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4.2 I franchi
Una piena integrazione fu invece realizzata nel regno dei franchi. Più che una popolazione etnicamente
definita essi costituivano un insieme eterogeneo di tribù sparse, tra le quali emergevano i “salii”. Rispetto
alle altre popolazioni, i franchi si stabilizzarono più precocemente. Essi vissero a lungo sottoposti ai romani.
Nel 406 parteciparono alla difesa del confine imperiale sul Reno, come federati dei romani, e negli anni
sessanta combatterono contro i visigoti sulla Loira guidati da Childerico, che si propose come difensore
“romano” dell’intera popolazione del nord della Gallia. Fu Clodoveo (discendente di Meroveo, da cui il nome
di Merovingi attribuito alla dinastia) a superare il frazionamento tribale e ad affermare la sua autorità sugli
altri capi militari, ponendo le basi per la costruzione del regno ed estendendolo a nuovi territori. Nel 486 egli
sconfisse l’ultimo nucleo di resistenza gallo – romana e innestò il suo potere sulle precedenti strutture
amministrative romane, che erano ancora sostenute da un’attiva aristocrazia locale, da cui rilevò anche gran
parte del patrimonio fiscale. Clodoveo comprese l’importanza di stabilire dei rapporti stretti con l’episcopato
cattolico: nel 496 si fece battezzare dal vescovo di Reims, Remigio, presentandosi così alla popolazione gallo
– romana come protettore delle chiese. Il suo ruolo di sovrano fu ulteriormente rafforzato nel 508, quando
ricevette dall’imperatore bizantino il titolo di “patricius”, e nel 510, quando fece redigere il “Pactus legis
salicae”, che fissava per iscritto le norme di convivenza della sua popolazione. La morte di Clodoveo, nel 511,
portò alla spartizione del regno fra gli eredi. Quello dei franchi fu in realtà sempre un insieme di regni tra loro
conflittuali, benché non fosse venuta mai meno l’idea di un rganismo politico comune: ogni re si intitolava
“re dei franchi”. Nella grande potenza territoriale che venne così formandosi si distinguevano alcune regioni:
l’Austrasia (la “terra dell’est”), che restò sempre la regione più fortemente germanizzata; la Neustria (la
“nuova terra dell’ovest”), dove più profonda era stata la compenetrazione tra civiltà latina e germanica; la
Burgundia, l’antico regno dei burgundi, che conservò tenacemente la sua individualità politica e culturale; e
l’Aquitania che non costituì mai un regno a sé, dove assai scarsa era la presenza dei franchi e più radicate le
tradizioni gallo – romane. I regni riuscirono a superare i conflitti e a trovare una certa unità solo sotto i re
Clotario II (613 – 629) e Dagoberto (629 – 639). Essi dovettero però concedere ampie prerogative di governo
locale all’aristocrazia. Dalle famiglie aristocratiche locali erano reclutati anche gli ufficiali pubblici: i conti che
perlopiù risiedevano nelle città con compiti giudiziari e militari, e i duchi, a capo di più ampie circoscrizioni
territoriali. Approfittando della debolezza dei re nel corso del VII secolo l’amministrazione dei vari regni fu
sempre più controllata dai maestri di palazzo, i massimi funzionari di corte. Una grande famiglia
dell’aristocrazia austrasiana, quella dei Pipinidi, riuscì a rendere ereditaria tale carica e, con Pipino II di Herstal,
a riunire nelle sue mani nel 687 i ruoli di maggiordomo dei regni di Austrasia, Neustria e Burgundia. Il figlio
Carlo detto Martello (cioè piccolo Marte) avviò una forte espansione contro alamanni, bavari, turingi e
sassoni, e nel 732 condusse l’esercito franco nella vittoria di Poitiers contro una spedizione islamica,
arrestandone definitivamente l’avanzata verso nord. La vittoria fu di preludio alla deposizione del re
Childerico III ad opera del figlio di Carlo Martello, Pipino il Breve, che fu acclamato re dai grandi del regno nel
751. L’affermazione dei Pipinidi fu legittimata dalla loro alleanza con la Chiesa di Roma: Pipino si fece ungere
con il sacro crisma nel 754, dal papa Stefano II, che consacrò anche i figli Carlomanno e Carlo, il futuro Carlo
Magno.
5 BISANZIO
5.1 La tradizione dell’impero
Dissolto a Occidente nel V secolo, l’impero romano continuò la sua millenaria vicenda a Oriente. L’imperatore
Giustiniano elaborò un programma di restaurazione (renovatio imperii) per ridare all’impero la sua
estensione originaria e un assetto unitario. Gli eserciti imperiali abbatterono con successo il regno dei vandali
nell’Africa settentrionale nel 553 – 554. Le imprese comportarono però lunghe campagne militari e ingenti
oneri economici. Il grandioso programma di Giustiniano fu sostenuto da varie riforme. Sul piano religioso egli
si impegnò a tutela della Chiesa, rendendosi garante dell’ortodossia e perseguitando tutti i culti non cristiani,
dall’ebraismo a residui del paganesimo antico. Giustiniano cercò di rafforzare la rete dei funzionari statali e
promosse anche una sistematica revisione del diritto che portò alla redazione di un nuovo codice il “Corpus
iuris civilis”. I successori non ebbero le risorse finanziarie e militari per governare stabilmente l’intero spazio
Mediterraneo. La conquista parziale dell’Italia da parte dei longobardi nel 569 e l’abbandono definitivo della
penisola iberica nel 629 spostarono il baricentro verso l’Oriente. Nel 632 – 634 la Siria e la Palestina, nel 639
– 640 la Mesopotamia e l’Armenia ed entro il 645 l’Egitto, caddero sotto il dominio degli arabi. In poco meno
di un secolo, l’impero si ridusse a potenza regionale gravitante tra Egeo e Anatolia. Nel 678 gli arabi
assediarono Costantinopoli, nel 681 i bulgari crearono un regno nei Balcani, e negli anni successivi Bisanzio
perse gli ultimi avamposti nell’Africa settentrionale. Solo il cristianesimo restava a baluardo dell’identità
collettiva dell’impero. Una controversia religiosa divenne così un affare politico che ne travagliò a lungo la
vita. Nel 726 l’imperatore Leone III proibì la venerazione delle immagini sacre. La lotta iconoclastica era volta
a creare un fronte interno compatto contro il pericolo islamico. La mancata adesione delle regioni bizantine
segnò però l’irreversibile allontanamento della Chiesa di Roma da quella orientale. Approfittando della crisi
dell’impero islamico, Bisanzio riprese l’iniziativa nella seconda metà del IX secolo. I discendenti di Basilio I
(867 – 886) riuscirono ad affermare la successione ereditaria. Ciò permise alla dinastia dei Macedoni (867 –
1057) di guidare l’impero a una rinnovata fase di sviluppo politico, economico e militare. La riconquista si
spinse fino alla Siria, alla Mesopotamia e all’Armenia. Nell’871 si verificò una ripresa dell’economia che favorì
anche la rifioritura delle città. Qui venne formandosi una nuova aristocrazia (arconti) che possedeva terre ma
soprattutto uffici pubblici. I mercanti erano sottoposti invece a forti vincoli da parte dello stato.
