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Filosofa diffcile ma utile

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postmoderno
Termine usato per connotare la condizione antropologica e culturale conseguente alla crisi e all’asserito
tramonto della modernità nelle società del capitalismo maturo, entrate circa dagli anni 1960 in una fase
caratterizzata dalle dimensioni planetarie dell’economia e dei mercati finanziari, dall’aggressività dei
messaggi pubblicitari, dall’invadenza della televisione, dal flusso ininterrotto delle informazioni sulle reti
telematiche. In connessione con tali fenomeni, e in contrasto con il carattere utopico, con la ricerca del
nuovo e l’avanguardismo tipici dell’ideologia modernista, la condizione culturale p. si caratterizza soprattutto
per una disincantata rilettura della storia, definitivamente sottratta a ogni finalismo, e per l’abbandono dei
grandi progetti elaborati a partire dall’Illuminismo e fatti propri dalla modernità, dando luogo, sul versante
creativo, più che a un nuovo stile, a una sorta di estetica della citazione e del riuso, ironico e spregiudicato,
del repertorio di forme del passato, in cui è abolita ogni residua distinzione tra i prodotti ‘alti’ della cultura e
quelli della cultura di massa.
Rintracciabile fin dagli anni 1930 nella cultura di lingua spagnola (Antología de la poesía española e
hispanoamericana. 1882-1932, a cura di F. de Onís, 1934), diffuso poi dagli anni 1950 nella cultura di
lingua inglese e soprattutto negli USA nell’ambito degli studi estetico-letterari, il termine ha trovato poi una
più precisa codificazione in architettura e nelle arti, anche dello spettacolo, ed è entrato nel linguaggio
filosofico.
ARCHITETTURA E ARTE
Il postmodernismo è una tendenza critica, promossa nel 1961 da P. Johnson, nei confronti degli assunti del
razionalismo o del cosiddetto (il concetto di funzione, la flessibilità distributiva, la pianta libera ecc.). I testi
di (Form follows fiasco, 1977) o di (The language of post-modern architecture, 1977) ne forniscono le
prime definizioni. Conseguenza di una riaffermazione del legame con la storia, il postmodernismo, con
connotati di ambiguità e ironia, si rivela in una molteplicità stilistica che riscopre la valenza liberatoria di
pratiche condannate dall’ortodossia modernista, come l’eclettismo e il revival. ne è indicato come uno dei
personaggi chiave, come pure C. Moore (piazza d’ a , 1977-79). Manifestazioni del postmodernismo sono
state individuate nelle opere di T. Gordon Smith, di , e R. Siegel ecc. In Italia il fenomeno ha avuto un’eco
sensibile nella 1a Mostra internazionale di architettura (Presenza del passato, 1980).
Nel campo artistico il dibattito sulla postmodernità si è sviluppato parallelamente a ricerche che
evidenziavano l’esaurirsi della fiducia nell’effetto ‘liberatorio’ dell’arte e nei procedimenti autoriflessivi delle
neoavanguardie degli anni 1960 e 1970. Assieme all’attenuarsi dell’opposizione alle forme artistiche del
passato, il postmodernismo è contrassegnato, secondo i suoi teorici, dall’accantonamento del modello
estetico modernista fondato sul perpetuo rinnovarsi dei linguaggi. Una revisione delle modalità operative e
dell’orizzonte problematico si è imposta anche in campo critico in e negli USA con J.-C. Ammann, B.H.D.
Buchloch,, T. McEvilley, , H. Szeeman ecc. Obiettivo polemico è divenuto il tipico/">tipico schema di
perfezionamento () in cui la vicenda dell’arte dal tardo Ottocento in avanti era ricostruita come
un’evoluzione in senso non rappresentativo e autoreferenziale. La produzione artistica p. appare più come
‘campo’ consapevolmente aperto a interferenze culturali che come uno stile; questa visione non finalistica
trova una corrispondenza nella pratica del montaggio, in cui sono sfruttate tutte le tecniche di produzione e

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riproduzione delle immagini e perde consistenza il concetto di ‘originale’. Si diffonde una visione critica dei
rapporti tra produzione culturale e società (B. Bloom, ,). Nei primi anni 1990 si stringe il rapporto tra l’arte e
il contesto sociale e politico; soprattutto negli Stati Uniti, si assiste all’emergere di artisti appartenenti a
gruppi etnici di minoranza e a movimenti trasversali di opposizione. In Europa, dopo una fase volta al
recupero di pittura di ascendenza espressionista (tra gli altri, , , ), si registra un’ampia diversificazione di
tendenze, dall’indagine fotografica (, M. Clegg & M. Guttman), a raffinate variazioni su colore e spazio (D.
Bianchi, ), a riflessioni sui ‘modi’ di presentazione e i comportamenti nello spazio dell’opera (C. Boutin, , R.
Mucha, M. Serebrjakova).
FILOSOFIA
Il concetto di p. entra nel dibattito filosofico e culturale a partire dal 1979, anno in cui J.-F. Lyotard pubblica
La condition postmoderne. L’età contemporanea vi è descritta come quella in cui la modernità ha raggiunto
il suo termine con la delegittimazione dei «grandi racconti» (grands récits), ovvero delle prospettive
filosofiche e ideologiche che, a partire dall’Illuminismo, hanno ispirato e condizionato le credenze e i valori
della cultura occidentale: il ‘racconto’ del processo di emancipazione degli individui dallo sfruttamento,
quello del progresso come indefinito miglioramento delle condizioni di vita, quello della dialettica come
legittimazione del sapere in una prospettiva assoluta. Non più legata ai grandi progetti, l’età p. si
caratterizzerebbe piuttosto per la pluralità dei discorsi pragmatici che pretendono soltanto una validità
strumentale e contingente. In tale prospettiva si situano le riflessioni dello statunitense , che, in una
conciliazione di temi della e del pragmatismo, ha sottolineato il superamento del mito del discorso vero
inteso come conformità a una realtà data e ha ridimensionato i progetti fondazionali delle filosofie del
passato, contrapponendo a essi un atteggiamento che mira a dare risposte pragmatiche ai problemi
dell’uomo.

In Italia, al concetto di p. ha dedicato attenzione , elaborando la nozione di ‘pensiero debole’ per definire
l’atteggiamento filosofico che ha preso atto della dissoluzione delle certezze e dei valori assoluti,
dissoluzione che non porterebbe comunque a una totale negazione del passato, ma piuttosto a un
sentimento di pietas nei confronti dei valori e degli ideali della tradizione.

LETTERATURA E SPETTACOLO
La nozione di p. è entrata dagli anni 1980 nel dibattito critico-estetico, non senza fondate riserve per la sua
indeterminatezza; con essa si allude al mutamento di sensibilità prodottosi nelle società del tardo
capitalismo, cui corrisponderebbero, in letteratura, un ritorno della poesia all’immagine lirica e alla libera
espressione dell’io, e della prosa al piacere della narrazione, mista di elementi storici e fantastici, nonché
soprattutto la consapevolezza delle nuove generazioni di scrittori di venire ‘dopo’, e la volontà di andare
‘oltre’, i vari sperimentalismi che hanno caratterizzato il Novecento. Più sicure manifestazioni di un’estetica
p. si sono avute nel teatro con le ricerche di gruppi (Magazzini criminali, La gaia scienza, Falso movimento
ecc.) che negli anni 1970-80, sviluppando alcune intuizioni della più vivace sperimentazione teatrale, specie
romana, hanno dato vita a una stilizzata contaminazione di generi e linguaggi (danza, performance, musica,
pubblicità, cinema, video), detta ‘nuova spettacolarità’.

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Si è parlato di p. anche per la danza, con riferimento alle nuove forme di teatro-danza e alla post-modern
dance statunitense, la quale peraltro trova la sua più precisa definizione in rapporto all’evoluzione
della modern dance.

Accademici e storici per lo più descrivono il postmodernismo come una corrente di pensiero
caratterizzantesi per la contrapposizione con il modernismo. Il pensiero modernista riconosce
un'importanza suprema a ideali come la razionalità, l'oggettività, e il progresso, e ad altre idee di
derivazione illuministica, idee caratterizzanti le correnti del positivismo e del realismo ottocentesco.
Il postmodernismo si interroga sulla reale esistenza di tali ideali.
In estrema sintesi, l'argomentazione dei postmodernisti sottolinea come le condizioni
economiche e tecnologiche della nostra epoca abbiano plasmato una società decentralizzata e
dominata dai media, nella quale le idee sono semplici simulacri e solo rappresentazioni
autoreferenziali e copie tra di loro, mentre mancano fonti di comunicazione e di senso realmente
autentiche, stabili o anche semplicemente oggettive. La globalizzazione, provocata dalle
innovazioni nelle comunicazioni, nellaproduzione industriale e nei trasporti, è spesso citata come
una forza che ha portato alla moderna cultura decentralizzata, creando una società globale,
interconnessa e culturalmente pluralistica, priva di un reale centro dominante di potere politico, di
comunicazione e di produzione intellettuale.
Gli aderenti al pensiero postmoderno spesso rintracciano la fonte dei propri ideali in particolari
condizioni economiche e sociali, tra cui il cosiddetto "capitalismo maturo" e la crescita di
importanza dei media, sostenendo che tali particolari condizioni abbiano segnato l'inizio di un
nuovo periodo storico. In antitesi, numerosi autori sostengono invece che il postmodernismo sia al
più un periodo, una variazione, una semplice estensione del modernismo, e non un periodo o
un'idea realmente nuovi.
I teorici del postmodernismo ritengono che una società così decentralizzata inevitabilmente generi
percezioni e reazioni descritte come post-moderne, come ad esempio il rifiuto della unitarietà
della metanarrativa e dell'egemonia, unitarietà vista come falsa e imposta; la rottura dei tradizionali
steccati tra i generi, il superamento delle strutture e degli stili tradizionali; lo spodestamento di
quelle categorie figlie del logocentrismo e il rifiuto delle altre forme di ordine artificialmente
imposto.
I teorici che accettano l'idea della post-modernità come di un distinto periodo ritengono che la
società abbia collettivamente rimosso gli ideali del modernismo, sostituendoli con ideali basati sulla
reazione alle restrizioni e alle limitazioni di quelli, e per tale ragione sostengono la configurabilità
dell'oggi come nuovo periodo storico. Sebbene i caratteri della cultura postmoderna siano talvolta
difficili da individuare, i più tra i teorici postmodernisti guardano ai concreti cambiamenti
tecnologici ed economici ritenendoli fonti e sintomi del nuovo pensiero.[3]
I critici del postmodernismo affermano che esso non rappresenta una liberazione, ma piuttosto una
resa della creatività, e la sostituzione dell'organizzazione strutturale con il sincretismo e il bricolage.
Descrivono i postmodernisti come oscurantisti, confusi, e asserenti in campo scientifico
argomentazioni di cui si può dimostrare la falsità.
Tale dibattito si colora spesso di forti tinte politiche, atteso che si possono individuare i conservatori
come i più feroci critici del postmodernismo. Il dibattito rimane molto serrato, soprattutto sulla
configurabilità del periodo attuale come di un nuovo periodo storico distinto da quello moderno.
Taluni, peraltro, si sono spinti oltre, sostenendo che la stessa postmodernità sia già finita, essendo
definibile l'attuale periodo come post-postmoderno. Tra questi Alan Kirby, nel saggio The Death of
Postmodernism, and Beyond, afferma la radicale novità della cultura odierna, che egli definisce
"pseudo-modernismo".

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Alcune definizioni di postmodernismo
•"Il Postmodernismo è incredulità nei confronti delle metanarrazioni." Jean-François Lyotard
•"La teoria del rifiutare le teorie." Tony Cliff
•"La narrativa postmodernista si caratterizza per il disordine temporale, il disprezzo della narrazione
lineare, la commistione delle forme e la sperimentazione nel linguaggio." Barry Lewis, Kazuo
Ishiguro
•"Il Post-modernismo sguazza, si immerge, nelle frammentate e caotiche correnti del cambiamento
come se non esistesse che cambiamento" - David Harvey, The Condition of Postmodernity, Oxford,
Basil Blackwell, 1989.[5][6][7]
•"Si potrebbe dire che ogni era abbia la sua postmodernità, e che ogni era abbia la sua forma
di manierismo(infatti, mi chiedo se "postmodernismo" non sia semplicemente una forma moderna
di *Manierismo*...). Credo che ogni era raggiunga momenti di crisi come quelli descritti
da Nietzsche nella seconda delle Considerazioni inattuali, quando tratta della pericolosità dello
studio della storia (Storiografia). La sensazione che il passato ci stia incatenando, confondendo,
ricattando." - Umberto Eco, "A Correspondence on Post-modernism" con Stefano Rosso in
Hoesterey, op. cit., pp. 242–3[5][8]

DECOSTRUZIONISMO
In ambito critico-letterario il termine d. denota una strategia di lettura che, diversamente dalle metodologie
tradizionali, non si propone di stabilire quale sia il significato (o i significati) di un'opera letteraria ma, al contrario,
vuole metterne in luce quelle contraddizioni concettuali e linguistiche che le impediscono di emettere un messaggio
''pieno'' e coerente. Per il d. il testo è una realtà irrimediabilmente ''plurale'': non perché, come spesso si crede, il
linguaggio letterario sia caratterizzato da una peculiare ricchezza semantica, ma perché tutti i tentativi di interpretarlo
devono esser visti non solo come ricostruzioni inevitabilmente parziali e arbitrarie, ma anche, al tempo stesso, come
operazioni totalizzanti che mirano a reprimerne la fondamentale indeterminatezza.
Il decostruzionismo di Jacques Derrida. − Se la genesi di numerosi concetti su cui si basa il d. può essere rintracciata
prima di tutto nella linguistica strutturale e poi nella filosofia di Nietzsche e di Heidegger, iniziatore del discorso
decostruzionista può dirsi senz'altro il filosofo francese Derrida (v. in questa App.).
Secondo Derrida lo strutturalismo classico di de Saussure e Lévi-Strauss resta prigioniero di una fondamentale aporia
concettuale: se è vero, come sostiene de Saussure, che il significato di un segno non gli è mai intrinseco, ma è dato
piuttosto dal rapporto differenziale che esso intrattiene con altri segni; se è vero, cioè, che nel linguaggio esistono solo
differenze e non si danno termini positivi, allora nessun significato potrà mai essere pienamente presente in alcun
segno. Poiché il significato di un segno dipende da ciò che quel segno non rappresenta, quel significato sarà, sotto un
certo punto di vista, sempre in parte assente. Se ogni segno è ciò che è perché non è nessuno di tutti gli altri segni che
costituiscono quel linguaggio, ogni segno non può che rimandare a un'infinita catena di altri segni. Si pensi a ciò che
avviene quando si consulta un dizionario: per qualunque termine del quale si voglia conoscere il significato ci vengono
offerti una serie di altri termini per verificare i quali si dovrà consultare altre definizioni, e così via, in un processo
potenzialmente infinito.

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Secondo Derrida, la tradizione filosofica occidentale ha voluto vedere nel linguaggio scritto una sorta di degenerazione
del linguaggio parlato, perché convinta che il secondo sia caratterizzato da una purezza e immediatezza che, viceversa,
mancherebbe al primo; Derrida sostiene però che, parlato o scritto, il linguaggio è sempre una forma di ''scrittura'':
anche nel caso che un individuo provi a comunicare con se stesso, non può che farlo attraverso un sistema di segni.
Non esiste perciò alcuna intenzione o idea che possa costituirsi in modo ''naturale'' nell'interiorità del soggetto
individuale, e che verrebbe poi distorta dal mezzo linguistico. Difatti, senza quest'ultimo, il soggetto non potrebbe mai
articolare alcun concetto. La tentazione ''fonocentrica'' − l'illusione cioè che nella viva voce del soggetto sia possibile
ritrovare un significato ''autentico'' − è, per Derrida, parte integrante della logica ''logocentrica'' della filosofia
occidentale. Tale logica privilegia un termine assoluto − Dio, Natura, Ragione − per elevarlo al rango di ''significante
trascendentale'' e farne una pietra di paragone cui ricondurre tutti i segni. Derrida propone invece che s'insista sul
carattere ''indecidibile'' di qualunque segno per far emergere nel testo − sia esso filosofico, letterario o di altra natura −
ciò che non è possibile comprendere dal punto di vista delle opposizioni binarie della filosofia classica: ciò che non è
né bene né male, né vero né falso, né puro né impuro. È questa disarticolazione del testo, questa ''apertura'' delle sue
incoerenze che si definisce ''decostruzione''.
Il decostruzionismo statunitense. − Risale alla metà degli anni Sessanta (1966, anno del convegno organizzato dalla
Johns Hopkins University su The languages of criticism and the science of man, con interventi, tra gli altri, di G.
Poulet, L. Goldmann, T. Todorov, R. Barthes, J. Lacan, J. Derrida, N. Ruwet) l'interesse più marcato della critica
statunitense verso le posizioni teoriche di Derrida e di altri esponenti del post-strutturalismo europeo, soprattutto
francese, che dà vita, nell'ambito della critica letteraria, alla cosiddetta ''scuola di Yale'' o Yale Critics: un gruppo di
docenti − P. de Man, G. H. Hartman, J. H. Miller, H. Bloom − presenti in quegli anni a Yale, generalmente accomunati
nell'indirizzo decostruzionistico pur provenendo da esperienze culturali diverse ed esprimendo istanze metodologiche
assai differenziate.
Il quadro di riferimento entro cui si colloca la multiforme esperienza decostruzionistica nel mondo accademico
statunitense degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta è costituito da un lato dal distacco se non dall'aperta polemica
contro il New Criticism degli anni Venti e Trenta (J. C. Ransom, A. Tate, C. Brooks, R. P. Warren, W. K. Wimsatt), il
cui influsso perdura negli USA fino agli anni Cinquanta, dall'altro da una dichiarata insoddisfazione nei confronti del
formalismo critico di ispirazione strutturalistica. In linea di massima, la messa in discussione delle teorie e
metodologie della critica letteraria, dal formalismo allo strutturalismo, dai new critics alla fenomenologia e alla critica
simbolica e archetipica, contrassegna il d. statunitense, in sintonia o in dialogo anche polemico con le tesi derridiane
che ne costituiscono comunque il punto d'avvio, comportando, sul versante più propriamente critico, una massiccia
rivalutazione del Romanticismo e della letteratura romantica angloamericana.
Nell'impostazione critica di P. de Man (1919-1983), il teorico più agguerrito degli Yale Critics, studioso di Hölderlin e
di Heidegger, l'interpretazione di un testo è ricondotta a una dialettica di "cecità" e "visione" ( Blindness and insight,
1971, 19832; trad. it., 1975), motivata dalla particolare natura del testo letterario come self-reflecting mirror, che
"contiene già in se stesso le proprie modalità di decostruzione" (Ferraris 1984), e cioè i contrassegni retorici che lo
caratterizzano come linguaggio letterario (Allegories of reading, 1979; The rhetoric of Romanticism, 1984) e che
caratterizzano pure il linguaggio della critica su di esso.
Dal ''relativismo ermeneutico'' di de Man differisce profondamente l'impostazione di H. Bloom, che tuttavia in vari
lavori − A map of misreading, 1975 (trad. it., 1988); The anxiety of influence, 1973 (trad. it., 1983) − ha orientato la

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problematica della critica letteraria sul concetto di "fraintendimento", misreading, un atteggiamento critico che
starebbe alla base della poesia rispetto alla tradizione poetica precedente ma che sarebbe proprio anche della critica,
che creativamente interpreta, e fraintende, un testo letterario.
Più vicini alle posizioni teoriche di Derrida risultano invece gli scritti degli anni Settanta di G. H. Hartman (The fate of
reading and other essays, 1975; Beyond formalism: literary essays 1958-1970, 1970) e di J. H. Miller (Fiction and
repetition: seven English novels, 1982), mentre altre correnti minori di critica e teoria della letteratura, che sono
presenti nel variegato panorama statunitense, sviluppano, estremizzano o contestano le tesi decostruzionistiche: il
cosiddetto ''distruzionismo'' di W. V. Spanos e P. Bové; il paracriticism di I. Hassan; la critica femminista; il d.
marxista.
In Italia, dove l'impostazione storicistica e l'analisi stilistica dei testi letterari, connessa alla pratica filologica,
costituiscono tuttora un punto di riferimento fondamentale, le teorie decostruzionistiche sono state oggetto di dibattito
metodologico perlopiù nell'ambito della teoria della critica e soprattutto sulle riviste specializzate, attente alle questioni
di teoria della letteratura, estetica ed ermeneutica: Alfabeta, Nuova Corrente, L'ombra d'Argo (poi Allegorie), Studi di
estetica, aut aut, ecc.
Bibl.: Su Derrida, oltre alla bibliografia della relativa voce in questa App., cfr. M. Ferraris, Jacques Derrida e il
dibattito sulla decostruzione, in Cultura e scuola, 28 (1989), 110, pp. 113-124; ibid., 111, pp. 84-97; ibid., 112, pp.
129-139; C. Resta, Pensare al limite. Tracciati di Derrida, Milano 1990; cfr. inoltre The structuralist controversy. The
languages of criticism and the science of man, a cura di R. Macksey ed E. Donato, Baltimora 1970 (trad. it., Napoli
1975).
Antologie di testi del decostruzionismo statunitense: Textual strategies. Perspectives in post-structuralism criticism, a
cura di J. V. Harari, Ithaca-New York 1979; Postmoderno e letteratura, percorsi e visioni della critica in America, a
cura di P. Carravetta e P. Spedicato, Milano 1984; J. Culler, P. de Man, N. Rand, Allegorie della critica, a cura di M.
Ajazzi Mancini e F. Bagatti, Napoli 1987; cfr. inoltre I. Hassan, Paracriticism: seven speculations of the Time, Urbana
(Illinois) 1975; B. Johnson, The critical difference: essays in the contemporary rhetoric of reading, Baltimora 1978; P.
Bové, Destructive poetics: Heidegger and modern American poetry, New York 1980; M. Ryan, Marxism and
deconstruction: a critical articulation, Baltimora 1982.
Saggistica: F. Lentricchia, After the New Criticism, Chicago 1980; C. Norris, Deconstruction. Theory and practice,
Londra-New York 1982; V. B. Leitch, Deconstructive criticism. An advanced introduction, New York 1983; The Yale
Critics. Deconstruction in America, a cura di J. Arac, W. Godzich, W. Martin, Minneapolis 1983; R. Ceserani, Breve
viaggio nella critica americana, Pisa 1984; M. Ferraris, La svolta testuale. Il decostruzionismo in Derrida, Lyotard, gli
"Yale Critics", Milano 1984; S. Cavicchioli, Lo sviluppo del dibattito (1982-88), in J. Culler, Sulla decostruzione,
Milano 1988 (ed. originale: On deconstruction. Theory and criticism after structuralism, Ithaca-New York 1982); D.
Della Terza, Il decostruzionismo e il caso De Man. La posizione di uno storicista, intervista a cura di R. Luperini,
in Allegoria, 3 (1991), pp. 109-23.

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strutturalismo
Teoria e metodologia affermatesi in varie scienze dal primo Novecento, fondate sul presupposto che ogni
oggetto di studio costituisce una struttura, costituisce cioè un insieme organico e globale i cui elementi non
hanno valore funzionale autonomo ma lo assumono nelle relazioni oppositive e distintive di ciascun
elemento rispetto a tutti gli altri dell’insieme.
1. Caratteri generali
Il termine s. e le concezioni da esso designate cominciano a diffondersi nell’Europa occidentale e negli USA
a partire dagli anni 1930. La linguistica è il terreno privilegiato delle prime manifestazioni
consapevoli. letteraria e l’etnologia sono i campi contigui di più immediata espansione. In diversi settori
della scienza tra la fine del 19° e gli inizi del 20° sec. appaiono studiosi e scuole che sottolineano il ruolo del
tutto rispetto alle parti, il ruolo del sistema, delle modalità generali di genesi e organizzazione rispetto ai
singoli avvenimenti e fenomeni atomici. Come scrive , riconoscere l’esistenza di gerarchie non accidentali
nei fenomeni è coessenziale allo s.; questo riconoscimento ha luogo in psicologia con la Gestalttheorie, in
antropologia con gli studi degli statunitensi , R. Benedict, , nella teoria economica e nella sociologia fin dal
tardo 19° sec., in linguistica con F. de Saussure ecc. In generale, si distinguono uno s. ontologico, di
carattere naturalistico e antistoricistico; uno s. storicizzante, che riconosce nelle strutture un prodotto
temporalmente circoscritto dell’agire umano; uno s. metodologico, che concepisce le strutture come mero
‘arrangiamento’ e modo di presentazione pragmaticamente opportuno dei fenomeni; uno s. epistemologico,
che nel riconoscimento del carattere strutturato di un campo di esperienza vede una necessità non
derogabile della conoscenza umana. L’esigenza di affermare posizioni strutturalistiche ha avuto larga
diffusione fuori della linguistica durante gli anni 1960. C. Lévi-Strauss nel campo dell’antropologia e R.
Barthes in quello della critica letteraria e del dibattito culturale hanno fatto valere uno s. ontologico e
naturalistico. Lo s. epistemologico, con diversa accentuazione, ha trovato sostenitori attivi in e nello
psicologo , al quale si deve un tentativo di sintesi generale del senso e della natura dello strutturalismo.
2. Linguistica strutturalista
In linguistica, il termine struttura fu proposto con il significato attuale nel 1929 a nelle Tesi del Circolo e
poco dopo a da , cioè dalle due scuole principali dello s. europeo, che si richiama all’insegnamento di
Saussure (nel cui Cours de linguistique générale, 1916, invece del termine ‘struttura’ è usato il sinonimo
‘sistema’). Prima della fonologia strutturale, parlando di sistemi fonetici si attribuiva a ogni lingua una
disposizione ordinata di elementi: le singole lingue trasceglievano, per comporre i propri sistemi, alcuni
pezzi da una sorta di catalogo universale. In questa prospettiva l’organizzazione di una lingua non
richiedeva altre analisi e spiegazioni, se non l’enumerazione delle entità (già date prima di essa) che
entravano a comporla. Saussure si pose il problema della natura di queste entità e ne distinse due tipi: gli
oggetti concreti, come i suoni, appartenenti alla parole, e le sistemazioni cognitive, come i fonemi, che
compongono la langue. Il sistema linguistico appare così il risultato di una classificazione arbitraria, cioè
non fondata naturalmente, compiuta dai parlanti, e il suo studio sincronico diventa non solo legittimo ma
anzi fondamentale: non essendoci più una delimitazione degli oggetti reali a cui rifarsi, due entità di due
lingue diverse, per quanto simili sostanzialmente, ricevono una differente definizione strutturale perché gli

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altri termini cui si oppongono nel sistema non sono gli stessi. Nello s. è possibile distinguere, almeno in una
prima fase, tre indirizzi fondamentali: quello facente capo alla scuola ‘fonologica’ di Praga, rappresentata
principalmente da N.S. Trubeckoj e R. Jakobson; quello della ‘glossematica’ danese, fondata da L.
Hjelmslev; quello dei linguisti americani, che si ispirano agli insegnamenti di .
L’ammissione di un’alterità che distingue il suono concreto, illimitato nei suoi caratteri fenomenici, e il
fonema, concepito come unità astratta, individuata da determinati tratti distintivi e capace d’individuare unità
più complesse, dà luogo nella scuola di Praga a un’esigenza di sistemazione degli schemi della funzione
distintiva, fondata esclusivamente sulle ragioni interne di questa: nasce così, contrapponendosi alla
tradizionale fonetica, la fonologia, che riconosce la realtà del fonema soltanto nell’autonomia della sua
funzione, ravvisando nella forma fonica una condizione necessaria ma non sufficiente alla sua costituzione.
Ma il valore della forma fonica viene riaffermato, per opera degli stessi strutturalisti, nell’applicazione del
metodo alla ricerca diacronica; viene così portata in luce l’esigenza di estendere il concetto di rilevanza
anche a quei fattori che, ritenuti extrafunzionali rispetto a una struttura autosufficiente nella sua definizione
astratta, sono in realtà operanti, e linguisticamente operanti, nella dinamica delle lingue (per es., la sonorità
delle nasali italiane).

