendendo il paese dai nemici. Anche la propaganda monarchica rappresentò
i re come i tutori dell’ordine interno, minato dalle rivolte e dagli scontri politici, e come i difensori dello stato
dagli attacchi portati dall’esterno dalle potenze confinanti. Presso la corte, le cancellerie e i consigli che
affiancavano il sovrano nel governo del regno si differenziarono in uffici specializzati, ciascuno con
competenze in materie diverse: sorsero così le alte corti di giustizia, le camere fiscali, i consigli del re, etc. Nel
territorio si fecero tramite dell’autorità del re un numero crescente di ufficiali, con funzioni sempre più
definite: castellani, capitani, esattori, giudici, balivi, siniscalchi, sceriffi, etc. Si formò così un funzionariato che
copriva gli uffici non in virtù di un legame di fedeltà ma dietro la corresponsione di uno stipendio e nella
prospettiva di svolgere una carriera regolare. In sostanza, cominciò a formarsi un’embrionale burocrazia non
più reclutata in base allo status sociale bensì alle competenze, perlopiù giuridiche, alla cui formazione
servivano proprio quelle università fondate su iniziativa regia. La crescita degli apparati amministrativi, la
necessità di pagare stipendi in moneta e, più in generale, l’assunzione di crescenti funzioni di governo,
aumentarono costantemente le esigenze finanziarie dei sovrani. Da sempre il nucleo delle loro entrate era
costituito dalle rendite dei territori che però erano insufficienti a coprire tutte le spese del regno. I sovrani
pertanto cercarono sempre nuovi cespiti di entrata. Ampio ricorso fu fatto al prestito dei banchieri
internazionali, in particolare italiani, garantendo in cambio introiti futuri, cessioni di proventi fiscali o
concedendo feudi. Assicurandosi un più stretto controllo delle zecche, i sovrani procedettero anche a
svalutazioni e a rivalutazioni forzose delle monete, che potevano assicurare ingenti introiti. Le entrate più
cospicue provenivano soprattutto delle tasse. I cespiti più alti continuarono a essere assicurati dalle imposte
indirette. Anche il consumo di prodotti quotidiani come il pane, la carne o il vino, fu gravato da gabelle. Il
crescente ricorso alle imposte dirette fu reso possibile dal dispiegarsi di una rete periferica di esattori fiscali.
Tasse come il “focatico” in Francia (riscosso sui “fuochi”, cioè sui nuclei familiari) o la poll tax in Inghilterra
(riscossa sulle singole persone), che nel momento della loro introduzione scatenarono vere e proprie rivolte,
si fecero sempre più sistematiche. L’ordine pubblico fu assicurato da appositi contingenti di milizie dislocate
nei territori del regno. Furono istituiti tribunali periferici e centrali, affidati a giudici e procuratori della corona,
ai quali i sudditi potevano appellarsi: in Francia essi furono chiamati parlamenti. L’evoluzione in senso statale
degli ordinamenti regi investì in modo particolare l’organizzazione degli eserciti, chiamati a sostenere
campagne di guerra sempre più lunghe e costose. Ci si orientò così verso la creazione di eserciti permanenti
posti agli ordini di ufficiali nominati direttamente dal re. Caratteristiche dei nuovi eserciti erano: la loro natura
di corpi stabili, reclutati prevalentemente tra i sudditi; il loro mantenimento anche in tempo di pace; la
trasformazione del mestiere delle armi in una vera e propria carriera militare; l’accettazione da parte delle
varie componenti del regno della necessità di stipendiare un esercito posto permanentemente a tutela della
loro sicurezza. Un’altra innovazione fu la creazione di corpi stabili di funzionari incaricati di presiedere alla
cura delle relazioni diplomatiche con i governi stranieri. Nel corso del XV secolo si affermò così la prassi di
delegare i rapporti tra i singoli stati ad ambasciatori che risiedevano stabilmente presso le corti estere,
godevano della salvezza della vita, ed erano in costante rapporto con la madrepatria grazie a una quotidiana
corrispondenza in cui informavano minuziosamente sulle vicende politiche e militari e sugli affari interni degli
stati.

24.2 Caratteristiche comuni


Malgrado il rafforzamento dei poteri sovrani gli stati rimasero caratterizzati però dalla presenza di una
molteplicità di “corpi” politici, quali le città, i principati territoriali, la nobiltà, etc., che esercitavano poteri e
prerogative con ampi spazi di autonomia. I territori degli stati non rappresentarono delle realtà unitarie, dove
si estendevano in maniera uniforme le leggi e la volontà del sovrano, bensì delle entità composite. L’autorità
dei sovrani non fu mai esercitata ovunque nel regno in forma diretta e assoluta. Una tendenza comune fu
indubbiamente rappresentata dalla capacità dei sovrani di accrescere le proprie prerogative e di consolidare
i propri poteri. Questo processo non fu però né lineare né definitivo. A renderne precari i risultati la forza dei
“corpi” politici presenti nel regno, che contrastarono e rallentarono l’affermazione monarchica. Prese forma
una gestione pattizia del potere che attraverso costanti negoziazioni portò a riconoscere la sovranità dei re
in cambio del riconoscimento dei diritti e delle autonomie locali. Espressione istituzionale del patto reciproco
tra il sovrano e i corpi per il governo del regno furono le assemblee rappresentative che si svilupparono in
molti stati tra XIV e XV secolo: gli “stati generali” in Francia, le “cortes” in Spagna, i “parlamenti” in Inghilterra,
le “diete” in Germania, e così via. Il sovrano era tenuto a convocarle quando intendeva emanare una legge o
introdurre una tassa che potesse ledere i privilegi tradizionali: il principio “quod omnes tangit ab omnibus
approbetur” (“ciò che riguarda tutti deve essere approvato da tutti”). Più in generale le assemblee divennero
il luogo del dialogo e della mediazione tra gli interessi della corona e quelli dei gruppi politici e sociali più
importanti dei regni. Le assemblee rappresentative contribuirono a rafforzare la coesione sociale e politica
dei regni. In vari stati, infatti, si era cominciata a formare una consapevolezza dell’esistenza di interessi
comuni tra tutti gli abitanti di un territorio e dell’appartenenza a un’unica comunità politica. I diversi corpi
politici cominciarono ad abituarsi a coesistere insieme, venendo a formare una comunità politica che si
identificava crescentemente in un “paese”. In alcuni stati la coscienza di appartenere a una comunità con
caratteri propri anche dal punto di vista linguistico e culturale diede forma a un comune sentimento di
appartenenza nazionale. Un segnale importante, in questo senso, fu dato dal concilio di Costanza, dove i
partecipanti decisero di votare non individualmente ma per nazioni (nationes). Anche lo sviluppo di Chiese
nazionali ebbe origine da questo comune sentire.

