Sei sulla pagina 1di 85

Manuale di storia medievale

Capitolo 1: L’idea di medioevo e le sue interpretazioni


Un’età di decadenza: la nozione di medioevo è un’invenzione intellettuale posteriore all’epoca interessata,
formulata nell’ambito di un forte pregiudizio negativo, che perdura ancora oggi. Per un millennio le
popolazioni europee sono state convinte di vivere nella continuità di un quadro politico che dalla Roma
pagana si era trasformato nell’universalismo cristiano. A percepire la sensazione che l’età antica fosse
estranea alla società che si stava delineando furono gli umanisti italiani del XIV-XV secolo: in proposito
formularono l’idea che un lungo intervallo di molti secoli li separasse dalla cultura degli antichi, assunti a
modello per la promozione di una rinascita intellettuale; nei loro scritti cominciò così a diffondersi
l’espressione di “età di mezzo” e di “medium aevum”. L’idea di decadenza culturale e artistica fu rielaborata
negli ambienti tedeschi della riforma protestante del XVI secolo, che rivendicava la funzione positiva
dell’impero tedesco nel mondo cristiano e accusava la Chiesa romana di averne provocato la rovina. Per i
protestanti la causa del declino del mondo antico non andava individuata nelle invasioni barbariche, ma
nella mondanizzazione della Chiesa legata all’affermazione del papato, che aveva corrotto l’originaria
spiritualità cristiana fino alla riforma di Lutero. Prese corpo così l’idea di una totale coincidenza fra il periodo
medievale e la storia del cattolicesimo romano.
Un periodo della storia: nella seconda metà del XVII secolo maturò tra gli intellettuali europei la
consapevolezza che l’età in cui stavano vivendo era ormai distante dal passato, sia classico sia medievale.
Il tedesco Gerog Horn pubblicò nel 1666 una storia universale con una periodizzazione che separava l’evo
antico (vetus), finito nel 476, da un intermedio medium aevum, che solo l’invenzione delle armi da fuoco e
della stampa, le scoperte geografiche e la rinascita letteraria avevano concluso (1453). In questo modo il
medioevo diviene un periodo storico ben definito.
L’Illuminismo rielaborò a sua volta l’idea di medioevo: Voltaire ne diede un’interpretazione globale, di
tenore polemico, sostenendo che le invasioni barbariche e il potere della Chiesa avevano promosso
un’epoca di rozzezza, violenza e superstizione, da cui la società europea aveva iniziato a distaccarsi solo
nel XVIII secolo, seguendo i dettami della ragione; in particolare la Chiesa cattolica e il feudalesimo
avevano fondato un modello di società basato sul privilegio, sull’autoritarismo e sull’oppressione.
La rivalutazione di un’epoca: nel corso del XVIII secolo l’immagine negativa del medioevo fu sottoposta a
revisione. Di grande rilievo fu l’opera dello storiografo L.A. Muratori, che nella sua opera metteva in mostra
il fatto che, pur non essendo politicamente unita, l’Italia condivideva una tradizione storica comune che si
era formata nel medioevo. Si dedicò poi a ricostruirne i tratti comuni: la lingua, i costumi, le leggi, le
istituzioni, il commercio, la cultura, gli atteggiamenti morali e religiosi, formulando la prima indagine sulla
civiltà medievale italiana, di cui colse il notevole progresso dall’XI secolo in poi.
La diffusione di un’immagine positiva del medioevo maturò nel clima culturale del Romanticismo, diffusosi
in Europa dalla fine del XVIII secolo e che fu attratto dagli aspetti passionali e irrazionali dell’epoca,
rivalutata come età di fede religiosa rassicurante e pacificatrice. Il Romanticismo contribuì a sviluppare
un’interpretazione del medioevo come epoca in cui rintracciare le radici dello spirito nazionale, ad es. la
cultura francese si appropriò del mito di Carlo Magno (sottraendolo ai tedeschi), valorizzando il ruolo della
Gallia come regione in cui l’aristocrazia romana si era precocemente fusa con la popolazione dei franchi. I
ll Risorgimento italiano vide invece nel medioevo l’epoca in cui la penisola aveva subito le prime
dominazioni straniere, ed esaltò l’epoca dei comuni come il momento fondante della reazione contro gli
imperatori tedeschi. L’interpretazione nazionalistica del medioevo si risolse dunque nella ricerca degli
elementi fondanti dell’Europa: rivendicare il prestigio di una popolazione sulle altre in epoca medievale
significava rivendicare la prevalenza di una nazione nella formazione e nell’identità dell’Europa.
Un millennio plurale: ricostruzioni generali del medioevo sotto il profilo delle strutture economiche e sociali,
e influenzate dal confronto con altre discipline come la geografia, l’archeologia, le tradizioni popolari furono
compiute dal belga Henri Pirenne, che indagò – in Maometto e Carlomagno (1937) – il passaggio dal
mondo antico a quello medievale negando che le invasioni barbariche avessero mutato il sistema
economico antico e ravvisando invece nell’espansione islamica nel Mediterraneo la fine delle relazioni
commerciali che avrebbero fatto ripiegare l’Occidente sull’economia agraria; solo il ritorno dei mercanti
nelle città avrebbe successivamente rilanciato l’economica degli scambi e dato origine all’Europa moderna.
Nei decenni più recenti gli storici hanno rinunciato alle interpretazioni organiche del medioevo, privilegiando
ricerche su singoli temi, anche se si possono evidenziare alcuni orientamenti generali, come ad esempio,
contro le interpretazioni nazionalistiche, la natura di grande laboratorio di sintesi tra civiltà diverse, a
cominciare da quelle latine e germaniche.
La globalizzazione del mondo attuale induce sempre più gli storici del medioevo a superare il punto di vista
eurocentrico e a considerare fenomeni come le migrazioni, le reti economiche e sociali, le ibridazioni.
Medioevi immaginari: accanto al medioevo ricostruito sui documenti dagli storici, si sono diffuse nella
società occidentale degli ultimi secoli altre immagini del medioevo, per esempio tratte dalla ricerca di stili
artistici (i Preraffaelliti) e architettonici che si proponevano di salvaguardare l’eredità del passato (il revival
dello stile gotico nella costruzione di chiese e dei college in Inghilterra, la restaurazione da parte di Viollet-
le-Duc di Notre-Dame). Sviluppando il filone dei romanzi storici aperto da Walter Scott, in Inghilterra si
diffuse una narrativa di argomento medievale che sfociò nella nascita del genere fantasy, grazie soprattutto
ai romanzi di J.R.R. Tolkien, ambientati in un mondo di fantasia, che derivava i propri elementi dalle saghe
e dalle mitologie nordiche e dalla letteratura anglosassone medievale. Ambientati nel medioevo sono
anche molti best-seller (ex. di U. Eco, di Ken Follett e Dan Brown) sino al cinema statunitense con Walt
Disney, i giochi di ruolo e i videogames.
Alle tendenze che dall’800 hanno diffuso un’immagine ideale e reinventata del medioevo si usa dare il
nome di MEDIEVALISMO, per distinguere la distanza che separa il medioevo indagato dagli storici da
quello, spesso astorico, dell’intrattenimento. La sua presenza nella società contemporanea è pervasiva al
punto che anche la politica se ne serve per elaborare esempi utili per illustrare il presente: il medioevo è
presentato come un modello per spiegare i “nuovi barbari” e lo “scontro di civiltà” e al contempo come
mezzo di affermazione di un’identità che vi si opponga. Il medievalismo costituisce un immenso giacimento
di luoghi comuni.

Capitolo 2: Quadri generali


Spazi: la proiezione delle periodizzazioni della storia europea sulla ricostruzione del passato di civiltà di
altre parti del mondo costituisce uno degli aspetti negativi della prospettiva eurocentrica con cui è stata
narrata la storia in Occidente per secoli. Posizioni come questa hanno alimentato per reazione una
polemica antieuropea da parte di alcuni storici della seconda metà del XX secolo tesa a rivendicare alla
ricostruzione del passato una prospettiva mondializzante (world history), in cui la questione centrale era
quella di integrare alla storia del mondo i paesi extraeuropei, respingendo la tradizione che li fa comparire
sulla scena solo quando entrano in contatto con conquistatori/esploratori europei.
In questi nuovi scenari la storia del medioevo europeo può essere arricchita delle conoscenze che
provengono da studi condotti sulle diverse civiltà che entrano in contatto con le civiltà europee, evitando al
contempo eccessi in senso contrario (ad es. sostenere che l’Europa si sia sviluppata grazie al contatto con
l’Oriente). Per quanto soggette a ibridazione reciproca, le civiltà possiedono un’originaria pluralità, e il
mondo è rimasto sostanzialmente policentrico. È dunque possibile valorizzare le conoscenze specifiche
della storia dell’Occidente senza sottendere la superiorità occidentale sulle altre culture.
Bisogna osservare come la storia del medioevo prenda origine da una serie di fecondi incontri tra civiltà, ad
es. il vasto spazio geografico euroasiatico e africano gravitante sul Mediterraneo entrato in contatto con
l’impero romano ha costituito un’area multiculturale la cui romanizzazione aveva dato vita a forti influenze
reciproche. Questo mondo fu profondamente riconfigurato dalle migrazioni delle popolazioni nomadi e
seminomadi provenienti dall’Asia, le cosiddette “invasioni barbariche”. Determinante in questo processo si
rivelò la funzione civilizzatrice del cristianesimo, grazie all’attività missionaria svolta presso tali popolazioni
e all’interno dell’impero. L’incontro tra questi nuclei di civiltà ha dato forma all’Europa come area di civiltà
che ha spostato il proprio baricentro dal Mediterraneo alla regione continentale situata attorno al Reno.
L’Europa cristiana fede del Mediterraneo uno spazio di connessioni con le due grandi civiltà che si
affacciarono, tra il VII e l’VIII secolo, sulle sue sponde: quella bizantina ortodossa, erede dell’impero
romano d’Oriente, e quella araba islamica, che dalla penisola iberica si estendeva sino al cuore dell’Asia
persiana. Ai movimenti globali di uomini, merci e idee tra queste aree si affiancarono dall’XI secolo una
serie di conflitti crescenti per il controllo delle risorse economiche nel Mediterraneo orientale e per
l’accesso ai luoghi di culto della cristianità in Terrasanta, le “Crociate”. Stretto tra l’espansione della
cristianità europea e quella dell’islam guidato dai turchi, l’impero bizantino entrò tra il XIII e il XV secolo in
una crisi irreversibile, culminata con la caduta di Costantinopoli.
L’espansione dell’Europa cristiana non si volse solo verso Gerusalemme ma anche, dall’XI secolo, al
recupero dei territori della Spagna musulmana. Soprattutto, fu nelle regioni non romanizzate del continente
– Prussia, Boemia, Polonia, Ungheria, coste del Baltico – che dalla metà del XII secolo fu intrapresa una
sistematica operazione di conquista e cristianizzazione. Prese corpo un’Europa orientale che, pur
connessa a quella occidentale dall’impero e dalle grandi monarchie feudali, mantenne caratteristiche
specifiche, come il predominio delle popolazioni slave e un’economia prevalentemente agricola.
Nel vasto incrocio dei traffici tra i mari Baltico, Nero e Caspio, controllato dall’impero mongolo, emerse nel
corso del XIV e XV secolo il principe di Mosca, che si rese indipendente sotto il titolo di zar di tutte le
Russie e, alla caduta di Costantinopoli, raccolse l’eredità della Chiesa ortodossa, divenendo centro
indiscusso del cristianesimo orientale.
Nel corso del XV secolo le società europee si trovarono inserite in una dinamica globale di
interconnessioni. Spesso le civiltà erano coscienti della loro esistenza reciproca, grazie alle maggiori zone
di scambio e di circolazione che legavano l’Oceano Indiano, i territori musulmani e il Mediterraneo.

Un’Europa di popoli: nell’antichità il termine “Europa” indicava una delle tre parti del mondo conosciuto
senza che a esso corrispondesse una caratterizzazione politico-culturale. Era piuttosto l’Occidente, cui
appartenevano Europa e Africa, a contrapporsi all’Oriente, cioè all’Asia. Per indicare un’area di civiltà fu
impiegato per la prima volta da papa Gregorio Magno (590-604), secondo cui l’Europa costituiva la
porzione di mondo da cui i bizantini si erano autoesclusi lasciando che cadesse in mano ai popoli
germanici. Il successore, Bonifacio IV, fu chiamato “capo di tutte le chiese d’Europa” per indicare la serie di
chiese istituite nei regni barbarici e per ricordare al pontefice che il suo ruolo era di guardare non all’Impero
e a Bisanzio, quanto alle nuove popolazioni barbariche cristianizzate.
Tra VIII e IX secolo maturò intorno all’esperienza politica dei franchi la nozione di Europa mantenutasi
durante il medioevo; quella riunificata da Carlo Magno era “l’Europa dei popoli i cui nomi erano rimasti
sconosciuti ai romani”, estesa fino al mare del nord e di cui l’Italia dei longobardi e la Roma dei papi
costituivano l’estrema propaggine meridionale. Carlo Magno divenne così il “padre” dell’Europa: grazie a lui
per la prima volta si costituì in Europa uno spazio politico unitario. Non si trattava più di un Occidente
mediterraneo, ma di un’entità ideale di portata continentale, tanto che dopo la dissoluzione dell’impero
carolingio fu proprio il concetto di Europa che continuò ad indicare l’insieme dei popoli e dei regni che ne
avevano ereditato la tradizione e che continuavano a condividere relazioni politiche e valori religiosi e
culturali comuni. Nel tardo medioevo l’Europa si configurava come una congerie di popoli, di lingue e di
costumi, caratterizzata dall’intensa circolazione di uomini e di idee: un contenitore di regni sempre più
definiti nelle loro individualità, e spesso in conflitto, per quanto portatori di tradizioni e caratteri comuni.
L’identità dell’Europa non si identificò con gli “europei”, di cui si parla soltanto due volte nei documenti
medievali; la prima per quanto concerne la battaglia di Poitiers del 732, in cui Carlo Martello aveva respinto
gli arabi in Spagna come una contrapposizione tra “europeenses” cristiani e arabi. Il termine riaffiora poi a
metà del XV secolo nelle lettere di papa Pio II, significando “coloro che sono cristiani”: a pochi anni dalla
caduta di Costantinopoli, il pontefice riteneva europei tutti i membri della comunità politica e culturale
cristiana, e li sollecitava ad agire contro l’islam dominato dai turchi. L’Europa era ormai un’entità storica
fuori discussione, pronta a proiettarsi verso nuovi mondi laddove l’identità degli “europei” continuava a
definirsi per “differenza”.

Tempi: i periodi non sono realtà storiche autonome, ma l’esito di una periodizzazione, che è
necessariamente arbitraria in quanto presuppone un giudizio storico. L’interpretazione del medioevo come
periodo unitario è ormai obsoleta: il divenire storico non è uniforme, ma conosce cicli e crisi, in rapporto ai
quali può essere distinto in fasi caratterizzate da elementi coerenti.
Il primo autore che periodizzò il medioevo, Georg Horn, ne fissò i termini cronologici tra la fine dell’impero
romano d’Occidente (476) e la caduta di quello d’Oriente (1453). Da allora ogni storiografia nazionale ha
definito una propria cronologia: quella italiana ha posto l’inizio del medioevo con l’arrivo dei Longobardi in
Italia (569) e il suo termine con la scoperta dell’America (1492); quella francese ne ha individuato l’avvio
con la conversione al cristianesimo del re Clodoveo (496) e la fine con la guerra dei Cent’anni (1453).
È dunque evidente che è impossibile indicare una data precisa e che bisogna individuare piuttosto un arco
cronologico esteso su più secoli, in cui cogliere delle trasformazioni sostanziali della storia. In questo senso
l’inizio del medioevo si colloca tra il IV e il VII secolo, in cui si verificarono:
- Crisi istituzionale ed economica dell’impero romano;
- Diffusione e istituzionalizzazione del cristianesimo;
- Invasioni barbariche, con la costituzione di una società romano-barbarica in occidente.
La fine del medioevo si può collocare tra XIV e XV secolo, in cui si verificarono:
- Profonda e perdurante crisi demografica delle società europee;
- Crisi economiche che depressero le condizioni di vita;
- Perdita di prestigio delle istituzioni universalistiche (impero e papato) su cui si erano fondate per
secoli l’ordine politico e la coesione sociale;
- Diffusa aspirazione a nuovi valori religiosi ed etici;
- Sviluppo dell’Umanesimo come movimento di intensa rinascita culturale;
- Sviluppo di nuove tecnologie in ambito scientifico e geografico.
Il medioevo è privo di coerenza interna: per far fronte a questo problema, gli storici individuano tre parti
principali per condivisione di aspetti simili.
La prima parte (secoli V-IX) è caratterizzata dall’insediamento delle popolazioni germaniche nel territorio
dell’impero romano, dal predominio dei ceti militari, dall’economia signorile e dalle prime sintesi di civiltà
germaniche, romane e cristiane.
Il periodo intermedio (secoli X-XII) è caratterizzato dall’affermazione di attività economiche più varie, dalla
comparsa di nuove figure sociali come il mercante e il chierico, dall’assorbimento della spiritualità cristiana
nelle forme della vita laica e da una maggiore ricchezza economica distribuita tra le classi.
La parte finale (secoli XIII-XV) è caratterizzata da una più complessa articolazione sociale, dalla crisi
ecclesiastica e culturale dell’unità cattolica e dalla depressione economica.
Gli storici distinguono quindi tra un “alto” medioevo (secc.V-X) e un “basso” medioevo (secc. XI-XV), e la
locuzione “secoli centrali” per il periodo intorno all’anno Mille.

Le partizioni del medioevo:


millennio convenzionale V sec. XV sec.
Termini del medioevo Inizio: IV sec. VII sec. Fine: XIV sec. XV sec.
bipartizione Alto: V sec. X sec. Basso: XI sec. XV sec.
tripartizione Primo: V sec. IX sec. Pieno: X sec. XII sec. Tardo: XIII sec. XV sec.

Clima, ambiente, epidemie: il pianeta ha subito nel corso del tempo importanti variazioni climatiche, con
oscillazioni di periodi caldi e freddi che hanno influenzato la resa delle produzioni agricole e di
conseguenza l’andamento della popolazione. Durante l’impero romano si è avuta una lunga fase calda,
seguita, tra IV e VIII secolo, da un peggioramento. Dal IX fino al XIII secolo le condizioni climatiche
tornarono a migliorare, mentre dal XIV secolo la fase calda fu interrotta da una piccola età glaciale, durata
sino alla metà del XIX secolo. L’abbassamento delle temperature nel IV secolo determinò le migrazioni dei
popoli seminomadi verso i territori mediterranei dell’impero romano. I saccheggi, le guerre e i conseguenti
disordini concorsero a causare l’abbandono della manutenzione dell’ambiente, in cui avanzarono paludi,
foreste e terre incolte. Il miglioramento climatico avviatosi dal IX secolo favorì l’espansione delle produzioni
agricole, operazioni di bonifica e di irreggimentazione delle acque.
A condizionare l’evoluzione della popolazione sono anche le malattie infettive epidemiche. Nelle regioni
europee in particolare si diffusero tre specie di epidemie: peste, vaiolo e lebbra. Il Mediterraneo fu colpito
nel VI secolo dalla peste proveniente dall’Asia centrale, che infierì per due secoli spopolando intere regioni
e giungendo fino in Inghilterra. Estintasi per alcuni secoli, ricomparve in Occidente nel 1347; in pochi
decenni la popolazione europea diminuì di circa un terzo. Il vaiolo imperversò invece nell’Europa del nord e
nelle isole britanniche nel VI secolo, mentre la lebbra alternò periodi di espansione (VI-VIII secolo) ad altri
di regressione (VII-IX-XI). L’arretratezza delle conoscenze mediche e l’ignoranza delle cause dei contagi
indusse le autorità pubbliche a risposte drastiche, come l’isolamento degli ammalati in lazzaretti.

Demografia: l’evoluzione della popolazione europea durante il medioevo è rappresentabile come un ciclo
demografico articolato in tre fasi: depressione – espansione – depressione, con le punte minime toccate
nel VII e nel XIV secolo, e il picco raggiunto nel XIII. La depressione finale ebbe durata e intensità minori
rispetto alla precedente, tanto che la popolazione tese comunque a crescere. L’entità numerica delle
popolazioni del passato è difficile da stabilire nell’assenza totale di censimenti prima del XIX secolo.
Ancora più difficili da individuare appaiono le cause di tale evoluzione, su cui pesò l’intreccio dei mutamenti
climatici, degli andamenti delle produzioni agricole e delle epidemie, come anche l’evoluzione economica e
culturale delle società europee nel tempo.
L’inizio dell’età medievale coincise con una drastica riduzione della popolazione: le aree abitate all’interno
dei centri urbani si restrinsero, le campagne furono abbandonate, dovunque avanzarono terre incolte.
Il raffreddamento climatico favorì l’eccesso di precipitazioni, che causarono frequenti carestie ed epidemie.
La durata media della vita si ridusse, abbassando l’età dei matrimoni e aumentando la mortalità infantile.
Dall’VIII secolo la popolazione cominciò a crescere, le terre tornarono ad essere coltivate e il traffico delle
merci fu riavviato. Dal X secolo l’Europa conobbe un ampliamento delle aree popolate, con la fondazione di
nuove città e, nelle campagne, di una rete di villaggi sempre più fitta. La nuova fase climatica positiva favorì
la crescita della produzione agricola, che rese disponibile una maggiore quantità e varietà di cibo anche per
gli strati inferiori della società. L’aumento della durata media della vita e del numero di figli fu sostenuto
dalla migliore alimentazione, che aiutò il popolo a fronteggiare al meglio le epidemie.
Nella seconda metà del XIII secolo la popolazione cessò di aumentare, tornando a diminuire dall’inizio del
successivo. Si determinò uno squilibrio tra il numero di uomini e la disponibilità di risorse alimentari, che i
limiti delle tecniche agrarie non riuscirono a incrementare ulteriormente. Il peggioramento delle condizioni
climatiche determinò una progressiva penuria di beni alimentari, generando carestie sempre più frequenti.
A metà del XIV secolo il calo della popolazione fu reso drammatico dalla grande epidemia di peste
bubbonica dal 1347, che provocò uno spopolamento generalizzato delle città, l’abbandono di numerosi
villaggi nelle campagne e la concentrazione delle colture sui terreni migliori. Alla metà del secolo
successivo la tendenza demografica si invertì nuovamente, dando avvio a un nuovo ciclo espansivo.

Insediamenti: l’incontro tra il mondo mediterraneo romanizzato e le popolazioni barbariche può essere
inquadrato nel confronto tra comunità sedentarie e nomadi. I romani avevano costruito il più grande impero
sedentario dell’Occidente, al di là del cui confine, segnato dai fiumi Reno e Danubio, le popolazioni
germaniche erano invece sparse in tribù insediate in villaggi provvisori e isolati, dedite a un
seminomadismo di sfruttamento. La loro migrazione verso il Mediterraneo riconfigurò l’assetto delle
popolazioni sedentarie dell’impero: l’impatto fu inizialmente gestito da istituti come la foederatio
(inquadramento militare) e l’hospitalitas (concessione di terre), che puntavano a stabilizzare i barbari.
A renderne definitivamente stabile e pacifico l’insediamento fu l’acculturazione alle tradizioni romane.
I primi secoli del medioevo furono caratterizzati da un pronunciato fenomeno di ruralizzazione, determinato
dall’abbandono delle città da parte dei grandi proprietari fondiari per la crisi della vita pubblica cittadina
seguita alla scomparsa delle istituzioni imperiali. L’insediamento più diffuso era il villaggio che era
organizzato in tre aree concentriche: nucleo abitativo, area coltivata, terre comuni curate dalla comunità.
Per quanto concerne le città, bisogna anzitutto distinguere tra quelle di origine romana e quelle fondate nei
secoli centrali del medioevo, principalmente nell’Europa settentrionale, nelle regioni baltiche e slave.
Le città di tradizione romana ereditarono la centralità di funzioni – economiche (mercato), politiche
(amministrazione), religiose (sede vescovile) – rispetto al territorio circostante.
Le città di fondazione successiva sorsero invece quasi sempre intorno a mercati o sulla base di piani di
colonizzazione di regioni prive di centri urbani.
In generale le città svilupparono nel basso medioevo una vera e propria civiltà urbana, caratterizzata da
vivacità economica, articolazione sociale e amministrativa, enti religiosi, presenza di scuole e università,
sviluppo architettonico e culturale. Talune furono elette a residenza di corti regie e signorili.

Economia: le trasformazioni dell’economia medievale corrispondono a quelle demografiche, essendo il


sistema basato principalmente sull’agricoltura, soggetta alle variazioni climatiche. Si osservano pertanto la
crisi dell’economia romana, seguita da una lunga fase di crescita, caratterizzata dalle produzioni di beni e
manufatti e da scambi commerciali tra aree sempre più interconnesse, interrotta dalla brusca inversione
dei cicli climatici, ambientali e demografici del XIV secolo, e seguita da una ripresa su nuove basi
produttive e nuovi scenari commerciali su scala mondiale.
Fino al II secolo l’impero romano si era retto su un sistema di autonomie locali gestito quasi senza apparati
burocratici. Raggiunta la massima espansione territoriale, gravata da spinte centrifughe e dalla pressione
crescente delle popolazioni barbariche l’organizzazione politica si diede un’amministrazione civile sempre
più ampia e un esercito enorme. Per finanziare questo apparato ipertrofico fu creato un sistema fiscale
sempre più pesante, basato sulla tassazione della terra, che arrivò ad assorbire più della metà dei proventi
agrari, innescando fenomeni di evasione. Le invasioni germaniche misero fine a questo sistema perché
molte regioni smisero di versare le tasse, e il mantenimento della burocrazia gravò su una quota di
popolazione sempre più ridotta. Alla metà del VI secolo in Occidente scomparve ogni forma di imposta
pubblica, che significò l’insostenibilità delle spese per le infrastrutture e per mantenere la burocrazia.
La crisi delle strutture pubbliche comportò la forte contrazione dei commerci organizzati dall’impero, mentre
un elemento di continuità fu l’economia agraria, che rimase immutata: la ricchezza continuò a basarsi sulla
terra e sui suoi prodotti. Il rapporto tra i grandi proprietari fondiari, che dalle città si ritirarono nelle proprie
villae di campagna, e i loro affittuari rimase invariato. La minore opportunità di vendere i prodotti condusse
alla formazione di una serie di sistemi economici locali e tra loro isolati.
Un’inversione di tendenza si manifestò tra VIII e IX secolo quando lo sfruttamento delle terre fu volto,
grazie anche allo sviluppo del sistema curtense, alla commercializzazione delle eccedenze nei mercati.
A differenza dell’economia romana, in cui i consumi erano sostenuti dalla spesa pubblica, la ripresa del
commercio nell’Europa medievale fu espressione dell’accresciuta ricchezza delle aristocrazie.
L’espansione demografica favorì l’aumento della produzione e degli scambi di beni agricoli e di manufatti.
Selve e paludi lasciarono il loro posto a terre coltivate, si costruirono strade, canali e ponti, si fondarono
nuovi borghi e luoghi di mercato, le città tornarono a crescere. Dall’XI secolo i sistemi commerciali del mare
del Nord si collegarono a quelli del mediterraneo: grandi protagonisti furono i mercanti delle città italiane,
geograficamente disposti al crocevia dei nuovi flussi di scambio e capaci di sviluppare innovative tecniche
commerciali e bancarie.
Il calo demografico portò a una contrazione della domanda di beni e servizi, riducendo i livelli globali della
produzione e del commercio, ma al contempo il tenore di vita dei sopravvissuti migliorò, si generò un
aumento della ricchezza media che stimolò la domanda di beni di consumo. La concentrazione su terreni
più fertili favorì una maggiore produttività e diversificazione delle colture e il declino di vecchie industrie (ad
es. la manifattura della lana) fu controbilanciato dallo sviluppo di nuove produzioni come quelle della seta,
delle armi e della stampa.

Società: la famiglia costituisce l’istituzione fondante di ogni società all’interno di una rete parentale. In età
romana era prevalso il modello agnatizio, cioè che riconosceva la linea maschile di discendenza nella
successione patrilineare. Questo sistema rimase prevalente nel medioevo, in particolare nelle famiglie dei
re. Nel XI secolo l’aristocrazia sviluppò il sistema di discendenza su linea maschile da un antenato comune,
dando forma al cosiddetto lignaggio, per rispondere alla necessità di bloccare la proliferazione delle
ramificazioni familiari, di trasmettere il patrimonio attraverso i primogeniti, e di rendere ereditario il potere
signorile. Tra il XII e il XIII secolo i lignaggi cominciarono a distinguersi grazie anche alla fissazione dei
cognomi e alla definizione di genealogie e di stemmi araldici, che presto si diffusero anche presso gli
ecclesiastici e le famiglie mercantili più agiate. Il matrimonio regolamentato dalla Chiesa introdusse a sua
volta chiare linee di demarcazione tra legittimità/illegittimità della discendenza.
Nel medioevo la famiglia mantenne prevalentemente una struttura mononucleare fondata sulla cellula
marito-moglie-figli, a tutti i livelli sociali. Elemento decisivo nella definizione della sua identità fu il
matrimonio, considerato come un contratto civile di unione tra uomo e donna, inteso alla generazione di
eredi maschi e all’ampliamento delle relazioni familiari tramite le figlie femmine.
Scomparso l’impero romano, la prevalenza dell’economia rurale configurò a lungo il predominio di una
minoranza aristocratica, che fosse di origine senatoria romana o di stirpe germanica, su una larghissima
maggioranza di contadini. La condizione di questi ultimi era variegata: schiavi e servi, liberi affittuari, piccoli
e medi proprietari, taluni capaci di inserirsi, per ricchezza acquisita, negli strati inferiori dell’aristocrazia, che
fu a lungo un gruppo sociale permeabile, caratterizzato da elementi di distinzione (possesso di grandi
proprietà terriere, esercizio del potere, ricchezza ostentata, stile di vita militare, posizione di vertice nelle
relazioni sociali etc.). I membri dell’aristocrazia che ricoprivano ruoli ecclesiastici detenevano il monopolio
della cultura e fu proprio da essi che nacque, tra X-XI secolo, l’immagine tripartita della società, organizzata
attorno a coloro che pregavano per la sua salvezza (oratores), coloro che combattevano per la sua difesa
(bellatores) e coloro che lavoravano per il suo sostentamento (laboratores).
Tra XII e XIII secolo la diffusione della cavalleria presso l’aristocrazia signorile favorì la trasformazione di
questa da élite sociale aperta in nobiltà preclusa a nuovi ingressi, in una classe ereditaria dotata di privilegi
giuridici tali da distinguerla dai ceti mercantili e produttivi in forte crescita di status. Lo stile di vita della
nobiltà accentuò i segni di distinzione: dimore di prestigio, adozione di un blasone, passatempi dispendiosi.
Il re divenne l’esclusivo depositario dell’accesso al rango della nobiltà e si differenziarono un’alta e una
bassa nobiltà “di sangue”, secondo una complessa gerarchia di titolature dispensate dal re, e una nobiltà
“di toga”, caratterizzata dall’appartenenza agli alti livelli della burocrazia di stato.
A differenza delle altre città europee, dove le élite erano costituite dai mercanti e dai banchieri, nelle città
italiane comunali e signorili il predominio politico fu prerogativa di una rilevante componente aristocratica:
l’accesso alle magistrature cittadine era la base per l’affermazione, tra XIV-XV secolo, di patriziati (termine
romano ripreso nel tardo medioevo per indicare gruppi ristretti di famiglie che si imposero al governo delle
città, monopolizzandone le delle maggiori cariche politiche) che adottarono uno stile di vita nobiliare.
I rapporti sociali furono disciplinati nel medioevo in un contesto di pluralismo giuridico. Dissoltosi l’impero,
nei territori dell’Occidente le popolazioni romane e germaniche si riferirono a diritti diversi: le prime avevano
delle leggi scritte e di valore territoriale, le seconde mantennero le consuetudini orali, con valore personale.
A sua volta la Chiesa cominciò a elaborare un proprio diritto, detto canonico, che riguardava la vita e i
privilegi del clero e che adottava termini e concetti del diritto romano, data la stretta connessione tra le due
istituzioni. L’impero carolingio, i poteri signorili successivi e le monarchie del basso medioevo esercitarono
il potere di emanare leggi, accentuando la pluralità dei diritti particolari. Il diritto romano fatto riordinare da
Giustiniano nel VI secolo rimase invece sconosciuto finché non fu riscoperto nel XI secolo nelle università.

La condizione femminile: come effetto dell’emancipazione femminile nelle società occidentali, la storia delle
donne, anche all’altezza temporale del medioevo, ha iniziato ad essere studiata in modo sistematico: non ci
si interessa esclusivamente alle biografie delle figure note (ex. Giovanna d’Arco), ma anche a quelle delle
donne comuni. Ricerche importanti sono state dedicate allo studio della vita quotidiana delle donne, della
loro condizione giuridica, di istituti come il matrimonio e le doti, di condizioni come la maternità e la
vedovanza, delle loro occupazioni in ambito domestico, nei campi e nelle botteghe.
Nella società patriarcale del mondo classico la condizione femminile consisteva in una rigida
subordinazione al mondo maschile. Nell’alto medioevo la condizione della donna fu invece improntata a
una più ampia autonomia: le donne operavano transizioni economiche e nei lunghi periodi di assenza dei
mariti amministravano le proprietà e collaboravano al mondo della produzione, ad esempio nella filatura e
nella tessitura. Nei contratti agrari la donna appare spesso accanto al marito come contitolare di un
appezzamento, su un piano di parità: a entrambi era riconosciuto il possesso di un terreno che in caso di
morte del coniuge sarebbe passato all’altro. Nell’età di Carlo Magno e dei suoi successori è attestato
l’istituto del consors regni, in base a cui la moglie del re agiva come contitolare del poter.
Fu soprattutto il pensiero della Chiesa a teorizzare l’inferiorità della donna, individuando in essa lo
strumento di seduzione demoniaca, la discendente di Eva. Dalla debolezza femminile deriverebbe la
minore responsabilità della donna e quindi il suo necessario stato di subordinazione all’uomo.
L’esito fu quello di un graduale peggioramento della condizione femminile, confermato anche
dall’involuzione dei loro diritti: dopo l’XI secolo si fecero sempre più rari gli spazi concessi alle donne,
nonostante molte di loro continuassero ad affiancare gli uomini in alcuni ambiti della vita economica.

Legami sociali: sia la società romana sia le popolazioni germaniche praticarono la schiavitù, e lo stesso
pensiero cristiano, interpretandola come esito della colpa degli uomini, non ne predicò l’abolizione.
Nel medioevo si continuò pertanto a sfruttare la manodopera servile nei lavori domestici e in quelli agricoli.
Si poteva diventare schiavi di guerra, per debiti o per sottomissione spontanea a un signore in cambio di
protezione. Rispetto all’antichità il servo non era più un oggetto di proprietà del padrone: per questo si
preferisce parlare di servaggio per indicare la comune condizione di servi, coloni liberi e piccoli proprietari
di fronte a un signore cui dovevano prestazioni di varia entità e natura.
Diffusi nell’impero romano e tra le popolazioni barbariche furono anche i legami di fedeltà personale che
giocarono un ruolo centrale nell’organizzazione sociale del medioevo. Rispetto all’antichità l’ingresso nella
clientela di un signore era una scelta individuale basata su un giuramento, dunque non trasmissibile ai figli.
In assenza di apparati amministrativi adeguati i re dell’alto e del pieno medioevo si avvalsero largamente
dei legami di fedeltà per controllare territori molto vasti, demandando compiti di governo a propri fideles,
che controllavano i funzionari pubblici (ad es. i missi dominici di Carlo Magno). Nel basso medioevo si
diffusero legami di fedeltà meno formalizzati ma altrettanto efficaci, come quelli di amicizia che spesso
sostennero l’affermazione di poteri personali signorili nelle città italiane.
Il legame di fedeltà che conobbe maggiore fortuna nel medioevo fu quello vassallatico beneficiario, alla
base dell’affermazione della dinastia carolingia tra VIII e IX secolo: il vassus, inizialmente un aristocratico,
giurava fedeltà al re, offrendo aiuto militare e consiglio politico in cambio di protezione e di un beneficium a
titolo vitalizio (e in seguito ereditario) consistente per lo più in beni fondiari. Il sistema si diffuse
rapidamente a diversi livelli sociali: accanto ai vassalli del re, scelti sempre tra persone di alto rango,
comparvero i vassalli comuni, facenti parte di clientele private. I signori che dal X secolo diedero vita a
domini territoriali, spesso incentrati su un castello, si avvalsero comunemente di un seguito vassallatico di
guerrieri (milites) che costituiva un vero e proprio esercito privato. A partire dall’XI secolo nelle città i
vescovi e le famiglie aristocratiche si circondarono di clientele vassallatiche che alimentarono conflitti
armati che segnarono, soprattutto in Italia, la vita politica urbana. Nel basso medioevo i re utilizzarono a
loro volta la fedeltà vassallatica per legare a sé i signori che avevano costituito ampi potentati.
Politica: l’ordine politico rispecchiò l’assetto gerarchico della società essendo il potere detenuto da ristretti
gruppi di individui. Di conseguenza, anche le riflessioni sulla sua natura e sulle forme di governo
teorizzarono la legittimità di autorità gerarchiche. Solo nel basso medioevo cominciarono a essere
avanzate posizioni che limitavano il potere regio o che contestavano le pretese di ingerenze politiche da
parte del papato. Il principio di autorità fu rafforzato dall’idea, di origine biblica, che il potere derivasse
direttamente da Dio e fosse pertanto indipendente dal consenso dei sudditi: i sovrani erano responsabili
solo davanti a Dio. La loro sacralità fu certificata dal rito dell’unzione, sul modello veterotestamentario dei
re di Israele (e, per i franchi, di Meroveo), rito ripreso con l’incoronazione a re dei franchi di Pipino il Breve
a metà del VIII secolo. L’unzione, amministrata dai vescovi, fu considerata una sorta di sacramento che
poneva i re al di sopra degli altri membri della società politica; allo stesso tempo attribuiva un ruolo centrale
all’episcopato nel processo di legittimazione e di controllo dei sovrani.
L’ordine politico del medioevo ereditò dal mondo tardo antico l’idea del necessario dominio “universale” di
un’autorità suprema. In continuità con quello romano d’Oriente si pose l’impero bizantino, costituitosi tra V
e VII secolo nell’area tra i Balcani, l’Egeo e l’Anatolia, come sintesi della struttura statale romana, della
cultura greca e della religione cristiana. In continuità ideale fu riproposto un impero anche in Occidente, di
natura non più mediterranea ma europea, per iniziativa dei franchi: l’attribuzione del titolo imperiale a Carlo
Magno ad opera di Papa Leone III nell’anno 800 significò la consacrazione del sovrano come protettore
della Chiesa e il disconoscimento dell’autorità universalistica di Bisanzio sull’Occidente. Inoltre, l’investitura
papale dell’imperatore indicava il potere supremo (imperium) come prerogativa concessa dal pontefice.
Le autorità universali cominciarono a declinare dal XIII secolo per effetto dell’affermazione di poteri sempre
più autonomi come i regni nazionali e le città comunali e signorili italiane.

Istituzioni politiche: l’autorità dell’impero riuniva nel medioevo entità regie e principesche: Carlo Magno, per
esempio, unificò nella propria persona i titoli di re dei franchi e dei longobardi. Quando il papato riformato
nell’XI secolo elaborò la teoria della translatio imperii, secondo cui il potere imperiale non derivava
direttamente da Dio ma dal pontefice, gli imperatori cercarono di svincolarsi dalla tutela papale: nella
seconda metà del XII secolo, ad esempio, Federico Barbarossa attinse ad argomentazioni tratte dal diritto
romano per legittimare l’autorità imperiale, e introdusse l’espressione sacrum imperium per rivendicarne la
natura sacrale. Della concezione universalistica originaria rimase solo il riferimento alla sacralità del ruolo.
Tra la dissoluzione dell’impero romano d’Occidente e la formazione di quello carolingio, l’organizzazione
della vita politica prevalente fu quella dei regni romano-barbarici. Dal V all’VIII secolo soprattutto quelli
visigoto e franco furono laboratorio di sperimentazioni di convivenza tra le popolazioni germaniche e
romane. La tradizione barbarica del potere sulle persone (il re era al comando di un popolo e non di una
regione) si incontrò con la concezione romana dell’esercizio del potere su un territorio. Quando si
insediarono stabilmente nei territori dell’impero i re barbarici dovettero trasformarsi in re di tutte le
popolazioni che vi risiedevano: decisiva fu la conversione al cattolicesimo, che rese i re protettori della
Chiesa e dunque anche delle popolazioni romane. Per legittimare il loro ruolo, i re tesero a imitare i
caratteri dell’autorità imperiale (battere moneta, emanare leggi etc.). L’organizzazione dell’esercito continuò
ad essere affidata alle fedeltà personali della cultura barbarica; la crisi del sistema fiscale impedì di
stipendiare la burocrazia: furono i maggiori esponenti dell’aristocrazia barbarica ad assumere il controllo
delle giurisdizioni territoriali, con il titolo di conti o di duchi.
Dalla fine del IX secolo, con il progressivo indebolimento del potere centrale, tali ufficiali fecero delle
proprie prerogative pubbliche la base per la costruzione, tra X-XI secolo, di autonomi poteri locali. Poteva
trattarsi di qualche decina di “principati” territoriali come di centinaia di contee di più modesta estensione,
ma entrambi i livelli si ponevano in continuità con i poteri pubblici, i cui titoli erano stati ereditati da tutti i
membri delle famiglie degli originari detentori. Nello stesso periodo altre famiglie aristocratiche non
detentrici di poteri pubblici ma forti di clientele armate costituirono a partire dai propri possessi fondiari degli
analoghi poteri di dominio politico, in genere centrati su singoli castelli: le signorie di “banno” o territoriali.
(banno = termine che indica il potere nel senso di costrizione, usato per descrivere l’autorità esercitata dai
signori locali tra X e XII secolo).
La frammentazione signorile fu superata dalla ricomposizione territoriale avviata (X-XII secc.) dai poteri
monarchici affermatisi a partire da nuclei politici di origine carolingia – che diedero poi forma ai regni di
Francia, Italia e Germania – o postcarolingia, come quelli dei regni normanni, iberici e slavi. A differenza di
quelli romano-barbarici, i regni del basso medioevo non ebbero alcuna connotazione etnica.
Nel basso medioevo si affermarono forme di governo collegiale nelle campagne e nelle città. Tra il XII e il
XIII secolo le comunità rurali furono in grado di patteggiare con i signori la messa per iscritto delle
consuetudini agrarie e il riconoscimento di forme elementari di autogoverno: ciò fu reso possibile dal
declino dei poteri signorili, che spesso trovarono conveniente riconoscere i diritti delle comunità in cambio
di riscatti monetari. Di maggiore portata fu invece l’affermazione dell’autogoverno cittadino, per effetto
soprattutto dello sviluppo demografico ed economico. Tra l’XI e il XII secolo i mercanti e gli abitanti delle
città cominciarono a ottenere dai re e dai principi territoriali delle carte di “franchigia” o di “comune” che ne
riconoscevano lo status giuridico differenziato rispetto ai residenti delle campagne e il diritto di partecipare
all’amministrazione urbana. Fu soprattutto nelle città del regno d’Italia che i comuni raggiunsero un grado
pieno di autonomia politica, in virtù della presenza di una rilevante componente aristocratica militare nella
società urbana e delle funzioni di organizzazione del territorio circostante che le città italiane svolgevano
sin dall’antichità. Gli ultimi secoli del medioevo conobbero un generale orientamento verso forme di
dominio caratterizzate da una sempre maggiore articolazione di apparati amministrativi. Protagonisti furono
sia le monarchie sia gli autonomi governi cittadini, che oggi definiamo “stati” per evidenziarne l’avanzato
grado di complessità istituzionale e di estensione territoriale. All’inizio del XIV secolo le monarchie
cominciarono a rivendicare la piena autonomia da ogni autorità universalistica, affermando il principio che
all’interno del proprio regno ogni sovrano deteneva il potere supremo (rex in regno suo est imperator).
Nondimeno il potere degli stati permase, rimanendo forti al loro interno le giurisdizioni signorili, i privilegi del
clero e le autonomie delle comunità. Entrò così in uso la convocazione da parte dei sovrani di parlamenti
dove le rivendicazioni della nobiltà, del clero e delle città potevano trovare ascolto, e in cui il re diveniva
mediatore delle diverse componenti politiche, a garanzia dell’unità del regno.

Religioni: nel medioevo le regioni mediterranee ed europee furono teatro della diffusione delle tre grandi
religioni monoteiste – ebraismo, cristianesimo, islam – appartenenti al ceppo comune risalente ad Abramo.
Fulcro dell’ebraismo è la fede nella signoria di Dio sull’universo e sulla storia, annunciata dall’apparizione di
un salvatore, il Messia. Il rapporto con Dio culmina nell’alleanza per cui alla benevolenza divina
corrisponde il dovere da parte del popolo ebraico di osservare i comandamenti che, compendiati nel
decalogo consegnato a Mosè, abbracciano ogni aspetto della vita individuale e collettiva. Con la
distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. (ne resta oggi solo il Muro del Pianto) ebbero fine i
sacrifici compiuti dai sacerdoti, sostituiti da attività di culto guidate dai rabbini nelle sinagoghe e incentrate
sulla lettura della Bibbia ebraica, cioè l’Antico Testamento. Gli ebrei sono un popolo segnato dal destino
della diaspora, cioè dalla dispersione nel mondo dalla terra d’Israele, rinominata Palestina dai romani.
Tollerate nell’impero islamico, le comunità ebraiche subirono invece nell’Europa cristiana una crescente
ostilità, sfociata nel basso medioevo nell’emarginazione e in frequenti persecuzioni.
Innestato sull’ebraismo è il cristianesimo, che ne mantiene il quadro teologico salvo per il fatto che il
Messia non è più atteso, ma si è incarnato nella persona di Gesù di Nazareth, come rivela il Nuovo
Testamento. Gesù Cristo – in ebraico Gesù significa “Dio è salvezza” e Cristo “unto” come i re di Israele –
è a un tempo profeta e oggetto di culto, vero Dio e vero uomo, Figlio di Dio incarnato, morto e risorto per la
salvezza degli uomini. Gesù era ebreo e il suo insegnamento si rivolse principalmente al suo popolo,
predicando un nuovo tipo di vita che integrava le antiche leggi mosaiche con un messaggio di uguaglianza
e solidarietà. Ma se i primi convertiti alla nuova fede furono gli ebrei, essi non accolsero in massa la sua
rivoluzione religiosa. Il cristianesimo si diffuse invece tra le popolazioni dell’impero romano, organizzandosi
in chiese, cioè in comunità di credenti: nel III secolo fu adottato dalle élites urbane, che gli diedero
un’articolazione istituzionale e ne svilupparono la dottrina.
Cristiani ed ebrei cominciarono a confrontarsi, dalla metà del VII secolo, con una nuova religione
monoteista, l’islam, irradiatasi dall’Arabia. A predicarla fu Maometto dopo la rivelazione del Corano, ossia
della parola di Dio. Maometto è l’ultimo di una lunga serie di profeti: l’islam li riconosce come degli di
rispetto, ma ritiene superate le loro rivelazioni e inattendibili i loro libri sacri. L’islam è dunque il compimento
dell’autentico monoteismo: è resa incondizionata (islam significa “sottomissione, abbandono”) al solo e
unico Dio onnipotente. Nonostante la precoce divisione della comunità musulmana tra la maggioranza
sunnita, fedele alla tradizione del profeta, e una minoranza sciita, legata alla parentela di Maometto, l’islam
si diffuse rapidamente, tra VII-VIII secolo, in molti territori di Asia, Africa ed Europa, a seguito di conquiste
militari degli arabi, che quindi entrarono presto in conflitto con la cristianità europea.

Cristianesimi e chiese: le comunità cristiane si radicarono nelle città nella consapevolezza che
evangelizzarle significava permeare i centri più avanzati del mondo mediterraneo e intercettare le diverse
componenti della società. I ceti più umili trovarono nel cristianesimo la speranza di riscatto della propria
condizione. Roma divenne il centro simbolico del cristianesimo: già nel II la sua Chiesa, fondata dagli
apostoli Pietro e Paolo, cominciò a rivendicare un maggior prestigio rispetto alle altre sedi episcopali.
Nonostante le resistenze di alcuni settori della società e le persecuzioni promosse da alcuni imperatori, la
liberalizzazione del culto nel 313 e la proclamazione come unica religione dell’impero nel 380 sancirono
l’istituzionalizzazione del cristianesimo. Il mondo dei villaggi rurali (pagi, da cui il termine paganesimo)
resistette invece per secoli alla cristianizzazione, avvenuta poi grazie all’impegno dei monaci.
Per oltre un millennio, fino all’XI secolo, la cristianità non ebbe un capo. Ogni chiesa era presieduta da un
vescovo, appartenente inizialmente alla classe senatoria romana e poi anche alle aristocrazie barbariche
convertite. Il complesso delle chiese mantenne sempre un disegno orizzontale e paritario, senza
subordinazione gerarchica. Il vescovo di Roma, in quanto successore di Pietro, era solo il vescovo più
eminente in Occidente, e condivideva il titolo di patriarca con quelli orientali di Costantinopoli, Antiochia,
Alessandria e Gerusalemme. La sostanziale autonomia in cui operavano le chiese locali determinò una
varietà di interpretazioni del Vangelo, che sfociarono in controversie teologiche sul problema della natura
divina e/o umana del Messia e sul mistero della Trinità. Nel primo concilio universale, convocato a Nicea
nel 325 dall’imperatore Costantino, fu definita l’ortodossia cattolica e vennero condannate le eresie, cioè le
“scelte” dottrinarie diverse da essa, a partire dall’arianesimo.
Una mutazione profonda nell’assetto della Chiesa avvenne nell’XI secolo, quando il papa, richiamandosi al
primato di Pietro tra gli apostoli, promosse una ristrutturazione in senso gerarchico delle istituzioni
ecclesiastiche. L’accentramento dei poteri sulla Chiesa e sul mondo sancì il trionfo dell’universalismo
pontificio su ogni autorità terrena. La trasformazione in senso monarchico del papato suscitò resistenze nei
vescovi, costretti alla subordinazione alla sede romana, aprendo un conflitto con l’impero sul controllo delle
loro nomine. La progressiva definizione giuridica dell’ortodossia da parte dei pontefici incontrò forti
resistenze anche tra i laici che, tra XII-XIV secolo, contestarono il primato del papa e denunciarono la
corruzione della Chiesa, col risultato che furono perseguitati come eretici per via giudiziaria.
In Oriente, le chiese vescovili rimasero configurate come una costellazione coordinata dai concili. Solo
lentamente il patriarcato di Costantinopoli aveva affermato la sua autorità ecumenica sulle altre sedi, con il
sostegno degli imperatori bizantini, che ne avevano estero gradualmente la giurisdizione a tutto l’impero.
Maturò poi la separazione tra Chiesa di Roma, annunciata nel VI secolo dallo scisma dei Tre Capitoli,
acuitasi con la mancata adesione delle chiese occidentali alla proibizione del culto delle immagini
(iconoclastia) nel VII-VIII secolo, e palesatasi con il sostegno del papato alla potenza franca. La riforma
pontifica dell’XI secolo non fu accettata dalle chiese orientali e portò allo scisma tra la Chiesa di Roma
(cattolici) e quella di Costantinopoli (ortodossi).
Il cristianesimo sviluppò il monachesimo – il distacco dal mondo e l’esperienza eremitica di ascesi spirituale
– che si diffuse dal IV secolo anche in Occidente. Sostenuto dal papato e poi dall’impero carolingio, il
monachesimo si rivelò fondamentale nell’evangelizzare le campagne, dove l’aristocrazia fondò monasteri
maschili e femminili per corroborare la propria egemonia sulla società rurale. La rinuncia ai beni terreni e il
distacco dalle ricchezze materiali, tipica del monachesimo alto medievale, fu ripresa tra XI-XII secolo dai
movimento che intesero contrapporre alla ricchezza e alla mondanità della Chiesa la povertà, percepita
come avvicinamento a Cristo e alla perfezione evangelica (ex. la predicazione francescana).
Specifica del cristianesimo fu la precoce distinzione del clero, addetto alle funzioni di culto e
all’amministrazione dei beni delle chiese. Il divario tra le gerarchie ecclesiastiche e gli altri fedeli fu
accentuato dalle origini sociali: il clero fu monopolizzato dalle élites dell’impero e poi dalle aristocrazie
medievali. Con l’istituzionalizzazione del cristianesimo i vescovi furono chiamati ad affiancare i funzionari
civili e, scomparso l’impero d’Occidente, ad assumere il governo delle città. Ciò rese il clero un ordine
sociale ricco di privilegi; tra alto e basso clero le differenze andarono accentuandosi mano a mano che le
cariche gerarchiche e i grandi benefici divennero appannaggio dei figli cadetti della nobiltà.

Cultura: nel medioevo la cultura si sviluppò in un quadro eterogeneo di tradizioni differenti, dominate
dall’eredità della cultura antica, dalla pervasività della cultura cristiana e dal dominio dell’oralità.
Riprese dall’antico furono promosse da Carlo Magno, che vivificò la tradizione dell’impero romano grazie
agli intellettuali di corte. Nella cultura cristiana fu ininterrotta l’opera di esegesi biblica, di riflessione
antropologica e filosofica, di definizione teologica ed etica che mirava al disciplinamento della società.
L’attitudine alla scrittura era stata diffusissima nel mondo romano tra I-II d.C., anche tra persone di
condizione sociale modesta. La scomparsa delle scuole di grammatica e di retorica in seguito alla crisi
delle città e alla dissoluzione dell’impero determinò invece una discontinuità epocale: per molti secoli
l’Europa occidentale riservò l’uso della scrittura a ecclesiastici specializzati e a pochi laici.
La preponderanza della Chiesa nel determinare la tradizione scritta fu assoluta sin tutto l’XI secolo.
Le invasioni barbariche condussero tra IV e VIII secolo alla morte del latino come lingua parlata, che
assunse caratteri originali fino a generare, tra VII e IX secolo, le lingue neolatine nelle regioni che erano
state romanizzate, e le lingue d’altro ceppo nelle altre aree. Il latino rimase la lingua della comunicazione
scritta in tutta l’Europa medievale in virtù del monopolio ecclesiastico delle strutture educative, con l’effetto
che gli alfabetizzati non poterono usare per scrivere la lingua che parlavano.
Lo sviluppo economico delle città e l’affermazione dei poteri monarchici e comunali furono all’origine, tra
XII-XIII secolo, di nuove istituzioni educative promosse dai privati e dalle autorità pubbliche: scuole di
grammatica, scuole di apprendistato organizzate dai mercanti, università. La ritrovata alfabetizzazione dei
laici determinò l’estensione massiccia delle scritture correnti negli affari economici e nelle attività di
governo. In questo contesto si originarono anche le letterature in lingua volgare, con la poesia d’amore e la
letteratura cavalleresca.

Fenomeni peculiari: il feudalesimo è un concetto elaborato in età moderna per designare l’organizzazione
sociale e politica del medioevo. L’interpretazione prevalente è stata quella di individuarvi l’esito dello
smembramento del patrimonio statale e del potere pubblico d’età carolingia a favore dell’aristocrazia
militare e fondiaria che diede forma alla signoria – e più in generale ogni cedimento dell’autorità pubblica in
favore degli interessi privati. Al contrario oggi si separano i rapporti vassallatico-beneficiari dalla genesi dei
poteri signorili e si distinguono due età feudali: una prima, carolingia, propriamente vassallatica e incentrata
sulla fedeltà militare, e una seconda, XI secolo, in cui le istituzioni feudali costituirono uno strumento di
raccordo tra i sovrani e i signori territoriali che consentì ai primi di inquadrare politicamente i secondi
all’interno dei propri regni.
La ricerca storica più recente ha mostrato come le popolazioni barbariche non costituissero etnie coerenti e
stabili, ma aggregati tribali in continua trasformazione, secondo il cosiddetto processo di “etnogenesi”.
Lungi dall’avere fondamenti etnici, la formazione di identità collettive di carattere nazionale fu l’esito di una
progettualità politica e culturale del basso medioevo. Tra XIII e XIV secolo furono gli apparati istituzionali
delle monarchie ad avviare la costruzione delle comunità nazionali: in Francia, Inghilterra, Germania e
Spagna i sovrani mobilitarono gli uomini di cultura affinché si diffondesse tra i sudditi l’idea che la
popolazione del regno costituiva un’entità omogenea e coerente, dotata di una storia comune.

Capitolo 3: la trasformazione del mondo romano

La crisi dell’impero romano (secoli III-V): terminate le guerre d’espansione, l’economia cominciò a
ristagnare: la fine delle conquiste romane determinò un rapido calo della disponibilità di manodopera
schiavistica e i costi per il mantenimento degli apparati statali determinò un inasprimento del prelievo
fiscale. Si creò cioè un crescente squilibrio tra risorse e necessità: la spesa pubblica superò l’ammontare
delle entrate e la coniazione di moneta di sempre minor valore fece crescere l’inflazione. Il divario tra ricchi
e poveri si accentuò: moltissimi artigiani e piccoli proprietari terrieri furono costretti a cercare lavoro come
braccianti nei latifondi dei senatori. Si moltiplicarono anche i fenomeni di criminalità, brigantaggio e
pirateria, mentre i traffici mercantili subirono una forte contrazione. Nel corso del III secolo l’elezione degli
imperatori dipese sempre più dall’esercito, composto da soldati mercenari reclutati sempre più tra le
popolazioni barbariche confinanti. Fu Diocleziano, imperatore dal 284-305, ad avviare un periodo di
riforme, che portò con sé alcuni risultati positivi. Per rilanciare l’autorità imperiale egli associò al trono
Massimiano, cui affidò il governo delle regioni sul Reno mentre si prese cura diretta di quelle danubiane e
orientali, spostano la sua residenza da Roma a Nicomedia (Asia Minore), e la capitale da Roma a Milano.
Il governo fu trasformato in “tetrarchia” nel 293, quando ai due “augusti” furono affidati due “cesari”(Galerio
in Oriente e Costanzo Cloro in Occidente), allo scopo di sottrarre la nomina dei successori all’esercito, e di
definirne precise competenze territoriali.
Il numero dei soldati crebbe al punto da raddoppiare i costi di mantenimento, che si sommavano alle spese
per l’apparato burocratico dilatato dalle riforme. Per sostenere l’espansione della spesa furono adottate
varie misure, come una più razionale amministrazione del fisco, basando l’esazione della tassa fondiaria
sul catasto. Nel 301 Diocleziano cercò anche di arginare l’inflazione fissando dei prezzi massimi, ma il
calmiere non ebbe gli effetti sperati.
Il figlio di Costanzo Cloro, Costantino, rimase l’unico imperatore fino alla morte nel 337. Sul piano
amministrativo proseguì le riforme di Diocleziano, separando definitivamente le carriere militari da quelle
civili, incrementando l’esercito mobile. Soprattutto egli si accorse che il baricentro politico, economico e
culturale dell’impero era andato progressivamente spostandosi verso Oriente: per questo trasformò l’antica
città di Bisanzio in una “nuova Roma”, che da lui prese il nome di Costantinopoli nel 330.
Il trasferimento della capitale evidenziò la divaricazione tra pars Orientis e pars Occidentis: le città
decaddero in Occidente, mentre in Oriente mantennero il ruolo centrale nei commerci e nelle produzioni,
motivo per cui le ricchezze confluirono in questa parte dell’impero.
Teodosio, imperatore dal 379 al 395, dispose la suddivisione dell’impero alla sua morte tra i due figli,
affidando ad Arcadio l’Oriente e ad Onorio l’Occidente (dove nel 402 la capitale divenne Ravenna).
Da allora i destini dei due imperi seguirono percorsi diversi: mentre in Oriente lo sviluppo dell’ordinamento
pubblico continuò ad essere sostenuto dalla crescita economica, in Occidente la sua crisi ampliò le
disparità sociali e accentuò la disgregazione delle istituzioni.