Più difficile il superamento dell’antinomia tra sincronico e diacronico per gli altri due indirizzi dello s.: i
glossematisti rifiutano come non formale, e quindi non linguistica, la ‘sostanza’ fonica, sul piano
dell’‘espressione’, e quella mentale, sul piano del ‘contenuto’; intendono quindi guadagnare la funzionalità
del sistema definendo gli elementi linguistici esclusivamente sulla base delle loro relazioni (➔ glossematica).
Analogamente, gli strutturalisti statunitensi si propongono, in conformità con i presupposti antimentalisti
dettati dalla psicologia comportamentista, una descrizione del sistema linguistico che, a prescindere dai
significati, ritenuti estranei alla natura formale di esso, si fonda sulle possibilità combinatorie delle unità
come risultano dal confronto e dall’esame dei sintagmi, risolvendo empiricamente il problema della loro
identificazione (➔ distribuzionalismo).
Successivamente, da un lato il movimento dello s. si è esteso fino a coprire quasi ogni aspetto della
linguistica teorica contemporanea, dall’altro il termine è stato usato, soprattutto dai fautori della grammatica
generativa, a indicare, restrittivamente e negativamente, in particolare la tradizione bloomfieldiana. Nel
panorama della linguistica contemporanea, si assiste a un affinamento e a una diffusione sempre più larga
dei metodi dello strutturalismo. In generale, si può notare che la considerazione della lingua come un
sistema di rapporti, l’attenzione al condizionarsi reciproco degli elementi nella dinamica del funzionamento
linguistico, l’uso della formalizzazione si sono accompagnati a un allargarsi delle prospettive, all’estensione
dell’interesse verso questioni diacroniche e verso i problemi posti dall’effettivo uso linguistico in concrete
situazioni storiche e sociali. Agli irrigidimenti, all’isolamento e all’isolazionismo che si potevano cogliere nel
primo periodo della linguistica strutturale, è succeduta la duttilità, l’integrazionismo, lo scambio
interdisciplinare e il fiorire di discipline fecondamente ibride come la psicolinguistica, la sociolinguistica,
l’etnolinguistica ecc.

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3. Lo s. in altre discipline
In biologia, con s. si intendono la teoria e e la metodologia fondate sul riconoscimento di una funzione
globale dei vari organi, per cui essi sono definibili non in sé, separatamente, ma nella loro globalità e nelle
loro relazioni reciproche.
Nella filosofia, specialmente europea, lo s. ha attratto l’attenzione sia di neokantiani, come , sia di
fenomenologi, i quali hanno rivendicato l’esistenza di un’autonoma componente strutturalistica nel pensiero
di .

Nella critica letteraria, e anche artistica, lo s. costituisce una teoria e una prassi fondate sulla
considerazione esclusiva o preminente dell’aspetto formale dell’opera, intesa come un insieme organico di
elementi che derivano il loro valore funzionale dai rapporti che intercorrono all’interno dell’opera stessa tra
ognuno di essi e tutti gli altri.

POSTSTRUTTURALISMO
Il Discorso
I post-strutturalisti introducono il concetto di "soggetto parlante" o "soggetto in processo". Invece di
vedere il linguaggio come un sistema impersonale, come gli strutturalisti, essi lo vedono come
sempre articolato con altri sistemi e in particolare con processi soggettivi. Questa concezione del
linguaggio è riassunta nel concetto di "discorso".
La scuola di Bachtin (vedi il formalismo russo) è probabilmente la prima delle teorie moderne a
rifiutare la nozione saussuriana di linguaggio. Essa insiste nel dire che ogni espressione linguistica
deve essere considerata nel suo contesto sociale, perché ogni singola parola dialoga col suo contesto
(sia linguistico che sociale) e assume, quindi, un significato diverso a seconda di dove si trova.
Il PS spesso prende le vesti di una critica verso l'empirismo, per il quale la mente umana è l'origine
di ogni conoscenza, ricevendo le impressioni dal mondo esterno, organizzandole ed esprimendole
attraverso il linguaggio. Contro questo modello, il PS elabora la teoria delle "formazioni
discorsive", che rifiutano di separare Oggetti e Soggetti in mondi separati. Secondo questa
concezione, ogni cosa è sempre "in processo", persino lo stesso soggetto.
Roland Barthes: il testo plurale
Roland Barthes ha definito la letteratura come «un messaggio sul senso delle cose e non il loro
significato (per "senso" intendo il processo che produce il significato e non il significato in sé)».
Secondo lui, il peggior errore che può commettere uno scrittore è pensare che il linguaggio sia un
mezzo naturale e trasparente attraverso il quale il lettore coglie una "verità" o "realtà" solida e
unificata. Al contrario, il miglior scrittore è quello che conosce l'artificialità dello scrivere e gioca
con essa.
Il momento di maggior "post-strutturalismo" in Barthes si ha quando abbandona le sue pretese
scientifiche. Se prima egli credeva che lo strutturalismo fosse capace di spiegare ogni tipo di
sistema umano, ad un certo punto si è reso conto conto che ogni cosa, dunque anche ogni
linguaggio, dovrebbe essere spiegabile. Ma questa spiegazione è permessa grazie ad un linguaggio
che, nel caso sia spiegazione del linguaggio, diventa un metalinguaggio. A sua volta, questo
metalinguaggio è spiegabile da un'altro linguaggio, che diventa dunque pure lui metalinguaggio, e
così via fino a trovare che nessun linguaggio è stato spiegato. In termini pratici, ciò significa che
quando si legge come critici non si può mai uscire fuori dal discorso e adottare una posizione

10
invulnerabile. Ogni tipo di discorso, compresi quelli di investigazione critica, sono allo stesso modo
finti, non-veritieri.
Nel suo La morte dell'autore (1968) Barthes sancisce la libertà del lettore di fronte al testo: l'autore
è morto, non esiste, è ridotto a mero luogo di incontro di linguaggio, citazioni, ripetizioni, echi e
referenze, per cui il lettore è libero di aprire e chiudere processi di significato del testo, senza
nessun riguardo per i significanti.
In S/Z (1970) egli denuncia la vanità dell'ambizione strutturalista di interpretare tutte le storie del
mondo attraverso una singola struttura. Il tentativo di trovare una struttura è vano, perché ogni testo
possiede una differenza. In questo saggio Barthes distingue tra testi realistici, che offrono al lettore
significati chiusi e altri tipi di testo, che incoraggiano invece il lettore a produrre significati. Il primo
tipo di testo permette al lettore unicamente di essere ilconsumatore di un significato fisso: è il testo
"leggibile"; il secondo tipo rende il lettore un produttore: è il testo "scrivibile".
Jacques Lacan: linguaggio e inconscio
Il pensiero occidentale ha assunto per molto tempo la necessità di un soggetto "unificato".
Conoscere qualcosa presuppone, da questo punto di vista, una coscienza unificata che opera il
processo di conoscenza. In realtà, secondo Lacan, il soggetto è "in processo" ed è, soprattutto,
capace di diventare altro da ciò che è.
Se le critiche marxiste, formaliste e strutturaliste hanno denunciato le critiche "soggettive"
tacciandole di romantiche e reazionarie, Lacan d'altra parte elabora una teoria critica che, pur
mettendo in primo piano la soggettività, si basa su una concezione "materialistica" del "soggetto
parlante". Partendo dalle assunzioni del linguista Émile Benveniste, egli distingue tra il soggetto
dell'enunciazione, l'EGOche si esprime parlando, e il soggetto dell'enunciato, l'IO, che non fa parte
dell'ego perché è un mero deittico.
Lacan sostiene che il soggetto umano entra in un sistema di significati preesistente che assume
senso per lui solo attraverso il sistema linguistico. Il fatto di entrare nel linguaggio ci rende in grado
assumere una posizione come soggetto all'interno di un sistema relazionale (maschio/femmina,
padre/madre/figlia, ecc.). Questo processo e gli stadi che lo precedono sono diretti dall'inconscio.
Lacan parte dalla teoria freudiana, secondo la quale, durante le prime fasi della vita, gli impulsi
libidici del bambino non hanno nessun oggetto sessuale predefinito ma giocano intorno alle varie
zone erogene del corpo. Prima che distinzioni di genere o d'identità siano definite esiste soltanto il
"principio del piacere". È la repressione del piacere che permette al bimbo maschio di identificarsi
attraverso il padre in un ruolo "maschile". Questa fase, dovuta all'agire della "società"
sull'individuo, introduce nozioni come la morale, la legge e la religione, simboleggiate dalla "legge
patriarcale", e induce allo sviluppo del "super-io" nel bambino. Tuttavia, il desiderio represso non
viene abolito, e rimane nell'inconscio: così, si può dire che la forza di questo desiderio è lo stesso
inconscio.
Lacan distingue nella crescita del bambino tra una fase "immaginaria", in cui non c'è una chiara
separazione tra soggetto e oggetto, e una fase "simbolica", in cui il bimbo incontra la "legge del
padre" e si costituisce come soggetto. La fase prelinguistica "dello specchio", che segna il passaggio
da quella immaginaria a quella simbolica, il bambino proietta una certa unità nell'immagine
frammentata di sé che gli rimanda lo "specchio sociale", e produce così un "ego", un ideale
"finzionale" di sé.
Lacan riformula le teorie freudiane nel linguaggio di Saussure: infatti, egli identifica i processi
dell'inconscio con l'instabile significato che sfugge chi lo vuole fermare. La teoria freudiana dei
sogni è reinterpretata da Lacan come una teoria testuale. Secondo Freud, l'inconscio nasconde
significati nelle immagini simboliche dei nostri sogni; immagini da decifrare. Le immagini oniriche
si formano attraverso un processo di condensazione (più immagini combinate in una sola) e un

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processo di spostamento(rappresentazione di un'immagine al posto di un'altra, e quindi slittamento
di significato). Lacan chiama il primo processo "metafora" e il secondo "metonimia". Similmente, i
"meccanismi di difesa" dell'inconscio individuati da Freud sono tradotti da Lacan in termini
di figure retoriche, come l'ironia, l'ellissi, ecc.).
Queste posizioni lacaniane hanno incoraggiato la critica moderna ad abbandonare la fiducia nella
possibilità del linguaggio di riferirsi al mondo delle cose e di esprimere idee o sensazioni. La
letteratura modernista spesso assomiglia al sogno, nel suo tentativo di eliminare la figura del
narratore e nel libero gioco di significati in cui si esprime.
Julia Kristeva: linguaggio e rivoluzione
Il più importante contributo della studiosa Julia Kristeva ai problemi di critica letteraria è La
rivoluzione del linguaggio poetico del 1974. Questo saggio rappresenta un tentativo di analisi del
processo per cui tutto ciò che è ordinato e razionalmente accettato è continuamente minacciato
dall'eterogeneo e l'irrazionale.
Il termine "rivoluzione" per Kristeva non ha un senso solo metaforico. La possibilità di un
cambiamento sociale radicale, secondo lei, fuoriesce dalla disgregazione dei discorsi autoritari. Il
linguaggio poetico introduce un'apertura sovversiva all'interno dell'ordine simbolico chiuso della
società: «Quello che la teoria dell'inconscio vede, il linguaggio poetico lo pratica, all'interno e
contro l'ordine sociale». Talvolta ella considera la poesia modernista come l'inizio di una
rivoluzione sociale che si compirà non appena la società avrà raggiunto una certa complessità;
talaltra teme che l'ideologia borghese semplicemente recuperi questa rivoluzione poetica trattandola
come una valvola di sicurezza per quegli impulsi repressi che vieta all'interno del sistema sociale.
Jacques Deridda: decostruzione
La sua conferenza del 1966 Structure, Sign and Play in the Discourse of the Human Science ha
inaugurato un nuovo movimento nella critica americana. Egli assume che la nozione di "struttura",
persino nella teoria strutturalista, ha sempre presupposto in qualche maniera l'esistenza di
un "centro" di significato. Questo "centro" governa la struttura, ma in sé non può essere l'oggetto di
un'analisi strutturale, perché cercare la struttura di un centro significherebbe cercare un altro centro.
Il pensiero occidentale ha sviluppato innumerevoli termini che fungono da principi "centrali":
essere, sostanza, verità, forma, essenza, inizio, fine, scopo, coscienza, Dio, ecc. Del resto, sarebbe
impossibile sostenere di poter pensare all'infuori di questi termini; ogni tentativo di disfare uno di
questi concetti finirebbe per creare la necessità di almeno un termine altrettanto "centrale". Tutto
ciò che si può fare è rifiutare che in un sistema uno dei due poli (mente/corpo, buono/cattivo,
bello/brutto, serio/ironico) diventi un centro e, quindi, il garante di una presenza.
Il desiderio di un centro è chiamato "logocentrismo" da Deridda. È interessante notare che "logos"
in greco significa "parola". Deridda inventa la parola "différance" per veicolare la duplice natura del
segno. In francese la "a" di différance non si sente, per cui, pronunciandolo, la parola che si associa
a questo termine è différence. L'ambiguità è percettibile solo nella scrittura: il verbo différer
significa al contempo differire e deferire. Quello che importa è sottolineare come, tra il linguaggio
orale e quello scritto, il secondo è considerato come una forma contaminata del primo (sentito come
più vicino al pensiero originario).
La coppia scritto/orale è un esempio di quello che Deridda chiama una "gerarchia violenta", che il
pensiero occidentale ha supportato per preservare una presenza. Ma la gerarchia può facilmente
essere ribaltata: tra la scrittura e l'espressione orale, si può pensare la seconda è una sottospecie
della prima. Questa operazione di ribaltamento è ciò che Deridda chiama "decostruzione": si
individua la gerarchia, la si ribalta, e finalmente si stabilisce una nuova gerarchia scambiando le
posizioni dei due termini.

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Discorso e potere: Michel Foucault
Un particolare movimento del post-strutturalimo considera le forze politiche ed economiche, così
come i controlli ideologici e sociali, aspetti di processi di significato. Per questo movimento ogni
discorso è coinvolto col potere. Quando un Hitler o un Stalin sembrano mantenere sotto una
dittatura un'intera nazione attraverso il potere del discorso, è assurdo pensare che questo potere stia
occorrendo semplicemente all'interno del discorso: il vero potere è esercitato tramite il discorso, che
è un vero e proprio potere dagli effetti reali.Il padre di questa concezione è il filosofo tedesco
Nietzsche, quando sostiene che le persone prima decidono cosa vogliono e solo poi traducono
questa volontà in fatti.
Come molti altri post-strutturalisti, Foucault ritiene che il discorso sia una delle attività centrali
dell'uomo, ma non inteso come un "testo" universale e generale; egli prende invece in
considerazione la dimensione storica del cambiamento discorsivo. Ciò che si può esprimere
attraverso parole cambia da epoca a epoca.
Il PS spesso prende le vesti di una critica verso l'empirismo, per il quale la mente umana è l'origine
di ogni conoscenza, ricevendo le impressioni dal mondo esterno, organizzandole ed esprimendole
attraverso il linguaggio. Contro questo modello, il PS elabora la teoria delle "formazioni
discorsive", che rifiutano di separare Oggetti e Soggetti in mondi separati. Secondo questa
concezione, ogni cosa è sempre "in processo", persino lo stesso soggetto.

essenzialismo
Genericamente, ogni dottrina o corrente filosofica per la quale la conoscenza consiste nella ricerca di
essenze intese come realtà ultime.
In accezione fondamentalmente negativa, K.R. Popper ha chiamato e. o e. metodologico l’orientamento
epistemologico che tende a dare risposte a domande come: «che cosa è la materia?». A questo erroneo
modo di porre le domande scientifiche, Popper contrappone l’autentico modo di procedere delle scienze
naturali, le quali non compiono indagini sull’essenza degli atomi, della luce ecc., ma si servono di questi
termini per descrivere osservazioni fisiche e sperimentali. All’e. Popper riconduce anche il cosiddetto
collettivismo od olismo metodologico, consistente nella spiegazione degli eventi storici e sociali attraverso il
ricorso a entità super-individuali (lo Stato, , lo spirito del popolo) intese come essenze e realtà sui generis.

esistenzialismo
Movimento filosofico (e in seguito anche letterario), che comprende quegli indirizzi di pensiero che
concepiscono la filosofia non come sapere sistematico e astratto, ma come impegno del singolo nella
ricerca del significato e della possibilità dell'"esistenza", il modo cioè d'essere specifico dell'uomo,
caratterizzato dall'irripetibilità e dalla precarietà.

L'ESISTENZIALISMO IN GERMANIA
Sorto in Germania nel primo dopoguerra, come rinascita del pensiero di S. Kierkegaard (') - rimasto isolato
e incompreso nel suo tempo - l'e. presenta due direzioni principali: quella umanistico-mondana e quella
teologica. La prima è rappresentata, in Germania, da M. Heidegger, che dà un contenuto umano e

13
mondano ai concetti teologico-religiosi (angoscia, peccato, colpa, decisione ecc.) dell'e. kierkegaardiano e
concepisce l'esistere autentico come "angoscia" rivelatrice del "nulla". La seconda direzione è
rappresentata, sempre in Germania, dalla "teologia della crisi" del protestante K. Barth, che sulle orme di
Kierkegaard concepisce l'esistere autentico come rapporto del singolo con Dio, mediante il quale ci si libera
dall'angoscia del nulla. Avviamento all'atmosfera religiosa di questa tendenza è da considerare il pensiero
di K. Jaspers, che concepisce l'esistenza come rapporto al trascendente (das Umgreifende, il "tutto-
avvolgente", cioè il fondo dell'essere che, pur trascendendoci, ci include in sé) e svolge particolarmente il
tema del 'naufragio' o 'scacco'.

L'ESISTENZIALISMO IN FRANCIA E IN ITALIA


In Francia, mentre J.-P. Sartre è il maggiore esponente dell'e. laico, la direzione teologica è rappresentata
da G. Marcel, L. Lavelle (1883-1951), R. Le Senne (1882-1954). In Italia, l'indirizzo umanistico-mondano ha
avuto i suoi esponenti, per un certo periodo, in N. Abbagnano, E. Paci (1911-1976), C. Luporini (1909-
1993), i quali, in polemica con l'e. negativo, tedesco e francese, hanno accentuato il significato positivo
dell'esistenza; quello teologico è stato sviluppato da E. Castelli (1900-1977).

L'ESISTENZIALISMO LETTERARIO
Accanto all'e. filosofico si è affermato un e. letterario, specialmente in Francia, con le opere teatrali e
narrative di J.-P. Sartre, S. de Beauvoir, A. Camus. Sempre in Francia, alla fine della Seconda guerra
mondiale, l'e. ha avuto una ripercussione anche nel campo del costume, assumendo talvolta forme estreme
di scapigliatura e spregiudicatezza.

LACAN
1.
Nato a Parigi nel 1901 da una famiglia borghese cattolica, educato dai Gesuiti, Jacques Lacan
consegue la laurea in medicina e la specializzazione in psichiatria con una tesi sulla psicosi
paranoica. Nel 1931 entra come interno nell'ospedale di Sant'Anna. Nel 1932 avvia l'analisi
personale con Lowenstein. Dotato di vasti interessi, frequenta gli ambienti artistici del surrealismo e
segue corsi di filosofia, assimilando l'interpretazione hegeliana di Kojève. Nominato primario
ospedaliero, nel 1934, rinuncia alla carriera ed è ammesso come membro iscritto alla Societé
Psychanalitique de Paris. Esordisce nel 1936 sulla scena psicoanalitica con la presentazione, al XIV
Congresso Psicanalitico Internazionale, di una relazione sullo "stadio dello specchio", che verrà
ampliata in un congresso del 1949 con il titolo Lo stadio dello specchio come formatore della
funzione dell'"io". Utilizzando gli apporti della linguistica e dell'antropologia strutturale, giunge a
conclusioni incompatibili con l'ortodossia psicoanalitica. Nel 1953 fonda la Società Francese di
Psicoanalisi. Dallo stesso anno tiene ogni mercoledì, presso l'ospedale psichiatrico di Sant'Anna, dei
seminari, che proseguiranno sino al 1980, ai quali partecipano, oltre ai suoi allievi, studiosi di
rilievo come Merlau-Ponty, Lévi-Strauss, Battaille, Sartre. Egli frequenta anche assiduamente
Foucault e Althusser, suo paziente e ammiratore. Negli anni sessanta insegna all'École Pratique des
Hautes Études. Nel 1964 fonda la Scuola Freudiana di Parigi - il cui organo è la rivista Scilicet -,
attraverso la quale propone il suo pensiero all'insegna del ritorno a Freud, in aspra polemica con le
correnti culturaliste statunitensi. Nel 1966, in seguito alla pubblicazione degli Scritti, viene
annoverato tra i Maîtres a penser dello strutturalismo (uno dei moschettieri, con Lévi-Strauss,
Foucault e Althusser). Attorno alla sua Scuola gravitano psicoanalisti (Laplanche, Pontalis,

14
Guattari), critici (J. Kristeva), filosofi (Deleuze). A Lacan si riconducono anche i cosiddetti
Nouveuaux Philosophes. Il lacanismo diventa una moda, esaltata dai seguaci e violentemente
contestata dai critici. Nel 1980, Lacan scioglie la Scuola, per evitare una lotta di successione tra gli
allievi. Muore nel 1981.
Oltre agli Scritti (trad. it. Einaudi, Torino 1974, 2 voll.), sono stati pubblicati, a cura degli allievi, 26
volumi che riproducono i testi dei Seminari (tradotti in italiano da vari editori)
Tra gli scritti critici, occorre segnalare l'Introduzione a Jacques Lacan di A. Rifflet-Lemaire
(Astrolabio, Roma 1972), con una prefazione in francese di Lacan stesso, e Che cosa ha veramente
detto Lacan di J.-B. Fages (Ubaldini, Roma 1972). L'esposizione più nitida del pensiero lacaniano si
trova, però, nel volume settimo della Storia della Filosofia di Nicola Abbagnano (TEA, Torino
1996) scritto da Giovanni Fornero (pp. 418-443).
2.
Dall'inizio alla fine della sua attività, Lacan ha iscritto il suo pensiero nella formula del ritorno a
Freud. Ottantenne, nel corso dell'ultimo seminario, egli si rivolge ai suoi discepoli esclamando: "A
voi, se volete, d'essere lacaniani. Per mio conto, io sono freudiano." L'esigenza di un ritorno a Freud
comporta una critica esplicita di tradimento nei confronti dell'ortodossia, alla quale Lacan imputa
una fedeltà pedissequa all'insegnamento del Maestro, che diventa corrosiva nei confronti della
corrente culturalista statunitense, colpevole di avere trasformato l'analisi in una pratica di
adattamento alla realtà sociale.
Il tradimento denunciato da Lacan, che avrebbe estinto il significato rivoluzionario della
psicoanalisi in rapporto alle scienze umane, comporta due capi d'imputazione correlati tra loro. Il
primo, di ordine teorico, coincide con la messa tra parentesi della scoperta dell'Inconscio come una
parte della mente umana che comunica, emette messaggi, formula discorsi - in breve, parla - con
l'intento di sopperire alle mistificazioni costitutive dell'io cosciente.
Che significato ha questa denuncia, se è vero che la psicoanalisi postfreudiana ha sempre
riconosciuto l'inconscio come depositario di memorie e contenuti psichici necessari per mettere l'io
in grado di ricostruire la sua storia interiore in termini più fedeli all'esperienza vissuta e ha sempre
attribuito ad esso una capacità espressiva?
Lacan sostiene che la psicoanalisi ha acquisito l'inconscio come una sorta di retroterra mentale,
senza fare i conti con l'intuizione più profonda di Freud: quella di una dimensione costitutiva della
soggettività umana, priva di coscienza, che nondimeno parla e dunque pensa. La scoperta di Freud,
secondo Lacan, consiste nello sconvolgere l'adagio di Cartesio: io penso, dunque sono. Essa
costringe a dire: "Io penso dove non sono, dunque io sono dove non penso".
Il secondo capo d'imputazione, correlato al primo, verte sull'assunzione dell'Inconscio come
depositario di contenuti psichici, rimossi o repressi, il cui recupero è necessario al fine di ricostruire
la storia interiore vissuta da un soggetto e di dare all'io la possibilità di fare i conti con essa. Lacan
non minimizza quest'aspetto, che è il cuore della pratica analitica. Egli ritiene però che l'Inconscio
vada al di là di questo. Ciò che è in gioco, in analisi, non è solo la verità dell'esperienza privata, ma
la Verità tout-court. Questa Verità ultima è che l'accesso al Linguaggio, in difetto del quale non si
potrebbe definire un io cosciente, è il motivo stesso per cui la costituzione dell'io è alienata, vale a
dire irretita da una serie di identificazioni immaginarie, al di sotto delle quali l'Inconscio lavora
attestando che egli è null'altro che un essere simbolico affetto da una mancanza ad essere contro la
quale non si dà rimedio.
Funzionale a colmare le lacune per cui l'identità immaginaria dell'io è lontana dall'esperienza
realmente vissuta dal soggetto, l'Inconscio denuncia anche che le pretese dell'io di essere padrone di
se stesso sono vane.