25 Verso gli stati nazionali


25.1 La guerra dei Cent’anni
Si usa definire come Guerra dei Cent’anni la serie di conflitti bellici che, in Francia, contrapposero la corona
inglese a quella francese tra il 1337 e il 1453 (di cui ben 53 anni con combattimenti effettivi). Da secoli i
sovrani inglesi possedevano territori e diritti nel regno di Francia, di cui erano vassalli. Quando nel 1328 il re
di Francia Carlo IV morì senza eredi, il re d’Inghilterra Edoardo III, che ne era nipote, rivendicò il diritto a
succedergli. La guida del regno fu invece affidata a Filippo VI di Valois, che confiscò i feudi francesi di Edoardo
e lo indusse a muovere guerra nel 1337, puntando innanzitutto alla conquista delle Fiandre, una regione
strategica per il commercio delle lane inglesi. Il suo esercito sbaragliò più volte la più lenta e indisciplinata
cavalleria feudale francese, conquistando territori nel sud – ovest e precipitando nel caos la Francia. Nel 1358
i contadini insorsero contro la nobiltà mentre a Parigi la rivolta guidata dai mercanti impose agli “stati generali”
il controllo dell’amministrazione regia. La pace di Brétigny del 1360 sancì la sovranità inglese su circa un terzo
del territorio francese. L’inasprimento fiscale per le spese belliche fece scoppiare disordini anche in
Inghilterra nei decenni seguenti, consentendo ai francesi di riconquistare entro il 1380 tutti i domini inglesi
sul continente tranne pochi avamposti costieri. I disturbi mentali che impedirono di governare al nuovo re
Carlo VI fecero emergere però due fazioni che scatenarono una lunga guerra civile in Francia. Con l’appoggio
del duca di Borgogna, Enrico V d’Inghilterra riprese le ostilità, e dopo la decisiva vittoria ad Azincourt nel 1415
conquistò quasi tutta la Francia settentrionale, ottenendo nel 1420 la reggenza di Francia. Prese corpo allora
una reazione antinglese per iniziativa delle popolazioni contadine, che trovò un simbolo in una giovane
lorenese, Giovanna d’Arco, che sosteneva di udire voci dal cielo che le indicavano di aiutare il nuovo re di
Francia Carlo VII. Ella guidò le milizie regie alla liberazione di Orléans nel 1429 ridando morale alle truppe
francesi. Quando anche il duca di Borgogna si riconciliò con Carlo VII nel 1435, in cambio dell’indipendenza,
il re riuscì a porre fine al conflitto con una serie di decisive vittorie tra 1449 e 1451. Dal 1453 agli inglesi rimase
in territorio francese solo il porto di Calais. Dopo la guerra entrambi i regni assunsero una fisionomia stabile,
destinata a durare nel tempo. Il regno d’Inghilterra si delimitò nei suoi assetti territoriali alle regioni insulari,
mentre quello di Francia consolidò la sua estensione nel continente. Dopo iniziali rivolte venne accettato il
principio che il re agiva per il bene comune e i sovrani poterono imporre tasse dirette sempre più stabili grazie
ad apparati fiscali più articolati e specializzati. Anche gli eserciti furono ristrutturati.

25.2 Lo stato francese


Il processo di formazione statale fu più intenso in Francia e in Inghilterra rispetto agli altri regno europei: solo
in essi i poteri monarchici riuscirono a delimitare fortemente quelli degli altri corpi politici. In Francia già
Filippo IV (1285 – 1314) fu capace di attuare decisi interventi di rafforzamento patrimoniale e fiscale. L’esito
favorevole del conflitto con il papato, per esempio, gli consentì di attuare confische ai danni del clero e di
incamerare nel 1312 i ricchi beni francesi dell’ordine dei Templari, dedito ormai da tempo quasi
esclusivamente ad attività economiche e bancarie. Egli rafforzò anche gli uffici periferici con funzionari pagati
dalla corona. Tra 1330 e 1380 circa la pressione fiscale si inasprì per le spese belliche dando luogo a conflitti
sociali che furono in parte composti da un più intenso coinvolgimento degli stati generali e provinciali. Tra
1380 e 1430 circa, invece, l’autorità del re si indebolì profondamente per motivi dinastici e per le vicende
della guerra, e la corte divenne luogo di confronto e di scontro tra fazioni contrapposte. Tra 1430 e 1490 circa,
la ritrovata autorità regia che guidò la liberazione della Francia dalla presenza inglese promosse un deciso
rafforzamento del controllo monarchico del territorio del regno, grazie al radicamento di un apparato di
ufficiali ormai inamovibili e all’integrazione nello stato dei principati periferici. Nel 1328 fu redatto il primo
censimento fiscale del territorio regio e nel 1341 introdotta la gabella del sale. Il controllo strategico delle
entrate fiscali fu affidato a specialisti: i cosiddetti “ricevitori”. Quando nel 1392 Carlo VI fu riconosciuto
incapace di governare emersero due fazioni contrapposte. Quella guidata dal fratello del re, Luigi d’Orleans,
che assunse la reggenza del regno, sostenne la continuità della politica fiscale che favoriva i gruppi sociali
esenti dalle imposte (nobiltà, clero e ora anche gli stessi ufficiali) d della crescita degli apparati amministrativi
che la rendevano possibile. Le si opponeva la fazione guidata dal duca di Borgogna, Filippo l’Ardito, zio
paterno di Luigi d’Orléans, fautrice di una riforma in senso antifiscale che limitasse il potere d’azione degli
ufficiali regi, e sostenuta da altre componenti sociali del regno: la nobiltà minore, le élites urbane mercantili,
le stesse masse popolari parigine. La fazione degli armagnacchi, così chiamati quando ne assunse la guida il
conte Bernardo d’Armagnac dopo l’assassinio di Luigi d’Orleans nel 1407 che precipitò il paese nella guerra
civile, sostenne la centralità della corte regia. La fazione dei borgognoni finì invece con l’appoggiare le pretese
dei re inglesi sulla corona francese, affiancandoli nella guerra: furono i borgognoni a catturare Giovanna
d’Arco e consegnarla agli inglesi nel 1430. Il sostegno nazionale alla ripresa dell’iniziativa regia con Carlo VII
(1422 – 1461) consentì al sovrano di procedere a un marcato accentramento dei poteri monarchici. Più che
negli altri stati, in Francia si sviluppò un diffuso sentimento di identità nazionale. A concorrervi furono sia le
lunghe e drammatiche vicende della guerra contro gli inglesi, sia l’emancipazione della Chiesa locale
dall’autorità di quella romana. Anche la vicenda di Giovanna d’Arco, che incarnò un patriottismo mistico in
cui la fede in Dio e la libertà della Francia si fondevano, contribuì ad alimentare il sentimento nazionale
soprattutto dopo che nel 1431 gli inglesi la fecero condannare al rogo come eretica e sospetta di stregoneria.
Riabilitata nel 1456, Giovanna è considerata la santa nazionale francese.