Romani e barbari, integrazioni e conflitti: alla trasformazione del mondo romano contribuì in maniera
determinante l’incontro tra le popolazioni barbariche e quelle romane. A lungo si è ritenuto che la fine
dell’impero romano in Occidente fosse stata causata dalle invasioni barbariche, anche se oggi si è notato
che le migrazioni dei germani non hanno dato luogo a una contrapposizione di civiltà, ma a un processo di
acculturazione reciproca. Ciò che avvenne fu un contatto prolungato e diretto fra culture diverse, tale da
modificarne i modelli di riferimento. L’irruzione e lo stanziamento delle tribù germaniche all’interno dei
confini dell’impero romano occidentale non lo sconvolsero improvvisamente, ma si diluirono nel tempo (II-
VI secolo). Inoltre, i nuovi venuti non erano numerosi a fronte della popolazione romana, e dunque il loro
impatto fu graduale. Nondimeno, gli effetti delle violenze e della distruzione contribuirono a segnare le
discontinuità economiche, politiche e culturali tra il mondo romano e quello medievale. Prevalsero però gli
elementi di integrazione, cui diede un contributo fondamentale la conversione al cristianesimo da parte
delle popolazioni barbariche. L’influenza dei romani sui germani era stata intensa e aveva determinato
cambiamenti nelle tribù ben prima che fossero attratte dai territori imperiali. Le strategie di integrazione
attuate con la foederatio e l’hospitalitas contribuirono ad attenuare i conflitti e a promuovere occasioni di
incontro. Nel complesso il processo di acculturazione vide prevalere i modelli dei romani, motivo per cui i
germani contrastarono spesso l’integrazione con i romani, resistendo all’assimilazione totale.

Diffusione del cristianesimo: alla trasformazione del mondo romano contribuì la diffusione del cristianesimo
nei territori dell’impero, che sostanziò l’uniformità religiosa e culturale da cui emerse l’Europa nell’età
successiva. Tale processo conobbe anche delle battute d’arresto: nel IV secolo era ancora una religione
minoritaria fra le molte praticate nell’impero. Esportato dall’ambito originario della Palestina da Paolo di
Tarso nel I secolo, si diffuse in Siria, Asia Minore e Grecia per poi propagarsi, tra II-III secolo, in Africa
settentrionale, Italia, Gallia e nella penisola iberica, restando circoscritto alle città.
La religione politeistica tradizionale si era fusa con altri riti provenienti dall’Oriente, dando luogo a un clima
di sincretismo religioso, cioè di mescolanza di dottrine di origine diversa. Tali culti trovarono larghe adesioni
nell’esercito e in alcuni imperatori. Proprio il rifiuto dei cristiani di tributare atti di culto all’imperatore fu
all’origine delle sistematiche persecuzioni di massa disposte da Decio, Valeriano e Diocleziano. La
concessione di libertà di culto da parte di Costantino nel 313 assicurò invece all’imperatore l’appoggio
incondizionato dei cristiani. Nel corso del secolo, il cristianesimo fu accettato dall’impero al punto d’essere
riconosciuto come religione ufficiale (editto di Tessalonica, 380, emanato da Teodosio). Ciò fu l’esito della
convergenza di due scelte: da un lato gli imperatori individuarono nelle strutture organizzative delle chiese
e nel loro radicamento presso le aristocrazie un formidabile strumento di legittimazione del potere
imperiale; dall’altro fu proprio la progressiva adesione al cristianesimo dei gruppi dirigenti romani ad
orientare le scelte imperiali: i capi delle comunità cristiane locali, anzitutto i vescovi, furono scelti sempre
più spesso tra le famiglie delle élites urbane.
Costantino continuò ad agire come pontifex maximus, cioè come capo della religione di stato romana,
arrogandosi li diritto di intervenire nelle questioni ecclesiastiche. Fu lui infatti a convocare il concilio
ecumenico di Nicea nel 325, la prima grande assemblea di tutta la cristianità, preoccupato che le divisioni
teologiche all’interno della Chiesa potessero minare la ritrovata stabilità dell’impero. Nel concilio si affermò
il cattolicesimo in contrapposizione ai gruppi settari, definiti eretici. Tra le eresie condannate la più diffusa
era l’arianesimo, una dottrina formulata da Ario, un prete di Alessandria d’Egitto, per cui a Cristo si
attribuiva una natura divina gerarchicamente inferiore a quella del Padre (nega la loro consustanzialità).
Nel corso del IV secolo il cristianesimo fu oggetto di istituzionalizzazione, che lo dotò di una propria
organizzazione fondata sulla gerarchia ecclesiastica, su un corpo di norme e formule di fede condivise.
Rimase a lungo una religione urbana, penetrando più lentamente nelle aree rurali, per cui i non credenti
che vi risiedevano vennero chiamati pagani, dal latino pagus, villaggio rurale.
Per molte popolazioni barbariche la conversione al cristianesimo fu mediata dalla dottrina ariana, in
conseguenza delle missioni evangelizzatrici svolte dai vescovi ariani, come il goto Ulfila, autore alla metà
del IV secolo, della prima traduzione in lingua gota della Bibbia (ovviamente secondo l’interpretazione
ariana, che quindi influenzò tutte le popolazioni di lingua gota). L’evangelizzazione dei popoli barbarici ebbe
intensità diversa: l’opera di conversione fu promossa soprattutto dai vescovi cattolici che in seguito al crollo
delle strutture imperiali erano rimasti la sola autorità capace di inquadrare la società romana e di trattare
con i barbari. L’obiettivo fu quello di convertire i re e i capi militari delle popolazioni, nella convinzione che,
data la natura sacrale riconosciuta alla regalità tra le etnie barbariche, la conversione dei re sarebbe stata
seguita dal resto della loro gente. Il primo a convertirsi fu Clodoveo re dei franchi, battezzato nel 496 da
Remigio vescovo di Reims, seguito poi da quasi tutti i sovrani degli altri regni (burgundi, visigoti, angli,
sassoni e longobardi). L’adozione della fede cattolica costituiva per i sovrani un allargamento della base di
legittimazione del loro potere, che, in qualità di difensori delle chiese, si estendeva ai romani.
La regressione in alcune aree del cristianesimo fu contrastata da un’intensa opera di evangelizzazione di
cui si resero protagonisti i monaci missionari. Tra V e VI secolo monaci provenienti dalla Gallia
cristianizzarono l’Irlanda (in particolare Patrizio, futuro patrono dell’isola) e poi la Britannia, la cui rete
ecclesiastica era stata sommersa dagli angli e dai sassoni.
I franchi furono l’unica popolazione barbara ad aderire direttamente al cristianesimo cattolico e la precocità
della loro conversione fu alla base della loro supremazia politica e civile sull’Occidente europeo.

Le invasioni barbariche: l’altro grande fenomeno che trasformò il mondo romano furono le migrazioni dei
popoli barbarici all’interno dell’impero tra IV e VI secolo. Le più miti regioni mediterranee e le ricchezze
delle province imperiali esercitarono un’attrazione sempre più forte sulle tribù, stanziate nei territori nordici.
Per il probabile peggioramento delle condizioni climatiche, su di esse cominciarono a premere dalle steppe
euroasiatiche altre tribù seminomadi in cerca di nuovi spazi verso ovest. Fu in particolare la formazione di
un impero da parte degli inni incentrato sulla Pannonia (attuale pianura ungherese) che diede avvio a un
colossale processo di spostamenti a catena. “Barbari” erano per i romani i popoli che non parlavano il
greco o il latino, ma lingue incomprensibili; il termine, che mantenne sempre una connotazione negativa,
designava tutte le popolazioni stanziate al di là del limes, cioè il confine dell’impero.
L’impero aveva rinunciato alla conquista della Germania già al tempo di Tiberio (14-37), e si preferì
consolidare e fortificare il limes in corrispondenza dei due grandi fiumi europei, il Reno e il Danubio.
Le popolazioni barbariche confinanti cominciarono così a entrare nell’orbita del sistema imperiale,
costituendone una sorta di periferia (i guerrieri furono arruolati nell’esercito romano, furono avviati rapporti
commerciali). Incursioni sempre più frequenti si susseguirono dal III secolo, ma fu lo spostamento dei
visigoti l’elemento che destabilizzò l’equilibrio politico dell’impero tra IV-V secolo. Aggrediti dagli unni, erano
stati accolti in Tracia, ma la loro presenza si risolse in saccheggi fino allo scontro con l’esercito romano,
sconfitto presso Adrianopoli nel 378, dove trovò la morte lo stesso imperatore Valente. Da lì, i visigoti
condussero scorrerie in Grecia, Macedonia, nell’Illirico e nella pianura padana, minacciando di giungere a
Milano, prima di essere respinti dall’esercito guidato dal generale Stilicone, di origine vandala.
Guidati da Alarico, tornarono in Italia puntando direttamente a Roma, che saccheggiarono nel 410, per poi
ottenere di potersi stanziare nella Gallia meridionale, dove misero sotto controllo l’Aquitania, costituendo il
primo regno barbaro all’interno del territorio imperiale.
Dopo questi fatti, l’impero d’Oriente evitò eccessive contaminazioni con i barbari, mirando a preservare il
territorio da ogni significativa infiltrazione barbarica, cercando anche di deviarne le incursioni verso
Occidente. Qui, invece, i sentimenti di chiusura si alternarono a tentativi di integrare le popolazioni
barbariche che vi affluivano con ondate migratorie sempre più intense. Soluzioni pragmatiche furono la
foederatio e l’hospitalitas, la prima che si rivelò una soluzione efficace con i franchi, che combatterono in
difesa della Gallia, e la seconda che divenne un sistema appetito dalle popolazioni: la sua mancata
concessione indusse i visigoti al saccheggio di Roma nel 410, con un’eco vastissima nella romanità.
All’inizio del V secolo le frontiere dell’impero cedettero. Per affrontare i visigoti il grosso dell’esercito fu
dislocato in Italia, sguarnendo i confini settentrionali: la Britannia fu abbandonata ed esposta alle incursioni;
per fronteggiarle fu favorito l’insediamento come federati di angli e sassoni, che crearono dei regni che
indussero le popolazioni britanniche a ritirarsi nell’attuale Galles (il termine Welsch era impiegato per
indicare i “non germani”) e, oltre la Manica, nella regione che da loro prese il nome di Bretagna.
Il limes del Reno fu oltrepassato da diversi gruppi, soprattutto alani, burgundi e vandali, che dilagarono
nella Gallia, incontrando la resistenza dei soli federati franchi, che li spinsero a stanziarsi oltre i Pirenei,
nella penisola iberica, non più presidiata dall’esercito. Su incarico dell’impero, i visigoti vi dispersero gli
alani, stringendo i vandali nell’estremo sud, che prese il nome di Vandalusìa.
Sotto Valentiniano III (425-455) il generale Ezio ebbe un ruolo decisivo alla guida di un esercito innervato
da contingenti barbarici; in particolare, in alleanza con franchi e visigoti, respinse l’invasione degli unni
guidata da Attila, sconfitti e ritiratisi dall’Italia, probabilmente sazi delle razzie compiute.
I vandali si stanziarono nell’Africa settentrionale, e grazie all’occupazione di Cartagine esercitarono una
continua azione di pirateria nel Mediterraneo, invadendo Sicilia, Baleari, Corsica e Sardegna e
saccheggiando Roma, sempre via mare, nel 455.
Quando le migrazioni sembrarono cessate, la successione di una serie di imperatori privi di reale potere
indebolì la tenuta dell’istituzione imperiale, al punto che il generale Siagrio resse per circa vent’anni un
dominio personale tra Loria e Senna. In Italia nel 476 il generale sciro Odoacre depose il giovane Romolo
Augustolo, dando vita a un dominio personale che non fu però riconosciuto dall’imperatore d’Oriente
Zenone. Anche per allontanare la minaccia immediata, Zenone affidò invece l’amministrazione della
prefettura dell’Italia a Teodorico, capo degli ostrogoti, che, sconfitto Odoacre, diede vita a un regno che
avrebbe governato la penisola sino al 533.

Capitolo 4: l’Occidente post imperiale

I regni romano-barbarici: lo stanziamento dei barbari entro i confini dell’impero d’Occidente promosse la
formazione di una serie di regni nel corso del V secolo. Ciò non significò la fine dell’impero romano, perché
esso continuò ad esistere nella parte orientale. Per questo, la deposizione di Romolo Augustolo nel 476
passò quasi inosservata al confronto con l’eco che ebbe ad es. il saccheggio di Roma del 410, che creò
l’impressione del crollo di un’intera civiltà. Per i romani si trattò di elaborare nuove forme di convivenza con
i barbari sotto l’autorità dei loro sovrani. I regni vennero chiamati romano-barbarici proprio a sottolinearne la
natura mista sul piano etnico e istituzionale; laddove l’integrazione tra le due componenti fu più marcata, i
regni si rivelarono più stabili. Al crescente abbandono delle città corrispose la sempre maggiore importanza
del mondo rurale, dove le grandi proprietà fondiarie divennero il luogo primario dell’organizzazione
socioeconomica; i latifondi rimasero saldamente in mano all’aristocrazia senatoria.
La conversione al cristianesimo di quest’ultima si accentuò anche per effetto della diffusa sensazione di
angosciosa fine di un’epoca. Non fu infrequente che i personaggi eminenti per cultura e censo di famiglie
senatorie venissero nominati vescovi. Nel progressivo venir meno delle strutture imperiali, furono le
istituzioni ecclesiastiche a garantire l’inquadramento delle popolazioni latine e la continuità con il passato.
Nelle campagne, i monasteri sorsero come importanti nuclei di coesione socioculturale.
Nel tempo si produsse un’uniformazione tra i barbari e la componente romana che diede corpo da un lato a
una vera e propria aristocrazia di grandi possessori, e dall’altro a un ceto di piccoli proprietari.
Mentre i romani continuarono a vivere secondo le leggi del diritto romano, i barbari conservarono le proprie
consuetudini giuridiche, che prediligevano la personalità del diritto ed erano prive di elementi di diritto
pubblico. Solo quando i regni cominciarono a stabilizzarsi, le popolazioni si preoccuparono di mettere per
iscritto le consuetudini fino ad allora tramandate oralmente. Queste compilazioni, redatte in lingua latina,
erano il segno di un processo di acculturazione che era in atto presso i barbari. Le leggi barbariche
subirono l’influsso del diritto romano e di quello canonico, e con l’andare del tempo finirono con l’assumere
una validità territoriale, estesa a tutti i sudditi del regno.

Vandali: l’assetto più fragile fu quello del regno dei vandali nell’Africa del nord. Essi si resero fautori di un
duro dominio militare, di un pesante sfruttamento economico e di una rigida intolleranza religiosa, che
alienarono loro l’appoggio della popolazione romana. Da un lato i vandali rifiutarono il sistema
dell’hospitalitas e procedettero alla spoliazione sistematica dei grandi proprietari latini; dall’altro favorirono
le chiese ariane, trasferendovi i beni e le proprietà confiscate ai vescovi e alle chiese cattoliche.
La conflittualità permanente all’interno del regno offrì all’imperatore Giustiniano il pretesto per intervenire
nel 533, secondo il progetto di ripristino dell’integrità territoriale dell’impero. Con una rapida campagna
militare, che non incontrò particolare resistenza, i bizantini riconquistarono l’Africa e le isole mediterranee,
ponendo fine al regno dei vandali, che divennero schiavi o furono incorporati nell’esercito bizantino.
Ostrogoti: nel regno ostrogoto in Italia i romani conservarono le proprie prerogative di fronte alla minoranza
barbarica, insediata attraverso il sistema dell’hospitalitas. Re Teodorico, un barbaro che aveva vissuto a
Bisanzio presso la corte imperiale a contatto con la civiltà greco-latina, attuò inizialmente una politica di
convivenza, con un governo rispettoso delle istituzioni romane e dei cristiani di fede nicena. La soluzione fu
quella di tenere separate le popolazioni, ciascuna con le proprie leggi, lingua e religione. L’aristocrazia
senatoria, che rafforzò i propri patrimoni fondiari, fu influente presso la corte di Teodorico, dove tra gli alti
funzionari furono alcuni degli intellettuali maggiori della tarda antichità, come Boezio, Cassiodoro e
Simmaco. L’amministrazione civile fu appannaggio della popolazione latina, mentre il comando militare
delle guarnigioni fu assunto dai goti. Fu tutelata anche la diversa confessione: ariani i goti, niceni i romani,
ognuno con le proprie chiese e sacerdoti.
Teodorico, che continuò a fare di Ravenna la capitale, promosse il mantenimento infrastrutturale, le
bonifiche agrarie e lo sviluppo dell’artigianato. La convivenza si risolse però in una coesistenza sullo stesso
territorio di due corpi distinti, senza sforzi significativi di assimilazione reciproca. Questo precario stato di
pace si rivelò fragile quando Bisanzio lanciò una politica di unità religiosa, perseguitando gli ariani in
Oriente e minacciando gli stessi goti. Teodorico rispose con una dura repressione antiromana e antinicena
che portò alla morte degli stessi Boezio e Simmaco e alla carcerazione di papa Giovanni I nel 526.
Le lotte per la successione al trono si intrecciarono alla lunga guerra con l’esercito bizantino, che pose fine
al regno nel 553.
Visigoti: il regno dei visigoti durò a lungo, fino all’avanzata degli arabi nel 711-716, a testimonianza della
solidità della loro convivenza con le popolazioni romane. L’integrazione fu progressiva muovendo dalla
hospitalitas e dall’iniziale distinzione di ruoli, militari per i goti e civili per i latini. Superata la fase delle
guerre che consolidarono il regno nella penisola iberica difendendolo anche dall’avanzata bizantina del
553, il re creò strutture di governo ispirate al modello romano, e il suo successore decise di convertirsi al
cattolicesimo per conferire all’autorità regia una base più ampia e il coinvolgimento dei vescovi niceni
attraverso ampie concessioni di competenze civili.
La cooperazione tra le varie componenti del regno si espresse nei concili generali, aperti nel 633 alla
partecipazione dell’aristocrazia laica per occuparsi non solo delle questioni di fede ma anche delle grandi
scelte politiche e amministrative. I concili si configuravano come delle grandi assemblee del regno, le cui
deliberazioni andavano a integrare la legislazione regia ordinaria.

Franchi: una piena integrazione fu realizzata nel regno dei franchi, che rispetto alle altre popolazioni si
stabilizzarono più precocemente, abbandonando il nomadismo e scegliendo di fondersi con le popolazioni
gallo-romane. Fu Clodoveo, re dal 481-511 e preteso discendente del leggendario Meroveo (da cui il nome
della dinastia), a superare il frazionamento tribale e ad affermare la sua autorità sugli altri capi militari,
ponendo le basi per la costruzione del regno ed estendendone i territori. Nel 486 sconfisse l’ultimo nucleo
di resistenza gallo-romana, il regno di Siagrio, espandendo i domini verso ovest, e innestò il suo potere
sulle precedenti strutture amministrative romane.
Clodoveo comprese l’importanza di stabilire dei rapporti stretti con l’episcopato cattolico: nel 496 si fece
battezzare a Reims dal vescovo Remigio, presentandosi così alla popolazione gallo-romana come il
protettore delle chiese. La conversione diretta dal politeismo al cristianesimo niceno senza passare per
l’arianesimo agevolò il rapporto con il clero e le popolazioni di fede nicena, che riconobbero l’autorità del re,
legittimandone l’azione politica. Il suo ruolo fu ulteriormente rafforzato nel 510, con la redazione del Pactus
legis salicae, che fissava per iscritto le norme di convivenza della sua popolazione.
Alla morte di Clodoveo la concezione patrimoniale del potere portò alla spartizione del regno tra gli eredi.
Quello dei franchi fu in realtà sempre un insieme di regni tra loro conflittuali, benché non fosse venuta mai
meno l’idea di un organismo politico comune: ogni re si intitolava “re dei franchi”. Né la frammentazione
impedì ulteriori espansioni, come l’annessione della Provenza, che garantì l’accesso al Mediterraneo, e la
sottomissione dei burgundi. Nella grande potenza territoriale che venne così formandosi si distinguevano
alcune regioni: l’Austrasia (“terra dell’est”), che restò sempre la regione più fortemente germanizzata; la
Neustria (“nuova terra dell’ovest”), dove più profonda era stata la compenetrazione della civiltà germanica
con quella latina; la Burgundia, antico regno dei burgundi, che conservò tenacemente la sua individualità
politica e culturale; l’Aquitania, che non costituì mai un regno a sé, dove assai scarsa era la presenza dei
franchi e più radicate le tradizioni gallo-romane.
I regni riuscirono a superare i conflitti e a trovare una certa stabilità solo all’inizio del V secolo, grazie alla
concessione da parte dei re franchi di ampie prerogative di governo locale all’aristocrazia. Questa fondeva
ormai l’elemento germanico con quello romano: non solo si celebravano sempre più frequentemente
matrimoni misti, ma vi era anche convergenza tra gli stili di vita. Dalle famiglie aristocratiche locali erano
reclutati anche gli ufficiali pubblici: i conti (comites), che risiedevano in gran parte nelle città con compiti
giudiziari e militari, e i duchi, a capo di più ampie circoscrizioni territoriali.
Approfittando della debolezza dei re nel corso del VII secolo, l’amministrazione dei vari regni fu sempre più
controllata dai maestri di palazzo, i massimi funzionari di corte, che usarono il patrimonio regio per crearsi
delle clientele militari attraverso la distribuzione di terre. Una grande famiglia dell’aristocrazia austrasiana,
quella dei Pipinidi, riuscì a rendere ereditaria tale carica e, con Pipino II di Herstal, a riunire nelle sue mani
nel 687 i ruoli di maggiordomo dei regni di Austrasia, Neustria e Burgundia. Il figlio Carlo, detto Martello
(cioè piccolo Marte) avviò una forte espansione contro alamanni e sassoni, e nel 732 condusse l’esercito
franco nella vittoria di Poitiers contro una spedizione islamica, arrestandone definitivamente l’avanzata
verso nord. La vittoria fu preludio alla deposizione del re ad opera del figlio di Carlo Martello, Pipino il
Breve, che fu acclamato re dai grandi del regno nel 751.
L’affermazione dei Pipinidi fu legittimata dalla loro alleanza con la Chiesa di Roma: Pipino si fece ungere
con il sacro crisma nel 754 da papa Stefano II, che consacrò anche i figli Carlomanno e Carlo (poi Magno).

L’Italia fra longobardi e bizantini: dopo un lungo conflitto protrattosi fino al 553, che prostrò duramente la
società italica, colpita nei patrimoni fondiari e afflitta da carestie e pestilenze che produssero un
drammatico regresso demografico ed economico, e che segnò la vera fine della civiltà antica nella
penisola, Giustiniano ristabilì il dominio imperiale sull’Italia. Con la Prammatica sanzione del 554 egli
estese la legislazione bizantina in Italia, riorganizzò le circoscrizioni territoriali e mantenne divisa
l’amministrazione civile da quella militare. Ma il paese era ormai allo stremo: ne fu prova la pressoché nulla
resistenza opposta all’invasione longobarda.
I longobardi si erano trasferiti in Pannonia alla fine del V secolo. Da lì, pressati da altri popoli, migrarono in
Italia attraverso il Friuli e si insediarono in tre aree principali: la pianura padana, la Toscana e i territori
intorno a Spoleto e Benevento. Le coste rimasero invece in mano ai bizantini, insieme con l’Istria, Ravenna
e il suo entroterra, la Pentapoli (fascia territoriale comprendente cinque città tra Rimini e Ancona), il
territorio di Roma, collegato a nord da una serie di castelli appenninici, Napoli, la Puglia, la Calabria e le
isole maggiori. L’Italia si trovò così divisa sotto due dominazioni profondamente diverse per tradizioni,
istituzioni, costumi e lingua: una frattura che avrebbe segnato a lungo la storia politica della penisola e che
si sarebbe ricomposta soltanto nel XIX secolo.
L’insediamento dei longobardi, popolazione germanica ferocemente estranea alla cultura romana, ebbe un
impatto violento sulla società italica e comportò la dispersione dell’antica aristocrazia senatoria. Le terre
furono confiscate e distribuite tra i membri dell’esercito longobardo, che si trasformarono in proprietari
fondiari, pur mantenendosi uomini in armi (arimanni), distinti giuridicamente dai servi, cui erano affidati i
lavori agricoli, e dai semiliberi (aldii). I longobardi si distribuirono sul territorio in raggruppamenti familiari
con funzioni militari (fare), sottoposti all’autorità dei capi guerrieri, i duchi, che li avevano guidati in Italia.
Questi erano cristiani ariani, mentre gran parte del popolo seguiva ancora i culti di tradizione germanica.
I primi decenni dello stanziamento longobardo furono caratterizzati da una forte conflittualità interna tra re e
duchi, che agivano in sostanziale autonomia. Dopo un decennio di divisione politica senza alcun re, Agilulfo
avviò un’opera di rafforzamento dell’autorità regia, emarginando i duchi più riottosi e costituendo un vasto
patrimonio fiscale, grazie alla cessione al sovrano della metà delle terre da parte dei duchi, con l’eccezione
di quelli di Spoleto e Benevento, che continuarono a godere di una certa autonomia.
Un graduale superamento della contrapposizione tra longobardi ariani e romani cattolici fu avviato, grazie
anche alla mediazione della regina Teodolinda, con papa Gregorio Magno, preoccupato di salvare Roma.
Costituita stabilmente a Pavia nel 626 la corte, fu rafforzato il potere del re, sviluppato un apparato di
governo e organizzato il territorio in distretti più ordinati. I duchi dell’Italia centro-settentrionale furono
progressivamente trasformati in ufficiali regi, a capo di circoscrizioni incentrate intorno a città strategiche, e
affiancati da funzionari minori come gli sculdasci (capi-villaggio). Le grandi aziende agrarie regie, che
costituivano la base economica del sovrano, erano affidate alla gestione di gastaldi, cui furono
progressivamente conferite funzioni di governo anche nei territorio soggetti ai duchi. L’affermazione
dell’autorità del sovrano fu sancita dalla promulgazione (643) di un editto che raccolse in forma scritta le
norme relative alla vita civile, ai rapporti patrimoniali, alla disciplina militare.
L’insieme dei territori rimasti sotto il controllo bizantino era stato riorganizzato alla fine del VI secolo e
affidato all’esarca, funzionario che risiedeva a Ravenna e riuniva le funzioni militari e civili. Anche gli ufficiali
locali, i duchi, erano responsabili della difesa a livello regionale. Lo stato di guerra costante e le difficoltà di
collegamento tra le diverse aree resero indipendenti i vari ducati (Roma, Napoli, Calabria e altri), sui quali
l’autorità imperiale finì con l’essere soltanto nominale.
Passata la fase della conquista e dell’occupazione delle terre, le condizioni della popolazione italica
migliorarono. All’inizio dell’VIII secolo, possessori di stirpe romana entrarono nell’esercito, mentre tra i
vescovi e i monaci erano ormai numerosi gli appartenenti alla stirpe longobarda. la società ormai
etnicamente mista trovò ulteriore consolidamento durante il regno di Liutprando (712-744), che si fregiò del
titolo di christianus et catholicus princeps con l’intento di fare delle istituzioni ecclesiastiche un elemento di
sostegno alla monarchia. Approfittando dell’indebolimento delle popolazioni italiche, Liutprando puntò alla
conquista dell’esarcato e dei territori bizantini sino al ducato di Roma. Il progetto suscitò la reazione del
papato, che sollecitò una vasta mobilitazione contro i longobardi. I re Astolfo e Desiderio, che occuparono
ripetutamente Ravenna, subirono le spedizioni dei franchi sollecitate dai papi, che culminarono nella
conquista del regno nel 774 da parte di Carlo Magno.
Carlo unì al titolo di “re dei franchi” quello di “re dei longobardi”, consentendo al regno longobardo di
mantenere la propria identità anche dopo la conquista franca.
Caduto il regno, i duchi di Benevento assunsero il titolo di principes, dando continuità al regno nel
meridione d’Italia. Il principato riuscì ad evitare la conquista franca e a mantenere a lungo la propria
indipendenza, nonostante le divisioni interne e la frammentazione politica dell’area, complicata nel corso
del IX secolo dalla conquista della Sicilia da parte degli arabi. Solo l’avvento dei normanni nella seconda
metà dell’XI secolo mise fine all’autonomia politica longobarda.
Nell’eclissi del potere bizantino, il papato aveva assunto sempre maggiori funzioni di governo su Roma e
sul suo ducato, sostituendovi progressivamente una propria amministrazione e puntando a tutelare gli
immensi patrimoni fondiari che la Chiesa aveva accumulato. I rapporti con l’impero si interruppero quando il
papa non seguì gli orientamenti iconoclastici sostenuti da Leone III nel 726, che per rappresaglia staccò da
Roma la diocesi dell’Italia meridionale, confiscandone i patrimoni. Minacciati dai longobardi, i papi decisero
di rivolgersi alla nuova, potente e cattolica, dinastia franca dei Pipinidi, che nel 756 donò “ai beati Pietro e
Paolo” numerosi territori ripresi ai longobardi compresi tra Ravenna e la Pentapoli. Essi si aggiunsero a vari
castelli laziali, tra i quali quelli di Sutri, già donato alla Chiesa di Roma da Liutprando nel 728. Intorno a
questi nuclei prese corpo nel cuore della penisola il dominio territoriale del papato, destinato a durare per
oltre un millennio.

Capitolo 5: Bisanzio

La tradizione dell’impero: dissolto a Occidente nel V secolo, l’impero romano continuò in Oriente.
L’imperatore Giustiniano (527-565) elaborò un ambizioso programma di restaurazione per ridare all’impero
la sua estensione originaria e un assetto unitario. Obiettivo fu la riconquista dei territori mediterranei dove si
erano formati i domini barbarici, su cui l’imperatore intese riaffermare la sua autorità. Gli eserciti imperiali
abbatterono con successo il regno dei vandali nell’Africa settentrionale, quello degli ostrogoti in Italia, e
recuperarono le coste meridionali della penisola iberica in mano ai visigoti.
L’impegno nel Mediterraneo lasciò però scoperta la frontiera sul Danubio, da dove si riversarono
popolazioni che avviarono la slavizzazione dei Balcani. Sul fronte orientale Giustiniano strinse accordi con i
sasanidi, che assicuravano la pace con l’impero persiano a fronte di onerosi tributi in oro.
Il grandioso programma di Giustiniano fu sostento da varie riforme. Sul piano religioso egli si impegnò nella
tutela della Chiesa e della fede, rafforzando il potere dei vescovi, colpendo duramente le dottrine ereticali e
perseguitando tutti i culti non cristiani, dall’ebraismo ai residui del paganesimo antico.
Per fronteggiare la crescente inefficienza della giustizia, Giustiniano promosse anche una sistematica
revisione del diritto romano che portò alla redazione di un nuovo codice, il Corpus iuris civilis, che raccolse
e selezionò criticamente le leggi in vigore, e che costituì l’esito più duraturo delle sue riforme. La nuova
sistemazione coerente del corpo del diritto imperiale fu articolata in 4 sezioni:
1. Codice giustinianeo: raccolta redatta in latino sulle leges dai tempi di Adriano;
2. Digesto: raccolta redatta in latino dei pareri e delle intepretazioni dei giuristi;
3. Istituzioni: trattato redatto in latino sui fondamenti del diritto romano destinato all’insegnamento;
4. Nuove costituzioni: raccolta redatta in greco delle leggi emanate da Giustiniano.
L’azione di Giustiniano fu ispirata da una visione universale e rappresentò l’ultimo tentativo di restaurare
l’autorità dell’impero romano su Oriente e Occidente, ma i successori non ebbero le risorse finanziarie e
militari per governare stabilmente l’intero spazio Mediterraneo. La conquista parziale dell’Italia da parte dei
longobardi(569), il primo assestamento degli slavi nei Balcani (592) e l’abbandono definitivo della penisola
iberica (629), spostarono per sempre il baricentro dell’impero verso Oriente. Effimero si rivelò anche il
consolidamento della frontiera asiatica: già tra il 630 e il 640 Siria, Palestina, Mesopotamia, Armenia, Egitto
e nord Africa, caddero sotto il dominio arabo: in poco meno di un secolo l’impero si ridusse a potenza
regionale gravitante tra Egeo e Anatolia.
Per il continuo stato di guerra, le funzioni militari acquistarono un peso crescente, di pari passo con
l’indebolirsi del potere centrale e l’accentuarsi delle autonomie locali. Furono create nuove unità
amministrative, i temi, poste al comando di uno stratego (titolo che nelle antiche città greche indicava i
rappresentati del supremo comando militare), che assommava l’autorità civile e militare. L’esercito finì con
l’essere composto da sempre più milizie locali, compensate dalla concessione di terreni trasmissibili in
eredità. Per tal via, i soldati contadini non gravarono più per il loro mantenimento sulle finanze pubbliche e
costituirono una piccola proprietà terriera. La società rurale accrebbe il proprio peso e i villaggi divennero
l’unità di base dell’esazione fiscale, a scapito delle città, che furono abbandonate, eccetto Costantinopoli.
Nel 678 gli arabi assediarono Costantinopoli e negli anni successivi Bisanzio perse gli ultimi avamposti
nell’Africa settentrionale aprendo la via alla conquista araba della Spagna.
Di fronte a tali pressioni esterne solo il cristianesimo restava a baluardo dell’identità collettiva dell’impero.
Una controversia religiosa divenne così un affare politico che ne travagliò a lungo la vita. Nel 726
l’imperatore Leone III proibì la venerazione delle immagini sacre, aderendo al movimento che ne
considerava idolatrico il culto e ne predicava la distruzione (iconoclastia). Tra gli obiettivi erano quelli di
indebolire il potere dei monasteri, che anche grazie a tale culto avevano influenza sulla popolazione, e di
confiscarne le terre per ridistribuirle ai soldati. Soprattutto la lotta iconoclastica era volta a creare un fronte
interno compatto contro il pericolo islamico. La mancata adesione delle regioni bizantine dell’Italia centro-
meridionale segnò però l’irreversibile allontanamento della Chiesa di Roma da quella orientale. La crisi
politica si chiuse con la riammissione del culto delle immagini nell’843.
(Iconoclastia: termine greco che significa “distruzione delle immagini” e che designò il movimento religioso
sviluppatosi a Bisanzio tra l’VIII e il IX secolo, che considerava idolatrico il culto delle immagini sacre e ne
predicava la distruzione. Gli iconoclasti negavano che il divino fosse rappresentabile, anche per influenza
dell’ebraismo e dell’islam, che avversavano il culto delle immagini considerandolo un retaggio del
paganesimo politeista. Gli adoratori delle immagini ritenevano invece che l’incarnazione di Cristo rendesse
legittimi la sua rappresentazione e il culto della sua immagine).
Gli slavi si erano insediati sin dal VI secolo nei Balcani in piccoli villaggi. Meno bellicosi dei germani, gli
slavi furono guidati militarmente dalle etnie turche degli àvari e dei bulgari. Costantinopoli ne favorì
l’evangelizzazione per assimilarli alla civiltà bizantina. Il re bulgaro Boris si convertì nell’865, ma decisiva si
rivelò la missione del monaco Cirillo, che per favorire la diffusione del cristianesimo tradusse la Bibbia in
slavo elaborando un nuovo alfabeto (poi detto cirillico), derivato dal greco. Gli slavi occidentali (croati,
sloveni, polacchi) furono invece cristianizzati da missionari legati ai franchi e alla Chiesa di Roma. I bulgari,
i serbi e i macedoni, come poi gli slavi orientali (ucraini e russi), rimasero legati alla Chiesa ortodossa.
Approfittando della crisi dell’impero islamico, Bisanzio riprese l’iniziativa nella seconda metà del IX secolo.
I discendenti di Basilio I riuscirono a rendere la successione al trono ereditaria, in discontinuità con la
tradizione elettiva della carica imperiale. Ciò permise alla dinastia dei Macedoni (867-1057) di guidare
l’impero a una rinnovata fase di sviluppo. In Asia Minore la riconquista si spinse sino alla Siria, alla
Mesopotamia e all’Armenia. Il recupero delle isole di Cipro e Creta segnò la fine dell’egemonia navale
araba e il riavviarsi delle relazioni commerciali con l’Occidente.
Basilio II riconquistò l’intera penisola balcanica, annientando il regno dei bulgari. Alla sua morte l’impero
era tornato ad essere la forza politica più importante del Mediterraneo orientale e nell’Europa balcanica.
L’esercito impegnato nelle guerre d’espansione era tornato ad essere composto da soldati stipendiati, che
sostituirono le milizie formate dai contadini. La piccola proprietà fu comunque tutelata e i villaggi rimasero
le unità fiscali di base. Il sistema dei temi fu esteso alle regioni riconquistate dall’impero, ma
l’amministrazione civile fu nuovamente separata da quella militare, e la burocrazia ritrovò un più efficiente
controllo centrale. Tutto ciò fu reso possibile dalla ripresa dell’economia, che favorì anche la rifioritura delle
città. Qui venne formandosi una nuova aristocrazia che possedeva terre ma soprattutto pubblici uffici, e che
era pertanto legata ai destini dell’impero. il ruolo dello stato era infatti determinante nell’economia bizantina:
la distribuzione delle ricchezze si basava su un efficiente sistema fiscale che doveva garantire il pagamento
degli stipendi pubblici e delle spese militari. I mercanti erano sottoposti invece a forti vincoli da parte dello
stato, che controllava la produzione, distribuzione e consumo dei beni.
L’investimento nel commercio fu sempre marginale nella società bizantina: la ricchezza continuò a basarsi
sulla terra. La grande proprietà fondiaria ottenne nel corso dell’XI secolo crescenti concessioni di immunità,
che sottrassero al controllo dello stato territori sempre più ampi e accrebbero l’autonomia dei latifondisti.
I vincoli posti al commercio si trasformarono in fattori di debolezza quando cominciarono a operare in
Oriente i mercanti occidentali: la concessione nel 1082 di privilegi commerciali ai veneziani segnò l’inizio
del declino economico di Bisanzio.
Nel 1054 si era prodotto anche lo scisma tra la Chiesa di Costantinopoli e quella di Roma. Pur avviandosi
al declino, la società bizantina mantenne vive le proprie caratteristiche: le tradizioni imperiali, il predominio
dell’elemento greco (linguistico e culturale), la connotazione ortodossa del cristianesimo.

Capitolo 6: Islam

La civiltà in espansione: il vasto territorio della penisola arabica era sempre rimasto ai margini degli imperi
bizantino e persiano. In gran parte desertica e priva di città, l’Arabia era abitata da tribù di beduini che
praticavano l’allevamento e il commercio lungo le grandi vie carovaniere che collegavano le oasi e che
assicuravano la circolazione delle merci dalla più fertile regione meridionale verso i mercati dell’Egitto, della
Siria e della Mesopotamia. Il nomadismo della popolazione dava vita a confederazioni di tribù politicamente
instabili. L’unico elemento di coesione era il pellegrinaggio al santuario della Ka’ba (luogo di culto nella città
di La Mecca in cui si conserva un frammento di meteorite. In origine il santuario accoglieva i culti più vari,
mentre dopo l’affermazione dell’islam fu riservato ai soli musulmani). Il pellegrinaggio, aperto a tutti i culti,
era occasione per una tregua, durante la quale si concludevano affari o si saldavano debiti. A garantire il
culto a tutte le fedi e ad organizzare la fiera era il potente clan dei Qurayshiti.
Nato a La Mecca intorno al 570 da un ramo del clan dominante, Maometto entrò così in contatto con le
religioni più diffuse, dall’animismo politeista al monoteismo ebraico e cristiano. Ritiratosi in meditazione
spirituale ebbe nel 610 la rivelazione fondamentale: l’arcangelo Gabriele gli ordinò di diffondere la parola di
Dio (Corano). La predicazione di un monoteismo rigoroso, che richiedeva la sottomissione assoluta (islam)
del fedele alla volontà di Dio (Allah), pose Maometto in contrasto con le grandi famiglie meccane, che
fondavano il proprio potere sul rispetto delle varie religioni, base della fortuna economica della città.
Il profeta fu costretto a riparare con i seguaci nell’oasi di Medina nel 622, data della migrazione (égira) da
cui ha inizio il calendario islamico. La comunità raccolta intorno a Maometto si organizzò in forme nuove,
non più sulla base dei vincoli tribali, ma sulla condivisione della stessa fede, che sottoponeva tutti i
musulmani alla suprema autorità del profeta: sin dall’inizio l’islam propose un modello politico in cui la sfera
spirituale era indistinguibile da quella temporale.
Maometto guidò personalmente le razzie contri i vari clan, costringendoli a sottomettersi. Dopo anni di
conflitti anche La Mecca cedette nel 630 e fu eletta a luogo sacro dell’islam. La predicazione di Maometto
riuscì a dare un’identità unitaria a una moltitudine di tribù: da allora il mondo arabo godette di
un’eccezionale compattezza religiosa e politica e fu identificato con il mondo musulmano. Alla morte di
Maometto nel 632 il problema della successione nella vita pubblica fu risolto con la creazione della figura
del califfo, incaricato di tenere unita la comunità e di far rispettare la legge divina (sharia) contenuta nella
rivelazione di Maometto. I primi quattro califfi, tutti parenti di Maometto, guidarono anche sistematiche
campagne militari contro i più ricchi e fertili territori bizantini e persiani che confinavano con le regioni
desertiche dell’Arabia; in pochi decenni conquistarono Egitto, Palestina, Siria, Mesopotamia e Persia.
Con l’elezione di Alì nel 656 esplose il conflitto tra quanti (gli sciiti) pretendevano che il califfo dovesse
appartenere alla famiglia di Maometto e quanti (i sunniti) sostenevano il principio che potesse essere eletto
qualsiasi fedele. Questi ultimi ebbero la meglio sui partigiani di Alì, che fu ucciso. Lo scontro aprì anche
una frattura dottrinale tra sunniti e sciiti che perdura tutt’oggi. Il nuovo califfo Mu’awiya, del clan degli
Omayyadi, introdusse un modello imperiale sull’esempio bizantino e persiano, con una capitale
amministrativa posta a Damasco a capo di una salda rete di funzionari provinciali, e affermò il principio
ereditario del califfato. Sotto la dinastia omayyade l’impero raggiunse la sua massima estensione: penetrò
nel cuore del continente asiatico sino all’Indo, completò la conquista del nord Africa fino all’Atlantico e
occupò la Spagna visigota. La conquista di Cipro, Creta e Rodi diede alla flotta araba il predominio sul
mare, che sancì la definitiva rottura dell’unità politica del mediterraneo.
L’espansione si arrestò solo di fronte alla difesa dei franchi, che si opposero agli arabi a Poitiers nel 732, e
dei bizantini, che sconfissero l’esercito islamico in Anatolia nel 740. La rapidità dell’espansione araba fu
dovuta all’organizzazione dell’esercito e alla debolezza degli imperi confinanti: quello persiano si sfaldò,
quello bizantino era lacerato da conflitti etnici e religiosi.
Inizialmente gli arabi costituirono un’élite militare cui era impedito di possedere terre e che si mantenne
separata dalle popolazioni locali, che poterono conservare tradizioni, culti e sistemi amministrativi (ebrei e
cristiani non furono perciò perseguitati, dietro pagamento di un tributo). In seguito si moltiplicarono le
conversioni all’islam, che consentivano di entrare nell’élite dominante e di godere dell’esenzione fiscale.
Si avviò così un processo di integrazione sancito dal califfo Omar II con l’abolizione dello status separato
degli arabi e la creazione di un sistema politico fondato sull’uguaglianza di tutti i musulmani.
La riforma di Omar II cercò di fronteggiare le crescenti tensioni tra le diverse componenti etniche e religiose
di un impero ormai vastissimo. Sostenuto dalle élites non arabe convertite all’islam, un discendente di
Maometto, Abul Abbas, rovesciò gli Omayyadi nel 750, dando il via alla dinastia califfale degli Abbasidi.
Muovendo la capitale da Damasco a Baghdad, il baricentro dell’impero si spostò dal Mediterraneo verso
l’Asia. Il potere centrale imitò i modelli imperiali persiani, con un apparato burocratico tripartito (cancelleria,
esattoria fiscale, amministrazione militare) e posto sotto il controllo del visir, potentissimo funzionario di
corte. Il territorio fu suddiviso in province rette da governatori locali, gli emiri, dotati di estese prerogative.
La lingua ufficiale rimase l’arabo, ma il gruppo dirigente fu largamente aperto alle altre etnie presenti ormai
nell’impero. sul piano religioso, l’interpretazione sunnita della fede islamica si impose definitivamente sulle
altre. Lo spostamento verso Oriente dell’impero frenò ulteriori espansioni in Occidente e lasciò spazio alla
ripresa navale bizantina nel Mediterraneo.
Nell’età degli Abbasidi l’impero conobbe un considerevole sviluppo economico. Nell’agricoltura il
miglioramento delle tecniche (rotazione delle terre, sistemi di irrigazione) favorì la bonifica di vaste aree e
l’introduzione di nuove colture. Lo sviluppo delle città creò una domanda crescente di prodotti di consumo e
diede impulso alle produzioni artigianali. La ricchezza si fondò soprattutto sul gigantesco bacino
commerciale costituito dall’immenso ambito geografico dell’impero, ben integrato da una fitta rete di vie di
traffico marittime e terrestri, e in rapporto con i mercati dell’Occidente, di Bisanzio e dell’estremo Oriente.
L’enorme estensione raggiunta dall’impero, che spaziava dall’oceano Atlantico a quello Indiano, acuì, già
nella seconda parte del IX secolo, le spinte secessionistiche delle regioni periferiche. L’unità politica
dell’islam cominciò a disgregarsi quando gli emirati cominciarono a promuovere politiche autonome. Si
affermarono così dinastie locali che si sottrassero progressivamente al potere centrale degli Abbasidi.
A Baghdad, nel 945, la dinastia persiana dei Buwayhidi ebbe la delega del governo degli Abbasidi, che
conservarono solo nominalmente il titolo califfale. Ai persiani si sosituì nel 1058 la dinastia turca dei
Selgiuchidi, che assunse la guida dell’islam, conducendolo nel 1071 alla conquista dell’Anatolia bizantina.
Il sentimento di comune appartenenza a una società fondata sulla condivisione della fede musulmana e
dell’arabo quale lingua letterari non venne meno a fronte della frantumazione politica. Eccezionali furono in
particolare le esperienze dell’islam europeo: in Spagna una straordinaria miscela etnica (arabi, romani e
visigoti) e religiosa (musulmani, cristiani ed ebrei) fece del califfato, e in particolare della capitale Cordova,
un luogo di convivenze civile e di eccellenza intellettuale e artistica; tra il IX e il X secolo, Palermo e la
Sicilia divennero una delle aree più fiorenti dal punto di vista economico e culturale, poste al centro di tutte
le rotte del Mediterraneo. Più in generale, la civiltà islamica si pose all’avanguardia sul piano culturale,
come mostra la raccolta di novelle de Le mille e una notte, in cui vennero rielaborate le tradizioni letterarie
indiana, persiana e siriaca.

La fede musulmana: oltre al Corano i musulmani fanno riferimento anche alla Sunna (“consuetudine”),
basata sulle tradizioni, che raccoglie gli episodi della vita di Maometto, le sue parole e i suoi atti. Fanno
parte delle credenze fondamentali dell’islam anche la fede negli angeli, nella risurrezione finale, nel giudizio
universale e nella vita futura, paradiso per i credenti e inferno per gli altri.
Compito essenziale del musulmano è quello di adempiere alla volontà divina fissata nella sharia. L’islam
non contempla né dogmi né sacramenti né clero, e prevede che per manifestare la propria fede il credente
debba adempiere a soli 5 precetti, “pilastri” dell’islam: la professione di fede; la preghiera rivolti verso La
Mecca cinque volte al giorno in orari prestabiliti; il digiuno nel mese di Ramadan; l’elemosina legale, che
consiste nel versamento di determinati beni a favore degli indigenti e della comunità; il pellegrinaggio alla
Mecca, da compiersi almeno una volta nella vita. La maggioranza sunnita dei musulmani non ammette
gerarchie clericali dal momento che l’islam non crede che possa esistere alcun intermediario fra Dio e le
sue creature. Solo per la minoranza degli sciiti è fondamentale la figura dell’imam, inteso come capo
religioso e politico della comunità.

Capitolo 7: Europa carolingia

La rinascita dell’impero: alla morte del padre Pipino il Breve nel 768 e del fratello Carlomanno nel 771,
Carlo (poi detto Magno) ereditò il regno franco. L’organizzazione sociale si fondava su un’aristocrazia che
traeva la sua forza dall’ampia disponibilità di terre e dalle capacità di mobilitare potenti clientele armate.
Carlo guidò un’espansione militare su larga scala che procurò terre e bottini alle grandi famiglie franche, e
che nel volgere di un trentennio diede vita a un’imponente costruzione politica nell’Occidente europeo.
Fu spento innanzitutto il ribellismo di regioni come la Borgogna, l’Aquitania e la Provenza, dove furono
costituite dinastie di conti e fu rinsaldato il legame con il re. Nel 772 fu avviata oltre il Reno una lunghissima
guerra contro i sassoni ai quali fu imposta con la forza l’evangelizzazione e l’assimilazione ai franchi.
Nel 774 fu conclusa la conquista del regno longobardo, che era stata richiesta e sostenuta dal papa.
Nel 778 fu sottomessa la Baviera e distrutto il regno degli avari sul Danubio. Le conquiste di Pamplona,
della Navarra e della Catalogna nell’813 portarono alla costituzione della Marca Hispanica.
Nel Natale dell’800 Carlo Magno fu incoronato imperatore da papa Leone III. L’atto sanciva il rapporto che
da tempo aveva garantito ai sovrani franchi la piena legittimazione del loro potere e ai papi un aiuto
imprescindibile nell’opera di evangelizzazione e nella pretesa di guidare la cristianità, proprio nel momento
in cui si faceva irreversibile il distacco dalla Chiesa d’Oriente. Carlo si presentava come il sovrano cristiano,
difensore della Chiesa di Roma: la dignità imperiale, di re di più regni e popoli, costituiva una sorte di
omaggio alla persona che aveva unificato e con la forza convertito al cattolicesimo l’Europa.
L’incoronazione rafforzava inoltre il ruolo del papa quale autorità suprema della cristianità e indeboliva
quello dell’impero bizantino, dilaniato dalle lotte iconoclastiche e costretto a riconoscere dopo pochi anni la
dignità imperiale a Carlo. L’impero franco si proponeva infatti quale erede di quello romano e delle sue
ambizioni universalistiche, ma mentre l’impero di Roma era incardinato nel bacino del Mediterraneo, quello
carolingio spostava verso nord, nel continente europeo, il baricentro politico dell’Occidente.
Al vasto territorio sottomesso Carlo cercò di assicurare un’organizzazione amministrativa efficace. Essa
attinse alle tradizioni culturali di cui l’impero era la sintesi: quella romana dell’ordinamento territoriale, quella
barbarica dei legami personali e quella cristiana della chiesa imperiale. Seguendo la tradizione franca il re
si spostava costantemente per affermare la sua potenza in tutto il dominio. Nondimeno, Carlo stabilì una
sede privilegiata di residenza ad Aquisgrana, dove, a imitazione di Roma e Costantinopoli, fece erigere una
reggia e una cappella. Il territorio fu suddiviso in circoscrizioni centrate in genere sulle città: “comitati” e
nelle regioni di confine “marche”. A loro capo furono posti dei conti e dei marchesi, reclutati tra le famiglie
aristocratiche, che esercitavano le funzioni pubbliche, coadiuvati da ufficiali minori.
L’organizzazione dell’impero costituiva comunque una dominazione disomogenea, dove continuavano a
mantenere un forte potere locale le famiglie aristocratiche radicate in ampie proprietà fondiarie e dotate di
nutrite clientele armate. Alcune regioni mantennero la propria identità costituendo dei ducati, come la
Bretagna e la Baviera, o addirittura dei regni, come quello longobardo e l’Aquitania. Più che una compagine
unitaria l’impero fu una costruzione incoerente, tenuta eccezionalmente insieme dall’autorevolezza
personale del suo artefice e dalla sua capacità di vincolare a sé personaggi che già godevano di particolare
prestigio. Essi erano legati al sovrano dai rapporti che implicavano una fedeltà personale in cambio di beni
vitalizi (rapporti vassallatico-beneficiari). Carlo reclutò quindi la maggior parte di conti e marchesi tra i propri
vassalli, per poter contare su personaggi di fiducia.
Tanto più i personaggi reclutati come conti e marchesi erano potenti in proprio, tanto meno il sovrano
poteva contare su una loro indiscussa fedeltà. Carlo stese allora la rete di controllo dei missi dominici, gli
“inviati del signore”, incaricati di sorvegliare l’operato dei funzionari locali, e in genere nominati a coppie: un
laico e un ecclesiastico. I missi dovevano diffondere nel territorio le leggi emanate dal sovrano, note come
capitolari (perché divise in capitoli), che erano redatte nel corso delle grandi assemblee che riunivano
annualmente gli esponenti della grande aristocrazia laica ed ecclesiastica e gli alti funzionari del regno.
L’esercizio di funzioni pubbliche da parte dei vescovi, che spesso divennero missi nella propria diocesi,
legittimò la crescente ingerenza del sovrano nella loro nomina. Lo stretto intreccio tra poteri religiosi e civili
si manifestava anche nel privilegio dell’immunità, concesso specialmente a vescovi e abati dei monasteri
maggiori, che impediva agli ufficiali regi di intervenire nelle proprietà ecclesiastiche.
Il coinvolgimento del clero nel governo dell’impero fu imprescindibile nell’attività di cancelleria, ossia l’ufficio
di corte in cui venivano redatti i capitolari, gli atti pubblici e la corrispondenza ufficiale. Con la crisi del
sistema scolastico tardo antico, dal V secolo la capacità di leggere e scrivere era rimasta soltanto agli
uomini di chiesa, la cui istruzione nei monasteri fu sostenuta dallo stesso Carlo Magno proprio a scopo
amministrativo. Presso la cancelleria fu inoltre elaborata una scrittura chiara e uniforme detta “carolina”,
che rese leggibili in tutto il regno gli atti pubblici. Per conferire al dominio imperiale un senso unitario anche
sul piano culturale, Carlo attrasse a corte una folta schiera di intellettuali, in massima parte ecclesiastici, cui
venne affidata l’elaborazione dell’ideologia imperiale incardinata sui valori cristiani.
Espugnata Pavia e catturato re Desiderio, Carlo Magno aveva messo fine nel 774 all’esperienza
longobarda in Italia. Il regno fu incorporato al dominio dei franchi ma mantenne la sua autonomia: Pavia ne
rimase la capitale, i duchi e i funzionari longobardi furono quasi tutti confermati, l’aristocrazia fondiaria ebbe
salve le sue proprietà e anche le leggi del regno rimasero in vigore. La dominazione carolingia non
rappresentò quindi una discontinuità da quella longobarda, né l’importazione dei legami franchi di natura
vassallatico-beneficiaria o delle forme di gestione curtense delle proprietà fondiarie alterò particolarmente
gli ordinamenti economici e sociali preesistenti.
Fedele alla tradizione, Carlo Magno dispose nell’806 la suddivisione patrimoniale dell’impero tra i figli.
Unico sopravvissuto, Ludovico ne ereditò il potere alla morte del padre nell’814, favorendo un profondo
ricambio degli uomini di corte, rafforzando il ruolo pubblico dei vescovi e accentuando i caratteri sacrali
dell’ideologia imperiali (motivo per cui fu soprannominato il Pio): nell’824 vincolò la consacrazione papale a
un preventivo giuramento di fedeltà all’imperatore. La sua successione, disposta sin dall’817, aprì invece
lotte violente tra gli eredi ben prima della sua morte nell’840. L’accordo siglato a Verdun nell’843 riconobbe
a Ludovico il Germanico i territori a est del Reno, a Carlo il Calvo quelli più a Occidente, e a Lotario quelli
compresi nella fascia intermedia dal nord al regno d’Italia, al quale fu abbinato, da quel momento, il titolo
imperiale. La morte senza eredi di Ludovico II nell’875 avviò il tracollo della dinastia carolingia, che si
estinse nell’887 con la deposizione del malato e incapace Carlo il Grosso per mano dei grandi del regno.
Le lotte dinastiche, infatti, avevano finito col rafforzare il potere delle aristocrazie locali, che inglobarono
progressivamente le cariche pubbliche di conte, duca e marchese.