15
La teoria lacaniana ricava, dunque, dalla pratica analitica e dalla decifrazione dell'Inconscio, una
problematica filosofica che è esistenzialista, se non addirittura ontologica.
Il ritorno a Freud significa, in breve, posto che l'Inconscio parla, il connubio della psicoanalisi con
la Linguistica, e più precisamente con la Linguistica strutturale (da Saussure a Jakobson). Non si
stenta a capire in quale misura questo connubio, proposto come essenziale per una riformulazione
della teoria psicoanalitica, sia dipendente dal clima culturale francese del dopoguerra,
contrassegnato dalla riscoperta di Saussure, dal fascino esercitato dalla prima scienza umana - la
Linguistica, appunto - giunta a dotarsi di un quadro teorico rigoroso, e dal fiorire, sulla base di tale
scoperta, dello strutturalismo come metodologia applicabile in pressoché tutti gli ambiti del sapere
inerente l'uomo e i fatti umani. Non è certo per caso che il pensiero di Lacan si è sviluppato in virtù
di un'assidua comunicazione, fondata anche sulla conoscenza personale, del pensiero di Lévi-
Strauss, Althusser, Foucault, che sono, a torto o a ragione, considerati. con lui stesso, i moschettieri
dello strutturalismo.
Il connubio della psicoanalisi con la linguistica non comporta, però, in Lacan solo l'adozione di
concetti linguistici, bensì la loro riformulazione in rapporto al campo particolare che l'analisi
esplora. Tale riformulazione può essere sintetizzata, semplificando le cose, in questi termini. Il
soggetto cosciente parlando tende ad esprimere, attraverso le parole (i significanti), contenuti di
pensiero (i significati). L'Inconscio parla, ma attraverso una trama indefinita e vertiginosa di
significanti che scorrono su di una rete sottostante di significati con cui essi non hanno un rapporto
univoco. In breve: mentre a livello cosciente, si dà il primato dei significati sui significanti, tale che
l'espressione fonica è sempre subordinata al piano dei contenuti (a ciò che il soggetto intende
comunicare), a livello inconscio si dà, viceversa il primato dei significanti, tale che l'espressione
rimanda ad un'altra espressione e così via all'infinito, rimanendo sempre incerto o indefinibile il
piano dei contenuti a cui essi si riferiscono.
Le leggi della linguistica, che associano indissolubilmente, nella nozione di segno, il significante
(parte del segno che è percettibile) e il significato (parte del segno che è immateriale, concettuale)
sono valide, dunque, per la coscienza, ma non per l'Inconscio. Nell'Inconscio, il significante è un
sistema, una rete, una catena, e il significato è ciò a cui rinvia il significante ma che rimane
inarticolabile, indecidibile, ineffabile.
L'assioma lacaniano secondo il quale l'Inconscio è strutturato come un Linguaggio assume senso
pieno solo aggiungendo che si tratta di un linguaggio particolare, caratterizzato dal primato dei
significanti. L'Inconscio, dunque, ha una dimensione linguistica caratterizzata dal fatto che la
formula saussuriana del segno, la quale comporta una barra posta tra il Significato (concetto) e il
Significante (immagine acustica), viene ad essere rovesciata. La barra, inoltre, che in Saussure
definisce la distinzione ma anche l'intimo nesso tra le due componenti del segno (come tra le due
facce di una medaglia o il verso e il retro di uno stesso foglio), si pone in Lacan come una rigida
separazione tra due catene che scorrono l'una sull'altra ma senza vincoli, tal che la catena dei
significati rimane preclusa.
Il ritorno a Freud di Lacan, sulla base della valorizzazione delle intuizioni linguistiche del maestro,
avviene dunque in virtù di una riformulazione piuttosto disinvolta e sorprendente del concetto
centrale della Linguistica, quello di segno. Indipendentemente dalla sua utilità a livello di pratica
analitica - problema che sarà affrontato ulteriormente - c'è da chiedersi quali motivi rendano
necessaria tale riformulazione. Con ciò entriamo nel vivo della teoria di Lacan.
2.
Il fondamento della teoria di Lacan è lo sviluppo della personalità, la quale riconosce tre tappe
precoci. La prima comporta un'indistinzione totale tra il bambino e il mondo esterno, in particolare
la madre. La seconda, la fase dello specchio, che va dal sesto al diciottesimo mese, è caratterizzata

16
dal fatto che, specchiandosi nell'immagine che la madre ha di lui, il bambino se ne appropria e
definisce la sua identità in funzione di essa. Si tratta dunque di un'identità immaginaria, in
conseguenza della quale il bambino desidera essere ciò che la madre desidera ch'egli sia, vale a dire
ciò che ad essa manca (il Fallo). Il Fallo in Lacan non ha alcun rapporto con l'organo anatomico:
esso è un significante metaforico, che fa riferimento alla mancanza ad essere costitutiva di ogni
soggettività. La terza tappa - quella edipica - è caratterizzata dall'intervento del padre che,
separando il bambino dalla madre, lo introduce nell'ordine simbolico della Legge e del Linguaggio.
Questa terza tappa è, ovviamente la più importante, ma anche la più complessa. Il padre in
questione infatti non è quello reale. Questi incarna una funzione paterna, ricondotta da Lacan al
Nome del Padre - che, reprimendo il desiderio del bambino di rimanere assoggettato al desiderio
della madre, promuove l'accesso all'ordine simbolico del Linguaggio: "nel nome del padre bisogna
riconoscere il fondamento della funzione simbolica che, fin dagli inizi dei tempo storici, identifica
la sua persona con la figura della Legge". L'accesso all'ordine simbolico determina però una
separazione tra l'io cosciente e l'Inconscio, il quale si definisce sulla base dell'interiorizzazione della
trama dei significanti propri di una determinata società o cultura, e si struttura sulla base di essa. La
genesi dell'Inconscio è l'altra faccia della medaglia della costituzione dell'io. L'io, per definire se
stesso, ha bisogno della parola, vale a dire dello strumento che gli consente di esprimere significati.
L'Inconscio è la trama dei significanti, il sistema della Lingua, che consente di parlare, ma non può
essere contenuto nello spazio della coscienza.
Il passaggio dall'animale all'uomo avviene, dunque, attraverso l'accettazione di un ordine simbolico
che è un prodotto culturale impersonale. Come ha inciso sull'apparato psichico questo passaggio?
La tradizione freudiana pensa che il linguaggio abbia consentito alla coscienza di raggiungere
l'autoconsapevolezza e di prendere le distanze dal mondo pulsionale. Secondo Lacan, invece, esso,
in quanto trama di significanti impersonali, ha strutturato l'Inconscio assegnando all'io un'identità
illusoria, immaginaria e mistificante. L'avvento dell'uomo coincide con una spaccatura ("Spaltung")
fra lo psichismo inconscio e la coscienza soggettiva, in conseguenza della quale l'Inconscio viene
subordinato totalmente all'ordine simbolico (il Linguaggio), mentre l'io cosciente rimane preda del
narcisismo immaginario.
In questo senso l'io è un sintomo, se non addirittura il sintomo di una malattia mentale costitutiva
dell'identità cosciente, è l'alienazione stessa fatta persona, cioè maschera, al di sotto della quale sta
la parte vera e essenziale della personalità, che coincide con un ordine che la trascende.
Lo sviluppo dell'io avviene sulla base di una doppia separazione traumatica; la prima, è la
separazione dal corpo della madre; la seconda, è la rinuncia, dovuta all'intervento del padre, a
mantenere con essa un legame fusionale, assoggettandosi ad essere semplicemente l'oggetto del suo
desiderio. Per quanto compensata dall'accesso all'ordine simbolico, il trauma della separazione
persiste per sempre a livello inconscio sotto forma di mancanza ad essere. La prima separazione
definisce il bisogno organico di un organismo separato dal suo naturale complemento, che si
traduce nella pulsione - un'energia dilagante nel bambino che esprime a mancanza del complemento
materno. Incontrando i limiti del corpo, la pulsione è canalizzata attraverso le zone erogene. La
seconda separazione attiva il desiderio, orientato ad appagare la nostalgia del bambino per il legame
fusionale con la madre. Dato l'obiettivo impossibile di colmare la mancanza ad essere prodotta da
questa separazione, il desiderio si configura come infinito e si traduce, infine, in virtù del
linguaggio, in domanda. Nella misura in cui rinvia ai desideri sempre rimossi, la domanda stessa
rimane inesorabilmente insoddisfatta. Essa si aliena, diventando sempre meno consapevole del suo
autentico significato, vale a dire che ciò che desidera l'uomo è che l'altro lo desideri: vuole essere
ciò che manca all'altro, essere la causa del desiderio dell'altro.
La costituzione alienata dell'io e l'ulteriore alienazione legata alla domanda rappresentano il
fondamento della terapia lacaniana. Per quanto riguarda il primo aspetto, posto che i sintomi

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rappresentano l'espressione immaginaria di significanti rimasti esclusi dalla coscienza, si tratta di
aiutare l'io a rinunciare alle sue identificazioni immaginarie e al suo narcisismo e ricondurlo ad
integrare nella coscienza i significanti rimossi. Per quanto riguarda il secondo aspetto si tratta, per
quanto riguarda l'analista di frustrare la domanda. Il suo compito non è quello di alimentare il
narcisismo immaginario che in essa si esprime, bensì nel mettere il soggetto in grado di accettare
che la pienezza dell'essere, definitivamente perduta, e peraltro illusoria, è vicariata dall'accesso
all'ordine simbolico, vale a dire dall'Inconscio che, con la sua trama di significanti, lo restituisce al
suo essere governato dal Linguaggio, che gli permette di appartenere alla società. Per aprirsi a
questa Verità, che lo trascende, il soggetto deve rinunciare all'unità fittizia del suo io.
L'attacco alle pretese evidenze dell'io, implicito nella teoria freudiana, giunge, dunque, con Lacan
alle estreme conseguenze. La Verità non è né potrà mai essere catturata dall'io: essa è altrove, o,
meglio, è l'Altro che alberga in ogni uomo sotto forma di una rete di significanti che raccordano la
sua esperienza alla storia, alla cultura, alla società.
L'Altro esaurisce in sé e per sé l'ordine simbolico cui l'uomo appartiene e che lo fonda. Aprirsi a
quest'ordine, riconoscendolo nella misura in cui è possibile, ma senza la pretesa di padroneggiarlo, è
la cura che porta l'io a demistificarsi. Alla domanda ultima che il paziente rivolge all'analisi, che è
una domanda di senso e di pienezza, l'analista non può rispondere che riconducendo il soggetto alla
Verità: la verità privata della sua vera storia interiore, mistificata dall'io, e la Verità ultima di una
mancanza ad essere che non può in alcun modo essere colmata.
Questo, in estrema sintesi, è il nocciolo del pensiero lacaniano, che basta per capire a quanti
fraintendimenti esso sia andato incontro. Assunto come rivoluzionario da tutte le correnti culturali
degli anni '60 che sottolineavano lo stato normalmente alienato della coscienza, fino al punto di
essere connotato come "antipsichiatrico", nella misura in cui identificava nel disagio psichico una
protesta inconscia contro l'alienazione, il pensiero di Lacan è stato anche accusato di essere
reazionario e metafisico in virtù dell'insistenza su di una mancanza ad essere ontologica che poteva
facilmente apparire come aperta ad una risposta religiosa. In realtà, Lacan è volutamente ambiguo e
fuorviante. Egli ritiene, come molti intellettuali della sua epoca, che un pensiero, per approssimarsi
alla verità, deve essere necessariamente, almeno per alcuni aspetti, complesso e inafferrabile, tanto
più se c'è di mezzo l'Inconscio.
3.
Il ritorno a Freud proposto da Lacan è piuttosto singolare. In Freud l'Es, che ha una dimensione
psicobiologica, è fatto di pulsioni cieche, desideri illimitati, passioni anarchiche. In Lacan coincide
con l'ordine simbolico del Linguaggio: un ordine originariamente esterno al soggetto, l'accesso al
quale gli consente di raggiungere lo statuto dell'io. Egli non giunge a negare le pulsioni, ma le
identifica con l'energia dilagante del bambino, dipendente dalla sua mancanza ad essere. Esse,
dunque, si originano a partire da un trauma, la separazione dalla madre, e hanno una dimensione
prevalentemente psicologica.
Dato che Freud non ha mai avuto alcun ripensamento sulla teoria delle pulsioni, è difficile
ammettere che egli avrebbe potuto riconoscere nel pensiero di Lacan un'espressione di fedeltà
piuttosto che di dissidenza.
In realtà, il pensiero lacaniano comporta una contestazione radicale del positivismo freudiano in
nome di una concezione dell'uomo che lo vede fasciato e determinato in tutti i suoi aspetti dal
Linguaggio e dalla Cultura. L'unico aspetto teorico di Freud che Lacan condivide pienamente
riguarda la centralità dell'Edipo, che regola il passaggio dalla Natura alla Cultura della specie
umana e di ogni suo membro. Ma l'Edipo di Lacan, nella misura in cui comporta l'abbandono della
dimensione immaginaria a favore di quella simbolica, è altro rispetto a quello freudiano. Esso infatti
non fa riferimento alla potenza della pulsione sessuale, bensì al desiderio dell'io, la cui originaria

18
identità si fonda sulla fusione duale con la madre, che gli dà un senso di pienezza, di non
sperimentare la mancanza ad essere che egli scopre separandosene e accedendo, per effetto
dell'intervento del Nome del padre, al Linguaggio, alla Cultura e alla Società.
La mancanza ad essere, concetto centrale nella teoria lacaniana, è di chiara derivazione
heideggeriana. Mentre però in Heidegger essa designa lo scarto incommensurabile tra l'esistente e
l'Essere, in Lacan l'ex-sistere, l'essere gettato nel mondo si riduce alla separazione dal corpo
materno e alla fuoriuscita dal legame duale, fusionale con il desiderio della madre che ad essa fa
seguito.
Il pessimismo di Lacan sulla natura umana non è meno intenso di quello di Freud, è solo di ordine
diverso. In Freud, esso si definisce come istinto di morte, pulsione di restaurare un equilibrio
originario in nome del venir meno di ogni relazione con il mondo; in Lacan, esso fa riferimento ad
un equilibrio immaginario, fondato sulla relazione duale con la madre, il venir meno del quale
rappresenta un trauma che costringe l'io a mantenere un'identità fittizia, mistificata, immaginaria, a
pretendere insomma di essere soggetto, laddove egli è abitato dalla soggettività, che s'identifica con
il Linguaggio.
Anche sotto il profilo terapeutico, il ritorno lacaniano a Freud è piuttosto dubbio. Nell'ottica
lacaniana, esso coincide nel riabilitare la scoperta freudiana secondo la quale la base della cura è la
parola rivolta dal soggetto all'analista. Dato che nessuna corrente analitica ha mai negato questo, c'è
da chiedersi in che senso Lacan ritiene che tale verità debba essere riabilitata. E' evidente che la
parola cui fa riferimento Lacan non è quella pronunciata effettivamente dal paziente, che, di solito,
esprime la sua sofferenza, descrive i sintomi, rievoca ricordi, ecc. La parola in questione è il
desiderio implicito dietro ciò che il paziente dice: il desiderio dell'altro. Ciò che desidera l'uomo
immediatamente, cioè a livello soggettivo, è, come si è detto, che l'altro lo desideri. Dato però che
la perfetta coincidenza del soggetto e dell'oggetto, vale a dire la loro fusione in un'unità, è un mito,
il desiderio dell'altro, in realtà, rimanda all'Altro, vale a dire all'ordine simbolico, in una tensione
incessante che non può avere mai fine perché l'Ordine simbolico trascende il soggetto e la sua
capacità di possederlo. Egli può solo inserirsi in esso e riconoscerlo, accettando lo scarto radicale
tra il suo essere e quell'Ordine.
Solo nel sottolineare le pretese evidenze dell'io, vale a dire che l'io non è padrone in casa sua, Lacan
si può ritenere fedele a Freud. Quelle evidenze sono negate da Freud in nome del fatto che esse
misconoscono che la vera realtà psichica, l'Es, si riduce alla tensione delle pulsioni verso un cieco
appagamento. Esse, viceversa, sono negate da Lacan in nome del fatto che l'io è abitato dall'Altro,
dall'ordine simbolico del Linguaggio che è esso stesso impersonale.
L'obiettivo della cura non è dunque la frustrazione delle pulsioni, bensì la frustrazione del
narcisismo immaginario costitutivo dell'io in conseguenza del quale il soggetto si attribuisce
un'unità fittizia e nega che la sua vera realtà è fatta di una trama di significanti, l'Inconscio, al di
sotto della quale non si dà alcun significato ultimo. Quella trama, infatti, esaurisce in sé e per sé
l'ordine simbolico cui l'uomo appartiene e che lo fonda.
La guarigione si opera con la ricostituzione delle catene associative significanti che sottendono i
sintomi. Essa deve fare i conti, nel caso delle nevrosi, con la rimozione che induce il nevrotico a
vivere a livello immaginario il registro simbolico, e, nel caso della psicosi, con la forclusione che
cancella ciò che egli ha vissuto. In altri termini, dovuti ad un allievo di Lacan, "se immaginiamo
l'esperienza come un tessuto, cioè, letteralmente, un pezzo di stoffa costituito di fili incrociati,
potremmo dire che la rimozione vi sarebbe raffigurata da qualche strappo o lacerazione, anche
importante, sempre possibile di essere rammendato o fermato, mentre la forclusione vi sarebbe
raffigurata da qualche béance dovuta alla tessitura stessa, in breve un buco originale, che non
sarebbe suscettibile di ritrovare la propria sostanza, poiché non sarebbe stata altra cosa che sostanza
di buco, e che potrebbe essere colmato, sempre imperfettamente, solo da una pezza."

19
4.
Un discorso critico su Lacan è oltremodo difficile. Per quanto alcuni nuclei della teoria lacaniana
sono ben identificabili, il suo pensiero è una nebulosa, infarcita di neologismi, giochi di parole,
trabochetti retorici, al punto che si dà sempre il rischio che una critica risulti imprecisa o non
pertinente.
Merito indubbio di Lacan è di avere affrancato, sia pure con qualche remora, la psicoanalisi dalla
teoria pulsionale e di avere evidenziato il bisogno di relazione con il mondo esterno come
costitutivo della natura umana. Anche se questo bisogno, nell'ottica lacaniana, comporta il rischio
che l'io cosciente rimanga per sempre preda del narcisismo immaginario da cui trae la sua originaria
identità, sarebbe difficile minimizzare il fatto che l'uomo diventa tale in conseguenza del suo essere
fasciato dal Linguaggio e, per suo tramite, dalla Cultura e dalla Società.
Altro è il discorso per quanto riguarda il fatto che l'accesso al simbolico determina una scissione
insormontabile tra io cosciente e inconscio, relegando il primo nel ruolo di una maschera che non
può autenticarsi se non rinunciando alla pretesa di essere soggetto della propria esperienza.
Negando che l'io, pur non potendo contenere l'Inconscio, possa arrivare ad un livello d'integrazione
dei suoi vissuti interiori adeguato a definire un certo grado d'autenticità, Lacan paga un prezzo
pesante, e ingiustificato, all'ideologia antiumanitaristica dello strutturalismo.
Lo strutturalismo di Lacan, peraltro, si riduce alla costatazuione che l'Inconscio, essendo
Linguaggio, è un sistema. Lacan raccoglie la prima topica freudiana, distinguendo la coscienza
dall'Inconscio, e caratterizzandole a modo suo. Egli rifiuta la seconda topica, incentrata sulla
distinzione tra Es, Super-io e Io. In particolare, non parla mai, se non di sfuggita, del Super-io che
rappresenta l'anello di congiunzione tra il soggetto e l'ambiente sociostorico. Tanto meno attribuisce
all'inconscio una qualunque capacità d'interagire oppositivamente con l'ambiente culturale, laddove
le richieste che esso avanza risultino incompatibili con la vocazione personale ad essere. Questa
vocazione individuale semplicemente non esiste, perché l'io è sempre e comunque una maschera,
che raggiunge un grado di autenticità solo quando accetta di essere depositario dell'Altro che pensa
e sente dentro di lui.
Il punto di vista struttural-dialettico, a cui mi riconduco, non comporta alcuna difficoltà di prendere
atto che l'inconscio parla. Esso però non ha bisogno di fare riferimento alla catena significante.
L'Inconscio parla perché esso è fatto di soggettività autonome rispetto all'io (il Super-io, l'io
antitetico), che esprimono logiche inerenti i bisogni intrinseci, strutturate dall'interazione con il
mondo sociale. Il linguaggio particolare dell'inconscio è dovuto solo al fatto che quelle soggettività,
sempre riconoscibili nelle loro matrici interattive e culturali, si esprimono in misura direttamente
proporzionale alla creatività individuale, che è di ordine inconscio.
Rifiutando il punto di vista strutturale, Lacan non dà alcuna indicazione sulle polarità che
definiscono un conflitto psicodinamico. Tutto, nel suo pensiero, sembra ridursi al contrasto tra l'io
mistificato e l'Inconscio al cui fondo si dà la Verità ultima. Ma la verità ultima è semplicemente la
mancanza ad essere che l'io tenta vanamente di colmare finché non si arrende al fatto che essa è
irrimediabile, e può essere vicariata solo riconoscendo l'Altro che pensa.
Che la Cultura, prodotta dall'uomo, la cui sedimentazione storica può conseguire effetti integrativi o
alienanti a livello di soggettività, corrisponda ad un autentico bisogno della natura umana, che
comporta la doppia esigenza dell'appartenenza sociale e dell'individuazione, è del tutto estraneo a
Lacan.
In Lacan, come in gran parte degli psicoanalisti teorici, la raffinatezza e la complessità delle
argomentazioni viene mortificata dal buco nero che, ancora oggi, affligge la psicoanalisi: la
precarietà di una teoria della natura umana che consenta di dare senso alle scoperte analitiche senza
dover sacrificare il nesso dialettico tra soggettività individuale e storicità dell'esperienza umana.

20
MICHEL FOUCAULT

Michel Foucault, nato nel 1926 a Poitiers, studiò filosofia e psicologia all'Ecole Normale Supèrieure
di Parigi e, in seguito, lavorò presso istituti culturali francesi a Uppsala, Varsavia e Amburgo e nel
1970 ricevette la nomina di professore di storia dei sistemi di pensiero al Collège de France. Morì a
Parigi nel 1984.
Gli interessi di Foucault, in principio, si concentrano sull'epistemologia: il suo problema sta
nell'individuare le condizioni storiche in base alle quali la malattia e la follia si sono costituite come
oggetti di scienza, dando luogo alla psicopatologia e alla medicina clinica, strettamente connesse
alla costruzione di luoghi chiusi (la clinica e il manicomio) in cui si instaura un rapporto di dominio
tra medico e paziente. E questi sono proprio i temi che Foucault affronta nelle sue prime opere di
successo, Storia della follia nell'età classica (1961) e Nascita della clinica (1963). Da queste
ricerche emerge in Foucault la consapevolezza che la storia non è in prima istanza il risultato delle
azioni coscienti degli uomini e che il vero campo della ricerca storica è dato non da quel che gli
uomini hanno fatto o detto, ma dalle strutture epistemologiche che di volta in volta determinano
quale è il soggetto e l'oggetto della storia. Le varie epoche, infatti, sono caratterizzate da
un' episteme (che, letteralmente, vuol dire 'scienza'), concepita come sistema implicito, inconscio e
anonimo, di regole e di eventuali riflessioni su tali regole, il quale definisce lo spazio di possibilità,
entro il quale si costituiscono e operano i saperi caratteristici di tale epoca. Foucault arriva a
sostenere che il passaggio da un'episteme ad un'altra non è un processo continuo governato da una
logica interna di sviluppo e perfezionamento progressivo, ma avviene per salti e non è quindi
propriamente spiegabile. Portare alla luce l'episteme, propria di ogni epoca, è compito di quella che
Foucault definisce archeologia . Nell'opera Le parole e le cose. Un'archeologia delle scienze
umane (1966) Foucault porta avanti un'indagine storica, finalizzata a mettere in mostra che anche
l'uomo, come oggetto di sapere specifico, è un'invenzione recente, che risale agli inizi del 1800 e
che è collegata al trasformarsi dell'analisi della ricchezza in economia, della storia naturale in
biologia e della grammatica generale in filologia. In mezzo a questi nuovi ambiti del sapere è
collocato come soggetto unitario l'uomo, caratterizzato nei termini dei nuovi concetti cardine di
questi campi: lavoro, vita e linguaggio. Da Kant in poi, ad avviso di Foucault, l'antropologia è la
disposizione fondamentale che ha dominato il pensiero filosofico: essa ha indicata nell'uomo la
matrice dei valori positivi e ha fatto intravedere nell'emancipazione dell'uomo la possibilità del
ritorno di un regno propriamente umano. Ma, in questo modo, la filosofia si è addormentata in un
nuovo sonno, diverso da quello dogmatico in cui era sprofondato Kant e consistente nel considerare
l'uomo come base della conoscenza e della verità. L'archeologia mette in luce, viceversa, che pure
l'uomo è un oggetto effimero, generato nel quadro di una precisa episteme, che oggi si sta
infrangendo e frammentando. Già Nietzsche, proclamando a gran voce la morte di Dio, ha di fatto
annunciato la morte dell'uomo, dal momento che uomo e Dio si appartengono a vicenda, e in questo
modo Nietzsche ha fissato il punto a partire dal quale, stando a Foucault, la filosofia contemporanea
può ricominciare a pensare. Riprendendo, ma senza palesarlo, motivi dell'ultimo Heidegger,
Foucault conclude la sua opera asserendo che oggi è possibile pensare ' solamente entro il vuoto
dell'uomo scomparso ' , dove per vuoto bisogna intendere non tanto una mancanza che va riempita,
quanto l'apertura di un nuovo spazio entro il quale pensare. Questo implica, secondo Foucault, la
fine di ogni umanesimo tradizionale, delle filosofie dell'impegno e dello storicismo. La
considerazione della storia come processo continuo di crescita e dell'uomo come agente cosciente di
tale processo sono, infatti, per Foucault due facce della stessa medaglia, le quali conducono a
intendere la rivoluzione come 'presa di coscienza', cioè come operazione che ha al suo centro il
soggetto. Ma oggi, stando a Foucault, psicanalisi, linguistica ed etnologia hanno decentrato l'uomo
come soggetto, portando alla luce le leggi inconsce che presiedono ai suoi desideri, al suo
linguaggio, alle sue stesse azioni e i meccanismi di produzione dei discorsi mistici:chi parla non è
propriamente l'uomo, ma è la parola stessa . Questi temi, che hanno convinto Foucault ad