25.3 Lo stato inglese


L’affermazione di forme statali più complesse si caratterizzò in Inghilterra per il maggiore equilibrio tra il
potere della corona e le altre forze politiche del regno, già insito nel precoce riconoscimento della Magna
Charta. Centrale, in questo processo, risultò il ruolo del parlamento, che concorse alle grandi scelte del regno.
Tra il 1320 e il 1340 il parlamento divenne una vera e propria istituzione di governo, stabile e codificata, con
responsabilità legislative e fiscali. E si venne anche articolando in una camera alta (la House of Lords, cioè
degli aristocratici), e in una camera bassa (la House of Commons, cioè dei rappresentanti delle contee e delle
città), che presto si dotò di un portavoce (speaker) che ne sosteneva gli interessi. Si venne così creando un
sistema politico bilanciato tra gli interessi delle élites regionali e la struttura amministrativa regia che si era
definita. Nelle contee, nel 1327 furono introdotti i giudici di pace (justices of the peace) che ne assorbirono
funzioni giudiziarie e di polizia. La media e piccola aristocrazia regionale cominciò a crescere ulteriormente
di status mettendosi al servizio sia del re sia dei Lords. La grande aristocrazia era costituita invece da poche
decine di lignaggi potenti, dotati di titoli (conti, duchi) conferiti dal re. Pur dotandosi di grandi clientele essa
non riuscì a costituire dei principati territoriali proprio per l’appoggio dato dai sovrani alla piccola nobiltà.
L’equilibrio politico tra le diverse componenti del regno non fu esente da conflitti. Le conseguenze fiscali della
guerra contro i francesi determinarono rivolte e malessere sociale alla fine del 300. La perdita delle rendite
e dei beni posseduti in Francia schierò contro il sovrano la grande nobiltà alla fine del regno di Enrico VI. Gli
aristocratici si divisero in due fazioni guidate l’una dalla dinastia regnante dei Lancaster e l’altra dalla casata
degli York: la prima ebbe come simbolo una rosa rossa, la seconda una rosa bianca. Da qui il nome di guerra
delle due Rose per indicare le furiose lotte intestine che insanguinarono il paese fra il 1455 e il 1485. I conflitti
stremarono i grandi aristocratici. I loro feudi e i loro beni furono confiscati dai sovrani, che li incamerarono
nel demanio regio. Quando Enrico VII della casata dei Tudor, imparentata con i Lancaster, sconfisse Riccardo
III di York nel 1485 e sposò nel 1846 Elisabetta di York, mettendo fine al lungo conflitto, trovò un patrimonio
della corona enormemente incrementato. L’effetto finale della guerra civile fu così il rafforzamento del
potere monarchico. Le ambizioni di espansione territoriale del regno inglese si rivelarono fallimentari anche
nei confronti della Scozia e delle Fiandre. Anche in Inghilterra emerse un sentimento di appartenenza
nazionale che, a differenza della Francia, riguardò principalmente le élites del regno. L’impegno bellico
comune fece svanire del tutto la plurisecolare distinzione tra gli antichi sassoni e i più recenti normanni.
Significativamente, a corte, dove dai tempi di Guglielmo il Conquistatore si era parlato francese, l’inglese
cominciò a essere impiegato sistematicamente soprattutto per l’impulso dato sa sovrani come Enrico IV ed
Enrico V nei primi decenni del XV secolo. La Bibbia fu tradotta nel 1380 e i “Racconti di Canterbury” scritti da
Geoffrey Chaucer nel 1387 fondarono la letteratura nazionale inglese. Il mancato coinvolgimento popolare
si spiega col fatto che la guerra contro i francesi non fu combattuta in terra inglese, e non dette luogo a forme
di reazione popolare analoghe a quelle che, in Francia, fecero emergere figure come Giovanna d’Arco.