L’investimento nel commercio fu sempre marginale nella società bizantina. La ricchezza continuò a basarsi
sulla terra. I vincoli posti al commercio si trasformarono in fattori di debolezza quando cominciarono ad
operare in Oriente i mercanti occidentali: la concessione nel 1082 di privilegi commerciali ai veneziani segnò
l’inizio del declino economico di Bisanzio. Nel 1054 si era prodotto anche lo scisma tra la Chiesa di
Costantinopoli e quella di Roma. Pur avviandosi al declino, la civiltà bizantina mantenne vive le proprie
caratteristiche: le tradizioni imperiali, il predominio dell’elemento greco e la connotazione ortodossa del
cristianesimo.
6 Islam
6.1 La civiltà in espansione
L’Arabia era abitata da tribù di beduini che praticavano l’allevamento e il commercio lungo le grandi piste
carovaniere che collegavano le oasi verso i mercati dell’Egitto, della Siria e della Mesopotamia. Il nomadismo
del popolo dava vita a confederazioni di tribù politicamente instabili. L’unico elemento di coesione era
costituito dai pellegrinaggi ala Ka’ba in occasione della fiera annuale che si trovava nella città di Mecca. Nato
qui nel intorno al 570 da un ramo del clan dominante, Maometto crebbe nel mondo delle carovane ed entrò
così in contatto con le religioni più diffuse, dall’animismo politeista al monoteismo ebraico e cristiano.
Ritirandosi in meditazione spirituale ebbe nel 610 la rivelazione fondamentale: l’angelo Gabriele gli ordinò di
diffondere la parola di Dio (Corano). La predicazione di un monoteismo rigoroso, senza compromessi, che
richiedeva la sottomissione assoluta (islam) del fedele alla volontà di Dio (Allah). Il profeta fu costretto a
riparare con i seguaci nell’oasi di Medina nel 622, data della cosidetta migrazione (ègira) da cui ha iniziato il
calendario islamico. La comunità raccolta intorno a Maometto si organizzò in forme nuove, non più sulla base
dei vincoli tribali bensì sulla condivisione della stessa fede, che sottoponeva tutti i mussulmani alla suprema
autorità del profeta. Maometto guidò personalmente le razzie contro i vari clan, constringendoli a
sottomettersi. Dopo anni di conflitti anche Mecca cedette nel 630 e fu eletta a luogo sacro dell’islam. La
predicazione di Maometto riuscì a dare un’identità unitaria a una moltitudine di irrequiete tribù. Alla morte
di Maometto nel 632 i problema della successione nella guida fu risolto con la crazione della figura del califfo,
incaricato di tenere unita la comunità e di fare rispettare la legge divina (sharia). I primi quattro califfi, tutti
parenti di Maometto, guidarono anche sistematiche campagne di guerra contro i più ricchi e fertili territori
bizantini e persiani. Nel giro di pochi decenni caddero iin mano degli arabi l’Egitto,la Palestina, la Siria, la
Mesopotamia e la Persia. Con l’elezione di Alì nel 656 esplose il conflitto tra quanti (i seguaci di Alì)
pretendevano che il califfo dovesse appartenere alla famiglia di Maometto e quanti (i kharigiti) sostenevano
il principio che potesse essere eletto qualsiasi fedele. Nel 661 questi ultimi ebbero la meglio sui partigiani di
Alì, che fu ucciso. Lo scontro aprì anche una frattura dottrinale fra mussulmani sunniti e mussulmani sciiti,
che perdura tutt’oggi. >Sotto la dinastia omayadde l’impero raggiunse la sua massima estensione: penetrò
fino all’Indo, completò la conquista del Nord Africa fino all’Atlantico e occupò la Spagna visigota. L’espansione
si arrestò solo di fronte alla reazione dei franchi, che si opposero agli arabi a Poitiers nel 732 e dei bizantini
che sconfissero l’esercito islamico in Anatolia nel 740. Un discendente di Maometto, Abul Abbas, rovesciò gli
Omayaddi nel 750 dando via alla dinastia califfale degli Abbasidi. Muovendo la capitale da Damasco a
Baghdad sviluppò un apparato burocratico distinto in tre rami (cancelleria, esattoria fiscale e
amministrazione militare) e posto sotto il controllo del visir , potentissimo funzionario di corte. Il territorio fu
suddiviso in province rette da governatori locali, gli emiri. La lingua ufficiale rimase l’arabo. Sul piano religioso
l’interpretazione sunnita della fede islamica impose definitivamente sulle altr. La ricchezza si fondò
soprattutto sul gigantesco bacino commerciale costituito dall’immenso ambito geografico imperiale. L’unità
politica dell’islam cominciò a disgregarsi quando gli emirati cominciarono a promuovere politiche autonome.
Si affermavano così dinastie locali che si sottrassero progressivamente al potere centrale degli Abbasidi. A
Baghdad, nel 945, la dinastia persiana dei Buwayhidi ebbe la delega del governo dagli Abbasidi, che
conservarono solo nominalmente il titolo califfale.
7 EUROPA CAROLINGIA
7.1 La rinascita dell’impero
Alla morte del padre Pipino il Breve nel 768 e del fratello Carlomanno nel 771, Carlo (poi detto Magno) ereditò
il regno franco, secondo le tradizioni germaniche. Carlo guidò un’spansione militare su larga scala che procurò
terre e bottini alle grandi famiglie franche, e che nel volgere di un trentiennio diede vita a un imponente
costruzione politica nell’Occidente europeo. Nel 772 fu avviata, olltre il Reno, una lunghissima guerra contro
i sassoni ai quali fu imposta con la forza l’evangelizzazione e l’assimilazione ai franchi. Nel 774 fu conclusa la
conquista del regno longobardop. Nel 778 fu sottomessa la Baviera e nel 796 distrutto il regno degli avari sul
Danubio. Nel natale dell’anno 800 Carlo Magno fu eletto imperatore da papa Leone III. Carlo si presentava
come il sovrano cristiano, difensore della Chiesa di Roma. L’incoronazione rafforzava il ruolo del papa quale
autorità suprema della cristianiytà ed indeboliva quello dell’impero bizantino, dilaninato dalle lotte
iconoclastiche. L’impero franco si proponeva infatti come erede di quello romano e delle sue ambizioni
universalistiche, ma mentre l’impero di Roma era incardinato nel bacino mediterraneo, quello carolingio
spostava verso nord, nel cuore del continente europeo. Seguendo la tradizione franca il re si spostava
costantemente per affermare la sua presenza in tutto il dominio, soggiornando nella proprietà del fisco regio.