21
avvicinare, nonostante le sue smentite, allo strutturalismo, sono state proseguite e approfondite
in L'archeologia del sapere (1969) . Oggetto di quest'archeologia non sono le tradizioni, gli autori,
le opere o le discipline, che rinviano tutte ad un soggetto cosciente come centro portante produttore
di esse; essa ha invece il compito di dissotterrare e descrivere le regole che in una data epoca e
società definiscono ' i limiti e le forme di dicibilità ', che determinano di che cosa è possibile
parlare, che cosa si può costruire come sfera del discorso e quali sono le pratiche discorsive
ammesse ed esercitate di fatto. I discorsi non sono sistemi di segni che rimandano ad altro, ma
' pratiche che formano sistematicamente gli oggetti di cui parlano ': essi sono dunque
autosufficienti, si autoregolano e non sono riconducibili ad una causa o a un fondamento unico
esterno ad essi, nè ad un soggetto trascendentale o empirico, nè a condizioni economiche e storico-
sociali, nè allo spirito dei tempi. I discorsi però si inseriscono in una trama di rapporti di potere che
permea ogni società: essi sono pratiche che dipendono dal potere, ma che generano anche potere. Il
tema del potere diviene centrale nella filosofia dell'ultimo Foucault, a partire dalla lezione
inaugurale al Collège de France,L'ordine del discorso , e poi nello studio sull'origine del sistema
carcerario, intitolato Sorvegliare e punire (1975). Foucault fa ancora una volta riferimento a
Nietzsche, che viene ora definito 'il filosofo del potere'. Nietzsche, infatti, ha il merito di aver
mostrato che ogni discorso, implicando una volontà di verità, ha insita in sè la volontà di potenza e
che una delle procedure di selezione e di interdizione con cui il potere opera sui discorsi è data
dall'opposizione tra vero e falso. Non solo, ma Nietzsche ha indicato nella genealogia il metodo che
permette di individuare i modi in cui i discorsi si generano e scompaiono, senza postulare un ordine
necessario o un senso unitario della storia. Foucault dice che ' ogni società ha il suo proprio ordine
della verità, la sua politica generale della verità: essa accetta cioè determinati discorsi, che fa
funzionare come veri '. Questo vuol dire che sapere e potere sono indisgiungibili , in quanto
l'esercizio del potere genera nuove forme di sapere e il sapere porta sempre con sè effetti di potere.
Per potere però, spiega Foucault, non si deve intendere quello che emana da un soggetto cosciente,
un sovrano, e si traduce in leggi positive; si tratta invece del potere impersonale, onnipresente, che
non ha dimora fissa, ma opera tramite meccanismi anonimi in ogni anfratto della società. Sotto
questa luce, il potere è un insieme di rapporti di forza , diffusi localmente, non riconducibili ad una
sola sede e così Foucault contrappone la propria microfisica del potere , mirante all'analisi delle
molteplici e diffuse strategie di soggiogamento, alla macrofisica, propria della teoria di Marx, ad
esempio, che dà più spazio all'opposizione tra dominatori e dominati. Di fatto, spiega Foucault, si è
sempre allo stesso tempo ambo le cose, dominatori e dominati: si potrà essere dominati in fabbrica
ma, magari, dominatori in famiglia. Rispetto a questi poteri così decentrati e variamente connessi
la resistenza può essere condotta non da un'unica forza organizzata in partito, ma solo in lotte
parziali, in una miriade di luoghi da parte di forze mobili e continuamente cangianti. I dispositivi di
potere, attuando selezioni e interdizioni, impediscono il libero proliferare dei discorsi e originano
una società disciplinare, che trova espressione nelle istituzioni del carcere, dell'ospedale,
dell'esercito, della scuola, della fabbrica, dove sono attuate strategie di controllo, anche del corpo,
esami, sanzioni. Il potere, però, non ha solo questa funzione spregevole, ma ne ha anche una
positiva e apprezzabile: produrre nuovi ambiti di verità e nuovi saperi. Questa tesi affiora
esplicitamente nelle ultime opere di Foucault, a partire da La volontà di sapere (1976), miranti a
ricostruire una storia della sessualità . La sessualità, stando a Foucault, è un'invenzione moderna:
essa ha a che fare, da un lato, con il problema di tenere soggiogati i corpi, ma, dall'altro lato, dà pure
luogo ad un discorso sul sesso, in cui l'interdizione si intreccia con l'attenzione nei suoi riguardi e,
dunque, con la costituzione di nuove forme di sapere. Sotto questo profilo, Foucault rifiuta la teoria
di Marcuse secondo la quale la repressione è l'unico aspetto in cui la sessualità è vissuta nella
società contemporanea. Muovendo da queste tematiche, Foucault arriva, nei suoi due ultimi scritti,
pubblicati postumi nel 1984, L'uso dei piaceri e La causa di sè , a ritrovare una posizione alternativa
alla modernità nell'antichità classica: qui, infatti, egli ravvisa all'opera, in opposizione alle morali
prescrittive, imperanti a partire dal cristianesimo, la costruzione di una ' estetica dell'esistenza

22
individuale ', basata su quelle che lui definisce le 'tecnologie del sè', volte all'autocostituzione di un
soggetto padrone di sè. Così facendo, egli sembra riportare in auge proprio quella dimensione
umanistica da lui sempre osteggiata.
SINTESI DEL PENSIERO
Prima sintesi: Foucault 1954-1961
Lungo i sentieri del sogno e della follia: un cammino che incontra e supera la fenomenologia
In questa sintesi si analizzano i primissimi lavori di Foucault, addirittura precedenti la “Storia dalla
follia” , risalenti agli anni 1954-1961 circa. Particolare attenzione viene data alle influenze
filosofiche e culturali che a quel tempo hanno condizionato maggiormente Foucault: la
fenomenologia, soprattutto quella di Merleau-Ponty, la psicologia e la psicanalisi esistenziali,
sviluppate, tra gli altri, da Binswanger, fino all’incontro, non ancora pienamente maturo a
quest’epoca, con l’epistemologia di Canguilhem. I temi conduttori sono il soggetto, letto in una
chiave esistenzialista, la malattia psicologica, una prima critica al razionalismo.
1. Il sogno e l’esistenza.
Viene sviluppata l’analisi del sogno come dimensione a-logica dell’esistenza umana e,
proprio per questo, privilegiata, in grado perciò di rivelare quei contenuti simbolici ed
esistenziali più importanti per la comprensione da parte dell’uomo della propria natura più
autentica. Notiamo qui una prima lettura critica della psicanalisi freudiana.

2. La malattia mentale
L’analisi qui si sposta sul tema della malattia mentale, vista non tanto come devianza
patologica, ma piuttosto come una particolare modalità di esistenza, carica comunque di
potenzialità, di originalità e creatività. Si tratta di un approccio ancora una volta
esistenzialistico alla malattia, in polemica con il tradizionale approccio scientifico-medico.
3. La lezione di Canguilhem
Vengono messi in evidenza alcuni degli strumenti di analisi che Foucault ha elaborato a
partire dall’epistemologia ‘storica’ di Canguilhem, in particolare relativi ai concetti correlati
di ‘normale’ e di ‘patologico’, in seno al pensiero scientifico.
4. La follia
Viene brevemente presa in considerazione una delle opere più note di Foucault, “Storia della
follia”, e si cerca di tracciare le coordinate teoriche che la caratterizzano, in quanto opera di
passaggio, rispetto ai lavori precedenti e a quelli immediatamente successivi.
Seconda sintesi: Foucault 1961-1968
Lo sguardo che scruta oltre l'immediatamente visibile. Il corpo nella storia della medicina
Questa seconda sintesi prende in considerazione le opere foucaultiane degli anni Sessanta, in cui
l’influenza dello strutturalismo gioca un ruolo piuttosto rilevante, senza però mai diventare adesione
totale. L’attenzione è stata concentrata sull’analisi del percorso che la medicina ha seguito nel
processo di conoscenza del corpo umano, della malattia, della salute e della morte; sul concetto di
episteme delle varie epoche storiche.
1. Saperi e discorsi
Viene trattata l’analisi dei saperi e dei discorsi che, nella prospettiva foucaultiana, hanno la
caratteristica di modificare e addirittura creare gli ‘oggetti’ che studiano, sprofondati come
sono, al pari delle altre pratiche umane, nelle coordinate concettuali di una determinata

23
epoca storica.
2. Dal segno alla funzione
Il percorso di analisi foucaultiano parte dal periodo compreso tra ‘600 e ‘700 circa e
analizza l’episteme che organizza l’intera struttura conoscitiva di questa epoca.
3. Dalla funzione al tessuto
L'’epoca successiva è quella che prosegue fino all’Ottocento e fa riferimento alla nascita
dell’anatomia patologica e alle forme e ai significati che il corpo assume in questa
prospettiva.
4. L’Uomo, una creazione recente
Un accenno al concetto di Uomo e Umanesimo, ne “Le parole e le cose”.
Terza sintesi: Foucault 1969-1979
Il potere: il corpo immerso nella disciplina
In questa sintesi viene ripercorso il cammino di Foucault dalla fine degli anni Sessanta e la fine dei
Settanta, quello al cui centro sta la complessa riflessione sul potere - e di qui sulla costituzione del
soggetto moderno e della corporeità: come il meccanismo delle relazioni di potere forma e utilizza
il corpo; come il soggetto viene continuamente attraversato e costruito dalla rete del potere.

1. Nietzsche e la genealogia
Si tratta di un paragrafo introduttivo che mette in luce l’importante influenza esercitata su
Foucault dalla lettura di Nietzsche, in particolare per quanto riguarda la concezione della
genealogia come fondamentale strumento metodologico, del corpo, del soggetto.
2. La disciplina della punizione
Dal supplizio alla prigione: la riflessione di Foucault sulle ‘istituzioni totali’ ha qui inizio
con la genealogia dell’istituzione punitiva, il cui modello disciplinare si riproduce nelle altre
principali istituzioni quali l’esercito, la scuola, l’ospedale, la fabbrica.
3. Il sapere e la norma
Lo stretto rapporto che lega il sapere - la conoscenza - e il potere è uno dei punti caldi in cui
si incentra la riflessione di Foucault. Viene qui ripreso ancora una volta Canguilhem,
relativamente a quel dualismo tra normale e a-normale che regola le pratiche e i sistemi di
pensiero delle società occidentali.
4. Devianza e resistenza
Il concetto di ‘resistenza’ - resistenza all’ordine che il potere costituisce - si pone come
principale correlato del potere, correlato ad esso opposto ma allo stesso tempo
paradossalmente complementare.
5. Sesso e sessualità
La sessualità viene rappresentata non come elemento naturale del patrimonio esistenziale
dell’essere umano, ma come dispositivo storico delle società disciplinari, in aperta polemica
con le correnti psicanalitiche di stampo marxista (Reich, Lacan, ecc).

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Quarta sintesi: Foucault 1980-1984
La "svolta filosofica" dell'ultimo periodo: la scoperta dell’ethos
L’ultima sintesi si propone di interpretare la fase finale del percorso foucaultiano -
improvvisamente interrotto dalla morte - come una fondamentale svolta filosofica, contrariamente
alle più frequenti interpretazioni della critica, che leggono questa fase in chiave sostanzialmente
continuista. Foucault scopre qui una dimensione etica che non troviamo mai nei suoi precedenti
lavori; inoltre vi è una reinterpretazione del soggetto, non più soltanto sottomesso e plasmato dal
potere, ma attivamente consapevole e capace di auto-costruirsi. Vengono utilizzate, per questa
parte, non tanto le opere sistematiche, quanto piuttosto un buon numero di interviste e conferenze
risalenti a quegli stessi anni.
1. La genealogia del soggetto morale
Il soggetto rimane anche in questa fase un qualcosa che si costruisce e non un substrato
naturale impostato una volta per tutte; tuttavia esso assume ora caratteristiche positive: la
capacità di autocostruirsi attraverso un complesso lavoro di perfezionamento di stessi, una
paidéia fisica e spirituale, inaugurata da Socrate e chiamata cura di sé.
2. Sulla "morte dell’uomo"
Ancora richiamandosi a Nietzsche, Foucault ipotizza la fine di quelle forme di soggettività -
sottoposte all’incessante opera del potere - che hanno caratterizzato la nostra epoca a partire
dal ‘700. E’ ora - dice Foucault - di esplorate nuove forme di soggettività. Emerge una
prospettiva di libertà e di creatività del tutto nuova.
3. La filosofia e l’Aufklärung
Foucault, in questi anni, rilegge Kant e l’Illuminismo secondo una nuova ottica, che
inaugura la direzione e il compito che la filosofia riveste nell’epoca contemporanea: è la
riflessione critica su se stessi e sul proprio presente storico.

JACQUES DERRIDA

Jacques Derrida nasce il 15 luglio 1930 a El Biar, presso Algeri, da famiglia ebrea. Proprio per
questo, durante gli anni della Seconda guerra mondiale conoscerà le discriminazioni derivanti dalle
leggi razziali emanate dal regime di Pétain. In gioventù entra in contatto con le correnti più vive
della cultura francese e con le esperienze politiche dell'estrema sinistra non comunista. L'impegno
politico resterà una costante della sua personalità che lo porterà negli anni seguenti a impegnarsi a
favore del dissenso nella ex Cecoslovacchia comunista o a favore del movimento antirazzista in
Sudafrica. Senza dubbio è uno dei più importanti filosofi di lingua francese del '900, la sua fama ha
valicato i confini stessi della Francia e i suoi libri sono tradotti in tutto il mondo. Il suo pensiero,
talvolta enigmatico e di difficile interpretazione, ha attratto diverse generazioni di filosofi.
Principale ispiratore del "Collège international de philosophie" fondato a Parigi nel 1983, Derrida è
direttore dell' "Ècole des hautes études" dal 1984, ma ha insegnato anche in numerose università
degli Stati Uniti. Derida si richiama ad Heidegger ma sono fondamentali per lo sviluppo del suo
pensiero anche la psicanalisi, la linguistica, l'antropologia e la ricerca artistica. Egli opera
una critica radicale della metafisica occidentale , operando una decostruzione delle strutture
concettuali sulle quali essa poggia. Il filosofo francese è tra i più noti ma anche tra i più discussi e
controversi pensatori degli ultimi decenni del '900. Appartenente alla generazione affacciatasi sulla
scena filosofica intorno al 1960 (la generazione dei Foucault, Lyotard, Habermas, Rorty), ha in
comune con questi suoi coetanei alcune problematiche cruciali, ma se ne distacca con proposte
radicalmente innovative. Negli ultimi anni soltanto Rorty, tra i pensatori importanti della sua

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generazione, ha accolto con grande simpatia alcune tesi di fondo delle sue riflessioni. A differenza
dagli altri, la sua influenza, fin dagli anni Sessanta, non ha riguardato soltanto gli ambienti filosofici
ma si è estesa anche agli ambienti di critica letteraria, soprattutto nell'area americana. Alla ormai
nota conferenza tenuta alla Johns Hopkins University nel 1966 ("La struttura, il segno e il gioco nel
discorso delle scienze umane") si fa risalire l'inizio del suo successo internazionale e la svolta
decostruzionista. Formatosi nell'immediato dopoguerra in una tradizione filosofica dominata
dall'influsso delle tre H (Hegel, Husserl, Heidegger), subisce inizialmente l'influsso di Sartre, da cui
si distacca però molto presto per affrontare approfonditamente lo studio di Husserl cui dedica la sua
prima importante pubblicazione "Introduzione a 'L'origine della geometria' di Husserl". Oltre che
con la tradizione occidentale, in quegli stessi anni, Derrida faceva i conti con la tradizione ebraica,
della quale è ugualmente erede, essendo nato, come già accennato, vicino ad Algeri da famiglia
ebrea. In particolare i nomi degli autori che sente più vicini, e che sono largamente presenti nei
saggi raccolti in "Scrittura e differenza", sono quelli di Jabès e di Lèvinas. Tra i lavori più
importanti si segnalano: "Della grammatologia" (1967); "La pharmacie de Platon", (1968); "Il
fattore della verità" (1975); "Posizioni"; "La verità in pittura" (1978); "Introduzione a 'L'origine
della geometria' di Husserl"; "La disseminazione" ; "La scrittura e la differenza"; "Il problema della
genesi nella filosofia di Husserl"; "Politiche dell'amicizia"; "La voce e il fenomeno. Introduzione al
problema del segno nella fenomenologia di Husserl"; "Margini della filosofia". Nelle opere
successive Derrida ha accentuato la sua critica della metafisica occidentale, mettendo capo alla
scrittura come continuo differimento di senso. Ricordiamo: "Sopra-vivere" (1979); "La carte
postale" (1980); "Dello spirito" (1987); "Psyché" (1987); "Limited Inc." (1990); "La mano di
Heidegger" (1991), "Oggi l'Europa" (1991); "Sproni: gli stili di Nietzsche" (1991); "Retorica della
droga: intervista" (1993); "Ritorno da Mosca" (1993); "Spettri di Marx: stato del debito, lavoro del
lutto e nuova Internazionale" (1994); "Memorie per Paul de Man. Saggio sull'autobiografia" (1995);
"La religione: annuario filosofico europeo" (1995); "Donare il tempo: la moneta falsa" (1996).
L'IMPIANTO FILOSOFICO
Il filosofo francese esplora le possibilità a cui il linguaggio della filosofia occidentale è giunto:
1] aprirsi all'infinito e chiudersi su se stesso infinitamente;
2] giocare con la propria tradizione;
3] seguirne l'infinito arbitrio concettuale (la deriva del significante).
Questo fa di Derrida un vero filosofo, soprattutto nel senso paradossale, inaugurato da Nietzsche e
dalla sinistra post-hegeliana, per cui "si è veri filosofi solo non essendolo": si è filosofi puri in senso
proprio e profondo, solo facendo i distruttori della filosofia. Derrida è un filosofo puro, ovvero un
filosofo che si occupa della filosofia, essenzialmente per maltrattarla, ovvero per decostruire i testi
della tradizione filosofia. Decostruzione vuol dire prendere due o tre parole, una frase, una qualche
"spia testuale", e giocarci sopra, in base per lo più al vecchio rovesciamento dialettico. Decostruire
significa individuare le coppie concettuali (io-noi, vivo-morto, nulla-negazione, eccezione - regola)
che si annidano in qualsiasi argomentazione, portarle fuori, e mostrare come, fronteggiandosi, gli
opposti si annullano a vicenda, o si rovesciano l'uno nell'altro, e tutto si risolve in nulla. Qui si apre
il paesaggio tipico del derridismo: non c'è nulla al di là del testo. Il testo è "semplice presenza
differita": io non sono presente, voi leggete queste mie parole, e io non ci sono. Inoltre, le cose di
cui scrivo sono assenti. Dunque differenza non solo spaziale ma anche temporale, ovvero differanza
( differance ): perché ogni testo X è misurazione della distanza che separa X da qualsivoglia testo Y
antecedente o conseguente. Questa presenza-assenza-differenza è, inoltre, primordiale e primigenia:
la scrittura, si dice, viene dopo la voce, l'esperienza, il pensiero. Ma per scrivere pensiamo e
abbiamo vita ed esperienza per trascrivere l'una e l'altra; "la nostra vita è narrazione pseudo-
testuale". C'è dunque, prima di ogni altra cosa, la Scrittura. Comprendiamo così ancora meglio
l'essenza del decostruire: il prima e il dopo, il qui e il là, il sotto e il sopra si elidono a vicenda, ma

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in fondo tra il si e il no è meglio il no, tra l'eccezione e la regola è meglio l'eccezione, tra il "vivo
della voce", che tutti preferiscono, è meglio il "morto della scrittura". Si tratta di nichilismo, e più
specificatamente di dialettica negativa. La decostruzione rivela il suo vero volto, che è edificante,
distruzione che edifica, in una sorta di omeopatia etico-filosofica, a sfondo vagamente anarchico.
Questo è Derrida in breve e in essenza. Derida, nel dibattito degli ultimi decenni del '900, si è
schierato apertamente, con posizioni di grande originalità, con coloro che affermano la necessità di
andare "oltre la tradizione occidentale". Nessuna metafora è in grado di uscire dal cerchio magico
della metafisica, della "mitologia bianca" ("La mytologie blanche", in Poétique, 1971) che
rassomiglia e riflette la cultura dell'Occidente, quella in cui l'uomo bianco scambia il proprio
pensiero con la forma universale della razionalità. Egli è tra i più assidui teorici del "post-moderno",
e quindi fra i più criticati da Habermas, teorico del moderno, che lo qualifica come neo-nietzschiano
nell'opera del 1985 "Discorso filosofico della modernità". Derida è il più internazionalmente
influente tra i teorici del post-moderno. Derrida utilizza uno stile di scrittura complesso e
volutamente tortuoso che è andato a complicarsi sempre di più, stile caratterizzato dal rifiuto di un
andamento discorsivo ordinario e dal ricorso frequentissimo a giochi di parole. Derida ribatte: " non
sono giochi di parole. I giochi di parole non mi hanno mai interessato. Piuttosto, sono fuochi di
parole: consumare i segni fino alla cenere, ma anzitutto e con maggior violenza, attraverso un brio
eccitato, slogare l'unità verbale, l'integrità della voce, frangere o effrangere la superficie calma delle
parole, sottoponendo il loro corpo a una ginnastica allo stesso tempo gioiosa, irreligiosa e crudele".
Che ci sia crudeltà non solo verso le parole ma anche verso il lettore "plasmato dalla scuola",
Derrida lo confessa apertis verbis. Anche il lettore, quindi, è sottoposto a quella ginnastica, gioiosa,
irreligiosa e crudele, se vuole tentare di comprendere i testi del discorso. Si tratta di testi, perciò,
non solo difficilmente accessibili e comprensibili, ma anche difficilmente riassumibili. Derrida
motiva e giustifica questa caratteristica pressoché unica dei suoi scritti sostenendo che vogliono
essere qualcosa di radicalmente diverso e alternativo rispetto alle tesi di dottorato e in genere ai
saggi di tipo scientifico-accademico quali si praticano all'università.
LA CARTOLINA POSTALE
Di fronte alle decine di cartoline , che di tanto in tanto preleviamo dalla cassetta delle lettere
ciascuno di noi assume più o meno lo stesso atteggiamento: lettura veloce del testo, ringraziamenti
al mittente, breve periodo di esposizione e abbandono nella più fredda indifferenza (cestino, scatola
di cartone, album dei ricordi). Raramente a qualcuna riserviamo un trattamento migliore, per
esempio servirsi delle più belle o di quella dell'amico più caro come segnalibro, ma alla fine tutte
saranno raggiunte dallo stesso inesorabile destino: non verranno più guardate. Una volta che la
cartolina , è giunta a destinazione ha esaurito la sua funzione, "la cartolina vive durante il tragitto"
dal luogo di villeggiatura, passando per l'ufficio postale, alla cassetta delle lettere perché non
appena giunge nelle mani del destinatario la sua fine è imminente. Ma allora perché non lasciare in
viaggio la cartolina? Perché non godere del piacere di immaginarsi la nostra cartolina che vaga da
un paese all'altro, da una città all'altra, da una strada ad un'altra, senza mai raggiungere il nostro
portone di casa? Quante volte abbiamo aspettato invano l'arrivo di una cartolina e quante volte dopo
essersi rassegnati al fatto di non riceverla più abbiamo fantasticato sulla sua erronea e prematura
scomparsa. Ce la siamo immaginata persa nei meandri della città, nel brulichio, nella pluralità, nel
disordine tipici delle metropoli. Derrida descrive la filosofia con la metafora della cartolina postale.
La maggior parte delle volte la cartolina è ancora in viaggio quando noi siamo già di ritorno; per lo
più capita che la cartolina non arrivi a destinazione, così facendo rimane in viaggio e conserva il suo
essere-destinato in sé. Analogamente, la filosofia può essere considerata come una cartolina, che è
stata scritta con l'intenzione di arrivare a destinazione ma che in realtà non lo fa. La filosofia che
raggiunge la destinazione e che si distrugge in quest'ultima cessa di essere filosofia vera. Per questa
ragione, Derrida preferisce tenere la filosofia in viaggio per far sì che sia sempre spedita oltre.
Platone parla, Socrate scrive Per Derrida il passaggio al di là della filosofia non consiste nel voltare

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la pagina della filosofia (il che equivale il più delle volte al mal filosofare) ma nel continuare a
leggere i filosofi in un certo modo. L'atteggiamento più generale di Derrida nei confronti della
tradizione filosofica trova l'espressione più compiuta nella rilettura operata ne "La carte postale" del
noto rapporto Socrate-Platone: in questa importante opera del 1980 infatti, utilizzando una
miniatura medioevale trovata ad Oxford, Derrida mostra come il rapporto si sia rovesciato, nel
senso che Platone parla, mentre Socrate scrive. Il rapporto Socrate-Platone era stato alla base di uno
dei saggi più noti di Derida, "La pharmacie de Platon" del 1968, nel quale in maniera più accurata e
organica, oltre che filologicamente molto ferrata, era stata proposta la tesi del logocentrismo o
metafisica della presenza come filo conduttore di tutta la tradizione filosofica occidentale. E' un
saggio, anche questo, "pirotecnico" (fuochi di parole), nel quale lo scrupolo filologico è intrecciato
con una sfrenata sarabanda di metafore e richiami da un dialogo all'altro di Platone. Egli cerca di
mettere in discussione il logocentrismo della metafisica occidentale basata sull'opposizione "è o non
è" (materia/forma, natura/spirito, corpo/anima, vero/falso, bene/male, essere/divenire,
soggetto/oggetto). Derrida vuole decostruire questa tradizione non nel senso di abbandonarla
completamente ma nel senso di aggiungervi qualche altra cosa. Parte dal fatto che la verità non è
qualcosa che viene enunciato, una definizione, ma è qualcosa che avviene, è un movimento che
accade. L'interesse principale è comunque dedicato al Fedro e in particolare alla sua parte finale,
nella quale Socrate racconta il famoso mito del re egiziano Thamus che, di fronte all'offerta della
scrittura da parte del dio Theuth, dopo matura riflessione decide di respingere l'offerta in quanto la
scrittura è qualcosa di molto inferiore e di negativo rispetto alla parola.Questo mito, il cui
significato è ripreso ricorrentemente in altri suoi scritti, spiega secondo Derrida il carattere
fondamentale di tutta la filosofia occidentale, da Platone in poi: quello che fa definire questa
filosofia come logocentrismo o metafisica della presenza. Infatti il contenuto esplicito e il
significato del mito è che la parola è presenza, mentre la scrittura è assenza, negazione della
presenza. Nel discorso parlato, cioè, l'anima ha "presente" in maniera immediata la verità; nel testo
scritto questa immediatezza non c'è più. Nel parlare l'anima si esprime direttamente, è "presente";
nel testo scritto non c'è più, e questo vive una sua vita propria, da "orfano", separato da chi gli ha
dato origine. L'oralità è bene, la scrittura è male. Derrida talvolta parla di "parricidio" operato dal
testo scritto nei confronti di chi gli ha dato origine.Tutto il male, il negativo, è assegnato "alla
scrittura, che Platone definiva un orfano o un bastardo, opponendola alla parola figlio legittimo e
bennato del 'padre del logo'". Umiliazione della scrittura, privilegio della parola, sono stati secondo
Derrida i caratteri fondamentali della filosofia occidentale fino ad oggi; da qui la definizione di
questa come "logocentrismo". Scriverà in un colloquio dello stesso 1968, in maniera più chiara
illustrando le caratteristiche del logocentrismo o metafisica della presenza : "la phoné è la sostanza
significante che si dà alla coscienza come intimamente unita al pensiero del concetto significato. Da
questo punto di vista, la voce è la coscienza stessa. Quando parlo, non solo ho coscienza di essere
presente a ciò che penso, ma anche di mantenere il più aderente possibile al mio pensiero o al
'concetto' un significante che non cade nel mondo, che io intendo nel momento medesimo in cui lo
emetto, e che sembra dipendere dalla mia pura e libera spontaneità, senza esigere l'uso di alcuno
strumento, di alcun accessorio, di alcuna forza presa nel mondo. Beninteso questa esperienza è un
inganno, ma un inganno sulla cui necessità si è organizzata tutta una struttura o tutta un'epoca". La
tradizione logocentrista, per Derrida, è quella ancora dominante nei nostri giorni. Questa tradizione
è stata ripercorsa, o "ripetuta", in maniera più o meno consapevolmente critica, dai filosofi più
significativi del nostro tempo. Secondo Derida, quindi, il carattere fondamentale della filosofia
occidentale è il logocentrismo o fonocentrismo , fondato sulla metafisica della presenza, nel senso
indicato dall'ultimo Heidegger. A suo avviso nella tradizione occidentale sino a Heidegger incluso,
la voce gode di un primato in virtù del fatto che essa è percepita e vissuta come qualcosa di presente
e di immediatamente evidente: nella parola parlata è sempre immanente il logos. La scrittura,
invece, è caratterizzata dall'assenza totale del soggetto, che l' ha prodotta: il testo scritto gode ormai
di vita propria. Compito della grammatologia , dove "gramma" è assunto nel senso originario greco