26 Altre esperienze statali


26.1 Gli stati iberici
Anche nei regni iberici che si erano consolidati dopo la “reconquista” si possono osservare delle tendenze
comuni verso la formazione dello stato. Anche qui i rapporti tra la monarchia e i corpi politici furono mediati
attraverso le assemblee rappresentative (cortes) che riunivano clero, nobiltà e delegati cittadini. Il peso
politico e l’irrequietezza militare della nobiltà rimasero ovunque centrali. Crescente si fece il ruolo delle élites
delle città, cui i re avevano concesso ampie autonomie. Il rafforzamento dei poteri dei re portoghesi subì
un’accelerazione con Dionigi I (1279 – 1325, che contrappose alla potenza nobiliare il sostegno alle élites
mercantili, fondando l’università a Lisbona, promuovendo lo sviluppo dei commerci e avviando la creazione
di una flotta da guerra. Le cortes acclamarono re Giovanni I della nuova dinastia degli Aviz. Essa promosse le
esplorazioni geografiche lungo le coste nord – occidentali africane. Il controllo delle rotte marittime
attraverso le basi commerciali e militari lungo le coste, diede ai portoghesi il monopolio delle spezie.
L’afflusso di grandi ricchezze, tuttavia, non trasformò la struttura economica del paese, che rimase
sostanzialmente agricola. In Castiglia le tendenze all’accentramento dei poteri monarchici apparvero evidenti
fino alla metà del XIV secolo. Già Alfonso X aveva promosso una grande opera di unificazione giuridica (Las
siete partidas), che fu ulteriormente completata nel 1348 da Alfonso XI. Le leghe urbane erano dette
“hermandades” (fratellanze). Dopo che Enrico II di Trastàmara conquistò il trono con le armi e l’appoggio
francese nel 1369, il dualismo politico più intenso divenne quello tra il re e la nobiltà che lo aveva sostenuto.
Il ruolo politico delle cortes perse centralità mentre crebbero le relazioni clientelari che facevano capo alla
corte regia. Il carattere composto del regno d’Aragona fu di freno al rafforzamento delle istituzioni
monarchiche. Il regno di configurò piuttosto come una confederazione in cui le diverse componenti (Aragona,
Catalogna, Valencia e Maiorca) formalizzarono per iscritto le proprie consuetudini e negoziarono privilegi
generali di tipo diverso con la monarchia, influenzati dalla diversa prevalenza delle forze sociali: la nobiltà
nell’Aragona, le élites mercantili nelle altre regioni costiere e mediterranee. Sin dal 200 gli interessi economici
dei mercanti catalani, in primo luogo quelli di Barcellona, erano riusciti a incanalare la politica di potenza
della monarchia e la vocazione militare della nobiltà del regno verso una politica di espansione nel
Mediterraneo. Alla conquista delle Baleari, della Sicilia e della Sardegna, fece seguito nel corso del XIV secolo
anche l’acquisto di alcuni possedimenti nell’arcipelago egeo; la Sicilia fu pienamente incorporata nel regno;
nel 1442 fu acquisito anche quello di Napoli per opera di Alfonso il Magnanimo (1416 – 1458), che cercò di
allargare la sua sovranità anche ad alcuni stati balcanici e creò un vasto dominio mediterraneo della corona
d’Aragona. La lunga lontananza di Alfonso, che aveva fissato la sua residenza a Napoli, provocò gravi squilibri
politici all’interno del regno che, dopo la sua morte, degenerarono in una guerra civile di enormi proporzioni
che coinvolse negli anni 1462 – 1472 le campagne e le città catalane. Solo quando nel 1469 Isabella, erede al
trono di Castiglia, sposò Ferdinando II, erede al trono d’Aragona, si posero le basi per la pacificazione e la
formazione di uno stato nazionale “spagnolo”. Il processo di integrazione fra i due regimi, riunificati nella
corona, fu lento e contrastato. I sovrani puntarono a creare un elemento unificante mobilitando a una
rinnovata crociata contro i nemici della cristianità. Nel 1481 fu rilanciata la reconquista, che portò alla caduta
nel 1492 dell’ultimo emirato musulmano in terra iberica, quello di Granada, che era sopravvissuto fin dal
1238. La sua popolazione fu sottoposta a una cristianizzazione forzata. Nello stesso anno furono espulse dal
regno anche le numerose comunità che ebraiche. A vigilare sulla purezza della fede dei territori “liberati” dai
suoi nemici fu posto il tribunale dell’inquisizione, guidato dal domenicano Tommaso di Torquemada che
perseguitò inflessibilmente ogni sospetto di eresia.

26.2 Una varietà di configurazioni


Pur senza raggiungere la sostanziale indipendenza che consentì ad alcune città italiane di creare degli stati
territoriali, le ricche città mercantili delle Fiandre, del Brabante e dell’Hainaut riuscirono ad ottenere nel
corso del XIV secolo ampi margini di autonomia dal regno di Francia dopo la vittoria militare a Courtrai nel
1302. Approfittando della guerra franco – inglese, venne formandosi tra la Francia e l’impero un ampio
ducato centrato sulla Borgogna e poi progressivamente esteso alla Lorena, al Lussemburgo, alle Fiandre, al
Brabante, alla Piccardia e ai paesi bassi. I duchi, a cominciare da Filippo l’Ardito, fratello del re di Francia,
acquisirono l’indipendenza della Francia nel 1435. Il loro dominio, per quanto eterogeneo, comprese aree di
avanzata economia agricola e grandi centri manifatturieri e commerciali. Un’alleanza tra comunità di
montagna si cominciò a formare, invece, nel cuore delle Alpi nord – occidentali sottoposte alla giurisdizione
degli Asburgo, alla morte di Rodolfo I nel 1291. Le prime ad associarsi furono quelle di Uri, Unterwalden e
Schwyz, da cui poi presero il nome di “svizzeri” tutti i confederati. Tra 1332 e 1353 ai tre cantoni iniziali se ne
aggiunsero altri cinque, compresi quelli di importanti centri urbani e mercantili come Lucerna, Zurigo e Berna.
Nel corso del XV secolo l’alleanza si espanse ulteriormente, affrontando conflitti con le potenze signorili
confinanti degli Asburgo, dei Savoia e dei duchi di Milano e di Borgogna, grazie anche a una non comune
capacità militare dei fanti svizzeri, che servirono come mercenari anche in molti altri eserciti dell’epoca. Nel
1499 l’imperatore Massimiliano I riconobbe definitivamente l’autonomia della Svizzera.

SNODO 10 L’Italia del tardo medioevo


Il processo di formazione dello stato assunse in Italia forme specifiche tra XIV e XV secolo. La radicata
tradizione dei poteri locali impedì la formazione di una monarchia nazionale come stava aacadendo
contemporaneamente nell’Europa d’Oltralpe. Prevalse invece il policentrismo politico, con percorsi differenti
a seconda delle regioni: intorno alle città nell’Italia comunale, intorno alle Monarchie nel mezzogiorno,
intorno a pochi principati territoriali nell’arco alpino e subalpino, in forme più eterogenee nel dominio
pontificio. I governi centrali riuscirono ad affermare il loro potere solo in camio di concessioni e privilegi e di
accordi politici con i poteri locali. La frammentazione politica fu progressivamente ricomposta, a costo di una
lunga competizione politica e militare, intorno ad alcuni poli politicamente più forti: Milano, Venezia, Firenze,
Napoli e lo stato pontificio.