Capitolo 8: Economia, società e politica

Nuovi sviluppi economici: dal III secolo la popolazione dell’area europea calò progressivamente di numero
sino a toccare il punto più basso nel VII secolo. Al declino demografico contribuì soprattutto il negativo
intrecciarsi di guerre, carestie ed epidemie. Accanto a ciò, la società europea conobbe un forte
impoverimento materiale e una diminuzione complessiva di ricchezza. Dal VII secolo non vi è più traccia di
edilizia monumentale né della presenza di un commercio attivo nel Mediterraneo. A determinare la crisi
economica non furono le invasioni barbariche o l’espansione dell’islam, quanto piuttosto la fine
dell’economia statale romana. Per secoli l’impero aveva incentivato attività produttive e garantito le
infrastrutture per le attività commerciali grazie a un efficiente sistema fiscale. Esso gravava innanzitutto
sulle tasse fondiarie e si fondava sul ruolo economico delle città, che erano centri di riscossione delle
imposte, luoghi di consumo e sedi di attività artigianali. La fine dell’impero significò dunque la scomparsa
del ciclo di prelievo fiscale e di ridistribuzione della ricchezza.
Gli stessi proprietari fondiari, svaniti i mercati urbani in cui smerciare le eccedenze agricole, furono meno
incentivati a sviluppare le proprie aziende agrarie. La scomparsa delle imposte statali rimise però in
circolazione, nel lungo periodo, una maggiore quantità di ricchezza. Tra VII e VIII secolo essa contribuì a
far nascere una domanda economica nuova, proveniente dalle aristocrazie locali, dai grandi e medi
proprietari fondiari, laici ed ecclesiastici. I sovrani carolingi protessero e incentivarono i nuovi mercati
portuali (emporia) che si svilupparono sulle coste del Mare del Nord.
La fine dell’impero romano in Occidente non comportò la fine della schiavitù impiegata nei lavori domestici
e soprattutto agricoli nelle grandi proprietà. La schiavitù persistette sino al X secolo nelle campagne
europee. Fra il III e il IV secoli anche i liberi coltivatori (coloni) furono costretti dalle leggi imperiali a
risiedere sulla terra presa in affitto per non sfuggire al pagamento delle tasse. In tal modo la condizione dei
coloni e quella degli schiavi tesero ad assimilarsi: entrambi non potevano allontanarsi, entrambi godevano
di una certa autonomia, potendo coltivare la terra anche per sé. L’affermazione del cristianesimo contribuì
a porre un limite al diritto incontrastato di vita e di morte di cui il padrone godeva in età antica. Ciò fece del
servus un uomo dalla condizione giuridica precisa, al punto che è preferibile parlare di condizione servile
piuttosto che di schiavitù per l’alto medioevo.
La caratteristica di fondo della trasformazione dell’Occidente europeo fu la profonda ruralizzazione della
società, conseguente alla crisi delle città. La società si raccolse soprattutto intorno a grandi proprietà
fondiarie, dette villae o curtes, entro cui si svilupparono nuove forme di organizzazione del lavoro agricolo.
La trasformazione ebbe effetti positivi sulla vita dei contadini: la scomparsa della fiscalità pubblica consentì
di ricavare una quota maggiore di reddito dal lavoro agricolo, capace spesso di garantire livelli di vita e non
di mera sussistenza. Anche l’alimentazione ne beneficiò, caratterizzandosi, rispetto ad altri periodi, per un
notevole consumo di carne. Il paesaggio europeo subì a sua volta una profonda trasformazione per effetto
del contrarsi degli insediamenti e dell’abbandono delle terre coltivate. Gli insediamenti umani si ridussero a
piccole isole di capanne e coltivi circondate da vaste distese di boschi, terre incolte e paludi, mal collegate
tra di loro da una rete viaria estremamente deteriorata.

Le città: la scomparsa dell’impero romano determinò trasformazioni profonde nella struttura dei centri
urbani dell’Occidente: gli spazi abitati si ridussero, quasi tutte le città subirono una profonda ruralizzazione.
L’impianto di età romana – fondato sulla piazza principale, il foro, su cui si affacciavano gli edifici pubblici,
curia e pretorio – fu sostituito da nuovi poli aggregativi intorno alle istituzioni ecclesiastiche: la cattedrale, il
battistero, il cimitero, il palazzo del vescovo. Venuti meno gli organi dell’amministrazione municipale
romana (le curie), i poteri pubblici delle città furono quasi ovunque suppliti dalle gerarchie ecclesiastiche
raccolte attorno ai vescovi. Per tal via, le città non persero mai del tutto le antiche funzioni amministrative,
politiche religiose e culturali. La forte contrazione degli scambi impedì al commercio di sostenere da solo
alti livelli di vita urbana. Il destino economico delle città romane fu segnato dalla residenza dei grandi
proprietari terrieri. Laddove essi continuarono ad abitare nelle città, come nell’Italia bizantina, i prodotti
agrari continuarono ad essere smerciati nei mercati delle città, generando un surplus tale da mantenere
anche la presenza di artigiani e mercanti. Laddove i grandi possessori si spostarono nelle campagne, come
nel regno franco, furono poche le città che mantennero un’importanza economica. In altre aree ancora, la
funzione commerciale delle città fu garantita dalle reti di traffici su ampia scala: così negli emporia delle
coste del Mare del Nord, e in alcune città portuali del Mediterraneo, come Venezia, Napoli e Amalfi.
Alla conservazione della centralità politica della città contribuì in maniera determinante la presenza del
vescovo, soprattutto in Italia e in Gallia. Intorno all’istituzione episcopale emerse uno stato di cittadini colti,
che quasi ovunque fu espressione diretta di continuità delle vecchie famiglie dell’aristocrazia senatoria
romana. Tra V e VI secolo la debolezza del potere esercitato nelle città dai rappresentati del potere regio
(conti, duchi etc.) fece sì che le prerogative vescovili si ampliassero sino ad assumere funzioni civili di
supplenza, per esempio di ambito giudiziario. Tra VII e VIII secolo il potere carolingio riuscì a ripristinare
una bipartizione effettiva tra le competenze degli ufficiali pubblici e quelle dei prelati. In tal modo la città
tornò ad essere pienamente sede amministrativa e religiosa. Il vescovo acquisì la pienezza dei poteri
pubblici quando la dissoluzione dell’impero carolingio rese inefficace, se non inesistente, la presenza dei
conti nelle città. In molte città i vescovi assunsero responsabilità pubbliche in città, ad es. provvedendo
direttamente alla difesa delle popolazioni, innalzando o rafforzando le mura. La fase matura del regime
politico episcopale nelle città si sviluppò nell’XI secolo, quando il vescovo agiva ormai come primo
rappresentante dei cittadini. Sin dalle origini il vescovo fu espressione dei gruppi dirigenti locali, delle
maggiori famiglie cittadine. Per questo egli poté accogliere attorno a sé le istanze della popolazione urbana
e proporsi come figura autorevole intorno a cui si congregarono spontaneamente i cittadini alla ricerca di
una guida. D’altro canto, nell’esercizio delle sue funzioni il vescovo si circondò di collaboratori, vassalli, e
concittadini che elaborarono competenze nel governo della città. La sua attività giurisdizionale e
amministrativa fu sostenuta da un gruppo professionale di giudici e di notai. Soprattutto nelle città italiane
costoro si affiancarono ai proprietari fondiari, ai mercanti e agli artigiani nel dare corpo a una società
complessa e articolata, in cui, già nel X secolo, maturarono le prime espressioni di autonoma iniziativa
politica da parte dei cittadini al di fuori della rappresentanza vescovile.

La crisi dell’impero: nella seconda metà del IX secolo la divisione dinastica dell’impero carolingio,
combinandosi con la sempre maggiore autonomia delle aristocrazie locali, accentuò la frammentazione
dell’ordinamento pubblico. L’esito finale, alla deposizione di Carlo il Grosso nell’887, fu la disarticolazione
dell’impero in più regni e l’attribuzione della dignità imperiale al titolare del regno italico. Sia gli imperatori
sia i re dovettero la loro posizione all’appoggio dei gruppi aristocratici locali. Il loro potere fu però quasi
sempre precario perché all’interno dei regni si formarono grandi dominazioni politiche quasi autonome,
dette “principati”. Avvenne infatti che gli ufficiali pubblici (conti e marchesi) inizialmente in nomina imperiale
resero ereditaria la propria funzione, riducendo la capacità di controllo del sovrano e l’efficacia del suo
governo. I conti e i marchesi si trasformarono quindi in grandi signori e dinasti locali: l’origine della loro
autorità derivava dall’ordinamento imperiale, ma il loro potere era fondato su nuove basi, ampiamente
svincolate dal controllo di qualsiasi autorità pubblica. Dalla fine del IX secolo i conti e i marchesi
esercitarono le loro funzioni su territori ormai differenti dalle circoscrizioni pubbliche, perché di minore e
diversa estensione, e che quindi è preferibile chiamare contee e marchesati. L’autorevolezza dei poteri
locali si basava su diversi fattori: l’acquisizione patrimoniale delle cariche pubbliche e la loro ereditarietà; il
possesso di ingenti beni fondiari; la rete di alleanze e clientele armate. Inoltre, all’interno dei principati
l’autorità dei titolari incontrò un’opposizione crescente da parte degli enti ecclesiastici e delle famiglie
aristocratiche; in particolare, vescovi e monasteri ottennero delle concessioni di immunità che ne
esoneravano le proprietà dal controllo degli ufficiali pubblici. Anche i grandi proprietari laici ottennero
progressivamente esenzioni simili, finendo col creare ampie isole di giurisdizione autonoma nell’ambito
delle contee, dei marchesati e dei ducati.
Il regno dei franchi occidentali, distaccato dall’888 da ogni effettiva dipendenza dal potere imperiale, subì
un accentuato frazionamento a causa dell’emersione di potenti principati. Solo alla fine del X secolo si
affermò la potenza dei conti di Parigi, che con Ugo Capeto ottennero il titolo regio nel 987. Il re, anche dopo
la stabile affermazione dinastica, non riuscì mai ad esercitare una vera autorità su tutte le regioni da cui
pure derivava il suo titolo. Di fatto il suo dominio si limitò ai territori che riusciva a controllare direttamente e
a quelli che costituivano il suo patrimonio personale, in una regione compresa tra la Senna e la Loira,
intorno a Parigi e Orléans. Il titolo regio acquisì prestigio ma si risolse soprattutto nel coordinamento delle
grandi dinastie signorili e delle gerarchie episcopali. La dipendenza dei grandi signori dal re fu poco più
che formale, soprattutto nel sud della Francia, dove accanto ai vari ducati e contee ampiamente autonomi,
si formarono anche due regni lungo il Rodano: di Borgogna e di Provenza (poi inglobato dal primo).
Più instabile fu la situazione che si determinò nel regno italico, dove il conflitto per il trono fu duraturo per i
numerosi pretendenti e per gli interventi dei pontefici. Territorialmente, il regno ricalcava quello longobardo
e carolingio, e continuarono a rimanerne fuori i domini bizantini, arabi e longobardi del meridione.
A contendersi la corona furono soprattutto gli esponenti di quattro grandi famiglie che avevano le loro radici
in principati territoriali: i duchi e marchesi di Spoleto, di Toscana, di Ivrea e del Friuli. Al titolo di re d’Italia
era connessa la dignità imperiale, con la consuetudine carolingia dell’incoronazione da parte del pontefice.
Per questo, quando il re di Germania Ottone I fu sollecitato dal papato a intervenire contro Berengario II di
Ivrea, ricevette, oltre a quella d’Italia nel 961, anche la corona imperiale. Da quel momento si saldò il nesso
tra le corone, e i re di Germania cominciarono a scendere periodicamente in Italia per le altre corone.
L’incoronazione a Roma di Ottone I restaurò l’autorità imperiale su nuove basi. Rispetto all’età carolingia,
essa era ormai fortemente centrata sull’area tedesca, e da allora i re di Germania divennero i naturali
candidati della dignità imperiale. Non potendo contare su un apparato burocratico, gli imperatori della
dinastia sassone rinunciarono a emanare leggi e a esercitare la giustizia, puntando a concedere privilegi ai
propri interlocutori locali attraverso diplomi (un documento scritto ufficiale emanato da un’autorità sovrana
per concedere un privilegio ad personam o sancire l’esistenza di un diritto). Il rilancio del ruolo sacrale
dell’imperatore ribadì la sua funzione di protettore della cristianità. L’attivazione di relazioni diplomatiche e
matrimoniali con gli imperatori bizantini consentì a Ottone di accreditare la sua autorità in Oriente.

Le nuove invasioni: la perdita di autorevolezza degli ultimi imperatori carolingi fu determinata in parte anche
dall’incapacità di garantire la sicurezza del territorio imperiale dalle incursioni che dal IX secolo furono
condotte da alcune popolazioni straniere. A differenza delle grandi migrazioni delle stirpi barbariche, i nuovi
aggressori non miravano a insediarsi stabilmente, ma a razziare bottino. Le prime manifestazioni furono le
incursioni dei saraceni (nome con cui nella cristianità si chiamavano le popolazioni di varia origine etnica –
quindi non solo arabe – accomunate dalla conversione all’islam) dalle sponde del Mediterraneo.
Il saccheggio più celebre fu quello della basilica vaticana a Roma nell’846. I saraceni costruirono anche
insediamenti fortificati dai quali muovere per ulteriori razzie. Solo con la fine del X secolo le loro scorrerie si
esaurirono. Dalla fine del IX secolo cominciarono a compiere periodiche spedizioni di saccheggio in vaste
regioni dell’Europa centrale e in Italia anche gli ungari, insediatisi nell’antica Pannonia, che da loro prese il
nome di Ungheria. Ben organizzati militarmente, i cavalieri ungari seminava il terrore con le loro rapide
depredazioni, e furono presto utilizzati come mercenari nei conflitti interni alla cristianità. Le loro spedizioni
furono contrastate efficacemente solo quando in Occidente si diffuse la cavalleria leggera. Furono i re in
Germania della dinastia sassone a imporre loro delle disastrose sconfitte tra il 933 e il 955. Da quel
momento gli ungari si stanziarono nel proprio territorio e si convertirono al cristianesimo cattolico.
Apparvero poi sulle coste dell’Europa del nord dalla metà del IX secolo gruppi di pirati provenienti dalla
penisola scandinava, capaci di risalire con le navi il corso dei fiumi e così depredare città e abbazie
dall’interno. L’espansione scandinava si propagò a raggiera lungo diverse direttrici: dalla Norvegia mossero
verso la Scozia, l’Irlanda, l’Islanda e la Groenlandia i cosiddetti vichinghi; dalla Svezia risalirono i grandi
fiumi dell’Europa orientale, fino a spingersi verso Bisanzio, e diedero poi vita al primo embrione della
Russia incentrato su Kiev. Dalla Danimarca si spinsero verso l’Inghilterra e la Francia i normanni.
Nel X secolo le iniziali incursioni si trasformarono in vere e proprie conquiste territoriali. Particolarmente
rilevante fu la creazione di un ducato nella Francia settentrionale, che da loro prese il nome di Normandia.
Capitolo 9: i poteri locali

L’organizzazione economica: il sistema curtense: in età carolingia le grandi proprietà fondiarie


organizzarono l’attività agricola intorno ad aziende (curtes/villae) caratterizzate da una bipartizione
funzionale. Nella riserva padronale, o “domìnico”, il proprietario faceva condure i lavori direttamente dai
propri schiavi (servi prebendari), che vi risiedevano a totale carico del padrone. Nella parte a conduzione
indiretta, o “massarìcio”, i lavori erano portati avanti da famiglie di coltivatori liberi o servi cui erano affidati
gli appezzamenti con patti a lunghissimo termine. Lo stretto legame tra le due parti era rappresentato
dall’obbligo per i contadini del massaricio di prestare corvées sulle terre del dominico, a integrazione del
lavoro degli schiavi. Questo modello di organizzazione economica, detto “sistema curtense”, prese corpo
nell’VIII secolo nelle aziende agrarie regie e abbaziali situate tra la Loira e il Reno e si diffuse in Italia solo
dopo la conquista franca. Il sistema curtense perseguì sempre un obiettivo di autosufficienza, per
soddisfare i bisogni immediati, ma poiché non tutte le aziende producevano tutte le merci di cui avevano
bisogno venne intensificandosi lo scambio delle eccedenze. Il surplus agricolo fu commercializzato,
assieme agli strumenti di lavoro e gli altri manufatti artigianali, nei mercati delle città vicine o negli emporia.
Il sistema curtense fu redditizio e permise notevoli accumulazioni di ricchezza che molti proprietari
investirono nella costruzione di mulini ad acqua/vento o di fabbriche di birra, ricavandone ulteriori profitti.
Inoltre, la progressiva riduzione del dominico a vantaggio del massaricio, che si osserva tra IX e XI secolo,
non fu resa solo necessaria dall’aumento della popolazione, ma indicò la volontà di ottimizzare la rendita
delle aziende ricavando più ricchezza dalla gestione indiretta, affidata alle famiglie contadine.
La frammentazione della proprietà fondiaria, distribuita talora tra centinaia di appezzamenti, favorì
l’emersione di una piccola e media proprietà di contadini indipendenti. Nelle campagne dell’Occidente
europeo coesistette infatti una varietà di condizioni contadine: accanto ai coltivatori del massaricio, liberi o
servi, che erano tenuti a corrispondere al padrone un canone, in natura o in denaro, nei villaggi
convivevano proprietari di varia estrazione sociale: piccoli contadini proprietari dei loro fondi, e medi
proprietari che non coltivavano direttamente le loro terre, e che costituivano le élites dei villaggi. La crescita
di ricchezza dei grandi proprietari, quasi sempre accompagnata dalla loro affermazione come signori locali,
avvenne a spese dei contadini indipendenti.

Potere politico: l’ordinamento signorile: protagonisti della frammentazione dei poteri locali non furono solo
le grandi famiglie di ufficiali pubblici, conti e marchesi, ma anche famiglie ed enti ecclesiastici che
incrementarono i propri possessi fondiari tramite donazioni, acquisti e usurpazioni di terre. Alla metà del IX
secolo i beni fondiari della Chiesa ammontavano ormai a un terzo di tutta la terra disponibile: gli abati e i
vescovi più potenti controllavano i territori pari a quelli dei proprietari laici e svilupparono la loro egemonia
in modi simili. Nell’età postcarolingia venne così affermandosi un sistema sociale orientato in senso
aristocratico che si fondava anche sugli arricchimenti resi possibili dal sistema curtense. La necessità di
mantenere uniti e di trasmettere tali patrimoni determinò, tra X-XI secolo, un importante cambiamento nelle
strutture familiari aristocratiche. Ai vasti gruppi costituiti da persone imparentate per via paterna e materna
si andò sostituendo una famiglia formata soltanto dai discendenti in linea maschile di un medesimo
antenato, che si usa chiamare lignaggio patrilineare.
I patrimoni dell’aristocrazia erano costituiti da nuclei di provenienza diversa. Accanto ai terreni posseduti in
piena proprietà (detti allodi) quasi sempre si annoveravano terre concesse in beneficio (o feudo) dal re o da
un signore maggiore, poi rese ereditarie. Intorno alle grandi proprietà vennero così affermandosi poteri di
comando, di giustizia, di esazione fiscale, che costituirono il fondamento del potere signorile.
Due tendenze caratterizzarono questo potere: il carattere territoriale, quindi l’estendersi a tutti i residenti di
una certa zona, e la patrimonializzazione dei diritti pubblici, che in origine erano di pertinenza delle
istituzioni regie e che i signori assimilarono ai propri patrimoni privati-
Tra X-XI secolo la natura dei poteri e dei diritti che il signore esercitava su persone e beni era molto ampia,
a cominciare dalle prerogative che erano state degli ufficiali carolingi: l’amministrazione della giustizia,
l’organizzazione della difesa e la riscossione delle tasse. A proventi che erano tipici dei sovrani (fodro: in
origine tassa pubblica versata in foraggio per cavalli; albergarìa: in origine il diritto dei conti e dei loro
uomini ad essere alloggiati in casa a spese dei contadini/monasteri, mentre in età postcarolingia divenne
un’altra forma di tassazione in natura), i signori sommarono altri tributi, spesso straordinari, e donativi,
censi e richieste di varia natura ed entità. Quando il signore esercitava tali diritti nei limiti del suo possesso
fondiario e sui suoi lavoratori, si parla di “signoria fondiaria”; quando la signoria era estesa a tutti i residenti
di una data area, a prescindere dalla proprietà delle terre si parla di “signoria territoriale/di banno”.
Ovunque però si verificarono fenomeni di sovrapposizione e di concorrenza tra i diversi poteri signorili,
dando luogo a contenziosi e conflitti spesso violenti.

Legami sociali: vassalli e benefici: le tendenze alla frammentazione locale del potere furono
controbilanciate dalla fitta trama di relazioni personali, soprattutto vassallatiche, che legavano tra loro i
grandi e piccoli signori, e i signori ai propri seguaci. La rete di relazioni di fedeltà personale fu il vero
collante della società occidentale europea tra VIII e XI secolo. Già nel mondo romano erano diffuse
relazioni clientelari tramite cui soggetti più deboli offrivano servigi in cambio della protezione di un potente.
Tra le popolazioni barbariche era consuetudine che i singoli guerrieri si legassero personalmente a un
capo, offrendo aiuto militare in cambio della garanzia di un bottino. Il successo politico e militare dei
carolingi dipese in larga misura dalla diffusione di tali legami di fedeltà armata. Con il giuramento di fedeltà
a un individuo eminente (signore, senior) il vassallo (vassus, servitore) entrava nella clientela del potente,
impegnandosi a prestare per lui un servizio in genere di carattere militare. In cambio il signore offriva una
fonte di reddito, quasi sempre terre da sfruttare. Questo tipo di rapporti vassallatico-beneficiari si diffuse in
tutto l’impero carolingio a ogni livello: il re aveva un largo seguito di vassalli, che a loro volta avevano
proprie clientele armate. Il moltiplicarsi dei legami di vassallaggio richiese una crescente disponibilità di
terre da offrire in beneficio: si fece così ricorso al patrimonio ecclesiastico.
Nell’ordinamento carolingio alla morte dei titolari sia le cariche di ufficiale pubblico sia i benefici dovevano
ritornare, almeno formalmente, al re che li riassegnava ad altri. Nella prassi era però comune che i grandi
benefici e gli uffici pubblici fossero riconfermati agli eredi del defunto. La tendenza a rendere ereditari i
benefici si consolidò tra IX e XI secolo, fino a valere anche per i benefici minori, ossia quelli concessi dai
signori ai propri vassalli. Nel 1037 l’imperatore Corrado II riconobbe con l’Edictum de beneficiis questo
stato di fatto, decretando che a un vassallo non potesse essere sottratto il beneficio senza una giusta
causa. La disposizione, che pure mirava a contenere lo strapotere dell’aristocrazia maggiore, finì col
legittimare le realtà signorili esistenti.

Violenze e conflitti: l’incastellamento: a partire dalla seconda metà del IX e per tutto il X secolo nelle
campagne dell’Occidente europeo fu edificata una fitta trama di nuovi castelli. Le ragioni del fenomeno, che
proseguì in molte regioni fino al XII secolo, furono molteplici. Certamente ebbe un peso la necessità di
difendersi dalle incursioni saracene, ungare e vichinghe. Ma rispetto alle epoche precedenti, in cui la
fortificazione del territorio era stata promossa dall’autorità pubblica, l’iniziativa di erigere un castello rispose
all’esigenza dei signori di garantirsi una base dalla quale esercitare la propria egemonia sul territorio.
Erigere un castello divenne un mezzo per estendere l’autorità dei signori su tutti i residenti delle aree
limitrofe: in cambio di protezione e difesa, essi potevano pretendere di esercitare le prerogative di natura
pubblica, il districtus o “banno”.
L’incastellamento fu un fenomeno con caratteristiche specifiche nelle diverse regioni. Nella Francia centro-
settentrionale furono i sovrani, i principi e i conti a dar vita a pochi castelli di grandi dimensioni, dotati di
territori estesi e popolati. Nelle regioni meridionali, Spagna e Italia, si formò invece un reticolo di
insediamenti medio-piccoli, perlopiù costituiti dalla fortificazione di villaggi preesistenti, per iniziativa dei
grandi proprietari ecclesiastici e dell’aristocrazia signorile. In queste aree l’incastellamento produsse una
rivoluzione sugli insediamenti: la popolazione, prima dispersa nei villaggi e nelle fattorie isolate, si
concentrò ora nei nuovi abitati fortificati. Ovunque i castelli rafforzarono la fisionomia locale del potere e si
proponeva sovente anche come sede di mercato e di attività artigianali oltre che di servizi amministrativi.
La diffusione delle signorie incentrate sui castelli favorì la formazione di specialisti della guerra che
aiutavano i potenti nell’esercizio del loro dominio e ne difendevano i beni. In una prima fase fu il servizio
militare più che l’origine sociale a determinare la loro fortuna: non solo i figli cadetti di famiglie
aristocratiche, ma anche contadini agiati che possedevano armi, cavalli e tempo a disposizione; affrancati
dagli oneri signorili, questi guerrieri furono chiamati “cavalieri” (milites) perché in un mondo di contadini
disarmati che andavano a piedi, erano i soli, accanto ai signori, a spostarsi e a combattere a cavallo,
formando un gruppo ben distinto dalla maggioranza della popolazione. I cavalieri furono protagonisti dei
conflitti dell’epoca, spesso compiendo violenze, rapine e saccheggi ai danni dei più deboli, tanto che per
disciplinarne il comportamento, su iniziativa di alcuni vescovi franchi, si diffuse dal X secolo il movimento
delle “paci o tregue di Dio”, che mirava a imporre la sospensione delle violenze in certi periodi dell’anno, e
a vietarle contro ecclesiastici e contadini.
Capitolo 10: le esperienze cristiane nel primo millennio

Le chiese locali e l’età dei concili: responsabile di ogni comunità era il vescovo, guida spirituale e
amministrativa della comunità, affiancato dai preti, incaricati della predicazione e delle celebrazioni
liturgiche (sacerdoti), e dai diaconi, che svolgevano compiti di assistenza e amministrazione.
I laici partecipavano, insieme al clero, all’elezione dei vescovi e alla gestione degli affari delle comunità.
All’aumento di fedeli corrispose un crescente incremento delle ricchezze, per lasciti monetari e fondiari.
Questi beni erano inalienabili, tutelati sacralmente dalle confische ed esenti dalle imposte.
Le chiese si svilupparono nelle città e l’ambito su cui si esercitava il ministero del vescovo era il territorio
circostante, la diocesi, che corrispose all’antica circoscrizione amministrativa romana. L’autorevolezza dei
vescovi crebbe nel tempo insieme alla loro assunzione di funzioni di guida non solo spirituale ma anche
civile e politica delle città; erano scelti tra le famiglie appartenenti alle élites urbane, e diventarono punti di
riferimento per le intere comunità. Tra IV-V secolo, raggruppamenti di più diocesi furono sottoposti
all’autorità di un vescovo di rango superiore, il metropolita, che confermava e consacrava i vescovi della
propria provincia. Alcune sedi maggiori, fondate da apostoli, affermarono la loro preminenza sulle province
circostanti: Roma, Alessandria d’Egitto e Antiochia di Siria. Insieme a Gerusalemme e Costantinopoli, i loro
metropoliti ebbero anche il titolo di patriarchi.
L’organizzarsi delle chiese in ambito locale e intorno a gerarchie episcopali regionali generò presto
l’esigenza di un coordinamento tra le diverse comunità. A lungo, per tutto il X secolo, la Chiesa cattolica fu
infatti priva di un’organizzazione centralizzata e di un vertice quale poi divenne il papa.
Un ruolo centrale lo ebbero allora le assemblee del clero, convocate periodicamente dai metropoliti in sede
provinciale (sinodi), per decidere questioni organizzative e disciplinari. Meno frequenti erano i concili, cui
convenivano in gran numero i vescovi delle grandi province: nei concili universali, convocati in genere
dall’imperatore, si definivano le verità di fede (dogmi), si regolamentavano i riti liturgici e si emanavano le
leggi ecclesiastiche (canoni).
Il cristianesimo dei primi secoli presentava una varietà di interpretazioni del dogma, esito dell’adattamento
del messaggio cristiano da parte delle diverse culture che lo fecero proprio: dalle élites urbane educate
nella tradizione filosofica ellenistica, ai barbari con i loro culti tradizionali e ai pagani radicati nelle credenze
popolari. Il problema centrale fu quello di conciliare il monoteismo (fede in un unico Dio) con al molteplicità
delle persone (Trinità). Le dispute dottrinali si concentrarono sulla definizione della natura di Cristo. Nel IV
secolo si confrontarono l’arianesimo, dottrina che sosteneva la natura non pienamente divina di Cristo, e il
cristianesimo, che sosteneva la consustanzialità del Figlio col Padre. Gli imperatori cercarono di
salvaguardare l’unità della cristianità emanando editti e convocando concili per formulare dogmi
universalmente accettati di contro a credenze ritenute erronee (eresie). Così, per esempio, il concilio di
Nicea indetto da Costantino nel 325 condannò come ereticale arianesimo.
Tra le pratiche del culto cristiano si diffuse una speciale venerazione per i santi, per i martiri testimoni della
fede attraverso il sacrificio della vita, e più in generale per le figure religiose esemplari, protagoniste
dell’affermazione del cristianesimo; in particolare, la tutela assicurata da certi vescovi sulle proprie
comunità li trasformò in santi patroni, cioè protettori ultraterreni delle chiese che avevano retto da vivi (ad
es. Ambrogio di Milano o Agostino di Ippona). Ulteriore elemento di protezione celeste fu individuato nelle
reliquie dei santi, custodite gelosamente e oggetto di traffici e furti in tutta la cristianità.

Il monachesimo: accanto al fenomeno istituzionale centrato sulle chiese urbane, l’altra principale
esperienza di vita cristiana fu la scelta individuale, monastica (monaco significa “solitario”), in risposta a
un’esigenza diffusa di distacco dal mondo, di rinuncia ai beni terreni e di redenzione attraverso la preghiera
e l’ascesi (il dominio delle passioni). Le prime pratiche di ricerca di solitudine spirituale assunsero varie
forme: gli eremiti (“solitudine” in greco) si ritirarono a vivere nel deserto; il cenobitismo, ossia la “vita in
comune”, vide i monaci condividere la preghiera, la penitenza, il lavoro e l’alimentazione; i capi delle
comunità erano detti abati. Il monachesimo si sviluppò solo a partire dal III secolo soprattutto in Oriente;
dopo la metà del IV secolo le esperienze monastiche si diffusero anche in Occidente, soprattutto nelle
forme cenobitiche, coinvolgendo anche le donne. I monasteri sorsero inizialmente in Gallia e a Roma, poi
in Italia, in Spagna e in Irlanda, nelle aree rurali. Il sorgere di comunità sempre più numerose richiese la
redazione di norme che regolassero la vita dei monaci in tutti i suoi aspetti; le regole seguivano l’esempio di
Gesù, mettendo in pratica i principi evangelici della povertà, castità e obbedienza. In Occidente si
susseguirono le regole del fondatore del monastero di Montecassino, Benedetto da Norcia (540), e di
Cesario di Arles (IV secolo) per i monasteri femminili. Pur ispirandosi spesso le une alle altre, le regole
furono uniformate per iniziativa di Ludovico il Pio, che nell’817 dispose che la regola benedettina
diventasse il testo di riferimento per tutti i monasteri dell’Europa carolingia. I monaci furono protagonisti
principali dell’evangelizzazione delle popolazioni rurali, non raggiunte dal clero urbano.
Proteggendo i monasteri e immettendovi i propri membri, l’aristocrazia ne fece dei luoghi di inquadramento
della popolazione e di organizzazione del consenso. Per questo il monachesimo altomedievale fu
innanzitutto un’esperienza aristocratica.
Lo stile di vita monastico arricchiva le comunità con le biblioteche e gli scriptoria, dove si conservavano e
copiavano i manoscritti dell’antichità, e con opere artistiche come miniature, vetrate e monumenti.
I monasteri non furono solo dei luoghi di preghiera e formazione intellettuale, ma anche dei centri di
organizzazione economica e politica della società rurale: numerosi monasteri divennero grandi nuclei di
organizzazione agricola, promotori di bonifiche, gestori di aziende curtensi, centri di produzione e smercio
di derrate alimentari e manufatti artigianali. Intorno ai monasteri maggiori si tenevano i mercati e si
raccoglievano numerose famiglie di contadini, che trovavano in essi protezione e migliori condizioni di vita.

Monopolio ecclesiastico della cultura: la società occidentale dei secoli VII-XI fu una società analfabeta. Tre
furono le cause principali: la scomparsa delle scuole dell’impero; la cultura orale barbarica; i nuovi assetti
politico-economici che non incentivavano la produzione documenti scritti. Leggere e scrivere era ormai
necessario solo agli uomini di Chiesa per accedere alle scritture e diffonderne il messaggio.
Dal VI secolo le scuole cristiane, che erano sorte presso le cattedrali, divennero il luogo dell’apprendimento
elementare, non più solo dei chierici (i membri del clero) ma anche dei laici. Dall’VIII secolo si diffusero
scuole anche presso molti monasteri. La scrittura e la produzione culturale divennero monopolio della
Chiesa: nei centri scrittori (scriptoria) si redigevano commenti alle Scritture, testi agiografici e si copiavano i
testi della classicità. Carlo Magno promosse l’istruzione per formare adeguatamente i funzionari destinati
all’amministrazione e il clero impegnato nella cristianizzazione. Tre furono gli interventi principali: riforma
della liturgia, volta a far pregare tutti i chierici nello stesso modo; miglioramento della loro formazione;
riaffermazione dell’importanza della scrittura nell’amministrazione e negli affari politici.

Riforme della Chiesa: lo sviluppo di poteri territoriali da parte di vescovi e abati diede vita a una fitta trama
di signorie ecclesiastiche largamente autonome. Le famiglie aristocratiche che avevano fondato chiese e
monasteri “privati” e che erano in grado di condizionare la designazione di vescovi, abati e chierici,
cercarono di impossessarsi in maniera duratura delle cariche ecclesiastiche, rendendole ereditarie.
Tali cariche erano lucrose, perché permettevano di controllare patrimoni ingenti e di incrementare potere e
prestigio. Gli aristocratici che riuscivano a ottenerle erano però quasi sempre sprovvisti di un’adeguata
preparazione e spesso anche di autentica vocazione. Accadeva così molto spesso che vescovi e abati
continuassero a seguire lo stile di vita dell’aristocrazia laica.
La necessità di interventi di riforma fu avvertita già dai sovrani carolingi: obiettivi principali dei loro interventi
furono quelli di restituire prestigio religioso alle autorità ecclesiastiche. In primo luogo si puntò a migliorare
la rete di scuole episcopali e monastiche; fu istituita la decima (decima parte del raccolto o del reddito che
proprietari e coltivatori pagavano alla Chiesa in cambio delle funzioni che la Chiesa svolgeva per i fedeli),
gestita dal vescovo e destinata a sostenere il clero e a soccorrere i poveri (779). A tutte le comunità
monastiche furono estese le regole benedettine (817). Le donne religiose furono escluse
dall’amministrazione dei beni della Chiesa e fu loro precluso ogni contatto al di fuori dei monasteri.
L’assunzione di responsabilità nell’organizzazione ecclesiastica da parte dei sovrani carolingi discendeva
dal loro ruolo di sovrani cristiani, difensori della Chiesa di Roma. I numerosi compiti svolti dai vescovi
nell’amministrazione dell’impero legittimarono il crescente intervento regio. Vescovi e abati divennero
organico supporto dell’autorità regia, che si assicurò la facoltà di designarli. Con il Privilegium del 962,
Ottone I ribadì anche il controllo imperiale sull’elezione pontificia, che era già stato sancito da Ludovico il
Pio nell’824. Da allora sino al 1058 i papi furono tutti legati al trono imperiale.
Gli interventi imperiali rafforzarono le istituzioni ecclesiastiche ma resero ancora più inestricabile la
commistione, spesso perniciosa, fra ordinamenti ecclesiastici e laici. Dal X secolo si fecero sempre più
avvertire, in diversi ambiti della società cristiana, due esigenze principali di riforma: la moralizzazione del
clero e la tutela delle istituzioni ecclesiastiche dalle ingerenze e dai condizionamenti del mondo laico.
La spinta verso il rinnovamento non si espresse però in un progetto organico, anche perché, fino alla
seconda metà dell’XI secolo, mancò un soggetto capace di coordinare in modo unitario le diverse istanze.
Più che in ambito vescovile, fu all’interno del mondo monastico che si avvertì inizialmente la necessità di
ridare prestigio e credibilità morale alla Chiesa. Protagonisti principali furono i monaci dell’abbazia di Cluny,
fondata nel 910 in Borgogna Guglielmo duca d’Aquitania. Pur nascendo come monastero privato l’abbazia
riuscì ad acquisire una forte autonomia grazie all’immunità concessa dal duca e all’esenzione, assicurata
dal papato, dalla dipendenza diretta vescovo della loro diocesi. La riforma promossa da Cluny non
contestava le ricchezze e i beni ecclesiastici, ma proponeva di rimodellare in senso monastico tutta la
Chiesa. Grazie alle donazioni dei potenti che confidavano nelle preghiere dei monaci per salvare l’anima,
l’ordine cluniacense divenne una potenza imponente della Chiesa riformata. Al rinnovamento monastico
contribuirono anche altre esperienze profondamente diverse da Cluny. Rifiutando di trasformare le abbazie
in centri di potere, conobbero un deciso rilancio tra X-XI secolo anche le esperienze eremitiche, che
intendevano riprendere gli ideali del primo monachesimo. Ferivano la sensibilità dei fedeli l’attaccamento
alle ricchezze materiali, la compravendita delle cariche ecclesiastiche (simonia), le pratiche di concubinato
(nicolaismo), gli interessi dinastici più che pastorali, le violenze e le spoliazioni di chiese, di cui si
rendevano spesso protagonisti vescovi e preti. L’offensiva moralizzatrice puntò alla deposizione di
sacerdoti simoniaci e alla scomunica dei preti concubinari.
Una forte spinta al rinnovamento venne anche dal laicato, in particolare dagli abitanti delle città. Oggetto di
contestazione furono le ricchezze accumulate e gestite dai prelati (membri del clero che esercitano le
cariche maggiori) e il loro coinvolgimento nelle questioni temporali. Come rimedio si cominciò a predicare
l’ideale evangelico della povertà, la rinuncia ai beni secolari e il ritorno alla Chiesa delle origini.
Rispetto al monachesimo riformato le aspirazioni dei movimenti laicali, che insistevano sul valore della
povertà, erano più radicali e mettevano in discussione la Chiesa come istituzione. Per questo il clero
riformatore smussò spesso gli eccessi dei movimenti pauperistici, temendone la carica eversiva.
Le varie espressioni della riforma trovarono solo alla metà del secolo XI nel papato l’elemento capace di
coordinarle. Fu l’imperatore, Enrico III (1039-56), ad agire a sostegno dell’istituzione pontificia, nominando
una serie di papi riformatori. Significativa fu l’opera del cluniacense Leone IX (1049-54), che chiamò a
Roma alcuni dei principali esponenti riformatori e ingaggiò una dura battaglia contro simonia e concubinato.
Niccolò II conferì una decisa accelerazione alla spinta riformatrice, convocando nel 1059 un concilio che
fissò nuove regole per l’elezione pontificia. La scelta fu riservata ai soli cardinali (nell’alto medioevo i
vescovi titolari delle basiliche confinanti con quelle di Roma), escludendo la partecipazione dei laici,
compresa quella dell’imperatore. Effetto immediato fu che la nomina del successore non fu riconosciuta
dalla corte imperiale.

Capitolo 11: la Chiesa pontificia

L’affermazione monarchica del papato: con l’elezione a pontefice del cluniacense Gregorio VII (1073-85), il
processo di riforma delle istituzioni ecclesiastiche raggiunse il suo culmine. Il suo progetto fu di imporre alla
Chiesa un modello fortemente gerarchizzato del corpo ecclesiastico, escludendo i poteri laici da ogni
ingerenza nella vita religiosa. Il nuovo impianto monarchico della Chiesa, consisteva nel papa come unico
vertice, e nella netta separazione di stili di vita tra laici ed ecclesiastici, fondata sul celibato del clero.
La nuova struttura gerarchica che enfatizzava il ruolo del papa, proponendolo come guida morale della
Chiesa, minava l’autorità del potere imperiale. La rivendicazione gregoriana della libertà della Chiesa da
ogni potere laico mise in discussione la natura dei rapporti tra papato e impero. Sin dall’età di Costantino la
Chiesa era stata integrata nell’azione imperiale, e i due poteri avevano collaborato alla guida della società
cristiana. La sacralizzazione del potere imperiale, tradizionale nell’impero bizantino, era riemersa in
Occidente con Carlo Magno, mediata dall’incoronazione da parte del papato. Essa diede spazio a frequenti
prevaricazioni sulla Chiesa, sintetizzate dalla plurisecolare pratica imperiale di eleggere i papi. Privare
l’imperatore di tale prerogativa significava minare la sacralità del suo potere.
Gregorio VII diede fondamento dottrinale al primato papale attraverso un testo – Dictatus papae, 1075 –
che ribadiva l’autorità superiore del papato sia sulla Chiesa sia sui poteri laici: solo il papa poteva istituire e
deporre i vescovi, convocare concili, deporre gli imperatori, legiferare e giudicare. L’obbedienza era fatta
coincidere con l’ortodossia: chi si opponesse alla sede romana poteva essere accusato di eresia. Era così
delineato il progetto di una monarchia universale della Chiesa che fu attuato progressivamente da Gregorio
VII e dai suoi successori. Il papato aveva trovato sin dal 1059 un importante appoggio politico nei
normanni, che si erano dichiarati fedeli alla sovranità pontificia in cambio dei ducati di Puglia e Calabria.
La contrapposizione tra papato e impero si focalizzò sulle designazioni dei vescovi. Da un lato, la
rivendicazione del papa alla nomina sovvertiva la consuetudine dei sovrani di scegliere i vescovi
investendoli di poteri pubblici; dall’altro, proprio l’investitura laica era ritenuta all’origine della corruzione del
clero episcopale. Preoccupati di difendere le ricchezze materiali e la loro autonomia, i vescovi si
schierarono in genere con l’imperatore. Nel 1076 Enrico IV convocò un concilio di vescovi tedeschi che
dichiarò deposto il papa, aprendo un duro conflitto. Gregorio VII reagì scomunicando l’imperatore,
sciogliendone i sudditi da ogni obbedienza. Di fronte alle prime ribellioni aristocratiche Enrico IV indusse il
pontefice a revocare la scomunica con un clamoroso atto di penitenza: nell’inverno del 1077 si umiliò
restando per tre giorni davanti al castello appenninico della contessa Matilde di Canossa, dove Gregorio
era ospite, finché non fu ricevuto. Rilegittimato, Enrico IV riprese presto le ostilità, facendo eleggere come
antipapa l’arcivescovo di Ravenna, Guiberto, e insediandolo con la forza a Roma nel 1084. Tratto in salvo
dai fedeli normanni, Gregorio VII morì l’anno successivo. La tensione tra papato e impero proseguì per
alcuni decenni in forma più stemperata, grazie anche all’orientamento dei successori di Gregorio VII a
distinguere, nella figura dei vescovi, gli attributi religiosi da quelli temporali. Dopo conflitti e trattative si
giunse a un accordo sottoscritto a Worms nel 1122 da Callisto II ed Enrico V. Il concordato stabiliva che
l’elezione dei vescovi dovesse essere fatta dal clero e dal popolo delle città, e distingueva la consacrazione
spirituale, riservata al clero, dall’investitura temporale, lasciata all’imperatore.
Dal conflitto uscì comunque rafforzata l’autorità pontificia, mentre l’ideologia imperiale fu minata: da allora
le ambizioni universalistiche degli imperatori furono irreversibilmente ridimensionate.
La Chiesa romana tra X-XI secolo cominciò a operare come “curia”, cioè come centro di governo.
Tornarono ad essere frequenti i concili ecumenici, ora convocati dal papa direttamente a Roma, e perciò
detti “lateranensi”. Esito generale fu il forte ridimensionamento dell’autonomia delle chiese locali e dei
poteri dei vescovi, che segnò un netto punto di svolta nell’ordinamento della Chiesa, verso una marcata
subordinazione all’autorità pontificia anche del mondo monastico. Proponendosi come guida suprema della
cristianità, il papato animò anche la lotta contro i suoi nemici, guidando il movimento crociato che dalla fine
dell’XI secolo si propose la liberazione dei luoghi santi della Palestina, occupati dai musulmani.

Dissensi, eresie e nuovi ordini religiosi: irrisolte rimasero molte delle aspirazioni per un rinnovamento della
vita religiosa e spirituale; in particolare, forti disagi provocò il nuovo ruolo monarchico e crescentemente
autoritario del papato, nella cui azione molti cristiani vedevano dimenticati i valori evangelici.
Contestazioni del clero cattolico vennero in particolare dal mondo dei laici, portando all’estremo la radicalità
dei movimenti pauperistici. Il potere ecclesiastico dimostrò però, dalla fine dell’XI secolo, un minor grado di
tolleranza nei confronti delle forme di dissenso, bollandole come “eresie”.
Un’intonazione pauperistica ebbe il movimento avviato da un mercante di Lione, Valdo (1170-1217), che
rinunciò ai propri beni e si mise a predicare il Vangelo in lingua volgare, nonostante il divieto delle gerarchie
ecclesiastiche. Scomunicato Valdo nel 1215, i suoi seguaci sopravvissero alle persecuzioni rifugiandosi
nelle valli alpine tra Francia e Italia. Il movimento ereticale più diffuso tra XII e XIII secolo in diverse aree
europee fu quello dei catari (“puri”). Miscelando nuclei di cristianesimo a credenze di tipo dualistico di
origine orientale, la loro teologia presupponeva l’esistenza dei princìpi del bene e del male,
incessantemente contrapposti. Il rifiuto di alcuni sacramenti e la contrapposizione di una propria Chiesa a
quella cattolica scatenò su di loro dure persecuzioni.
Di fronte a predicazioni che contestavano la ricchezza e il potere temporale della Chiesa, il papato reagì
con crescente vigore a tutela del dogma cattolico. Inizialmente gli eretici furono scomunicati, attraverso
bolle papali (lettera del papa in materia spirituale e temporale, scritta in latino e autenticata dal sigillo
pontificio), come la Ad abolendam di Lucio III, che nel 1184 condannò catari e valdesi.
Successivamente, alcune decretali (lettera del papa, in risposta a una richiesta di parere, contenente
norme giuridiche con carattere di obbligatorietà per tutti i fedeli in casi analoghi) di Innocenzo III del 1199 li
equipararono ai rei di lesa maestà, condannandoli a morte. La lotta si inasprì ulteriormente nel 1208
quando venne bandita dal papa una crociata, condotta da aristocratici, contro i catari.
Nel 1231 Gregorio IX si appropriò della guida della repressione giudiziaria dell’eresia (sino ad allora
lasciata ai tribunali civili): nelle diocesi il compito fu affidato a delegati del papa, i giudici inquisitori, perlopiù
domenicani, che agirono con poteri speciali in materia di fede.
La sensibilità per le nuove esigenze di spiritualità si rivolse in particolare verso nuove forme di religiosità
regolare (cioè che segue una regola), nuovi ordini che diffondevano il messaggio evangelico tramite
l’azione pastorale e caritativa. Essi non seguivano i modelli della vita monastica, ma operavano nella realtà
sociale. Straordinario successo in tutta Europa ebbero soprattutto gli ordini fondati dal castigliano
Domenico di Guzmán (1170-1221) e dall’umbro Franceso di Assisi (1182-1226). Entrambi centrarono la
propria predicazione sull’esigenza di un ritorno alla povertà evangelica, motivo per cui i loro ordini furono
detti “mendicanti”. Domenico promosse un ideale di cristianità fondato sulla predicazione del Vangelo come
antidoto alle suggestioni ereticali. I frati domenicani ebbero approvata la loro regola da Onorio III nel 1216,
e si distinsero nei decenni successivi come inquisitori in virtù della loro preparazione dottrinale.
Francesco fu invece straordinario esempio di una vita improntata alla povertà assoluta, all’umiltà e alla
fratellanza. L’intransigenza pauperistica gli attrasse i sospetti di eresia e solo la sua dichiarazione di fedeltà
alla Chiesa consentì la costituzione dell’ordine dei francescani, detti “minori” in segno di sottomissione.
Su incoraggiamento di Francesco, Chiara da Assisi fondò un gruppo di “sorelle”, che nel 1214 prese il
nome di clarisse, caratterizzato da un’intensa spiritualità e da un ideale di vita di povertà e di preghiera.
Nel corso del XII secolo anche il mondo monastico, e in particolare l’ordine di Cluny, aveva cominciato a
subire critiche per l’ostentata potenza e lo stile di vita aristocratico. Accusa ricorrente fu quella dell’assenza
di una cultura della povertà. Puntando a una restaurazione dell’originaria regola benedettina, prese vita dal
monastero di Citeaux un nuovo ordine, quello dei cistercensi, la cui regola fu approvata nel 1119.
Più vicino ai modelli eremitici fu il rigoroso modo di vita dei certosini, dal nome della certosa (chartreuse)
fondata presso Grenoble nel 1084: la regola dell’ordine prevedeva che i monaci passassero gran parte del
tempo pregando isolati nelle proprie celle. I nuovi monasteri non erano più centri di dominio signorile ma
importanti centri di attività agricola, condotti col sistema del grange (dal francese granche, granaio, il
termine indicava un’azienda agricola compatta, in reazione all’estrema frantumazione dei fondi
conseguente alla crisi del sistema curtense).

Monaci e frati: i monaci non sono dei preti, ma dei laici che hanno deciso di condurre una vita eremitica o
cenobitica. Solo alcuni monaci sono sacerdoti, perché hanno ricevuto l’ordinazione sacerdotale, cioè la
responsabilità di impartire i sacramenti. I monaci risiedono nei monasteri, ma non tutti i monasteri sono
abbazie: lo sono solo quelle guidate da un abate. Con “ordine” si intende un insieme di comunità che
vivono secondo la stessa regola e in genere ubbidiscono a un’unica autorità.
I domenicani e i francescani, invece, non si definiscono monaci, ma frati (da fratres, fratelli) perché non
perseguivano una vita di preghiera ritirata dal mondo, ma un impegno pastorale in esso. Le sedi dei loro
ordini non si definiscono monasteri (ossia luoghi di “uomini soli”), bensì conventi, cioè luoghi di conventus,
di incontro). A differenza del monachesimo benedettino, gli ordini mendicanti furono protagonisti soprattutto
della vita cittadina, stabilendosi sin dall’inizio in conventi nelle aree urbane periferiche, spesso nei quartieri
a maggiore connotazione popolare.
Non è infine un caso che gli ordini monastici come i cluniacensi e i cistercensi si diffusero soprattutto in
Francia e in Germania, aree prevalentemente rurali, mentre gli ordini medicanti si irradiarono nelle aree
dell’Europa urbana, come l’Italia, le Fiandre e la Francia meridionale,

Il cristianesimo orientale: ortodossia e scismi: nell’impero bizantino la Chiesa continuò a dipendere dal
ruolo sacrale attribuito al sovrano. Dal VII secolo le sedi patriarcali di Alessandria, Antiochia e
Gerusalemme si ritrovarono fuori dall’impero per l’avanzata islamica, e solo quella di Costantinopoli poté
appoggiarsi all’autorità secolare. A differenza della Chiesa cattolica, però, le chiese locali mantennero una
forte autonomia, in una struttura centrata sulle assemblee consiliari e priva di un vertice gerarchico come lo
era il papa in Occidente. Preoccupazione costante degli imperatori fu quella di mantenere l’unità dogmatica
del cristianesimo ortodosso, minacciata dalle continue controversie dottrinali tra le chiese locali e dalla
crescente autonomia monastica. Il protagonismo degli imperatori nelle controversie dottrinarie e
l’aspirazione del papato a difendere la propria autonomia furono alla base del graduale allontanamento del
mondo religioso e culturale bizantino da quello occidentale che si produsse tra VIII e XI secolo. Già in
epoca giustinianea l’editto dei Tre Capitoli aveva suscitato un primo scisma dei vescovi occidentali. La
politica iconoclasta degli imperatori provocò l’immediata opposizione del papato e la fine del dominio
bizantino nell’Italia centro-settentrionale, con la cacciata degli esarchi di Venezia, Ravenna e Roma.
Le diocesi balcaniche ed egee furono separate dalla giurisdizione romana, segnando così la divisione tra la
Chiesa greca e quella latina. Approfittando della crisi bizantina, il papato si appoggiò ai franchi, cui
riconobbe il titolo imperiale nell’800.
L’espansione bizantina nei Balcani acuì tra IX e X secolo la competizione con la Chiesa romana per
l’evangelizzazione delle popolazioni slave e bulgare. In gioco era anche il controllo delle diocesi dell’Italia
meridionale e le controversie dottrinarie e liturgiche - sullo Spirito Santo, sull’uso del pane lievitato o meno
nell’eucarestia, sul matrimonio dei preti (ammesso in Oriente) – offrirono il pretesto per la scomunica
reciproca tra papa Leone IX e il patriarca Michele Cerulario nel 1054.
Lo scisma tra la Chiesa orientale, da allora proclamatasi ortodossa, e quella cattolica, che rivendicò il
primato universale del pontefice, non fu più ricomposto.
Gli ebrei: dalla tolleranza alle persecuzioni: la storia del popolo ebraico coincise per lungo tempo con quella
del regno di Israele, fino alla definitiva conquista da parte dei romani nel 63 a.C. Alcune rivolte portarono
nel 135 d.C. alla sua soppressione politica e Gerusalemme fu vietata agli ebrei. Ebbe così inizio la loro
diaspora nel mondo, e comunità ebraiche si diffusero nelle città dell’impero. con l’editto del 212 gli ebrei
diventarono cittadini romani a pieno titolo, ma le comunità restarono legate alle tradizioni, mantenendo un
forte senso di identità in ambienti spesso ostili. L’ostilità e l’intolleranza nei confronti degli ebrei furono
alimentate dal loro forte senso d’identità, visto dagli antisemiti come estraneità nazionale e religiosa.
Nella cristianità l’accusa prevalente fu quella di deicidio, per aver consegnato Gesù ai romani affinché lo
condannassero. La Chiesa fu perciò favorevole alla loro emarginazione dalla vita civile. Tra X-XI secolo
comparvero le prime comunità ebraiche anche nelle città italiane e tedesche. Agli ebrei furono impediti
l’acquisto di terre e l’iscrizione alle corporazioni di mestiere: le uniche attività economiche loro consentite
rimasero il commercio e il prestito a interesse, proibito invece ai cristiani. Gli ebrei furono così additati
spesso come usurai e affamatori. Il concilio lateranense del 1215 impose loro di portare un segno di
riconoscimento sull’abbigliamento (un cerchio di stoffa gialla) per evitare rapporti con i cristiani. Dal XIII
secolo in varie città d’Europa, ma anche nei paesi musulmani, comparvero i ghetti, cioè zone riservate
obbligatoriamente agli ebrei. Fu nelle città tedesche che si verificarono nel 1096 i primi casi di sommosse
popolari antiebraiche (pogrom), anche come conseguenza dell’annuncio della prima crociata contro gli
infedeli. I massacri e gli incendi delle sinagoghe posero le basi dell’antisemitismo europeo, che vedeva
negli ebrei dei nemici irriducibili del cristianesimo e che sospettava nella loro vita appartata la pratica di culti
abominevoli. Dal XIII secolo i sovrani li espulsero dai loro regni, confiscandone i beni e annullandone i
crediti: dapprima in Inghilterra (1290), poi in Francia (1322) e poi in Spagna e Portogallo (1492).
La comparsa della peste nel 1348 avviò una nuova ondata di pogrom: accusati di aver causato l’epidemia
volontariamente, gli ebrei furono ovunque massacrati. Secondo alcuni studiosi solo il genocidio promosso
dal regime nazista nel XX secolo avrebbe superato le dimensioni dei pogrom del 1348-50.

Capitolo 12: crescita demografica, espansione agraria e sviluppo dei commerci

L’aumento della popolazione: a partire dal IX-X secolo iniziò un po’ ovunque nell’Occidente europeo una
lunga fase di incremento demografico destinato a durare fino a tutto il XIII secolo. Alla crescita
contribuirono probabilmente la scomparsa delle grandi epidemie dalla metà dell’VIII secolo, l’aumento della
natalità e una più lunga durata della vita media, che furono rese possibili da un generale miglioramento
delle condizioni di vita, a cominciare da un’alimentazione più ricca di proteine e vitamine, capace di
assicurare una migliore difesa contro le malattie infettive.
Cifre attendibili sulla popolazione si hanno per l’Inghilterra grazie alla sopravvivenza del Domesday Book (il
“Libro del giorno del giudizio”), una sorta di censimento a fini fiscali degli abitanti del regno, compilato tra
1080-86; da esso risulta una popolazione di circa 1.100.000 abitanti.
L’indizio più significativo dell’aumento della popolazione è però dato dalla fondazione di nuovi villaggi nei
secoli XI-XII. Fino al X secolo si deve infatti immaginare la società occidentale distribuita in un arcipelago di
terre coltivate immerse in un vasto paesaggio di superfici incolte. Da allora si moltiplicarono i nuovi
insediamenti, per iniziativa regia, signorile o cittadina.
L’aumento della popolazione fu un fenomeno comune a tutta l’Europa. Diversi furono però i ritmi di
incremento a seconda delle aree e delle condizioni di partenza: in Italia e Francia, dove la rete urbana
aveva origini romane, e nelle Fiandre, la densità della popolazione fu maggiore che altrove. Più scarsa fu
invece in altre regioni come Spagna, Germania, Inghilterra ed Europa scandinava e orientale.

L’espansione delle campagne: la crescita della popolazione andò di pari passo con l’estensione delle
coltivazioni. La crescente pressione demografica costrinse infatti a produrre una quantità maggiore di
risorse, innanzitutto alimentari. Condizione favorevole fu il miglioramento naturale del clima europeo, che
nei secoli a cavallo del Mille fu più dolce rispetto al periodo precedente. Se ne avvantaggiarono le
coltivazioni di tutte le regioni europee, ma soprattutto quelle del centro-nord. I limiti tecnologici del tempo,
nonostante alcuni progressi, resero però determinante per l’incremento della produzione agricola
l’ampliamento delle superfici coltivate, avviato tra X-XI secolo e che ebbe il suo culmine nel XII.
Se l’espansione dell’agricoltura fu soprattutto il risultato del graduale dissodamento di terre incolte, a essa
contribuì anche il miglioramento degli strumenti di lavoro e l’introduzione di nuovi sistemi di coltivazione.
I progressi principali si ebbero nell’aratura: la diffusione, dall’XI secolo, del collare rigido, che poggiava sulle
spalle del bue, al posto delle cinghie che stringevano l’animale alla gola, e della ferratura dei cavalli, che ne
favorì l’impiego nel dissodamento dei terreni, permise una maggiore forza di traino e l’introduzione di aratri
più pesanti. Soprattutto nei terreni compatti e argillosi dell’Europa centro-settentrionale si rivelò
determinante l’adozione di un nuovo tipo di aratro, con il vomere (la lama che penetra il terreno) di metallo
e munito di un versoio capace di rivoltare le zolle, mentre nelle regioni mediterranee continuò a prevalere
l’uso di aratri leggeri, in legno, più adatti ai suoli friabili. A partire dal XII secolo fu introdotta anche la
rotazione triennale delle terre, che metteva a riposo una parte dei campi ogni tre anni, anziché due,
accrescendone la fertilità. Nell’anno intermedio vi si coltivavano cereali primaverili e leguminose, destinabili
anche al foraggio degli animali da tiro e quindi alla loro miglior efficienza.
Pur rinnovando profondamente l’economia agraria e il volto delle campagne europee, l’espansione agricola
a cavallo del Mille non superò i propri limiti strutturali, in primo luogo il problema dell’approvvigionamento
alimentare. Lo spettro della carestia fece la sua comparsa nel IX secolo e rimase una preoccupazione
costante anche nei secoli successivi.
L’espansione determinò profonde trasformazioni anche nella struttura della proprietà e nell’organizzazione
del lavoro agricolo. La crisi del sistema curtense si accentuò: il dominico tese a scomparire tra XI-XII
secolo, frazionato tra contadini di varia condizione giuridica. Le aziende si trasformarono e i campi furono
tutti concessi in affitto. Scomparvero anche le corvées cui i contadini erano stati tenuti, sostituite da canoni
in denaro. Le differenziazioni già presenti nella società rurale si accentuarono. Resi più autonomi, i
coltivatori più intraprendenti approfittarono dell’aumento della produzione agricola e della sua
commercializzazione, accumulando ricchezze. I contadini più agiati erano pieni proprietari, concessionari di
terre e affittuari di altri fondi di proprietà di aristocratici ed enti ecclesiastici. Furono essi a consolidare
quelle élites rurali che dal XII secolo cominciarono a essere attratte dalla città. I grandi proprietari, come già
in età carolingia, sostennero le innovazioni che accrescevano i loro profitti e promossero le imprese di
colonizzazione e dissodamento, commercializzando il surplus prodotto.