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di lettera scritta dell'alfabeto, è di mirare alla comprensione del linguaggio a partire dal modello
della scrittura, non del logos. La forma scritta, sottraendo il testo al suo contesto di origine e
rendendolo disponibile al di là del suo tempo, ne garantisce la sua decifrabilità e leggibilità
illimitata. Su questa base si rende possibile quella che Derrida chiama la " differance ", un termine
da lui coniato che include i due significati del verbo differire. In un primo senso, esso implica che il
segno è differente da ciò di cui prende il posto e, quindi, che tra il testo e l'essere a cui esso rinvia
c'è sempre una differenza, uno scarto che non può essere mai definitivamente colmato, ma lascia
sempre soltanto tracce, da cui si diparte la molteplicità delle letture e delle interpretazioni. Ma, in un
secondo senso, differire significa anche rinviare, rimandare e, quindi, mettere una distanza tra noi e
la cosa o parola assente nel testo: ciò significa uscire dal primato della presenza, che caratterizza il
logocentrismo. La "differance" equivale a un accadere indipendente dai soggetti che parlano e che
ascoltano, è un "evento" nel senso heideggeriano del termine.
LA DIFFERANCE
Derrida sostiene che tra l'Essere e il linguaggio c'è un rapporto di "differance": l''essere si
"differanza" nel linguaggio, si media nel linguaggio, si aliena nel linguaggio, diventa altro da sé, si
rende presente ma assente nello stesso tempo, diventa segno, diventa traccia. La verità si trasforma
in traccia, si contamina, si intacca nel linguaggio che è segno, si dà nel linguaggio ma nega di essere
quello che è il linguaggio stesso. Heidegger ha torto perché non c'è dunque nessun linguaggio
privilegiato; quello poetico è equivalente a quello filosofico-concettuale anche se è più vivo e meno
preciso. In tutti e due i casi non si può dire che il linguaggio ti faccia pervenire alla verità e
nemmeno che nel linguaggio ci sia il darsi delle verità e dell'essere; ci sono solo tracce della verità,
c'è la "differance" dell'essere nelle tracce di sé. Si sa ciò che il linguaggio dice, ma la verità, l'essere
è il non detto del linguaggio. L'essere non si destina all'uomo nel linguaggio, ma si "differanza" nel
linguaggio, e ciò di cui il linguaggio è traccia; e solo traccia, traccia non è "niente", come dice lo
strutturalismo, ma non è nemmeno la cosa, l'Essere, la presenza. Ma cosa esiste allora? Esiste il
parlare, il creare rapporti tra gli uomini ed il comunicare con il sistema delle comunicazioni; questo
parlare però non contiene l'Essere, solo le sue tracce. La grammatica del testo scritto è il luogo dove
si aliena l'Essere: non la voce in cui è meno evidente il "farsi differanza" dell'Essere: ma la grafia, il
segno scritto, la scrittura, dove "questo farsi altro è più evidente". Derrida usa il termine
"differance" perché privilegia la scrittura sulla parola e soltanto scrivendo questa parola si riesce a
capire il suo significato. La verità, l'essere non è nel testo scritto ma è tra le righe, nell'interlinea del
testo scritto, nel non detto del testo scritto di cui il testo è la traccia. Forse, dice Derrida con un altro
paragone, noi abbiamo non l'Essere, ma il suo "simulacro", una statua dell'essere , una parvenza
dell'essere. In questa situazione, il lavoro del filosofo è far capire che esiste questo "qualcosa" che è
"fra le righe" del testo, capire che è "differance" non "identità", che è traccia dell'Essere e non
presenza. La nostra filosofia è sempre stata una metafisica della presenza la quale ha ordinato
gerarchicamente le coppie di opposizioni dei diversi concetti di tipo centrale, dove il secondo
termine rappresenta una derivazione negativa od un aspetto secondario od impuro del primo. La
presenza struttura il nostro modo di vedere e di pensare ma quando essa entra a far parte di
articolazioni logiche e temporali più complesse, perde la sua autorità. Per dimostrare ciò Derrida si
serve del paradosso di Zenone di Elea sull'impossibilità del movimento. Secondo tale paradosso una
freccia, negli infiniti istanti in cui si può scomporre il tempo del suo movimento sarebbe ferma. In
questo caso la presenza del movimento non è presente in nessun momento della presenza della
freccia che è tuttavia realmente in movimento. Per cui la presenza del movimento si produce solo
nella misura in cui ogni istante è già segnato dalle tracce del futuro e del passato; il movimento può
essere presente solo se l'istante presente è un prodotto dei rapporti tra passato e futuro. Se deve
essere presente il movimento, la presenza deve essere già segnata dalla differenza e dal
differimento, dobbiamo pensare il tempo come differenza, differenziamento e come differimento,
presenza e presente sono un effetto di differenze. Decostruendo quindi l'opposizione

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presenza/assenza, si può esprimere la presenza in termini di assenza differente e differita. In un
sistema linguistico, in ogni parola il significato sussiste in ragione della sua relativa diversità
rispetto ad un'altra parola e tale differenza è rilevabile nelle tracce (vocali, desinenze, consonanti)
dei vari termini da cui è necessario che la parola sia distinta per poterle attribuire un significato
preciso. Si ha così quella concatenazione al rinvio, praticamente infinita la quale fa sì che ogni
elemento, fonema o grafema, si costituisca a partire dalla traccia presente in esso degli altri elementi
della catena o del sistema; questa concatenazione è il testo che non si produce se non nella
trasformazione di un altro testo. Niente non è mai, in nessun luogo semplicemente presente od
assente, ovunque e sempre ci sono solo differenze e tracce.
DECOSTRUIRE
Il compito del filosofo sarà allora quello di decostruire i testi , cioè smontarli, metterli in crisi,
contraddirli. Chi compie quest'opera permette al lettore di capire che in esso non c'è l'essere, ma
l'essere è oltre il testo, che nel testo ci sono solo le sue tracce. In questo modo il filosofo giunge,
attraverso il suo lavoro di decostruzione, anche a forme di potere che stanno sotto a certi discorsi
fatti passare per veri. Decostruire un discorso, glossarlo, scrivere nei suoi margini un commento che
lo demolisce, farne la "parodia" è mettere in crisi la sua pretesa di essere luogo della verità e nello
stesso tempo smascherare chi usa questo testo per il suo potere: questo è per Derrida fare filosofia.
In questo modo si capisce che il vero modo in cui si aderisce alla verità è quello delcolpo di dadi ;
quello in cui a caso scegli la tua opinione, decidi che in quel testo c'è l'essere (la verità): ma così
facendo conferisci a quel testo un valore di verità che esso non ha. Il colpo di dadi, la decisione
senza motivo, avviene perché non si è perfettamente coscienti che la verità è nello "spazio vuoto"
che è in mezzo a "indecidibili opposti". E' così o cosà? Dentro o fuori? Prima o dopo? La risposta è
né l'uno né l'altro, ma lo spazio che è tra l'uno e l'altro, la "sbarra" che divide l'opposizione (quando
scrivo dentro/fuori metto tra la parola "dentro" e la parola "fuori" una "sbarra" trasversale: la
risposta è in "quella sbarra"), l'interlinea, l'indecidibile, il qualcosa che non sopporta la decisione.
Derrida cerca una via media tra nichilismo e ontologia, fra strutturalismo e metafisica della
presenza e lo fa nella direzione della decostruzione del discorso basato sul testo scritto. E' in fondo
una forma di apofatismo , posizione per cui la verità non può essere detta. Forse la verità si coglie
ma non si può dire (già Gorgia ipotizzava che se anche l'essere potesse essere colto, non sarebbe
comunicabile). E' una forma di scetticismo, seppure molto raffinato. In sintesi, dunque, per Derrida,
questa strada è percorribile non costruendo nuove teorie, incentrate sulla violenza del logos che
pretende di essere cogente e definitivo, ma adottando una diversa strategia di lettura dei testi, che
egli chiama decostruzione e che ha avuto notevole influenza anche sulla critica letteraria, soprattutto
nordamericana. Derida non definisce né analizza articolatamente che cosa significhi decostruzione,
ma lo mostra in atto nelle letture a cui sottopone testi della tradizione filosofica o letteraria. In
generale, si può dire che la decostruzione è l'atto di compiere il processo inverso rispetto a quello
che ha condotto alla costruzione del testo, smontandolo e rovesciandone le gerarchie di significato,
che la metafisica della presenza tende a privilegiare, trattando le opere di filosofia come opere di
letteratura e viceversa, giocando sulle opposizioni, sui rimandi, sulle somiglianze casuali, su ciò che
sta ai margini nel testo, in modo da sottrarsi al desiderio della definitezza. La decostruzione, più che
una pratica teorizzabile e ripetibile, è qualcosa di simile all'esecuzione artistica. Attraverso la
decostruzione è possibile, secondo Derrida, che si aprano varchi attraverso i quali intravedere ciò
che viene dopo il compimento della nostra epoca, ossia al di là dell'epoca della metafisica.
Conosciamo la realtà ma ciò che è possibile lo conosciamo appena; l'ambito del possibile è quasi
illimitato, quello del reale è molto limitato perché di tutte le possibilità è sempre una soltanto quella
che si può trasformare in realtà.
POLITICHE DELL'AMICIZIA
Viviamo in un'epoca che non ama i confini. Destra e sinistra, conservatori e progressisti: le grandi
opposizioni lasciano il posto a una conflittualità che ha smarrito le coordinate dell'antagonismo, ma

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non per questo risulta meno feroce. La confusione di ruoli e identità alimenta un odio tanto più
accanito quanto meno fondato su opzioni ideologiche; e nelle molte voci che condannano
consociativismi e trasformismi si avverte la nostalgia per una sana iniziativa. I teorici della
democrazia sembrano dunque garantire le profezie di Carl Schmitt, il più antidemocratico dei
filosofi della politica: meno c'è politica più ce n'è, meno ci sono nemici più ce n'è. Ma perché la
coppia concettuale amico-nemico sarebbe inevitabilmente intrecciata? Derrida affronta il problema
nel suo libro "Politiche dell'amicizia", un'opera che al corpo a corpo con Schmitt dedica tre capitoli,
ma che prende le mosse da un detto di Aristotele: "o miei amici, non c'è nessun amico". Detto
controverso, in quanto attribuito ad Aristolete da Diogene Laerzio, il quale attinge a fonti indirette.
Accantonando i dubbi, Derrida assume la citazione a emblema del paradosso che insidia il tema
dell'amicizia. A un primo esame il lamento aristotelico suona: chi ha troppi amici non ha nessun
vero amico, l'amicizia è un bene raro, non si ha mai più d'un vero amico. Ma poi, fa notare Derrida,
lo stesso Aristotele moltiplica il numero, affermando che l'arte della politica consiste nel creare
quanta più amicizia possibile. Inseguendo questo enigma numerico attraverso la storia del pensiero,
Derrida dimostra che esso trae origine da un'idea di comunità politica che ha assunto costantemente
i tratti della fraternità; il politico slitta verso una configurazione "familiare" fondata su un tacito
presupposto "naturalista": famiglia, Stato, nazione, sono intrecciati nel nodo della nascita, del mito
della terra e del sangue. Per scavare negli effetti di questo "paradigma fraterno", Derrida rilancia il
grido di Nietzsche in "Umano, troppo umano", "nemici, non ci sono nemici" l'invito nietzschiano a
sbarazzarsi del "cattivo gusto di voler andare d'accordo con molti" è lo spunto che gli consente di
approfondire la critica di Schmitt alla fraternità democratica: l'amicizia fraterna esiste solo come
sospensione della virtualità sempre presente dell'assassino; la guerra è il presupposto ineludibile
della politica; l'eccezione fonda la regola. Ecco perché una certa sinistra si è innamorata dell'ultra-
conservatore Schmitt; ecco perché le sue parole ci sembrano tanto attuali nel momento storico in cui
le democrazie occidentali, senza più nemico, invece di avanzare verso la pace, sprofondano nella
violenza di un'ostilità non più regolata dalle regole della guerra. E' possibile andare oltre la cruda
verità della coppia amico-nemico? La risposta di Derrida è un "forse" che ricorre in tutto il libro
come annuncio di una "democrazia a venire", capace di proiettarsi oltre il principio di fraternità, di
accettare la spoliticizzazione senza sprofondare nel conflitto senza regole: "è possibile pensare e
mettere in pratica la democrazia, sradicandovi quel che tutte queste figure dell'amicizia (filosofica e
religiosa) vi prescrivono di fraternità?". La risposta è ancora un "forse" che rinvia alla speranza che
un giorno sia possibile salvare libertà e uguaglianza dall'abbraccio mortale della fraternità. Speranza
in una democrazia che non solo resterà indefinitamente perfettibile, dunque sempre insufficiente e
futura, ma, appartenendo al tempo della promessa, resterà sempre, in ciascuno dei suoi tempi futuri,
"a venire".
XENOS
Durante un seminario svoltosi nel 1996, Derrida affronta il tema dello Straniero e dell'Ospitalità, e
lo fa mostrandoci come nei dialoghi di Platone proprio la "figura dello straniero" (Xenos) sia quella
che porta con sé e pone le domande fondamentali. In primo luogo, nel Sofista è proprio lo Straniero
di Elea a porre la questione parricida che contesta la tesi ontologica di Parmenide, il logos del padre
Parmenide: l'essere è, il non-essere non è. In secondo luogo, nell'Apologia di Socrate il ruolo dello
straniero è rappresentato dallo stesso Socrate che, di fronte all'assemblea destinata a giudicarlo,
dichiara di essere privo, estraneo, alla logica e al linguaggio retorici, e di essere come uno straniero.
Ora, spiega Derrida, il primo problema è quello della lingua: "l'impossibilità di comunicare e di
poter interagire con norme imposte dallo Stato, dal potere". E qui comincia la reale questione
dell'ospitalità: davvero è sufficiente che lo straniero parli la nostra lingua e si muova nelle nostre
categorie per comprenderlo, accoglierlo e dargli ospitalità? Il secondo punto riguarda l'effettiva
difesa di Socrate, che, di fronte alla prospettiva di essere condannato a morte, prega gli Ateniesi di
considerarlo come se fosse davvero uno straniero, sia per l'età, sia per l'unica lingua che egli

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conosce: quella della filosofia e quella del popolo. "Socrate: dunque è semplice, mi sento spaesato
nel linguaggio in uso qui. Come se, nella realtà, fossi uomo di un altro paese: penso che avreste
indulgenza se mi esprimessi con l'accento e nel dialetto, nei giri di frase del mio ambiente nativo".
Oggi sappiamo grazie a numerosi studi che allo straniero giunto ad Atene si attribuivano precisi
diritti e doveri che venivano automaticamente estesi anche alla sua stirpe. Ma, allora, come
intendere autenticamente lo Straniero? L'accoglienza di qualcuno che dapprima appare come
assolutamente Altro e Sconosciuto in realtà implica un obbligo di uniformazione: il diritto
all'ospitalità impegna un gruppo etnico che accoglie un altro gruppo etnico "chiamandolo per nome
e riconoscendone l'identità, accogliendolo in famiglia". Si tratta di ospitalità di diritto. Ciò che
d'impatto può apparire ospitalità senza limiti (chiunque giunga ad Atene viene accolto), in realtà
impedisce l'autentica ospitalità: senza riconoscimento e identità nominale, essa infatti non è
possibile. L'ospitalità assoluta esige apertura e offerta a chiunque, e più precisamente, come afferma
Derrida, "all'altro assoluto, sconosciuto, anonimo, e che gli dia luogo, che lo lasci venire, che lo
lasci arrivare e aver luogo nel luogo che gli offro, senza chiedergli né reciprocità (assumere doveri
per avere diritti) né il nome". Tornando a Socrate, lo Straniero che il filosofo auspica di essere è
qualcuno da cui si pretende identità per essere riconosciuto: gli si chiede quindi il nome. Ma, allora,
l'ospitalità consiste nell'interrogare chi arriva? La domanda può apparire molto umana, esprimere un
autentico interesse: chi sei? come ti chiami? Oppure la vera ospitalità accoglie senza domande,
viene offerta ad un soggetto non identificabile, si dona? È soprattutto nella cultura che questo
dilemma appare nella sua complessità, quando cioè un singolo uomo sfugge momentaneamente alla
propria identità nominale per diventare testimone di un popolo proveniente da tradizioni
contemporanee e al tempo stesso ataviche. Fino a che punto è lecito forzare la comprensione di una
cultura "Altra"? Fino a che punto le domande desiderano dischiudere autenticamente una cultura e
non assimilarla nelle proprie categorie per trarne spunti di rapido consumo? La risposta è
nell'individuo che, di fronte a etnie e culture diverse si ritrova ad essere egli stesso Altro e Diverso,
e quindi nella propria volontà non di ri-conoscere, ma di conoscere e di farsi conoscere,
nell'integrità e nel rispetto che ogni essere umano e quello che porta con sé merita.

GILLES DELEUZE

IL CINEMA DEL PENSIERO


Gilles Deleuze, ne "L'immagine-movimento" e ne "L'immagine-tempo", scritti entrambi negli anni
Ottanta, sostiene la tesi secondo la quale, nonostante la grande abbondanza di mediocrità presente
nella produzione cinematografica, i grandi autori del cinema possono essere paragonati non soltanto
ad altri artisti, quali architetti, pittori o musicisti, ma anche a dei pensatori, che pensano attraverso
delle "immagini-movimento" e delle "immagini-tempo" al posto dei concetti. Deleuze riallaccia le
sue riflessioni sul cinema alle concezioni di Henry Bergson sulla natura del movimento e del tempo.
Il cinema attraverso il montaggio arriva a dare un'immagine del tempo che può essere diretta se
legata alle immagini-tempo o indiretta se proveniente dalle immagini-movimento e dai loro
rapporti. Nella contrapposizione elaborata da Bergson tra il tempo inteso come durata nella
coscienza e il tempo misurabile della matematica e degli orologi, il cinema si presenta come
l'esempio tipico del falso movimento: esso, infatti, procede con due dati complementari, delle
sezioni istantanee che si chiamano immagini e un movimento, o tempo impersonale, uniforme e
astratto, che è nella macchina da presa e con cui si fanno "sfilare" le immagini. Il cinema dunque
ricostruisce il movimento con delle sezioni immobili come il più vecchio dei pensieri (paradosso di
Zenone). Tuttavia, sostiene Deleuze, non si può concludere l'artificialità del risultato a partire
dall'artificialità dei mezzi: infatti il cinema, sebbene proceda con fotogrammi che sono delle sezioni
immobili di tempo (sequenze di 18 o 24 immagini al secondo), ci restituisce un'immagine media
(ovvero risultante dalla somma di tutti i fotogrammi) a cui il movimento non si aggiunge

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astrattamente, ma che appartiene invece all'immagine come dato immediato. Attraverso la cinepresa
mobile e il montaggio, il cinema non ci offre un'immagine alla quale aggiungerebbe, solo in un
secondo momento, il movimento, ma ci dà immediatamente un'immagine-movimento. Attraverso
l'inquadratura, la macchina da presa ritaglia dallo spazio aperto del mondo un sistema chiuso, una
sezione mobile del tempo-durata, un sottoinsieme fatto di immagini, di personaggi e di oggetti posti
in relazione dinamica tra di loro. A differenza di quelle arti fatte di pose (scultura, pittura,
fotografia), le quali rimandano a forme e idee eterne ed immobili, il cinema, come la danza e il
mimo, libera valori "non-posati", riporta il movimento all'istante qualsiasi; esso non cerca il "tutto",
poiché il movimento si fa solo se il tutto non è né può essere dato: appena ci si dà il tutto, il tempo
diviene immagine dell'eternità e di conseguenza non c'è più posto per il movimento reale che è puro
divenire senza sosta. Queste riflessioni aprono la possibilità per una nuova filosofia: mentre la
filosofia antica si proponeva di pensare l'eterno, l'universale, il cinema diventa il portavoce dell'altra
filosofia, capace di un modo di pensare nuovo che cerca il singolare, in ogni istante qualsiasi.
L'inquadratura, il piano e il montaggio sono i mezzi attraverso i quali il cinema costruisce il suo
sistema di relazioni tra immagini. L'inquadratura è il punto di vista, il sistema chiuso che
comprende tutto ciò che è presente nell'immagine. Essa può comporsi secondo schemi geometrici,
dinamiche di luci e ombre, "disinquadrature" e fuori campo, e il suo scopo è rendere l'immagine
leggibile, oltre che visibile, dallo spettatore. Il piano rappresenta il movimento stesso, il rapporto tra
le parti e il cambiamento che ne scaturisce è l'immagine-movimento stessa, la sezione mobile della
durata secondo la visione bergsoniana. Attraverso esso si rende possibile una modulazione spazio-
temporale grazie alla quale il tempo assume il potere di dilatarsi o concentrarsi e il movimento
assume il potere di rallentare o accelerare. Infine il montaggio che rappresenta il tutto del film,
l'idea che ci fa dono di un'immagine della durata e del tempo effettivi. Deleuze, ripercorrendo la
storia del grande cinema d'autore, individua diverse scuole di montaggio che sembrano segnare un
percorso di trasformazione da un cinema classico a un cinema moderno che si differenziano per la
diversa immagine del tempo che hanno saputo dare: mentre il cinema classico ha veicolato
un'immagine indiretta del tempo, proveniente dalle immagini-movimento e dai loro rapporti, il
cinema moderno ha dato un'immagine diretta del tempo grazie ad immagini-tempo che hanno
instaurato nel cinema un regime di scambio tra immaginario e reale, tra soggettività e oggettività,
con il fine di comunicare l'idea del passaggio, del cambiamento quale natura stessa del tempo.
Deleuze concepisce il tempo quale direttamente rappresentabile poiché l'immagine-tempo ha la
facoltà di esprimere la natura del tempo, il fuggevole, in una forma compiuta: "ma la forma di ciò
che cambia, non cambia, non passa. È il tempo, il tempo in persona…un'immagine tempo diretta,
che da a ciò che cambia la forma immutabile nella quale si produce il cambiamento". Tra gli autori
di immagini-movimento, Deleuze individua diverse forme di montaggio utilizzate: la tendenza
organica della scuola americana, la tendenza dialettica della scuola sovietica, la tendenza
quantitativa della scuola francese d'anteguerra e infine la tendenza intensiva della scuola
espressionista tedesca. La scuola americana concepisce con Griffith un'idea di montaggio in cui i
personaggi e le azioni sono presi in rapporti binari che costituiscono un montaggio alternato
parallelo, con l'immagine di una parte che succede a quella di un'altra seguendo un ritmo,
un'alternanza delle parti differenziate; ad esempio, il mondo dei poveri e il mondo dei ricchi, oppure
il mondo dei buoni e quello dei cattivi, vengono presentati come sfere in conflitto, indipendenti le
une dalle altre, appunto come modi paralleli, manicheicamente opposti, mentre si trascura il fatto,
commenta Deleuze, che le parti in opposizione sono in realtà il frutto di una stessa causa, le due
facce della stessa realtà sociale di sfruttamento. Le parti distinte entrano in conflitto, ma le azioni
tendono a ricongiungersi, fino ad arrivare ad una situazione trasformata che costituisce una grande
unità organica. Nei film russi di Eisenstein, Vertov, Pudovkin e Dovzenco l'obiettivo del montaggio
è quello di comunicare l'idea di una meta unitaria da raggiungere (presa di coscienza, azione
politica) attraverso una giustapposizione di situazioni legate tra loro e in evoluzione. L'opposizione
dialettica, il passaggio da un opposto all'altro si realizzano attraverso il ricorso al patetico