27 UN SISTEMA POLITICO FRAGILE


27.1 Le “anomalie” italiane
Nell’ultimo secolo l’Italia fu protagonista di una serie di processi politici che la differenziavano
profondamente dal resto dell’Europa occidentale. Essi contribuirono a farne una regione avanzata di civiltà,
ma anche a rafforzarne alcuni caratteri strutturali che la resero più debole, in prospettiva, rispetto ai grandi
stati europei. Le “anomalie” italiane possono essere sintetizzate sostanzialmente così: le città furono troppo
forti, le monarchie troppo deboli. Le città del centro-nord conobbero tra XII e XIV secolo uno straordinario
sviluppo, senza uguali nell’Europa del tempo, ponendosi all’avanguardia per le loro ricchezze, i traffici
internazionali, le affinate tecniche finanziarie, oltre che le avanzate esperienze di autogoverno e il primato
artistico e letterario. Ma mentre nelle grandi monarchie europee i centri mercantili avevano visto garantita
la possibilità di un intensa attività commerciale, all’interno di stati più ampi che le difendevano militarmente
e le tutelavano economicamente, le grandi città mercantili e manifatturiere italiane si dovettero trasformare
loro stesse in stati territoriali tra XIV e XV secolo, con largo dispendio di risorse economiche e a costo di non
indolori ristrutturazioni degli assetti politici. Al contempo, il rafforzamento delle monarchie sembrava
avvicinare l’Italia meridionale all’Europa per l’analogia dei processi di affermazione del potere regio. Le città
meridionali non conobbero uno sviluppo economico e sociale tale da proporre reti di mercanti sulle piazze
internazionali. Ai sovrani meridionali mancò cioè l’appoggio decisivo di una forte componente borghese nella
costruzioni di solidi assetti statali. Si aggiunga poi un’ulteriore peculiarità italiana: la presenza di un precoce
Stato della Chiesa, che sempre opeò alla difesa della propria sopravvivenza e si adoperò a difesa della propria
sopravvivenza e che si frappose tra l?Italia delle città e degli stati territoriali e quella dei regni. La realtà
istituzionale italiana fu dunque policentrica, come quella dell’area tedesca. Ma se in Germania la
sopravvivenza della sovranità imperiale fornì una cornice di riferimento, in Italia nessuna delle forze statali
risultò abbastanza forte da egemonizzare le altre, e tutte furono in grado di contrastare l’espansionismo delle
altre. Alla fine del XV secolo l’Italia era, e soprattutto appariva all’estero, un paese ancora molto ricco, al
centro dei traffici mediterranei questo divenne uno degli obiettivi della lotta per l’egemonia continentale tra
le grandi monarchie nazionali. L’Italia aveva conosciuto attacchi da parte di potenze estere anche nei secoli
precedenti: dall’impero fino agli stessi Angiò e Aragonesi. La differenza era che alla fine del Quattrocento si
mossero verso la penisola stati pontenti capaci di effettuare conquiste territoriali stabiòì e di incorporarle
entro i propri quadri statali. Gli stati italiani non furono in grado di regger l’urto con le potenze transalpine.
La mancata unificazione territoriale costituì un grave elemento di debolezza del sistema politico italiano. Nel
giro di pochi decenni l’indipendenza di molti stati venne meno e numerose regioni furono poste sotto il
dominio straniero per molti secoli.

27.2 La frammentazione politica


L’Italia del tardo medioevo fu caratterizzata da un accentuata frammentazione politica. A ostacolare i
tentativi di costruire uno stato di grandi dimensioni si pose sempre il papato, che temeva di vedere
minacciato il proprio dominio territoriale. La lunga stagione dello scisma però fece deporre al papato ogni
residua ambizione universalistica e di primato europeo. Da allora laa sua azione politica si limitò allo scenario
italiano, puntando a un controllo più saldo del suo stato territoriale. Investito dal papa del regno di Sicilia,
Carlo I se ne impossessò sconfiggendo gli ultimi svevi a Benevento e Tagliacozzo e fissando a Napoli la capitale.
Da lì egli coordinò una azione politica ad ampio raggio che lo portò a fare riconoscere la propria autorità
anche a molte città comunali: i Piemonte, Toscana, Lombardia. Fu proprio da quegli anni che il termine
“ghibellino” cominciò a essere usato sistematicamente per indicare i nemici dell’alleanza chesi era stretta tra
la casata di Francia, il papato e Firenze. Dopo l’estinzione della dinastia sveva, gli imperatori si riaffaciarono
in Italia solo nella prima metà del Trecento. La discesa di Enrico VII di Lussemburgo tra 1310 e 1313 fu ispirata
dal programma di pacificare le lotte interne alle città sotto l’alta sovranità imperiale.esso si infranse però
contro la tenace resistenza dell’alleanza guelfa guidata da Firenze e da Roberto d’Angiò, re di Napoli;
l’imperatore finì con l’appoggiarsi allo schieramento “ghibellino”, guidato dai Visconti e dai Della Scala, ma
la sua azione non ebbe successo. Anche la spedizione di Ludovico di Baviera fu sollecitata dal fronte
ghibellinop e non ebbe risultato, oltre alla sua incoronazione a Roma da parte di un rappresentante del
popolo romano. L’ultimo imperatore a farsi incoronare a Roma fu Carlo IV di Lussemburgo nel 1355 che,
consapevole di poter esercitare un potere effettivo solo sulla Boemi e su poche altra aree tedesche, rinunciò
a ogni ambizione effettiva di autorità in Italia, limitandosi a dispensare diplomi e riconoscimenti. L’alleanza
potente che si venne a creare tra il papato e gli Angiò fu all’origine di un processo di progressivo
coinvolgimento di tutte le realtà politiche italiane in due grandi schieramenti: da un lato quello guelfo, che
inquadrò gli alleati dei sovrani angioni e dei pontefici; dall’altro quello ghibellino, dove militarono coloro che
si opponevano all’altro fronte nella speranza di un rinnovato intervento imperiale in Italia. Le parti che
all’interno delle città per il potere si inserirono progressivamente in queste ampie coordinazioni politiche,
che colegavano realtà tra loro separate offrendo aiuto militare alle parti in conflitto e sostegno materiale ai
fuoriusciti. Il riaffacciarsi degli imperatori in Italia offrì l’occasione ai signori cittadini di rafforzare la propria
autorità attraverso l’attribuzione del titolo di vicario, in cambio di cospicui tributi: Enrico VII lo concesse nel
1311 a Cangrande della Scala su Verona, a Rizzardo da Camino su Treviso, a Matteo Visconti su Milano, a
Rainaldo Bonaccolsi su Mantova. Irreversibili divennero fenomeni come la dinastizzazione delle cariche, la
creazione di organi di governo dipendenti direttamnte dai signori, lo svuotamento dei poteri delle assemblee
cittadine, l’abolizione di uffici comunali, la formazione di vere e proprie corti, nel quadro di un tangibile
consolidamento autoritario del potere. Il processo di ricomposizione territoriale che altrove in Europa fu
realizzato dai sovrani e dai principi territoriali, nell’Italia centro-settentrionale fu avviato da quelle 40-50 città
che tra XII e XIII secolo costituirono un proprio contado, assoggettando i signori, le comunità rurali e gli altri
potenti presenti sul territorio. Dall’intensa competizione politica e militare che durò fino alla metà del XV
secolo emerse un sistema politico centrato su pochi stati di medie dimensioni regionali e su alcune formazioni
politiche più piccole. L’Italia del sud era da tempo organizzata politicamente in forma monarchica accentrata.
Il titolo regio poneva i sovrani meridionali per dignità al di sopra degli altri signori italiani. A ben vedere, l’Italia
più simile al resto dell’Europa occidentale era questa, caratterizzata dalla preponderanza della nobiltà, dallo
sviluppo delle assemblee rappresentative e da analoghi processi di formazione in senso statale. A differenza
di quanto avvenne in altre aree d’Europa, però, il superamento della frammentazione politica non diede
luogo in Italia alla formazione di uno stato unitario nazionale. La ricomposizione territoriale promossa da una
monarchia vi fu frenata dal forte particolarismo locale, che era l’esito della varietà straordinaria di situazione
culturali e civili locali che avevano caratterizzato in modo originale la storia del paese: un particolarismo che
caratterizzò non solo le vicende politiche ma anche quelle dei “corpi” intermedi, vale a dire dei privilegi
accumulati e tenacemente difesi dagli ordini, dalle corporazioni e dai ceti.