Nondimeno, Carlo stabili una sede privilegiata ad Aquisgrana, dove a imitazione delle capitali della cristianità,
Roma e Costantinopoli, fece erigere una reggia e una cappella. Il territorio fu suddiviso in circoscrizioni
centrate in genere sulle città “comitati” e, nelle regioni di confine “marche”. A loro capo furono posti dei
conti e dei marchesi, reclutati tra le famiglie aristocratiche. Più che una compagine unitaria fu una costruzione
incoerente,tenuta eccezzionalmente inseme inanzitutto dall’autorevolezza personale del suo arteficie, Carlo
Magno, e della sua capacità di vincolare a se personaggi che già godevano di particolare prestigio nei singoli
territori. Essi erano legati al sovrano da rapporti che implicavano una fedeltà personale i cambio di beni
vitalizi, e che si usano indicare con rapporti vassallatico-beneficiari. Carlo reclutò la maggior parte dei conti e
marchesi tra i propri vassalli, per poter contare su personaggi di fiducia. Ma, attenzione, non tutti i suoi
vassalli divennero ufficiali, ne essere tali significava essere vassalli del re. Tanto più i personaggi reclutati
ocme conti e marchesi erano potenti in proprio, tanto meno il sovrano poteva contare su una loro indiscussa
fedeltà. Carlo stese allora la rete di controllo dei missi dominici, gli “inviati del signore” incaricati di sorvegliare
l’operato dei fiunzionari locali, e in genere nominati a coppie: un laico e un ecclesistico. I missi dovevano
diffindere nei territori le leggi emanate dal sovrano, note col nome di capitolari. Il coinvolgimento del clero
nel governo dell’impero fu imprescindibile nell’attività della cancelleria, ossia l’ufficio di corte in cui venivano
scritti i capitolari, gli atti pubblici e la corrispondenza ufficiale. Dal V sec. la capacità di leggere e scrivere si
era concentrata nelle mani del clero; Carlo Magno (che non sapeva scrivere) sostenne lo sviluppo di una fitta
rete di scuole vescovili e di centri scrittorii presso i monasteri. Carlo Magno attuò riforme anche in ambito
economico. Furono introdotte gabelle sul transito dele merci sulle strade e nei porti, cioè indirette, ma a
differenza di Bisanzio, nell’impero carolingio le entrate venivano soprattutto dalle rendite del fisco regio. Da
esse erano ricavate anche le dotazioni di terre (res de comitatu) che servivano a compensare gli ufficiali
pubblici, che non erano remunerati in moneta. Fu reintrodotto anche un sistema monetario basato
sull’argento, che si adeguava alle esigenze di un’economia di tipo locale. Monete d’oro continuavano a essere
coniate solo da Bisanzio e dagli stati islamici, per servire economie più ricche e articolate rispetto ai modesti
scambi praticati dall’Europa carolingia. Espugnata Pavia e catturato re Desiderio, Carlo Magno aveva messo
fine nel 774 all’esperienza politica longobarda in Italia. Il regno fu incorporato al dominio dei franchi ma
mantenne la sua autonomia: Carlo e poi il figlio Pipino si fregiarono del titolo di re dei longobardi. Lìèlite
longobarda non fu radicalmente esclusa, bensì assimilata. Né l’importazione dei legami franchi di natura
vassallatico-beneficiaria o delle forme di gestione curtense delle proprietà fondiarie alterò particolarmente
gli ordinamenti economici e sociali preesistenti. Fedel alla tradizione, Carlo Magno dispose nel 806 la
suddivisione patrimoniale dell’impero tra i figli. Unico sopravvissuto, Ludovico ne ereditò il potere alla morte
nel 814, favorendo un profondo ricambio degli uomini di corte, rafforzando il ruolo pubblico dei vescovi e
accentuando i caratteri sacarali dell’ideologia imperiale: nel 824, con la Constitutio romana, vincolò la
consacrazione papale a un preventivo giuramento di fedeltà all’imperatore. La sua successione, aprì invece
lotte violente tra gli eredi ben prima della sua morte nell’840. L’accordo siglato a Verdun nel’843 riconobbe
a Ludovico i territori a est del Reno, a Carlo il Calvo quelli più a Occidente, e a Lotario quelli compresi nella
fascia intermedia dal nord del regno all’Italia, al quale fu abbinato, da quel momento il titolo imperiale. La
morte senza eredi di Ludovio II nelò’875 avviò il tracollo della dinastia carolingia che si estinse nel’887 con la
deposizione del malato e incapace Carlo il Grosso per mano dei grandi del regno. Le lotte dinastiche infatti
avevano finito col rafforzare il potere delle dinastie locali, che inglobarono progressivamente nel proprio
patrimonio le cariche pubbliche di conte, duca e marchese.
8.2 Le città
Le città avevano costituito l’ossatura dell’ordinamento civile e politico dell’Impero Romano. Gli spazi abitati
si ridussero, quasi tutte le città subirono una profonda ruralizzazione. Venuti meno gli organi
dell’amministrazione municipale romana (la curie), i poteri pubblici delle città furono quasi ovunque suppliti
dalle gerarchie ecclesiastiche raccolte intorno ai vescovi. Per tal via, le città non persero mai del tutto le
antiche funzioni amministrative, politiche, religiose e culturali, pur con significative differenze tra le diverse
aree di dominazione. Con l’impero carolingio, le città tornarono a essere valorizzate nelle loro funzioni
giurisdizionali: esse furono sede delle nuove circoscrizioni politico – amministrative dipendenti dai conti. Si
usa parlare, infatti, di rinascita carolingia delle città anche dal punto di cista culturale: alcuni componimenti
poetici (le “laudes civitatum”) esaltarono nuovamente sia le vestigia dell’impianto urbanistico romano sia gli
edifici del nuovo ordine cristiano. Il destino economico delle città romane fu segnato dalla residenza dei
grandi poteri terrieri. I grandi possessori si spostarono a risiedere in campagna, come nel regno dei franchi,
e furono poche le città che mantennero un’importanza economica. Alla conservazione della centralità politica
della città contribuì in maniera determinante la presenza del vescovo. Il vescovo acquisì la pienezza dei poteri
pubblici quando la dissoluzione dell’impero carolingio rese inefficace la presenza dei conti nelle città. La fase
matura del regime politico episcopale nelle città si sviluppò nell’XI secolo, quando il vescovo agiva ormai
come primo rappresentante dei suoi cittadini. Sin dalle origini il vescovo fu espressione dei gruppi dirigenti
locali, delle maggiori famiglie cittadine. Per questo egli poté accogliere accanto a sé le istanze della
popolazione urbana e proporsi come figura autorevole intorno alla quale si congregarono spontaneamente i
cittadini (cives) alla ricerca di guida, tutela e conforto.