Dall’economia della terra all’economia degli scambi: già nel sistema curtense si era manifestata la capacità
dei grandi proprietari fondiari di indirizzare la raccolta agricola alla vendita dei surplus produttivi. Dall’XI
secolo l’estensione generalizzata dei poteri signorili di banno all’intera popolazione rurale accentuò il
prelievo signorile sui contadini. L’aumento delle rendite fondiarie e della conseguente disponibilità di spesa
da parte delle famiglie aristocratiche si tradusse in una domanda di beni e servizi che creò un nuovo
reddito nei settori delle produzioni manifatturiere. Lo sviluppo economico ebbe origine nelle campagne:
anche i coltivatori più agiati furono in grado di vendere maggiori quantità dei loro prodotti e di reinvestire gli
introiti in denaro nell’acquisto di merci di altro genere. Da un’economia basata esclusivamente sulle rendite
agrarie si passò progressivamente a un’economia trainata dagli scambi.
Merito dei signori fu anche quello di investire in infrastrutture che favorirono lo sviluppo commerciale delle
campagne: mulini, ponti, strade, mercati, che si rivelarono utili a sostenere l’economia rurale.
Tornò ad essere curata anche la rete delle vie di comunicazione terrestri ed acquee, dopo che per secoli
era mancata la manutenzione delle antiche strade romane. Il trasporto sull’acqua restò più facile di quello
terrestre: furono ampiamente sfruttate le potenzialità dei bacini fluviali e divenne usuale risalire con carichi
nautici pesanti i corsi d’acqua. Tra X-XIII secolo furono anche disegnati e consolidati quei fasci di strade e
sentieri che coprirono il territorio europeo fino al XIX secolo. Lungo le vie di comunicazione si
moltiplicarono i luoghi di scambio e di mercato.

La rinascita delle città: fenomeno connesso alla crescita demografica, agricola e commerciale fu quello
dello sviluppo urbano che caratterizzò un po’ tutte le regioni europee a partire dai secoli X-XI.
Il tessuto urbano europeo era composto da borghi che svolgevano una funzione di mercato nei confronti
del territorio; per popolosità, sopra di essi si collocava una serie di città piccole e medie, che erano anche
capoluoghi ecclesiastici, giurisdizionali e amministrativi. Poche grandi città si trovavano infine inserite in
una rete di commerci a lungo raggio, con importanti attività manifatturiere e talora erano sede del potere
politico o dell’università. L’intensità dell’urbanizzazione dipese in parte anche dall’eredità romana: nella
Francia meridionale e in Italia la continuità degli insediamenti non venne mai meno e le città conservarono
l’antica preminenza rispetto al territorio circostante, ruolo rafforzato dai regimi vescovili.
Più tardivo fu lo sviluppo urbano nella Germania meridionale, intorno a centri mercantili come Francoforte,
Norimberga e Augusta. Minore fu infine l’urbanizzazione nelle aree dove la presenza romana era stata
superficiale o assente: Inghilterra, Germania settentrionale, Baltico, Scandinavia (importante sviluppo delle
città portuali, ex. Amburgo, Riga, Stoccolma).
La fitta rete di centri urbani disposti intorno al bacino fluviale del Po, lungo la via Emilia e nella Toscana
centro-settentrionale costituiva il vero cuore urbano del continente. L’eccezionale livello di urbanizzazione
raggiunto in queste aree dipese anzitutto dall’eredità romana, cui aveva fatto seguito la mantenuta
importanza politico-amministrativa di molte città; inoltre i centri urbani lombardi e toscani erano distribuiti
lungo grandi assi di comunicazione (le vie terrestri e fluviali da est a ovest di matrice romana, la via
Francigena, che portava da Roma verso la Francia) che inserivano le attività manifatturiere e commerciali
locali in una rete di traffici a lunga distanza. La fioritura urbana fu l’esito della rinascita di molte città antiche,
dopo la crisi dell’alto medioevo, e della fondazione di nuovi centri urbani. Caratteristica comune dello
sviluppo urbano fu la sua stretta connessione con le attività manifatturiere e commerciali. I mercanti e gli
artigiani vi acquisirono un peso politico rilevante che li affiancò, e talora contrappose, all’aristocrazia legata
alla terra. Era questa una significativa differenza rispetto alle città romane, che erano state dominate
dall’aristocrazia fondiaria e caratterizzate da un’economia agricola. Nelle città medievali gli abitanti delle
città si differenziavano da quelli delle campagne per una marcata divisione del lavoro: mentre in ambito
rurale continuarono a prevalere lavori legati all’economia agricola, nelle città si svilupparono attività legate
alla produzione manifatturiera, al commercio, alle professioni giuridiche e all’insegnamento.
Alcune importanti differenze caratterizzano il fenomeno urbano nell’Italia centro-settentrionale rispetto al
nord Europa: mentre le città italiane erano quasi tutte di origine romana, quelle del nord si erano sviluppate
di recente intorno a borghi, porti e mercati; rispetto a queste ultime, abitate quasi esclusivamente da
mercanti e artigiani (i borghesi, termine che indicava gli abitanti dei borghi e che soltanto dopo ha indicato
una classe sociale), l’articolazione sociale delle città italiane era molto più varia, comprendendo anche i
proprietari fondiari, titolari di diritti signorili, giudici, notai, etc. Le nostre città mantennero sempre una
funzione di centralità (ecclesiastica, amministrativa, economica) rispetto al territorio, mentre le città del nord
furono quasi ovunque isole protette da privilegi economici, fiscali e amministrativi, separate dal territorio
circostante. Le città italiane tradussero la propria influenza sulla campagna in un vero e proprio dominio
territoriale, costituendo dal XIII secolo dei veri e propri stati cittadini. In Italia il termine “città” fu riservato
solo ai centri che erano sedi vescovili.

La crescita delle attività produttive e dei commerci: i progressi tecnologici non riguardarono solo le
coltivazioni agricole, ma investirono anche altri settori. Nelle campagne si diffuse dall’XI secolo il mulino ad
acqua, che divenne presto un elemento tipico del paesaggio rurale, e che consentì di utilizzare l’energia
idraulica per molte attività. Esso fu applicato alle macine per il grano, ai frantoi, ai mantici per la lavorazione
del ferro. Dal XII secolo si diffusero sulle coste anche i mulini a vento. Nelle città si svilupparono gruppi di
artigiani specializzati, organizzati in corporazioni (“arti”). Corporazione: associazione di tutti coloro che in
una città esercitavano lo stesso mestiere o la stessa attività commerciale. Le corporazioni, di cui facevano
parte solo i padroni e non gli apprendisti e i salariati, si diffusero tra XII-XIII secolo per tutelare gli interessi
comuni in condizioni di monopolio: nessuno poteva esercitare l’attività senza essere iscritto all’arte.
Il settore in più forte espansione fu quello tessile, in particolare il laniero. Introdotta dagli arabi in Sicilia, si
diffuse in varie aree italiane, francesi e tedesche anche la produzione di tessuti di seta. Si svilupparono
anche le manifatture di cotone e di fustagno, e cominciò a diffondersi la produzione della carta.
Accanto ai settori nuovi ebbe un nuovo impulso quello tradizionale dell’edilizia, che sostenne anche con
nuove tecniche costruttive la grande espansione urbanistica del periodo.
Diverse regioni europee si trovarono ad essere collegate da scambi commerciali che erano sostenuti da
una crescente domanda di beni alimentata dai consumi aristocratici e urbani. Le sedi delle corti sovrane
(Parigi, Londra, Palermo) e le maggiori città italiane divennero grandi centri di consumo di beni e prodotti
del commercio internazionale. Venne così delineandosi una pluralità di aree con specializzazioni differenti,
ma complementari e integrabili, che si estendeva a tutta l’Europa e che costituiva un sistema economico
tendenzialmente unitario. Per la posizione geografica al crocevia dei flussi di scambio tra Occidente e
Oriente e tra nord e sud dell’Europa, e per la precocità della crescita delle loro città, i mercanti italiani
furono gli iniziali protagonisti dell’espansione commerciale. Tra X-XI secolo alcune città costiere meridionali
come Amalfi, Bari e Napoli si inserirono nel commercio mediterraneo, creando una rete di stazioni
commerciali nei porti della Siria, della Palestina, dell’Asia Minore e del Mar Nero, punto d’arrivo delle
carovane mercantili dall’Oriente, e dando vita a intensi rapporti di scambio con arabi e bizantini.
A esse si affiancò presto Venezia, che finì con l’ottenere nel 1082 da Bisanzio la libertà di commercio in
tutto il territorio dell’impero, e divenne lo snodo principale dei traffici mercantili tra l’Europa continentale e il
Mediterraneo. Pisa e Genova a loro volta si batterono per la conquista della Sardegna e della Corsica,
sostituendo basi mercantili nelle regioni musulmane: in Sicilia, in Spagna e sulle coste africane. Fra XI-XII
secolo le città marinare italiane acquistarono un sostanziale monopolio dei commerci mediterranei,
scalzando i mercanti greci, ebrei e musulmani. Nell’Europa del nord i traffici gravitavano intorno al Mare del
Nord e al Baltico. Sbocco dei traffici baltici verso l’Occidente europeo erano le città delle Fiandre, il cui
sviluppo mercantile collegava le coste del Mare del Nord con l’Inghilterra, con l’entroterra francese e con la
Renania. Le Fiandre erano anche il punto di arrivo dei traffici provenienti dal Mediterraneo attraverso i porti
francesi e la valle del Rodano e le vie transalpine che collegavano le città e i porti italiani ai centri renani e
fiamminghi. Accanto ai mercati permanenti i luoghi principali degli scambi diventarono le fiere, cioè i
mercati periodici. Per la favorevole posizione geografica all’incrocio tra i traffici del nord e del Mediterraneo
conobbero grande importanza dal XII secolo le fiere che si tenevano nella regione dello Champagne.

Capitolo 13: la diffusione dei rapporti feudali

Dalla fedeltà personale al raccordo politico: fino al X secolo i rapporti vassallatico-beneficiari servirono da
collante dell’ordinamento pubblico. Nell’impero carolingio i vassalli non erano ufficiali del regno, ma
l’imperatore scelse i conti, i marchesi e i missi principalmente tra i suoi vassalli, proprio per poter contare su
personaggi di fiducia. Il vassallo non poteva esercitare le funzioni pubbliche sulle terre ottenute in beneficio,
che non appartenevano al suo patrimonio, ma gli erano concesse solo come compenso. Fu solo con la
dissoluzione dell’impero tra IX-X secolo che le grandi famiglie aristocratiche resero ereditarie sia le cariche
pubbliche sia i benefici. Nell’XI secolo, con lo sviluppo dei poteri signorili, tali legami si rivelarono uno
strumento utile per collegare tra loro i nuclei di potere dispersi. Fu l’estrema frammentazione del potere
pubblico che trasformò la natura dei rapporti vassallatici; col tempo, infatti, era venuto meno l’obbligo del
servizio armato, anche perché i vassalli si erano spesso legati a una pluralità di signori, creando crescenti
problemi di priorità in caso di conflitto. Inoltre, i benefici erano ormai ereditari, dunque i rapporti vassallatici
si trasformarono da legami di fedeltà personale di tipo militare in raccordi di tipo eminentemente politico.
Anche il modo di indicarli cambiò significativamente: il termine “feudo” si sostituì a quello di “beneficio”.
Solo per questa età è dunque appropriato parlare di rapporti di tipo feudale.
Tra XI-XIII secolo l’espansione della società europea fu caratterizzata da un generale processo di
ricomposizione dei poteri territoriali che il precedente sviluppo dell’ordinamento signorile aveva
frammentato in una pluralità di nuclei (laici, ecclesiastici, urbani etc.). strumento principale della
ristrutturazione in quadri politici più ampi – principati e monarchie – furono le relazioni feudali, che
sancirono e legittimarono in forme nuove i rapporti di potere.
Feudo: latinizzazione dell’antico germanico, che indicava un pagamento in servizi, prevalentemente
bestiame, e che assunse il medesimo significato di “beneficio”.
Il feudo divenne lo strumento preferenziale di concessione di diritti pubblici e ciò consentì di coordinare
intorno a nuove gerarchie quei poteri locali che l’eccessiva frammentazione esponeva al pericolo di
isolamento e conflitti. Viceversa, tali poteri poterono inquadrarsi in rapporti di subordinazione che non
intaccavano la loro autonomia. Ciò poté avvenire perché il feudo divenne sempre più chiaramente parte del
patrimonio del vassallo, trasmissibile per via ereditaria e revocabile solo in casi di eccezionale infedeltà.
La moltiplicazione dei legami feudali fu determinata dalla convergenza tra la pressione dei principi
territoriali e la convenienza dei signori più piccoli di raccordarsi politicamente con i più potenti.
Venne per tal via creandosi una rete di relazioni feudali che raccordava tra loro tutti i poteri.
Nel XII-XIII secolo giuristi e consiglieri di re e imperatori cominciarono a elaborare lo scema ideologico di
una struttura piramidale del potere, discendente da un unico grande centro come erogatore di legittimità: il
sovrano. L’immagine della piramide feudale si adattò ai regni più centralizzati, come quelli normanni
d’Inghilterra e dell’Italia meridionale.
I cavalieri non vanno confusi con i vassalli: potevano diventarlo, ma non lo erano a prescindere. Il rapporto
tra signore e vassallo era un rapporto tra pari; lo indicava anche il rito attraverso cui esso si stabiliva in età
carolingia: entrambi stavano in piedi, e mentre il senior prendeva fra le sue le mani del vassus
(“investitura”), questi giurava fedeltà (“omaggio”). L’addobbamento cavalleresco non era un rapporto tra
pari, ma una promozione sociale che un membro della nobiltà compiva a vantaggio di un uomo di sua
fiducia. Diverso era infatti anche il rito: il futuro cavaliere stava genuflesso davanti al signore, che gli
consegnava spada e cinturone, inferendogli simbolicamente un colpo con la spada stessa.

Autorità universali e legami feudali: le aspirazioni universalistiche del papato, di proporsi cioè come vertice
politico assoluto della cristianità, trovarono nei raccordi vassallatici lo strumento ideale per attuarsi.
La consacrazione papale rafforzava l’autorità dei regnanti, che grazie al legame feudale non erano costretti
a rinunciare alla piena sovranità sui propri territori, il primo importante omaggio di fedeltà al pontefice fu
prestato nel 1059 da normanno Roberto il Guiscardo a Niccolò II, che gli infeudò i ducati di Puglia e di
Calabria, legando così durevolmente al papato le vicende dei normanni dell’Italia meridionale. Fu poi la
volta di Gregorio VII (1073-85), che ottenne l’omaggio vassallatico da parte dei re di Inghilterra, Ungheria,
Croazia e dei vari sovrani iberici. Attraverso la gerarchia feudale il papato poteva così proporsi al vertice
della società cristiana. Fu soprattutto con la dinastia degli Hohenstaufen che tra XII-XIII secolo i sovrani
tedeschi cercarono di consolidare la propria autonomia attraverso il nuovo significato politico assunto dalle
relazioni feudali. Federico I (1152-90) intervenne nell’organizzazione dei territori tedeschi, rimaneggiando i
ducati, smembrando alcuni principati e creando nuove signorie territoriali. Si formò in tal modo un sistema
di feudi soggetti all’autorità imperiale, che fu codificato da un testo giuridico dell’inizio del XIII secolo, lo
Sachsenspiegel (Specchio dei sassoni), che disegnava una catena di dipendenza feudali tra il sovrano e i
principi e tra questi e i signori minori.
A differenza dei pontefici, gli imperatori non furono in grado di utilizzare gli strumenti feudali a sostegno
delle proprie ambizioni universalistiche. Essi riuscirono a imporli solo nei territori che riuscivano a
controllare. In qualche caso, furono addirittura costretti a prestare omaggio feudale ai pontefici: Federico I
vi sottostette di malavoglia, nel 1155, poiché ambiva ad essere incoronato imperatore. L’apogeo feudale
pontificio fu raggiunto da Innocenzo III (1198-1216), che elaborò il principio per cui il papa riceveva da Dio
sia il potere spirituale sia quello temporale, e delegava l’autorità temporale ai sovrani, che dovevano
esercitarla sotto la sua guida. Grazie a tale concezione egli fu capace di imporre l’omaggio feudale a vari re
della cristianità.

Capitolo 14: la formazione dei regni

Le monarchie feudali: dalla frammentazione politica che era seguita all’impero carolingio presero corpo
intorno ai nuovi poteri monarchici alcune aree che avrebbero poi definito alcune delle principali identità
politiche dell’epoca successiva: Francia, Inghilterra, Italia meridionale e penisola iberica.
Esito comune fu infatti la stabilizzazione, all’inizio del XIII secolo, di regni capaci di inquadrare i dispersi
poteri signorili, ecclesiastici e urbani locali in una rete di vincoli che faceva ormai capo alla figura del re.
Inizialmente i poteri regi non si differenziavano da quelli esercitati dai principi territoriali: la novità fu
rappresentata dalla capacità di alcune casate di affermarsi sulle altre con le conquiste militari o attraverso
relazioni diplomatiche e dinastiche, e di presentarsi come principi capaci di ricomporre la frammentazione
dei poteri locali. I nuovi poteri monarchici seppero differenziarsi dai signori locali rivendicando titoli e
funzioni superiori, diversi da quelli dell’aristocrazia signorile, elaborando nuovi contenuti ideologici,
carismatici e giuridici della regalità, e instaurando con i grandi signori territoriali relazioni feudali che
sottolineassero la loro posizione di preminenza.
Garantire pace e giustizia e difendere i deboli e la Chiesa erano attributi tradizionali della regalità
medievale. Le nuove monarchie li rielaborarono conferendo loro nuovi contenuti ideologici e giuridici.
Grazie alla riflessione degli uomini di Chiesa, i re rivendicarono nuovamente la natura sacrale del proprio
potere, fonte di legittimazione della preminenza su tutti gli altri signori e di inediti poteri carismatici.
Le dinastie stabilizzarono anche il principio che assicurava la continuità dinastica.
Nel processo di ricomposizione politica e territoriale guidata dalle monarchie ebbero un ruolo centrale le
relazioni feudali, al punto che si usa correntemente l’espressione “monarchie feudali”.
L’utilizzo degli strumenti vassallatici consentiva di stabilire dei precisi rapporti di dipendenza dal sovrano
dei grandi signori del regno e di tutti i titolari di diritti pubblici (chiese, monasteri, città, comunità etc.).
Il feudo faceva riconoscere l’autorità del regno su tutto il territorio, aggregandovi le forze eterogenee ed
autonome. Le nuove dinastie regie non intesero infatti superare la pluralità di soggetti titolari di diritti e
poteri; il loro ruolo fu essenzialmente di coordinamento politico e si fondò sulla sistematica adozione dei
rapporti vassallatici, che consentirono di mettere in relazione politica con la monarchia il complesso dei
poteri locali. Per affermarsi come poteri superiori e per disciplinare le forze aristocratiche, i re puntarono
anche al governo diretto del territorio attraverso ufficiali che esercitavano localmente poteri giudiziari, fiscali
e amministrativi, in rappresentanza del sovrano. Le monarchie si dotarono dunque di apparati burocratici
sempre più articolati, potenziando anche le cancellerie e gli organi centrali del governo. Gli ufficiali regi
potevano agire efficacemente soltanto nelle aree di diretto dominio della corona, mentre in quelli feudali
dovevano coordinare la propria autorità con le prerogative dei poteri locali. Questi ufficiali non erano
vassalli del re, ma degli stipendiati. Rispetto ai sovrani dell’epoca precedente, costretti a concedere in
feudo il territorio per amministrarli, i nuovi monarchi poterono avvalersi della ritrovata circolazione
monetaria e dell’espansione dell’economia europea per remunerare i burocrati.
Rispetto ai regni delle età precedenti, dove il potere si fondava sulle relazioni personali, la concezione del
potere delle nuove monarchie era sostanzialmente diversa. La potestà regia era ora orientata verso un
esercizio territoriale della propria autorità, cioè sulla capacità di comando su tutti gli abitanti di uno spazio
definito. Punto fondamentale era il controllo del territorio, che fu perseguito anche attraverso la
rivendicazione di quote crescenti di giurisdizione che i signori e le comunità locali furono costretti a cedere
attraverso patti e accordi scritti. Cardine di questo sforzo regio fu l’imposizione del principio della superiorità
del tribunale regio su quelli signorili, con l’obbligo dei sudditi di fare ricorso alla giustizia del re in caso di
delitti particolarmente gravi.

Il regno di Francia: il regno dei franchi occidentali, dopo la dissoluzione dell’impero carolingio,
corrispondeva grosso modo all’area della Gallia romana e costituiva, tra X-XI secolo un’area politica
caratterizzata da un sistema di principati. La dinastia dei Capetingi che aveva assunto nel 987 il titolo regio
controllava infatti solo uno dei principati territoriali in cui era frammentata la Francia. Il loro potere non si
differenziava, per natura o estensione, rispetto a quello dei duchi o dei conti vicini. Il dominio diretto dei
Capetingi era limitato a un’area ristretta compresa tra la Loria e la Senna. La potenza degli altri principati
derivava invece o dalla tradizione etnica, come nel caso di Bretagna e Aquitania, oppure traeva forza dalle
relazioni con potenze esterne, come la Normandia legata al mondo anglosassone, le Fiandre legate al
mondo commerciale, la contea di Tolosa in relazione con la Spagna cristiana, la Borgogna collegata alla
monarchia germanica, o ancora dall’iniziativa dei principi potenti, come in Angiò, nella Champagne o in
Provenza. La debolezza del potere dei Capetingi i trasformò paradossalmente in un fattore di forza per la
loro affermazione monarchica. Proprio perché debole, il loro esercizio della regalità non era avvertito come
una minaccia effettiva dagli altri potentati locali, che lo accettavano in quanto simbolo dell’unità del regno e
di garante della pace e della giustizia, per esempio nell’intervento arbitrale nelle dispute tra grandi signori.
Per questa via i Capetingi mantennero vivo il regno per tutto l’XI secolo e posero le basi per l’aumento del
proprio potere nel secolo successivo. Assicuratisi il pieno controllo del principato regale, infatti i Capetingi
assunsero il compito effettivo di protettori delle chiese e di garanti delle paci di mercato in aree soggette ad
altri principati, guadagnandosi così il sostegno delle gerarchie ecclesiastiche e delle città del regno.
Il ruolo simbolico dei re capetingi fu rafforzato anche dalla sottolineatura della sacralità della funzione regia.
Tra XII-XIII secolo la propaganda regia presentò l’immagine del re come di un personaggio dotato di poteri
taumaturgici (di guarigione). La popolarità del potere soprannaturale dei re di Francia si diffuse
nell’immaginario collettivo in molte aree europee e contribuì ad accrescerne il prestigio e il potere.
Fu a partire dall’epoca di Luigi VI (1108-37) e di Luigi VII (1137-80) che si avviò un primo deciso processo
di consolidamento delle strutture del regno. Furono sviluppati gli apparati centrali, in primo luogo quelli
concernenti l’esazione fiscale, e dislocati i primi rudimentali strumenti di controllo regio nei territori soggetti
agli altri principi. La graduale espansione del potere capetingio condusse all’assorbimento di altre realtà
regionali, sia attraverso alleanze matrimoniali sia per via militare. Anche la superiorità giudiziaria del re
cominciò a essere affermata durante il lungo regno di Luigi VII: egli divenne progressivamente il punto di
riferimento per la soluzione di dispute tra grandi signori. Luigi VII dovette affrontare un lungo e duro conflitto
con i più potenti dei loro vicini, i Plantageneti, che limitavano a Occidente l’espansione del regno di Francia.
Essi discendevano da Goffredo conte d’Angiò, detto Plantageneto dalla ginestra che era insegna della sua
casata, e da sua moglie Matilde, figlia del re d’Inghilterra e signora dei ducati di Normandia e Bretagna. Il
loro figlio Enrico sposò nel 1152 Eleonora, signora di Aquitania e del Poitou, e ne 1154 ricevette anche la
corona d’Inghilterra. Egli venne così concentrando sotto un’unica autorità un dominio vastissimo, esteso
sulle due coste della Manica, e che andava dalla Scozia ai Pirenei. L’aspetto paradossale fu che Enrico era
formalmente vassallo del re di Francia per il possesso di vari feudi, soprattutto in Bretagna, ma era ben più
potente di lui, controllando di fatto la maggioranza del territorio francese. Il conflitto fu inevitabile, e si
risolse nel riconoscimento della presenza minacciosa del re d’Inghilterra entro i confini del regno di Francia.
Il problema della potenza plantageneta fu risolto da Filippo II detto Augusto (1180-1223), durante il cui
regno si ebbe la triplicazione dei territori sottoposti al diretto controllo della corona. La politica matrimoniale
assicurò il controllo sulle aree orientali del regno, mentre con decise azioni militari furono strappate agli
eredi di Enrico d’Inghilterra la maggior parte dei territori francesi. Decisiva fu la vittoria nella battaglia di
Bouvines, presso Lille nel nord della Francia, del 1214, dove Filippo Augusto, appoggiato da Innocenzo III
e dal re di Germania Federico II, sconfisse la coalizione tra l’imperatore Ottone IV e il re d’Inghilterra,
Giovanni I Plantageneto detto Senza Terra: quest’ultimo fu costretto a cedere alla Francia tutti i
possedimenti a nord della Loira. Filippo Augusto sviluppò ulteriormente l’apparato burocratico, e gli obblighi
dei vassalli cominciarono ad essere redatti per iscritto e la rete delle fedeltà feudali fu resa più gerarchica.

Il regno d’Inghilterra: alla fine del IX secolo il re anglosassone del Wessex Alfredo il Grande (871-99) era
riuscito a fermare l’espansione vichinga in Inghilterra e ad avviare un’energica azione di governo, che fu poi
ulteriormente rafforzata dai successori. Dalla prima metà del X secolo il regno anglosassone unificò i
numerosi poteri locali presenti sul territorio dell’isola britannica. Il regno era diviso in circoscrizioni territoriali
in cui operavano gli agenti del re (sheriffs), incaricati della riscossione dei tributi e dell’amministrazione
della giustizia. La società locale era organizzata in insediamenti rurali (tuns, da cui poi towns) i cui abitanti
partecipavano alle corti in cui si amministrava periodicamente la giustizia. I grandi possessori fondiari
(earls) svolgevano per il re compiti di coordinamento militare su base territoriale. Dal 1016 si impadronì
della corona, con una spedizione militare, il danese Canuto II, detto il Grande perché capace di creare un
dominio esteso anche a Danimarca e Norvegia. A sua volta Canuto III designò come proprio successore
sul trono anglosassone il fratellastro Edoardo il Confessore, figlio di Emma di Normandia, che fu eletto re
nel 1042 dall’assemblea dei nobili. Il regno d’Inghilterra pervenne così ai normanni per rivendicazione
dinastica e per mezzo di una grandiosa operazione militare. Avvenne che Guglielmo, duca di Normandia,
dopo aver consolidare il proprio potere del 1042 con l’appoggio del re di Francia Enrico I, alla morte senza
figli del cugino Edoardo il Confessore re d’Inghilterra nel 1066, che lo aveva indicato come suo erede al
trono inglese, si oppose all’incoronazione di Aroldo del Wessex. Attraversata la Manica sbarcò sull’isola
con il suo potente esercito di cavalieri ed ebbe la meglio sulle truppe sassoni nella battaglia di Hastings il
14/10/1066, dove fu sconfitto e ucciso Aroldo; nel Natale dello stesso anno Guglielmo fu consacrato re
d’Inghilterra (con l’epiteto di Conquistatore) nell’abbazia di Westminster. La resistenza degli anglosassoni si
prolungò per qualche tempo e la conquista fu completata solo nel 1071, con l’eccezione di Galles e Scozia.
Guglielmo confiscò le proprietà ai sassoni uccisi e ribelli e le distribuì ai normanni al suo seguito.
Il Conquistatore mantenne la preesistente suddivisione amministrativa del regno in una trentina di contee e
in gruppi di villaggi posti sotto il comando di uno sceriffo, che presiedeva alle funzioni giudiziarie, fiscali e
militari. Il potere degli sceriffi era bilanciato dalla presenza di giudici itineranti che agivano da corti
d’appello. Soprattutto, Guglielmo impiantò una maglia di castelli su tutto il territorio del regno, posti su unità
fondiarie (manors), che concesse in feudo a baroni (termine derivante dall’antico tedesco baro, “uomo
libero”, si diffuse nelle monarchie feudali per indicare i vassalli del re → fascia più alta dell’aristocrazia) e
cavalieri in larga parte normanni, badando a non favorire la creazione di signorie territoriali.
Con il colossale censimento detto Domesday Book, completato nel 1086, il sovrano registrò a fini fiscali
tutte le proprietà fondiarie, i nomi dei vassalli e il numero dei capifamiglia del regno, anche per evitare
eventuali usurpazioni. Gli incerti interregni seguiti alle morti di Guglielmo (1087) e di Enrico I (1135)
avevano favorito un clima di guerra interna scatenata dai baroni, risolto solo dall’ascesa al trono di Enrico II
(1154-89), primo re della famiglia della dinastia dei Plantageneti capace di riaffermare il potere monarchico.
Egli cercò innanzitutto di recuperare i diritti regi sul demanio (il complesso dei beni fondiari e dei diritti di
autorità pubblica del re. Con l’affermazione dell’idea di corona, cioè di carattere astratto della regalità,
l’originario patrimonio personale del re tese ad essere percepito come patrimonio pubblico) per assicurarsi
una solida base di entrate, e provvide poi a ridurre gli spazi di manovra della grande nobiltà. Molti castelli
signorili furono abbattuti, ulteriori limitazioni furono poste nell’amministrazione della giustizia e nella
riscossione delle tasse, e fu introdotta un’imposta che esentava i baroni dal servizio militare. In tal modo il
peso militare dell’aristocrazia venne diminuendo mentre il progressivo espandersi dell’amministrazione
regia apriva ai baroni la partecipazione agli apparati burocratici. Rafforzato fu anche l’obbligo degli sceriffi
di versare periodicamente i proventi fondiari e fiscali delle loro contee davanti alla camera dello Scacchiere,
l’organismo centrale di tesoreria (così chiamato per l’uso del drappo quadrettato che facilitava la contabilità
sul tavolo della riunione).
Nelle assise (le assemblee giudiziarie dei signori e dei loro vassalli) di Clarendon de 1164, Enrico II emanò
delle disposizioni (Costituzioni) che rivendicavano alla corona il pieno esercizio dell’autorità giudiziaria.
Affermando il principio che chiunque potesse ricorrere alla giustizia del re, si posero le basi per un sistema
(common law) in cui le giurisdizioni particolari, a partire da quelle feudali, potevano essere spogliate di
cause rimesse alle corti regie, la cui articolazione tra tribunali centrali, itineranti e corti locali fu
ulteriormente rafforzata. Enrico II cercò di sottomettere alla giustizia regia anche il clero, ledendone il
privilegio di immunità garantito dal diritto canonico. Si aprì così un conflitto durissimo, relativo anche al
controllo dell’elezione dei vescovi e degli abati, con il papa Alessandro III e con il clero inglese guidato
dall’arcivescovi di Canterbury Thomas Becket, già cancelliere della corona, che fu dapprima costretto
all’esilio in Francia e poi assassinato in circostanze non chiarite nel 1170. Il clamore del delitto costrinse il
re ad alcune concessioni alla Chiesa, ma nel complesso la giurisdizione regia ne uscì rafforzata.
Enrico II lasciò ai suoi eredi una struttura politica organizzata, di cui il re rappresentava il vertice di due
sistemi gerarchici, feudale e amministrativo, tra loro integrati. Il prestigio e la forza della monarchia
conobbero però un pesante regresso con i successori. Le lunghe assenze dall’Inghilterra di Riccardo Cuor
di Leone (1189-99), impegnato nella crociata e nelle guerre in Francia, lasciarono nuovamente spazio alle
rivendicazioni della nobiltà. Giovanni Senza Terra (1199-1216) subì la deposizione dal papa per contrasti
con l’arcivescovi di Canterbury, fu sconfitto a Bouvines nel 1214 e perse i possessi in Francia. I sacrifici
imposti per finanziare le guerre in continente lo costrinsero a concedere nel 1215 un ampio documento, la
Magna charta libertatum, che ridefiniva i rapporti tra il sovrano e i sudditi. Il sovrano era richiamato a
rispettare le antiche consuetudini e a riconoscere le prerogative dei nobili, del clero e delle comunità
mercantili cittadine; nel caso di nuove imposizioni fiscali era richiesta la loro approvazione, e fu formato un
consiglio di 25 baroni che avrebbe dovuto assistere il re nel governo del regno.

L’Europa normanna: di origine scandinava, i normanni si insediarono stabilmente nell’Europa carolingia,


dove si cristianizzarono. La costruzione del loro ducato in Normandia nel corso del X secolo fu
accompagnata dall’acquisizione di costumi sociali di derivazione franca. Essi cominciarono a parlare il
franco in tempi molto rapidi, e quella rimase la loro lingua anche nelle successive espansioni. Dei franchi
fecero propri anche i valori cavallereschi, innestandoli sulle proprie attitudini guerriere, fino a militare tra i
capi delle prime crociate in Terrasanta. Dal regno franco mutuarono anche modelli di organizzazione
politica, tra cui la compenetrazione con le strutture ecclesiastiche. Soprattutto, dai franchi i normanni
adottarono la pratica dei rapporti vassallatico-beneficiari, che bene incontravano le tradizioni di fedeltà dei
loro guerrieri. All’interno del ducato di Normandia separarono le funzioni militari svolte dai vassalli dai
compiti di natura amministrativa affidati a ufficiali. In tal modo essi furono in grado di esercitare un saldo
controllo del territorio che servì da modello quando, nel corso dell’XI secolo, diedero vita alle due grandi
direttrici migratorie della storia normanna: quella verso l’Italia e quella verso l’Inghilterra.
I normanni esportarono i rapporti feudo-vassallatici in territori in cui non erano mai stati sperimentati in
precedenza. Proprio perché costituiva una novità, la feudalità che applicarono nel regno d’Inghilterra e poi
nella costruzione di quello nel Mezzogiorno italiano fu di grado avanzato: l’inquadramento feudale fu
omogeneo, per cui ogni potente locale era effettivamente un vassallo del re, e chiaramente distinto dalla
rete di ufficiali regi. In Inghilterra essi assimilarono la cultura bretone e gallese, elaborando il ciclo letterario
di re Artù; in Italia elementi arabi e bizantini fornirono loro strumenti affinati di governo. Ovunque nei loro
domini i normanni organizzarono cancellerie e uffici di corte che sostenessero l’autorità dei sovrani: ciò li
avvicinò abbastanza precocemente al pensiero giuridico romano.

Regno normanno nell’Italia meridionale: l’Italia meridionale tra X-XI secolo appariva caratterizzata da una
forte frammentazione politica. Non toccato dalla conquista franca dell’VIII secolo, il Mezzogiorno era stato
oggetti di tentativi di riconquista da parte degli imperatori d’Occidente e d’Oriente e aveva conosciuto
importanti trasformazioni nei domini longobardi e subìto l’espansione araba. All’interno di quello che
rimaneva il ducato longobardo di Benevento si erano sviluppate due entità autonome, il principato di
Salerno e la contea di Capua, mentre la stessa Benevento si era data alla Chiesa di Roma.
Il superstite dominio bizantino si limitava ormai alla Puglia e alla Calabria. Le maggiori città sulle coste
campane – Gaeta, Napoli, Sorrento e Amalfi – si erano rese di fatto largamente autonome e proposte a
capo di piccole contee. La Sicilia, in mano agli arabi da più di un secolo, soffriva delle crescenti lotte di
fazione che dividevano violentemente i dominatori musulmani.
In un contesto così frammentato, giunsero dal ducato di Normandia numerosi cavalieri chiamati dai principi
longobardi e bizantini in lotta tra loro. Nel giro di pochi decenni riuscirono a costituire piccoli domini quale
ricompensa per i servizi militari prestati. Il loro inserimento nella rete dei poteri locali trasformò i mercenari
normanni in signori territoriali capaci di rapportarsi per via vassallatica ai potenti della regione e ai sovrani
universali. Nel 1047 i capi normanni prestarono omaggio all’imperatore Enrico III provocando la reazione
del papa, le cui truppe furono sconfitte in battaglia a Civitate nel 1053. Allontanandosi il papato dai bizantini
in seguito allo scisma del 1054, e morto Enrico nel 1056, i capi normanni strinsero con Niccolò II a Melfi nel
1059 un importante accordo che, in cambio della sottomissione feudale, conferiva a Roberto d’Altavilla,
detto il Guiscardo (l’Astuto), intorno al quale si erano coagulati gli interessi dei normanni ormai insediatisi
nel Mezzogiorno, il titolo di duca di Puglia e di Calabria, di terre cioè ancora in parte da conquistare.
L’accordo di Melfi garantiva al papato un prezioso alleato nello scenario mediterraneo. A sua volta, come
vassallo del papa, Roberto il Guiscardo assicurava un’altissima legittimazione al proprio dominio.
Sotto la sua guida i normanni occuparono la quasi totalità dell’Italia meridionale, conquistando la Calabria
nel 1060, la Puglia nel 1071, Amalfi e Salerno tra il ’73-77. La sua azione mise fine alla presenza
longobarde e bizantine in Italia. Egli tentò anche una spedizione contro la Grecia bizantina nella quale trovò
la morte nel 1085. Il fratello Ruggero avviò la conquista della Sicilia nel 1061, che si prolungò per un
trentennio, scontrandosi con la resistenza della popolazione locale. Ruggero concesse in feudo piccoli
domini ai suoi sostenitori, riservando alla sua famiglia il controllo della maggior parte dei territori occupati
(per questo fu detto il Granconte). Inoltre, Urbano II gli concesse l’autorità di legato apostolico, con il
compito di ridefinire le circoscrizioni ecclesiastiche dell’isola, profondamente islamizzata, e di nominarvi i
titolari delle sedi vescovili. A differenza della conquista dell’Inghilterra, che puntava a un regno già
organizzato, la conquista normanna del Mezzogiorno italiano dovette dare luogo alla costruzione di una
nuova monarchia. Fu Ruggero II a riunificare i diversi principati normanni, raccogliendo l’eredità dell’ultimo
duca di Puglia e Calabria nel 1127, nonostante l’opposizione capeggiata da papa Onorio II. Apertosi lo
scisma tra il successore di quest’ultimo, Innocenzo II, e Anacleto II, Ruggero si schierò con l’antipapa
(termine entrato in uso nel secolo XIV per indicare l’antagonista del papa legittimo, che ha assunto il titolo
di papa con una procedura canonicamente irregolare oppure in opposizione a un papa eletto secondo le
norme. L’antipapa era pertanto non riconosciuto dalla Chiesa cattolica), dal quale ottenne nel 1130 il titolo
di re di Sicilia, ricevendo l’unzione sacra e assumendo una dignità superiore rispetto a tutti i poteri esistenti
nel nuovo regno. Ruggero II seppe governare con saggezza, valorizzando le diversità culturali dei popoli
del regno, ne sono ancor’oggi testimonianza i molti monumenti artistici e architettonici ricchi di influssi delle
tradizioni (bizantina, araba, nordica e latina) di cui la corte normanna di Palermo fu espressione.
Il regno si fondava su una solida organizzazione feudale, introdotta proprio dai normanni e capace, come in
Inghilterra, di esercitare un deciso controllo sui baroni, e si affidava a una struttura burocratica ereditata dai
musulmani e dai bizantini. Ruggero II rafforzò gli uffici centrali e impiegò appositi ufficiali periferici per
controllare le realtà locali, riscuotere le imposte e amministrare la giustizia. Al vertice istituì una “curia”
feudale, composta da ministri e consiglieri con competenze specializzate, che gli consentì di associare al
governo i grandi del regno. Ruggero II perseguì anche una politica espansionistica in Africa e in Grecia,
che lo portò alla conquista di Gerba, Tripoli e Corfù.
Il controllo esercitato dalla monarchia sui molteplici centri di potere feudale, la difficile convivenza tra etnie
diverse e il contenimento delle autonomie cittadine, che ne accentuò le differenze rispetto ai coevi sviluppi
delle città comunali nel centro-nord, provocarono aperte rivolte da parte dei baroni e delle città dopo la
morte di Ruggero II sulle quali si innestarono i vari tentativi di riconquista da parte di Bisanzio. Le ribellioni
furono fronteggiate dal successore Guglielmo I (1154-1166) per mezzo di decise repressioni (che gli
valsero l’epiteto di Malo) e di parziali concessioni alle rivendicazioni degli insorti, che furono generalizzate
da Guglielmo II (1166-89), che confermò tutte le consuetudini delle città del regno nel 1166. Alla sua morte
senza eredi maschi, la corona passò a Costanza, figlia di Ruggero II, che avendo sposato nel 1186 l’erede
al trono imperiale Enrico degli Hohenstaufen (incoronato nel 1191) portò in dote il regno di Sicilia alla
dinastia sveva. Alla morte del conte di Lecce Tancredi d’Altavilla, che i baroni siciliani avevano eletto a re,
Enrico VI si impadronì del regno nel 1195, reprimendo duramente la rivolta dei nobili, e procedendo con
risolutezza all’annientamento del gruppo dirigente normanno che si era affermato intorno alla monarchia.
Il sovrano morì però prematuramente nel 1197.

Capitolo 15: l’espansione armata della cristianità:

la reconquista e i regni iberici: nella penisola iberica la riorganizzazione monarchica si svolse in relazione
con la reconquista, ossia la rioccupazione da parte dei cristiani dei territori conquistati dai musulmani.
La riconquista trasse una spinta ideale dalla lotta per la cristianizzazione delle regioni islamizzate, e per
questo godette dell’appoggio del papato. Essa fu il frutto dell’iniziativa di dinasti locali, e diede vita non a un
regno unitario ma a una pluralità di organismi minori che inglobarono nuovi territori. Nuclei di partenza
furono i piccoli regni del nord della penisola: il regno di Navarra, il regno di Castiglia e Léon, il regno di
Aragona che si unificò con la contea di Barcellona, la contea di Oporto, che si separò dal regno di Castiglia
e Léon, che costituì il nucleo del successivo regno di Portogallo.
Alla base della reconquista era la crisi generale del mondo musulmano. Come la Sicilia, anche il califfato
dell’al-Andalus si era frammentato in un pulviscolo di signorie territoriali. L’XI secolo vide la continua
avanzata degli eserciti cristiani verso sud, fino alla conquista di Toledo nel 1085 da parte del re di Castiglia
e Léon Alfonso VI, che vi trasferì la capitale. Per reazione al califfato fu conquistato dalla dinastia berbera
degli Almoravidi, la cui robusta organizzazione politica e militare frenò l’avanzata cristiana. Anche la
successiva dinastia degli Almohadi, che dal 1147 costruì un vasto dominio esteso dalla Libia al Marocco
all’Andalusia, bloccò l’avanzata degli eserciti cristiani nelle regioni più urbanizzate e popolate della Spagna
musulmana. La seconda fase della reconquista riprese solo verso la fine del XII secolo lungo tre direttrici
principali, corrispondenti all’espansione dei regni di Portogallo, Castiglia e Aragona. Decisiva si rivelò la
vittoria degli eserciti cristiani unificati presso Cordova nel 1212 che aprì la storia alla riconquista delle
principali città per mano di Ferdinando III di Castiglia, e le Baleari per iniziativa di Giacomo I d’Aragona.
I regni cristiani iberici dovettero affrontare al proprio interno problemi analoghi a quelli che nelle coeve
monarchie europee venivano definendo i rapporti fra un potere regio in via di affermazione e un’aristocrazia
resa sempre più potente dalle rendite militari. Nel regno di Castiglia e Léon fu Alfonso VI (1072- 1109) il
primo sovrano a puntare sulla sacralizzazione del potere monarchico per esaltarne l’autorità: egli si
proclamò “imperatore” di tutta la Spagna, ottenendo il riconoscimento del re di Aragona. Alfonso VII riuscì a
imporre alla nobiltà una serie di prestazioni collettive e a subordinare i benefici dei vassalli alla prestazione
dell’omaggio al re. Nel corso del XII secolo le città riconquistate e i centri di nuova fondazione ricevettero
dai sovrani privilegi che prevedevano consigli municipali liberi dall’influenza della nobiltà. Soprattutto nel
regno di Aragona, il luogo della mediazione politica fu rappresentato dalle assemblee che riunivano
periodicamente i rappresentati dei baroni, del clero e delle città mercantili.

L’area imperiale e l’espansione verso est: mentre in varie aree dell’Occidente la ricomposizione politica fu
promossa dall’affermazione dei regni, fra XII-XIII secolo l’area imperiale, e soprattutto il regno germanico e
l’Italia centro-settentrionale, rimasero caratterizzate da una notevole frantumazione locale dei poteri.
L’impero non riusciva a proporsi come struttura di inquadramento del territorio, a fronte della forza
persistente delle signorie territoriali, dei principati, delle città. La debolezza dell’impero derivava anche dalla
mancata affermazione del principio di ereditarietà della corona. Il titolo regio era elettivo e la nomina di ogni
imperatore era soggetta all’approvazione dell’assemblea dei principi. Dopo la morte di Enrico V nel 1125, la
lotta per la corona si polarizzò tra la casata dei duchi di Svevia e quella dei duchi di Baviera. Fu solo
l’elezione a re di Germania, nel 1152, di Federico I di Svevia, discendente per parte di madre dalla casa
bavarese, a ricomporre il dissidio che lacerava l’aristocrazia germanica.
Federico I (imperatore dal 1155 al 1190) incrementò i domini della casata degli Hohenstaufen concentrati
nelle regioni sud-occidentali della Germania, affidandoli all’efficiente amministrazione dei propri ministeriali
(termine generico che indica tutti coloro che il padrone investe di un compito, anche militare). Da essi
trasse le risorse necessarie alle dispendiose campagne militari in Italia e nel Mediterraneo. Anch’egli e i
suoi successori utilizzarono i legami feudali per consolidare il potere monarchico, ma l’impossibilità di
incamerare nel patrimonio della corona i feudi vacanti li costrinse a rafforzare la nobiltà con costanti
concessioni di terre e diritti. Inoltre, le frequenti assenze dalla Germania degli imperatori li indussero a
riconoscere sempre più frequentemente la piena sovranità territoriale all’aristocrazia. Federico II (1212-
1250) concesse ampi poteri ai vescovi e ai principi, tra cui il divieto ai loro sudditi di potersi appellare alla
giustizia dell’imperatore. Anche molte città ottennero larghi privilegi mercantili, fiscali e amministrativi.
Grande importanza nella storia tedesca ebbe anche il movimento di espansione verso l’Europa orientale,
abitata da popolazioni ancora pagane. Dalla metà del XII secolo furono innanzitutto i principi di Sassonia e
di Baviera a prendere l’iniziativa militare lungo le coste del Baltico e nelle più meridionali regioni della
Boemia, delle Alpi orientali e degli slavi occidentali. Nei territori conquistati, che dilatarono stabilmente
l’area di influenza tedesca e imperiale sulla Prussia orientale, si formarono nuove signorie a opera dei
nobili e dei cavalieri tedeschi o di dinasti locali. Al seguito degli eserciti e dei missionari fu massiccia la
migrazione di contadini attratti dall’abbondanza di terre. Furono così fondati migliaia di villaggi e numerose
nuove città, spesso rette dal diritto tedesco.

Le crociate in Terrasanta: uno degli aspetti del rinnovamento religioso dell’XI secolo fu la diffusione
crescente della pratica del pellegrinaggio nei luoghi sacri della cristianità: a Roma, sede delle tombe degli
apostoli Pietro e Paolo, a Gerusalemme, dove si trova il sepolcro di Cristo, e a Santiago di Compostela,
dove si riteneva fosse stato sepolto l’apostolo Giacomo, evangelizzatore della penisola iberica.
Il pellegrinaggio veniva affrontato da uomini di ogni condizione sociale, per devozione, adempimento a un
voto, espiazione dei peccati. Dalla metà dell’XI secolo si consolidò anche l’uso da parte dei pontefici (primo
fu Alessandro II nel 1064) di concedere l’indulgenza, cioè la remissione dei peccati, a chi partecipasse alla
reconquista armata della penisola iberica contro i musulmani. Si sancì così l’idea di difendere la fede
cristiana con le armi. Da allora cominciò ad essere ritenuto legittimo battersi contro gli infedeli per difendere
i pellegrini cristiani e per diffondere il cristianesimo, se necessario anche con la forza.
Il “pellegrinaggio armato” acquistò dimensioni imponenti nel momento in cui fu indirizzato alla liberazione
della Terrasanta, cioè dei luoghi in cui aveva vissuto Gesù, occupati da tempo dagli infedeli. In particolare,
l’accesso a Gerusalemme era reso sempre più oneroso dalla dominazione dei turchi selgiuchidi.
L’esortazione venne direttamente dal pontefice, Urbano II, in occasione di un’assemblea di feudatari e
cavalieri francesi tenuta nel 1095 a Clermont. Il papa fece appello ai cavalieri cristiani a porre fine alle lotte
fratricide e a intraprendere un pellegrinaggio di espiazione in Terrasanta. Nel 1096 si avviò una spedizione
armata che raccolse alcuni dei maggiori esponenti dell’aristocrazia francese e normanna, e che dopo aver
espugnato varie città mediorientali conquistò Gerusalemme nel 1099 dopo sanguinosi combattimenti e
massacri di popolazioni inermi.
Nei territorio conquistati furono costituiti vari regni cristiani: quello di Terrasanta, affidato a uno dei capi
della spedizione, il lorenese Goffredo di Buglione, che si elesse “difensore” del Santo Sepolcro, il principato
di Antiochia, la contea di Edessa e quella di Tripoli. L’élite di questi regni era costituita da nobili e cavalieri
che nei paesi di origine era tagliati fuori dalla primogenitura ereditaria, e che nei territori d’oltremare
trovavano invece occasioni di promozione sociale e di guadagno economico. L’organizzazione politica si
basava quasi esclusivamente sui legami feudali che legavano i cavalieri ai loro signori. Per difendere i
luoghi sacri e per proteggere i pellegrini furono istituiti degli ordini monastici militari: dapprima i cavalieri del
Santo Sepolcro e gli Ospedalieri di San Giovanni nel 1099, e poi i Templari nel 1118. I cavalieri dovevano
osservare i voti di povertà, castità e obbedienza, e difendere la cristianità con le armi.
I regni cristiani non furono in grado di resistere a lungo di fronte alla reazione musulmana. La perdita di
Edessa (1144) indusse il re di Francia a promuovere una nuova spedizione, sostenuta dal papa e dalla
predicazione del cistercense Bernardo di Chiaravalle, che la raffigurò come un atto di penitenza del re e dei
suoi cavalieri. Condotta nel 1147-8, la spedizione si risolse però in un nulla di fatto: pochi decenni dopo si
formò una nuova potenza islamica tra Egitto e Siria che riconquistò quasi tutti i territori conquistati dai
cristiani ed entrò trionfalmente a Gerusalemme nel 1187. Il sultano consentì ai pellegrini e ai mercanti
cristiani di accedervi, ma l’evento ebbe vasta eco in Occidente. Una nuova spedizione fu guidata
direttamente di persona dall’imperatore e dai re di Francia e di Inghilterra tra il 1189-92. Anche questa volta
i risultati militari furono scarsi, per le divisioni tra i sovrani. Gerusalemme rimase in mano musulmana e i
cristiani si arroccarono in alcuni centri fortificati sulle coste: soprattutto, fu sancita la fine dei regni crociati.
Pur inquadrandosi nell’idea della militia Christi, cioè della lotta contro i nemici della cristianità, le prime
spedizioni avevano costituito degli episodi a sé stanti, privi di un disegno organico. Esso venne maturando
solo a partire dal pontificato di Innocenzo III (1198-1216), durante il quale fu messa a fuoco l’idea di
crociata, che divenne oggetto anche di approfondimento dottrinale. In precedenza, infatti, le spedizioni
militari in Terrasanta erano state indicate nei termini di pellegrinaggio, mentre da allora si diffuse l’idea di
crociata per indicare le azioni militari dirette sia alla difesa dei luoghi della cristianità, sia alla repressione
dei suoi nemici interni, in primo luogo gli eretici. Innocenzo III indisse nel 1208 una crociata contro i catari
della Francia meridionale, per esempio. La crociata divenne un aspetto costante della vita dell’Occidente.
I crociati (che portavano una croce rossa sulle vesti in segno di distinzione) potevano partire da soli oppure
aggregarsi alle spedizioni minori che ogni anno muovevano per la Terrasanta o l’est europeo.
Le crociate non si nutrirono solo di ideali religiosi e di interessi politici, ma offrirono anche occasioni di
arricchimento ai mercanti che si insediarono nelle città costiere degli stati crociati per incrementare i propri
commerci. Furono soprattutto gli interessi dei mercanti italiani, intrecciati con quelli militari, a colpire a un
certo punto anche l’impero bizantino. Temendo un peggioramento delle condizioni di commercio a
Bisanzio, i veneziani offrirono ai crociati che si erano radunati a Venezia nel 1202 di trasportarli in Oriente
in cambio di una spedizione contro Costantinopoli. La città fu presa e saccheggiata nel 1204: anziché
puntare a Gerusalemme, i crociati si spartirono con i veneziani i territori dell’impero, dando vita a un nuovo
“impero latino d’Oriente” destinato a sopravvivere per circa un sessantennio. Dopo questa impresa – cui
seguono altre quattro spedizioni maggiori nel corso del XIII secolo – il movimento crociato esaurì gli ideali
religiosi e si dimostrò incapace di realizzare gli obiettivi militari. Conseguenza negativa fu anche la
crescente intolleranza da parte dei musulmani nei confronti dei pellegrini e dei mercanti occidentali.

Violenza e religione nel cristianesimo e nell’islam: l’uso della violenza in nome di Dio è una caratteristica
comune alle religioni monoteistiche: la guerra condotta in nome del Signore è infatti teorizzata sia nella
Bibbia che nel Corano. Vero è anche che entrambi i testi sacri prendono le distanze dalla violenza: il
Corano ha versetti che invitano alla tolleranza, mischiati a versetti che incitano alla violenza; il Vangelo
invita ad amare anche il proprio nemico ed è intriso di pacifismo. Tuttavia, le religioni monoteiste hanno
tratto dai testi rivelati l’idea della legittimità dell’esercizio della violenza in nome di Dio. Nel medioevo la
storia dei rapporti tra cristianità e mondo musulmano vide alternarsi per secoli relazioni pacifiche e violente.
Oltre alle guerre, il medioevo conobbe rapporti commerciali e scambi culturali tra le popolazioni di differente
religione: i mercanti delle città italiane constatarono che l’Oriente musulmano era un mondo ricco e
stratificato, con cui si potevano concludere buoni affari, mentre gli intellettuali cristiani trovarono
d’ispirazione i testi arabi. Le scorrerie dei pirati saraceni, prima e dopo il Mille, contribuirono però a far
nascere nel Mediterraneo una reputazione negativa delle popolazioni musulmane. Ulteriore ostilità fu
alimentata dai resoconti dei pellegrini cristiani, reduci in Terrasanta dopo la conquista turca di
Gerusalemme (1071). Ma furono soprattutto i predicatori a far nascere nell’immaginario comune l’idea della
società islamica come un mondo nemico, ostile e temibile. Lo stesso Maometto fu indubbiamente un
“profeta armato”; tuttavia alcuni teologi hanno sostenuto che il concetto di jihad (etimologicamente “lo
sforzo per raggiungere un obiettivo”) non va preso alla lettera, ma interpretato: esso in arabo può anche
significare “sforzarsi, applicarsi con zelo” e indica dunque uno sforzo morale e spirituale (nella lotta contro il
male) più che materiale e militare. Ai nostri giorni il concetto di jihad fa parte della retorica dei movimenti
islamici radicali, così come le chiese cristiane non parlano più di “guerre sante”.

Nobiltà e cavalleria: protagonisti della grande espansione crociata tra XI-XIII secolo furono i cavalieri.
Fino al XIII secolo la cavalleria fu una professione praticata da persone di gruppi sociali assai diversi.
Intorno al Mille i milites (guerrieri a cavallo) potevano avere origini umili: talora si trattava di servi che
servivano con le armi il proprio signore. Tra XI-XII secolo il mestiere di cavaliere venne specializzandosi e
diffondendosi anche per effetto della sempre minore fedeltà armata dei vassalli ai propri signori.
Il costo crescente delle armi contribuì a restringere la cavalleria a un’élite sociale, mentre il prestigio
dell’attività di cavaliere indusse un numero sempre più elevato di persone di alto rango a intraprendere il
mestiere delle armi. Dal XIII secolo l’addobbamento cavalleresco fu riservato quasi esclusivamente ai
discendenti dei cavalieri, che costituirono così un vero e proprio ceto ereditario. Le vicende della cavalleria
si intrecciarono con quelle della nobiltà. Furono infatti le disposizioni regie che tra XII-XIII secolo
conferirono privilegi ai cavalieri e ai loro figli, a rendere una cerchia di famiglie giuridicamente superiore agli
altri sudditi: le prime lettere di nobilitazione non erano altro che dei permessi di diventare cavaliere. La
nobiltà utilizzò progressivamente la dignità cavalleresca per differenziarsi dagli altri gruppi sociali.
In origine, infatti, i gruppi preminenti non avevano costituito una classe ereditaria, dotata di privilegi sanciti
giuridicamente. L’aristocrazia dell’alto medioevo era costituita da un’aristocrazia “di fatto”, definita
dall’esercizio del potere, dalla ricchezza e dallo stile di vita: un gruppo in continuo ricambio, cui potevano
accedere tanto i discendenti di famiglie potenti quanto coloro che avessero accumulato ricchezze e poteri.
Tra XII-XIII secolo la cavalleria e i privilegi feudali chiusero invece a nuovi ingressi una nobiltà “di diritto”:
una classe ereditaria giuridicamente privilegiata e progressivamente organizzata in una gerarchia di titoli e
dignità dispensati dalla corona. Ad accrescere il rango dei cavalieri contribuì la definizione di un nuovo
modello etico elaborato dagli uomini di chiesa per disciplinarne il comportamento violento. Dall’XI secolo
furono promosse dai vescovi le “paci di Dio”, assemblee durante cui i cavalieri giuravano di astenersi da
violenze ingiustificate e di non usare le armi in certi periodi dell’anno. Dal XII secolo l’immagine del
cavaliere difensore dei deboli fu propagata dall’epica cavalleresca e da romanzi che narravano le vicende
di cavalieri ispirati dalla fede. Cornice ideologica era l’immagine tripartita della società elaborata da alcuni
intellettuali ecclesiastici dell’XI secolo, Adalberone di Laon e Gerardo di Cambrai: un insieme organico di
tre ordini, ossia oratores, bellatores e laboratores. Un’immagine elaborata per consolidare l’ordine
costituito, che riconosceva l’affermazione dei nuovi gruppi sociali dei cavalieri e dei contadini.