28 GLI STATI
28.1 Gli stati territoriali
Tra XIV e XV secolo il quadro frammentato e instabile dell’Italia comunale e signorile fu ricomposto in un
sistema politico più strutturato e stabile di stati territoriali a dimensione regionale. Rispetto agli stati europei
di impanto monarchico, gli stati territoriali presentano molto analogie e una sostanziale differenza. Anche
negli stai italiani le autorità superiori non esercitarono mai la totalità dei poteri sul territorio, ma la
condivisero con una varietà di “corpi” territoriali, in un ordinamento di tipo “dualistico”. Le formazioni
territoriali italiane furono anch’esse realtà composite, ricche di nuclei di potere, privilegi e diritti locali. Con
essi le autorità dominanti furono costrette a negoziare parri, riconoscendo ampie facoltà al governo locale.
La differenza che caratterizzò l’esperienza delle realtà statali italiane fu data invece dal diverso ruolo che vi
giocarono le città. In Italia a promuovere la formazione dei maggiori stati territoriali furono grandi città come
Firenze, Venezia e anche Mialno. In Europa non si ebbero esperienze analoghe. La costruzione di realtà statali
territoriali determinò l’adeguamento delle strutture di governo alle nuove esigenze. Il grosso delle entrate
continuò a venire dalle imposte indirette, cioè dazi sulle merci e gabelle sui consumi, ma su quelle dirette si
affinarono i sistemi di accertamento delle ricchezze e di riscossione dei tributi. Nel 1407 Genova creò un
apposito banco (San Giorgio) per attirare investimenti anche dall’estero. L’impulso alla formazione di stati
territorili italiani fu dato dalla politica espansionistica che caratterizzò tutta l’esperienza dei Visconti. Fu Gian
Galeazzo a imprimere nuovamente un forte dinamismo militare al suo dominio che, oltre a comprendere il
Canton Ticino, buona parte della Lombardia e Piemonte orientale, giunse a comprendere Verona, Vicenza,
Padova e Belluno; distruggendo le signorie dei Della Scala e dei da Carrara di Padova, e si spinse in Italia
centrale arrivando a Pisa, Siena, Perugia, Spoleto e Bologna. Alla morte improvvisa del duca nel 1402 si
ridimensionò l’intenzione di costituire un intero regno italiano. Le conquiste territoriali furono disperse
nuovamente, e solo il secondogioenito Filippo Maria riuscì a ricompatarle intorno a un profilo più
limitatamente “lombardo” dello stato visconteo. Nel 1395 Gian Galeazzo Visconti acquistò dall’imperatore
Venceslao, per 10000 fiorini, il titolo di “principe e duca” di Milano. Il duca potè così utilizzare le relazioni
feudali per legare a sé sia le signorie locali sia le comunità rurali. Negli apparati centrali e in quelli periferici
egli nominò individui provenienti da tutti il ducato. Milano infatti non era la dominante ma solo la residenza
del duca, e il patriziato milanese fu coinvolto in modo non esclusivo nel governo dello Stato. Alla morte senza
eredi di Filippo Maria si istituì una “repubblica ambrosiana” che durò dal 1447 al 1450. Firenze venne
formando il proprio stato territoriale con maggiore continuità e più saldo controllo rispetto a quello visconteo.
L’impulso, per un gruppo dirigente fatto di non guerrieri ardimentosi ma di mercenari facoltosi, fu
eminentemente difensivo, volto a tutelare l’indipendenza della città e la libertà dei suoi commerci. Non
infrequenti furono gli acquisti in denaro, come nel caso di Arezzo, Prato e Livorno, rispetto alle sottomissioni
per via militare. L’espansione fiorentina fu agevolata dalla crisi demografica che coolpì profondamente la
Toscana, impoverendo gli uomini di richezze le città che aveva sottomesso. La relativa debolezza del territorio
che aveva assoggettato consentì ai fiorentini di imporre una struttura centralizzata di governo, attraverso
una rete di uffici territoriali tutti riservati al patriziato della dominante. Anche Venezia aveva coltivato da
secoli la propria vocazione mercantile, concentrando tutti i suoi sforzi nella costruzione, nei porti nel
Mediterraneo orientale, di un “Dominio del mar” funzionale a tutelarne i commerci. Nell’Adriatico Venezia,
Spalato, Ragusa e Durazzo. La minaccia portata da Gian Galeazzo Visconti portò alla profonda svota strategica
di formare un domnio anche in Terraferma, dove Vnezia si era limitata a occupare solo Treviso nel 1339,
assoggettò poi Belluno, Vicenza, Verona, Brescia e Bergamo. Un apposito consiglio di “savi” di Terraferma
affiancò nel XV secolo il doge per la gestione del territorio. Anche il doge ottenne nel 1437 il tiolo di “vicario”
imperiale, che consentì di far dipendere feudalmente dalla “repubblica” le aree signorili del dominio. Tra i
pochi stati che sopravvissero alla semplificazione della gepgrafia politica dell’Italia settentrionale ebbero un
certo rilievo 3 domini signorili. Di impianto cittadno era quello degli Este e dei Gonzaga. I primi si
concentrarono su Reggio, Modena e Ferrara; i secondi si limitarono a Mantova. Il terzo esempio è quello dei
Savoia che si era strategicamente estesa sui territori rurali delle Alpi Occidentali, tra i passi che collegavano
Francia e Italia. Intercalati gli altri stati territoriali sopravvissero anche alcuni stati monocittadini, vale a dire
perduranti domini di città che non ne sottomisero altre ma che si limitarono a controllare i territori rurali
poco più ampi dei contadi di partenza. Fu il caso di Lucca e Siena. Genova, invece, pur minacciata dai Visconti
non si trasformò in una potenza territoriale come Venezia, ma si limitò a controllare i centri costieri della
Liguria e la Corsica.