9 I POTERI LOCALI
9.1 L’organizzazione economica: il sistema curtense
In età carolingia le grandi proprietà fondiarie organizzarono l’attività agricola intorno ad aziende (curtes e
villae) caratterizzate da una bipartizione funzionale. Nella riserva padronale, o “domìnico” il proprietario
faceva condurre i lavori direttamente dai propri schiavi, che vi risiedevano a totale carico, alloggio e vitto, del
padrone. Nella parte a conduzione indiretta, o “massarìcio”, i lavori erano portati avanti da famiglie di
coltivatori liberi o servi. Lo stretto legame tra le due parti era rappresentato dall’obbligo per i contadini del
massaricio di prestare “corvées” sulle terre del dominico, a integrazione del lavoro degli schiavi. (“opera
richiesta”, indica le prestazioni lavorative gratuite che i contadini erano tenuti a garantire al proprietario.
Consistevano in giornate di lavoro che i coloni dedicavano ai lavori agricoli stagionali sulla riserva padronale,
o domìnico. Talora oltre alle braccia contadini erano tenuti a mettere a disposizione anche animali e
strumenti di lavoro). Il “surplus” agricolo fu commercializzato, insieme con gli strumenti di lavoro e gli altri
manufatti artigianali prodotti nei laboratori presenti nel dominico, in centri di scambio rurale (stationes), nei
mercati delle città vicine o negli “emporia” sul Mare del Nord per gli scambi a lunga distanza. La
frammentazione della proprietà fondiaria, distribuita talora tra centinaia di appezzamenti, favorì l’emersione
di una piccola e media proprietà di contadini indipendenti. Coesistette infatti una varietà di condizioni
contadine. Erano tenuti a corrispondere al padrone un canone, in natura o in denaro, nei villaggi convivevano
proprietari di varia estrazione sociale: piccoli contadini proprietari dei loro fondi, e medi proprietari che non
coltivavano direttamente le proprie terre, e che costituivano le élites dei villaggi.
10.2 Il monachesimo
Accanto al fenomeno istituzionale centrato sulle chiese urbane, l’altra principale esperienza di vita cristiana
fu caratterizzata dalla scelta individuale, monastica (monaco significa solitario), in risposta a un esigenza
diffusa di distacco dal mondo, di rinuncia ai beni terreni e di redenzione attraverso la preghiera e l’ascesi
(cioè il dominio delle passioni). Le prime pratiche di ricerca di solitudine spirituale assunsero le forme di
eremitismo. Accanto alle forme eremitiche, si diffuse la pratica monastica del cenobitismo: ossia della “vita
in comune” dei monaci. Il sorgere di comunità sempre più numerose richiese la redazione di norme che
regolassero la vita dei monaci in tutti i suoi aspetti. Nel 817 Ludovico il Pio stabilì che la regola benedettina
(fondata da Benedetto da Norcia a Montecassino) diventasse di riferimento per tutti i monasteri dell’Europa
carolingia. I monasteri furono spesso centri di irradiamento politico, economico e culturale e divennero
presto destinatari di donazioni e lasciti delle famiglie aristicratiche. Per questo il monachesimo altomedievale
fu un esperienza aristocratica.
16 LA RICCHEZZA ECONOMICA
16.1 Il “boom” demografico
L’incremento di popolazione che si era avviato dal IX – X secolo, divenne impetuoso nel corso del XIII secolo.
La curva della crescita demografica raggiunse il suo culmine tra XIII e XIV secolo. La crescita demografica era
l’effetto combinato dell’assenza di gravi epidemie e del migliorato sistema alimentare, frutto dell’espansione
dei coltivi e dei progressi dell’agricoltura, che consentivano una riduzione della mortalità infantile e una vita
media più lunga. Le città furono attraversate da uno slancio edilizio mai conosciuto fino ad allora; è stato
calcolato che il 95% delle città medievali avesse tra i 500 e i 2000 abitanti. Milano e Parigi erano le più grandi
città dell’epoca con quasi 150.000 abitanti. Nonostante l’impetuoso fenomeno di inurbamento, la maggior
parte della popolazione europea rimase insediata nelle campagne. La crescita della popolazione urbana portò
a un certo punto al calo della manodopera rurale e alla crescita del fabbisogno alimentare delle città.
L’equilibrio tra il numero degli uomini e le risorse a disposizione si ruppe. Tra la fine del XIII e l’inizio del XIV
secolo, infatti, la popolazione, in crescita progressiva da secoli, smise di crescere. Prodromo della crisi
gravissima che sarebbe scoppiata alla metà del Trecento.
16.2 Il ciclo economico espansivo
Tra le manifatture ebbe grande sviluppo quantitativo e qualitativo quella tessile. L’impiego di nuovi
macchinari, come la gualchiera o il telaio a piedi orizzontale, permise di produrre tessuti più robusti e in minor
tempo. I tessuti costituivano il principale prodotto che veniva scambiato con seta e cotone grezzi. Il
commercio a largo raggio conobbe nel corso del XIII secolo una generale ripresa, favorita dalla maggiore
sicurezza delle vie di collegamento garantita dalle accresciute condizioni di stabilità politica. I mercanti si
concentrarono principalmente in tre aree: le fiere di Champagne; le Fiandre; e, in forte sviluppo, l’area del
Mar Baltico controllata dalle “Hanse” dei mercanti tedeschi. Nel successivo vi ebbero un ruolo di primo piano
soprattutto Venezia e Genova, che si scontrarono per la supremazia. Il saccheggio di Costantinopoli fruttò ai
veneziani enormi bottini. I genovesi tornarono attivi nell’area al seguito della restaurazione dell’impero
bizantino per opera di Michele Paleologo nel 1261, che compensò l’appoggio militare e finanziario dei
genovesi con ampie concessioni per commerciare a Costantinopoli e nel Mar Nero. L’ampliamento della sfera
dei traffici sollecitò una migliore organizzazione delle attività mercantili. Nell’ambito del commercio
marittimo si diffuse un tipo di contratto, detto prevalentemente “commenda” (dal latino “commendare”,
affidare), in cui un mercante raccoglieva i finanziamenti necessari al viaggio e al ritorno restituiva i prestiti e
una percentuale dei guadagni. Il commercio terrestre sollecitò invece la formazione di vere e proprie
compagnie, cioè associazioni di capitali a carattere continuativo, che non si esaurivano in un’unica operazione
ma duravano nel tempo. Per superare il disordine monetario numerose zecche coniarono nuove monete
d’argento (dette “grossi”) di maggiore valore rispetto alle circolanti. La circolazione di monete di specie
diversa sollecitò lo sviluppo di nuovi servizi finanziari, i cambiatori o banchieri, che assicuravano. Furono essi
a diffondere nuovi strumenti di pagamento come le lettere di cambio, che consentivano di trasferire il denaro
da un banco all’altro senza rischiosi spostamenti materiali di monete. (banco: il termine indicava la tavola di
legno su cui esercitavano il proprio mestiere i cambiatori di monete. Esso divenne il simbolo della loro attività
e l’origine dell’odierna “banca”). L’attività economica principale, fonte delle ricchezze maggiori, restò
l’agricoltura. Essa però raggiunse proprio nel secolo XIII limiti di sviluppo insuperabili per le tecnologie del
tempo.