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(l'immagine viene caricata di una tensione emotiva fino ad esplodere, ed emergere dall'insieme
come "immagine al quadrato"; pensiamo, ad esempio, alla carrozzina del Potëmkin.) e al montaggio
di opposizione: questo si differenzia dal montaggio parallelo poiché l'unità a cui riporta non è un
semplice assemblaggio di parti giustapposte, ma una spirale organica che cresce attraverso le
contraddizioni per arrivare ad un'unità più elevata, appunto ad una sintesi dialettica. Il cinema
francese degli stessi anni è profondamente legato, invece, allo spiritualismo. Il movimento della
macchina da presa rispecchia il movimento dell'anima, la passione. Le diffuse immagini d'acqua
(mare, fiumi, riprese subacquee) diventano la forma di quanto non ha consistenza organica:
l'astratto, lo spirito (ne "L'Atalante" di Jean Vigo l'acqua diventa il luogo dell'apparizione di
fantasmi). Attraverso il montaggio accelerato, la polivisione, la sovrimpressione delle immagini, il
tempo e il movimento diventano smisurati, incommensurabili: il sublime matematico kantiano fa
così la sua apparizione nel cinema. Il senso del sublime dinamico, invece, emerge dai giochi di luce
nei film dell'espressionismo tedesco. Il contrasto diventa la matrice del montaggio, luce e ombra
creano un mondo striato, lo spazio è costruito attraverso una geometria gotica. La luce che si
oppone alle tenebre, la vita che lotta con l'inorganico per emergere atterrisce l'immaginazione, ma
dà vita allo stesso tempo ad una facoltà pensante attraverso cui ci sentiamo superiori rispetto a tutto
ciò che ha il potere di annientarci. (Nosferatu di Murnau, Der Golem di Wegener, Frankenstein di
Whale). Con l'immagine-tempo il montaggio tende quasi a scomparire a vantaggio del piano
sequenza e della profondità di campo: l'uno trasmette il senso della continuità di durata, l'altro
(sperimentato da Welles), facendo comunicare lo sfondo con il primo piano, il lontano con il vicino,
rappresenta il rapporto tra passato e presente, ovvero un'immagine-tempo diretta. L'immagine-
tempo inaugura uno stile frammentato che abbandona l'idea di montaggio come associazione,
concatenamento tra immagini, per dare importanza alla spaziatura, al vuoto che si crea tra le
immagini. Mentre l'immagine classica costruiva sequenze di montaggio secondo leggi di
associazione o opposizione che sfociavano poi in concetti, l'immagine moderna instaura un "regno
degli incommensurabili", in cui le immagini non si associano più in maniera razionale, ma vengono
spezzettate per poi essere riconcatenate. Il fuori campo e il falso raccordo assumono un nuovo
senso. In Godard, ad esempio, a differenza del cinema classico dove persisteva l'ideale dell'identità
e del sapere come totalità e armonia, il mixage sostituisce il montaggio: le immagini appaiono
dissociate, non c'è più unità tra autore, personaggi e mondo; il rapporto tra il sonoro e il visivo
diventa asincronico, la voce fuori campo si fa indipendente dalle immagini e la sua funzione è
quella di produrre un sistema di sganciamenti e intrecci tra presente e passato. Qualunque sia la
forma di montaggio scelta, la macchina da presa agisce come una coscienza giudicante, ritaglia una
visione particolare dal flusso continuo della materia e, isolando una sezione nell'insieme infinito
delle immagini, agisce come lo schermo nero posto dietro la lastra fotografica che fa sì che
l'immagine si distacchi. Deleuze costruisce una vasta tassonomia di immagini cinematografiche,
elaborandola sulla scia del sistema di classificazione generale delle immagini e dei segni stabilito
dal logico americano Peirce. Se un'immagine può esprimere un concetto, possiamo pensare allora
che esistono convenzioni simboliche e discorsive per interpretare i segni cinematografici? Ovvero
esiste un repertorio codificato di immagini-significato come nella lingua oppure un'immagine, a
differenza di una parola, non significa sempre la stessa cosa? Nel cinema troviamo tre tipi di
immagini a costituire l'immagine-movimento: immagini affezione e pulsione (rappresentano la
"primità", secondo la semiotica di Peirce), immagini azione ("secondità"), immagini relazione
("terzità"). Vi sono immagini che hanno una relazione per così dire "naturale" con le cose che
rappresentano, come nel caso di un ritratto che viene associato automaticamente al suo modello. Ciò
che lega le due entità è soprattutto l'abitudine a vederle associate, il patrimonio comune di gesti che
tutti noi compiamo; così, ad esempio, l'apparizione di un'arma richiama subito un significato di
violenza o di dolore. Queste immagini sono dei cliché. In questo senso l'immagine filmica, come
l'immagine poetica, non significa ma mostra, non è segno ma intuizione lirica, senso immanente
all'immagine stessa, realtà direttamente presente senza mediazione simbolica o riformulazione del

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reale stesso. Il primo piano cinematografico è un'immagine affezione e il suo ruolo è quello di
astrarre l'immagine dalle coordinate spazio-temporali per trasformarla in icona, espressione pura di
un affetto che non esiste separatamente da ciò che lo esprime: nel vedere un volto sofferente
vediamo la sofferenza in persona. L'immagine affezione esprime qualità o potenze considerate in sé,
senza riferimento a nient'altro. L'affetto è impersonale, esprime il possibile senza attualizzarlo e si
distingue da ogni stato di cose individuato, ma allo stesso tempo esprime qualcosa di singolare,
all'interno di una storia che lo presenta come l'espressione di un'epoca o di un ambiente. Il film
affettivo per eccellenza è, secondo Deleuze, La passione di Giovanna D'Arco di Dreyer. Il regista
astrae la passione dal processo attraverso un predominanza di primi piani del volto della santa,
mentre il piano medio e quello generale sono costruiti con assenza di profondità come fossero
anch'essi primi piani. Anche uno spazio qualsiasi può esprimere qualità e potenze ed essere quindi
un'immagine affezione. A metà strada tra l'immagine affezione e l'immagine azione troviamo
l'immagine pulsione, la quale rappresenta un affetto degenerato che si manifesta in un'azione
"embrionata", informe o perlomeno non formale. Troviamo immagini pulsione in tutti i film
naturalisti; le pulsioni rappresentate sono spesso semplici come la fame ed il sesso e sono
inseparabili dai comportamenti perversi che producono e animano. Buñuel, considerato con
Stroheim e Losey uno dei massimi naturalisti del cinema, ha arricchito l'inventario di pulsioni e
perversioni spirituali ancora più complesse, riguardanti questioni teologiche e filosofiche (in Simon
del deserto, ad esempio). A differenza del realismo che si esprime attraverso immagini azione, il
naturalismo esprime una violenza statica, interiore, che si impossessa dei personaggi e fuoriesce da
essi fino a penetrare l'ambiente e a degradarlo. L'immagine-azione o "secondità" rappresenta tutto
ciò che esiste solo opponendosi a qualcos'altro, come in una relazione duale: azione-reazione,
eccitazione-risposta, situazione-comportamento. Ci troviamo all'interno della categoria del reale,
dell'attuale, dell'esistente, dove le qualità e le potenze si attualizzano in stati di cose particolari.
Siamo nell'ambito del realismo, il genere che ha fatto trionfare universalmente il cinema americano.
Nel regno della "secondità" la situazione e il personaggio (o l'azione) sono due termini correlativi e
antagonisti: l'ambiente agisce sul personaggio, il personaggio reagisce a sua volta in modo tale da
rispondere alla situazione e modificare l'ambiente, pervenendo dunque ad una nuova situazione.
Molti generi di film hanno una simile struttura: tutti i film di guerra; i film-documentario (Flaherty),
dove si vede l'uomo, o la natura in genere, fronteggiare le sfide dell'ambiente; i film psico-sociali
(King Vidor, Elia Kazan), dove da una comunità emerge la figura di un capo in grado di rispondere
alle difficoltà della situazione (qui il realismo descrive una patologia dell'ambiente e le reazioni ad
essa da parte dei personaggi che la subiscono); i film western (John Ford), dove il duale, lo scontro
tra due forze antagoniste si esprime attraverso la rappresentazione del duello; i film storici (Griffith,
De Mille, Hawks), dove sotto la forma dell'immagine-azione troviamo rappresentati i tre aspetti
della storia definiti da Nietzsche: l'aspetto monumentale nei paralleli o nelle analogie tra una
civilizzazione e un'altra (ha il suo capolavoro in Intolerance di Griffith), l'aspetto antiquario nelle
ricostruzioni scenografiche e costumistiche, l'aspetto critico nella struttura stessa del film, da cui
emerge sempre e comunque un forte giudizio etico sul passato narrato dalla storia. L'immagine
azione ha tuttavia anche un'altra forma, una piccola forma sostiene Deleuze, dove questa volta è
l'azione che svela la situazione, o un aspetto di essa, la quale a sua volta dà inizio ad una nuova
azione. La nuova immagine azione procede per indizi, per ellissi e per equivoci. L'azione svela una
situazione non data che viene dedotta dall'azione stessa, oppure una piccolissima differenza tra due
azioni produce una grandissima distanza tra due situazioni, delle quali una sola è reale e l'altra
apparente o menzognera. Questa nuova formula dell'immagine è comune a molti film gialli o
polizieschi e al burlesque: in molti film di Chaplin l'azione è filmata mettendo in evidenza ogni sua
più piccola differenza rispetto ad un'altra azione, per svelare così la grande distanza tra due
situazioni. Deleuze cita l'esempio di Charlot che in guerra segna un punto ogni volta che spara, ma
quando una pallottola nemica gli risponde, lo cancella. All'ultima categoria, detta "terzità",
appartengono quelle specie di immagini (immagini relazione) che hanno una relazione "astratta"

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con il senso che veicolano. Questa relazione è costruita su una convenzione e di conseguenza queste
immagini rendono il film più difficile: esse vanno interpretate in quanto non sono leggibili
intuitivamente e il loro senso va cercato nella storia che le riguarda, nella loro funzione di simbolo
all'interno della cultura a cui appartengono, nel tessuto relazionale in cui sono inserite. Per esempio
i gabbiani che attaccano gli uomini nel film Gli uccelli di Hitchcock (massimo creatore di immagini
relazione secondo Deleuze) sono il simbolo (relazione astratta) dell'inversione del rapporto uomo-
natura, e soltanto intuendo questa relazione siamo in grado di comprendere il senso dell'intero film.
Ma sono proprio queste immagini ad avvicinare il cinema al pensiero e ad allontanarlo dai luoghi
comuni. Deleuze si serve della classificazione delle figure del discorso di Fontanier per descrivere
le diverse forme assunte dall'immagine relazione: così un'immagine può avere il valore dei tropi
letterari ed essere letta come una metafora, una metonimia o una sineddoche oppure valere come
allegoria, simbolo, sillogismo, e animare delle figure di pensiero. Il cinema può porre ora delle
domande trascendenti o esistenziali, domande su Dio o sulla vita, e le pone attraverso delle
immagini mentali che non rappresentano il pensiero di qualcuno, ma concernono gli stessi oggetti
che possiedono un'esistenza propria al di fuori del pensiero e la relazione che si stabilisce tra essi.
L'interpretazione si fa necessaria per la comprensione di queste immagini, per cogliere la relazione
che le lega, poiché esse non sono unite naturalmente nello spirito, ma in virtù di una legge esterna.
Il mentale mette in crisi l'immagine tradizionale del cinema e anche se si continuano a fare film
d'azione, essi non esprimono più la vecchia anima del cinema che ora esige sempre più pensiero. La
crisi dell'immagine azione dipende, secondo Deleuze, da molte variabili, dalla guerra e dalle sue
conseguenze, dal vacillare del sogno americano, dall'inflazione delle immagini nel mondo esterno e
nella mente della gente e dall'influenza sul cinema delle nuove tipologie del racconto, già
sperimentate dalla letteratura. Cadono le illusioni e il realismo non è più in grado di raccontare il
nuovo stato di cose. L'immagine non rinvia più a una situazione sintetica, ma dispersiva; i
personaggi sono molteplici e non è più possibile distinguere un personaggio principale da uno
secondario. La realtà stessa sembra lacunosa e confusa e il caso sembra essere il solo filo conduttore
che lega gli avvenimenti. L'azione viene sostituita dalla flanerie, dal vagare senza meta e la nuova
immagine vuole superare quelli che ormai sono diventati i cliché dell'immagine azione (gli eroi, il
lieto fine). Il cinema americano si limita in questo nuovo contesto ad una mera critica, ad una
denuncia che costituisce però una semplice parodia dei cliché che non conduce a nulla e che dunque
non è pericolosa. Il nuovo progetto estetico, e politico, nasce in Europa con il Neorealismo in Italia,
prosegue con la Nouvelle Vague in Francia e va oltre, fino a cambiare lo stesso cinema americano,
con Welles e il New American Cinema, ed arrivare ad oggi con una ricerca che non sembra ancora
esaurita. Con l'immagine mentale, l'immagine-movimento arriva al proprio limite, aldilà di essa
troviamo l'immagine-tempo, costituita a sua volta da immagini ottico-sonore pure, immagini
ricordo, immagini sogno, fino ad arrivare alle immagini cristallo. La nuova immagine allude a
visioni del mondo alternative dove il tempo può seguire una linea spezzata o un percorso circolare e
non essere più strutturato secondo l'idea di un fine a cui tendere. La realtà assume una nuova forma
che è errante, ellittica, sempre ambigua. Il Neorealismo inaugura un nuovo cinema che Deleuze
definisce del "veggente". Alle situazioni senso-motorie del vecchio cinema d'azione realista si
sostituiscono delle situazioni puramente ottiche e sonore: i personaggi dei nuovi film sembrano
essere divenuti essi stessi degli spettatori di una situazione che subiscono senza poter reagire. Il
personaggio è come consegnato a una visione piuttosto che impegnato in un'azione. I bambini, che
nel mondo adulto soffrono "di una certa impotenza motoria", sono spesso i protagonisti (in De Sica
e in Truffaut) proprio perché più capaci di vedere e di sentire. Gli ambienti e gli oggetti che
popolano le inquadrature acquistano valore per se stessi (Visconti e Antonioni). La banalità
quotidiana oppure i ricordi d'infanzia, i sogni e le immagini soggettive animano le nuove immagini
fino a confondere la realtà con lo spettacolo (Fellini); la realtà trascorre nell'immaginario e ne esce
deformata dal pensiero, diviene una nuova realtà, creata dalla mente attraverso la parola e la
visione, finché attuale e virtuale, reale e immaginario si fanno indiscernibili. Spesso nella

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sceneggiatura è assente ogni intreccio, proliferano i tempi morti e le conversazioni banali, oppure il
silenzio. Le nuove immagini che esprimono il divenire, il passaggio, rappresentano l'essenza del
tempo. Immagini visive e sonore rendono sensibili il tempo e il pensiero e fanno di essi uno
strumento di conoscenza. L'immagine ottico-sonora rievoca un'immagine ricordo: l'immagine
attuale (descrizione) si concatena con un'immagine virtuale (ricordo) componendo un circuito che
va dal presente al passato per tornare al presente, attualizzando il ricordo attraverso il meccanismo
del flash-back. Attraverso questo tipo di montaggio (di cui Mankiewicz è il più grande maestro,
secondo Deleuze) si producono delle relazioni non lineari tra le situazioni, si impongono delle
svolte nella narrazione, delle rotture di causalità che creano degli enigmi. Ancora una volta si
instaura un circuito di indiscernibilità tra l'immagine attuale del presente e l'immagine attualizzata
del virtuale-ricordo, mentre le immagini sogno emergono quando non si riesce a ricordare e
l'immagine attuale del presente entra in contatto con l'elemento virtuale del sogno o del déjà-vu. Da
questo nuovo tipo di immagine nasce il confronto tra cinema e psicanalisi e da qui ha anche origine
il Surrealismo (Buñuel). Il montaggio è fatto da dissolvenze e sovrimpressioni che esprimono l'idea
di un coinvolgimento del passato nel presente in una forma anarchica e da tagli improvvisi delle
sequenze che producono l'idea di uno sganciamento, di una rottura. Si tratta per Deleuze (che
riprende la teoria bergsoniana del sogno) di falde di passato fluide che emergono disordinatamente
incarnandosi in delle metafore, senza presentarsi direttamente in immagini attualizzate del passato
(come avviene nel ricordo). Tra le immagini sogno Deleuze pone anche i film della commedia
musicale (i film di Minnelli fra tutti), in cui le danze sembrano voler riprodurre un mondo onirico,
creare un sogno gigantesco ed esprimere il passaggio da questo alla realtà in un andirivieni che di
nuovo marca l'indiscernibilità tra reale e immaginario. Infine l'immagine cristallo. Essa si produce
quando "l'immagine ottica attuale si cristallizza con la propria immagine virtuale", quando
l'immagine presenta una doppia faccia insieme attuale e virtuale, producendo una nuova forma di
indiscernibilità. Deleuze parla di immagini doppie per natura nelle quali l'indiscernibilità tra attuale
e virtuale, presente e passato, reale e immaginario, vero e falso non si produce nella mente dello
spettatore, ma è un vero e proprio carattere oggettivo di questo tipo di immagini. Un esempio
efficace di immagine cristallo è l'immagine allo specchio: "l'immagine allo specchio è virtuale in
rapporto al personaggio attuale che lo specchio coglie, ma è attuale nello specchio che lascia al
personaggio soltanto una semplice virtualità e lo respinge fuori campo". Tra i numerosi autori di
immagini cristallo ricordati da Deleuze ci sono Orson Welles (ne la Signora di Shangai si ricorda la
celebre sequenza della stanza degli specchi), Tarkovskij (un suo film si intitola appunto Lo
specchio), Resnais (la confusione di passati-presenti di L'anno scorso a Marienbad). L'immagine
reciproca del cristallo, presente e passata contemporaneamente, somiglia all'illusione della
paramnesia, al déjà-vu: ricordo del presente, passato contemporaneo al presente stesso. Tuttavia
l'immagine cristallo non ha una natura mentale o psicologica, ma esiste fuori della coscienza e nel
tempo, quasi come un frammento di tempo allo stato puro. Il passato si forma contemporaneamente
al presente e non dopo di esso e dunque il tempo si sdoppia in ogni istante e l'immagine attuale del
presente che passa si forma simultaneamente all'immagine virtuale del passato che si conserva, fino
a formare un circolo. Il reale si colloca all'esterno dell'immagine cristallo, l'avvenire è al di fuori del
circolo, oltre l'eterno rinvio tra passato e presente. Molti autori di cinema scelgono di restare
intrappolati nel cristallo, come Visconti, altri cercano uno slancio verso l'avvenire, Renoir ad
esempio, altri ancora, come Fellini, si pongono il problema di come entrare nel cristallo e si aiutano
con ricordi d'infanzia, fantasmi, fantasticherie.

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DELEUZE E DERRIDA
L'ANTI-EDIPO. CAPITALISMO E SCHIZOFRENIA

Il punto di partenza di questo celebre volume, è una critica della psicanalisi (di ogni scuola, ma
soprattutto freudiana), accusata di prevaricazione autoritaria in difesa del capitalismo. Gli autori
identificano le ragioni e il momento di quella involuzione, indagando il meccanismo che portò
Freud dalla scoperta del complesso di Edipo alla sua formulazione teorica. Dopo aver descritto il
funzionamento del desiderio come produzione e «macchina desiderante», analogo al lavoro, gli
autori attribuiscono la sua rimozione originaria alla repressione sociale, timorosa del carattere
rivoluzionario e sovversivo del desiderio. L'inconscio non sarà piú il luogo del desiderio reale ma
un insieme di credenze e di rappresentazioni indotte (dalla struttura sociale, dagli agenti familiari,
dallo psicanalista). Deleuze e Guattari studiano il modo di formazione della struttura edipica nella
società primitiva, in quella barbarica e nel capitalismo; e giungono a definire il processo
schizofrenico come limite del capitalismo. Affrontando il rapporto tra psicanalisi e marxismo,
l'opera ha come obiettivo polemico i limiti del freudo-marxismo tradizionale e del lacanismo, ma
anche quelli di alcune tendenze dell'antipsichiatria. Gli autori impostano, forse per la prima volta,
una premessa epistemologica per una critica materialistica della psicanalisi, mettendone in luce le
connotazioni ideologiche e idealistiche, a partire dalla dimostrazione del carattere secondario
dell'inconscio freudiano, e dalla sua concreta articolazione con le forze sociali e produttive del
capitalismo.

Introduzione di Alessandro Fontana

Leggere un testo infatti non è mai un esercizio erudito alla ricerca dei significati, ancor meno un
esercizio altamente testuale in cerca di un significante, ma un uso produttivo della macchina
letteraria, un montaggio di macchine desideranti, esercizio schizoide che libera del testo la sua
potenza rivoluzionaria.
(Antiedipo)

L'avvenimento.

Si immagini la storia come una massa globulare, una nebulosa, con oggetti puntuali inegualmente
distribuiti e stati d'intensità differenziali: insieme aleatorio e stocastico piú che continuo statistico. Il
presente allora non sarebbe spesso che la derivata di questi oggetti e dí questi stati, sorta di punti-
nodo a partire da cui la storia non cessa di ricominciare, per produrre nuove intensità e nuovi
oggetti. Il maggio del '68, per il nostro presente, è uno di questi punti, e sembra ormai d'obbligo
riprendere da qui tutti i fili. Qui la storia sembra ancora una volta aver ritrovato un suo referente
maggiore, una sorta di deriva del vecchio mondo, l'ancoraggio d'un'ineludibile contemporaneità, la
generatrice del nuovo mondo: sulla spola del '68 si sdipana confusamente il groviglio delle illusioni
perdute, delle fedi tradite, delle rivelazioni accecanti, delle morti e trasfigurazioni piú sorprendenti,
delle ferite irrimarginabili, attraversate spesso da nuovi cinismi, da piú sottili menzogne e da piú
crudeli derisioni; l'indifferenza stessa ha fatto della sua serenità una maschera (che nasconde spesso
la peste, come nel racconto di M. Schwob).
Ma tutto questo ci sembra umano, troppo umano, troppo legato alle tortuose strategie delle
capitolazioni, patteggiamenti, conversioni di ciascuno. Commisurare l'avvenimento a queste oscure
intimità personali è ancora un modo per territorializzarlo, interpretarlo, familiarizzarlo,
domesticarlo: cosa sono queste schiume soggettive rispetto alla vague de fond della storia? Per
questo bisognerebbe un giorno, al di là del pietismo commemorativo delle nuove retoriche,
analizzare il tipo di avvenimento costituito dal maggio del '68, come referente nuovo con cui, pare,
non si può piú non fare i conti; bisognerebbe, in altre parole, determinare il tipo di singolarità

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ch'esso ha costituito, le intensità cui ha dato luogo, gli effetti dí senso, l'eccesso di senso, che ha
prodotto. Che tipo di avvenimento, insomma, è quello in cui paradossalmente sembrano essersi
cristallizzate tutte le rimozioni e tutte le liberazioni, tutti i tradimenti e tutti gli eroismi, tutti i
misconoscimenti e tutte le rivelazioni? Che tipo di avvenimento è quello da cui, esplicitamente o
meno, prendono origine tutte le genealogie o a cui vengono ricondotte tutte le regressioni? Che
avvenimento è infine quello in cui la storia sembra procedere a una rifusione radicale di tutte le
certezze e di tutti i dubbi?
Quest'analisi è forse prematura, se non impossibile: il '68 appartiene alla galassia di cui facciamo
ancora parte. Non si potranno quindi che avanzare delle ipotesi. Forse la singolarità di questo
avvenimento, nella sua purezza, è stata d'aver costituito il punto d'incrocio simultaneo per un fascio
di serie parallele, convergenti o parzialmente intersecantisi: la serie-Lenin, la serie-Stalin, la serie-
Mao, la serie-Marx, la serie-Freud, le serie fasciste, le serie anarchiche, ed altre ancora, con le loro
discorsività, le loro figure, i loro segni e i loro avvenimenti specifici: una sorta dí superficie di
registrazione complessa, un'intersezione di serie trasversali, un luogo inesteso d'intensità e di flussi;
un'insieme di molteplicità sul corpo senza organi della storia; in altre parole, la storia come
macchina desiderante.
Probabilmente l'avvenimento deborda la storiografia ufficiale e le sue possibilità conoscitive: la
storiografia ufficiale, coi suoi organi istituzionali o privati, non può che linearizzare l'avvenimento,
ancorandolo ad un qualsiasi significante esterno (all'arcaismo di un qualsiasi significante dispotico,
che ha nell'Edipo il suo rappresentante). Rispetto a questa storiografia l' Antiedipo, ove si procede
alla strumentazione e al montaggio della macchina desiderante, rappresenta forse il solo tentativo
rigoroso, fino ad oggi, per pensare l'avvenimento del '68, liberandolo da tutte le alluvioni
agiografiche, personalistiche, mitiche, religiose ed ideologiche. In questo montaggio della macchina
desiderante come solo tentativo possibile per pensare l'avvenimento va dunque individuata la prima,
e forse piú importante, chiave di lettura dell'Antiedipo.

Le tre funzioni discorsive.