Capitolo 16: la ricchezza economica

Il boom demografico: la curva della crescita demografica, che aveva invertito verso l’alto la sua direzione
tra VII-VIII secolo, raggiunse il suo culmine tra il XIII-XIV secolo. La crescita demografica era l’effetto
combinato dell’assenza di gravi epidemie e del miglioramento del sistema alimentare, frutto dell’espansione
dei coltivi e dei progressi agricoli, che consentivano una riduzione della mortalità infantile e una vita media
più lunga. L’indicatore principale della crescita demografica fu l’incremento della popolazione urbana, che
riguardò tutte le regioni europee. Le città furono attraversate da uno slancio edilizio che comportò
l’allargamento delle cinte murarie, la riduzione delle aree non ancora edificate, la costruzione in altezza
delle abitazioni, a partire dalle torri. Nonostante l’impetuoso fenomeno di inurbamento, che spingeva masse
crescenti di popolazione rurale (non solo contadini, ma anche proprietari terrieri) a risiedere nelle città, la
maggior parte della popolazione europea rimase insediata nelle campagne. La crescita della popolazione
urbana portò al calo della manodopera rurale e alla crescita del fabbisogno alimentare delle città; ciò
spinse i proprietari fondiari a mettere a coltura terre marginali e meno fertili, più esposte alle variazioni
climatiche e alle carestie. L’equilibrio tra il numero degli uomini e le risorse a disposizione si ruppe: tra la
fine del XIII e l’inizio del XIV secolo la popolazione smise di crescere e in alcune regioni iniziò anche a
diminuire, come premessa della crisi gravissima che sarebbe scoppiata alla metà del ‘300.

Ciclo economico espansivo: la tendenza economica espansiva iniziata attorno al Mille proseguì nel corso
del XIII secolo, garantendo una congiuntura favorevole alle produzioni e agli scambi. Tra le manifatture
ebbe grande sviluppo quella tessile, in particolare la produzione di stoffe di lana. All’inizio del XIV secolo in
varie città europee la produzione tessile impegnava la maggior parte della manodopera cittadina, sia
maschile sia femminile.
Il commercio a largo raggio conobbe nel corso del XIII secolo una generale ripresa, favorita dalla maggiore
sicurezza delle vie di collegamento garantita dal miglioramento della stabilità politica. Nel continente i
mercanti si concentrarono principalmente in tre aree: le fiere di Champagne, che cominciarono a perdere
d’importanza; le Fiandre, con il porto di Bruges e un reticolo di canali navigabili; l’area del Mar Baltico, in
forte sviluppo della quale Colonia era il centro di snodo verso Occidente.
Furono soprattutto i mercanti italiani a dominare il commercio internazionale, per la loro presenza sia in
Europa sia nel Mediterraneo. Chiamati genericamente “lombardi” Oltralpe, tra essi si fece predominante il
ruolo dei fiorentini nella seconda metà del ‘200.
Dal XII secolo i mercanti italiani avevano acquisito il monopolio del commercio nelle rotte del Mediterraneo,
fondando colonie permanenti nei principali empori. Nel successivo vi ebbero un ruolo di primo piano
soprattutto Venezia e Genova, che si scontrarono per la supremazia. Il saccheggio di Costantinopoli verso
cui seppero indirizzare la crociata nel 1204 fruttò ai veneziani enormi bottini, il controllo mercantile del
Bosforo, l’estromissione dei genovesi e dei pisani dal territorio bizantino, e l’apertura di empori in Siria, dai
quali alcuni mercanti raggiunsero la Cina, come fece Marco Polo nel 1275. I genovesi tornarono attivi
nell’area al seguito della restaurazione dell’impero bizantino per opera di Michele Paleologo nel 1261, che
compensò l’appoggio militare e finanziario dei genovesi con ampie concessioni per commerciare a
Costantinopoli e nel Mar Nero. Nel Tirreno, invece, i genovesi si scontrarono con i pisani per il controllo
della Corsica, della Sardegna e delle rotte siciliane. La battaglia navale della Meloria del 1284, che inflisse
durissime perdite a Pisa, segnò la supremazia di Genova nel Mediterraneo occidentale.
L’ampliamento della sfera dei traffici sollecitò una migliore organizzazione delle attività mercantili. Al
singolo mercante si vennero sostituendo forme di impresa più evolute, che associavano più individui negli
investimenti, nei rischi e nei profitti. Nell’ambito del commercio marittimo si diffuse un tipo di contratto, detto
commenda (lat. commendare, affidare), secondo cui un mercante raccoglieva i finanziamenti necessari al
viaggio da vari creditori ai quali, al ritorno, restituiva i prestiti e una percentuale dei guadagni. Il commercio
terrestre sollecitò invece la formazione di compagnie, cioè associazioni di capitali, che non si esaurivano in
un’unica operazione, ma duravano nel tempo. Le compagnie sorsero in genere tra i membri di una
medesima famiglia, e solo progressivamente si aprirono alla partecipazione finanziaria di esterni.
L’espansione degli scambi sviluppò anche l’approntamento di nuovi strumenti finanziari e monetari che
facessero fronte alla crescente domanda di denaro. Dalla metà del ‘200 alcune autorità tornarono a battere
nuovamente monete d’oro, che in Occidente mancavano dall’età carolingia: nel 1231 Federico II gli
augustali, nel 1252 Firenze il fiorino e Genova il ducato, nel 1284 Venezia lo zecchino e a fine secolo la
Francia lo scudo. La circolazione di monete di specie diversa sollecitò lo sviluppo di nuovi servizi finanziari,
offerti da cambiatori o banchieri, che assicuravano il cambio delle monete e il prestito in denaro. Furono
essi a diffondere nuovi strumenti di pagamento come le lettere di cambio, che consentivano di trasferire il
denaro da un banco all’altro senza rischiosi spostamenti materiali di monete.
Come nelle epoche precedenti l’attività economica principale, fonte delle ricchezze maggiori, restò
l’agricoltura. Nonostante la crescita delle rese agricole, la produttività dei terreni restò limitata. Fu creata,
per fronteggiare il crescente fabbisogno alimentare e attenuare l’effetto delle carestie locali, una rete di
commerci che assicurassero l’invio regolare di cereali per mare dalle grandi aree di produzione verso le
regioni più urbanizzate e consumatrici.

Ricchezze e differenziazioni sociali: l’impetuoso sviluppo demografico ed economico dell’Occidente che


ebbe culmine tra XII-XIII secolo determinò profonde trasformazioni nella società. Rispetto ai secoli
precedenti il Mille, l’Europa appariva ora molto più popolata, più ricca e caratterizzata dallo sviluppo delle
città. La società non si raccoglieva più soltanto intorno alle grandi proprietà fondiarie laiche ed
ecclesiastiche, ma era distribuita in una miriade di villaggi e centri urbani. La popolazione si spostava
incessantemente in cerca di migliori condizioni di vita. La crescita delle attività economiche creò nuove
opportunità di arricchimento, divisioni e specializzazioni nel mondo del lavoro, e una più accentuata
differenziazione sociale: accanto a un’élite di contadini agiati, molti coltivatori dovettero accettare nuovi,
meno favorevoli, contratti di affitto di terre con canoni in denaro o in natura che li costrinsero a indebitarsi in
misura crescente. Fu soprattutto nelle città che la società si differenziò maggiormente: la concentrazione di
un numero crescente di abitanti sollecitò la domanda di prodotti diversi, cui rispose la moltiplicazione di
altrettante tipologie di artigiani. L’aumento degli scambi determinò la crescita del numero di commercianti,
bottegai, mercanti e prestatori di denaro. Per una società sempre più articolata occorsero anche scrivani,
notai, maestri, giudici, medici etc. Caratteristiche dell’epoca non furono più solo le figure di ecclesiastici
come nei secoli precedenti, ma anche nuove figure di laici, come i mercanti e i notai. Ai notai fu
riconosciuta dal XII secolo, soprattutto in area italiana, la capacità giuridica di redigere atti autentici e validi
come prova legale. La figura che più di ogni altra incarnò le trasformazioni del periodo fu quella del
mercante, che presto rientrò nei gruppi dirigenti delle città europee. Essi svilupparono una vera e propria
cultura mercantile, cioè un sapere tecnico che li portò a innovare le forme societarie e gli strumenti contabili
e finanziari. Problematica fu invece la questione del prestito a interesse, condannato moralmente dalla
Chiesa come usura (prestito per cui si richiedeva un interesse a termine che oltrepassava la misura
ritenuta lecita. Nel medioevo l’usura era considerata un peccato grave perché con essa si vendeva il
tempo, che era dono di Dio, e perché il guadagno del prestatore derivava dal lavoro altrui).
Nonostante l’individuazione di mezzi leciti per percepire un interesse, molti mercanti in punto di morte
usavano donare parte dei cospicui patrimoni accumulati ai poveri o alle chiese per mondarsi l’anima dal
peccato di usura. Non a caso, la credenza nel purgatorio, in cui i peccatori pentiti avrebbero scontato una
pena emendatrice, cominciò ad affermarsi proprio tra XII-XIII secolo.

Capitolo 17: papato, impero e regni

Le autorità universali: papato e impero rinnovarono tra XII-XIII secolo i rispettivi progetti di supremazia
universalistica, elaborando modelli di autorità e dando luogo a nuovi conflitti, di cui fu a lungo teatro l’Italia.
Dopo il concordato di Worms del 1122 l’azione politica del papato divenne irreversibile; allo stesso modo,
l’elezione di Federico I nel 1155 restaurò l’autorità imperiale sulla scena europea e mediterranea, dopo
l’eclissi sofferta tra XI-XII secolo. Entrambi i poteri dovettero affrontare forze ostili: gli imperatori furono
costantemente impegnati a gestire l’autonomia rivendicata dai principi territoriali tedeschi e dalle città
italiane; i papi entrarono in conflitto con i grandi monarchi per il controllo delle immunità e delle cariche
ecclesiastiche nei regni. Per ragioni diverse, i disegni universalistici dell’impero e del papato entrarono in
crisi dalla seconda metà del XIII secolo; da allora la sovranità dei regni e di altre formazioni politiche
territoriali come le città italiane non poté più essere messa in discussione.
Alla base dell’idea di supremazia imperiale di Federico I era un rigoroso senso dell’autorità imperiale e
della sua missione universale: il potere imperiale era conferito direttamente da Dio attraverso l’unzione, e
non era mediato dall’incoronazione da parte del pontefice. La volontà divina si manifestava nell’elezione da
parte dei principi elettori. L’imperatore era vicario di Cristo e sacre le sue leggi: fu probabilmente durante il
suo dominio che cominciò ad essere utilizzata l’espressione di sacrum imperium. Da qui la determinazione
di non riconoscere la supremazia papale e il sostegno all’elezione dell’antipapa, che aprì uno scisma
ricomposto solo nel 1176 con il riconoscimento di Alessandro III. A sua volta, il nipote Federico II rilanciò il
concetto di una dominazione illimitata, alimentando l’esplicito recupero dell’ideologia classica e del diritto
romano in materia imperiale. Esaltato dalla propaganda sveva e demonizzato da quella pontificia, Federico
II ingaggiò con i pontefici un conflitto durissimo, fino alla deposizione sancita da Innocenzo III nel 1245.
Federico I si propose di pacificare la Germania e di riaffermare il potere imperiale in Italia. Se nel regno
tedesco conseguì qualche successo, la politica italiana si trasformò in aperto conflitto con le città. Nel 1158
convocò a Roncaglia (Piacenza) un’assemblea pubblica del regno d’Italia in cui riaffermò le prerogative
(regalìe) regie: esercizio della giustizia, riscossione delle imposte, diritto di arruolare esercito, controllo di
strade e fortezze. Proibì inoltre le leghe fra città e le guerre fra privati, e impose all’aristocrazia l’omaggio
feudale. Milano non si assoggettò e fu attaccata dall’esercito di Federico I, che ne distrusse le mura e vi
insediò un funzionario imperiale. La crescita della pressione fiscale spinse molte città alla formazione della
“lega lombarda”, alleanza sostenuta da papa Alessandro III, che sconfisse militarmente e costrinse
Federico I a concedere, attraverso la pace di Costanza del 1183, l’esercizio delle regalìe ai comuni, in
cambio del riconoscimento formale dell’autorità imperiale. Prima di morire nel 1190 durante la terza
crociata, Federico I assicurò al figlio Enrico VI l’eredità del regno di Sicilia combinandone il matrimonio con
Costanza d’Altavilla. Enrico VI morì però quando il figlio Federico era bambino; la madre ne affidò la tutela
al papa Innocenzo III, di cui i re di Sicilia erano vassalli, che lo incoronò nel 1208. L’elezione a re di
Germania nel 1212 aprì la strada all’incoronazione imperiale nel 1220. Fu solo nel regno di Sicilia che
riuscì a perseguire una politica di piena affermazione della propria sovranità, disciplinando le forze baronali
e le autonomie urbane e impiantando un efficiente apparato burocratico. Vano fu invece il tentativo di
imporre l’autorità imperiale sulle città del centro-nord, sostenute da papa Gregorio IX, che scomunicò
Federico II per eresia nel 1227 (ribadendola nel ’39 e nel ’45). Federico II morì nel 1250, lasciando
incompiuto il progetto di unificare il potere imperiale della Germania alla Sicilia. Dopo la morte del figlio
Corrado IV, già re di Germania, la dinastia sveva si estinse con il figlio di questi, Corradino, dapprima
usurpato dallo zio Manfredi della corona di Sicilia nel 1258 e poi sconfitto e condannato a morte dal nuovo
sovrano Carlo I d’Angiò nel 1268. Si aprì allora una grave fase d’instabilità politica che vide sia il titolo regio
tedesco sia quello imperiale vacanti fino al 1273, quando fu eletto imperatore Rodolfo I d’Asburgo. Il lungo
interregno incrinò il prestigio dell’autorità imperiale e dopo di allora nessun sovrano riuscì a svolgere un
ruolo significativo a sud delle Alpi. L’imperatore si ridusse ad essere definitivamente un sovrano tedesco.
La lunga vacanza seguita alla morte di Federico II contribuì anche a rafforzare l’idea che l’impero cristiano
dovesse essere soggetto al potere universale del pontefice. Affinando la teoria teocratica (dottrina che
riportava a Dio l’origine del potere politico), già elaborata da Gregorio VII, che attribuiva al papato il potere
assoluto su tutti i governi, fu Innocenzo III a sviluppare una coerente dottrina che ne affermava la
supremazia universale. Attraverso la metafora del sole (la Chiesa che brilla di luce propria) e della luna
(l’impero che brilla di luce riflessa), egli sancì il principio per cui il papa, vicario di Cristo, riceveva da Dio sia
il potere spirituale sia quello temporale, delegando l’autorità imperiale ai sovrani, che dovevano esercitarla
sotto la guida della Chiesa. Innocenzo IV sostenne il diritto papale di scegliere e deporre gli imperatori
(come fece con Federico II) e di amministrarne il potere in caso di vacanza. La pretesa dei papi si fondava
sulla Donazione di Costantino, un documento apocrifo attraverso cui si volle attestare la donazione di tutti i
territori occidentali dell’impero alla Chiesa di Roma nel 313 da parte di Costantino, grato a papa Silvestro I
di averlo guarito da una grave malattia. La sua autenticità fu smentita su base filologica dall’umanista
Lorenzo Valla nel 1440. Il documento fu redatto probabilmente durante il pontificato di Paolo I (757-767)
per giustificare l’ambizione dei vescovi di Roma, presentati come eredi dell’universalismo imperiale, di
assumere direttamente la guida del ducato di Roma e dei domini bizantini in Italia.
Con il pontificato di Innocenzo III (1198-1216) l’affermazione del potere pontificio al vertice della Chiesa
cattolica e come suprema guida della cristianità raggiunse il suo apice. Il papa si impegnò nelle vicende
politiche dell’epoca con un ruolo spesso determinante. Egli appoggiò l’elezione a imperatore di Ottone IV di
Brunswick nel 1208, che aveva rinunciato alla sovranità in Italia; elaborò inoltre quell’organica idea di
crociata che ispirò il rilancio della reconquista spagnola (con la vittoria a Las Navas de Tolosa nel 1212), le
spedizioni in oriente nel 1202 e ’17, e la crociata contro i catari nel 1208 che inaugurò la serie di guerre
interne alla cristianità che i papi avrebbero condotto contro i dissidenti religiosi e i nemici politici tra XIII-XIV.
Un’intensa partecipazione alle vicende politiche europee contraddistinse l’operato dei pontefici per tutto il
XIII secolo, dal durissimo conflitto che li oppose a Federico II alla promozione degli Angiò a sovrani di
Sicilia. Alla fine del secolo si succedettero due papi che incarnavano opposte concezioni della Chiesa. Nel
1294 fu eletto Celestino V, di rigorosa spiritualità ma digiuno di esperienza politica, gradito alle componenti
della Chiesa che ne invocavano un rinnovamento evangelico: resosi conto delle insormontabili difficoltà che
si opponevano ai suoi progetti, abdicò dopo pochi mesi. A succedergli fu Bonifacio VIII, che celebrò la
preminenza dell’autorità pontificia attraverso la proclamazione nel 1300 del primo anno santo (giubileo) che
promise l’indulgenza plenaria ai pellegrini che avessero visitato le tombe deli apostoli a Roma.
Il successo dell’iniziativa non gli servì per continuare a proporsi come suprema autorità politica: il re di
Francia, Filippo IV, revocò l’immunità fiscale del clero, aprendo un duro conflitto che minò ogni residua
pretesa universalistica dei successivi pontefici. Tra XII-XIII secolo, la Chiesa conobbe anche un processo di
rafforzamento interno. L’elezione del papa fu definitivamente disciplinata nel 1274 con l’istituzione del
conclave (dal latino cum clave, “chiuso a chiave”, indica il luogo dove si riuniscono i cardinali per eleggere il
papa), al fine di abbreviarne i tempi e di regolarne i modi. I cardinali rafforzarono anche il loro ruolo di
principali collaboratori del papa: facevano parte del concistoro (assemblea dei cardinali presenti a Roma,
convocata dal papa come proprio consiglio), assistendo il pontefice nel governo quotidiano della Chiesa.
I cardinali erano nominati dal papa, che in genere li sceglieva tra la propria clientela: nel XII secolo furono
soprattutto italiani, mentre nel successivo crebbe il numero dei francesi. Le decretali, cioè i pareri richiesti
ai papi sulle materie più varie, acquisirono valore di norma e furono integrate nel diritto canonico, che fu
oggetto di intenso sviluppo. Più in generale, si accentuò la tendenza a limitare la partecipazione dei laici al
governo della Chiesa, rafforzando la componente sacerdotale.

Rafforzamento dei poteri monarchici: nel corso del XIII secolo i poteri monarchici conobbero un ulteriore
rafforzamento in quasi tutti i regni europei, che apparve evidente quando nella seconda metà del secolo
cominciarono a declinare le pretese universalistiche dell’impero e del papato. Nei secoli XI-XII erano
risultati determinanti, nel processo di ricomposizione dei poteri e di affermazione dell’autorità sovrana, il
ricorso sistematico ai rapporti feudali e l’enfasi posta sui poteri sacrali e carismatici della corona. Essi non
vennero meno, ma nel XIII secolo, a contribuire decisivamente al consolidamento dei poteri regi furono altri
fattori: l’espansione del territorio controllato direttamente dai sovrani, il potenziamento degli apparati
burocratici. Il crescente esercizio regio delle funzioni militari, fiscali e giudiziarie determinò nuovi conflitti
con la nobiltà e le comunità urbane, che vedevano ridotti i propri diritti e privilegi. Si accentuò così la natura
composita dei regni, in una costante ricerca di equilibri soddisfacenti tra le prerogative regie e gli
ordinamenti particolari.
Regno di Francia: Luigi VIII (1223-26) e Luigi IX (1226-70) ampliarono verso sud il controllo regio: la pace
di Parigi del 1259 sancì la definitiva acquisizione di gran parte dei territori francesi dei Plantageneti.
Luigi IX operò sul piano internazionale favorendo la conquista del regno di Sicilia da parte del fratello Carlo
d’Angiò e promuovendo due sfortunate crociate, in cui trovò la morte; sul piano amministrativo avviò
l’unificazione delle tradizioni normative e giuridiche del regno. Filippo IV il Bello (1285-1314), limitando
l’autonomia giurisdizionale e fiscale del clero, non esitò a entrare in conflitto con papa Bonifacio VIII, a
convocare per la prima volta il parlamento (stati generali) nel 1302 per ottenere il sostegno dei sudditi, e a
rivendicare la discendenza diretta da Dio del potere regio.
Regno d’Inghilterra: le perdite in terra francese e la concessione della Magna charta avevano indebolito le
prerogative dei re inglesi. Nel suo lungo regno Enrico III (1216-1272) dovette confrontarsi ripetutamente
con le pretese dei baroni, della piccola nobiltà rurale (gentry) e delle città, che limitarono il potere regio.
Enrico III rafforzò l’apparato amministrativo, in particolare quello fiscale, che permise di finanziare
l’estensione del dominio regio a tutta l’isola intrapresa dal successore Edoardo I (1272-1302). Egli
conquistò il Galles e, sia pure per poco, la Scozia. Fu lui a espellere gli ebrei dal regno nel 1290, e a
convocare il parlamento regio nel 1295.
Regno di Sicilia: il rafforzamento del potere regio in Sicilia fu perseguito da Federico II quando poté
finalmente insediarvisi dopo l’incoronazione imperiale nel 1220. Con alcune campagne militari e distruzione
di castelli, egli rivendicò a sé i diritti regi usurpati dai baroni e ribadì l’assoggettamento delle comunità
urbane, alcune delle quali avevano tentato di rendersi autonome ponendosi sotto la protezione del papato.
Innestandosi sulle preesistenti strutture normanne sviluppò inoltre un efficiente apparato amministrativo.
Nel 1231 raccolse nel Liber augustalis la sua legislazione. Egli assicurò al clero la completa immunità
giurisdizionale e fiscale. Alla morte gli subentrò il figlio Corrado, e alla morte di questi il minore Corradino,
che fu usurpato nel 1258 da un altro figlio di Federico, Manfredi, che non fu riconosciuto come sovrano dal
papa. Le lotte di successione indussero il papa francese Urbano IV, signore feudale dei re di Sicilia, ad
affidarne la corona a Carlo d’Angiò, che sconfisse Manfredi a Benevento nel 1266, occupò il regno e ne
ripristinò l’organizzazione amministrativa.
Regni di Castiglia e di Aragona: la sconfitta dei musulmani nel 1212 consentì ai regni iberici ulteriori
conquiste territoriali. Il Portogallo consolidò il controllo delle regioni atlantiche, la Castiglia annesse le città
di Cordova e Siviglia, l’Aragona conquistò Valencia e le Baleari. Il regno di Castiglia gravitava sulle vaste
pianure interne, dove le grandi proprietà consolidarono il potere di una nobiltà che entrò spesso in conflitto
con la politica regia di accentramento. Il regno di Aragona, unione di diversi regni e domini, si basava sul
patto tra il sovrano e le diverse componenti del regno a rispettare le leggi consuetudinarie. Grazie ai
mercanti catalani l’economia era soprattutto commerciale e proiettata sui traffici nel Mediterraneo, e
sostenne l’espansione politica e militare dei re aragonesi, che s’insediarono in Sicilia (1282-1302) e
avviarono la conquista della Sardegna nel 1323. In entrambi i regni le istituzioni rappresentative furono
luoghi di mediazione politica tra le disposizioni regie e gli interessi della nobiltà, del clero e delle città.
Stato pontificio: agendo come un monarca, anche il papa rafforzò i poteri temporali sul proprio territorio tra
XII-XIII secolo. Nucleo iniziale era stato il cosiddetto “Patrimonio di San Pietro”, cioè l’area tra Umbria e
Lazio dove si concentravano i maggiori possessi fondiari pontifici, poi integrato dalle donazioni fatte dai
sovrani longobardi e carolingi dell’VIII secolo. Fu Innocenzo III a espandere il territorio, facendosi giurare
fedeltà da nobili e città del Lazio, dell’Umbria e delle Marche, e articolando i tratti essenziali dello stato
pontificio intorno a quattro province: Lazio meridionale, Tuscia, ducato di Spoleto e marca di Ancona.
Nel 1278 fu aggiunta anche la Romagna. Larghe autonomie furono concesse in materia fiscale e giudiziaria
ai signori del territorio e ai rappresentanti delle città, che partecipavano a parlamenti locali presieduti da
rettori pontifici.

L’Europa orientale: nell’Europa orientale e slava si erano formati tra XI-XII secolo alcuni regni di grande
estensione territoriale quanto di debole coesione politica. In aree poco popolate, senza precisi confini
naturali, prive di grandi centri urbani e di un’economia mercantile, le monarchie non riuscirono a dare vita a
forti strutture di governo e a contrastare la crescente potenza della nobiltà rurale. Fu la cristianizzazione a
offrire un senso di identità a regioni su cui l’impero tedesco riuscì facilmente ad estendere la propria
superiorità feudale.
Origini della Russia: Intorno al IX secolo gli slavi orientali erano penetrati nelle grandi pianure tra Danubio e
Don stabilizzandosi nell’attuale Ucraina e nelle regioni vicine. Contemporaneamente dalla Scandinavia si
erano insediati anche gruppi di commercianti e guerrieri, che le popolazioni slave chiamavano “rus”. Fu un
loro capo, Oleg, che nell’882 unificò il principato settentrionale di Novgorod con quello meridionale di Kiev,
dando vita al principato di Kiev (o Rus). Il regno, a maggioranza slava, adottò la lingua slava e sotto
Vladimir I (980-1015), che sposò la sorella dell’imperatore di Bisanzio Basilio II e si convertì al
cristianesimo, si aprì all’influenza della civiltà bizantina e della liturgia ortodossa. Con Iaroslav il Saggio
(1016-1054), che raccolse per iscritto le consuetudini in un “codice russo”, il principato raggiunse l’apice
della sua potenza e si estese fino a controllare le grandi vie del commercio tra il Baltico, l’Europa e
l’Oriente. Dopo un estremo tentativo a opera di Vladimir II (1113-15) di ridare unità al dominio, anch’esso
andò incontro a un processo di divisione in vari principati, che ne resero inarrestabile il declino.
Impero dei mongoli: dall’inizio del XIII secolo venne formandosi nelle steppe asiatiche una vastissima
dominazione per opera di tribù nomadi originarie della Mongolia. Guidati da Gengis Khan (“signore
universale”), i mongoli conquistarono rapidamente la Cina settentrionale, l’Asia centrale e la Russia
orientale, grazie a mobilissime truppe di arcieri a cavallo. I successori operarono incursioni verso i paesi
musulmani fino all’Egitto, convertendosi all’islam. In Europa, dove furono chiamati tartari, compirono razzie
spingendosi nel 1240 fino alla Polonia e all’Ungheria, minacciando Vienna e affacciandosi sull’Adriatico.
Dalla metà del ‘200 i mongoli cominciarono però a ripiegare per le rivalità sempre più accese tra i loro capi.
L’enorme impero, che si estendeva dalla Corea alla Persia si confini della Polonia, si divise. Dopo la
distruzione di Kiev nel 1240, per quasi due secoli i principati slavi furono resi tributari dell’impero mongolo,
con capitale sul basso Volga, accentuando il distacco dell’area russa dal resto dell’Europa.

Capitolo 18: il rinnovamento della cultura

Protagonisti laici: la crescita economica che si manifestò dall’XI secolo ebbe conseguenze anche sul piano
culturale. Il numero di persone in grado di leggere e scrivere si allargò considerevolmente, coinvolgendo i
laici. L’aumento dell’alfabetizzazione fu l’esito, innanzitutto, della crescita dei commerci, che richiese la
redazione per iscritto degli accordi e delle transazioni. Si fece così più intensa la produzione e la
conservazione di documenti scritti redatti dai notai e dagli stessi mercanti. Inadeguato rispetto alle nuove
esigenze si rivelò il sistema scolastico centrato sulle scuole monastiche e vescovili. Nelle città sorsero così
le scuole di base – dapprima privati, poi dal XIII secolo organizzate dalle autorità pubbliche – che
insegnavano a leggere, scrivere e far di conto, sulla base dei libri d’abaco, e le scuole di apprendistato
organizzate dalle corporazioni dei mestieri. È dunque possibile parlare di laicizzazione della cultura, nel
senso di una diffusione del sapere al di fuori degli ambienti ecclesiastici, svincolata dall’esclusivo
monopolio dei chierici, ma non per questo dal messaggio e dal pensiero cristiano.
Tra XI-XII secolo si affermò un nuovo fenomeno: la messa per iscritto dei testi in volgare. In precedenza lo
scritto era stato riservato al latino, ma da allora acquisirono dignità letteraria anche le lingue parlate
comunemente. Nella definizione dei modelli culturali ebbero un ruolo di rilievo i gruppi nobiliari, con la
diffusione della letteratura epica che narrava le gesta dei guerrieri e della poesia d’amore. La prima si
sviluppò nel nord della Francia, presso un pubblico che stava elaborando l’etica del cavaliere cristiano: la
Chanson de Roland ne è il testo più rilevante. La seconda affascinò il pubblico delle corti e fu diffusa dai
trobadori (termine che deriva dal latino tropare, cioè esprimersi a parole o in musica per mezzo di tropi, e in
senso lato “inventare”. Il termine indicò dalla fine dell’XI secolo nella Francia meridionale i compositori di
poesie in lingua d’oc destinate ad essere cantate e accompagnate con la musica. Gli autori erano quasi
sempre personaggi di rango elevato, nulla a che vedere con i menestrelli e i giullari che erano invece dei
meri esecutori e divulgatori di testi altrui). La fioritura di componimenti letterari raggiunse anche la penisola
iberica (con il Cantar del mio Cid), la Germania e l’Italia, con i rimatori siciliani della corte di Federico II.
Nelle regioni meno romanizzate la comparsa dei testi volgari era stata più precoce: tra VIII-X secolo erano
stati composti il poema eroico del Beowulf, all’origine della letteratura anglosassone, e la vasta produzione
di saghe nell’Irlanda celtica.

Trasformazione del libro nel XII secolo: nella seconda metà del XII secolo si produsse una profonda
trasformazione nel modo di concepire il libro. Nella scrittura dei testi comparvero una serie di strumenti e
abitudini nuove: il testo venne scritto con caratteri più piccoli e fu diviso in paragrafi e capitoli, dotati di titoli
e di sommari, per permettere di ritrovare rapidamente un argomento, e soprattutto cominciarono a essere
usati gli indici alfabetici per organizzare i materiali contenuti nei volumi. Gli intellettuali cominciarono a
usare i libri non come strumenti per la meditazione privata sulla storia della salvezza, ma come materiali da
ricombinare per creare un testo nuovo. La pagina diventò lo schermo su cui la mente poteva proiettare il
proprio ragionamento, articolato in punti e sottopunti. Queste novità culturali si accompagnarono ad altri
cambiamenti, di carattere materiale: in particolare fu necessario disporre di un nuovo supporto materiale, la
carta, più economico della pergamena; inoltre si dovette inventare un sistema per tagliare e rilegare
insieme i fogli, in modo che potessero essere facilmente consultati e trasportati. Il risultato complessivo di
questi processi fu, già molto tempo prima dell’invenzione della stampa, la creazione della pagina come la
intendiamo oggi, ossia come esteriorizzazione e concretizzazione di un pensiero.

Università e nuovi campi del sapere: il secolo XII rappresentò un periodo denso di novità anche dal punto
di vista culturale. In una più generale ripresa della cultura laica, si aggiunsero innovazioni nei metodi, nei
contenuti e nell’organizzazione scolastica del sapere. Cruciale fu l’evoluzione dell’atteggiamento nei
confronti degli autori della tradizione latina, alla cui autorità si cominciò a guardare reputando lecito di non
fermarsi ad essa, ma di cercare nuove verità. Le curiosità intellettuali fecero leva innanzitutto sul recupero
dei testi di autori greci come Platone e Aristotele, sino ad allora poco conosciuti in Occidente.
L’afflusso di nuove conoscenze e la crescente richiesta di istruzione di carattere avanzato portarono alla
formazione di nuovi luoghi di formazione del sapere: gli “studi” (studia), come allora si indicarono le
università, che ebbero sedi urbane e origini diverse (università: di derivazione latina, designava una
comunità in senso giuridico, ad es. le comunità urbane e rurali o le corporazioni. Pertanto furono così
denominate anche le associazioni di maestri e studenti che diedero vita all’insegnamento superiore).
Il primo studium sorse a Bologna alla fine dell’XI secolo per iniziativa di associazioni di studenti interessati
a ricevere lezioni di diritto da maestri laici qualificati, mentre a Parigi, alla fine del XII secolo, per la volontà
dei chierici professori di teologia della scuola episcopale di sottrarsi al controllo del vescovo. A Oxford gli
studi furono importati in seguito al trasferimento nel 1167 di studenti e maestri da Parigi; allo stesso modo
l’università sorse a Padova nel 1222 per una diaspora di studenti e docenti da quella di Bologna. A Napoli,
nel 1224, fu Federico II a fondare l’università per formare i funzionari da impiegare nel regno, mentre a
Tolosa fu il papa ad avviarla per contrastare l’influenza catara nella regione. Le università intrattennero
rapporti non sempre facili con le autorità cittadine locali, e cercarono invece riconoscimenti e privilegi dai
sovrani e dai pontefici. L’organizzazione degli studi variava in ogni università. In linea di massima il primo
ciclo era fornito dalla facoltà delle arti liberali, che durava circa sei anni e alla quale si accedeva intorno ai
13 anni (le diverse branche del sapere erano indicate come “arti liberali” perché non finalizzate al
guadagno, a differenza delle “arti meccaniche”, cioè manuali e pratiche. Dal IX secolo, quando divennero la
base dell’insegnamento scolastico, furono distinte in Trivio, le scienze del linguaggio – grammatica,
retorica, dialettica – e Quadrivio, le arti della natura – aritmetica, geometria, astronomia e musica. Nelle
università erano il corso preparatorio per affrontare le facoltà più impegnative: teologia, medicina e diritto).
Il conseguente titolo di “baccelliere” dava accesso alle facoltà maggiori, dopo le quali era rilasciato il titolo
di “dottore”, che permetteva di insegnare ovunque. L’insegnamento era impartito in latino e consisteva nella
lettura e nel commento di un testo fondamentale da parte del maestro, che evidenziava i problemi
interpretativi e ne discuteva con gli studenti (metodo scolastico). Furono presto raccolti compendi per
ordinare le conoscenze, e commenti dei docenti in forma di note a margine (glosse), che diedero vita a un
sistema efficiente di produzione di copie di manoscritti.
Il secolo XII fu caratterizzato da una marcata ripresa degli studi giuridici che fornì un riordinamento teorico
e funzionale dei diritti nell’Occidente europeo. Il diritto della Chiesa, che aveva accumulato nel tempo
canoni conciliari e decretali papali talora discordanti, fu raccolto e razionalizzato intorno al 1140 dal
monaco Graziano nel cosiddetto Decretum Gratiani, che rimase a lungo il testo fondamentale degli studi di
diritti canonico. Nell’università di Bologna si tornò a studiare nella sua integrità il Corpus iuris civilis,
proponendolo come diritto comune di tutta la cristianità, in qualità di cornice entro cui disciplinare i diritti
particolari: la rivendicazione dei poteri regi da parte di Federico Barbarossa a Roncaglia nel 1158 fu
formulata con il sostegno teorico dei giuristi dell’università di Bologna. Anche il diritto feudale fu oggetto di
riflessione teorica e di più compiuta definizione, e nella seconda metà del secolo molte città italiane
cominciarono a mettere per iscritto in statuti i propri diritti locali.
Gli intellettuali laici delle città italiane furono innanzitutto i giudici e i notai, che si impegnarono nella stesura
di trattati morali destinati all’educazione dei cittadini, come il Tresor di Brunetto Latini, cancelliere del
comune di Firenze nel secondo ‘200. Soprattutto, ai notai si dovette la produzione e la conservazione
documentaria dei diritti e delle attività amministrative dei comuni, una rivoluzione centrata sull’uso pratico
della scrittura e sulla redazione di registri.

Capitolo 19: le autonomie politiche

Città e comuni: lo sviluppo demografico, economico e sociale che le città europee conobbero tra XI-XIII
secolo si tradusse in forme di governo orientate all’autonomia. Tale assetto istituzionale fu in genere
indicato come “comune”, per la “messa in comune” di diritti e privilegi da parte delle collettività urbane.
Il fenomeno interessò molte aree, con sfasature cronologiche e gradi diversi di autonomia. Le più precoci
furono le città italiane del centro-nord, dalla fine dell’XI secolo; nelle città della Provenza e delle Fiandre le
prime magistrature comparvero nel XII secolo, e in quelle della Francia del nord e della Germania tra XII-
XIII secolo. Frequente fu il conflitto locale con i vescovi. Tranne che nel regno italico, le autonomie si
svilupparono nella forma di concessioni di diplomi da parte dei re e dei principi territoriali, che
riconoscevano prerogative e diritti parziali, imponevano la presenza dei propri ufficiali, dando pertanto
luogo a forme di governo misto. La dimensione del fenomeno dell’autogoverno cittadino fu europea, ma le
aree italiane appartenenti al regno italico e allo stato pontificio furono l’avanguardia del fenomeno. Si può
anzi affermare che solo in quella regione si sviluppò una vera e propria civiltà comunale, che assunse
caratteristiche omogenee in tutte le città. Tra le più importanti: dal punto di vista politico, l’alto grado di
effettiva autonomia; dal punto di vista istituzionale, l’intensa circolazione di esperienze da un centro
all’altro, che contribuì a uniformare il fenomeno; sotto il profilo sociale, la forte articolazione e
differenziazione, che offrì possibilità di ascesa e promozione; dal punto di vista territoriale, lo stretto legame
con le aree extraurbane coincidenti tendenzialmente con le diocesi, oggetto della costruzione di contadi;
dal punto di vista culturale, infine, l’esperienza italiana espresse un nesso organico tra la politica e le
elaborazioni intellettuali, che si impegnarono a legittimarne i regimi di autonomia.
Le città dell’Italia meridionale non conobbero invece una vera esperienza comunale: lo sviluppo delle
autonomie urbane fu frenato dall’affermazione della monarchia normanna. Nelle città i magistrati furono in
parte nominati dal re e in parte eletti localmente, ma le cittadinanze non espressero mai un pieno
autogoverno. Esse esercitarono limitate prerogative amministrative con l’avallo della monarchia, pur
conservando le proprie consuetudini; la loro condizione fu quella di universitates, vale a dire di comunità
giuridiche e politiche integrate alla struttura del regno. In Sardegna, infine, non ci fu alcun processo
spontaneo verso il comune, che vi fu importato solo dai pisani e dai genovesi.
Lo sviluppo di ampie autonomie politiche da parte delle città italiane fu la conseguenza di due condizioni
principali: da un lato, della loro forza economica, sociale e culturale; dall’altro, della debolezza, rispetto ad
altre aree europee, dei sistemi politici entro cui esse erano inserite, in primo luogo dell’impero e dei grandi
signori territoriali. Nella maggior parte delle città europee gli abitanti avevano un’origine sociale omogenea,
di impronta mercantile e “borghese”, che non investiva in proprietà fondiarie e che non aveva legami feudali
con i signori rurali. Nelle città italiane, invece, la società si articolava intorno a tre componenti:
un’aristocrazia militare urbana (milites), talora legata vassallaticamente al vescovo e detentrice di diritti
signorili e beni fondiari nel territorio; un’élite commerciale (negotiatores), fornita di ingenti ricchezze mobili e
fondiarie; e un ceto di uomini di cultura (iudices), giudici e notai, in grado di elaborare il sapere e di gestire
le tecniche di governo della città. Ciascuno di questi gruppi fornì un contributo determinante allo sviluppo
comunale: rispettivamente, la potenza militare, la disponibilità economica e la competenza giuridica.
Nella maggior parte delle città italiane le prime esperienze di autogoverno maturarono in rapporto l’autorità
vescovile. In alcune ciò avvenne in continuità con il potere del vescovo; in altre fu invece determinante
l’indebolimento delle figure episcopali per l’azione riformatrice del papato, che tendeva a sottrarre le
nomina dei vescovi al controllo dei gruppi eminenti della società cittadina. La lotta per le investiture di cui i
vescovi furono oggetto nel più generale conflitto tra papato e impero, diede luogo a conflitti violenti tra i
sostenitori delle due parti in molte città negli ultimi decenni dell’XI secolo. Le iniziative di pacificazione
lasciarono spazio a un nuovo ordine politico, quello del comune, che consistette inizialmente in assemblee
di cittadini eminente che eleggevano come loro rappresentati temporanei dei consoli per il governo politico,
militare e giudiziario della città.
Il nuovo sistema politico sviluppò nel tempo una pratica fondata sulla partecipazione dei cittadini, sul
principio elettivo, sull’alternanza dei governanti e sulla discussione pubblica. L’ampiezza delle
rivendicazioni di autonomia da parte delle città si manifestò nello scontro con l’impero che iniziò alla metà
del XII secolo, quando nelle città si erano formate le prime istituzioni comunali, benché non ancora
riconosciute. Le città non disconobbero la sovranità imperiale, ma rivendicarono il diritto all’autogoverno, a
una libera politica di alleanze, all’estensione della loro autorità sui contadi, rifiutando l’invio di funzionari
imperiali e l’imposizione arbitraria di tributi. Il conflitto con Federico Barbarossa portò alla formazione della
lega lombarda, nata a Pontida nel 1167, che si rivelò capace di sconfiggere l’esercito imperiale a Legnano
nel 1176, e di costringere Federico I a trattare. La pace di Costanza del 1183 garantì alle città il diritto di
esercitare i poteri regi, di eleggere i propri consoli, di costituire leghe.
Lo sviluppo politico maturò pienamente nella prima metà del XIII secolo, dando luogo a un primo
ampliamento del gruppo dirigente, alla stabilizzazione delle istituzioni e a un decisivo riordinamento
amministrativo e giuridico. Simbolo di questa nuova fase fu la magistratura del podestà, affiancata da un
consiglio ristretto di cittadini. Il podestà era reclutato ogni anno tra un novero di professionisti della politica
che si muovevano tra le città contribuendo a rendere omogenee le pratiche di governo: presiedere i consigli
cittadini, guidare l’esercito, mantenere l’ordine ed amministrare la giustizia. Il nuovo regime, affermatosi
nelle città italiane del centro-nord tra il 1180 e il 1220, consentì di allargare a famiglie cresciute in ricchezza
la partecipazione ai consigli e agli uffici del comune, superando il sistema consolare che era stato
egemonizzato da una ristretta cerchia di famiglie potenti, provocando conflitti crescenti. Il podestà cominciò
anche a far redigere per iscritto ai propri giudici e notai i diritti della città, le sue leggi e consuetudini – gli
statuti – e a registrare le quotidiane attività amministrative in archivi.
La crescita demografica e lo sviluppo economico promossero la continua ascesa di gruppi sociali e familiari
di “popolo” – mercanti, banchieri, notai, artigiani – fino ad allora esclusi dalla partecipazione politica.
Furono dapprima i fanti a lottare, spesso con azioni violente, contro i privilegi dei cavalieri dell’esercito
cittadino per una più equa ripartizione delle imposte e per l’accesso ai consigli del comune. Alla metà del
secolo in alcune città il “popolo” riuscì a mobilitare le sue società armate a base rionale, talora d’intesa con
le corporazioni di mestiere, per imporre nello spazio politico le proprie istituzioni che affiancarono quelle del
comune. L’affermazione dei governi di “popolo” non fu però duratura.
La proiezione territoriale delle città italiane si tradusse nel controllo diretto del contado, cioè di un’area
corrispondente alla diocesi contadina, ereda a sua volta del territorio su cui i centri urbani esercitavano già
in età romana una funzione di coordinamento. La conquista del contado, avviata nel XII secolo e
consolidata nel successivo, ricorse alle armi e agli accordi, utilizzando anche i vincoli feudali per legare alla
città i signori rurali. L’assoggettamento politico e fiscale delle comunità rurali garantiva approvvigionamenti
alimentari; inoltre, le liberazioni forzose dei contadini dalle dipendenze signorili, messe in atto in alcune
città, ebbero per fine quello di sottrarre uomini ai signori rurali, di aumentare il numero dei contribuenti alla
fiscalità cittadina e di liberare manodopera per le manifatture urbane.
Non tutti i comuni furono città. A dare vita a forme di autogoverno furono infatti anche le comunità rurali.
Il fenomeno era parte della più generale evoluzione della società rurale europea tra XII-XIII secolo verso
una più marcata emancipazione contadina dalle dominazioni signorili. In una prima fase, i signori
precisarono i limiti del proprio potere mediante concessioni di privilegi ai propri rustici, riconoscendo loro il
diritto di trasferirsi altrove e riducendone la fiscalità. Nel corso del ‘200, in alcune aree di espansione come
la Spagna e l’est europeo, alcune comunità diedero luogo a organismi dotati di ampie libertà (in una società
divisa tra uomini liberi e di diversa condizione la libertà indicava uno stato di privilegio. La libertà delle città
significò autonomia ma non indipendenza, perché esse continuarono a riconoscere la formale superiorità di
altri poteri, imperiali, regi o principeschi). In Italia diverse comunità rurali si organizzarono con istituzioni di
tipo consolare analoghe a quelle urbane per difendere i propri interessi e rivendicare nuove autonomie.
A promuovere i comuni rurali furono le élites emerse dalla differenziazione della società rurale.

Cittadinanza e partecipazione politica: nelle città italiane che si diedero regimi di autonomia comunale, la
condizione di cittadinanza costituiva il prerequisito per la partecipazione politica; non tutti gli abitanti di una
città godevano dei diritti politici e dei connessi privilegi. Solo coloro che pagavano le tasse, che
assolvevano a obblighi di carattere militare relativi all’ordine pubblico e che risiedevano in città da
generazioni potevano accedere allo stato di cittadinanza. Ad esserne esclusi erano i lavoratori salariati non
iscritti alle arti, i servi, i non abbienti etc. Se si considera anche l’esclusione di donne e bambini, si può
ritenere che i cives ammontassero a non più de 20% della popolazione di una città. La partecipazione
politica, nei regimi comunali, riguardò una minoranza degli abitanti: a prevalere era allora il concetto di
preminenza sociale, non quello di uguaglianza.

Italia comunale e signorile: alla morte di Federico II nel 1250 lo spazio politico delle città, che prima dell’età
federiciana era occupato principalmente dalle istituzioni del comune podestarile, fu condiviso tra più
soggetti: non solo dal “popolo”, ma anche dalle corporazioni di mestiere, dalle parti e dai poteri personali e
signorili. Ciascuna di queste forze si affermò con proprie istituzioni e statuti, agendo in uno spazio
condiviso e rielaborando i valori del discorso pubblico cittadino. Nel tempo il sistema tese a farsi sempre
più complesso e i conflitti a vertere sempre più duramente sull’accesso al governo e ai consigli cittadini,
vale a dire sul controllo delle risorse finanziarie e dei beni del comune. L’effetto più evidente fu la
moltiplicazione dei processi di esclusione dagli uffici politici e, sempre più spesso, dalle città stesse.
Il fenomeno delle esclusioni politiche si generalizzò nella seconda metà del ‘200. Protagoniste principali
furono le parti che si erano formate nelle città tra i fautori della pars imperii e quelli della pars ecclesiae, nel
contesto del conflitto che aveva contrapposto i sovrani svevi ai pontefici tra XII-XIII secolo. Alle partes
aderivano non solo le famiglie di milites e di grandi banchieri e mercanti, ma anche le rispettive clientele di
amici e parenti. Gli schieramenti cercarono di egemonizzare lo spazio politico cittadino, raccordandosi a reti
di alleanze intercittadine che, nella seconda metà del ‘200, assunsero i nomi di guelfa e ghibellina (termini
entrati in uso nel linguaggio politico italiano nel XIII secolo per indicare i fautori della Chiesa pontificia e
quelli dell’impero. L’origine dei nomi risale a vicende dinastiche tedesche che contrapposero la stirpe sveva
a quella dei duchi di Baviera). L’affermazione violenta in una parte si traduceva nell’esclusione dalla città
dei nemici di quella avversa, spogliati dei beni e privati della cittadinanza: matrice delle lotte di fazione
cittadine era infatti la cultura della vendetta. I fuoriusciti, banditi o esiliati, si rifugiavano nei castelli del
contado o nelle città amiche, congiurando per rientrare militarmente nella città d’origine. A loro volta, i
conflitti che avevano opposto il “popolo” all’aristocrazia urbana subirono un’ulteriore accelerazione.
La flessibilità istituzionale che aveva consentito al “popolo” di affiancare con proprie rappresentanze quelle
del comune podestarile venne meno di fronte all’incapacità di coniugare la disciplina della società con il
mantenimento di un carattere aperto alla partecipazione politica. In alcune città i governi di “popolo” che si
battevano per l’allargamento della base sociale della cittadinanza non esitarono infatti a escludere dagli
uffici politici numerose famiglie dell’aristocrazia militare che vi erano da tempo presenti. I membri di queste
famiglie furono colpiti da una legislazione speciale che li indicò come magnati – vale a dire potenti, in base
all’accusa di praticare uno stile di vita violento – e che combinò l’esclusione dagli uffici politici con la
comminazione di pene più gravi rispetto all’ordinario. La “magnatizzazione” della nobiltà fu accompagnata
da una propaganda di “popolo”che si richiamava, non senza contraddizione, ai valori di pace e giustizia.
Nella seconda metà del XIII secolo emerse con evidenza l’inadeguatezza delle istituzioni comunali a
configurare sul piano politico la complessità dell’evoluzione delle città: l’impetuosa crescita demografica,
l’ascesa di gruppi sociali nuovi, i primi segnali di inversione del ciclo economico dopo l’espansione
plurisecolare. Fu in questo periodo che si compì quasi ovunque il superamento dei governi comunali in una
varietà di soluzioni spesso ibride, che esprimevano l’incessante ricerca di un assetto che conferisse
maggiore coerenza allo spazio politico e lo traducesse in un quadro istituzionale più stabile. Alla base fu un
processo di selezione dei gruppi dirigenti intorno a nuclei tendenzialmente egemonici, quasi ovunque
costituiti da cerchie ristrette di famiglie di tradizione nobiliare o di recente fortuna mercantile. Esito generale
fu il venir meno della partecipazione allargata a gruppi sociali diversi che aveva caratterizzato per qualche
tempo la vita politica di alcune città sotto la guida dei governi di “popolo”. La nuova stabilità si tradusse in
una restrizione dello spazio politico cittadino.
La varietà di configurazioni che potevano assumere i sistemi politici cittadini è ben esemplificata dal caso di
Firenze, dove tra XIII-XIV secolo si alternarono governi di “popolo”, esclusioni magnatizie, bandi ed esili di
parte, esperienze signorili e chiusure in senso oligarchico, a dimostrazione di come le diverse forme
istituzionali costituissero delle risorse alternative del gioco politico, cui ricorrere a seconda dell’opportunità.
Tra il 1267 e il 1343 la città di Firenze si diede in signoria ai sovrani angioini, grandi alleati della città, che vi
inviarono i propri vicari e ufficiali. Un governo popolare delle arti fu istituito nel 1282, e una severa
legislazione antimagnatizia fu emanata nel 1293 sotto il nome di “Ordinamenti di giustizia”. Le lotte di
fazione, originate attorno alla faida tra le famiglie dei Cerchi e dei Donati, portarono nel 1302 al bando dalla
città (che colpì anche Dante) di centinaia di individui appartenenti alla parte filoghibellina. L’esito fu la
selezione di un gruppo dirigente guelfo e angioino, a guida mercantile, che nel 1332 consolidò a proprio
favore i meccanismi elettorali di accesso ai consigli e agli uffici di governo.
L’affermazione di forme di potere personale e signorile fu contemporanea a quella dei governi di “popolo”
nei decenni centrali del ‘200. In numerose città i consigli municipali cominciarono a conferire a un singolo
cittadino eminente – spesso titolare di cariche come quelle di podestà o di capitano del “popolo – un potere
incondizionato, svincolato dagli statuti della città, per un tempo definito o a vita. Al signore così eletto erano
assegnati compiti particolari per la difesa militare, la sicurezza e la pacificazione interna delle fazioni
avverse. Le esperienze signorili rappresentarono una sperimentazione avanzata di gestione della
crescente complessità degli spazi politici cittadini. A lungo, fino agli inizi del XIV secolo, i cittadini
considerarono le forme di governo a comune, a “popolo” e a signore, come risorse possibili cui ricorrere in
funzione delle necessità e delle circostanze: soprattutto, la plasticità del sistema politico cittadino le
configurava come esperienze politiche reversibili.
L’affermazione di poteri signorili fu più precoce nelle città padane rispetto a quelle dell’Italia centrale. Ciò fu
dovuto alla capacità di alcuni grandi signori, dotati di beni fondiari e di investiture imperiali, di costituire
dominazioni su città e territori rurali sfruttando i conflitti tra le fazioni e le rivalità tra le diverse città.
Queste costruzioni signorili si estinsero con i loro protagonisti, per la fragilità di domini ramificati sul
territorio ma non radicati in alcuna città.
Più stabili e durature si rivelarono le signorie sviluppate all’interno di singoli centri abitati per iniziativa di
famiglie influenti. Peraltro, il loro profilo sociale poteva essere assai differente.
Tendenza comune a molte esperienze signorili fu la capacità dei discendenti di farsi attribuire cariche a vita
in qualità di “signori generali e permanenti”, come Azzone VII d’Este a Ferrara (1264). Alcuni ottennero
anche la facoltà di designare un successore, che doveva comunque essere riconosciuto formalmente dagli
organi del comune. L’introduzione del principio ereditario consentì di fondare vere e proprie dinastie
signorili, come furono quelle dei Visconti a Milano, dei Malatesta a Rimini e dei Gonzaga a Mantova.
Ciò contribuì a rafforzare il potere dei signori, che trasformarono nel corso del XIV secolo il sistema di
governo con la creazione di organi ristretti, di cancellerie e di archivi a loro direttamente dipendenti,
svuotando le istituzioni consiliari e abolendo molti uffici comunali. Intorno alle dinastie signorili si formarono
delle corti, con ruoli, cerimoniali e stili di vita cavallereschi.
Pur diversi nella forma, i governi signorili non cancellarono i tratti più tipici del sistema politico comunale, di
cui costituirono l’evoluzione e il superamento. L’eredità cittadina fu infatti una delle caratteristiche dei poteri
signorili: la partecipazione politica vi perse vigore propositivo e assunse un tenore prevalentemente
consultivo, ma molte istituzioni di origine comunale rimasero in vita. Il sistema delle corporazioni
sopravvisse in quasi tutte le città, e ben saldi si mantennero gli organismi mercantili. Lo stesso quadro
normativo statutario venne modificato ma non cassato, e ampio sviluppo ebbero gli apparati amministrativi
con la connessa produzione e conservazione documentaria.
Verso la metà del XIV secolo si erano ormai stabilmente affermati governi signorili in quasi tutte le città
comunali. Solo in pochissime erano sopravvissute esperienze a comune, a costo di marcate ristrutturazioni
in senso oligarchico. A Siena, per esempio, si era consolidato un nucleo di circa 60 famiglie aristocratiche e
popolane di omogeneo orientamento mercantile e finanziario, incentrato tra il 1287 e il 1355 intorno al
governo dei Nove. A Venezia, dove la città era retta da un doge, le grandi famiglie di mercanti reagirono al
diffondersi di lotte di fazione e di congiure aristocratiche allargando nel 1297 il Maggior consiglio a “uomini
nuovi”, per procedere poi dal 1323 ad ammissioni selettive: si formò così un’élite ereditaria, coerente per
interessi economici, che escluse le casate nobiliari e le famiglie popolane. Più instabili furono gli equilibri a
Genova, dove un’informale oligarchia mercantil-finanziaria nel 1339 elesse doge a vita, sul modello
veneziano, il ricco mercante Simone Boccanegra, affiancato da un collegio di anziani scelti fra i popolari,
mentre i nobili furono esclusi dagli uffici più importanti.