19 Le autonomie politiche
19.1 Città e comuni
Lo sviluppo demografico, economico e sociale che le città europee conobbero tra XI e XIII secolo si tradusse
in forme di governo orientate all’autonomia. Tale assetto istituzionale fu in genere indicato col termine
“comune”, per la “messa in comune” di diritti e privilegi da parte delle collettività urbane. Le più precoci
furono le città italiane del centro – nord appartenenti al regno italico, dalla fine dell’XI secolo. La dimensione
del fenomeno dell’autogoverno cittadino fu europea, ma le aree italiane appartenenti al regno italico e allo
stato pontificio furono all’avanguardia del fenomeno. Si può anzi affermare che solo in quella regione si
sviluppò una vera e propria “civiltà” comunale, che assunse caratteristiche omogenee in tutte le città. Tra le
più importanti vanno ricordate almeno le seguenti: in primo luogo, dal punto di vista politico, l’alto grado di
effettiva autonomia; dal punto di vista istituzionale, l’intensa circolazione di esperienze da un centro all’altro,
che contribuì a uniformare il fenomeno; sotto il profilo sociale, la forte articolazione e differenziazione, che
offrì possibilità di ascesa e promozione; dal punto di vista territoriale, lo stretto legame con le aree
extraurbane coincidenti tendenzialmente con le diocesi, oggetto della costruzione di contadi; dal punto di
vista culturale, infine, l’esperienza italiana espresse un nesso organico tra la politica e le elaborazioni
intellettuali, che si impegnarono a legittimarne i regimi di autonomia. Le città dell’Italia meridionale non
conobbero invece una vera esperienza comunale. Lo sviluppo delle autonomie urbane fu bloccato
dall’affermazione della monarchia normanna. Le città non costituirono un proprio contado, limitandosi la
proiezione nel territorio a essere espressione dei legami economici, sociali e religiosi delle società locali, dove
forte rimase il condizionamento dell’aristocrazia rurale. Lo sviluppo di ampie autonomie politiche da parte
delle città italiane fu la conseguenza di due condizioni principali. Da un lato, della loro forza economica,
sociale e culturale; dall’altro, della debolezza dei sistemi politici entro cui esse erano inserite. Nella maggior
parte delle città italiane le prime esperienze di autogoverno in rapporto all’autorità vescovile. In alcune ciò
avvenne in continuità con il potere del presule, senza conflitti; in altre fu invece determinante
l’indebolimento delle figure episcopali. Le iniziative di pacificazione lasciarono spazio a un nuovo ordine
politico, quello del comune, che consistette inizialmente in assemblee (conciones o arenghi) di cittadini
eminenti (cives) che eleggevano come loro rappresentanti temporanei dei consoli (consules) per il governo
politico, militare e giudiziario della città. L’ampiezza delle rivendicazioni di autonomia si manifestò nello
scontro con l’impero. Le città non disconobbero la sovranità imperiale, ma rivendicarono il diritto
all’autogoverno, a una libera politica di alleanze, all’estensione della loro autorità sui contadi, rifiutando
l’invio di funzionari imperiali e l’imposizione arbitraria di tributi. Il conflitto con Federico Barbarossa portò
alla formazione di leghe tra le città venete e lombarde, poi fuse nella “lega lombarda” giurata a Pontida nel
1167, che si rivelarono capaci di sconfiggere clamorosamente in battaglia l’esercito imperiale a Legnano nel
1176, e di costringere Federico I a trattare. La pace di Costanza del 1183 garantì alle città il diritto di esercitare
i poteri regi, di eleggere i propri consoli, di costituire leghe, di esercitare diritti sul territorio e di erigervi
fortezze. Il rinnovato conflitto tra la lega lombarda e Federico II culminato nella battaglia di Cortenuova del
1237 in cui prevalse l’esercito del sovrano, si risolse in una provvisoria sottomissione delle città al governo
diretto di Federico II, che svanì con la morte di quest’ultimo nel 1250. Lo sviluppo politico maturò pienamente
nella prima metà del XIII secolo. Simbolo di questa nuova fase fu la magistratura del podestà, affiancata da
un consiglio ristretto di cittadini. Il podestà era reclutato ogni anno tra un novero di professionisti della
politica che si muovevano tra le città contribuendo a renderne omogenee le pratiche di governo. Il podestà
cominciò anche a fare redigere per iscritto le sue leggi e consuetudini (gli statuti). La crescita demografica e
lo sviluppo economico promossero la continua ascesa di gruppi sociali e familiari e cosiddetti di “popolo”
(mercanti, banchieri, notai e artigiani) fino ad allora esclusi dalla partecipazione politica. Furono dapprima i
fanti (pedites) a lottare, spesso con azioni violente, contro i privilegi dei cavalieri (milites) dell’esercito
cittadino per una più equa ripartizione delle imposte e per l’accesso ai consigli del comune. Il “popolo” riuscì
a mobilitare le sue società armate a base rionale, talora d’intesa con le corporazioni di mestiere, per imporre
nello spazio politico proprie istituzioni che affiancarono quelle del comune: un consiglio generale e uno
ristretto, un collegio esecutivo di “anziani” e una magistratura di vertice, il capitano del popolo, modellata su
quella podestarile. L’affermazione dei governi di “popolo” non fu, però, duratura. La proiezione territoriale
delle città italiane si tradusse nel controllo diretto del contado (comitatus), cioè di un’area corrispondente in
larga misura alla diocesi cittadina. L’assoggettamento politico e fiscale delle comunità rurali garantiva
approvvigionamenti alimentari.
19.2 L’Italia comunale e signorile
Alla morte di Federico II nel 1250, gli assetti interni alle città italiane non ritornarono allo stadio precedente
all’azione lanciata del sovrano contro la lega lombarda. Lo spazio politico delle città fu ora condiviso da più
soggetti: non solo dal “popolo” ma anche dalle corporazioni di mestiere (arti) e dalle parti (partes). Nel tempo
il sistema tese a farsi sempre più complesso e i conflitti a vertere sempre più duramente sull’accesso al
governo e ai consigli cittadini. L’effetto più evidente fu la moltiplicazione dei processi di esclusione dagli uffici
politici e, sempre più spesso, dalle città stesse. Il fenomeno delle esclusioni politiche si generalizzò.