28.2 Lo stato pontificio


Lo stato pontificio aveva inziato ad acquisire consistenza nel corso del XIII secolo, culminata nella concessione
della Romagna da parte dell’imperatore Rodolfo d’Asburgo nel 1278. Il dominio comprendeva formalemnte
7 province, con a capo un rettore: Romagna, marca d’Ancona, ducato di Spoleto, Tuscia, Sabina Marittima e
Campagna. Nei fatti, l’esercizio dell’autorità pontificia era assai discontinuo per l’eterogenea presenza di
nuclei autonomi di potere: signorie rurali e feudali. Lo spostamento ad Avignone della corte pontificia
impoverì il dominio, e ne acuì le condizioni di disordine politico. La città stessa, calato il flusso dei pellegrini
dopo il giubileo del 1300, ripiegò la sua ridotta vita sociale e politica. Durante il lungo periodo dello scisma la
sovranità pontificia rimase quasi ovunque meramente nominale. Solo con Martino V. e poi con Eugenio IV e
Niccolò V il controllo delle terre pontificie tornò a essere effettivo. Come negli altri stati territoriali, i pontefici
negoziarono con le città, le comunità e i signori locali accordi e patti. Grandi centri come Bologna e Perugia
mantennero il controllo dei propri contadi, e le loro antiche magistrature continuarono a governare in
sotanziale autonomia in cambio della giurata fedeltà del papa.

28.3 I regni
Carlo I d’Angiò si insediò militarmente nel regno di Sicilia nel 1266, con l’appoggio politico del papato e il
sostegno economio dei banchieri fiorentini. Egli concesse in feudo ai cavalieri francesi che lo avevano seguito
in armi nell’impresa, affidò ad ecclesiastici francesi vescovadi e abbazzie, e inserì burocrati francesi
nell’amministrazione regia. Tutte misure che suscitarono il malcontento delle popolazioni locali, soprattutto
in Sicilia dopo che la capitale fu spostata da Palermo e Napoli. L’aristocrazia siciliana mantenne viva l’identità
ghibellina che si manifestò con un insurrezione armata nel 1268 quando lo svevo Corradino tentò di
riconquistare il regno. Si spiega pertanto perché, dopo la rivolta contro i francesi che scoppiò a Palermo
all’ora del vespro del lunedì di pasqua del 1281. La rivolta dei Vespri aprì un lungo conflitto internazionale di
cui segnò una svolta importante nel 1296 l’offerta della corona di re di Sicilia al figlio del re aragonese che, in
eloquente continuità filosveva, si dichiarò Federico III. Affidata a un ramo cadetto degli Aragona, la cornona
siciliana si separò da quella di Barcellona, dando vita a un regno autonomo, detto di Trinacria. Federico III
introdusse il parlamento, sul modello pattizzio delle corts catalane, e decentrò una serie di funzioni
amministrative alle citta demaniali (cioè regie). Alla sua morte l’aristocrazia si divise in fazioni (“catalana” e
“latina”) che si batterono per decenni per dividersi i maggiori uffici dello stato. Dopo la morte di Federico IV
nel 1377 i capi delle grandi famiglie baronali si divisero il regno, governandone le diverse aree col titolo di
vicari, in una situazione di accentuata anarchia. Gli Angiò si concentrarono sul governo del regno di Napoli
che diventò il cuore politico del guelfismo italiano. Il potere baronale era più forte che in Sicilia, arrivando a
costituire dei principati territoriali, con ampie autonomie giurisdizionali e strutture burocratiche, come
furono, per esmpio, quelli di Salerno, di Taranto o del Sannio. I re si indebitarono crescentemente anche con
i banchieru fiorentini, che in cambio delle ingenti anticipazioni ricevettero privilegi doganali, feudi e uffici,
finendo con esercitare una pesate influenza sulla corte, dove era potentissima la famiglia fiorentina degli
Acciaiuoli. Il regno di Napoli conobbe un lungo periodo di splendore con Roberto I: cultore di teologiia e di
letteratura, era considerato uno dei monarchi più saggi della cristianità; capo riconosciuto del guelfismo
italiano, signore per molti anni di comuni come Firenze, Genova e Roma. Napoli divenne uno dei centri più
importanti della vita intelletuale del tempo. Sia il regno di Napoli sia quello di Sicilia costituivano due stati
territorialmente compatti ma caratterizzati dalla debolezza del potere regio. Decisivo si rivelò l’appoggio,
dopo un’iniziale ostilità, di Filippo Maria Visconti, con il quale nacque un nuovo asse politico italiano cui si
contapposero Genova e Firenze. Alfonso V, detto il Magnanimo, ricostruì l’antica unità del regno meridionale:
insieme con la Sardegna, esso fu collegato nella persona del sovrano ai vati possessi della corona d’Aragona,
venendosi a trovare proiettato nella rete mediterranea dei commerci catalano-aragonesi. Alfonso stabilì la
propria corte a Napoli, che tornò a riofiorire anche sul piano culturale. Suo figlio Ferrante proseguì l’opera di
riorganizzazione amministrativa e fiscale, di appoggio alle città, e di contenimento della feudalità. Nel regno
di Napoli, l’economia ebbe un’accellerazione. È indubbio però che la presenza dei mercati forestieri, e toscani
in particolare, frenò lo sviluppo di una solida imprenditoria meridionale. Deboli furono sempre la produzione
di manufatti, largamente importanti, e la presenza di mercati meridionali nelle piazze estere.