Depressione demografica e ristrutturazioni economiche

La crisi demografica: la popolazione europea subì un drammatico calo nel corso del XIV secolo. La crescita
della popolazione che durava ininterrottamente da alcuni secoli si fermò. La spiegazione più plausibile
appare quella della cosiddetta “sovrappopolazione relativa”, ossia dello squilibrio che si creò tra la
disponibilità di risorse alimentari e l’eccessivo numero di uomini. A causa della strutturale carenza di
fertilizzanti (concime), l’agricoltura non riuscì a incrementare ulteriormente la produzione cerealicola per
sfamare una popolazione sempre più numerosa. La percentuale dei morti cominciò ad alzarsi oltre i livelli
consueti, dando luogo a sempre più frequenti crisi di mortalità. Così nel ‘300 la popolazione iniziò a calare.
All’inizio del XIV secolo si manifestarono in varie regioni europee crisi di sussistenza sempre più acute.
La pressione demografica aveva spinto ad estendere la coltivazione a terreni marginali che fornivano scarsi
raccolti, e a sfruttare eccessivamente i suoli, rendendoli sterili. Una successione di cattivi raccolti, dovuti
all’eccesso di piogge o a lunghe siccità, si infittirono dalla fine del XIII secolo, determinando sempre più
frequenti carestie. Certamente influì una serie di annate di eccezionale maltempo, con inverni più rigidi e
piogge più frequenti, che alcuni storici del clima ritengono essere state l’inizio di un ciclo meteorologico più
freddo. Ma la penuria fu generalizzata, non più compensata dalle importazioni a lunga distanza di cereali.
La crisi annonaria era strutturale, dovuta agli scompensi dell’economia agricola e alla crescita demografica.
Una prima serie di gravi carestie colpì l’Italia nel 1271 e ’75, l’Inghilterra nel 1293, e gran parte dell’Europa
nel 1315. In alcune città morì di stenti circa il 10% degli abitanti: dopo molto tempo, dunque, in Europa si
ricominciò a morire di fame. Dalle campagne affamate affluirono in città contadini in cerca di fortuna, ma le
autorità urbane cercarono di ostacolarne l’ingresso perché già alle prese con popolazioni in precarie
condizioni alimentari. I prezzi dei cereali aumentarono fino a dieci volte, rendendo proibitivo l’acquisto del
pane. La sottoalimentazione accrebbe la mortalità per l’indebolimento delle difese immunitarie.
Su una popolazione già provata da anni di difficoltà si abbatté dal 1347 una terribile epidemia di peste
bubbonica proveniente dall’Asia. La malattia infettiva fu trasmessa dalla puntura delle pulci del ratto nero; il
suo dilagare fu favorito dalle precarie condizioni igieniche e dalla denutrizione che colpiva in primo luogo gli
strati sociali più umili della popolazione, che, soprattutto in città, vivevano in condizioni malsane e non
potevano fuggire al contagio, come fecero invece molti abbienti isolandosi nelle proprietà di campagna.
La peste si diffuse attraverso le vie di commercio: dal Kazakistan dove era endemico, il bacillo giunse in
Europa attraverso le vie carovaniere che collegavano le steppe asiatiche agli empori mercantili del Mar
Nero; da qui, trasportata dai topi annidati nelle stive delle navi di mercanti genovesi, la peste giunse
dapprima a Costantinopoli e poi a Messina, da dove risalì il continente, toccando il culmine dell’infezione
nel 1348, quando il contagio raggiunse l’Italia comunale, la Francia, la Germania e la Spagna, e poi
Inghilterra, Scandinavia e Russia, causando un enorme numero di morti. Si calcola che nella sua prima
ondata la peste falcidiò circa un terzo della popolazione europea, rimanendo endemica in Europa fino al
XVIII secolo. Per circa un secolo furono ricorrenti le ondate di contagio, a cadenze decennali, che
abbassarono ulteriormente i livelli della popolazione e resero inattuabile la ripresa demografica.
Non si assistette a un calo repentino della popolazione: essa subì un calo graduale, raggiungendo il punto
più basso solo nei primi decenni XV secolo. A ripopolare le città furono i flussi migratori dalle campagne più
che la crescita naturale della natalità. La recrudescenza della guerra in molte regioni europee – la guerra
dei Cent’anni tra inglesi e francesi, in Spagna gli scontri dinastici tra i regni, nell’Italia dei principati e degli
stati territoriali in formazione – ebbe un peso non trascurabile sul declino demografico delle campagne.
Gli eserciti saccheggiavano aree rurali, razziando i raccolti e le bestie, violentando le donne, catturando
ostaggi; inoltre contribuivano a diffondere le epidemie, per le pessime condizioni igieniche in cui vivevano i
soldati. I saccheggi e le devastazioni spingevano i contadini a trovare rifugio nelle città.
Come nei secoli VI-VII, le crisi demografiche furono quasi sempre determinate dal combinarsi di guerre,
carestie ed epidemie. In molte città le cinte murarie ampliate prima della crisi si rivelarono sproporzionate, e
al loro interno si diffusero campi e orti. Intere regioni spopolate dalla crisi, come per esempio l’Andalusia e
la Maremma, non si ripresero più. Nelle campagne il calo demografico significò una ristrutturazione
dell’ambiente: diffuso fu il fenomeno dell’abbandono dei villaggi, scomparvero molti piccoli insediamenti, e
la popolazione tese a concentrarsi in altri più consistenti.

Trasformazioni dell’economia: oggetto di discussione tra gli storici è valutare se al calo della popolazione
corrispose anche una crisi economica. Alcuni sostengono che l’Occidente fu attraversato da una profonda
depressione: il declino demografico avrebbe determinato una contrazione della domanda di beni, riducendo
il livello globale della produzione e del commercio; i salari urbani sarebbero cresciuti, a fronte del calo dei
prezzi e delle rendite agricole. Secondo altri, il calo della popolazione avrebbe avvantaggiato i sopravvissuti
migliorandone il tenore di vita: l’aumento della ricchezza media avrebbe stimolato la domanda di beni di
consumo. Sicuramente si assistette a una profonda trasformazione economica e sociale; in alcuni settori e
in alcune regioni questa fu occasione di sviluppo, mentre in altre accentuò il ristagno e la recessione.
Nelle campagne la crisi demografica e l’abbandono dei villaggi determinarono un forte calo della
manodopera e un aumento dei salari dei lavoratori; generalizzato fu il calo della produzione agraria e
ovunque furono abbandonate le terre marginali di bassa redditività, che tornarono a ricoprirsi di boschi:
risvolto negativo fu spesso l’abbandono delle bonifiche e dei contenimenti delle acque, che generò erosioni
dei suoli, impaludamenti e desertificazioni.
Il ritorno alla coltivazione di terre migliori consentì di ottenere rendimenti più elevati, aumentando le rese
medie dei raccolti nel XV secolo. Inoltre, data la caduta dei prezzi dei cereali, molti proprietari
diversificarono la produzione verso colture specializzate e generi più pregiati e redditizi. Le terre incolte
furono trasformate in pascoli dando luogo a un eccezionale sviluppo dell’allevamento.
Progressivamente fu ricostituito l’equilibrio tra le risorse disponibili e il numero degli uomini, capace di
fronteggiare al meglio le carestie. Il calo dei prezzi dei generi alimentari e l’aumento dei salari permisero
anche un miglioramento dell’alimentazione. La carne cessò d’essere una pietanza rara e tornò sulle tavole
dei contadini e dei salariati. Soprattutto, la produzione agricola fu sempre più orientata alla sua
commercializzazione, con la specializzazione delle diverse regioni in funzione di un mercato internazionale
più articolato e integrato.
I grandi proprietari fondiari furono indeboliti alla riduzione dei margini di rendita dovuta allo spopolamento,
alla diminuzione dei prezzi e all’aumento dei salari. In alcune regioni crebbe la proprietà cittadina per gli
investimenti di mercanti e imprenditori. Il cambio di uomini promosso dalla crisi demografica offrì
l’occasione ai proprietari di rinnovare i contratti agrari. I patti consuetudinari a lungo termine e a canone
fisso furono spesso sostituiti da contratti scritti di breve durata, che prevedevano la ripartizione, in genere a
metà, dei prodotti della terra tra proprietario e contadino, in cambio di una serie di investimenti da parte del
padrone (sementi, attrezzi, animali da lavoro). Laddove si diffusero, questi contratti furono detti di
mezzadria (dal latino, “chi divide a metà”) e assicurarono un generale incremento produttivo.
Anche nelle città la crisi demografica determinò un calo della manodopera e un conseguente aumento dei
salari degli operai, che fece crescere i costi di produzione e i prezzi dei prodotti. Soprattutto, il calo della
popolazione determinò un calo altrettanto pronunciato delle manifatture. Conseguentemente, anche gli
scambi subirono una forte contrazione. Il mutamento più evidente nella produzione manifatturiera fu la
diversificazione delle merci: da un lato le produzioni di pregio, come i tessuti di qualità (seta, armi, carta);
dall’altro i prodotti di uso comune a prezzi accessibili, destinati a una più larga fascia della popolazione.
Lo sviluppo di nuovi settori produttivi determinò la crescita economica di alcune regioni e il declino di altre.
Al calo della produzione dei panni di lana, Firenze e la Toscana risposero con lo sviluppo della manifattura
della seta. Una profonda ristrutturazione dell’organizzazione produttiva investì le manifatture: perse
d’importanza la figura dell’artigiano che fino al XIII secolo lavorava in proprio la materia prima sino alla
finitura del prodotto e allo smercio in bottega; dalla metà del XIV secolo le fasi della lavorazione
cominciarono a separarsi da quelle della vendita. Le difficoltà dell’economia coinvolsero anche le attività
creditizie. Rispetto al passato, esse non si limitarono più a sostenere il commercio e le attività produttive,
ma cominciarono a finanziare anche i sovrani europei. Questi chiedevano prestiti ai grandi banchieri
internazionali, soprattutto toscani, per finanziare le guerre e i sempre più costosi apparati amministrativi dei
regni. Per alleggerire i costi dei capitali e degli interessi da rimborsare, alcuni di essi imposero svalutazioni
forzose delle proprie monete, come fece il re di Francia Filippo IV il Bello. Con la propria insolvenza
(impossibilità di ripagare un debito) tra il 1297 e il 1308 determinò la bancarotta di una tra le più grandi
compagnie di banchieri dell’epoca, quella dei Bonsignori di Siena. Negli stessi anni fallirono anche quelle
dei Ricciardi di Lucca e degli Ammannati di Pistoia, e quando il re d’Inghilterra Edoardo III nel 1342 dovette
sospendere il pagamento dei debiti ai banchi fiorentini dei Bardi-Peruzzi, anch’essi fecero bancarotta,
determinando un effetto a catena che coinvolse altre compagnie di mercanti e banchieri che fallirono negli
anni seguenti. Ciò indusse gli operatori a prendere misure tese a evitare, per il futuro, crolli generalizzati.
La ristrutturazione del sistema bancario articolò le compagnie in filiali fornite di capitali propri e di
autonomia di gestione, così che la bancarotta di una non comportasse il cedimento dell’intero complesso.
Anche le attività mercantili furono organizzate intorno a una rete di operatori stabili nei maggiori centri
commerciali internazionali. Furono anche affinati ulteriormente gli strumenti assicurativi e le lettere di
cambio e sviluppati sistemi più complessi di contabilità.
Il sistema delle fiere declinò definitivamente, sostituito dalla rete stabile delle filiali commerciali e dal forte
incremento dei trasporti marittimi, reso possibile anche da costanti miglioramenti delle tecniche di
navigazione e dall’adozione di navi di stazza crescente. Lo sviluppo delle economie dell’Inghilterra,
dell’Olanda e della Spagna favorì l’apertura di nuovi assi commerciali che iniziarono irreversibilmente a
spostare il baricentro degli scambi internazionali dal Mediterraneo all’Europa atlantica. Forte incremento
ebbero le rotte che collegavano i centri mercantili del Mare del Nord ai porti della Francia, del Portogallo e
della Spagna. Da questi scali cominciarono a muovere anche rotte lungo le coste occidentali dell’Africa.
Nel Mediterraneo, Venezia consolidò l’egemonia nei traffici con l’Oriente, a danno di Genova e Barcellona.
Capitolo 21: reazioni e ripresa

Mentalità e sensibilità di fronte alla crisi: la peste destò enorme impressione tra i contemporanei per la
velocità con cui si diffuse, la rapidità del decorso, la mancanza di rimedi e per l’ignoranza sulle sue cause e
sui modi di contagio. Grazie all’osservazione empirica vennero adottate misure per circoscriverne la
diffusione: divieto di assembramenti, limitazione degli spostamenti e segregazione dei malati. Dal XV
secolo, in zone periferiche o al di fuori delle mura, vennero creati dei lazzaretti dove confinare gli infetti.
Durante le epidemie la vita politica ed economica rimaneva paralizzata: i consigli non venivano convocati
per paura del contagio, né i mercanti e le merci si spostavano. La congiuntura aveva seminato il terrore.
La gente non riusciva a spiegarsi le cause del susseguirsi dei cattivi raccolti, delle pestilenze, delle guerre.
La risposta più immediata fu di interpretarli come annunzio apocalittico: si diffusero pratiche di penitenza in
confraternite di devozione che, confidando nella salvezza attraverso l’espiazione delle colpe, praticavano la
flagellazione e compivano pellegrinaggi. Le processioni dei flagellanti che attraversarono l’Europa
accrebbero l’eccitazione contro coloro ritenuti complici del demonio nell’opera di destabilizzazione della
cristianità. In molti casi furono incitate le popolazioni al linciaggio dei non cristiani ritenuti responsabili del
contagio. Gli ebrei furono accusati di avvelenare i pozzi e di uccidere il bestiame, e divennero oggetto di
violente persecuzioni in Francia e nelle Fiandre, in Ungheria, in Catalogna e soprattutto in area tedesca.
La paura della morte assunse nuovi tratti, per la sua drammatica presenza nella vita quotidiana; la peste, in
particolare, lasciò drammatici echi nell’arte e nella letteratura dell’epoca. La maggior parte delle cronache
ne indicò espressamente la causa nei peccati degli uomini: le guerre, gli omicidi, il comportamento da
cattivi cristiani etc. La provenienza del contagio era individuata nell’Oriente, mondo rappresentato come
popolato da infedeli che avevano in animo la morte dei cristiani. La letteratura enfatizzò il senso di
angoscia e la consapevolezza che la bellezza della gioventù e il fasto dei potenti erano sotto la costante
minaccia della morte. Il Decameron del Boccaccio rispecchia l’uso dei ricchi di isolarsi dal contagio e
descrive il sinistro senso di minaccia che incombeva sulla società dell’epoca. Nel 1348 in alcune zone
dell’Inghilterra alcune donne che vivevano da sole, praticando guarigioni, furono accusate di stregoneria e
linciate dalla popolazione, che era in cerca di capri espiatori della peste. Questi episodi diedero avvio a un
plurisecolare fenomeno di “caccia alle streghe” che ebbe per oggetto le donne, ritenute responsabili del
peccato originale e pertanto potenziali interlocutrici del demonio. La stregoneria era stata sempre
combattuta dalla Chiesa cristiana, che vi vedeva la sopravvivenza di superstizioni pagane che
minacciavano il suo ruolo sacerdotale di mediazione con la sfera del sacro. La repressione della
stregoneria fu affidata, come eresia, all’inquisizione e divenne più incisiva dalla metà del XV secolo.

Rivolte e marginalità sociali: tra XIV-XV secolo le campagne e le città dell’Europa furono attraversate da
un’ondata di rivolte, determinate dal peggioramento delle condizioni di vita per il susseguirsi di carestie,
epidemie, guerre e recessioni economiche. La crisi travolse i gruppi sociali più deboli, accentuandone lo
stato di subalternità/marginalità. Ad accrescere le tensioni furono anche le pressioni che i grandi signori, i
proprietari fondiari e gli imprenditori esercitarono sui lavoratori. Ogni rivolta originò da situazioni particolari,
ma caratteristica comune fu l’assenza di ogni contestazione della legittimità delle autorità.
Nelle campagne la condizione dei contadini non migliorò. Il calo della rendita fondiaria indusse molti signori
a tornare ad esigere i vecchi diritti signorili, a cominciare da quelli fiscale e dalle corvées.
Le tensioni sociali, che assunsero la forma di un sempre più aperto contrasto tra ricchi e poveri, furono
esacerbate dall’introduzione di nuove tasse per finanziare le guerre, che fu all’origine delle maggiori rivolte
rurali. Improvvisa e violenta fu la rivolta dei contadini, nota come jacquerie, che scoppiò nella Francia del
nord nel 1358 prostrata dalla guerra che vi si combatteva da anni e dalla pressione fiscale.
Jacquerie: termine che deriva dall’indumento indossato dai contadini (jacque) o più probabilmente dal
nomignolo “Jacques Bonhomme” con cui erano chiamati dai nobili in senso dispregiativo, per marcarne la
rozzezza e il poco acume. In seguito, il termine continuò a indicare le rivolte rurali mal organizzate e prive
di obiettivi precisi. La rabbia dei contadini si rivolse contro i nobili per il disprezzo nutrito nei loro confronti
dopo le disfatte militari subite contro gli inglesi, e per il desiderio di sottrarsi allo sfruttamento signorile
appesantito dagli oneri di guerra. La rivolta, che ebbe anche l’appoggio del popolo e dei mercanti, si
manifestò con assalti e saccheggi ai castelli. I nobili soffocarono rapidamente la ribellione incendiando
villaggi e sterminando migliaia di persone.
In Inghilterra il malcontento crescente per l’aggravarsi dell’oppressione signorile fu inasprito da una legge
del 1351 che fissava un tetto massimo ai salari con cui i coltivatori integravano i loro redditi lavorando a
giornata le terre altrui. L’introduzione dell’ennesima tassa personale per finanziare la guerra fu la scintilla
che scatenò la rivolta dei contadini nel 1381. A differenza dei rivoltosi francesi, essi avanzarono precise
rivendicazioni, trovando una copertura ideologica in alcuni preti che predicavano l’uguaglianza sociale
contro l’egoismo dei ricchi. Tra le richieste erano l’abolizione della servitù e la soppressione dello statuto
del 1351. Alleandosi con gli artigiani e i salariati, i rivoltosi saccheggiarono i palazzi nobiliari a Londra e
ottennero dal re la concessione di alcuni privilegi. Nelle città le condizioni dei lavoratori delle manifatture
divennero più precarie. Forte sviluppo avevano avuto tra XIII-XIV secolo le corporazioni dei mestieri, sorte
per tutelare gli interessi comuni nei diversi settori attraverso propri organi di governo e statuti. Di esse
facevano parte i proprietari e i capi delle botteghe, ma non i lavoratori salariati. Una tale divisione sociale e
giuridica del lavoro consentiva agli imprenditori di fissare i massimi salariali: misure di blocco furono
all’origine di tensioni e sommosse nel mondo delle manifatture. Gli artigiani e i salariati in rivolta non
contestarono la legittimità dei governi urbani, ma aspirarono a costituirsi in corporazioni e a garantirsi la
partecipazione politica. In molte città gli artigiani tessili, in lotta con gli imprenditori, riuscirono a prendere
posto nei consigli cittadini e a imporre governi basati sulle arti. Apprendisti e lavoranti si batterono per
migliori condizioni di lavoro e per accedere a rappresentanze corporative. L’impoverimento e la
marginalizzazione dei gruppi sociali più deboli agirono da fattore scatenante delle rivolte. Quasi ovunque le
corporazioni riuscirono a ridimensionare il potere dei vecchi gruppi dirigenti.
In Italia, soprattutto nei centri dov’era forte la produzione tessile, l’obiettivo fu quello di tutelare i salari e di
estendere i diritti dei lavoratori. Il tumulto più noto fu quello esploso a Firenze nel 1378 per l’iniziativa degli
operai della lana, chiamati spregiativamente “ciompi” per la loro sporcizia/trasandatezza, che svolgevano la
parte meno qualificata della lavorazione. Come nel caso dei rivoltosi inglesi anch’essi definirono le proprie
richieste: partecipazione al governo del comune con una propria atre, aumento dei salari, tutela delle
vessazioni giudiziarie della corporazione della lana. Insorti a migliaia, i ciompi ottennero inizialmente per i
propri rappresentanti un terzo delle cariche del governo, ma come in molte altre rivolte anch’essi furono
duramente repressi dalla reazione degli imprenditori.
Le condizioni di vita dei braccianti e dei salariati erano misere e precarie. Reclutati speso a giornata, senza
protezioni corporative, essi scivolavano facilmente nell’indigenza. Senza fissa dimora, molti si davano alla
mendicità e alla delinquenza. Il fenomeno, frutto delle profonde ristrutturazioni dell’economia europea, si
fece massiccio e socialmente allarmante. Per combattere la povertà molti governi adottarono politiche di
assistenza, fondando enti caritativi e ospizi, distribuendo elemosine in denaro, alimenti e vestiti,
raccogliendo i fanciulli abbandonati, costituendo doti per le ragazze povere. Per impulso dei francescani,
nelle città italiane furono fondati i “monti di pietà”, che erogavano piccoli prestiti su pegno a poco interesse.

Ripresa nel ‘400: il ritrovato equilibrio tra risorse alimentari e numero degli uomini e l’aumento della
produttività dei raccolti posero le basi per l’inversione della tendenza demografica. Dalla metà del XV
secolo cominciarono ad avvertirsi i segnali di ripresa che si fecero progressivamente diffusi fino a
consolidare una fase di crescita, lenta ma costante, che non conobbe battute d’arresto sino al XVII secolo.
Il miglioramento dell’alimentazione aumentò la resistenza alle malattie e alle avversità climatiche; le
epidemie cominciarono a farsi meno virulente e a mietere meno vittime. La ripresa diede luogo anche a
una redistribuzione della popolazione, come avvenne ad es. in Italia, dove il peso demografico del
Mezzogiorno si fece più consistente. Nel corso del XV secolo si accentuò la trasformazione del mercante
da negoziatore impegnato in prima persona nei commerci a lunga distanza a figura sedentaria a capo di
grandi compagnie con filiali estere operanti non più solo nel traffico delle merci ma anche nel cambio del
denaro, nella produzione manifatturiera e negli investimenti fondiari. Un’organizzazione del genere
consentì, per esempio, ai mercanti fiorentini di superare i fallimenti di metà ‘300 e di tornare a essere
protagonisti a livello internazionale con banchi come quelli degli Alberti, degli Strozzi e dei Medici.
La lunga fase di crisi attraversata dall’Occidente europeo coincise con l’avvio del periodo di fioritura
culturale che va sotto il nome di Rinascimento. A prima vista, la coincidenza potrebbe sembrare
contraddittoria, in quanto concilia una depressione economica con una rinascita culturale.
La concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi benestanti permise loro di diversificare le proprie attività
economiche e di investire in cultura. Essi alimentarono una forte domanda di beni di lusso: palazzi, chiese,
cappelle che necessitavano arredamenti/abbellimenti. Le élites mercantili e nobiliari italiane furono
all’avanguardia del fenomeno.
Capitolo 22: il papato e la società cristiana

Elaborazioni ideologiche: tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo maturò il declino delle concezioni
universalistiche del papato e dell’impero. In occasione del conflitto con il re di Francia, Filippo IV, su chi
avesse diritto di imporre tasse sul clero e sui beni della Chiesa francese, il papa Bonifacio VIII portò
all’estremo gli ideali teocratici dei suoi predecessori. Nella bolla Unam sanctam (1302) riaffermò che ogni
potere civile doveva subordinarsi al potere spirituale. Ma la nuova realtà politica europea, dove
l’antagonista del papato non era più l’imperatore, bensì un re forte del legame con i propri sudditi, rese
anacronistiche tali pretese. Le aspirazioni teocratiche furono irreversibilmente ridimensionate e subirono la
contestazione non più solo dei sostenitori imperiali ma anche di quelli monarchici.
Nonostante la crisi seguita all’interregno imperiale, si mantenne viva l’idea della necessità di un’autorità
civile superiore, autonoma rispetto a quella pontificia e garante della pace e della giustizia di tutti i cristiani.
In occasione della discesa in Italia di Enrico VII nel 1310, intenzionato a restaurare l’autorità imperiale
pacificando la penisola, Dante sostenne la necessità di un impero universale, la cui autorità derivava
direttamente da Dio e agiva per il bene del mondo. Il fallimento della spedizione di Enrico VII non spense
l’ideale imperiale. Filippo IV il Bello, re di Francia, può essere considerato il sovrano che prima di altri
comprese le conseguenze della crisi dei poteri universali e le opportunità che si aprivano per una nuova
legittimazione di quelli monarchici. Nel conflitto che lo oppose al papa, egli si circondò di giuristi che
teorizzarono l’autonomia del potere regio da quello pontificio; uno di ess, Guglielmo di Nogaret, affermò
che i re non riconoscono alcun superiore sopra di loro, nemmeno l’imperatore, i cui poteri e diritti
appartengono al re all’interno del proprio regno (rex in regno suo est imperator). Ogni residua pretesa
universalistica era così definitivamente rigettata.

Il papato ad Avignone e lo scisma: al culmine dello scontro, il papa decise di scomunicare Filippo IV. Su
consiglio di Guglielmo di Nogaret, il re concepì il disegno di condurre il papa davanti a un tribunale francese
per sottoporlo a giudizio di lesa maestà. Nel 1303 una spedizione guidata dallo stesso Nogaret raggiunse il
papa ad Anagni, in quel momento sede della curia (luogo in cui s’incentrava il seguito dei principi, dei papi
o dei signori territoriali. Riferita al papato, va distinta dalla corte, perché indica il complesso di tutti gli uffici
intorno a cui si costruì il processo di gerarchizzazione del potere pontificio), dove fu coperto di insulti e
arrestato. Il papa morì dopo pochi giorni, ma l’episodio dimostra che le pretese teocratiche dei pontefici non
avevano più alcuna possibilità di concreta realizzazione. Nonostante lo scandalo, il re riuscì a far eleggere
papa nel 1305 il vescovo di Bordeaux, col nome di Clemente V. temendo un’accoglienza ostile da parte dei
romani, nel 1309 il pontefice trasferì la curia ad Avignone, dove sarebbe rimasta sino al 1377.
La lunga permanenza della curia ad Avignone rafforzò i rapporti tra il papato e il regno di Francia,
consolidando l’asse guelfo che dominò la scena politica europea del ‘300 facendo perno anche sulle corti di
Parigi e di Napoli angioina. I sette pontefici del periodo furono tutti francesi, come lo fu la maggior parte dei
cardinali che nominarono. Lontana dai conflitti tra le grandi famiglie romane che spesso l’avevano
paralizzata, la curia poté sviluppare un efficiente apparato amministrativo che consentì ai pontefici di
rafforzare la natura monarchica del loro governo sulla Chiesa, riducendo sempre di più l’autonomia delle
istituzioni ecclesiastiche locali. Gli uffici della curia furono rafforzati; la cancelleria fu riordinata e ampliata, e
i tribunali di curia avocarono una grande quantità di cause fino ad allora delegate ai tribunali vescovili.
Le spese politiche e amministrative del papato crebbero enormemente; per questo motivo la camera
apostolica divenne l’ufficio di curia più importante, gestendo la mole crescente di tasse, sussidi e introiti
raccolti nella cristianità. Le entrate di cui i papi avignonesi poterono disporre ne fecero la quarta potenza
finanziaria d’Europa dopo i regni di Francia, Inghilterra e Napoli.
La residenza ad Avignone fu caratterizzata anche dall’accentuarsi dei fenomeni di corruzione che
affliggevano la curia pontificia; particolare sviluppo ebbe la vendita delle indulgenze, in precedenza
concesse a compimento di preghiere, di pellegrinaggi o della partecipazione alle crociate, dal XIV secolo fu
sempre più facile ottenerle, bastando una semplice elargizione di denaro. Queste pratiche contribuirono
alla perdita di autorità morale del papato. La curia pontificia fu oggetto di accuse crescenti di amoralità e di
mondanizzazione, del prevalere cioè degli interessi temporali su quelli spirituali. Giudizi sprezzanti furono
espressi da uomini colti, ad es. Dante parlò di “cattività avignonese”, cioè di una prigionia del papato da
parte della corona francese. Sempre più intense si fecero dalla metà del ‘300 le preghiere e le sollecitazioni
affinché il papato tornasse a Roma da parte di prestigiose figure del mondo cristiano, come santa Caterina
da Siena, Petrarca e Salutati, che vedevano nel rientro del papa a Roma la speranza per una sua rinnovata
azione spirituale. Gregorio XI riportò a Roma la curia nel 1377, ma le speranze di riforma furono presto
deluse: la morte improvvisa del papa nel ’78 aprì un conflitto all’interno del collegio dei cardinali, che si
spaccò sull’elezione del nuovo pontefice per i contrasti tra francesi e italiani. Allora i cardinali italiani
elessero un papa italiano, Urbano VI, e i francesi elessero un papa francese, Clemente VII, che si trasferì
nuovamente ad Avignone. Si aprì così uno scisma interno alla chiesa d’Occidente. I papi diedero vita a due
collegi di cardinali e a due curie, ed entrambi ebbero due successori. La divisione fu alimentata dallo
schierarsi dei diversi sovrani europei con un pontefice o con l’altro.

Nuovi fermenti religiosi: la mondanizzazione della Chiesa che aveva accompagnato il rafforzamento
monarchico del papato con fenomeni di corruzione e avidità di potere di molti chierici, acuì il disagio di chi
intendeva vedere nel pontefice solo una funzione di guida spirituale. Fu innanzitutto all’interno dell’ordine
francescano che una corrente di frati riprese gli ideali di povertà assoluta predicata da Francesco in cui alla
“chiesa materiale” si contrapponeva la “chiesa spirituale”. Le correnti spirituali francescane, assertrici di un
pauperismo radicale, si contrapposero di fatto alla Chiesa come istituzione di potere. La corrente degli
spirituali fu duramente repressa dall’inquisizione, nonostante l’appoggio dato loro dall’imperatore (Ludovico
il Bavaro), che nel 1328 dichiarò deposto il pontefice. Molti frati furono condannati, incarcerati o messi al
rogo, ma ancora nel XV secolo continuarono a manifestarsi forme di dissenso (“fraticelli”).
La crescente attesa escatologica (escatologia: dottrina dei fini ultimi che in ambito religioso riguarda i
destini ultimi dell’umanità, l’attesa della fine del mondo come imminente) che si manifestava nelle correnti
pauperistiche e spiritualistiche indusse la Chiesa a riconoscervi dei pericolosi fermenti di eresia da
reprimere. Tra fine XIII e inizio XIV secolo l’Europa cristiana fu attraversata da un’ondata di processi,
promossi sia dalle giurisdizioni secolari, sia da quelle ecclesiastiche nei quali imputazioni di tipo politico si
intrecciavano in un’unica strategia repressiva. Chi si opponeva alla sovranità pontificia fu sistematicamente
tacciato di ribellione e di eresia, accusa che era dunque strumentale alla difesa della sovranità pontificia.
Esigenze di una religiosità più individuale si diffusero nel corso del XIV secolo seguendo orientamenti
mistici, cioè atteggiamenti in rapporto diretto con la divinità.
Alcune eresie assunsero infine un esplicito significato di rivolta sociale e di opposizione politica alla Chiesa
di Roma. Alla “chiesa visibile” del papa e dei sacerdoti, un teologo di Oxford, John Wyclif, contrappose una
“chiesa invisibile” costituita da tutti i cristiani, con Cristo a capo. L’autorità del papa non era fondata sulle
Sacre scritture, e dovere del cristiano era di seguire solo la parola di Dio: egli promosse pertanto la
traduzione in inglese della Bibbia. Nella sua visione, sacramenti come l’eucarestia e pratiche come la
confessione, di cui erano custodi i sacerdoti, perdevano gran parte del loro valore salvifico. La sua
polemica contro la chiesa trionfante nel mondo e il richiamo a ideali evangelici di purezza e povertà
fornirono ai rivoltosi inglesi del 1381 un sostegno ideologico. Le sue teorie furono dichiarate eretiche, ma i
suoi seguaci, detti lollardi (dall’olandese lollaerd, chi prega sottovoce), continuarono a predicare per tutto il
XIV secolo, perseguitati dall’inquisizione.

Il movimento conciliarista: lo scisma inaugurò un periodo difficile per il papato: i papi contrapposti furono
costretti a moltiplicare concessioni e privilegi ai sovrani e ai principi che li sostenevano, ai banchieri che li
finanziavano, alle chiese locali da cui traevano legittimazione e consenso. L’effetto fu quello di un profondo
indebolimento dell’autorità pontificia. Alcuni principi cercarono di indurre i papi che supportavano a
riconciliarsi con l’avversario. Tuttavia, la situazione si era a tal punto irrigidita che quando i prelati di
entrambi i fronti riuscirono a convocare a Pisa nel 1409 un concilio che depose e dichiarò scismatici ed
eretici entrambi i pontefici ed elesse un nuovo papa (Alessandro V), gli altri pontefici si rifiutarono di
abdicare. I papi diventarono addirittura tre. Di fronte alla manifesta incapacità dei vari papi di rappresentare
la Chiesa universale e di governarla con efficacia, si diffuse la convinzione che solo un concilio ecumenico,
una grande assemblea di tutte le componenti della Chiesa, avrebbe potuto riportare ordine al suo interno.
Il problema non era costituito solo dallo scisma, ma anche dalla necessità di avviare un’opera di riforma
che arginasse il malessere diffuso nella vita religiosa e la diffusione delle eresie. A prendere l’iniziativa fu il
re di Germania Sigismondo, che convocò il concilio nella città imperiale di Costanza (1414-1418). Il concilio
di Costanza radunò centinaia di prelati (tra cardinali, vescovi, abati) e teologi, oltre a numerosi sovrani e
loro rappresentanti. nel 1417 fu eletto il primo papa ecumenico dopo 40 anni, Martino V, che convocò
regolarmente nuovi concili a Siena (1423) e a Basilea (1431). In quest’ultimo furono ridimensionate le
prerogative del papa in materia di benefici e di fiscalità, riformato il collegio cardinalizio e ridotto il potere
della curia. Tali decisioni riaprirono i contrasti con il nuovo pontefice Eugenio IV. Nel 1437 questi dichiarò
decaduto il concilio e indisse una nuova assemblea a Ferrara, dove convennero anche prelati e teologi
greci per una soluzione dello scisma con la Chiesa ortodossa con cui fu sancita una precaria riunificazione
nel 1439 a Firenze, dove il concilio si era spostato. La maggioranza dei conciliaristi rimase a Basilea,
processando Eugenio IV e nominandone il successore (1439). Paradossalmente, mentre la Chiesa di
Roma si riconciliava con quella di Costantinopoli, il concilio promuoveva l’ennesimo sciame interno alla
Chiesa cattolica. Il consenso dei principi al movimento conciliarista venne però meno di fronte agli esiti
radicali del concilio di Basilea. I pochi padri conciliari rimasti si trasferirono a Losanna nel 1449 e dopo aver
riconosciuto il nuovo pontefice di Roma, Niccolò V, si sciolsero definitivamente.
L’esempio poco edificante dato dai vertici della Chiesa nei decenni successivi allo scisma aveva
allontanato ulteriormente dal clero i fedeli, alimentandone i movimenti di contestazione. Il pensiero radicale
di Wyclif fu ripreso dal boemo Jan Hus, teologo dell’università di Praga, che criticò aspramente le
indulgenze, il potere temporale, la ricchezza della Chiesa e l’indegnità del clero, finendo scomunicato.
Fiducioso di poter difendere pubblicamente le sue tesi davanti al concilio, Hus si recò a Costanza, dove fu
però processato per eresia e condannato al rogo. La sua morte scatenò una violenta reazione nazionale in
tutta la Boema, in chiave antimperiale e antitedesca: soprattutto i contadini e il basso clero si batterono per
un rinnovamento religioso e sociale contro l’oppressione dell’aristocrazia tedesca.
Il movimento conciliarista fu anche alla base della fondazione di Chiesa nazionali, che ruppero
definitivamente l’unità della cristianità. L’indebolimento dell’autorità pontificia consentì infatti ai sovrani di
svincolare dal controllo della curia il governo delle istituzioni ecclesiastiche locali, soprattutto in materia
fiscale e giudiziaria e nell’assegnazione dei benefici. Fu questo il motivo principale del sostegno che le
autorità laiche diedero al movimento conciliarista. Nel 1438 il re di Francia emanò la Prammatica sanzione,
che si richiamava ai decreti di Costanza e Basilea per proclamare l’elezione locale dei vescovi e degli abati,
la competenza dei tribunali civili in materia ecclesiastica, e la drastica riduzione dell’intervento papale in
tema di tasse e benefici. Nel 1439 un documento analogo fu adottato dall’imperatore per l’area tedesca,
mentre in Inghilterra l’autorità vescovile si estese nel XV sec. a tutte le istituzioni ecclesiastiche del regno.

La ritrovata autorità pontificia: lo scioglimento del concilio nel 1449 segnò la prevalenza dell’autorità del
papato all’interno della Chiesa. La disunione dei prelati emersa a Basilea aveva mostrato l’incapacità del
concilio di proporsi come governo autorevole e riconosciuto dalla cristianità. L’esperienza conciliarista
lasciò in molti fedeli l’idea che le assemblee ingovernabili di dotti e prelati fossero soprattutto occasione di
anarchia e di disordine. Dalla metà del XV secolo tornarono a consolidarsi le tendenze alla centralizzazione
del governo pontificio che si erano allentate in conseguenza dello scisma. Con i sovrani europei furono
raggiunti accordi che riconoscevano loro ampi gradi di controllo locale delle tasse, delle giurisdizioni e degli
uffici ecclesiastici in cambio del riconoscimento della superiore autorità pontificia. Gli uffici di curia poterono
così tornare a esercitare funzioni crescenti in materia giudiziaria e nella gestione dei benefici ecclesiastici.
Anche le entrate fiscali si fecero nuovamente intense, grazie alle decime e alla tassazione dei benefici.
Il collegio dei cardinali si dilatò fino a contare una settantina di membri, dando rappresentanza alle varie
famiglie sovrane e principesche europee e italiane. Sia nel collegio sia in curia prevalsero nuovamente i
membri di origine italiana, restaurando il proprio dominio sullo stato pontificio.
Nel corso del ‘400 le gerarchie ecclesiastiche accentuarono il loro orientamento mondano. I cardinali e i
vescovi, tratti quasi sempre dalle case regnanti o principesche, si occuparono crescentemente di politica e
di diplomazia, spesso trascurando la cura d’anime. Divenne prassi abituale l’accumulo dei benefici
ecclesiastici e il loro subappalto (beneficio ecclesiastico: indica qualsiasi carica ecclesiastica che
garantisse al suo titolare un insieme di possessi e di proventi. L’attribuzione dei benefici contribuì non poco
al discredito del papato, visto crescentemente come il perno di una rete d’affari e corruzione).
Crebbe conseguentemente la pratica della non residenza: moltissimi titolari di cariche e di benefici
consumavano le rendite spesso senza risiedere in sede. Molti vescovi risiedevano invece stabilmente
presso la curia pontificia. La stessa dilatazione del numero dei membri del collegio cardinalizio dipese in
buona misura dalla volontà delle famiglie principesche di assicurarsi attraverso un cardinale il controllo
della concessione dei benefici ecclesiastici a familiari, clienti e comunque chierici graditi.
Sin dal XII secolo i pontefici avevano crescentemente affidato cariche e benefici ecclesiastici a membri
della propria famiglia. Tale pratica rispondeva in primo luogo all’esigenza di dotarsi di persone fidate
nell’amministrazione di curia e nel governo della Chiesa. In questo modo alcune famiglie, soprattutto
romane, avevano arricchito le loro fortune secolari. Il fenomeno del nepotismo, i cui aspetti deteriori furono
condannati dal punto di vista morale, riprese vigore nella seconda metà del XV secolo. I papi conferirono
nuovamente le alte cariche ecclesiastiche a fratelli, cugini, nipoti (e talora anche figli). Si crearono così vere
e proprie dinastie di cardinali, vescovi etc., dotate di ingenti patrimoni.
Dalla metà del ‘400 la curia pontificia ritornò a essere un luogo ricco e fastoso, dove convenivano da tutta
Europa artisti, architetti e uomini di lettere in cerca di committenze. Roma si avviò a diventare la capitale
della Chiesa universale; il Vaticano, luogo del martirio e della sepoltura dell’apostolo Pietro, divenne la
residenza stabile dei papi. La città, meta incessante di pellegrinaggio, divenne anche centro di nuovi
interessi politici, finanziari e clientelari, che si irradiavano sull’intera cristianità. La restaurata autorità del
potere pontificio lasciò però insoddisfatte le esigenze di riforma religiosa. Con la fine del conciliarismo
tramontò la possibilità di una riforma integrale della Chiesa, e le istanze di rinnovamento non trovarono
ascolto nelle gerarchie ecclesiastiche. Nonostante le manchevolezze dei vertici, la devozione dei fedeli si
organizzò in nuove forme. Si rafforzarono le esperienze di vita in comune, soprattutto femminile, dette di
beghinaggio (dall’inglese to beg, pregare; non si diedero una regola monastica e non costituirono un ordine
religioso, per questo furono oggetto di sospetti e perseguitate come ereticali). I laici svilupparono attività
caritative e assistenziali attraverso le confraternite (confraternita: libera associazione di laici, affiancata da
membri del clero e spesso regolamentata dalle autorità ecclesiastiche, dedita a opere di carità/pietà, come
la preghiera e l’assistenza degli ultimi. I membri non vivevano in comune, ma avevano un luogo dove
radunarsi, e quasi sempre uno statuto).

Capitolo 23: gli imperi

L’impero “tedesco”: il potere dell’impero era stato ridimensionato dall’interregno seguito alla morte di
Federico II e dalla debolezza dei suoi successori, la cui influenza si ridusse definitivamente al territorio
tedesco. L’autorità imperiale, però, non era riuscita a imporsi con efficacia nemmeno all’interno della
Germania, proprio perché distratta dalle aspirazioni universalistiche e dai lunghi periodi trascorsi in Italia.
A indebolire l’autorità dell’imperatore concorreva anche il fatto che egli venisse eletto, senza riuscire a
creare una stabilità dinastica. Nella prima metà del XIV secolo si affermò il ruolo di un certo numero di
grandi elettori, sia laici che ecclesiastici, chiamati a designare il re di Germania. Nella dieta (nel basso
medioevo indica l’assemblea dell’impero, dove convenivano i rappresentanti del clero, della nobiltà e delle
città) di Rhens del 1338 essi stabilirono che il futuro sovrano avrebbe associato automaticamente la corona
regia a quella imperiale, senza bisogno di conferma da parte del papa. Carlo IV di Lussemburgo (1347-78),
sentì però la necessità di scendere in Italia per cingere nel 1355 la corona imperiale e legittimare la sua
autorità. Per rendere meno incerte le procedure di elezione, fino ad allora gestite dalla grande nobiltà
tedesca senza un ordine preciso, nel 1356 emanò una disposizione nota come Bolla d’oro, che fissava il
collegio dei sette principi che avevano il privilegio di eleggere l’imperatore secondo determinate ritualità, e
confermò come non fosse più necessario ottenere anche la corona d’Italia e la consacrazione pontificia.
Il titolo imperiale perse così definitivamente le prerogative universalistiche, accentuando la sua natura
prettamente tedesca. Il titolo imperiale fu conteso tra XIV-XV secolo tra alcune grandi famiglie, le uniche
che facendo leva su ampi possessi territoriali erano in grado di assicurare una reale autorità regia.
Ad alternarsi furono soprattutto le casate dei Wittlesbach, insediati in Baviera, dei Lussemburgo, che
fondarono la propria autorità in Boemia, e degli Asburgo, i cui domini alpini si estendevano all’attuale
Svizzera orientale, al Tirolo, alla Carinzia. I Lussemburgo riuscirono a controllare la corona imperiale per
circa un secolo (1348-1437), ma nonostante i tentativi di accreditarsi come una stirpe di re, non poterono
renderla dinastica. L’ultimo sovrano della casata, Sigismondo (1410-37), che era stato eletto anche re di
Ungheria dal 1387, diede in sposa la figlia ad Alberto II d’Asburgo, favorendo così la convergenza delle
corone d’Austria, Boemia e Ungheria. Con l’elezione di Alberto il titolo imperiale pervenne agli Asburgo,
che lo conservarono per tutta l’età moderna. Formalmente elettiva, la carica imperiale divenne di fatto
dinastica. Data anche la sua enorme estensione, l’impero non ebbe mai una sovranità uniforme. L’autorità
imperiale si esercitò con regolarità solo in alcune regioni, in genere corrispondenti ai territori appartenenti
alla casata regnante. Le concessioni di privilegi e diritti, particolarmente intense nell’età degli imperatori
svevi, avevano reso le città e i principati territoriali sempre più autonomi. L’autorità imperiale fu esercitata
soprattutto attraverso l’organismo rappresentativo del parlamento imperiale (Reichstag) che nel corso del
XV secolo si riunì con crescente regolarità, aprendosi anche alla presenza delle città imperiali.
I territori su cui era esercitata una reale autorità di tipo statale erano i Länder, ossia i territori retti da un
signore, accomunati da un unico diritto consuetudinario e spesso da patti di pace territoriale sottoscritti
spontaneamente dai diversi organismi politici presenti al loro interno: signori minori, laici ed ecclesiastici, le
città e le comunità rurali. Nei Länder i principi affermarono strutture amministrative tipiche degli stati
sovrani, con apparati fiscali, eserciti, tribunali d’appello, funzionari e ufficiali centrali e periferici etc.
Nell’area renana, nella Germania meridionale e sulle coste del Mar Baltico si erano sviluppate le maggiori
città tedesche, governate da un’attiva borghesia mercantile. Il rafforzamento dei principati territoriali
indusse le città a unirsi in leghe. Le alleanze erano state vietate dalla Bolla d’oro, ma il fenomeno dilagò
dopo la morte di Carlo IV. Per vari decenni la Germania fu travagliata da uno stato di guerra continuo tra i
principi e le città. Nonostante alcuni successi iniziali, le leghe subirono pesanti sconfitte dagli eserciti
signorili e furono costrette a sciogliersi definitivamente in seguito alla pace generale del 1399. Nel corso del
XV secolo le città svilupparono una capacità di contrattazione con i principi anche attraverso la
partecipazione alle assemblee rappresentative. Le città dell’area baltica e renana avevano dato luogo sin
dalla metà del XII secolo a unioni di mercanti tedeschi dette Hansa, che conseguirono presto la supremazia
economica in tutta la regione, grazie alla loro avanguardia tecnologica. Nel 1364 le varie associazioni si
fusero in un’unica lega, progressivamente egemonizzata da Lubecca, che giunse a comprendere centri non
solo tedeschi ma anche di Paesi Bassi, Norvegia, Svezia, Polonia e Lituania. L’Hansa divenne una potenza
economica e militare di primo piano per tutto il XV secolo, compiendo spedizioni navali e blocchi dei porti
nemici. Soprattutto essa puntò a tutelare gli intensi traffici commerciali che si svolgevano nei suoi empori,
ove i manufatti dell’Europa occidentale erano scambiati con materie prime provenienti da quella orientale.
Nel 1310 Giovanni di Lussemburgo, figlio dell’imperatore Enrico VII, incorporò la Boemia nell’impero
inaugurandovi la presenza della sua casata; essa raggiunse il suo apogeo con il regno di Carlo IV, che
rinunciò a esercitare il potere imperiale sull’Italia, consapevole dei fondamenti boemi della sua autorità.
Francese di educazione e di lingua, Carlo fu considerato dai suoi sudditi “padre della patria” boema, proprio
perché controbilanciò la plurisecolare presenza degli elementi tedeschi al vertice della Chiesa e della
società locali. Durante il suo regno si manifestarono i primi sentimenti nazionali boemi, che si intrecciarono
alla diffusione della predicazione hussita che si caratterizzò per un forte umore antigermanico.
Un principio territoriale particolare fu quello costituito nelle regioni orientali dall’ordine religioso militare dei
Cavalieri teutonici, protagonista dell’espansione tedesca lungo le regioni baltiche; esso diede nuovo slancio
alla conquista e all’evangelizzazione della Prussia. Il principato dell’Ordine teutonico si dotò di un’articolata
organizzazione amministrativa centrata intorno al Gran maestro, residente nella Prussia orientale.
La pesante sconfitta subita a Tannenberg nel 1410 da parte dell’esercito lituano-polacco aprì una lunga
fase di rivolte delle città e della nobiltà rurale, che indebolì il principato costringendolo a cedere la Prussia
orientale nel 1466 al re di Polonia, e frenò l’espansione tedesca verso est.

Il tramonto di Bisanzio: dopo il saccheggio di Costantinopoli del 1204, i crociati si spartirono il territorio
bizantino in principati secondo le consuetudini feudali, dando vita a un cosiddetto “impero latino d’Oriente”,
di cui i veneziani monopolizzarono gli empori commerciali. L’alleanza con i mercanti genovesi consentì a
Michele Paleologo di riprendere Costantinopoli nel 1261 e di restaurare la sovranità imperiale su un
territorio che però era ormai ridotto alle sole regioni affacciate sul Bosforo e a qualche isola nel mar Egeo.
Come quello d’Occidente, anche l’impero bizantino si vide sempre più costretto a una dimensione
regionale: impero “greco” e non più “romano”. Duramente colpito dalle forze occidentali, l’impero bizantino
dovette crescentemente difendersi anche dagli attacchi che provenivano dagli stati slavi nei Balcani e
dall’avanzata dei turchi in Oriente. Sin dal XII secolo, peraltro, l’apparato amministrativo e militare bizantino
aveva perso importanza rispetto alla grande aristocrazia fondiaria. Sotto la dinastia dei Paleologi (1259-
1453) la concessione di terre in beneficio divenne generalizzata ed ereditaria. La gerarchia burocratica non
fu più selezionata dal potere centrale ma basata su legami familiari. L’economia ne uscì ulteriormente
indebolita: il commercio e la finanza restarono nelle mani dei veneziani e dei genovesi, mentre sempre più
difficili da reperire diventarono le risorse per coprire le spese di eserciti ormai composti di soli mercenari.
La stessa autorità centrale fu minata dopo la morte di Michele Paleologo nel 1282 da guerre dinastiche che
si protrassero per alcuni decenni. L’unica autorità che non perse forza fu quella del patriarca di
Costantinopoli, che assunse una dimensione sempre più ecumenica (“universale”). Peraltro, all’interno
della Chiesa ortodossa permaneva viva una dialettica tra un orientamento favorevole a ricucire lo scisma
con la Chiesa cattolica e uno deciso invece a rafforzarne le differenze; la prima componente fece un
estremo tentativo di riconciliazione tra le due Chiese durante il concilio di Firenze del 1439.

L’islam dagli arabi ai turchi: sin dal 1058 la dinastia turca dei Selgiuchidi aveva assunto la guida di fatto del
califfato di Baghdad, dove la dinastia degli Abbasidi conservò solo nominalmente il titolo califfale fino
all’invasione dei mongoli del 1258. Nelle regioni occidentali dell’impero islamico anche l’Egitto passò sotto il
controllo dei Selgiuchidi, quando il sultano Salah ed-Din Yusuf (Saladino) nel 1771 dichiarò decaduta la
dinastia araba dei Fatimidi e costituì una vasta dominazione personale estesa fino a Siria, Mesopotamia e
Arabia. Dal 1250 vi si installarono i mamelucchi, in origine soldati schiavi (questo il significato di mamluk) di
etnia turca che si erano emancipati al servizio dei vari potentati musulmani, il cui sultanato governò l’Egitto
e la Siria fino al 1517, promuovendo una politica mecenatistica che fece del Cairo il centro della civiltà
islamica. Nelle regioni orientali l’invasione dei mongoli aveva reso i Selgiuchidi soggetti al gran khan,
frantumando l’Anatolia in una serie di piccoli emirati. Da uno di questi prese avvio l’affermazione degli
Ottomani, una piccola tribù turca che forte dell’abilità dei propri guerrieri a cavallo cominciò a espandersi in
tutta l’Asia Minore dai primi decenni del XIV secolo. Nel 1354 si insediarono nella penisola europea di
Gallipoli, da dove conquistarono la Tracia, ponendo la capitale ad Adrianopoli nel 1365. Nei Balcani gli
Ottomani si scontrarono con il regno di Serbia. La mancanza di coerenza interna di quest’ultimo, dove
nonostante un certo sviluppo economico e urbano la nobiltà rurale era rimasta la componente sociale più
forte, facilitò l’avanzata dei turchi. I serbi dovettero assoggettarsi ai turchi, come aveva già fatto l’imperatore
di Bisanzio nel 1371. L’espansione ottomana proseguì verso Macedonia e Bulgaria, suscitando in
Occidente una crescente apprensione. Una crociata fu bandita da papa Bonifacio IX non appena si sparse
la notizia della caduta della Morea (Peloponneso) bizantina: alla spedizione, guidata dal re d’Ungheria
Sigismondo, parteciparono francesi, veneziani e genovesi, con l’intento di soccorrere Costantinopoli, ormai
stretta in una morsa. L’esercito dei cavalieri occidentali fu però sconfitto a Nicopoli nel 1396, e il califfo di
Baghdad riconobbe al capo ottomano Bayzid I (1396-1402) il titolo di sultano (in arabo il termine designa il
potere e, per estensione, coloro che lo detengono).

Impero ottomano: gli Ottomani stavano per puntare alla conquista di Bisanzio quando furono investiti dalla
rinnovata espansione mongola. A promuoverla fu un capo tartaro noto in Europa come Tamerlano, di fede
sunnita, che dalla regione di Samarcanda mosse una serie di fulminee campagne militari che gli permisero
di ricreare un grande impero asiatico. Entro il 1388 completò la conquista della Persia, nel 1398
saccheggiò Delhi in India, per poi conquistare Mesopotamia, Georgia, Armenia e compiere incursioni in
Siria, ove distrusse Aleppo e Damasco, e saccheggiando Baghdad nel 1401. L’anno successivo sconfisse
e catturò Bayzid I, arrestando l’ascesa dell’impero ottomano e conquistando parte dell’Anatolia. Tamerlano
morì nel 1405 alla testa di una grande spedizione diretta alla conquista della Cina. Durante il suo regno
Samarcanda conobbe grande splendore e fu centro di un’intensa vita culturale, giungendo ad adottare
lingua e costumi turchi. Dopo la sua morte l’impero si disgregò in pochi decenni.
Dopo la morte di Tamerlano, gli Ottomani ripresero l’espansione in Asia, nel Mar Nero e nei Balcani. Di
fronte alla minaccia gli imperatori bizantini chiesero invano aiuto a un’Europa prostrata dalla guerra dei
Cent’anni e dalla crisi della sovranità imperiale e pontificia. Maometto II (1451-81) cinse d’assedio
Costantinopoli, che cadde nel 1453 e fu saccheggiata per giorni: l’ultimo imperatore bizantino, Costantino
XI, vi morì combattendo. La caduta in mano musulmana di Costantinopoli e la fine dell’impero bizantino
suscitarono un’ondata di sgomento in Occidente. Molti profughi greci vi ripararono, portando con sé la
propria cultura. Nei decenni successivi i sultani sottomisero gran parte della Grecia e dei Balcani,
spazzando via dall’Egeo e dalla Crimea gli avamposti mercantili genovesi e veneziani.
Fu Maometto II ad assicurare l’uniformità amministrativa e giuridica dell’impero, sul fondamento della legge
coranica musulmana (sharia). L’organizzazione politica e religiosa dell’impero ottomano fu accentrata nelle
mani del sultano; nelle funzioni di primo ministro agivano i vizir, spesso uomini di umili origini, mentre le
province dell’impero e gli stati soggetti venivano governati tramite pascià e governatori: si trattava di
un’efficiente burocrazia in cui furono reclutati, anche in posizioni di potere, schiavi cristiani forzosamente
convertiti all’islam. Per tal via i sultani legarono a sé una dirigenza ottomana etnicamente slava o greca ma
culturalmente islamica, che fece da contrappeso all’influenza dell’aristocrazia turca. Peraltro, il governo
turco fu meno oppressivo di quello Bizantino e tollerante della religione delle popolazioni sottomesse, che
rimasero in gran parte cristiane ortodosse.

Capitolo 24: dai regni agli stati

Continuità e trasformazioni: il rafforzamento in senso statale dei regni europei tra XIV-XV secolo, nel senso
di una maggiore stabilità politico-amministrativa e territoriale, fu caratterizzato dall’evoluzione di processi
già in atto da secolo e dall’emergere di nuovi fenomeni. Tra gli elementi di continuità va evidenziato come
gli stati continuarono a essere costituiti da una molteplicità di organismi di base (signorie territoriali, città,
comunità rurali, istituzioni ecclesiastiche etc.), ciascuno titolare di poteri e prerogative. La stessa geografia
politica dell’Europa occidentale, fatta di grandi monarchie e principati territoriali, rimase sostanzialmente
immutata. Una trasformazione evidente investì invece l’Europa orientale, dove si formarono vaste e più
stabili compagini statali, che furono comunque più fragili rispetto a quelle occidentali per la strutturale
debolezza della loro composizione sociale e organizzazione politica. Solo in Francia e in Inghilterra si
costituirono delle monarchie di carattere nazionale: nelle altre regioni continuò a essere forte il peso dei
poteri territoriali locali.
Tra le continuità più evidenti c’era il perdurante potere della nobiltà. La crisi economica ne erose in parte le
ricchezze, ma offrì anche occasioni per nuovi profitti. I grandi patrimoni fondiari rimasero nelle mani delle
famiglie aristocratiche, consolidandone la potenza economica e la preminenza sociale. Le terre
appartenenti ai nobili erano esenti dalla tassazione regia. Le signorie rurali non cessarono di costituire le
strutture locali del potere, inquadrando politicamente i contadini. Fu semmai delimitata l’autonomia di
esercizio dei loro poteri, che le monarchie cercarono di inquadrare nell’amministrazione dei regni; infatti, i
sovrani continuarono a concedere le investiture feudali, allargandole anche a nuove famiglie che
ampliarono i ranghi della nobiltà, trovando negli uffici statali un altro canale di ascesa sociale. Ai membri
dell’aristocrazia si aprirono anche carriere ecclesiastiche prestigiose e fonte di ricchezza.
Il plurisecolare processo di sviluppo economico e sociale delle città, per quanto rallentato dalla
ristrutturazione seguita alla crisi demografica del ‘300, rese crescente anche l’influenza politica dei ricchi
gruppi dirigenti urbani nei confronti del potere regio. In alcune regioni come le Fiandre e la Germania, dove
le città avevano raggiunto ampie disponibilità di risorse, privilegi e elevata autonomia, il rafforzamento dei
poteri monarchici e signorili diede luogo inevitabilmente a conflitti; nei regni più forti, come Inghilterra,
Spagna e Francia, la presenza degli ufficiali regi e la pressione fiscale poté invece esercitata più abilmente.
In ogni caso, ovunque gli organi di governo municipale mantennero ampi diritti nell’amministrazione locale
e seppero contrattare con il potere regio la ripartizione dei tributi. Nei consigli cittadini e nelle magistrature
maggiori crebbe anche, nel tempo, la presenza dei membri delle corporazioni mercantili e artigiane.
Anche il clero continuò a godere di privilegi giurisdizionali e fiscali, nonostante la volontà dei sovrani e dei
principi di controllare le istituzioni ecclesiastiche. Per lungo tempo le grandi proprietà fondiarie degli enti
ecclesiastici erano state quasi del tutto esenti dalla tassazione regia, e i chierici colpevoli di crimini erano
stati giudicati dai tribunali ecclesiastici. Tali privilegi furono rivendicati direttamente dal papato nel momento
di massimo potenziamento monarchico durante il periodo avignonese, ma lo scisma e il movimento
conciliarista ne ridussero fortemente la capacità d’intervento. I poteri civili riuscirono così a controllare il
conferimento dei benefici, a ridurre la giurisdizione delle corti ecclesiastiche, a tassare i beni della Chiesa.
I re finirono col rivendicare la tutela delle rispettive Chiese nazionali, stipulando accordi con il papato
romano dalla metà del XV secolo.
La forza dei poteri locali indusse i sovrani a ricercare con essi un dialogo politico, a stringere accordi. I re si
proposero come referenti delle varie componenti del regno offrendo sicurezza e pacificazione, garantendo
l’ordine interno e difendendo il paese dai nemici. Ciò fornì loro la base ideologica per legittimare il loro
diritto di imporre le tasse, ad amministrare la giustizia, e a potenziare gli apparati militari. Nel declino delle
sovranità universali, i giuristi e gli intellettuali di corte elaborarono nel XIV secolo dottrine politiche che
riconoscevano la pienezza del potere regio.
Continuità di sviluppo ebbe anche l’apparato amministrativo dei regni, che mantenne l’articolazione in
organismi centrali e in uffici periferici; presso la corte, le cancellerie e i consigli che affiancavano il sovrano
nel governo del regno si differenziarono in uffici specializzati, ciascuno con competenze in materie diverse
(giustizia, fiscalità etc.). Nel territorio si fecero tramite l’autorità del re un numero crescente di ufficiali, con
funzioni sempre più definite (sceriffi, esattori, giudici etc.). Soprattutto negli uffici di corte il sovrano continuò
a ricorrere a persone a lui legate da rapporti di fedeltà e di parentela; in tale sistema, la nobiltà ebbe modo
di allargare il proprio ruolo anche all’esercizio degli uffici, spesso prestigiosi e lucrosi.
Nella dilatazione degli apparati amministrativi l’elemento di novità fu rappresentato dalla progressiva
affermazione dell’idea che l’ufficiale non fosse al servizio diretto del re ma svolgesse qualificate funzioni in
senso più generale per il regno. Si formò così un funzionariato che copriva gli uffici non in virtù di un
legame di fedeltà, ma dietro la corresponsione di uno stipendio; in sostanza, si formò un’embrionale
burocrazia non più reclutata in base allo status sociale, ma alle competenze (spesso universitarie).
La crescita degli apparati amministrativi, la necessità di pagare stipendi in moneta, l’opportunità di
concedere prestiti in denaro agli alleati, e più in generale l’assunzione di crescenti funzioni di governo,
aumentarono costantemente le esigenze finanziarie dei sovrani. Da sempre il nucleo delle loro entrate era
costituito dalle rendite dei territori su cui esercitavano un dominio diretto, che però erano insufficienti a
coprire tutte le spese del regno. I sovrani cercarono sempre nuove entrate (facendo ampio ricorso anche al
prestito dei banchieri internazionali, in particolare italiani); le più cospicue provenivano soprattutto dalle
tasse, in particolare furono le ingenti spese di mantenimento dell’esercito a stimolare la creazione di più
efficienti apparati fiscali. Gli introiti più alti continuarono ad essere assicurati dalle imposte indirette; più
stretti controlli doganali e dei mercati consentirono di imporre dazi alle merci; il crescente ricorso alle
imposte dirette, che colpivano le ricchezze dei sudditi, fu reso possibile dal dispiegarsi di una rete periferica
di esattori fiscali (imposte dirette e indirette: si distinguono in tributi che, sin dall’età romana, si applicano
rispettivamente al reddito/patrimonio (dirette, ex. sulla proprietà terriera), e al consumo/trasferimento dei
beni (indirette, ex. sui beni alimentari).
L’autorevolezza dei re si fondava sulla loro capacità di garantire la pace interna e di offrire giustizia ai
sudditi. L’ordine pubblico fu assicurato da milizie dislocate nei territori del regno. Nelle province, giudici
itineranti di nomina regia controllarono periodicamente l’attività dei tribunali locali, signorili e cittadini.
Furono istituiti tribunali periferici e centrali, affidati a giudici e procuratori della corona, ai quali i sudditi
potevano appellarsi. La stessa legislazione regia si fece più intensa, disciplinando i diritti e le consuetudini
locali, ma anche intervenendo con disposizioni valide in materie riguardanti l’intero regno.
L’evoluzione in senso statale degli ordinamenti regi investì in modo particolare l’organizzazione degli
eserciti: alle male addestrate truppe inviate dalle città, e alle milizie feudali, i sovrani sostituirono eserciti
professionali composti di mercenari; ci si orientò così verso la creazione di eserciti permanenti posti agli
ordini di ufficiali nominati direttamente dal re.
Un’altra innovazione determinata dallo sviluppo in senso statale degli ordinamenti pubblici fu la creazione
di corpi stabili di funzionari incaricati di presiedere alle relazioni diplomatiche con i governatori stranieri.
In precedenza, i rapporti tra i vari potentati erano stati regolati da ambascerie temporanee scambiate
occasionalmente nei momenti di crisi. La crisi delle sovranità universali e l’affermazione dei regni
monarchici avevano però complicato il quadro politico con questioni di carattere territoriale, commerciale e
politico, che potevano essere affrontate solo da sistemi di relazioni diplomatiche permanenti. Nel corso del
XV secolo si affermò così la pressi di delegare i rapporti trai i singoli stati ad ambasciatori che risiedevano
stabilmente presso le corti estere, ed erano sempre in rapporto con la madrepatria grazie a una quotidiana
corrispondenza in cui informavano sulle vicende politico-militari e sugli affari interni degli stati.