Protagoniste principali ne furono le parti che erano venute formandosi all’interno delle città tra i fautori della
“pars imperii” e quelli della “pars ecclesiae”. Lo spazio politico cittadino si raccordò a reti di alleanze
intercittadine che, nella seconda metà del Duecento, assunsero i nomi di guelfa e ghibellina. L’affermazione
violenta di una parte si traduceva nell’esclusione dalla città dei nemici di quella avversa, spogliati dei beni e
privati della cittadinanza. I fuoriusciti, banditi o esiliati, si rifugiavano nei castelli del contado o nelle città
amiche congiurando per rientrare militarmente nelle città d’origine, e costituendo una minaccia costante.
Nella seconda metà del XIII secolo si compì quasi ovunque il superamento dei governi comunali in una varietà
di soluzioni spesso ibride, governi di parte, di “popolo”, dominazioni esterne, etc., che esprimevano
l’incessante ricerca di un assetto che conferisse maggiore coerenza allo spazio politico e lo traducesse in un
quadro istituzionale più stabile. L’alternanza tra forme di governo fu esperienza ricorrente. In numerose città
i consigli municipali cominciarono a conferire a un singolo cittadino eminente, spesso titolare di cariche come
quelle di podestà o di capitano del “popolo”. Al signore (dominus) così eletto erano assegnati compiti
particolari per la difesa militare, la sicurezza e la pacificazione interna della città, così come lo si autorizzava
a espellere membri delle fazioni avverse. Più stabili e durature si rivelarono le signorie. Il loro profilo sociale
poteva essere assai differente. Quello degli Este, per esempio, che si affermarono su Ferrara sin dal 1240, era
analogo a quello dei da Romano e dei Monferrato e la loro autorità si affidò molto ai legami feudali. Intorno
alle dinastie signorili cominciarono a formarsi delle corti, con ruoli, cerimoniali e stili di vita cavallereschi. La
ricerca del consenso passò anche attraverso un processo di legittimazione che adottò i linguaggi
dell’architettura, delle lettere e delle arti, per diffondere l’immagine encomiastica del signore. I governi
signorili non cancellarono i tratti più tipici del sistema politico comunale. L’eredità cittadina fu infatti una
delle caratteristiche dei poteri signorili: la partecipazione politica vi perse vigore propositivo e assunse un
tenore prevalentemente consultivo. Il sistema delle corporazioni sopravvisse in quasi tutte le città, e ben
saldi si mantennero gli organismi mercantili. Quando poi molte città furono sottomesse a signorie esterne,
come fu il caso per esempio di quelle assoggettate dai Visconti, i gruppi dirigenti non persero il loro ruolo.
Verso la metà del XIV secolo si erano ormai stabilmente affermati governi signorili in quasi tutte le città
comunali. Solo in pochissime erano sopravvissute esperienze a comune, a costo di pronunciate
ristrutturazioni in senso oligarchico.
21 REAZIONI E RIPRESA
21.1 Mentalità e sensibilità di fronte alla crisi
La peste destò un enorme impressione tra i contemporanei per la velocità con cui si diffuse inizialmente, per
la rapidità del discorso, per la mancanza di rimedi e per l’ignoranza sulle sue cause e sui modi di contagio.
Vennero adottate misure per circoscriverne la diffusione: divieto di assembramenti, limitazione degòli
spostamenti e segregazione dei malati. Nelle città furono istituite apposite magistrature per isolare gli
indivisui e i quartieri. Alle porte furono effetuati controlli più rigidi, e si impose anche la quarantena delle
navi provenienti dagli scali asiatici. La congiuntura aveva seminato il terrore. La gente non riusciva a spiegarsi
le cause del susseguirsi dei cattivi raccolti, pestilenze etc. La risposta più immediata fu di interpretarli come
annunzio apocalittico. Si diffusero pratiche di penitenza in confraternite di devozione che praticavano la
flagellazione e compivano pellegrinaggi: nel 1399. Le processioni dei flagellanti che attraversavano l’Europa
accrebbero l’eccitazione contro coloro che si ritenevano complici del demonio nell’opera di setabilizzazione
della cristianità. Gli ebrei furono accusati di avvelenare i pozzi e di uccidere il bestiame, e divennero oggetto
di violente persecuzioni: 96 pogrom tra il 1348 e 1350. Nel 1348 in alcune zone deall’Inghilterra alcune donne
che vivevano da sole, praticando guarigioni, furono accusate di stregoneria e linciate dalla popolazione in
cerca di capri espiatori della peste. Questi episodi diedero avvio a un plurisecolare fenomeno di “caccia alle
streghe” che ebbe per oggetto le donne, ritenute responsabili del peccato originale e pertanto potenzioali
interlocutrici del demonio. La stregoneria era sempre stata combattuta dalla Chiesa cristiana. Dalla metà del
XIV secolo si sviluppò l’idea che la stregoneria fosse una setta ostile, fondata sul patto con il demonio e sul
suo sulto culminante nell’adunanza periodica del sabba. La sua repressione fu affidata, come eresia,
all’inquisizione e divenne più incisiva dalla metà del XV secolo.
23 GLI IMPERI
23.1 L’impero “tedesco”
Il potere dell’impero era stato ridimensionato dall’interregno seguito alla morte di Federico II e dalla
debolezza dei suoi successori, a cominciare da Rodolfo I d’Asburgo (1273 – 1291) che non si fece incoronare
in Italia, impegnato com’era ad affermare in Germania la propria incerta autorità. L’influenza degli imperatori
si ridusse definitivamente al territorio tedesco. L’autorità imperiale, però, non era riuscita a imporsi con
efficacia nemmeno all’interno della Germania, proprio perché distratta dalle aspirazioni universalistiche e dai
lunghi periodi trascorsi in Italia. Il patrimonio imperiale era andato disperso nel corso del XIII secolo per le
elargizioni dei sovrani e per le usurpazioni dei principi territoriali. A indebolire l’autorità dell’imperatore
concorreva anche il fatto che egli venisse eletto, senza riuscire a creare una stabilità dinastica. Nella prima
metà del XIV secolo venne affermandosi il ruolo di un certo numero di grandi elettori, laici ed ecclesiastici,
chiamati a designare il re di Germania. Nella dieta di Rhens del 1338 essi stabilirono che il futuro sovrano
avrebbe associato automaticamente la corona regia a quella imperiale, senza bisogno di conferma da parte
del papa. Carlo IV di Lussemburgo (1347 – 1378), però, avvertì ancora la necessità di scendere in Italia per
cingere nel 1355 la corona imperiale e legittimare la sua autorità. Nel 1356 egli emanò una disposizione nota
come “Bolla d’oro”. Essa fissò il collegio dei sette principi che avevano il privilegio di eleggere l’imperatore
secondo determinate ritualità e confermò come non fosse più necessario ottenere anche la corona d’Italia e
la consacrazione pontificia. Il titolo imperiale perse così definitivamente le prerogative universalistiche,
accentuando la sua natura prettamente tedesca. Il titolo imperiale fu conteso tra XIV e XV secolo tra alcune
grandi famiglie. Ad alternarsi sul trono furono soprattutto le casate dei Wittelsbach, del Lussemburgo e degli
Asburgo. I Lussemburgo riuscirono a controllare per circa un secolo dal 1348 al 1437. L’ultimo sovrano della
casata, Sigismondo, che era stato eletto anche re d’Ungheria dal 1387, diede in sposa la figlia Elisabetta ad
Alberto II d’Asburgo favorendo così la convergenza delle corone d’Austria, Boemia e Ungheria nelle mani
degli Asburgo. Con l’elezione di Alberto il titolo imperiale pervenne a questi ultimi, che la conservarono
ininterrottamente per tutta l’età moderna. Formalmente elettiva, la carica imperiale divenne da allora di
fatto dinastica. Data anche la sua enorme estensione, l’impero non ebbe mai una sovranità uniforme.