L'avvenimento di cui sopra avrà avuto almeno, su ciò che in mancanza di meglio si definisce il
sapere, questo effetto decisivo: smascherata la funzione delle scienze dette umane (contrabbandare
dietro la finzione dell'«uomo», doppione immaginario dell'io freudiano, la pratica concreta del
potere di normalizzazione e di controllo disciplinare), denunciata dagli scienziati stessi la pretesa «
autonomia» delle scienze tout court (con le prove fornite dalle guerre imperialistiche dell'ultimo
decennio), le formazioni discorsive sembrano ormai articolarsi attorno a tre questioni ultimative: la
questione della verità, la questione del potere e la questione del desiderio. Il beneficio teorico del
'68 sembra essere proprio questo: la battaglia discorsiva, in cui, lo si voglia o no, si gioca il destino
del nostro sapere, è già iniziata intorno a questi tre obbiettivi, una volta sgombrato definitivamente
il campo dal brusio confuso dei discorsi parassitari (che non cessano per questo di proliferare, piú
monotoni e piú insistenti che mai). Non che si parli di verità, di potere e di desiderio per la prima
volta: il loro affiorare anzi alla superficie del discorso, come oggetto del discorso, è antico come il
pensiero occidentale, e non ci vorrebbe molto a trovare una loro prima articolazione nel platonismo
greco. Nuova appare, invece, da una parte, la loro esclusiva radicalità, come se i discorsi non
potessero piú eludere, di qualsiasi cosa parlino, gli effetti di verità, la connivenza col potere,
l'iscrizione nel desiderio e, d'altra parte, in un movimento inverso, la loro reciproca appartenenza,
come se ciascuna delle tre funzioni, quale che sia il privilegio accordatole, non potesse non
implicare simultaneamente, e in modi specifici, le altre due. Nuovo, soprattutto, è il fatto che verità,
potere e desiderio, rappresentano meno oggetti e referenti del discorso, che il discorso stesso, nei
suoi costituenti immediati, nelle sue modalità enunciative, nelle sue scenografie testuali, nei suoi
dispositivi metodologici. Discorso della verità, discorso del potere, discorso del desiderio: ciascuno
col suo stile specifico di interrogare, di ritagliare gli oggetti e i campi d'applicazione, di montare la

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macchina teorica; ciascuno col suo ricorso caratteristico al linguaggio e alla scrittura. In urti modo o
nell'altro, e pur nelle forme della reticenza, dell'allusività, della presupposizione, del travisamento,
dell'occultazione e della metafora, ciò di cui è questione nei discorsi, ciò di cui son fatti i discorsi,
sono le tre funzioni, e il loro gioco complesso di appartenenza e di esclusione: l'inevitabile del
nostro dire. t questo l'effetto discorsivo del '68.
Discorso della verità: non piú il fantasma positivistico di un reale infine liberato e rivelato, la verità
come trasparenza e rigetto dell'errore, il taglio tra conoscenza e misconosci-mento, l'accumulo
fiducioso delle certezze, l'esattezza, la conferma e la prova (il modello della verità scientifica); non
questa o quella verità, ma la verità della verità la verità come causa, non correlata ad alcun sapere,
coi suoi temi della parola piena, del soggetto diviso, del debito simbolico, del significante maitre e
del maestro di verità, del disvelamento e della finta costitutiva, coi suoi luoghi deputati (l'inconscio
e le sue scene: il sogno, il lapsus, il sintomo), con la sua tecnologia del transfert e dello scambio
intersoggettivo e col suo imperativo araldico: Wo es war, soli Ich werden; la verità insomma, che in
una celebre prosopopea, può finalmente dire: moi la vérité, je park. Il discorso del potere: non piú la
vecchia nozione « feudale» del potere come partizione, agglutinazione, esproprio, fissazione
(modello del potere statale), ma il potere diffuso capillarmente, con diverse zone d'intensità, in tutto
il corpo sociale, coi suoi agenti collettivi e privati d'enunciazione (dal pater familias al medico, al
poliziotto, al giudice), con le sue variabili strategie di applicazione sui corpi e sulle persone, con la
sua tendenza a spostare sempre piú in là i confini del controllabile, del sorvegliabíle, del
disciplinabile; parlare non è piú allora rivelare o nascondere la verità, né tanto meno comunicarla
(secondo un vecchio ritornello della scienza), ma veicolare i segni del potere e diffonderne gli
effetti; dietro ogni discorso (quale che sia la sua struttura logico-linguistica) la grammatica generale
di una tecnologia di potere.
Sarebbe forse indebito, in omaggio al feticismo del nome proprio, ascrivere la proprietà di questi
discorsi unicamente a Lacan da una parte, e a Foucault dall'altra: i discorsi non appartengono a
nessuno, e i nomi propri non sono che un indice. Quanto alla verità, comunque, Lacan non ha fatto
che ripetere ch'essa emerge come parola piena in un certo rapporto con l'altro (chi è nel suo caso:
Freud, i suoi pazienti o i suoi uditori devoti, o tutti e tre insieme? ), e Foucault ci ha insegnato che
c'è piú verità nella parola dell'ultimo dei pazzi che in quella del primo degli psichiatri; quanto al
potere, se Foucault (il Foucault soprattutto delle lezioni al Collège de France) ne smonta
pazientemente i congegni, Lacan non ignora che ce n'è ovunque c'è sapere (e una certa sua richiesta
recente di allégeance da parte degli psicanalisti di Vincennes lo conferma crudelmente). Anche la
questione del desiderio era già posta: come affrancamento dal concetto organicistico di bisogno in
Lacan, come emersione dalle rovine della rappresentazione in Foucault. Ora, a partire di qui,
l'Antiedipo ha riposto il desiderio al centro, ci ha riposto nel cuore stesso del desiderio: non piú
semplice oggetto di discorso, nelle forme familiaristiche dell'Edipo, ma l'enunciazione libidinale di
tutte le discorsività, nelle forme produttivistiche della macchina desiderante. Era già il discorso di
Schreber, di Artaud, di Wolfson, di cui l'Antiedipo è forse il solo «commento» possibile: seconda
chiave di lettura.

Il desiderio: macchina/ struttura.

Parola di verità, tecnologia del potere, macchina desiderante: ecco la triplice funzione delle
formazioni discorsive. Ma perché macchina? Si vedrà innanzitutto, nel paragrafo intitolato
L'inconscio molecolare, come la macchina desiderante non abbia nulla a che fare con le macchine
molari organiche, tecniche e sociali: la molarità non è altro che il ripiegamento della macchina sul
piano della struttura, macchina che non si forma allora allo stesso modo in cui funziona e che
funziona sul modello e sul regime estrinseco dell'organismo, della tecnica, dell'istituzione. Di fronte
al molare, dunque, il molecolare; di fronte alla struttura, la macchina: in una parola si potrebbe dire
che la struttura è dell'ordine della rappresentazione, e la macchina dell'ordine della produzione.

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«Una volta disciolta l'unità strutturale della macchina, una volta deposta l'unità personale e specifica
del vivente, un legame diretto appare tra la macchina e il desiderio, la macchina passa nel cuore del
desiderio, la macchina è desiderante e il desiderio macchinato».
L'essenziale è dunque un certo rapporto tra la macchina e la struttura, tra il molecolare e il molare,
tra la produzione e la rappresentazione: due tecnologie, e due regimi, d'iscrizione differenziale del
desiderio. Iscrivere il desiderio nella struttura significa infatti sostantificarlo, legarlo all'organismo
come pulsione sempre mancante del suo oggetto, correlarlo al soggetto in un certo rapporto
intersoggettivo di domanda rispetto all'altro (l'altro attraverso il cui desiderio il soggetto si
costituisce), mettere in movimento la meccanica infernale della castrazione e l'istanza simbolica
della Legge (l'interdizione dell'incesto): non è altro che questo l'operazione edipica nelle forme
differenzianti del simbolico e in quelle identificatorie dell'immaginario.
Ma sussisteva una difficoltà: una struttura non può costituirsi se non a condizione di disporre di una
«casella vuota», che le permette di funzionare e di far circolare i suoi elementi: il posto del morto
nel bridge, il posto del re nelle Meninas di VeMzquez, lo zero della serie numerica di Frege e di
Peano: in questo posto vuoto Lacan aveva installato il suo oggetto a minuscola, sospendendolo
tuttavia al Fallo o gran Significante, che distribuisce la mancanza nella struttura (avere il pene o
mancarne, maschile e femminile, omosessuale o eterosessuale ecc.) e che le consente appunto di
funzionare in quanto struttura 2; la casella vuota costituiva comunque il luogo di maggiore
instabilità della struttura, quello che nella teoria matematica della morfogenesi R. Thom definisce il
punto di catastrofe. Ora l'operazione teorica dell'Antiedipo è consistita appunto in questo: occupare
la casella vuota, non per installarvi un altro oggetto presente/assente, l'oggetto a minuscola e il gran
Significante, sul piano del simbolico, ma la macchina desiderante, il desiderio nel cuore del reale
stesso (quel «reale impossibile» di cui appunto la struttura non può costitutivamente render conto)
Bastava vedere che la casella vuota è il posto della produzione e del reale: il desiderio allora che
funziona come produzione del reale non ha piú nulla a che fare con la struttura, ma è una macchina
in cui montaggio e funzione coincidono, una macchina molecolare, la microfisica del desiderio.
D'un tratto si misura la distanza tra questo desiderio, per la prima volta ricentrato nella sua positività
sperimentale e macchinica, e le vecchie teorie sul desiderio che hanno attraversato la cultura
occidentale, da Platone a Freud: non piú dunque il desiderio nelle forme privative antiche (il
desiderio come acquisizione), né in quelle cosmico-libidinali lucreziane (la Voluptas come forza
generatrice dell'universo) , né in quelle penitenziali del mondo cristiano (il desiderio è ciò di cui si
può parlare, sotto le specie del corpo peccaminoso e colpevole, nei modi regolamentati della
confessione), né in quelle scenico-teatrali (il desiderio è il «ritorno del rimosso» nello spazio
ambiguo e controllato della scena), né in quelle filosofiche della teoria delle passioni (il desiderio
come appetito), né infine in quelle medico-penali, a partire dal XVIII secolo (nelle varie
codificazioni anatomo-patologiche, neurologiche, biologiche, coi loro correlati giuridici). In un
modo o nell'altro, in tutte queste forme, appare sempre un'iscrizione organica, una correlazione al
soggetto, l'assegnazione di un oggetto mancante in una variante somatica (teoria dell'istinto),
economica (teoria del bisogno), sintomatico-rappresentativa (teoria delle pulsioni). La macchina
desiderante non è nulla di tutto questo: il desiderio non è iscritto in alcun organismo, non è correlato
ad alcun soggetto (il soggetto è prodotto dalla macchina come «pezzo adiacente»), non manca di
nulla, non significa nulla, ma produce e funziona.
Ci si può chiedere a questo punto quale sia stato il beneficio «politico» dei ripiegamenti
rappresentativi del desiderio: la risposta è immediata, se si accetta una delle tesi centrali
dell'Antiedipo, secondo cui il desiderio è sempre rivoluzionario, macchina sempre pronta a
distruggere le rassicuranti molarità predisposte dal potere. L'operazione monotona del potere per
«controllare» il desiderio è sempre stata quindi di iniettarvi la mancanza, la penuria, la rarità,
operazione indispensabile per aver presa sui corpi (il corpo organico, il corpo economico, il corpo
libidinale): dal momento che manchi di qualcosa, non potrai fondare le tue richieste che su questa
mancanza, e qui ti terremo: infaticabile ed inesauribile piège della dipendenza predisposta.

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Cosí per secoli, attraverso le pratiche sceniche, la regola confessionale, la codificazione medica, il
potere ha avuto (facile) presa sul corpo desiderante; sulla mancanza iniettata, e tramite tutta una
strategia complessa, negativa (repressione) e positiva (allargamento costante dei confini del
controllabile e del sorvegliabile), e tutta una strumentazione parallela di teorie filosofiche e di
pratiche mediche, penali, criminalistiche, il potere ha trovato le sue condizioni di funzionamento e il
suo campo d'applicazione.
Contro tutto questo l' Antiedipo: non una nuova teoria dunque, ma lo smontaggio paziente
dell'arsenale edipico di queste applicazioni (coi suoi paralogismi e i suoi effetti), e l'indicazione
dello spazio reale e del funzionamento macchinico del desiderio finalmente liberato dalle sue catene
(ivi comprese quelle lacaniane, se ci si consente il gioco dí parole): terza chiave di lettura, se non
prima indicaziòne di uso.

Come parlarne.

«Promuovere un'altra logica, una logica del desiderio reale, che stabilisca il primato della storia
sulla struttura; un'altra analisi, svincolata dal simbolismo e dall'interpretazione; e un'altro
militantismo, in grado di darsi i mezzi per liberarsi da solo dai fantasmi dell'ordine dominante»':
ecco il programma. Che cosa ne resta, oggi, a tre anni dall'uscita del libro? E come parlarne?
Si affacciano qui due difficoltà, una estrinseca e contingente, l'altra intrinseca e costitutiva. Prima
difficoltà: libro « singolare», libro-flusso, libro-schiza (schize), che attraversa, con il passo leggero
e insolente dell'empietà, i piú diversi territori, che rivendica un'incompetenza necessaria, che non
paga i regolari diritti di dogana, l'Antiedipo non ha potuto che subire ben presto la sorte degli
schizo: del processo si è fatto uno scopo, del viaggio un territorio, un territorio di piú, un altro
assioma per i flussi liberati e decodificati. Bisognava da una parte ad ogni costo ridurne la «
singolarità», e renderla accettabile per i vari conformismi locali, attraverso l'inevitabile parola del
giudice (chi ti ha dato il diritto di parlare? ), del tecnico (perché parli di ciò che non sai? ), del
riparatore (alla peggio, ti faremo funzionare a modo nostro), dell'imboscato (in ogni modo tutto
questo non esiste). Anche l'entusiasmo, dall'altra, non ci è sembrato scevro di una certa irritazione
(ormai, non si potrà piú pensare che a partire da qui). Cosí questo libro, che aveva all'inizio messo il
fuoco alla pianura, è stato ben presto preso nella meccanica dei suoi effetti di rottura e di disturbo:
da una parte una sorta di surriscaldamento che ha inceppato l'ingranaggio, dall'altra l'alacre lavoro
di cucitura. E, insomma, cessato il primo allarme, non ci si è detti che in fondo l'Antiedipo è un
libro illeggibile (dunque inutile o comunque inoffensivo)? Allora la voce notturna poteva levarsi per
dire: « dormite tranquilla, brava gente, non è successo nulla, continuate pure a dormire e a liberare i
vostri desideri nei sogni: questo non fa paura a nessuno; vi hanno raccontato, ancora una volta, delle
storie».
Storie, hanno detto infatti gli psicanalisti, questo desiderio nella produzione, questo reale senza
dualismi, questo mondo senza significante, senza castrazione, senza oggetto, senza legge, senza
mancanza, senza fallo: sappiamo che desiderio è questo di cui ci parlate, è il desiderio perverso; e
poi, l'Antiedipo non è altro che l'ante-Edipo, il Freud del 1895 (quello non «scientifico», come il
Marx del '44): quindi, parola rassicurante, «la macchina desiderante funziona, sfatene certi, per
l'Edipo». Che farem senza l'Edipo?
Quanto agli antropologi, non ci risulta che il primato accordato dall'Antiedipo alla genealogia del
debito sulla struttura dello scambio abbia mutato la rotta degli studi sui sistemi di parentela
primitivi. Dove va a finire, poi, la teoria delle formazioni sociali, con la sequenza canonica dei suoi
stadi, se il dispotismo asiatico diventa una sorta di trascendente kantiano che sovrasta tutte le
società, lo Stato dispotico che fa irruzione nel villaggio primitivo, L'Urstaat che trascina con sé
l'orda delle «bionde bestie da preda, la razza dei conquistatori e dei padroni», la razza dei fondatori
di Stato, la macchina dispotica coestensiva ad ogni formazione sociale? Peggio ancora: come potrà
questo inconscio molecolare svolgere il vecchio ruolo della persona, dell'io e della coscienza? E che

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diventano le classi, se, nel capitalismo, tutta la differenza passa tra mezzi di finanziamento e mezzi
di pagamento? Storie, tutto questo: l'Antiedipo non è che la nuova ideologia del capitalismo
prolifico, abbondante, non più il vecchio capitalismo della penuria, ma il capitalismo
energumeno» — per dirla alla Lyotard — dell'economia libidinale diffusa in tutti i pori della
macchina produttiva. Quanto agli psichiatri, infine, per chiudere questo monotono concerto di
rumori, le loro obiezioni sono state quelle, ovvie, dei «funzionari del consenso», per dirla alla
Basaglia: voi non avete mai visto uno schizofrenico, il rudere autistico (il che a rigore è falso
almeno per Guattari, che ha dietro di sé una lunga pratica di psichiatria istituzionale); il vostro
delirio è gratuito, il vostro desiderio troppo inumano, la vostra critica della famiglia troppo radicale
perché le nostre terapie possano funzionare. Che faremo senza lo schizo?
Tra tutti questi rumori, una parola autentica, quella di uno studente, Pierre Rose, per dire: «È
escluso che il lavoro critico che si avvia con l' Antiedipo diventi un'operazione universitaria, attività
lucrativa dei dervisci dell'Essere e del Tempo. Esso riprende il suo effetto, conquistato contro gli
strumenti del Potere, nel reale; esso aiuterà in tutti gli assalti contro la polizia, la giustizia, l'esercito,
il potere di Stato in fabbrica e fuori» era la parola giusta, quella che indicava, al di là dei rumori, il
solo uso legittimo dell' Antiedipo, ed anche la risposta alla prima difficoltà: questo libro è uno
strumento di lotta, non un pretesto di «traduzione» o un elegante artificio teorico: voleva essere
soprattutto questo, al l'origine, e in questo modo deve essere «preso»: il suo luogo di applicazione è
la pratica di lotta contro tutte le tecnologie del potere (repressivo, punitivo, discipnare,
regolomentare), la sua proposta quella di un nuovo militantismo.
Tutto questo significa dunque che ogni discorso sull'Antiedipo è destinato a passare à còté, a fallire
il bersaglio? S'annuncia qui la seconda difficoltà, costitutiva, minaccios ineliminabile, cui non
potremo, in queste rapide «spiegazioni per l'uso», che alludere insoddisfacentemente. In realtà, se
questo libro è veramente un oggetto, o un luogo, molecolare, fatto di flussi, tagli, intensità, in cui il
senso come avvenimento, singolarità, paradosso simulacro, molteplicità e trasversalità, non appare
piú tanto come effetto di discorso, ma come il discorso stesso, il discorso desiderante nella sua
positività macchinica; se dunque questo libro sembra colmare la distanza tra il disco cave il suo
referente, con i tipi di intelligibilità connessi, iscrivendo direttamente la scrittura sulla superficie
inestesa del corpo senza organi (corto circuito che delimita lo « scandalo» teorico dell' Antiedipo),
se tutto questo è vero, come si potrà parlarne? Farne un referente nuovo, non significa infatti correre
il rischio di perderlo rimeodiabilmente, molarizzando, triangolando, edipizzando da una prospettiva
qualunque una scrittura che si installa d'acchito nella molecolarità, nell'inconscio produttivo e nel
reale? Come evitare l'insidia, insomma, della rappresentazione? Difficoltà temibile: la macchina
desiderante non è un referente come un altro, il corpo senza organi non è uno spazio esteso,
l'intensità non appartiene a nessun ordine di intelligibilità, e il reale sembrava, sino ad oggi,
«impossibile»: un limite, un resto, un déchet della struttura e del simbolico e nient'altro. Si veda
come Lacan si dibatte in questa difficoltà: per parlare del desiderio dall'interno dello struttura, e
senza passare per l'Edipo, deve produrre il concetto altamente problematico di a minuscola, e di qui
introdurre la topologia da una parte, e ricorrere agli «effetti di stile» dall'altra (l'a minuscola è
comunque una grammatica che produce enunciati di un'assoluta rigorosità, in questo senso): ma al
posto del desiderio c'è la casella vuota, il reale sempre impossibile, condizione indispensabile
perché la topologia possa funzionare. Ora qui la distanza è colmata: l' Antiedipo non parla del
desiderio a partire dalla casella vuota, ma installa il desiderio nella casella vuota: non si tratta solo
di «delirare» la struttura, di portarla ad un funzionamento folle, di far circolare il Jolly
vertiginosamente, ma di fare della casella il posto del detonatore che fa esplodere la struttura: dopo
di che non resta piú alcuna casella, alcun gioco, ma solo del reale, della produzione e del desiderio:
la macchina desiderante che produce il reale, pura positività, pura immanenza (anche se rimane un
obbiettivo « tattico» esterno, la critica della psicanalisi edipica e un'iscrizione topologica
paradossale, il corpo senza organi): una grammatica desiderante macchinica che produce una
scrittura-flusso che è un flusso di desiderio, ed enunciati incomprensibili e irriconoscibili per una

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grammatica «immaginaria» (che riduce, traduce, commenta, interpreta) e allucinatori e deliranti per
una grammatica «simbolica»: l'Antiedipo non è una teoria come un'altra, né tanto meno una nuova
teoria del delirio.
È probabile dunque che l'Antiedipo inauguri un nuovo uso della scrittura (non piú correlata alla
voce come supplemento ed esteriorità, come appare alla grammatica testuale di Derrida) e una
nuova pratica della lettura, lettura desiderante, lettura «parziale», senza referente ed esteriorità:
scrivere come si parla, si è detto, e leggere come si desidera: e fare della lettura una macchina, non è
forse risuscitare l'Eliogabalo, il Caligola, lo Schreber in noi? Una nuova tecnologia della scrittura,
una nuova pedagogia della lettura: una parola-scrittura in cui l'enunciazione coincide con il senso,
una lettura in cui non c'è niente da capire, ma solo da far funzionare. Non è questa la pedagogia
vertiginosa che Klossowski attribuisce a Deleuze, insegnare l'inenseignable?
Accumuliamo i punti interrogativi per dire che ogni ricostruzione genealogica, ogni deduzione
filiativa (il '68, le guerre antimperialistiche dell'ultimo decennio, le lotte puntuali nelle scuole, nelle
caserme, negli ospedali psichiatrici, la psicoterapia istituzionale, l'insegnamento di Lacan, i
movimenti di liberazione della donna, degli omosessuali, ecc., tutto questo un po' alla rinfusa) non
bastano a generare l'Antiedipo: al massimo lo accerchiano, lo trascinano nel loro stesso movimento,
ma non ne esauriscono la singolarità e l'eccesso: rimane sempre un margine in quest'« integrazione
» filiativa, uno scarto incolmabile: nella linea genealogica l'Antiedipo ateo, orfano e celibe fa figura
di bastardo.
Per questo, bisognerebbe forse passare dalla filiazione all'alleanza, al debito reciproco tra lo stock
filiativo di Deleuze (i concetti avvenimento, di senso, molteplicità, singolarità, con le figure di
Nietzsche, Spinoza, Artaud sullo sfondo), e lo stock filiativo di Guattari (con í concetti di
trasversalità, macchina, agenti collettivi di enunciazione, e l'ospedale di La Borde come linea
d'orizzonte)': alleanza sanzionata da un incontro (forse ora pensabile nella categoria della «
gemellità » di cui parla M. Tournier nelle sue Meteore) che Deleuze descrive in questi termini:

Bisognerebbe parlare come le ragazzine, al condizionale: ci saremmo incontrati, sarebbe successo


questo... Due anni e mezzo fa, ho incontrato Felix. Aveva l'impressione che io fossi più avanti di
lui, attendéva qualcosa. In realtà io non avevo né le responsabilità di uno psicanalista, né le colpe o i
condizionamenti di uno psicanalizzato. Non avevo alcun luogo, questo mi rendeva leggero, e mi
sembrava curioso quanto fosse miserabile la psicanalisi. Ma lavoravo unicamente nei concetti, e per
di piú timidamente. Felix mi parlò di quel che chiamava le macchine desideranti: tutta una
concezione teorica e pratica dell'inconscio-macchina, dell'inconscio schizofrenico. Allora ho avuto
l'impressione che fosse lui in anticipo su di me. Ma, col suo inconscio-macchina, parlava ancora in
termini di struttura, di significante, di fallo, ecc. Era giocoforza, dato che doveva tanto a Lacan
(come me, del resto). Ma io mi dicevo che sarebbe andata ancor meglio se si fossero trovati concetti
adeguati, invece di servirsi di nozioni che non sono neppure quelle del Lacan creatore, ma quelle
d'un'ortodossia che si è costruita intorno a lui. t Lacan che ha detto: non mi aiutano. Noi lo
avremmo aiutato, schizofrenicamente. E dobbiamo tanto piú a Lacan che abbiamo rinunciato a
nozioni come quelle di struttura, di simbolica e di significante, che sono pessime, e che lui, Lacan,
ha saputo sempre ribaltare per mostrarne il rovescio.

Allora, se questo libro è una macchina molecolare che non significa nulla, ma funziona, non vedo
che un modo per parlarne. Sarà innanzitutto una passeggiata (la promenade dello schizo),
un'escursione in visita alle macchine che ronzano in fondo al giardino; se ne parlerà come Canterei,
l'ingegnere celibe del Locus solus di Raymond Roussel, monta le sue macchine infernali: congegni
di pezzi staccati, di molteplicità parziali, di avvenimenti singolari: pezzi di racconto, artifici di
crudeltà e di estasi, brani di voci, effetti di scrittura, ingranaggi molecolari, la testa di Danton che
ripete la frase della ghigliottina. Visita altamente rischiosa, se le macchine psicotiche di Canterei si
accoppiano con quella paranoica della Colonia penale di Kafka: non solo allora tutti i segreti del

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parco saranno rivelati, ma bisognerà far passare il corpo attraverso gli ingranaggi: «uno spettacolo
che potrebbe spingere a coricarsi sotto l'erpice. Non accade altro, l'uomo comincia soltanto a
decifrare la scrittura, appuntisce le labbra come se volesse ascoltare. Lei ha veduto, non è facile
decifrare la scrittura con gli occhi; ma il nostro la decifra con le sue ferite».

Montaggio.