28.4 La crisi del sistema


La competizione politico-militare conobbe un’ulteriore accellerazione nei decenni centrali del secolo quando
l’alleanza tra i Visconti e gli Aragonesi insediò con le armi sul regno di Napoli Alfonso V nel 1442 e la morte
senza eredi di Filippo Maria Visconti nel 1447 scatenò lo scontro per la successione del ducato di Milano. Nel
1450 esso pervenne nelle mani del condottiero marchigiano Francesco Sforza, che aveva sposato una figlia
naturale di Filippo Maria e che era stato chiamato dal patriziato milanese a difendere la fragile repubblica
ambrosiana. A sostenerlo furono i fiorentini, anche per contrapporsi all’avanzata che i veneziani avevano
attuato in Lombardia occupando Lodi e piacenza, con il consenso e l’appoggio del duca di Savoia e del re di
Napoli. La guerra si trascinò fino al 1453, quando la notizia della caduta di Costantinopoli indusse i veneziani
a concentrarsi nuovamente sulle vicende del loro “dominio da mar”, minacciato dall’avanzata dei turchi. La
vicenda di Francesco Sforza fu la più compiuta di un fenomeno che caratterizzò la scena politica italiana del
XV secolo, vale a dire la creazione di domini signorili da parte dei condottieri. Alcuni di loro finirono col
mettere radici negli stati che servivano come fu il caso di Braccio di Montone o di Francesco Sforza. Una pace
fu stipulata a Lodi nel 1454, sancendo l’ascesa di Francesco Sforza al ducato di Milano e alcune delle conquiste
di Venezia in territorio lombardo. Tra il 1454 e il 1455 fu stretta anche una lega tra gli stati situati “infra
terminos italicos”, cioè nei confini italiani. Essa prevedeva una durata di 25 anni rinnovabili, come poi
avvenne, e la creazione di un esercito comune per la difesa da eventuali attacchi dall’estero, a cominciare
dalle mai dismesse rivendicazioni angioine sul regno di Sicilia. Alla lega, promossa dal duca di Milano, da
Venezia e da Firenze, aderirono il papa, il re di Napoli, il duca d’Este e poi quasi tutti gli altri stati e potentati
minori. Lo scopo era quello di mantenere gli equilibri politici esistenti, impedendo ulteriori tentativi
espansionistici. Si consolidò così l’assetto del sistema politico italiano incentrato sui cinque stati maggiori:
ducato di Milano, stati territoriali di Venezia e di Firenze, stato pontificio e regno di Sicilia. L’obiettivo di
garantire la pace fu sostanzialmente raggiunto per circa un quarantennio, nonostante alcuni conflitti locali e
una condizione costante di precario equilibrio. Le difficoltà di coltivare una pace furono affrontate attraverso
la diplomazia. In questo senso molto si prodigò Lorenzo de’ Medici, la cui famiglia di banchieri aveva
affermato sin dal 1434 a Firenze una signoria, sia pure all’interno di un quadro istituzionale “repubblicano”.
La sua abilità diplomatica nasceva anche dalla consapevolezza che Firenze rappresentava lo stato più debole
e più esposto al rischio di perdere la propria indipendenza. Strumento essenziale per tessere la trama della
mediazione diplomatica fu la costituzione di ambascerie stabili presso le diverse corti italiane. Per un certo
periodo il sistema politico disegnato dalla lega italica assicurò stabilità ma non tranquillità. Negli stati che ne
costituivano l’asse diplomatico si susseguirono infatti alcune congiure che manifestarono la precarietà dei
loro assetti interni ma da cui non erano estranee le trame delle altre potenze. Nel 1476 fu assassinato
Galeazzo Maria Sforza, e assunse la reggenza per il figlio Gian Galeazzo lo zio Ludovico il Moro. Nel 1478
Lorenzo de’ Medici scampò a un agguato organizzato dalla famiglia fiorentina dei Pazzi, che gestiva le finanze
pontificie ed era sostenuta dal papa. A incrinare gli equilibri fu la politica di Sisto IV (1471 – 1484), che
appoggiò sistematicamente il disegno del nipote Girolamo Riario di crearsi uno stato nell’Italia centrale.
Nell’ultimo decennio del XV secolo l’equilibrio tra gli stati della penisola si ruppe definitivamente portando
al collasso il precario sistema politico italiano. La morte quasi contemporanea di alcuni dei protagonisti che
si erano pur sempre prodigati per ricomporre i conflitti (Lorenzo de’ Medici e papa Innocenzo VIII nel 1492 e
Ferrante d’Aragona nel 1494) contribuì a rendere ingovernabile la crisi che fu aperta dalla richiesta di
Ludovico il Moro al re di Francia Carlo VIII di Valois di intervenire contro gli Aragonesi di Napoli che
rivendicavano il ducato di Milano per via dinastica. Con l’appoggio interessato dei veneziani, il re di Francia,
che rivendicava a sua volta diritti su quello di Napoli in quanto discendente degli Angiò, scese col proprio
esercito in Italia tra il 1494 e il 1495 impossessandosi del regno senza opposizioni di rilievo. Il coinvolgimento
di una grande potenza straniera mise a nudo la strutturale debolezza degli stati italiani, più piccoli, meno
potenti e divisi tra loro. La discesa del re di Francia chiuse la fragile stagione dell’equilibrio autarchico e
inaugurò un duro periodo di contesa dei paesi stranieri per il controllo dell’Italia.

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