L’accentramento del potere regio non raggiunse mai i risultati e l’intensità delle principali monarchie
dell’Europa occidentale. L’autorità imperiale fu esercitata soprattutto attraverso l’organismo
rappresentativo del parlamento imperiale (Reichstag) che nel corso del XV secolo si riunì con crescente
regolarità. I territori su cui era esercitata una reale autorità di tipo statale erano i Lander (due puntini sulla
a), vale a dire i territori retti da un signore, accomunati da un unico diritto consuetudinario e spesso da patti
di pace territoriale (Landfriede) spontaneamente sottoscritti dai diversi organismi politici presenti al loro
interno: i signori minori, laici ed ecclesiastici, le città e le comunità rurali. Nei Lander i principi affermarono
strutture amministrative tipiche degli stati sovrani, con apparati fiscali, eserciti, tribunali d’appello,
assemblee rappresentative, etc. nell’area renana, nella Germania meridionale e sulle cose del Mar Baltico si
erano sviluppate le maggiori città tedesche, governate da un’attiva borghesia mercantile. Per vari decenni la
Germania fu travagliata da uno stato di guerra continuo tra i principi e le città. Le città dell’area baltica e
renana avevano dato luogo sin dalla metà del XII secolo a unioni di mercanti tedeschi indicate col termine
Hansa, che conseguirono presto la supremazia economica in tutta la regione, grazie alla modernità delle loro
navi e dei loro periodi di gestione. Nel 1364 le varie associazioni si fusero in unica lega, progressivamente
egemonizzata da Lubecca, che giunse a comprendere oltre 200 centri non solo tedeschi ma anche dei Paesi
Bassi, della Norvegia, della Svezia, della Polonia e della Lituania. L’Hansa divenne una potenza economica e
anche militare di primo piano. Un principato territoriale particolare fu quello costituito nelle regioni orientali
dall’ordine religioso militare dei Cavalieri teutonici, protagonista dell’espansione tedesca lungo le regioni
baltiche. Essa diede slancio alla conquista e all’evangelizzazione della Pomerania e della Prussia, concluse nel
1283; alla metà del XIV secolo furono acquisiti anche l’Estonia e altri territori più interni. Il principato
dell’Ordine teutonico si dotò di un’articolata organizzazione amministrativa centrata intorno al Gran maestro
residente a Marienburg nella Prussia orientale.
28 GLI STATI
28.1 Gli stati territoriali
Tra XIV e XV secolo il quadro frammentato e instabile dell’Italia comunale e signorile fu ricomposto in un
sistema politico più strutturato e stabile di stati territoriali a dimensione regionale. Rispetto agli stati europei
di impanto monarchico, gli stati territoriali presentano molto analogie e una sostanziale differenza. Anche
negli stai italiani le autorità superiori non esercitarono mai la totalità dei poteri sul territorio, ma la
condivisero con una varietà di “corpi” territoriali, in un ordinamento di tipo “dualistico”. Le formazioni
territoriali italiane furono anch’esse realtà composite, ricche di nuclei di potere, privilegi e diritti locali. Con
essi le autorità dominanti furono costrette a negoziare parri, riconoscendo ampie facoltà al governo locale.
La differenza che caratterizzò l’esperienza delle realtà statali italiane fu data invece dal diverso ruolo che vi
giocarono le città. In Italia a promuovere la formazione dei maggiori stati territoriali furono grandi città come
Firenze, Venezia e anche Mialno. In Europa non si ebbero esperienze analoghe. La costruzione di realtà statali
territoriali determinò l’adeguamento delle strutture di governo alle nuove esigenze. Il grosso delle entrate
continuò a venire dalle imposte indirette, cioè dazi sulle merci e gabelle sui consumi, ma su quelle dirette si
affinarono i sistemi di accertamento delle ricchezze e di riscossione dei tributi. Nel 1407 Genova creò un
apposito banco (San Giorgio) per attirare investimenti anche dall’estero. L’impulso alla formazione di stati
territorili italiani fu dato dalla politica espansionistica che caratterizzò tutta l’esperienza dei Visconti. Fu Gian
Galeazzo a imprimere nuovamente un forte dinamismo militare al suo dominio che, oltre a comprendere il
Canton Ticino, buona parte della Lombardia e Piemonte orientale, giunse a comprendere Verona, Vicenza,
Padova e Belluno; distruggendo le signorie dei Della Scala e dei da Carrara di Padova, e si spinse in Italia
centrale arrivando a Pisa, Siena, Perugia, Spoleto e Bologna. Alla morte improvvisa del duca nel 1402 si
ridimensionò l’intenzione di costituire un intero regno italiano. Le conquiste territoriali furono disperse
nuovamente, e solo il secondogioenito Filippo Maria riuscì a ricompatarle intorno a un profilo più
limitatamente “lombardo” dello stato visconteo. Nel 1395 Gian Galeazzo Visconti acquistò dall’imperatore
Venceslao, per 10000 fiorini, il titolo di “principe e duca” di Milano. Il duca potè così utilizzare le relazioni
feudali per legare a sé sia le signorie locali sia le comunità rurali. Negli apparati centrali e in quelli periferici
egli nominò individui provenienti da tutti il ducato. Milano infatti non era la dominante ma solo la residenza
del duca, e il patriziato milanese fu coinvolto in modo non esclusivo nel governo dello Stato. Alla morte senza
eredi di Filippo Maria si istituì una “repubblica ambrosiana” che durò dal 1447 al 1450. Firenze venne
formando il proprio stato territoriale con maggiore continuità e più saldo controllo rispetto a quello visconteo.