Lo stato tardo medievale: l’attuale nozione di stato può essere fuorviante in quanto rinvia all’idea di
un’organizzazione politica e giuridica di carattere pubblico il cui potere sovrano e coercitivo viene esercitato
in forma esclusiva entro un determinato territorio. Una condizione che non si realizzò mai effettivamente nel
corso del medioevo, anche se si tratta di una definizione astratta che trova persino negli stati europei
contemporanei solo realizzazioni parziali. Basti pensare come gli attuali stati nazionali si trovino stretti tra
tensioni contrapposte: da un lato conferiscono quote di sovranità a entità sovranazionali come l’UE;
dall’altro riconoscono quote di autonomia a entità regionali (ex. la Catalogna). Oggi come nel passato gli
stati sono complesse realtà in mutamento, oggetti di costante mediazione tra gli interessi delle loro diverse
componenti politiche, sociali e territoriali. Ogni periodo storico attribuisce dunque allo stato dei caratteri
propri e distintivi. Le caratteristiche degli stati europei dei secoli XIV-XV vanno inquadrate in un più ampio
processo di formazione dello stato “moderno” che durò vari secoli (XIII-XVIII). Sul lungo periodo può
apparire come un fenomeno di graduale evoluzione politico-istituzionale da forme meno articolate a forme
più complesse. Punto di partenza è la ricomposizione dei territori operata dalle monarchie tra XII-XIII
secolo attraverso i legami feudali, la stabilizzazione dinastica della corona e lo sviluppo dei primi apparati
amministrativi. Tra XIII-XIV secolo il rafforzamento dei poteri fiscali e giudiziari dei sovrani su territori
sempre più ampi fu integrato dalla formazione di assemblee rappresentative dei diversi corpi politici. Tra
XIV-XV secolo il consolidamento degli apparati statali appare evidente in aspetti come la formazione di
eserciti permanenti stipendiati o di rappresentanze diplomatiche residenti, e nel primo configurarsi di
identità nazionali (lingua, chiesa, patria).
Concentrandosi sui processi del XIV-XV secolo, emergono aspetti più complessi che permettono di
comprendere meglio le specificità dello stato tardo medievale. I suoi tratti peculiari possono essere
identificati con i limiti che i poteri sovrani incontrarono nell’imporsi alla nobiltà, alle città, al clero. Limiti che
corrisposero alla discontinuità territoriale dello stato, cioè al permanere al suo interno di feudi e di
giurisdizioni signorili, di autonomie urbane e di privilegi delle comunità rurali. Gli ambiti amministrativi
rimasero imprecisi, con sovrapposizioni e lacune, e un’incerta nozione di servizio “pubblico”. La corte,
centro di reti clientelari e di legittimazioni nobiliari, erose la centralità delle assemblee rappresentative.
La stessa formazione di una coscienza nazionale intorno alla corona procedette con molta lentezza.

Caratteristiche comuni: i territori degli stati non rappresentarono delle realtà unitarie, dove si estendevano
in maniera uniforme leggi e volontà del sovrano, ma delle entità composite. L’autorità dei sovrani non fu
mai esercitata ovunque nel regno in forma diretta e assoluta: i re non avevano la forza politica e militare per
poterla imporre, ma nemmeno la volontà, e il loro potere fu sempre limitato da un’eterogenea pluralità di
organismi politici minori. Una tendenza comune fu indubbiamente rappresentata dalla capacità dei sovrani
di accrescere le proprie prerogative e di consolidare i propri poteri. Questo processo non fu però né lineare
né definitivo. A rendere precari i risultati non furono solo le crisi dinastiche e le sconfitte militari, ma
soprattutto la forza dei corpi politici presenti nel regno, che contrastarono e rallentarono l’affermazione della
monarchia. Le rivolte della nobiltà, delle città e dei contadini costellarono il XIV-XV secolo.
L’esito dei conflitti e delle resistenze dei corpi politici fu la ricerca da parte dei sovrani di modi di
legittimazione che derivassero da accordi consensuali. Prese forma una gestione pattizia del potere che
attraverso costanti negoziazioni portò a riconoscere la sovranità dei re in cambio del riconoscimento dei
diritti e delle autonomie locali. Le città e i signori si sottomisero all’autorità dei sovrani, e questi delegarono
una parte del governo dei territori dello stato. Si delineò una duplice tendenza solo in apparenza
contraddittoria, da un lato verso l’estensione dei poteri di intervento centrale, e dall’altro verso il
riconoscimento delle prerogative dei corpi locali, in un quadro complessivo disciplinato dall’autorità dei
sovrani. Questi si proposero come mediatori tra i vari corpi politici, tutelandone le autonomie e garantendo
che l’equilibrio degli interessi e dei privilegi non minacciasse la pace e l’unità del regno. Furono i patti più
che il consolidamento dei poteri monarchici a rendere più stabili gli stati del XIV-XV secolo.
Espressione istituzionale del patto reciproco tra il sovrano e i corpi per il governo del regno furono le
assemblee rappresentative che si svilupparono in molti stati tra XIV-XV secolo: gli “stati generali” in
Francia, le cortes in Spagna, i “parlamenti” in Inghilterra, le “diete” in Germania. Esse erano costituite dai
rappresentati dell’aristocrazia e della piccola nobiltà, del clero, dei mercanti delle città, talora anche dai
contadini. Il sovrano era tenuto a convocarle quando intendeva emanare una legge o introdurre una tassa
che potesse ledere i privilegi tradizionali: si diffuse il principio quod omnes tangit ab omnes approbetur (“ciò
che riguarda tutti deve essere approvato da tutti”). Più in generale le assemblee divennero il luogo del
dialogo e della mediazione tra gli interessi della corona e quelli dei gruppi politici e sociali più importanti.
Le assemblee rappresentative contribuirono a rafforzare la coesione sociale e la politica dei regni. In vari
stati, infatti, si era cominciata a formare una consapevolezza dell’esistenza di interessi comuni tra tutti gli
abitanti di un territorio e dell’appartenenza a un’unica comunità politica. I diversi corpi politici cominciarono
ad abituarsi a coesistere insieme, venendo a formare una comunità politica che si indentificava sempre più
in un “paese”. In alcuni stati la coscienza di appartenere a una comunità con caratteri propri anche dal
punto di vista linguistico e culturale diede forma a un comune sentimento di appartenenza nazionale. Un
segnale importante in questo senso fu dato dal concilio di Costanza, dove i partecipanti decisero di votare
non individualmente ma per nazioni. Persino nei documenti imperiali cominciò ad apparire dalla metà del
XV secolo la definizione di “sacro romano impero della nazione germanica”.
L’affermazione dei poteri statali non passò solo attraverso il rafforzamento degli apparati istituzionali e il
ricorso a strumenti giuridici più affinati; contarono molto anche gli aspetti informali del potere. In primo
luogo, la sua natura sacrale: l’unzione dei re al momento dell’incoronazione, che sanciva la volontà divina,
e lo sviluppo dei rituali e dei cerimoniali di corte ammantarono di prestigio la loro figura. Inoltre, nel governo
della cosa pubblica, essi ricorsero ampiamente alla fedeltà di parenti e amici, ricompensando le proprie
clientele con l’assegnazione degli uffici, rendite, e benefici ecclesiastici. Decisivo si rivelò anche il
riconoscimento da parte centrale dell’esistenza nei territori locali di aggregazioni parentali e di fazioni
politiche che organizzavano il consenso e gestivano la distribuzione delle risorse nelle città e nelle
comunità rurali, forgiandone l’identità. Nello stesso esercizio della giustizia fu prevalente, rispetto alla
repressione penale, il ricorso alle concessioni di grazie ai condannati, talora anche alla legittimazione di
pratiche informali come la vendetta.

Capitolo 25: verso gli stati nazionali

La guerra dei Cent’anni: si usa definire come guerra dei Cent’anni la serie di conflitti bellici che, in Francia,
contrapposero la corona inglese a quella francese tra il 1337 e il 1453. Da secoli i sovrani inglesi
possedevano territori e diritti nel regno di Francia, di cui erano vassalli. Quando nel 1328 il re di Francia
Carlo IV morì senza eredi, il re d’Inghilterra Edoardo III, che ne era il nipote, rivendicò il diritto a
succedergli. La guida del regno fu invece affidata a Filippo VI di Valois, che confiscò i feudi francesi di
Edoardo e lo indusse a muovere guerra nel 1337, puntando innanzitutto alla conquista delle Fiandre, una
regione strategica per il commercio. Il suo esercito sbaragliò più volte la più lenta e indisciplinata cavalleria
feudale francese, conquistando territori nel sud-ovest e precipitando nel caos la Francia. Nel 1358 i
contadini insorsero contro la nobiltà, mentre a Parigi la rivolta guidata dai mercanti impose agli “stati
generali” il controllo dell’amministrazione regia. La pace di Brétigny del 1360 sancì la sovranità inglese su
circa un terzo del territorio francese. L’inasprimento fiscale per le spese belliche fece scoppiare disordini
anche in Inghilterra nei decenni seguenti, consentendo ai francesi di riconquistare entro il 1380 tutti i domini
inglesi sul continente tranne pochi avamposti costieri. I disturbi mentali che impedirono di governare al
nuovo re Carlo VI fecero emergere però due fazioni che scatenarono una lunga guerra civile in Francia.
Con l’appoggio del duca di Borgogna, Enrico V d’Inghilterra riprese le ostilità, e dopo la decisiva battaglia di
Azincourt nel 1415 conquistò quasi tutta la Francia settentrionale, ottenendo nel 1420 la reggenza di
Francia. Prese corpo allora una reazione antinglese per iniziativa delle popolazioni contadine, che trovò un
simbolo in una giovane lorenese, Giovanna d’Arco, che sosteneva di udire voci dal cielo che le indicavano
di aiutare il nuovo re di Francia Carlo VII. Ella guidò le milizie regie alla liberazione di Orléans nel 1429,
ridando morale alle truppe francesi. Quando anche il duca di Borgogna si riconciliò con Carlo VII nel 1435,
in cambio dell’indipendenza, il re riuscì a porre fine al conflitto con una serie di decisive vittorie. Dal 1453
agli inglesi rimase in territorio francese solo il porto di Calais.
Dopo la guerra entrambi i regni assunsero una fisionomia stabile, destinata a durare nel tempo. Risolta la
questione dei possessi in terra francese, il regno d’Inghilterra si delimitò nei suoi assetti territoriali alle
regioni insulari, mente quello di Francia si consolidò nel continente. Significativo fu l’emergere di un forte
sentimento nazionale che trasformò un conflitto tra dinastie regnanti in una guerra tra paesi, all’interno del
quale maturarono il senso di appartenenza e l’odio per gli stranieri. La guerra ebbe effetti importanti anche
sulla formazione di apparati statali più stabili ed efficienti. Le spese belliche furono molto onerose e
richiesero un inasprimento della fiscalità. Dopo iniziali rivolte venne accettato il principio per cui il re agiva
per il bene comune e i sovrani poterono imporre tasse dirette sempre più stabili grazie ad apparati fiscali
più articolati e specializzati. Anche gli eserciti furono ristrutturati sostituendo alle dispendiose e inaffidabili
milizie di cavalieri mercenari compagnie stanziali di fanti e di arcieri reclutate tra i sudditi.

Lo stato francese: il processo di formazione statale fu più intenso in Francia e in Inghilterra rispetto agli altri
regni europei: solo in essi i poteri monarchici riuscirono a delimitare fortemente quegli degli altri corpi
politici. Determinanti furono le vicende della guerra dei Cent’anni, ma il rafforzamento statale fu l’esito di un
insieme più ampio di fattori. In Francia già Filippo IV (1285-1314) fu capace di attuare decisi interventi di
rafforzamento patrimoniale e fiscale. L’esito favorevole del conflitto con il papato, per esempio, gli consentì
di attuare confische ai danni del clero.
Lo sviluppo delle istituzioni di governo regio alternò fasi di affermazione e arretramento, che possono
essere distinte in tre periodi tra l’inizio della guerra dei Cent’anni e la fine del XV secolo:
1330-1380: la pressione fiscale si inasprì per le spese belliche dando luogo a conflitti sociali che furono in
parte composti da un più intenso coinvolgimento degli stati generali e provinciali in un quadro in cui la
presenza di ampi principati rese comunque incerto il controllo territoriale del regno.
1380-1430: l’autorità del re si indebolì profondamente per motivi dinastici e per le vicende di guerra, e la
corte divenne luogo di confronto e di scontro tra fazioni contrapposte.
1430-1490: la ritrovata autorità regia che guidò la liberazione della Francia dagli inglesi promosse un
deciso rafforzamento del controllo monarchico del territorio del regno, grazie al radicamento di un apparato
di ufficiali e all’integrazione nello stato dei principati periferici. Nel corso del XIV secolo il governo regio si
affidò alla crescita degli apparati centrali e locali, alla formazione di ufficiali specializzati e al coinvolgimento
dei poteri locali attraverso le assemblee rappresentative. A corte furono creati organi supremi giudiziari,
fiscali e di controllo (parlamento, tesoreria e la Corte dei conti). Localmente le città del regno furono
valorizzate come luoghi di mediazione politica tra il centro e il territorio radicandovi gli ufficiali regi.
Quando nel 1392 Carlo VI fu riconosciuto incapace di governare, emersero due fazioni contrapposte.
Quella guidata dal fratello del re, Luigi d’Orléans, che assunse la reggenza del regno, sostenne la
continuità della politica fiscale che favoriva i gruppi sociali esenti dalle imposte (nobiltà, clero, ufficiali) e
della crescita degli apparati amministrativi che la rendevano possibile. Le si opponeva la fazione guidata
dal duca di Borgogna (Filippo l’Ardito, zio paterno di Luigi d’Orléans), fautrice di una riforma in senso
antifiscale che limitasse il potere d’azione degli ufficiali regi, e sostenuta dalle altre componenti sociali.
La prima fu detta la fazione degli armagnacchi, così chiamati quando ne assunse la guida il conte Bernardo
d’Armagnac dopo l’assassinio di Luigi d’Orléans nel 1407 che precipitò il paese nella guerra civile; egli
sostenne la centralità della corte regia. La fazione dei borgognoni finì invece con l’appoggiare le pretese
dei re inglesi sulla corona francese, affiancandoli nella guerra: furono loro a catturare Giovanna d’Arco e a
consegnarla agli inglesi nel 1430.
Il sostegno nazionale alla ripresa dell’iniziativa regia con Carlo VII (1422-1461) consentì al sovrano di
procedere a un marcato accentramento dei poteri monarchici. Sul piano fiscale, la taglia (imposta diretta in
origine riscossa dai signori territoriali, in genere come prelievo straordinario e arbitrario. Con l’affermazione
dei poteri regi anche le contribuzioni dirette esatte dai loro funzionari presero il nome di taglia) straordinaria
introdotta nel 1384 fu rea annua nel 1440. Il gettito fiscale delle imposte consentì di riformare l’esercito con
la creazione di compagnie permanenti di cavalieri e di arcieri. Nel 1454 fu ordinata la redazione per iscritto
di tutte le consuetudini territoriali del regno, quale espressione della volontà di controllo regio sui
particolarismi locali. Dal 1467 gli ufficiali divennero pressoché inamovibili, segno del potere raggiunto dal
ceto dei servitori dello stato che opponeva ormai alla nobiltà di “sangue” lo status di una nobiltà di “toga”.
Luigi XI (1461-1483) fu impegnato a fronteggiare l’irrequietezza dell’alta nobiltà, che si coalizzò ma che fu
sconfitta; ciò consentì al re di recuperare al controllo diretto del regno feudi sui quali la giurisdizione regia
era da secoli meramente teorica.
Più che negli altri stati coevi, in Francia si sviluppò un diffuso sentimento di identità nazionale.
A concorrervi furono sia la guerra contro gli inglesi, sia l’emancipazione della Chiesa locale dall’autorità di
quella romana. Negli anni dello scisma si diffuse infatti tra il clero francese un movimento che sosteneva la
propria autonomia e che subito ottenne il sostegno dei sovrani. Nel 1438 Carlo VII adottò, con la
Prammatica sanzione, le deliberazioni di un’assemblea del clero francese che, pur riconoscendo l’autorità
spirituale del papa, riconduceva alla Chiesa “gallicana” il controllo delle istituzioni ecclesiastiche. Anche la
vicenda di Giovanna d’Arco, che incarnò un patriottismo mistico in cui la fede in Dio e la libertà della
Francia si fondevano, contribuì ad alimentare il sentimento nazionale soprattutto dopo che gli inglesi la
condannarono al rogo come eretica e sospetta di stregoneria.

Lo stato inglese: l’affermazione di forme statali più complesse si caratterizzò in Inghilterra per il maggior
equilibrio tra il potere della corona e le altre forze politiche del regno, già insito nel precoce riconoscimento
della Magna charta. Centrale, in questo processo, risultò il ruolo del parlamento, che concorse alle grandi
scelte del regno. Fu la crescita della fiscalità regia dovuta alla politica espansionistica promossa da
Edoardo I (1272-1307) e rendere regolare la convocazione del parlamento secondo modalità stabilite nel
1295: accanto ai baroni e agli alti prelati vi figurarono anche i rappresentanti delle contee e delle città e il
basso clero. Tra il 1320 e il ’40 il parlamento divenne una vera e propria istituzione di governo, stabile e
codificata, con responsabilità legislative e fiscali. Si articolò in una camera alta (House of Lords, degli
aristocratici) e in una camera bassa (House of Commons, rappresentati di contee e città), che presto si
dotò di un portavoce (speaker) che ne sosteneva gli interessi. Si creò così un sistema politico molto
bilanciato tra gli interessi delle élites regionali e la struttura amministrativa regia che si era definita
precocemente già nel XIII secolo. Gli organismi centrali si stabilirono a Westminster, che divenne la
capitale amministrativa del regno accogliendo l’ufficio finanziario dello Scacchiere, le alte corti di giustizia
affidate a professionisti, e la cancelleria dove progressivamente il personale laico sostituì quello
ecclesiastico. Nelle contee, controllate sin dal XII secolo da ufficiali regi, gli sceriffi, e dove dal XIII secolo
operavano anche giudici incaricati di istruire i processi criminali da sottoporre ai tribunali regi, nel 1327
furono introdotti i giudici di pace, che ne assorbirono buona parte delle funzioni giudiziarie e di polizia.
La novità era costituita dal fatto che essi erano eletti localmente tra la piccola nobiltà per sovrintendere
all’amministrazione locale in nome del parlamento e del re: non erano quindi ufficiali in senso stretto.
Nell’assetto politico del regno fu fondamentale il ruolo delle diverse componenti della nobiltà. La media e
piccola aristocrazia regionale, composta da possidenti e cavalieri, cominciò a rappresentare stabilmente le
contee nella camera dei Comuni dalla metà del ‘300 e a crescere ulteriormente di status mettendosi al
servizio sia del re sia dei Lords. La grande aristocrazia era costituita invece da poche decine di lignaggi
potenti, dotati di titoli (conti, duchi) conferiti dal re, e partecipava a titolo individuale ma ereditario alla
camera dei Lords. Pur dotandosi di grandi clientele, essa non riuscì a costituire dei principati territoriali
proprio per l’appoggio dato dai sovrani alla piccola nobiltà. L’equilibrio politico tra le diverse componenti del
regno non fu esente da conflitti. Le conseguenze fiscali della guerra contro i francesi determinarono rivolte
e malessere sociale alla fine del ‘300. La perdita delle rendite e dei beni posseduti in Francia schierò contro
il sovrano la grande nobiltà alla fine del regno di Enrico IV (1422-1461). Gli aristocratici si divisero in due
fazioni guidate l’una dalla dinastia regnante dei Lancaster e l’altra dalla casata degli York: la prima ebbe
come simbolo una rosa rossa, la seconda una rosa bianca. Da qui il nome di Guerra delle due Rose per
indicare le lotte intestine che insanguinarono il paese tra il 1455 e il 1485. I conflitti stremarono i grandi
aristocratici, molti dei quali morirono in battaglia. I loro feudi e i loro beni furono confiscati dai sovrani, che li
incamerarono nel demanio regio. Quando Enrico VII della casata dei Tudor, imparentata con i Lancaster,
sconfisse Riccardo III di York nel 1485 e sposò Elisabetta di York, mettendo fine al lungo conflitto, trovò un
patrimonio della corona enormemente incrementato. L’effetto finale della guerra civile fu così il
rafforzamento del potere monarchico. Oltre ai territori francesi definitivamente perduti nel 1453, le
ambizioni di espansione territoriale del regno inglese si rivelarono fallimentari anche nei confronti della
Scozia e delle Fiandre. Gli scozzesi avevano stretto alleanza con la Francia di Filippo IV, che intese così
controbilanciare l’appoggio che gli inglesi avevano dato alle città delle Fiandre dopo l’occupazione francese
del 1297, fallita per la disfatta inflittale dalla fanteria fiamminga (1302). Peraltro nemmeno gli inglesi, per i
quali le Fiandre erano lo snodo commerciale della loro economia, riuscirono a radicarvi la loro presenza
durante la guerra dei Cent’anni: la regione fu infine annessa al ducato di Borgogna (1384).
Anche in Inghilterra emerse un sentimento di appartenenza nazionale che, a differenza della Francia,
riguardò principalmente le élites del regno. Significativamente a corte, dove dai tempi di Guglielmo il
Conquistatore si parlava francese, l’inglese cominciò a essere impiegato sistematicamente soprattutto per
l’impulso dato da sovrani come Enrico IV ed Enrico V nei primi decenni del XV secolo. L’inglese divenne
lingua ufficiale anche nei tribunali (1362), mentre la Bibbia fu tradotta nel 1380 e i Racconti di Canterbury
scritti da Geoffrey Chaucer (1387) fondarono la letteratura nazionale inglese. Il mancato coinvolgimento
popolare si spiega col fatto che la guerra contro i francesi non fu combattuta in terra inglese, e non dette
luogo a forme di reazione popolare analoghe a quelle della Francia.

Capitolo 26: altre esperienze statali

Gli stati iberici: anche nei regni iberici che si erano consolidati dopo la reconquista – Portogallo, Castiglia e
Aragona – si possono osservare delle tendenze comuni verso la formazione dello stato; in primo luogo, il
rafforzamento delle strutture amministrative centrali e territoriali, con la formazione di gruppi di ufficiali
professionisti. Anche qui i rapporti tra la monarchia e i corpi politici furono mediati attraverso le assemblee
rappresentative (cortes) che riunivano clero, nobiltà e delegati cittadini. Il peso politico e l’irrequietezza
militare della nobiltà rimasero ovunque centrali, nonostante le trasformazioni interne e i molti privilegi.
Crescente si fece il ruolo delle élites delle città, cui i re avevano concesso ampie autonomie. Peraltro,
indebolirono tutti i regni anche violente crisi dinastiche. Nonostante il retroterra comune della lotta contro gli
arabi per il controllo del territorio iberico, non si era nemmeno formata una cultura uniforme né un
sentimento nazionale.
Portogallo: Dionigi I (1279-1325) contrappose alla potenza nobiliare il sostegno delle élites mercantili,
fondando l’università a Lisbona, promuovendo lo sviluppo dei commerci e avviando la creazione di una
flotta da guerra. I successori riorganizzarono l’amministrazione della giustizia e costituirono un esercito
nazionale. Dopo una crisi dinastica in cui cercò di inserirsi la monarchia castigliana, nel 1385 le cortes
acclamarono re Giovanni I (1385-1433) della nuova dinastia degli Aviz. Essa promosse le esplorazioni
geografiche lungo le coste nord-occidentali africane, di cui fu grande artefice il principe Enrico il Navigatore
(poi successore al trono): dopo la conquista di Ceuta, seguirono le isole di Madera, delle Azzorre, Capo
Verde, le coste del Senegal, del Gambia e di Tangeri. Il controllo delle rotte marittime attraverso le basi
commerciali e militari lungo le coste diede ai portoghesi il monopolio delle spezie. L’afflusso di grandi
ricchezze, tuttavia, non trasformò la struttura economica del paese, che rimase agricola.
Regno di Castiglia: in Castiglia le tendenze all’accentramento dei poteri monarchici apparvero evidenti fino
alla metà del XIV secolo. Già Alfonso X aveva promosso una grande opera di unificazione giuridica,
completata poi da Alfonso XI, che soppresse le leghe urbane che erano riuscite a influire sulle decisioni di
governo. Durante il suo regno (1325-1350) nelle città furono inviati degli ufficiali regi che integrarono la rete
preesistente di funzionari periferici, mente negli uffici centrali crebbe l’importanza della componente
formatasi nelle università. Dopo che Enrico II conquistò il trono con le armi e l’appoggio francese nel 1369,
il dualismo politico più intenso divenne quello tra il re e la nobiltà che lo aveva sostenuto. Si formarono
delle ampie signorie aristocratiche, dominio dell’economia pastorale, e nelle città fu favoritala nobiltà
urbana. Il ruolo politico delle cortes perse centralità, mentre crebbero le relazioni clientelari che facevano
capo alla corte regia.
Aragona: il carattere composito del regno d’Aragona frenò il rafforzamento delle istituzioni monarchiche.
Il regno si configurò piuttosto come una confederazione in cui le diverse componenti – Aragona, Catalogna,
Valencia e Maiorca – formalizzarono per iscritto le proprie consuetudini e negoziarono privilegi generali di
tipo diverso con la monarchia, influenzati dalla diversa prevalenza delle forze sociali: la nobiltà
nell’Aragona, le élites mercantili nelle altre regioni. Nonostante la ripresa dell’iniziativa regia all’inizio del
‘300, con la costituzione di apparati centrali finanziari e fiscali e la dislocazione di nuovi ufficiali regi, il
potere delle cortes, riconosciute sin dal 1283, rimase condizionante. Esse giunsero a istituire nel 1359 un
organo permanente di controllo finanziario e amministrativo. Il governo unitario del regno restò pertanto
sempre debole, e la lunga guerra con la Castiglia (1336-96) ne segnò l’inizio della decadenza. Una crisi
dinastica provocò l’avvento al trono nel 1412 del principe castigliano Ferdinando.
Sin dal ‘200 gli interessi economici dei mercanti catalani, in primo luogo quelli di Barcellona, erano riusciti a
incanalare la politica di potenza della monarchia e la vocazione militare della nobiltà del regno verso una
politica di espansione nel Mediterraneo. Alla conquista di Baleari, Sicilia e Sardegna, fece seguito nel corso
del XIV secolo anche l’acquisto di alcuni possedimenti nell’arcipelago egeo; in quello successivo la Sicilia
fu pienamente incorporata al regno; nel 1442 fu acquisito anche quello di Napoli per opera di Alfonso il
Magnanimo (1416-58), che cercò di allargare la sua sovranità anche ad alcuni stati balcanici e creò un
vasto dominio mediterraneo della corona d’Aragona. Il predominio aragonese compromise l’egemonia
commerciale dei mercanti italiani, in particolare dei genovesi. La lunga lontananza di Alfonso, che aveva
posto la sua residenza a Napoli, provocò gravi squilibri politici all’interno del regno che, dopo la sua morte,
degenerarono in una guerra civile di enormi proporzioni. Solo quando nel 1469 Isabella, erede al trono di
Castiglia, sposò Ferdinando II, erede al trono d’Aragona, si posero le basi per la pacificazione e la
formazione di uno stato nazionale “spagnolo”. Il processo di integrazione tra i due regni, riunificati nella
corona di Ferdinando nel 1479 ma indipendenti sul piano istituzionale, fu lento e contrastato. I sovrani
puntarono a creare un elemento unificante mobilitando una crociata contro i nemici della cristianità: nel
1481 fu rilanciata la reconquista, che portò alla caduta nel 1492 dell’ultimo emirato musulmano in terra
iberica, quello di Granada, che era sopravvissuto dal 1238. La sua popolazione fu sottoposta a una
cristianizzazione forzata. Nello stesso anno furono espulse dal regno anche le numerose comunità
ebraiche, già oggetto di persecuzioni dal XIV secolo. A vigilare sulla purezza della fede dei territori “liberati”
fu posto il tribunale dell’inquisizione, che perseguitò inflessibilmente ogni sospetto di eresia.

Una varietà di configurazioni


Fiandre: l’evoluzione in senso statale non fu promossa solo dalle monarchie. In alcune regioni europee
presero corpo formazioni politiche di tipo diverso. Pur senza raggiungere la sostanziale indipendenza che
consentì ad alcune città italiane di creare degli stati territoriali, le ricche città mercantili delle Fiandre,
riuscirono ad ottenere nel corso del XIV secolo ampi margini di autonomia dal regno di Francia (1302).
Forti degli aiuti finanziari che potevano concedere, ottennero larghi privilegi dal re e dai conti locali.
La regione fu annessa dal 1384 al ducato di Borgogna, ma mantenne sempre una rilevante autonomia.
Ducato di Borgogna: approfittando della guerra franco-inglese, venne formandosi tra la Francia e l’impero
un ampio ducato centrato sulla Borgogna e poi progressivamente esteso alla Lorena, al Lussemburgo,
Fiandre, Piccardia e Paesi Bassi. I duchi, formalmente vassalli del re e dell’imperatore, acquisirono
l’indipendenza dalla Francia nel 1435. Il loro dominio, per quanto eterogeneo, comprese aree di avanzata
economia agricola e grandi centri manifatturieri e commerciali. Si aprì così un favorevole periodo di
prosperità economica e artistica e di consenso politico, durante il quale furono istituiti gli “stati provinciali” e
“generali”, la camera dei conti e le corti fiscali e di giustizia. Solo le pretese di Carlo il Temerario (1467-77)
di farsi eleggere imperatore misero fine all’esperienza borgognona, la cui eredità fu spartita tra il re di
Francia e gli Asburgo alla morte della duchessa Maria nel 1482.
Confederazione svizzera: un’alleanza tra comunità di montagna di formò nel cuore delle Alpi nord-
occidentali sottoposte alla giurisdizione degli Asburgo. Le prime ad associarsi, per tutelare gli interessi
economici comuni sui pascoli e sui passi alpini, furono quelle di Uri, Unterwalden e Schwyz, da cui poi
presero il nome di “svizzeri” tutti i confederati. L’immediata dipendenza dall’impero della confederazione fu
riconosciuta da Ludovico di Baviera nel 1316. Tra 1332 e 1353 ai tre cantoni iniziali se ne aggiunsero altri
cinque, compresi quelli di importanti centri urbani e mercantili come Lucerna, Zurigo e Berna. Nel corso del
XV secolo l’alleanza si espanse ulteriormente, affrontando conflitti con le potenze signorili confinanti degli
Asburgo, dei Savoia e dei duchi di Milano e Borgogna, grazie anche alla capacità militare dei fanti svizzeri,
che servirono come mercenari anche in molti altri eserciti dell’epoca. Nel 1499 l’imperatore Massimiliano I
riconobbe definitivamente l’autonomia della Svizzera.

Regni dell’Europa orientale: formazioni statali più stabili si affermarono tra XIV-XV secolo anche nella vasta
area europea tra la Scandinavia e i popoli slavi; si trattò però di processi più fragili e deboli di quelli che
caratterizzarono le monarchie occidentali. La crisi del XIV secolo vi accentuò infatti le differenze di sviluppo
rispetto alle altre regioni europee. La popolazione era assai scarsa, dispersa in territori immensi e mal
collegati; le città erano poche, poco più che borghi riuniti intorno ai castelli dei signori. La loro economia
non fu mai in grado di sviluppare manifatture e scambi commerciali avanzati. Nelle campagne si rafforzò
ulteriormente la grande proprietà nobiliare che accentuò forme di sfruttamento del lavoro contadino.
In molte aree si ridussero le libertà rurali in un processo che dal XV secolo vide i coltivatori trasformarsi in
servi obbligati a risiedere sulla terra, indebitati e gravati di nuovi oneri.
La minore articolazione sociale rispetto all’Occidente rese strutturalmente più deboli le istituzioni politiche
dell’Europa orientale. Le rare città ebbero gradi molto limitati di autonomia giurisdizionale, assetti
istituzionali assai semplici, e scarso rilievo politico. Era la nobiltà rurale a eleggere i sovrani, che
dipendevano quindi dal consenso dei nobili, che non furono limitati nei loro privilegi. La nobiltà fondiaria
continuò a esercitare, sia pur formalmente in nome del re, le tradizionali funzioni di giustizia, fiscali, militari
e il controllo sulle istituzioni ecclesiastiche. Un appoggio ai sovrani venne proprio dalle gerarchie
ecclesiastiche, che ne sacralizzarono l’autorità, in particolare attraverso il culto dei santi re, come ad es.
san Venceslao in Boemia o Santo Stefano in Ungheria. L’esercizio dell’autorità monarchica si affidò
principalmente alle assemblee rappresentative (diete), dominate dalla grande aristocrazia, con cui i re
negoziavano accordi. Nel complesso, non si sviluppò un’amministrazione locale autonoma dalla nobiltà e
dipendente dalla corona, e il potere monarchico fu pressoché privo di propri funzionari se non a livello delle
cancellerie centrali. Spesso fu anche difficile fissare durevolmente i confini geografici dei regni, per la
labilità interna delle loro componenti politiche, e per le forti pressioni esterne che subirono da parte dei
tedeschi da ovest e dai mongoli da est.
Regni scandinavi: In Scandinavia, esauritesi le migrazioni vichinghe e normanne, si erano formati tra XI-XII
secolo i regni di Danimarca, Norvegia e Svezia, in concomitanza con l’evangelizzazione delle popolazioni.
A una nobiltà, con tratti feudali, radicata nelle ampie proprietà fondiarie dell’interno, facevano riscontro
élites mercantili che controllavano le città delle coste baltiche. Per fronteggiare l’espansionismo politico ed
economico dei tedeschi, nel 1397 i tre regni strinsero un’unione dinastica, dichiarandola perpetua.
L’unione, detta di Kalmar, sopravvisse per tutto il ‘400 sotto la preminenza danese. Fu proprio la presenza
degli empori commerciali, legati tra loro e gravitanti nell’Hansa, per la forte presenza dei mercati tedeschi, a
rendere debole l’affermazione statale in quest’area.
Lituania: all’espansione tedesca si erano opposte a lungo con successo le tribù baltiche stanziate in
Lituania, da cui cominciò la reazione delle popolazioni orientali contro le pressioni esterne. Essa conobbe
una notevole espansione verso sud-est, annettendo vari principati russi nelle attuali regioni di Ucraina e
Bielorussia; inoltre sconfissero i tartari, estendendosi nella seconda metà del ‘300 fino al Mar Nero.
Polonia: la Polonia aveva superato la frammentazione politica grazie alla restaurata autorità della dinastia
dei Piasti (1320), sotto cui fu ricostruita una notevole unità territoriale. Il re contrastò il potere dei grandi
signori territoriali appoggiandosi alla nobiltà e dispiegando un primo apparato di funzionari. Diede al paese
una legislazione unitaria (1347), favorì la ripresa economica delle città (ex. Lublino, Cracovia), presto
entrate nell’Hansa, e fondò a Cracovia un’università (1364). Dopo un travagliato interregno, fu la grande
nobiltà a conferire la corona al duca di Lituania, che sconfisse i Cavalieri teutonici a Tannenberg (1410).
Dopo l’acquisizione di Danzica (1466), la sua dinastia costituì un regno esteso dal Baltico al Mar Nero.
Ungheria: il regno di Ungheria conobbe fasi alterne di espansione e di crisi. Nessuna dinastia riuscì ad
affermarsi stabilmente, e il potere rimase saldamente in mano alla grande nobiltà, che fu sempre in grado
di condizionare l’azione dei re. Su pressione dei papi francesi, la corona pervenne nel 1309 a un ramo degli
Angiò, che la mantennero fino al 1387 e che, instaurando con la nobiltà rapporti feudali, promossero lo
sviluppo delle città. Dopo la catastrofica sconfitta subita contro i turchi (Mohács, 1526), il regno di Ungheria
fu stabilmente annesso al dominio imperiale degli Asburgo.
Da Mosca alla Russia: fra i vari principati tributari del khanato dell’Orda d’oro, nel corso del XIV secolo
emerse con sempre maggiore autonomia il ducato di Mosca, nel cuore del territorio russo all’incrocio dei
traffici tra i mari Baltico, Nero e Caspio. Il duca Ivani I (1325-41), capace di incrementare la pressione
fiscale sulla nobiltà e sul clero per pagare i tributi ai tartari e ottenerne aiuto militare per incorporare gli altri
principati, ottenne in cambio dal khan mongolo il titolo di “principe di Mosca e di tutte le Russie”. Agli inizi
del XV secolo il ducato di Mosca aveva raggiunto una vasta estensione. Con Ivan III il Grande (1462-1505)
l’egemonia moscovita si consolidò: nel 1478 sottomise il principato di Novgorod, l’unica città mercantile e
artigiana russa; nel 1480 con la vittoria militare contro l’Orda d’oro si rese di fatto indipendente; sconfitto il
granduca di Lituania, nel 1494 fu riconosciuto come “zar di tutta la Russia”; nel 1497 pubblicò un codice di
leggi che rafforzò il potere monarchico a scapito dell’antica nobiltà, favorendo l’emergere di una piccola
nobiltà vincolata al servizio militare e civile della corona.
Un appoggio determinante all’affermazione dell’autorità dei duchi moscoviti fu dato dalla Chiesa russa
ortodossa. Ivan I ne spostò la sede, facendo di Mosca il punto di riferimento religioso di tutta la Russia.
Come a Bisanzio, la gerarchia ecclesiastica era strettamente legata al potere politico, e svolse
un’importante funzione di unificazione nazionale sul piano religioso e culturale. Il duca rifiutò così di
accettare l’unione con la Chiesa latina sotto l’autorità del pontefice di Roma, sancita dal concilio di Firenze
(1439), che ne avrebbe ridotto l’influenza sull’episcopato russo. Quando nel 1453 Costantinopoli cadde
nelle mani dei turchi, Mosca ne raccolse l’eredità divenendo il centro indiscusso del cristianesimo orientale:
dal 1459 la sede metropolitica di Mosca rivendicò la totale indipendenza sia da Roma che da
Costantinopoli. Così il matrimonio di Ivan III il Grande con la principessa bizantina Zoe Paleologa nel 1472
fornì ai teologi moscoviti il pretesto per elaborare la teoria di Mosca come “terza Roma” alla guida del
popolo cristiano.

Capitolo 27: un sistema politico fragile

Le “anomalie” italiane: negli ultimi secoli del medioevo l’Italia fu protagonista di una serie di processi politici
che la differenziarono profondamente dal resto dell’Europa occidentale. Essi contribuirono a farne una
regione avanzata di civiltà, ma anche a rafforzarne alcuni caratteri strutturali che la resero più debole
rispetto ai grandi stati europei. Le “anomalie” italiane possono essere sintetizzate sostanzialmente così: le
città furono troppo forti, le monarchie troppo deboli. Le città del centro-nord conobbero tra XII-XIV secolo
uno straordinario sviluppo, senza eguali nell’Europa del tempo, ponendosi all’avanguardia per le ricchezze,
i traffici internazionali, le affinate tecniche finanziarie, oltre che per le avanzate esperienze di autogoverno e
il primato artistico e letterario. A differenza degli altri paesi europei le città furono anche protagoniste del
processo di ricomposizione territoriale. Ma mentre nelle grandi monarchie europee i centri mercantili
avevano visto garantita la possibilità di un’intensa attività commerciale, con ampi margini di autonomia,
all’interno di stati più ampi che le difendevano militarmente e le tutelavano economicamente, le grandi città
mercantili e manifatturiere italiane si dovettero trasformare loro stesse in stati territoriali tra XIV-XV secolo,
con largo dispendio di risorse economiche e a costo di non indolori ristrutturazioni degli assetti politici.
Al contempo, il rafforzamento delle monarchie sembrava avvicinare l’Italia meridionale all’Europa per
l’analogia dei processi di affermazione del potere regio in un contesto di forte articolazione dei soggetti
politici e dei corpi territoriali. Ma per controbilanciare la perdurante potenza della nobiltà i sovrani
meridionali non poterono avvalersi nella stessa misura dell’appoggio delle città e della forza dei gruppi
dirigenti urbani. Ai sovrani meridionali mancò cioè l’appoggio decisivo di una forte componente borghese
nella costruzione di solidi assetti statali. Altra peculiarità italiana fu la presenza precoce di uno stato della
Chiesa, che sempre operò a difesa della propria sopravvivenza e che si frappose tra l’Italia delle città e
degli stati territoriali e quella dei regni. La realtà istituzionale italiana fu dunque policentrica, come quella
dell’area tedesca. Ma se in Germania la sopravvivenza della sovranità imperiale fornì una cornice di
riferimento, in Italia nessuna delle forze statali risultò abbastanza forte da egemonizzare le altre, e tutte
furono in grado di contrastare l’espansionismo altrui. Lo stesso passaggio dai comuni agli stati regionali
confermò la vocazione al policentrismo politico della penisola, e tale processo avvenne in significativa
sincronia con la formazione delle grandi monarchie a carattere nazionale nel resto d’Europa.
Nel corso del XV secolo le grandi monarchie europee avevano raggiunto un grado avanzato di unificazione
territoriale, governando su paesi estesi, popolati da milioni di sudditi, e potendo contare su entrate fiscali
cospicue. Gli stati regionali italiani erano invece entità territoriali di media e piccola dimensione che non
potevano mettere a disposizione dei loro governi risorse umane e finanziarie analoghe a quelle delle grandi
monarchie d’Oltralpe. Alla fine del XV secolo l’Italia era un paese ancora molto ricco, al centro dei traffici
mediterranei e un’area strategica nei confronti dell’aggressiva potenza turca. Per questo divenne uno degli
obiettivi della lotta per l’egemonia continentale tra le grandi monarchie nazionali. L’Italia aveva conosciuto
attacchi da parte di potenze estere anche nei secoli precedenti: dall’impero, dagli Angiò e dagli Aragonesi.
La differenza era che alla fine del ‘400 si mossero verso la Penisola stati potenti capaci di effettuare
conquiste territoriali stabili e di incorporarle entro i propri confini. Gli stati italiani non furono in grado di
reggere l’urto: sul piano militare le grandi monarchie disponevano ormai di eserciti professionali e
permanenti, meglio organizzati ed equipaggiati, facendo ricorso alle nuove armi da fuoco; gli stati italiani si
affidavano invece ancora a eserciti di mercenari. Sul piano politico la mancata unificazione territoriale
costituì un grave elemento di debolezza, aggravata inoltre dallo stato di costante divisione e conflitto tra i
vari stati regionali. Nel giro di pochi decenni l’indipendenza di molti stati venne meno e numerose regioni
furono poste sotto il dominio straniero per molti secoli.
Frammentazione politica: a ostacolare i tentativi di costruire uno stato italiano di grandi dimensioni si pose
sempre il papato, che vedeva minacciato il proprio dominio territoriale (gran parte di Lazio, Tuscia, Umbria,
Marche e Romagna). A orientare la politica pontificia fu dalla metà del ‘200 l’alleanza con la corona
francese in funzione antimperiale, alleanza che non venne meno con la fine della dinastia sveva, ma che
anzi si allargò in Italia al regno angioino in Sicilia e a grandi città del centro-nord. In questo modo, anche
durante il periodo avignonese, i pontefici poterono mettersi al centro di un sistema politico sovranazionale,
imperniato sulle corti di Parigi, Avignone e Napoli e sul ruolo finanziario di Firenze. La lunga stagione dello
scisma fece però deporre al papato ogni residua ambizione universalistica. Da allora la sua azione politica
si limitò allo scenario italiano, puntando a un controllo più saldo del suo stato territoriale.
Dagli anni ’60 del ‘200 una presenza determinante nel sistema politico italiano fu la dinastia angioina.
Investito dal papa del regno di Sicilia, Carlo I (1266-85) se ne impossessò sconfiggendo gli ultimi svevi a
Benevento (1266) e fissando a Napoli la capitale. Da lì egli coordinò un’azione politica ad ampio raggio che
lo portò a far riconoscere la propria autorità anche a molte città comunali: in Piemonte, Toscana (tra cui
Firenze), dove agì da vicario imperiale, e in Lombardia (1260-’80). Fu proprio da quegli anni che il termine
“ghibellino” cominciò ad essere usato per indicare i nemici dell’alleanza che si era stretta tra la casata di
Francia, il papato e Firenze. Dopo la crisi seguita alla perdita della Sicilia (1282), il nipote Roberto I (1309-
43) rilanciò la presenza regia nell’Italia comunale, fronteggiando la campagna italiana di Enrico VII e
rinnovando la signoria angioina su varie città, tra cui Firenze, Brescia, Asti e Piacenza. La cultura e le
istituzioni politiche di impianto monarchico condizionarono profondamente le realtà cittadine.
Dopo l’estinzione della dinastia sveva, gli imperatori si riaffacciarono in Italia solo nella prima metà del ‘300;
la discesa di Enrico VII di Lussemburgo tra il 1310-13 fu ispirata dal programma di pacificare le lotte interne
alle città sotto la sovranità imperiale. Esso si infranse però contro la resistenza dell’alleanza guelfa guidata
da Firenze e da Roberto d’Angiò, re di Napoli. L’ultimo imperatore a farsi incoronare a Roma fu Carlo IV di
Lussemburgo (1355) che, consapevole di poter esercitare un potere effettivo solo sulla Boemia e su poche
altre aree tedesche, rinunciò ad ogni ambizione di effettiva autorità sull’Italia.
L’alleanza potente che si venne a creare tra il papato e gli Angiò fu all’origine di un processo di progressivo
coinvolgimento di tutte le realtà politiche italiane in due grandi schieramenti: da un lato quello guelfo, che
inquadrò gli alleati dei sovrani angioini e dei pontefici; dall’altro quello ghibellino, dove militarono coloro che
si opponevano all’altro fronte nella speranza di un rinnovato intervento imperiale in Italia. Tra gli ultimi
decenni del ‘200 e i primi del ‘300 le parti che all’interno delle città lottavano per il potere si inserirono
progressivamente in queste ampie coordinazioni politiche, che collegavano realtà tra loro separate offrendo
aiuto militare alle parti in conflitto e supporto ai fuoriusciti. Dopo il 1266 i guelfi assunsero il potere nella
maggioranza delle grandi città e vi restarono perlomeno fino alla discesa dell’imperatore in Italia nel 1310,
senza che i ghibellini riuscissero a scalzarli. Anche nel regno meridionale si diffusero le parti dei guelfi e dei
ghibellini, in seguito alla rivolta che nel 1282 portò alla divisione territoriale del regno tra la Sicilia e il
Mezzogiorno continentale. Il riaffacciarsi degli imperatori in Italia offrì l’occasione ai signori cittadini di
rafforzare la propria autorità attraverso l’attribuzione del titolo di vicario, in cambio di cospicui tributi.
La pratica fu ripresa dai successori e poi imitata anche dai pontefici: sui signori si riversò nel corso del XIV
secolo una gran quantità di legittimazioni vicariali che ne affrancarono l’autorità dalla legittimazione loro
conferita dai consigli cittadini. Ciò contribuì in maniera determinante a mutare la qualità dei poteri signorili,
allentando i rapporti e il grado di consenso e di legittimazione dei signori con la comunità cittadina, e
disperdendone la capacità di interpretarne interessi e aspirazioni. Irreversibili divennero fenomeni come la
dinastizzazione delle cariche, la creazione di organi di governo dipendenti direttamente dai signori, lo
svuotamento di poteri delle assemblee cittadine, l’abolizione di uffici comunali, la formazione di vere e
proprie corti, nel quadro di un tangibile consolidamento autoritario del potere. Ciò fece emergere, nel
lessico politico delle città italiane e nella dottrina politica e giuridica della prima metà del ‘300, i termini
“tiranno/tirannide”, in cui rifluì la rielaborazione che del pensiero aristotelico aveva condotto il teologo
Tommaso d’Aquino nel secolo precedente: è tirannica ogni forma di governo nella quale chi detiene il
potere lo esercita nel proprio interesse e non per il bene comune; è dunque l’abuso di potere, il perseguire
il bene proprio non assicurando né la giustizia né la pace, a connotare come tirannico il regime.
Il processo di ricomposizione territoriale che altrove in Europa fu realizzato dai sovrani e dai principi
territoriali, nell’Italia centro-settentrionale fu avviato dalle città che tra XII-XIII secolo costituirono un proprio
contado, assoggettando i signori, le comunità rurali e gli altri poteri presenti sul territorio. A cominciare dagli
anni ’30 del XIV secolo, alcuni centri urbani maggiori e alcuni signori potenti ridussero ulteriormente la
frammentazione politica sottomettendo altre città, comunità e signorie rurali. Dall’intensa competizione
politica e militare che durò fino alla metà del XV secolo emerse un sistema politico centrato su pochi stati di
medie dimensioni regionali e su alcune formazioni politiche più piccole. A prevalere furono le realtà
demografiche ed economiche più forti, capaci di adattare le proprie istituzioni alle necessità di maggiori
entrate per finanziare l’espansione territoriale, e anche di attuare un disciplinamento della società politica.
A differenza di altre regioni europee, nell’Italia centro-settentrionale i principati territoriali ebbero minore
importanza nell’organizzare politicamente il territorio. Essi si svilupparono soprattutto nelle zone alpine e
appenniniche, ai margini dell’Italia delle autonomie cittadine. Principati ecclesiastici furono quelli dei
vescovi di Bressanone e Trento, gravitanti nell’area imperiale, e quello del patriarcato di Aquileia, che
governò gran parte del Veneto orientale, e che fu assorbito nel 1420 dallo stato di Venezia. Un marcato
impianto feudale ebbe anche la signoria della casata degli Este, che giunse a inglobare tra XIII-XV secolo
le città di Ferrara, Modena, Reggio e Rovigo. Nell’Appennino tosco-romagnolo fu importante il dominio
signorile dei conti Guidi; in Lunigiana quello dei Malaspina. Nel Piemonte subalpino fra varie contee minori
si distinse il marchesato di Monferrato e soprattutto il dominio dei conti di Savoia.
L’Italia del sud era da tempo organizzata politicamente in forma monarchica e tendenzialmente accentrata.
Il titolo regio poneva i sovrani meridionali per dignità al di sopra degli altri signori italiani, rendendo l’Italia
meridionale più simile al resto dell’Europa occidentale, caratterizzata dalla preponderanza della nobiltà,
dallo sviluppo di assemblee rappresentative e da analoghi processi di formazione in senso statale. Non a
caso fu proprio la metà monarchica del paese a essere investita dalle grandi vicende politiche europee, che
contribuirono a trasformarne gli assetti. Il regno di Sicilia passò dalla dinastia imperiale degli Svevi a quella
francese degli Angiò. L’espansione catalano-aragonese l’investì poi direttamente, determinando la
separazione della Sicilia dalle regioni continentali, rimaste in mano francese nel 1282, inglobando
formalmente l’isola nella corona d’Aragona nel 1409, e infine riunificando il regno per opera del re Alfonso il
Magnanimo nel 1442. Tra XIII-XV secolo si osserva una semplificazione della geografia politica italiana.
La formazione di domini territoriali da parte delle principali città comunali e signorili polarizzò il sistema
politico italiano intorno a 5 stati regionali (centrati su Milano, Venezia e Firenze, stato pontificio e regno di
Napoli e Sicilia) con il contorno di alcune formazioni minori. A differenza di quanto avvenne in altre aree
d’Europa, però, il superamento della frammentazione politica non diede luogo in Italia alla formazione di
uno stato unitario nazionale. La ricomposizione territoriale promossa da una monarchia vi fu frenata dal
forte particolarismo locale, che era l’esito della varietà di situazioni culturali e civili locali che avevano
caratterizzato in modo originale la storia del paese: un particolarismo che caratterizzò non solo le vicende
politiche ma anche quelle dei “corpi” intermedi, vale a dire dei privilegi accumulati e tenacemente difesi
dagli ordini, corporazioni e ceti, e capace pertanto di condizionare e di rallentare i processi di
concentrazione di potere e di formazione statale.