Si mettano insieme: í pezzi lavorativi (oggetti parziali, il corpo senza organi e il pezzo adiacente, il
soggetto); tre tipi di energie (la libido, il numen e la voluptas); tre modi di sintesi (sintesi connettive
d'oggetti parziali e flussi, disgiuntive di singolarità e catene, congiuntive d'intensità e di divenire) e
si avrà la macchina desiderante: micromacchina molecolare, macchina miniaturizzata che funziona
tagliando i flussi, che connette catene eterogenee e trasversali, che produce del reale: produzione di
produzione nelle sintesi connettive della libido, produzione di registrazione nelle sintesi disgiuntive
del numen, produzione di consumo nelle sintesi congiuntive della voluptas. Strana macchina, strani
ingranaggi: ma basterà aver capito questo: la macchina desiderante produce il reale stesso, funziona
nell'infrastruttura, come le macchine produttive sociali, per quanto con un regime diverso,
connettendo e tagliando i flussi (come stati di divenire, pure intensità), oggetti parziali (tutto ciò che
viene localmente investito dalla libido, senza alcun riferimento ad una totalità sempre mancante),
incrociando trasversalmente catene e segmenti di catene polivoche ed eterogenee. La macchina
desiderante non è altro, allora, che l'inconscio che produce, un inconscio orfano, prepersonale, non-
umano: niente che sia dell'ordine di una soggettività (guarire dal soggetto, anche sbarrato), di una
totalità, di un organismo, di una struttura; niente che rimandi alla Legge, ad un significante esterno,
ad un fantasma individuale: un inconscio senza colpa, senza mancanza, senza credenze.
Di qui un certo numero di «effetti»:

a) si riconosce a Freud il merito di aver individuato l'essenza universale astratta del desiderio (come
Ricardo ha individuato l'essenza universale astratta del lavoro), ma gli si rimprovera di averlo tosto
«territorializzato» nel quadro della famiglia privata, e di averlo «triangolato» nell'Edipo (simbolico
o immaginario); di aver fatto dunque di quel che era una fabbrica, un teatro (il sogno, il lapsus, il
fantasma), ripiegando il desiderio dal piano della produzione al piano della rappresentazione. In
questo senso la psicanalisi non ha inventato l'Edipo, ma ha appoggiato e rinforzato il movimento di
controllo e di repressione del desiderio da parte delle istanze socio-politiche, delle macchine
dispotiche molari;

b)questa «territorializzazione» è resa possibile da tre paralogismi, o usi illegittimi di sintesi,


caratteristici dell'Edipo: il paralogismo dell'estrapolazione, che consiste nell'estrarre dalle catene
dell'inconscio un oggetto trascendente, il Fallo o significante dispotico, che le linearizza e
univocizza, introduce la mancanza nel desiderio e lo salda alla Legge: la castrazione non è forse
altro che questo uso globale delle sintesi, al posto di quello parziale e specifico; il paralogismo del
double bind, o «presa doppia»: al posto degli usi inclusivi e illimitativi delle sintesi connettive, un
uso esclusivo e limitativo: il desiderio viene iscritto o nell'Edipo simbolico ( della legge e della
castrazione), o in quello immaginario delle identificazioni parentali; paralogismo dell'applicazione:
un uso segregativo e biunivoco delle sintesi congiuntive, invece dell'uso nomade e polivoco: tutto il
contenuto storico-mondiale del delirio (delirare i continenti, la storia, le razze) viene allora ripiegato
su papà-mamma, sulla famiglia nucleare, sullo « sporco segretuccio». La famiglia è dunque il
territorio di ripiegamento; l'Edipo l'insieme delle operazioni che fanno passare il desiderio dal piano
della produzione a quello della rappresentazione, dal piano del reale a quello del simbolico e
dell'immaginario. È una vecchia storia anche questa, ma quanto reale: non è tanto la famiglia
borghese ad aver generato l'Edipo, ma è piuttosto, al contrario, un dispositivo complesso, penale,
medico, giuridico, ad aver tagliato il sociale dal privato, ad aver isolato la famiglia dal corpo

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sociale, ad aver innestato il corpo dei genitori sul corpo dei bambini nella crociata
antimasturbazione (famiglia borghese), ad aver separato il corpo dei bambini da quello dei genitori
(campagna anti-incesto nella famiglia proletaria), ad aver medicalizzato e psicologizzato i rapporti
genitori-bambini (teorie della perversione, della degenerazione e dell'anormalità), ad aver infine
codificato tutto questo nei dispositivi raffinati, ontogenetici e filogenetici, dell 'Edipo (interdetto
dell'incesto come accesso alla Legge, meccanica della castrazione come accesso al desiderio): la
famiglia come fabbrica di « corpi docili», i genitori come agenti delegati del controllo e della
repressione. Al posto di tutto questo la schizoanalisi si propone allora « di esplorare un inconscio
trascendentale invece di metafisico; materiale invece di ideologico; schizofrenico invece di edipico;
non figurativo invece di immaginarlo; reale invece di simbolico; macchinico invece di strutturale;
molecolare, microfisico invece di molare o gregario, produttivo invece di espressivo»;

c) a partire dai dispositivi storici d'iscrizione del desiderio viene delineata una teoria generale delle
formazioni sociali: la società primitiva iscrive il desiderio sul corpo pieno della terra, la società
barbarica sul corpo pieno del despota, la società capitalistica sul corpo pieno del capitale-danaro;
prima codificazione dei flussi sul corpo della terra ( scrittura della crudeltà, filiazione e alleanza
matrimoniale), surcodificazione dispotica (la nascita di Edipo, gran Significante dispotico, la nascita
dello Stato, l'emersione della Legge e dell'interdetto) e infine assiomatizzazione capitalistica: i flussi
vengono decodificati in un primo movimento di deterritorializzazione e subito riassiomatízzati nelle
territorialità cliniche dell'Edipo familiaristico; i rapporti differenziali tra mezzi di pagamento e
mezzi di finanziamento vengono linearizzati dal plusvalore; l'antiproduzione diventa costitutiva
della produzione (funzione degli apparati burocratici di assorbimento del plusvalore). Allo stato
surcodificante dispotico succede cosí lo Stato regolatore capitalistico. All'interno della formazione
capitalistica lo schizofrenico appare allora come il limite, il punto-segno dell'estrema
deterritorializzazione, il corpo senza organi come limite interno sempre spostato. Allora, si potrà
aver presa sullo schizo, sullo psicotico, facendo della schizofrenia uno scopo e non un processo,
arrestando la «passeggiata», ripiegando il corpo senza organi sui terreni arcaici della perversione e
della nevrosi, territorialità controllabili e rassicuranti: perversioni territoriali (il perverso di
villaggio), psicosi paranoiche (entità dispotiche), nevrosi edipiche (entità familiari): il corpo senza
organi, superficie inestesa di registrazione, diventa cosí uno spazio molare, entità clinica per le
medicalizzazioni psicotiche ed edipiche.

L'inconscio produttivo e i suoi effetti; la denuncia della privatizzazione familiare e delle


estrapolazioni edipiche; la critica del significante e della struttura come molarità di ripiegamento; la
rimozione come effetto secondario della repressione sociale, attraverso papà-mamma come agenti
induttori qualsiasi; l'indicazione dello schizo come ultima territorialità, corpo senza organi generato
dalla decodificazione capitalistica cui vengono ad applicarsi le assiomatiche cliniche, psichiatriche,
edipiche; la distinzione tra istinto di morte, come applicazione del desiderio molecolare sulle
megamacchine molari e la morte come esperienza e modello nella macchina desiderante, contro
l'assiomatica mortuaria dell'ultimo Freud; la distinzione tra interessi preconsci di classe e desideri
inconsci di gruppo, e la denuncia della loro manipolazione perché il desiderio giunga a desiderare la
propria repressione; l'opposizione politica tra il polo paranoico-fascista dell'investimento libidinale,
a livello delle grandi macchine sociali, e il polo schizofrenico-rivoluzionario, a livello della
macchina desiderante molecolare; la pratica della schizoanalisi, infine, come «programma» e
strategia calcolata di distruzione degli «strati» del corpo senza organi (la superficie dell'organismo,
l'angolo di significazione, il punto di soggettivazione)'; come ricerca del piano di consistenza, uovo
intensivo definito da assi e vettori, gradienti e soglie, spazio inesteso ove il desiderio non è che
laboratorio e sperimentazione (ma attenti alle disarticolazioni «selvagge» degli strati, che portano a
corpi senza organi svuotati, cancerosi e fascisti); come accoppiamento infine della macchina
artistica, scientifica, rivoluzionaria: ecco il montaggio, che non produce nuovi romanzi familiari,

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piccoli edipi colpevoli e rassegnati, ma macchine desideranti senza cui nessuna lotta politica e
nessuna rivoluzione sembrano ormai possibili.

Molare / molecolare.

Ci si potrebbe chiedere, a questo punto: in che rapporto stanno tra loro il molare e il molecolare?
Sono due modi di pensare o due modi di essere del reale? E come passare dalla teoria ristretta, che
scopre il funzionamento dell'inconscio molecolare sul corpo senza organi dello schizo, ad una sorta
di teoria generale del corpo senza organi come « sostrato» universale del desiderio?
Questa è forse la questione piú cruciale posta dall' Antiedipo, che ci limiteremo ancora una volta a
segnalare, ín attesa degli sviluppi successivi e del secondo volume già annunciato: qual è dunque il
tipo di relazioni (esclusività, implicazione, correlazione, generazione reciproca) tra questo inconscio
molecolare (in cui alcuni non vedranno che la vecchia sostanza spinozista, attraversata da intensità
nietzschiane e salvata contro slittamenti metafisici o ricadute empiriche da una sorta di purezza
trascendentale kantiana), e le molarità diffuse che sembrano accerchiarlo da ogni parte?
Apparentemente, infatti, la molarità è ovunque: ovunque grandi insiemi, megamacchine
tecnologiche, organiche, istituzionali, ovunque dello strutturale e del simbolico che ci attraversano
da parte a parte; ovunque le famiglie coi loro edipi, gli Stati con le loro burocrazie, i partiti con i
loro apparati, i gruppi-oggetto con le loro stereotipie, il potere con le sue tecnologie;
apparentemente, il desiderio non produce che sogni, e, quanto al linguaggio, esso sembra generato
piuttosto da una grammatica chomskiana che dalla grammatica generale psicotica; non è vero,
infine, che la microfisica è incapace di spiegare certi effetti morfologici del vivente?
In realtà, se l'inconscio non è altro che il funzionamento macchinico del desiderio che produce il
reale, a livello molecolare, il molare non rappresenta che l'insieme delle operazioni di ripiegamento
e di applicazione sulla rappresentazione e sulla struttura, a livello del simbolico e dell'immaginario.
Molare e molecolare non sarebbero dunque due categorie isotopiche, simmetriche e coestensive,
legate da un rapporto di decisione problematica (l'una o l'altra) o addirittura di indecidibilità (l'una e
l'altra, indifferentemente) in una sorta di double bind simultaneo, ma due categorie irriducibili ed
eterogenee: molecolare è il funzionamento effettivo della macchina desiderante, molare è l'insieme
di dispositivi per ripiegare questo funzionamento sul piano rappresentativo delle strutture:
dispositivi che non operano tanto la rimozione (primaria o secondaria) nell'inconscio, ma che
rimuovono l'inconscio stesso, facendolo passare dal reale produttivo al simbolico rappresentativo o
all'immaginario fantasmatico. Freud aveva segnalato un'operazione di questo tipo nel carattere
negativistico nella ragione, che si costituirebbe nella Verneinung delle pulsioni: in realtà, non si
tratta qui solo di negazione, ma di un insieme complesso di istanze, altamente positive, cui è stata
delegata, almeno a partire dall'apparizione degli Stati, la funzione di ripiegamento del reale stesso e
della macchina desiderante che lo produce.
Si misurerà allora la portata dell' Antiedipo: si erano presi il Significante, il simbolico, la mancanza
come forme costitutive del reale, e correlativamente, come strumenti concettuali per pensarlo; in
realtà non sono che forme indotte, secondarie: il risultato dell'operazione edipica di ripiegamento e
di applicazione; nient'altro che credenze, un altro modo per essere pii, una forma piú raffinata di
religiosità. È come se ci dicessero: non avete mai pensato il reale nella sua produttività molecolare e
macchinica (un reale senza significati e senza interpretazioni) ma avete pensato quel che ne resta
una volta compiuta l'operazione di ricodificazione e di assiomatizzazione molare: la caverna
platonica, nient'altro che del simbolico e dell'immaginario, le nostre millenarie abitudini di pensiero.
La molarità comunque esiste. Si tratta allora di mostrarne il funzionamento e di ritrovare il corpo
senza organi: ecco il programma. Non tanto l'operazione regressiva della psicanalisi, ma la paziente
decostruzione degli strati, alla ricerca del piano di consistenza, del piano di immanenza del
desiderio ': quel corpo senza organi che l' Antiedipo indicava come il limite paradossale del
capitalismo, il corpo psicotico dello schizo, appare allora come il sostrato universale del desiderio

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disinnestato dalla struttura e riposto nel cuore del reale: un luogo ove «questo» funziona, produce,
un microlaboratorio, un dispositivo di sperimentazione, uno spazio in cui voce, gesto, parola e
scrittura si tagliano e si incrociano, ove le molarità saltano in aria, ove è possibile ricominciare a
pensare: un nuovo modo di fare la letteratura, la scienza, la storia, un nuovo stile di militantismo, un
nuovo programma di produzione: non è questa la coestensività della storia e della natura, dell'Homo
natura e dell'Homo historia annunciata dall'Antiedipo?
Certo, installarsi nel microlaboratorio, sotto le macerie della molarità, non sarà facile; e si vedono
ancora male le forme concrete di funzionamento della macchina desiderante generalizzata dallo
schizo a tutto il corpo sociale: si vede ancor male a cosa somiglierebbe una società desiderante, in
cui il desiderio si infiltrasse in tutti i pori della molarità, una società senza organismi, significazione
e soggettività, una società di punti-segno, di intensità e di flussi: vera e propria eterotopia sul
sostrato ovulare del corpo senza organi. Probabilmente questa eterotopia è, per il momento, il nostro
impensabile. Basterà allora aver indicato che l'Antiedipo rompe con un certo secolare progetto di
scientificità, e con lo scientismo dilagante del capitalismo maturo, con le sue normatività, i suoi
sistemi, le sue assiomatiche, le sue credenze, le sue molarità. In una parola: il mondo non deve
essere interpretato, ma prodotto a partire dagli stati intensivi della macchina desiderante, ove
montaggio, funzionamento e prodotto coesistono in una indissociabile simultaneità. Basterà aver
indicato gli effetti di questo nuovo materialismo che non ha piú come esteriorità se non i dispositivi
di ripiegamento nella molarità (istanza critica) e l'ultima, problematica iscrizione sul corpo senza
organi (residualità referenziale: come se, ancora, i flussi di parola e di scrittura non fossero possibili
senza questa istanza e questa residualità). Basterà infine, last but not least, aver indicato gli
obbiettivi immediati di questo libro «dionisiaco», uno dei pochi dopo Nietzsche: farci uscire dalle
credenze, liberarci dalle superstizioni, combattere contro tutto il «nero» degli appestati morali, degli
untori accademici, dei grandi inquisitori ideologici, degli sbirri istituzionali, dei mormoni politici e
dei quaccheri culturali. Programma quasi etico. È come se ci dicessero: vi hanno parlato di un
principio di realtà, con cui devono fare i conti i vostri desideri; è una favola, la favola millenaria dei
cani da guardia, per farvi prendere la (loro) realtà per i vostri desideri; ora, il principio di realtà è
uno solo: prendete i vostri desideri per la realtà, delirate la storia, i continenti e le razze, mettete in
movimento le vostre macchine desideranti inceppate. Nient'altro che questo.

Considerazioni intempestive.

E la psicanalisi, in tutto questo? Sul rapporto tra la psicanalisi e l'Antiedipo occorre secondo noi
dissipare subito almeno due malintesi quasi inevitabili.
Da una parte, e in primo luogo, bisognerebbe evitare di prendere l'Antiedipo come l'ennesimo
tentativo di conciliare Marx e Freud, o, se non di conciliarli, di metterli ancora una volta a
confronto: interminabile, e spesso sterile, impresa di quel che si definisce il freudomarxismo,
monotono lavoro di cucitura o di sgretolamento sul piano molare delle teorie, con gli strumenti
concettuali della mancanza (ha visto questo ma non quello), dell'ideologia (non ha potuto vedere
questo o quello) del misconoscimento e del diniego (ha visto ma ha subito occultato). Ora non si
tratta tanto di mettere a confronto le teorie, ma di riprendere la questione che le genera e le articola
nel reale stesso, e non nei testi; si tratta allora di rimettere il desiderio al suo posto, nel reale e
nell'infrastruttura (quel desiderio di cui Freud aveva scoperto l'essenza universale astratta)
mostrandone il funzionamento macchinico e produttivo (la produzione analizzata da Marx a livello
delle grandi macchine molari). Il desiderio come universalità astratta e il funzionamento delle
grandi macchine sociali preesistono infatti ai testi di Marx e Freud; essi sono il risultato della
decodificazione capitalistica, la questione cosí come il capitalismo, nel suo funzionamento reale,
permetteva di porla: se poi Marx, nella sua macchina teorica, non sembra far posto al desiderio, e se
Freud fa del desiderio, che è una fabbrica, un teatro, è meno questione di ideologia, di
misconoscimento o di diniego che la conseguenza del fatto che il capitalismo ha tutto predisposto

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per tenere dissociati produzione e desiderio, per territorializzare l'uno e molarizzare l'altra, per
impedire comunque che la jonction potesse realizzarsi, proprio perché essa rappresenta il pericolo
mortale per la sua riproduzione. Ora l'Antiedipo è proprio questo: il luogo della jonction, lo
smontaggio dei dispositivi istituzionali e teorici (la famiglia e l'Edipo, soprattutto) che non hanno
cessato di scongiurarla, l'innesto della produzione sul desiderio: c'è solo del desiderio e del sociale,
una volta smontati i meccanismi della privatizzazione familiare e del ripiegamento edipico, una
volta individuati i due tipi opposti di investimento, investimenti di desiderio paranoico-fascisti, a
livello molare, e investimenti schizofrenico-rivoluzionari a livello molecolare.
In secondo luogo, e in questo senso, l'Antiedipo non è un libro contro la psicanalisi, l'ennesimo,
dopo quello di Reich, Marcuse, Fromm e tutti quanti, tentativi laboriosi, in ultima analisi, per
salvare almeno i mobili e ridarle fiato. In questo senso l'Antiedipo è piú vicino al lirismo corrosivo
di un Miller o di un Lawrence, che già negli anni '20 denunciava la profonda ostilità contro la vita,
in Freud, la concezione dell'inconscio come luogo di credenze secondarie e indotte, la
legalizzazione scientista della sessualità cosí come si manifesta dopo la repressione; piú vicino al
Wittgenstein delle Lezioni e conversazioni, quando diceva:

L'analisi è probabilmente dannosa. Benché si possano scoprire nel corso di essa varie cose su se
stessi, occorre esercitare una critica severa, acuta, continua, per riconoscere e guardare attraverso la
mitologia che ci viene offerta o imposta. Qualcosa ci induce a dire, «Sí, certo, dev'essere cosí». Una
mitologia che ha molto potere.

E poi, chi ha paura della psicanalisi? Troppo pochi sono coloro che rischiano di finire nell'ultima,
miserabile territorialità, il divano, per ritrovare il padre simbolico, per farsi fare una castrazione
tutta nuova, per riscoprire i piaceri un po' sordidi del vecchio regime penitenziale, con il flusso di
parole mercantilmente tariffato in piú. C'è qualcosa di profondamente sgradevole, arcaico, malsano
in questa pratica della seduta, tutto un odore di biancheria dubbia che sprigiona la vecchia famiglia
borghese ottocentesca, con i genitori che ispezionano le lenzuola alla ricerca di macchie di sperma,
con le domestiche che masturbano i bambini, con i bambini che fantasmano gli orrori notturni degli
amplessi parentali, con gli zii che seducono, realmente prima, immaginariamente poi, i nipoti; tutto
un brusio fastidioso di sporchi segretucci, di meschini patteggiamenti, di crudeli autoritarismi, di
inconfessabili tartuferie, di indecorose rivalità, di sbrigative liquidazioni nella famiglia estesa della
prima generazione di psicanalisti intorno a Freud; con lo spettro del vecchio Edipo della tragedia
che si aggira intorno, e che ricompare col suo bric-à-brac familiaristico nel teatro dí La-biche o di
Henry Becque. No, tutto questo arcaismo non fa paura a nessuno, e scrivere un libro contro questa
paccottiglia da retrobottega equivarrebbe veramente a combattere una battaglia di retroguardia
(tanto piú inutile in un paese come l'Italia, ove vige una sana e secolare irriverenza per il discorso
del prete e le chincaglierie della sagrestia); contro tutto questo l'Antiedipo si limita a dire: «c'è
odore di vecchio qui dentro; aprite le finestre, fate circolare un po' di aria! »
Il pericolo è altrove; il pericolo è negli effetti sociali della psicanalisi, nel discorso diffuso,
psicologizzato, medicalizzato, che si è venuto formando intorno ad essa e che si è infiltrato,
familiarizzando, castrando, territorializzando, là dove si parla e ovunque si parla ( e non solo del
corpo, del desiderio, dell'affettività): un nuovo, formidabile strumento, per la sfiatata presse du
cceur e i suoi mentori, per le nuove, e sprovvedute, pedagogie sessuali, per le inceppate
ermeneutiche accademiche, pronte a barattare l'esausta meccanica strutturalistica con i piú elaborati
congegni del vecchio freudismo rimesso a nuovo dal significante lacaniano: insomma per tutto
quello che rappresenta, in una società a corto di fiato, una nuova direzione di coscienza. Nelle
istituzioni reali che non funzionano piú (la scuola, la famiglia, la caserma, la prigione, l'ospedale
psichiatrico) si inietta il sapere psicanalitico (per una nuova tecnologia del potere di sorvegliare, di
controllare, di punire: non piú la tecnologia della repressione dei corpi, ma la tecnologia
neoumanitaria, neofilantropica, del controllo delle anime). L'Edipo, ancora una volta, non l'ha

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inventato la psicanalisi; essa lo ha piuttosto generalizzato, facendone il dispositivo sofisticato del
potere medico-legale tardo capitalistico di normalizzare e di correggere, quella peste moderna che
Freud stesso diceva curiosamente di portare negli Stati Uniti. Avete mai sentito parlare un giudice
istruttore, un'assistente sociale, un direttore di prigione, un medico liberale, un curato à la page, per
non citare i direttori di coscienza di certe rubriche specializzate dei giornali o di certe trasmissioni
radiofoniche o televisive dedicate ai problemi della famiglia, della «coppia », dell'educazione, della
sessualità? È l'Edipo moderno che parla attraverso di loro, con tutto l'arsenale di cui è questione in
questo libro: privatizzare sempre, tagliare il familiare dal sociale, psicologizzare tutto quello che è
politico, e poi colpevolizzare, colpevolizzare a piú non posso, iscrivere il desiderio nelle piccole
territorialità rassicuranti del neofamiliarismo. Non è che questo la castrazione, nient'altro che questa
miserabile, quotidiana operazione di ripiegamento del sociale, dello storico, del politico sul
familiare e sul privato. Contro tutto questo, soprattutto contro questo, si è levato finalmente
l'Antiedipo.
Bisognerebbe un giorno mostrare come tutto questo è stato possibile, e tentare una sorta di storia
dell'economia politica del desiderio, come enjeu e terreno insieme della lotta incessante tra il corpo
e il potere; bisognerebbe mostrare come, non solo sul piano delle teorie, ma su quello delle
istituzioni e degli avvenimenti, la psicanalisi si iscriva profondamente in un insieme di pratiche già
elaborate e messe a punto dalla psichiatria ottocentesca. Il desiderio infatti, nella sua forma pura,
astratta ed universale, altri l'avevano scorto prima di Freud, intorno ad alcuni casi di criminalità
senza movente, senza interesse e senza scopo, la criminalità sulfurea dei «mostri» nei primi decenni
dell'Ottocento, che scannano, divorano le vittime e conservano davanti al giudice un'impassibilità
«che fa male». Allora, questo desiderio puro, i magistrati lo ripiegano nella teoria della perversione
delle passioni mentre i medici giocano, sin dall'inizio, con monotona regolarità, la carta della
«razionalizzazione» in una serie di codificazioni rassicuranti, come aggiungono, per l'ordine
sociale: sarà cosí la nozione di instinct carnassier nella frenologia di Gall, la teoria della monomania
omicida (e poi istintiva) in Esquirol, le prime iscrizioni neurologiche nelle teorie sull'automatismo,
fino alla famosa teoria della degenerazione, col suo correlato familiaristico (la famiglia patogena, la
tara ereditaria), criminalistico (l'antropometria di Lombroso), neurologico (l'isteroepilessia),
eugenistico (il buon uso dell'istinto di procreazione, premessa per le posteriori teorie razziali). Lo
specifico della psicanalisi, in questa genealogia, è consistito allora in questo: nell'aver iscritto il
desiderio nella coppia pulsione/rappresentazione territorializzandolo nell'ambito controllabile della
sessualità, nell'aver sottoposto il familiarismo medico-penale ottocentesco alla giurisdizione
dell'istanza simbolico/immaginaria dell'Edipo, con la sua meccanica della castrazione, della legge,
della mancanza, nell'avergli soprattutto fornito come veicolo espressivo e condizione di
intelligibilità il linguaggio: l'inconscio è « strutturato come un linguaggio » e quindi parla, parla. Il
desiderio allora, riprendendo il vecchio filo della pratica confessionale, può rimettersi a parlare: non
piú la parola correlata al peccato, ma alla rimozione; parola non piú del corpo peccaminoso, ma del
desiderio rimosso, che non chiede remissione, ma interpretazione: la presenza dell'altro, grande o
piccolo, è ineliminabile.
Ma allora si potrà dire: non è forse l'Antiedipo l'ultimo, e piú elaborato tentativo per rendere
intelligibile il desiderio, per mostrare là ove effettivamente funziona nell'accoppiamento macchina
molecolare desiderante e macchina sociale produttiva, a livello di un reale finalmente reso
«possibile». Per di piú, anche questo desiderio macchinico e produttivo preesisteva all'Antiedipo:
era il desiderio che nel '68 inventava nuove scritture, nuove forme di lotta, nuovi usi della parola, un
desiderio che sembrava aver reso i teatri delle fabbriche, le scuole dei laboratori, le lotte politiche
una sperimentazione continua. Era il momento in cui veramente la macchina letteraria, la macchina
desiderante e la macchina militante sembravano accoppiate le une alle altre, per produrre miracoli.
L'Antiedipo non si è levato, ancora una volta, a cose fatte, nel silenzio desolato dell'indomani della
festa, nel paesaggio sconvolto delle rivoluzioni tradite, per erigere un monumento teorico
all'avvenimento, meta di nuove devozioni e di più raffinati culti? Tra il '68 passato e quello futuro,

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che tipo di ponte gettano libri come questo? Non è forse fornire nuove armi ai potere, ora che la
«permissività» sembra aver sostituito la repressività e la coercizione? Mostrare come e dove
funziona il desiderio non significa permettere al potere di spostare ancora piú in là, sempre piú
lontano, sempre piú in fondo, le frontiere delle sue applicazioni? Questo potere sembra infatti non
aver piú presa sul corpo libidinale, sembra non poter piú applicarsi ai corpi attraverso la vecchia
«sessualità». Il corpo libidinale pare aver ripreso i suoi diritti; si insegna la sessualità nelle scuole
(cosa succede quanto il godimento, il piacere, il desiderio stesso diventano un sapere, un sapere
insegnabile? ) e, con un minimo di precauzioni, si può essere perversi, omosessuali, zoofili,
sadomasochisti e tutto il resto. Se la permissività significa questo: cedere sul terreno in cui la
battaglia è perduta (il vecchio controllo punitivo degli organismi intermedi, il controllo istituzionale
nella famiglia, nella scuola, negli ospedali, ecc.) e individuare un nuovo terreno, non piú il desueto
corpo delle pulsioni né l'anima arcaica dei terrori, ma appunto questo oggetto nuovo, folgorante, il
desiderio che investe tutto il campo sociale, il desiderio come macchina per produrre il reale, allora
l'Antiedipo non rischia di fornire un nuovo bersaglio al potere disciplinare della « società
permissiva» col suo ordigno infernale: l'apparato poliziesco piú il discorso psicanalitico, la forma
moderna del terrore?
Il pericolo sussiste di certo, ma il rischio andava corso. Tutto quello che potranno fare, sarà ancora
una volta di impedire con tutti i mezzi e ad ogni costo il collegamento tra produzione e desiderio,
generatore di effetti incontrollabili e intollerabili per ogni potere. I dispositivi della «permissività»
non sono stati installati che a questo fine. Se ora cominciamo a conoscerli, questi dispositivi, a
riconoscerli negli effetti coniugati delle due funzioni del controllo «permissivo», il poliziotto dove
non arriva lo psicanalista e viceversa (quando non procedono dí concerto) non rimane dunque che
un compito, altamente positivo: montare le macchine contro ogni scrupolo, mettersi a farle
funzionare contro ogni divieto, stabilire il collegamento sul corpo senza organi, e vigilare contro la
peste nera che lo asserraglia e lo minaccia da ogni parte.

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