L’impulso, per un gruppo dirigente fatto di non guerrieri ardimentosi ma di mercenari facoltosi, fu
eminentemente difensivo, volto a tutelare l’indipendenza della città e la libertà dei suoi commerci. Non
infrequenti furono gli acquisti in denaro, come nel caso di Arezzo, Prato e Livorno, rispetto alle sottomissioni
per via militare. L’espansione fiorentina fu agevolata dalla crisi demografica che coolpì profondamente la
Toscana, impoverendo gli uomini di richezze le città che aveva sottomesso. La relativa debolezza del territorio
che aveva assoggettato consentì ai fiorentini di imporre una struttura centralizzata di governo, attraverso
una rete di uffici territoriali tutti riservati al patriziato della dominante. Anche Venezia aveva coltivato da
secoli la propria vocazione mercantile, concentrando tutti i suoi sforzi nella costruzione, nei porti nel
Mediterraneo orientale, di un “Dominio del mar” funzionale a tutelarne i commerci. Nell’Adriatico Venezia,
Spalato, Ragusa e Durazzo. La minaccia portata da Gian Galeazzo Visconti portò alla profonda svota strategica
di formare un domnio anche in Terraferma, dove Vnezia si era limitata a occupare solo Treviso nel 1339,
assoggettò poi Belluno, Vicenza, Verona, Brescia e Bergamo. Un apposito consiglio di “savi” di Terraferma
affiancò nel XV secolo il doge per la gestione del territorio. Anche il doge ottenne nel 1437 il tiolo di “vicario”
imperiale, che consentì di far dipendere feudalmente dalla “repubblica” le aree signorili del dominio. Tra i
pochi stati che sopravvissero alla semplificazione della gepgrafia politica dell’Italia settentrionale ebbero un
certo rilievo 3 domini signorili. Di impianto cittadno era quello degli Este e dei Gonzaga. I primi si
concentrarono su Reggio, Modena e Ferrara; i secondi si limitarono a Mantova. Il terzo esempio è quello dei
Savoia che si era strategicamente estesa sui territori rurali delle Alpi Occidentali, tra i passi che collegavano
Francia e Italia. Intercalati gli altri stati territoriali sopravvissero anche alcuni stati monocittadini, vale a dire
perduranti domini di città che non ne sottomisero altre ma che si limitarono a controllare i territori rurali
poco più ampi dei contadi di partenza. Fu il caso di Lucca e Siena. Genova, invece, pur minacciata dai Visconti
non si trasformò in una potenza territoriale come Venezia, ma si limitò a controllare i centri costieri della
Liguria e la Corsica.
28.3 I regni
Carlo I d’Angiò si insediò militarmente nel regno di Sicilia nel 1266, con l’appoggio politico del papato e il
sostegno economio dei banchieri fiorentini. Egli concesse in feudo ai cavalieri francesi che lo avevano seguito
in armi nell’impresa, affidò ad ecclesiastici francesi vescovadi e abbazzie, e inserì burocrati francesi
nell’amministrazione regia. Tutte misure che suscitarono il malcontento delle popolazioni locali, soprattutto
in Sicilia dopo che la capitale fu spostata da Palermo e Napoli. L’aristocrazia siciliana mantenne viva l’identità
ghibellina che si manifestò con un insurrezione armata nel 1268 quando lo svevo Corradino tentò di
riconquistare il regno. Si spiega pertanto perché, dopo la rivolta contro i francesi che scoppiò a Palermo
all’ora del vespro del lunedì di pasqua del 1281. La rivolta dei Vespri aprì un lungo conflitto internazionale di
cui segnò una svolta importante nel 1296 l’offerta della corona di re di Sicilia al figlio del re aragonese che, in
eloquente continuità filosveva, si dichiarò Federico III. Affidata a un ramo cadetto degli Aragona, la cornona
siciliana si separò da quella di Barcellona, dando vita a un regno autonomo, detto di Trinacria. Federico III
introdusse il parlamento, sul modello pattizzio delle corts catalane, e decentrò una serie di funzioni
amministrative alle citta demaniali (cioè regie). Alla sua morte l’aristocrazia si divise in fazioni (“catalana” e
“latina”) che si batterono per decenni per dividersi i maggiori uffici dello stato. Dopo la morte di Federico IV
nel 1377 i capi delle grandi famiglie baronali si divisero il regno, governandone le diverse aree col titolo di
vicari, in una situazione di accentuata anarchia. Gli Angiò si concentrarono sul governo del regno di Napoli
che diventò il cuore politico del guelfismo italiano. Il potere baronale era più forte che in Sicilia, arrivando a
costituire dei principati territoriali, con ampie autonomie giurisdizionali e strutture burocratiche, come
furono, per esmpio, quelli di Salerno, di Taranto o del Sannio. I re si indebitarono crescentemente anche con
i banchieru fiorentini, che in cambio delle ingenti anticipazioni ricevettero privilegi doganali, feudi e uffici,
finendo con esercitare una pesate influenza sulla corte, dove era potentissima la famiglia fiorentina degli
Acciaiuoli. Il regno di Napoli conobbe un lungo periodo di splendore con Roberto I: cultore di teologiia e di
letteratura, era considerato uno dei monarchi più saggi della cristianità; capo riconosciuto del guelfismo
italiano, signore per molti anni di comuni come Firenze, Genova e Roma. Napoli divenne uno dei centri più
importanti della vita intelletuale del tempo. Sia il regno di Napoli sia quello di Sicilia costituivano due stati
territorialmente compatti ma caratterizzati dalla debolezza del potere regio. Decisivo si rivelò l’appoggio,
dopo un’iniziale ostilità, di Filippo Maria Visconti, con il quale nacque un nuovo asse politico italiano cui si
contapposero Genova e Firenze. Alfonso V, detto il Magnanimo, ricostruì l’antica unità del regno meridionale:
insieme con la Sardegna, esso fu collegato nella persona del sovrano ai vati possessi della corona d’Aragona,
venendosi a trovare proiettato nella rete mediterranea dei commerci catalano-aragonesi. Alfonso stabilì la
propria corte a Napoli, che tornò a riofiorire anche sul piano culturale. Suo figlio Ferrante proseguì l’opera di
riorganizzazione amministrativa e fiscale, di appoggio alle città, e di contenimento della feudalità. Nel regno
di Napoli, l’economia ebbe un’accellerazione. È indubbio però che la presenza dei mercati forestieri, e toscani
in particolare, frenò lo sviluppo di una solida imprenditoria meridionale. Deboli furono sempre la produzione
di manufatti, largamente importanti, e la presenza di mercati meridionali nelle piazze estere.