Capitolo 28: gli stati

Gli stati territoriali: rispetto agli stati europei di impianto monarchico, gli stati territoriali italiani presentano
molte analogie e una sostanziale differenza. Anche negli stati italiani le autorità superiori non esercitarono
mai la totalità dei poteri sul territorio, ma la condivisero con una varietà di corpi territoriali in un ordinamento
di tipo dualistico. Con essi le autorità dominanti furono costrette a negoziare patti e concessioni,
riconoscendo ai centri urbani, alle comunità rurali e ai soggetti signorili e feudali, ampie facoltà di governo
locale. La differenza che caratterizzò l’esperienza delle realtà statali italiane fu data invece dal diverso ruolo
che vi giocarono le città. Inoltre, le città italiane che si imposero come dominanti assoggettarono altri centri
urbani, ricchi di tradizione comunale e dotati a loro volta di territori già disciplinati come contadi. Le città si
proposero come interlocutrici privilegiate e dirette delle dominanti, senza la mediazione di strutture
rappresentative come i parlamenti. I rapporti furono intrecciati tra gruppi dirigenti urbani che accrebbero, sia
al centro sia in periferia, la loro natura di patriziati caratterizzati dal controllo oligarchico degli uffici politici.
La costruzione di realtà statali territoriali determinò l’adeguamento delle strutture di governo alle nuove
esigenze. Le campagne militari accrebbero notevolmente le spese, cui le dominanti sopperirono
incrementando i sistemi di accentramento delle ricchezze e di riscossione dei tributi. Furono irrobustiti
anche alcuni uffici centrali, affidati a funzionari specializzati formati in università appositamente fondate, e
la rete degli ufficiali periferici inviati nelle città assoggettate.
I primi tentativi di creare degli stati sovracittadini furono promossi da alcuni signori urbani nella prima metà
del ‘300. I Della Scala a Verona posero dapprima sotto controllo le città del Veneto con Cangrande (1291-
1329) e poi estesero il proprio dominio su Brescia, Parma e Lucca, con il nipote Mastino II (1329-51).
Ducato di Milano: L’espansione maggiore fu quella guidata dall’arcivescovo Giovanni Visconti (1349-54) in
Lombardia, Piemonte, Liguria ed Emilia. Ognuna di queste iniziative suscitò la mobilitazione militare di una
lega avversa di città, che nel caso della guerra contro i Visconti ottenne anche il sostegno del pontefice,
che scomunicò l’arcivescovo Giovanni e bandì una crociata. I domini conquistati furono persi quasi tutti.
L’impulso alla formazione degli stati territoriali italiani fu dato dalla politica espansionistica che caratterizzò
tutta l’esperienza dei Visconti. Fu Gian Galeazzo (1385-1402) a imprimere nuovamente un forte dinamismo
militare al suo dominio che, oltre a comprendere il Canton Ticino, buona parte della Lombardia e del
Piemonte orientale, giunse a comprendere Verona, Vicenza, Padova e Belluno (1387), e spingendosi
nell’Italia centrale ottenendo nel 1400 anche la signoria a Pisa, Siena, Perugia, Spoleto e Bologna.
La tenace resistenza di Firenze fu gratificata dalla morte improvvisa del duca, che ridimensionò le
ambizioni che i suoi ideologi avevano propagandato come intenzione di costituire un regno nazionale
italiano. Le conquiste territoriali furono disperse nuovamente, e solo il secondogenito Filippo Maria (1412-
1447) riuscì a ricompattarle intorno a un profilo più limitatamente lombardo dello stato visconteo.
Nel 1395 Gian Galeazzo Visconti acquistò dall’imperatore Venceslao, per 100.000 fiorini, il titolo di
“principe e duca” di Milano. Il duca poté così utilizzare le relazioni feudali per legare a sé sia le signorie
locali sia le città e le comunità rurali. Il duca consolidò la propria autorità riformando gli statuti locali,
controllando i benefici ecclesiastici, rafforzando i poteri degli organismi centrali (consiglio di giustizia,
camera ducale e consiglio segreto). Negli apparati centrali e in quelli periferici nominò individui provenienti
da tutto il ducato. Milano, infatti non era la dominante, ma solo la residenza del duca, e il patriziato
milanese fu coinvolto in modo non esclusivo nel governo dello stato: non a caso esso diede un ultimo
segnale di vitalità alla morte, senza eredi, di Filippo Maria, istituendo una “repubblica ambrosiana”.
Res publica, repubblica, repubblicanesimo: il termine latino res publica era usato nell’antichità come
sinonimo di “stato”; anche nel medioevo designò le varie forme politiche dell’ordinamento pubblico, senza
indicare nessuna forma specifica di governo. È pertanto improprio usare il termine per indicare il regime
politico delle città comunali italiane. Fu solo nella Firenze impegnata nella guerra contro i Visconti che i
cancellieri Salutati e Bruni elaborarono consapevolmente l’ideale di “repubblicanesimo” come forma di
governo antagonista a quello signorile, come un’esperienza di “libertà” capace di opporsi alla tirannia. Per
questa via entrò in uso indicare come “repubbliche” le città rette dai governi collegiali (Firenze, Genova,
Lucca, Venezia e per un breve periodo Milano) riservati a una stretta oligarchia che, come suggeriva
Cicerone in termini ideali, si configurava come una comunità di persone, tra sé associate per osservare la
comunanza degli interessi nella giustizia, che detengono il potere e dispongono di uguali diritti.
Stato di Firenze: Firenze venne formando il proprio stato territoriale con maggiore continuità e più saldo
controllo rispetto a quello visconteo. L’impulso, per un gruppo dirigente fatto di mercanti e non di guerrieri,
fu eminentemente difensivo, volto a tutelare l’indipendenza della città e la libertà dei suoi commerci.
Ciò spiega perché il dominio fiorentino rimase sempre subregionale, e perché furono frequenti gli acquisti
in denaro, come nel caso di Arezzo, Prato e Livorno, rispetto alle sottomissioni per via militare.
L’offensiva viscontea determinò una decisiva accelerazione, con l’acquisizione di Arezzo e il controllo di
Volterra nel 1385, la definitiva sottomissione di Pistoia (1401), la conquista di Pisa (1406), e
l’assoggettamento entro il 1421 di centri come Cortona, Castrocaro e Livorno. La debolezza del territorio
assoggettato – a causa della crisi demografica che colpì la Toscana – consentì ai fiorentini di imporre una
struttura centralizzata di governo. I contadi delle città sottomesse furono separati dai loro centri urbani e
amministrati direttamente dal gruppo dirigente fiorentino, attraverso una rete di uffici territoriali riservati al
patriziato della dominante anche perché fonte di lucro. Il frazionamento del dominio rispondeva all’idea di
governarlo come un contado, patteggiando con le singole località le condizioni di assoggettamento.
Stati di Venezia: anche Venezia aveva coltivato da secoli la propria vocazione mercantile, concentrando
tutti i suoi sforzi nella costruzione, nei porti del Mediterraneo orientale, di un dominio di mare funzionale a
tutelarne i commerci. Nell’Adriatico, Venezia controllava tutte le coste istriane e dalmate. La minaccia
portata da Gian Galeazzo Visconti fin sui margini della laguna determinò nel gruppo dirigente veneziano la
profonda svolta strategica di formare un dominio anche in Terraferma, dove Venezia si era limitata ad
occupare Treviso (1339). Tale scelta rappresentò una cesura nella storia politica della città, che tra 1404-
28 assoggettò Belluno, Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo e territori più marcatamente rurali e
signorili come il Cadore, il patriarcato di Aquileia e il Friuli.
L’ampiezza del dominio territoriale e la proiezione mediterranea dello stato, che si estendeva dalla
Lombardia all’Albania e alle isole dell’Egeo, indussero i veneziani ad adottare un governo pragmatico.
Nella Terraferma il patriziato veneziano rispettò gli equilibri locali, limitandosi a controllare direttamente solo
i podestà delle città e i rettori delle aree signorili, lasciando ampie autonomie ai ceti dirigenti dei comuni
assoggettati, che continuarono ad amministrare i propri contadi. Attraverso i suoi ufficiali, Venezia si inserì
spesso nelle questioni di competenza dei consigli municipali e nei conflitti tra le città soggette i loro contadi,
finendo di fatto con l’esercitare un governo anche dove le istituzioni continuavano a rimanere in mano ai
patriziati locali. Un apposito consiglio di “savi” di Terraferma affiancò nel XV secolo il doge per la gestione
del territorio, e il doge ottenne nel 1437 il titolo di vicario imperiale, che consentì di far dipendere
feudalmente dalla “repubblica” le aree signorili del dominio.
Altri stati signorili: tra i pochi stati che sopravvissero alla semplificazione della geografia politica dell’Italia
settentrionale ebbero un certo rilievo tre domini signorili. Di impianto cittadino erano quelli dei Gonzaga e
degli Este. L’autorità dei primi si limitò a Mantova e al suo territorio, e si fregiò del titolo di marchesi
acquistato dall’imperatore nel 1433. La signoria dei secondi si centrò soprattutto su Modena e Reggio, di
cui divennero duchi nel 1452, e su Ferrara, il cui titolo ducale fu concesso dal papa a Borso d’Este (1471).
Entrambe poterono sopravvivere tra vicini aggressivi solo a prezzo di un cauto immobilismo. La signoria dei
Savoia si era estesa invece sui territori rurali delle Alpi occidentali, strategicamente importanti per la
vicinanza alla Francia. Nel corso del ‘300 il dominio si allargò al Piemonte occidentale, che Amedeo VIII
(1391-1439) espanse anche a Nizza, Pinerolo, Torino e Vercelli.
Stati monocittadini: intercalati agli altri stati territoriali sopravvissero anche alcuni stati monocittadini, ossia
perduranti domini di città che non ne sottomisero altre ma che si limitarono a controllare territori rurali poco
più ampi dei contadi di partenza. Fu il caso, per esempio, di Lucca e di Siena, che subirono la formazione
del dominio di Firenze pur riuscendo a conservare la propria indipendenza. I loro gruppi dirigenti, dominati
da mercanti attivi a livello internazionale, accentuarono le caratteristiche del patriziato oligarchico.
Genova, invece, pur minacciata dai Visconti non si trasformò in una potenza territoriale come Venezia, ma
si limitò a controllare i centri costieri della Liguria e della Corsica. Il suo patriziato si sottomise spesso nel
XV secolo a signorie esterne, dai marchesi del Monferrato ai Visconti, ai re di Francia agli Sforza.
Alla debolezza politica continuò a corrispondere la prosperità economica degli armatori e dei banchieri.

Stato pontificio: lo stato pontificio aveva cominciato ad acquisire consistenza nel corso del XIII secolo,
culminando nella concessione della Romagna da parte dell’imperatore Rodolfo d’Asburgo nel 1278.
Il dominio comprendeva formalmente sette province con a capo un rettore, ma nei fatti l’esercizio
dell’autorità pontificia era assai discontinuo per l’eterogenea presenza di nuclei autonomi di potere: signorie
rurali e feudali nei territori più meridionali del Lazio e in Tuscia, caratterizzati dall’economia pastorale, ma
anche in Romagna; città di tradizione comunale come Perugia e Ancona; signorie cittadine come quelle di
Orvieto, Forlì e Faenza. Pur riconoscendo la sovranità del pontefice, queste forze si erano affermate
localmente collegandosi con potenze politiche esterne, spesso ostili al papato come quelle che gravitavano
intorno ai ghibellini. Lo spostamento ad Avignone della corte pontificia impoverì il dominio, e Roma in
particolare, delle cospicue entrate economiche legate alla sua presenza, e ne acuì le condizioni di
disordine politico. Il senato, l’organo consigliare del comune, tornò in balìa delle fazioni cittadine capeggiate
dalle grandi famiglie dei Colonna, dei Caetani e degli Orsini, tutte dotate di vasti possedimenti terrieri.
La città stessa ripiegò la sua ridotta vita sociale e politica.
Una vicenda politica particolare prese corpo da un’insurrezione popolare che scoppiò a Roma nel 1347,
capeggiata da un notaio di umili origini, Cola di Rienzo. Con il consenso della curia avignonese si
impadronì del Campidoglio, sede del potere politico, proclamandosi “tribuno della pace, della libertà e della
giustizia”. Cola si propose di riunificare una “repubblica romana” che doveva riunificare l’Italia centrale
pacificandola e restaurando l’ordine. L’iniziativa ebbe successo per le riforme dell’amministrazione cittadina
che Cola attuò seguendo una politica antinobiliare. Vittima di una congiura aristocratica che lo allontanò
dalla città (1350), egli vi tornò dopo pochi anni (’54) inviato da Innocenzo VI con la carica di senatore per
appoggiare l’opera di ripristino dell’autorità pontificia che era stata avviata dal cardinale Albornoz. Il suo
governo autoritario e il forte fiscalismo gli alienarono però la simpatia del popolo, che lo uccise nel corso di
una sommossa. Ai dilaganti episodi di violenza o di ribellione all’autorità pontificia la curia avignonese cercò
di porre rimedio con l’invio di legati provvisti di ampi poteri per riaffermare la sovranità e riorganizzare lo
stato (1330s). Il cardinale Egidio di Albornoz seppe gestire la situazione e riuscì a sottoporre la città al
controllo dei rettori provinciali, occupandone qualcuna militarmente, e a costringere i signori locali a
riconoscere l’autorità pontificia (1353); promulgò inoltre (1357) nel parlamento convocato a Fano le
cosiddette Costituzioni egidiane, una raccolta di norme che ribadiva le prerogative del governo pontificio e
riconosceva alcune autonomie e diritti ai comuni e ai signori. Le costituzioni diedero allo stato pontificio una
configurazione destinata a durare per secoli, ma i risultati della restaurazione del cardinale si rivelarono
effimeri dopo la sua morte (1367). Durante il lungo periodo dello scisma la sovranità pontificia rimase quasi
ovunque meramente nominale, e solo alla metà del XV secolo il controllo delle terre pontificie tornò a
essere effettivo. come negli altri stati territoriali, i pontefici negoziarono con le città, le comunità e i signori
locali accordi e patti, in cui si regolarono i rapporti tra le prerogative degli ufficiali papali in campo fiscale e
giudiziario, e le autonomie dei poteri locali. Grandi centri come Bologne e Perugia mantennero il controllo
dei propri contadi, e le loro antiche magistrature continuarono a governare in sostanziale autonomia in
cambio della giurata fedeltà al papa. Peraltro, il dominio pontificio fu corroborato dalla pratica nepotistica di
assegnare a parenti e congiunti dei papi uffici e province da governare. In tal modo l’interesse dei familiari
coincideva con le necessità di conduzione dello stato pontificio e dava maggiore consistenza al suo
governo nel territorio. Un particolare rilievo assunsero nella geografica dello stato pontificio le esperienze
della Romagna e delle Marche. La debolezza dell’autorità papale in quelle aree permise ad es. ai Malatesta
signori di Rimini di estendere il loro dominio su Pesaro, Cesena e Fano, e ai Montefeltro di creare un vasto
territorio a cavallo tra Romagna, Marche e Umbra e centrato su Urbino.
In genere questi signori traevano i loro titoli di legittimità dalla carica di “vicario” che i pontefici concessero
loro per inquadrarli sotto la loro autorità. Una connotazione comune a quasi tutte queste stirpi fu l’attitudine
militare, che fece di alcuni loro membri dei condottieri che si distinsero nelle guerre italiane del XV secolo.

Regni: Carlo I d’Angiò si insediò militarmente nel regno di Sicilia nel 1266, con l’appoggio politico del
papato e il sostegno economico dei banchieri fiorentini. Egli concesse terre in feudo ai cavalieri francesi
che lo avevano seguito nell’impresa, affidò ad ecclesiastici francesi vescovadi e abbazie, e inserì burocrati
francesi nell’amministrazione regia; tali misure suscitarono un vasto malcontento nelle popolazioni locali,
soprattutto in Sicilia dopo che la capitale fu spostata da Palermo a Napoli. Una parte consistente
dell’aristocrazia siciliana mantenne viva l’identità ghibellina che si manifestò con un’insurrezione armata
(1268) quando lo svevo Corradino tentò di riconquistare il regno. Si spiega pertanto perché, dopo la rivolta
contro i francesi che scoppiò a Palermo all’ora del vespro del giorno di Pasqua del 1282, i siciliani chiesero
aiuto a Pietro III d’Aragona, una corona che stava attuando una politica di espansione mediterranea in
concorrenza con gli Angiò. La rivolta dei Vespri aprì un lungo conflitto internazionale, di cui segnò una
svolta importante l’offerta della corona di re di Sicilia da parte delle aristocrazie urbane siciliane al figlio del
re aragonese che, in continuità filosveva, si dichiarò Federico III (1296-1337). Affidata a un ramo cadetto
degli Aragona, la corona siciliana si separò da quella di Barcellona, dando vita a un regno autonomo detto
Trinacria. Tale assetto fu ratificato dalla pace di Caltabellotta del 1302, che sancì il distacco del regno di
Trinacria da quello angioino del Mezzogiorno continentale. La pace prevedeva anche la restituzione
dell’isola agli Angiò dopo la morte di Federico III, ma quest’ultimo si alleò con Enrico VII in funzione anti-
angioina, avviando così una nuova guerra. Per consolidare il consenso e la sua autorità, Federico III
potenziò il parlamento, sul modello pattizio delle cortes catalane che prevedeva un maggior coinvolgimento
delle comunità urbane, decentrò una serie di funzioni amministrative alle città regie (demaniali) e si avvalse
dei loro cittadini nelle attività di corte per controbilanciare il potere della feudalità. Alla sua morte la nobiltà
si divise in fazioni che si batterono per dividersi i maggiori uffici dello stato e per le risorse che provenivano
dal territorio e dalle città, fenomeno che la monarchia non riuscì a contrastare. Dopo la morte di Federico IV
nel 1377 i capi delle grandi famiglie baronali si divisero il regno, governandone le diverse aree col titolo di
vicari, in una situazione di marcata anarchia.
Pur cercando a lungo di riconquistare la Sicilia, ormai perno del fronte aragonese e ghibellino, gli Angiò si
concentrarono sul governo del regno di Napoli, che diventò il cuore politico del guelfismo italiano.
Nei parlamenti che i sovrani furono costretti a convocare sin dalla fine del ‘200, la nobiltà, sia rurale sia
urbana, riuscì ad ottenere ampi privilegi fiscali e giudiziari. Inoltre, per finanziare l’onerosa politica
internazionale, i sovrani dovettero ricorrere frequentemente alle investiture feudali in cambio di introiti che
tamponavano momentaneamente le necessità finanziarie della corona, ma ne indebolivano ulteriormente
l’autorità. I re s’indebitarono crescentemente anche con i banchieri fiorentini, che in cambio delle ingenti
anticipazioni ricevettero privilegi doganali, feudi e uffici, finendo con esercitare una pesante influenza sulla
corte, dove era potentissima la famiglia fiorentina degli Acciaiuoli.
Il regno di Napoli conobbe un lungo periodo di splendore con Roberto I (1309-43), considerato uno dei
monarchi più saggi della cristianità, capo riconosciuto del guelfismo italiano; signore per molti anni di
comuni come Firenze, Genova e Roma, oltre al governo del regno, esercitò un dominio diretto anche sulla
Provenza e parte del Piemonte. Napoli divenne uno dei centri più importanti della vita intellettuale: presso
la corte di re Roberto furono ospitati giuristi, letterati e artisti come Cino da Pistoia, Petrarca, Boccaccio,
Giotto, Simone Martini. La città emerse anche come piazza commerciale importante, dove avevano filiali e
rappresentanze le grandi compagnie mercantili internazionali.
Profondo fu anche il rinnovamento urbanistico con lo spostamento del centro politico nel nuovo edificio del
Castelnuovo (oggi noto come Maschio angioino).
Un interessante evoluzione subì la condizione politica delle città meridionali con l’avvento delle nuove
dominazioni, la cui relativa debolezza creò gli spazi per il rafforzamento delle comunità locali.
Dotate di una limitata autonomia sotto i sovrani normanni e svevi, le universitates cominciarono a darsi
dalla fine del XIII secolo propri organi di governo riconosciuti dalla monarchia: quasi ovunque un consiglio e
magistrature collegiali che guidarono le comunità e gestirono i rapporti con la corte e con i funzionari regi
locali. Le città siciliane, governate da un collegio e da un magistrato eletti dalla comunità, conobbero un
significativo sviluppo politico a partire dall’età di Federico III che ne coinvolse l’élite nel governo del regno.
Nulla di paragonabile ai comuni, ma una condizione che le avvicinava a quella delle città che nello stesso
periodo nell’Italia centro-settentrionale venivano assoggettate dagli stati territoriali.
Punto debole delle città meridionali rimase lo scarso sviluppo, rispetto alle società urbane comunali, delle
componenti mercantili e artigiane, che solo in alcuni centri si organizzarono in corporazioni di mestiere.
In tutte le città si allargò invece sempre di più la forbice tra aristocrazia urbana, legata alla monarchia
dall’assunzione di uffici, e le moltitudini che ne costituivano le plebi.
Sia il regno di Napoli sia quello di Sicilia costituivano due stati territorialmente compatti ma caratterizzati
dalla debolezza del potere regio. Questa fu ulteriormente accentuata dalle crisi dinastiche che si aprirono
verso la fine del XIV secolo. Nel primo esse furono complicate dalle divisioni tra vari rami internazionali
degli Angiò: la contesa si aprì alla morte senza eredi di Giovanna I, nel 1381, tra il duca d’Angiò e il duca di
Durazzo, che riuscì a imporsi cingendo la corona nel 1414. In Sicilia, una spedizione militare guidata nel
1392 da Martino, nipote del re d’Aragona e marito della figlia di Federico IV, sconfisse i baroni e gli permise
di riorganizzare il regno dotandolo nuovamente di un parlamento. Alla sua morte (1409) l’isola fu riunita al
regno di Aragona e sottoposta all’amministrazione di un viceré da parte di Ferdinando I.
Vicende proprie ebbe invece la conquista aragonese della Sardegna. Concessa loro in feudo da Bonifacio
VIII nel 1297, gli aragonesi ne cominciarono la conquista nel 1323, accordandosi con Pisa, che mantenne il
possesso di Cagliari, ma subendo le azioni di pirateria dei genovesi. Soprattutto, fu tenace la resistenza
opposta dai sardi, organizzati in regni detti “giudicati”; dei quattro originari era sopravvissuto alle invasioni
straniere solo quello di Arborea nella parte centro occidentale dell’isola. Si trattava di un regno forte,
capace di sconfiggere le milizie aragonesi e istituzionalmente sviluppato (1392: la giudicessa emanò la
Carta de logu, cioè del territorio, una raccolta delle consuetudini civili e penali, poi estesa a tutta l’isola dagli
aragonesi, dopo che conquistarono definitivamente l’isola nel 1421).
Alla morte di Giovanna II d’Angiò (1414-35) si scatenò un duro conflitto tra Renato d’Angiò, sostenuto dal
papa e dal re di Francia, e Alfonso V d’Aragona, re di Sicilia (1416-58), che ne uscì vincitore.
Alfonso V, detto il Magnanimo, ricostituì l’antica unità del regno meridionale, la Sardegna e i vasti possessi
della corona d’Aragona, venendosi a trovare proiettato nella rete mediterranea dei commerci catalano-
aragonesi. Alfonso stabilì la propria corte a Napoli, che tornò a rifiorire anche sul piano culturale.
Il dominio angioino e aragonese integrò l’economia meridionale nelle reti commerciali internazionali dei
mercanti toscani e catalani, con indubbi aspetti positivi. Nel regno di Napoli, dove già alcune aree
gravitavano verso poli economici esterni (Venezia, Firenze, Roma), l’economia conobbe un’accelerazione,
testimoniata dalla coniazione di una nuova moneta d’argento. In Puglia e in Campania l’agricoltura non
conobbe particolari specializzazioni, per la tendenza dei latifondisti a non diversificare le colture; in Sicilia,
invece, l’agricoltura si specializzò maggiormente, alimentando un mercato regionale integrato.
È indubbio che la presenza dei mercanti forestieri, toscani in particolare, frenò lo sviluppo di una solida
imprenditoria meridionale. Deboli furono sempre la produzione di manufatti, largamente importati, e la
presenza di mercanti meridionali nelle piazze estere.

Crisi del sistema: la competizione politico-militare che nei primi decenni del ‘400 aveva forgiato la
formazione degli stati territoriali italiani conobbe un’ulteriore accelerazione nei decenni centrali del secolo,
quando l’alleanza tra Visconti e Aragonesi insediò con le armi sul trono di Napoli Alfonso V nel 1442, e la
morte senza eredi di Filippo Maria Visconti nel 1447 scatenò lo scontro per la successione nel ducato di
Milano. Nel 1450 esso pervenne nelle mani del condottiero marchigiano Francesco Sforza, che aveva
sposato una figlia di Filippo Maria e che era stato chiamato dal patriziato milanese a difendere la fragile
repubblica ambrosiana. La vicenda di Francesco Sforza fu la più compiuta di un fenomeno che caratterizzò
la scena politica italiana del XV secolo, ossia la creazione di domini signorili da parte di condottieri (=
comandanti a capo di soldati mercenari). Alla base era la trasformazione degli eserciti comunali: lo scarso
affidamento delle milizie cittadine, il rischio di armare nemici di parte, le campagne militari sempre più
lunghe, avevano indotto nel corso del XIV secolo mercanti e artigiani ad affidarsi a truppe mercenarie di
professionisti. Dapprima furono guidate da condottieri stranieri reduci dai teatri di guerra europei; a partire
dal 1380 circa gli stati italiani tesero a reclutare comandanti italiani e rendere stabili i rapporti con i
condottieri. Nel 1454 fu stretta una lega tra gli stati situati “infra terminos italicos”, cioè nei confini italiani.
Essa prevedeva una durata di 25 anni rinnovabili, come poi avvenne, e la creazione di un esercito comune
per la difesa da eventuali attacchi dall’estero, a partire dalle mai dismesse rivendicazioni angioine sul regno
di Sicilia. Alla lega, promossa dal duca di Milano, da Venezia e da Firenze, aderirono il papa, il re di Napoli,
il duca d’Este e poi quasi tutti gli altri stati e potentati minori. Si consolidò così l’assetto del sistema politico
italiano incentrato sui cinque stati maggiori: ducato di Milano, stati territoriali di Venezia e di Firenze, stato
pontificio e regno di Sicilia. L’obiettivo di garantire la pace fu sostanzialmente raggiunto per circa 40 anni,
nonostante alcuni conflitti locali e una condizione costante di precario equilibrio.
Le difficoltà di coltivare una pace pur sempre armata furono affrontate rendendo più stretti i rapporti
diplomatici; in tal senso molto si prodigò Lorenzo de’ Medici, la cui famiglia di banchieri aveva affermato sin
dal 1434 a Firenze una signoria, sia pure all’interno di un quadro istituzionale “repubblicano”. La sua abilità
diplomatica nasceva anche dalla consapevolezza che Firenze era lo stato più debole e più esposto al
rischio di perdere la propria indipendenza. Attraverso una stabile alleanza con gli Sforza e con i sovrani
napoletani, Lorenzo riuscì a frenare i tentativi di espansione veneziani e le ambiguità della politica
pontificia. Per un certo periodo il sistema politico disegnato dalla lega italica assicurò stabilità ma non
tranquillità. Negli stati che ne costituivano l’asse diplomatico si susseguirono infatti alcune congiure che
manifestarono la precarietà dei loro assetti interni, ad es. nel 1848 Lorenzo de’ Medici scampò alla
congiura dei Pazzi, famiglia fiorentina che gestiva le finanze pontificie ed era sostenuta dal papa.
A incrinare gli equilibri fu la politica di Sisto IV, che appoggiò il disegno del nipote Girolamo Riario di crearsi
uno stato nell’Italia centrale. Il momento più critico per la tenuta della lega fu la guerra contro Ferrara
avviata nel 1482 dal congiunto interesse di Venezia di far proprie le saline del Polesine, e del Riario di
allargare la signoria di Imola e di Forlì. La pace del 1484 ridimensionò le ambizioni pontificie ma riconobbe
Rovigo e il Polesine a Venezia.
Nell’ultimo decennio del XV secolo l’equilibrio tra gli stati della penisola si ruppe definitivamente portando al
collasso il precario sistema politico italiano. La morte quasi contemporanea di alcuni dei protagonisti che si
erano sempre occupati della ricomposizione dei conflitti – Lorenzo de’ Medici e papa Innocenzo VIII nel
1492, Ferrante d’Aragona nel 1494 – contribuì a rendere ingovernabile la crisi che fu aperta dalla richiesta
di Ludovico il Moro al re di Francia Carlo VIII di Valois di intervenire contro gli aragonesi di Napoli che
rivendicavano il ducato di Milano per via dinastica. Con l’appoggio interessato dei veneziani, il re di
Francia, che rivendicava a sua volta diritti su quello di Napoli in quanto discente degli Angiò, scese col
proprio esercito in Italia (1495), impossessandosi del regno. Il coinvolgimento di una grande potenza
straniera mise a nudo la strutturale debolezza degli stati italiani, più piccoli, meno potenti e divisi tra loro.
La discesa del re di Francia chiuse la fragile stagione dell’equilibrio autarchico e inaugurò un duro periodo
di contesa dei paesi stranieri per il controllo dell’Italia.

Capitolo 29: l’Umanesimo: una discontinuità intellettuale

Un’epoca nuova: fino al XIV secolo gli uomini colti non avevano sviluppato l’idea di vivere in un’epoca
estranea rispetto all’età antica. In effetti, l’impero romano aveva continuato a esistere ad Oriente, irradiando
la propria autorità da Costantinopoli. La Chiesa cristiana istituzionalizzatasi al tempo di Costantino era stata
una realtà onnipresente e in continua espansione. Per secoli gli europei avevano vissuto sentendosi legati
agli ideali dell’impero e della chiesa. La lingua delle relazioni ufficiali e degli intellettuali era quella di Roma,
il latino, insegnato in tutto l’Occidente. Nelle scuole e nelle università, accanto alla Bibbia, erano letti e
studiati i testi degli autori latini e greci.
Una percezione nuova cominciò a farsi strada nel corso del XIV secolo: la sensazione, cioè, che l’età
antica fosse ormai finita. L’impero bizantino si era ridotto alle dimensioni di un piccolo staterello greco
minacciato dai turchi; l’impero romano-germanico si era trasformato anch’esso in una potenza regionale;
Roma era stata abbandonata dai papi. I grandi ideali universalistici, che avevano ordinato la società
europea nell’epoca appena trascorsa, apparivano irreversibilmente tramontati. Il mondo antico iniziò ad
apparire estraneo alla società che si era delineata nei tempi recenti. La coscienza della rottura rispetto
all’antichità cominciò ad accompagnarsi alla volontà di restaurarne i valori positivi e gli ideali di bellezza,
secondo l’idea che fossero irrimediabilmente scomparsi con la fine del mondo antico.
Il confronto con i modelli classici divenne il metro di giudizio di un nuovo movimento intellettuale improntato
ai temi della “rinascita” della civiltà e al ritorno all’antico; maturò per questa via la consapevolezza di vivere
un’epoca nuova, nettamente distinta da quella appena trascorsa. In effetti, i tempi recenti erano stati
dominati da un clima continuo di guerre, pestilenze, carestie e superstizioni. Questa immagine a tinte forti
fu proiettata negativamente anche sui secoli precedenti, creando l’idea di un lungo intervallo che separava
la grandezza degli antichi dall’età della “rinascenza”: l’idea di una “età di mezzo” fra l’antichità e il presente,
di un “medio evo” percepito come fase di declino e di offuscamento dei valori dell’età classica.

Umanesimo: con l’espressione “humanae litterae” si usava indicare il complesso delle discipline classiche
(letteratura, grammatica, retorica, poesia, storia, filosofia), definite “humanae” perché concorrevano alla
formazione dell’uomo. Tali studi ben rispondevano all’aspirazione dei “moderni” ad assimilare lo spirito
degli autori antichi: gli umanisti concepirono sé stessi come coloro che, coltivando le lettere, potevano
realizzare quei sentimenti, quei valori e quegli aspetti del mondo che distinguono l’uomo, per la sua cultura,
dalle altre creature. L’Italia, e in particolare le città comunali e signorili, ebbe un ruolo preponderante nello
sviluppo dell’Umanesimo. Ciò per due ragioni principali: dal XII secolo vi vivevano i maggiori intellettuali
laici dell’Europa occidentale, mentre altrove erano soprattutto gli ecclesiastici a egemonizzare la cultura.
Inoltre, l’Italia era l’area economicamente e socialmente più sviluppata dell’Occidente, senza contare che vi
era concentrata la maggior parte delle vestigia dell’età romana, a perenne e quotidiana memoria della
civiltà degli antichi. Fu proprio la volontà di imitare lo stile del latino antico a introdurre una prospettiva
intellettuale nuova, di cui si fecero interpreti alcuni letterati attivi a Padova, centro culturale più vivace tra
XIII-XIV secolo. Alle prime generazioni di eruditi e letterati fece seguito la grade figura di Francesco
Petrarca (1304-74) che, a doti eccezionali di studioso di testi antichi e di innovatore (teso alla ricerca della
perfezione formale) nella poesia e nella epistolografia in latino e in lingua volgare, seppe unire una
consapevole visione del ruolo degli umanisti, creando intorno a sé una comunità internazionale di
intellettuali, legati tra loro da una fitta rete di relazioni e di scambi, capace di conquistare un vasto rispetto
tra i potenti del tempo. Cresciuto non nell’Italia delle città ma all’ombra della corte pontificia avignonese, per
molti anni viaggiò in Italia e in Europa, impegnato in missioni diplomatiche per il cardinale Giovanni
Colonna, e la sua notorietà crebbe al punto da essere incoronato poeta, al modo antico, dal senato di
Roma (1341). La forte sensibilità esistenziale con cui aderiva al cristianesimo, assumendo a modello il
misticismo di sant’Agostino, gli consentì di tentare una sintesi tra le istanze cristiane e la visione classica
che nutriva il suo entusiasmo di letterato per il mondo della civiltà romana.
Un ammiratore di Petrarca fu il fiorentino Giovanni Boccaccio (1313-75), che trascorse molti anni presso la
corte angioina di Napoli e fu poi commentatore della Commedia di Dante per il comune di Firenze.
Maggiore prosatore del suo tempo, perfezionatore dell’ottava rima (destinata a diventare la forma più
diffusa della poesia narrativa), Boccaccio fu anche attivo scopritore di testi antichi. Molti umanisti si
dedicarono alla ricerca dei codici conservati, magari dimenticati, nelle biblioteche dei monasteri, ad es.
Poggio Bracciolini (1380-1459), partecipando al concilio di Costanza, esplorò i monasteri tedeschi, svizzeri
e francesi, scoprendovi opere di Quintiliano, Cicerone, Plauto e Lucrezio.
Per secoli gli uomini colti avevano letto le opere degli antichi come se fossero contemporanee,
sovrapponendovi le proprie concezioni, intervenendo sui testi e talvolta correggendoli. Gli umanisti le
considerarono invece dei documenti di un’altra cultura, di cui occorreva rispettare la fisionomia originale e
comprendere il significato autentico. La riscoperta dei classici comportò dunque un’attenzione del tutto
nuova alla storia dei testi: nacque la filologia, ossia l’insieme delle discipline che servono a leggere,
comprendere e interpretare i documenti. Il nuovo metodo consentì di datare molti codici e di individuare
errori di attribuzione e manipolazioni apportate dagli amanuensi nel corso della copiatura. Attraverso una
raffinata critica testuale Lorenzo Valla dimostrò (1440) che il documento che comprovava la donazione
della parte occidentale dell’impero e della città di Roma fatta dall’imperatore Costantino al papa Silvestro I
nel IV secolo d.C. era un falso databile all’VIII secolo. In questo modo fornì un argomento inoppugnabile a
coloro che intendevano confutare il fondamento giuridico del potere temporale del papato.
Il cancelliere fiorentino Coluccio Salutati ebbe il merito di rilanciare la conoscenza della lingua greca,
istituendo nel 1397 la prima cattedra di greco a Firenze; decisiva fu inoltre la venuta in Italia, favorita dalla
caduta di Costantinopoli, di molti eruditi greci, che portarono con sé i propri libri e la propria cultura.

Cancellieri e cortigiani: la lezione degli antichi e l’esempio dato dalla cultura classica non rimasero dei
modelli astratti, ma vennero posti al centro di un programma educativo in cui gli studi umanistici erano
considerati una tappa fondamentale nella formazione dell’uomo virtuoso. Lungi dall’essere solo filologico o
letterario, il nuovo progetto intellettuale investì a fondo nelle arti, nelle scienze e nel costume, per
presentarsi come una concezione generale della realtà e della vita. Gli umanisti affermarono un’idea
dell’uomo che mirava a sviluppare nell’individuo le potenzialità personali, finalizzandole all’esercizio delle
virtù civili nella dimensione sociale e cittadina. Il sapere non era considerato solamente una virtù personale
ma un patrimonio che poteva essere condiviso. Alcuni umanisti non furono soltanto dei dotti ma
parteciparono attivamente alla vita civile e politica delle loro città, ricoprendo incarichi pubblici di rilievo,
come i funzionari di cancelleria. A Firenze, ad es., dalla fine del XIV secolo furono a capo della cancelleria
figure come quella di Salutati, di Bruni e Bracciolini; dal 1498 ne fu segretario Machiavelli, considerato
l’inventore di una nuova scienza della politica fondata sul realismo delle osservazioni. Per questa
partecipazione pratica alla vita amministrativa e politica, si è parlato a proposito dell’esperienza di città
come Firenze o Venezia di un Umanesimo intriso di ideali laici e civili. Fu soprattutto nelle corti signorili
(corte intesa come luogo ma anche come entourage) cittadine che i nuovi sviluppi culturali trovarono il loro
ambiente ideale, perché i principi finanziavano generosamente imprese culturali e artistiche, per prestigio
dinastico e politico. Umanesimo cittadino e tradizione aristocratica si fusero in una cultura in cui ritrovarono
posto anche gli antichi ideali cavallereschi, secondo il modello del Cortegiano di Castiglione e del poema
cavalleresco dell’Ariosto. Castiglione delinea la nuova figura sociale come quella di un uomo “universale”,
abile tanto nelle armi quanto nelle lettere, nel canto, nella danza, nel corteggiare le dame; è infatti la
“maniera cortese” che distingue la vita nella corte: un insieme di regole comportamentali che si rifaceva al
concetto medievale di “cortesia”, un misto di grazia, misura, dolcezza e cultura.

Rinascimento artistico: fu soprattutto nelle arti figurative che il ritrovamento portò a un’evidente rottura
rispetto alla tradizione, dando vita a un linguaggio espressivo nuovo. Avviato con lo studio dei manufatti
antichi e dei trattati classici, esso si tradusse in una rappresentazione più realistica del paesaggio e della
natura. Ai temi sacri tipici dell’arte precedente si affiancarono soggetti profani, a partire dalle grandi
battaglie. Determinante fu la scoperta della prospettiva lineare, che diede concretezza all’idea di centralità
dell’uomo nella natura. Gli esordi del Rinascimento si rintracciano nell’opera di alcuni artisti fiorentini dei
primi del XV secolo: Masaccio (morto 1428), Brunelleschi (1446), Donatello (1466), capiscuola che
tracciarono le linee guida del rinnovamento che avrebbe raggiunto tutta l’Europa. La fioritura del movimento
si situa tra XV-XVI secolo, quando in varie città lavoravano contemporaneamente alcuni dei più grandi
artisti di tutti i tempi, come Da Vinci, Raffaello, Tiziano. Michelangelo fu coinvolto insieme a Raffaello nei
progetti di rinnovamento della Roma papale portati avanti da Giulio II, Leone X e dai successori, con le
Stanze Vaticane dipinte da Raffaello, e con il Giudizio universale affrescato da Mick nella Cappella Sistina.
Le guerre d’Italia segnano l’inizio della fase finale della grande stagione rinascimentale italiana.
Per l’alto grado di alfabetizzazione dei suoi abitanti, per la forte domanda di beni di lusso delle sue élites
mercantili e nobiliari, per il mecenatismo (termine che si rifà al patrizio romano Mecenate del I sec. a.C.,
protettore di Virgilio e Orazio, indica l’uso dei signori di promuovere e finanziare la cultura e gli artisti)
promosso dalla signoria dei Medici, il centro propulsore del Rinascimento fu Firenze, una delle città più
importanti d’Europa dove si concentrò uno straordinario numero di artisti e di intellettuali. Oltre ai già citati
va ricordato Leon Battista Alberti (1404-72), letterato, teorico di pittura e scultura, architetto, personalità che
forse meglio incarnò lo spirito dell’Umanesimo. Sempre a Firenze, Brunelleschi guidò tra il 1420-36 il
cantiere della grande cupola della cattedrale di Santa Maria del Fiore, risolvendo i problemi tecnici e
strutturali che ne avevano fermato la costruzione sin dal secolo precedente.
Il lavoro dell’artista era rimasto a lungo compreso tra i mestieri artigianali ed era retribuito alla stregua di un
lavoro manuale, sebbene di lusso. Nel corso del XV secolo si assistette a una trasformazione della figura
dell’artista, che si sganciò dalla modesta considerazione di cui godeva per avvicinarsi allo status
dell’intellettuale umanista, dedicandosi alla cultura nel senso più ampio (quindi all’arte come alle lettere e
alle discipline scientifiche). Per questa via tra XV-XVI secolo si assistette a una generale rivalutazione
sociale dell’artista, sia in virtù dell’ammirazione che generavano le sue opere, sia per i lauti compensi che
gli venivano corrisposti per la loro creazione.

Filosofia e religione: si diffuse una grande fiducia nell’intelligenza umana, che portò a esaltare la superiorità
dell’uomo sugli altri esseri naturali, le sue innumerevoli capacità creative. La nuova visione in cui l’uomo
era posto al centro dell’universo ed era considerato padrone del proprio destino costituiva una netta
discontinuità con la cultura dell’epoca precedente, caratterizzata da una visione della vita che poneva Dio
al centro dell’universo e imponeva all’uomo una totale sottomissione al volere divino. All’accettazione
diffusa e incontrastata per secoli dell’autorità ecclesiastica venne progressivamente contrapponendosi il
senso della dignità dell’uomo, del suo destino e della sua funzione nel mondo.
In tal senso una nuova sensibilità religiosa indirizzò il pensiero sulla strada della laicizzazione, rifiutando i
dogmatismi religiosi e affermando la libera ricerca attraverso l’esame critico e la discussione.
Il filosofo Pico della Mirandola ricostruì i lineamenti di una filosofia universale, che si proponeva di
concordare le diverse correnti di pensiero che sin dall’antichità erano accomunate dall’aspirazione alla
sapienza, in cui l’uomo doveva essere inteso come il prosecutore dell’opera divina della creazione.
Nel Discorso sulla dignità dell’uomo (1486) Pico esaltò la libertà che differenziava l’uomo dagli altri esseri
del creato: stava quindi a lui degradarsi nelle cose inferiori oppure innalzarsi a quelle superiori.
A sua volta, il filosofo fiorentino Marsilio Ficino (1433-99) si propose di saldare filosofia e religione,
elaborando una religione colta imperniata sulla dottrina dell’anima umana come centro del mondo – punto
intermedio tra la realtà fisica e quella divina – e sulla dottrina dell’amore, come forza che permette all’uomo
di elevarsi dal mondo sensibile sino a Dio.

La scienza: l’affermazione della centralità dell’uomo nel cosmo consentì di osservare la natura con uno
sguardo più libero, mirando a rendere indipendente il pensiero scientifico dal dogma religioso. La tendenza
a rompere gli schemi condusse ad es. a riconsiderare l’idea stessa di universo, al di fuori della visione
tradizionale basata sulle sfere celesti di Aristotele, utilizzata anche da Dante nella Commedia.
Il filosofo e matematico tedesco N. Cusano (1401-64) avanzò l’idea che l’universo potesse non essere finito
e non avere un centro unico, come era invece nella visione che ne poneva la terra al centro sin dai tempi
del matematico/astronomo greco Tolomeo. Su questa strada proseguì N. Copernico che, attraverso lo
studio delle orbite dei pianeti, sostenne che il sole, e non la terra, era il centro del sistema planetario.
Tolomeo aveva sostenuto la tesi della sfericità della terra, che si accordava secondo quanto già elaborato
sul piano filosofico da Aristotele. Nel XV secolo la sfericità della terra era ormai un’ipotesi generalmente
accettata. Ne derivava la supposizione che se la terra era rotonda, fosse dovunque possibile raggiungere
qualsiasi punto procedendo in qualsiasi direzione; a ciò si dedicò in particolare il matematico fiorentino P.
Toscanelli, che aveva già aiutato Brunelleschi nei calcoli per la costruzione della cupola del duomo di
Firenze. Rifiutando le idee tradizionali, Toscanelli si dedicò con spirito nuovo agli studi geografici,
raccogliendo i resoconti degli esploratori e arrivando a sostenere che la via più diretta per raggiungere
l’Oriente fosse la traversata dell’Atlantico. Delle sue idee venne probabilmente a conoscenza Cristoforo
Colombo, che si rafforzò nel progetto di raggiungere l’Oriente seguendo quella via nautica.

La diffusione della cultura: l’evoluzione tecnica della stampa di testi o disegni incisi sul legno alla stampa a
singoli caratteri mobili fusi nel piombo, sviluppata dall’artigiano tedesco J. Gutenberg a Magonza – che nel
1456 stampò una Bibbia in latino di grande formato – determinò la trasformazione delle modalità di
trasmissione della cultura. Non a caso fu nelle città italiane che si svilupparono le potenzialità di questa
innovazione: a Roma, Firenze e Venezia si diffusero stamperie che si trasformarono in imprese
commerciali. Venezia divenne rapidamente la capitale europea dell’editoria, con decine di botteghe di
stampatori e di editori. Tra questi, l’umanista Aldo Manuzio inventò un nuovo tipo di carattere, il “corsivo”
(detto anche “italico”), che rese le pagine stampate molto più leggibili; poté così ridurre anche la
dimensione della pagina e il formato dei volumi: piccoli d poter essere tenuti in tasca, i nuovi libri erano
anche più economici. La diffusione della stampa provocò una “rivoluzione inavvertita” determinando una
serie di trasformazioni nel modo di pensare e di accumulare la conoscenza: cambiò i modi di
apprendimento, rendendo obsoleto lo studio a memoria basato sulla ripetizione; permise la riproduzione, in
numero illimitato di copie, di disegni e mappe, in precedenza copiati a mano con inevitabili errori di
riproduzione; incentivò l’uso di indici ordinati e sequenziali, favorendo una mentalità sistematica.
Se ne avvantaggiarono non solo le scienze (geografia, astronomia, medicina), ma anche le burocrazie
degli stati, che poterono usufruire di materiali stampati come codici e testi normativi.
Dopo il sacco di Roma e il conseguente venir meno del ruolo internazionale degli stati italiani il
Rinascimento s’irradiò in tutta l’Europa nel corso del ‘500, intorno alle corti e alle università. Un impulso
determinante alla circolazione delle idee fu dato dalla diffusione dei libri stampati, che consentì ai circoli
intellettuali di scambiarsi informazioni, di studiare e conoscere i medesimi testi in maniera più facile e molto
più economica rispetto alla prima. Consentì dunque la creazione di quella vasta “repubblica delle lettere”
della quale gli umanisti europei del ‘500 sentivano di far parte.
La figura più significativa della diffusione della cultura umanistica fuor d’Italia fu quella del teologo olandese
Erasmo da Rotterdam. L’educazione storica e filologica ne sostenne l’aspirazione programmatica
all’alleanza umanistica tra erudizione e fede. Nei suoi scritti l’ideale della vita attiva divenne critica aperta
all’ozio dei conventi, lo sguardo razionale portò al rifiuto delle superstizioni e del culto dei santi, la fede in
una nuova età per l’uomo e al ripudio della guerra. L’Elogio della follia è una satira della presunzione dei
teologi, dell’immoralità del clero e dell’indegnità della curia romana. Secondo Erasmo il rapporto
dell’individuo con Dio doveva basarsi anzitutto sulla parola divina, quindi sulle Sacre Scritture, restituite
nella loro autenticità, quindi senza gli errori e i commenti dell’epoca precedente.

Capitolo 30: esplorazioni geografiche: una discontinuità spaziale

La ricerca di una nuova via per le Indie: per secoli i commerci tra l’Europa e l’Asia si erano indirizzati dai
porti mediterranei fino ad Alessandria d’Egitto, da dove le merci erano condotte via terra fino alla località di
Suez, sul Mar Rosso, e poi ancora per mare, fino a raggiungere le coste indiane. Qui si trovava il centro
della produzione mondiale delle spezie, ricercate soprattutto per la conservazione delle carni e per la
preparazione dei farmaci. Per arrivare in Occidente le spezie attraversavano l’oceano Indiano e il deserto
egiziano lungo le vie carovaniere; le compagnie commerciali europee di stanza negli empori nordafricani le
ridistribuivano poi in tutto il continente. Ancora più lenti e insicuri erano i percorsi terrestri che collegavano il
Mediterraneo con l’Asia orientale; al centro di questi traffici si trovava la seta. I costi delle merci che
seguivano le vie dell’Oriente erano molto elevati: solo per giungere sulle coste del Mediterraneo il loro
prezzo si decuplicava rispetto al prezzo d’origine. Fattori economici favorirono dunque in Occidente l’idea di
raggiungere via mare le Indie; a tali motivazioni si accompagnarono altrettanto determinanti elementi
religiosi. Sin dal XII secolo circolava in Europa la leggenda di un sovrano cristiano nemico dei musulmani (il
Prete Gianni) che avrebbe controllato un vasto dominio oltre le terre dell’islam, costituendo un potenziale
alleato contro gli infedeli (nel XV secolo una missione del clero abissino presso il concilio di Firenze (1441)
convinse i cristiani europei a identificare l’imperatore d’Etiopia con il favoloso Prete Gianni). Quando anche
Costantinopoli cadde nelle mani degli Ottomani nel 1453 emerse rapidamente l’idea, sostenuta dalla
Chiesa, di raggiungere questo favoloso regno sacerdotale e di spezzare l’assedio in cui si trovava l’Europa
cristiana. Particolarmente sensibili a questa impresa si rivelarono i regni iberici del Portogallo, della
Castiglia e dell’Aragona (anche per la loro posizione geografica), dove aveva forti radici l’ideale della
reconquista. Fu proprio nel corso del XV secolo che la riconquista dei territori fu portata definitivamente a
termine: l’ultimo regno arabo, la città di Granada, venne assediata e presa dagli eserciti castigliano-
aragonesi nel 1492. L’arricchimento delle conoscenze matematiche e geografiche, favorito dal
rinnovamento scientifico che attraversò l’Europa umanistica nella seconda metà del XV secolo, permise di
sviluppare tecnologie avanzate messe al servizio della navigazione, ad es. il perfezionamento di una nuova
tipologia di nave commerciale, la caravella, e la predisposizione di nuove e più esatte carte geografiche.
Nato nel 1451 a Genova, Colombo cominciò da giovane a navigare tra Mediterraneo, Inghilterra e Canarie;
dal 1476 entrò al servizio dei portoghesi come capitano di navi da trasporto lungo le coste atlantiche
dell’Africa, acquisendo dimestichezza con la navigazione d’alto mare. Nel corso di quei viaggi maturò il
proposito di raggiungere l’Asia viaggiando in direzione opposta rispetto all’itinerario narrato nel Milione di
Marco Polo. Dopo anni di tentativi andati a vuoto, Colombo trovò ascolto presso la regina Isabella di
Castiglia che, completata la reconquista nel 1492, decise di investire sull’ipotetica nuova via per le Indie
(“trovare il levante per il ponente”), soprattutto perché temeva i piani portoghesi per arrivarvi
circumnavigando l’Africa. Protagonista iniziale della ricerca di una nuova via era stata infatti la dinastia
portoghese degli Aviz, che aveva promosso le esplorazioni lungo le coste e le isole nord-occidentali
africane sin dal tempo del re Enrico (1433-60), non a caso detto il Navigatore. Il controllo delle rotte
marittime attraverso le basi commerciali e militare nelle isole di Madera, delle Azzorre, di Capo Verde e
lungo le coste del Senegal e del Gambia, consentì infatti di fare affluire direttamente via mare e non più
attraverso le rotte carovaniere le spezie, la polvere d’oro, l’avorio e gli schiavi. In Africa occidentale il
commercio degli schiavi era praticato da tempo immemorabile e su larga scala; gli europei si inserirono in
un mercato che già fioriva: il primo carico di schiavi africani fu portato in Portogallo nel 1444.

Africa: le spedizioni portoghesi che raggiunsero le coste dell’Africa allargarono una rete di rapporti già
intensi da secoli con le regioni mediterranee, embrionali con le stesse regioni costiere, nulli con la parte
considerevole del continente africano, situata a sud del deserto del Sahara. Questo continente nel
continente era allo stesso tempo vicino ed estraneo: estraneo geograficamente, perché diverso dal
paesaggio europeo e dalle sue dinamiche economiche e di popolamento, e vicino, dal momento che anche
in esso come in Europa si svilupparono nel corso dei secoli formazioni statali che siamo in grado di
definire, in prospettiva occidentale e in maniera approssimativa, “imperi” e “regni”.

India e sud-est asiatico: il navigatore portoghese Vasco da Gama fu il primo a raggiungere le Indie via
mare, bordeggiando le coste africane oltre la punta meridionale del continente. Vasco sbarcò a Calicut nel
1498; il re (raja) locale lo accolse dapprima con favore, poi si mostrò ostile, spinto a far ciò dagli arabi, che
erano presenti in forza in quella città, un centro importante dei loro commerci. Vasco si rese conto che la
sovranità si sarebbe potuta ottenere per via di tributi e commerci, sostenuti dalla forza militare del re.
Ripartendo da Calicut, lasciò pertanto dietro di sé un’agenzia commerciale costituita con il consenso del
signore locale. Al suo ritorno a Lisbona il re Emanuele I di Aviz (1495-1521) poté aggiungere ai suoi titoli
quello di “signore della conquista, della navigazione e del commercio d’Etiopia, Arabia, Persia e India”.
La società indiana era tradizionalmente divisa in quelle che oggi definiamo caste ed era prevalentemente
induista e, in misura minore, buddhista. La preponderanza induista si accompagnava a una varietà
linguistica più accentuata: lingue indoeuropee e iraniche nel centro-nord contaminate con componenti
turco-mongole. Tra IV-VI secolo quasi tutta la parte settentrionale del continente fu unificata dalla dinastia
Gupta, il cui impero coincise con il periodo aureo della storia della civiltà indiana. Furono le invasioni degli
unni dal nord-est a determinare la disgregazione dell’impero; nei suoi territori sorsero nuovi regni,
soprattutto a sud, intorno a dinastie locali. Gli arabi avevano conquistato alcune regioni settentrionali
dell’India già nell’VIII secolo d.C., ma fu solo con l’arrivo delle popolazioni turche che l’islam penetrò fino al
golfo del Bengala. A ricomporre il continente fu l’impero Moghul fondato nel 1526 da un discendente del
grande conquistatore turco-mongolo Tamerlano, Babur detto anch’egli il conquistatore perché estese il suo
dominio dall’Afghanistan al Bengala, accrescendo così il peso della religione islamica in Asia centrale.
Molto più a sud e a est della penisola indocinese si estende l’ultimo dei continenti a essere raggiunto dagli
europei. L’Oceania è una definizione moderna, che si scontra con la difficoltà di reperire fonti in Europa a
partire dalla nascita di Cristo. Nel primo millennio le popolazioni che abitavano l’Oceania hanno lasciato
scarse tracce materiali. Tra XI-XII secolo furono probabilmente realizzati i primi colossi dell’Isola di Pasqua
(il nome è naturalmente europeo e si riferisce al giorno in cui vi sbarcarono gli olandesi nel 1722).
Fu lo spagnolo Ferdinando Magellano che, nel 1521, raggiunse per primo la Polinesia navigando da est
verso ovest, per poi dirigersi verso le Filippine.

Cina e Giappone: il mondo cinese apparve agli europei familiare perlomeno per la forma politica che lo
governò a partire dal primo millennio a.C., quando la Cina fu per la prima volta unificata. Diversamente da
quanto avvenuto con l’impero romano, il territorio cinese subì un’ulteriore e profonda spinta unificatrice
dalle incursioni delle popolazioni nomadi asiatiche che, a partire dal III sec. d.C., interessarono il nord del
paese. La Cina settentrionale (Catai) fu invasa nel secondo decennio del XIII secolo dalle tribù nomadi
originarie della Mongolia guidate da Gengis Khan (“signore universale”, perché capace di sottomettere
anche l’Asia centrale e la Russia orientale). Dopo la sua morte, nel 1227, i suoi successori si espansero nei
territori meridionali della Cina, arrivando a stabilire una dominazione – nota come impero del gran khan –
che comprendeva anche Russia, Mongolia e Corea. Un nipote di Gengis Khan, Qubilai, riuscì a imporsi
come capo incontrastato (1260-94), spostando la capitale dell’impero a Khanbaliq (“città del khan”,
l’odierna Pechino) nel 1272, e completando la conquista della parte meridionale del paese (1279).
Alla sua corte giunse in ambasciata nel 1275 il viaggiatore veneziano Marco Polo.
La regione di isole vicine alla Cina continentale aveva conosciuto durante il primo millennio cristiano una
forma di governo monarchico. Il tenno (“sovrano celeste”) regnava su una popolazione scintoista e
buddhista divisa almeno fino al periodo in cui fu capitale Nara, che divenne il massimo centro culturale del
paese, quando la società si strutturò in maniera indipendente dalle dispute religiose. Con il nuovo millennio,
la figura del tenno rimase sullo sfondo, mentre le lotte per il potere si giocarono intorno al possesso della
carica di supremo capo militare (shogun). Dal 1185 al 1333 lo shogunato fu controllato dalle dinastie
Minamoto e Hojo, che seppero fronteggiare l’invasione mongola guidata da Qubilai.

Americhe: in età remote, lo stretto di Bering, tra l’oceano Artico e quello Pacifico, era stato protagonista di
un intenso scambio di popolazioni: la presenza di ampi strati di ghiaccio consentì forse il primo
popolamento dell’America settentrionale. Le popolazioni provenienti dall’Asia che si stanziarono negli
attuali Canada e Stati Uniti mantennero un carattere nomade e non lasciarono molte tracce.
Il continente americano fu probabilmente lambito dalle popolazioni europee nell’XI secolo. I vichinghi erano
giunti sulle coste disabitate dell’attuale Groenlandia sud-occidentale, dove esistono tracce di insediamenti
stabili, archeologicamente documentati, sin dal X secolo. Il rinvenimento nella parte settentrionale dell’isola
di Terranova in Canada di resti di un insediamento identificato dagli studiosi come un probabile villaggio
vichingo lascia supporre che viaggi esplorativi vi siano stati effettivamente compiuti, muovendo via mare
dalla Groenlandia. Inoltre, una saga (una raccolta di storie sui vichinghi) menziona un viaggio del
personaggio leggendario Erik il Rosso in una regione oltre oceano abitata da un popolo che sembra
corrispondere alle prime descrizioni dei nativi americani a opera dei successivi esploratori europei.
L’eventuale colonizzazione vichinga fu però modesta e di breve durata; soprattutto, non lasciò memoria
nella società europea. L’esistenza tra Europa e Asia di un altro continente era dunque ignota quando, nel
1492 tre caravelle salparono dal poto spagnolo di Palos, con un equipaggio di circa cento uomini sotto la
guida di Cristoforo Colombo. Costui intendeva arrivare in Cina e in Giappone sulla scorta della lettura del
Milione di Marco Polo. Dopo soli 36 giorni di navigazione dallo scalo delle Canarie, venne avvistata la terra:
l’ammiraglio si trovava in realtà su un’isola dell’arcipelago delle Bahamas, che venne da lui chiamata San
Salvador. Due anni dopo il primo viaggio di Colombo, Spagna e Portogallo siglarono il contatto di
Tordesillas (1494). Ciò che venne convenuto tra i sovrani di Castiglia e Aragona, Ferdinando e Isabella, e il
re del Portogallo, Giovanni II, era semplice: un’immaginaria linea sull’asse nord-sud dell’Atlantico a 370
leghe (2.000 km) a ovest delle isole di Capo Verde; a ponente di questo meridiano le terre sarebbero state
spagnole, a levante, invece, portoghesi. Una minima parte dell’area spartita era stata esplorata; di
conseguenza la Spagna finì col guadagnare territori amplissimi, mentre solo la parte più orientale
dell’odierno Brasile venne garantita al Portogallo. Il trattato rappresentò il punto di partenza per la
successiva creazione di un Atlantico europeo e del fenomeno del colonialismo.
Benché fosse il frutto dell’aspirazione comune di raggiungere le Indie e della scoperta inattesa di un nuovo
continente, il trattato disegnò una mappa nella quale due regni che aspiravano a diventare imperi stavano
per muovere verso luoghi in cui esistevano da secoli imperi plurinazionali: impero dei maya (attuale
Guatemala), impero degli aztechi (attuale Messico), impero inca (attuale Perù).
Lo sbarco di Colombo segnò una svolta epocale che consentì all’Europa di conquistare e colonizzare
immensi territori e di avviarne lo sfruttamento economico, impadronendosi per secoli di enormi ricchezze.
Per un decennio però il continente continuò a essere ritenute una propaggine delle Indie. Fu solo
l’esplorazione delle coste atlantiche meridionali fino alla Patagonia a indurre il navigatore fiorentino
Amerigo Vespucci, educato alla cultura umanistica nella città nativa, a ritenere di essere al cospetto di un
nuovo continente. La rapida diffusione, attraverso la stampa, del contenuto delle sue relazioni indusse il
cosmografo tedesco Martin Waldseemüller a usare il genere femminile – America – del suo nome
latinizzato (Americus Vespucius) per indicare il nuovo continente in una carta del mondo disegnata nel
1507. Waldseemüller riferì l’appellativo all’attuale America meridionale, cioè alle terre toccate da Vespucci,
e solo verso il 1570 il nome di America fu esteso all’intero continente.

Potrebbero piacerti anche