Edizione di riferimento: in Storia dell’arte italiana, II. Dal Medioevo al Nove- cento, 5. Dal Medioevo al Quattrocento, a cura di Fe- derico Zeri, Einaudi, Torino 1983
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È ben noto che, nella terminologia comunemente adottata dalla scienza storica, Rinascimento è il solo vocabolo (tra quanti indicano uno dei periodi in cui si è convenuto frazionare lo svolgimento diacronico del passato) la cui invenzione risalga, piú o meno diretta- mente, all’epoca che esso indica. Furono infatti gli Umanisti e i letterati italiani del Quattrocento a parla- re di rinascita, cioè di resurrezione di norme e di modi culturali del mondo antico, greco e romano; furono essi a percepire una decisa frattura tra la propria concezio- ne del mondo (e i valori culturali ad essa impliciti) e quella di un lungo periodo precedente, seguito alle inva- sioni barbariche e alla fine del mondo antico, fine che si voleva individuare in una vera e propria cesura, netta e precisa, piuttosto che in una assai complessa trasfor- mazione delle realtà economiche e sociali, delle infra- strutture religiose, e, in definitiva, di quell’insieme di forma mentale e di infinite manifestazioni ad essa lega- te cui si attribuisce il nome di civiltà. La pretesa fine del mondo antico fu, in verità, una lunghissima e assai molteplice evoluzione, che si realizzò secondo modi e aspetti assai variegati, a seconda delle vicende oggetti- ve cui andarono incontro i frammenti di quella grande unità creata attorno al Mediterraneo e nell’Europa occi- dentale dallo Stato Romano; al punto che in talune aree dell’Impero di Oriente (e soprattutto in quelle piú
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prossime alla sua capitale Costantinopoli e in Grecia,
rimaste esenti dalla secessione islamica) dopo la profon- da crisi del vii e viii secolo, la tradizione del mondo antico, pur sotto connotati greci e cristiani, e sebbene con una innegabile sclerotizzazione, riprese a vivere secondo modi non troppo dissimili da quelli dell’Impe- ro che, ancora integro, era stato trasformato da Costan- tino e dai suoi successori, imprimendogli caratteri di Stato non piú autoritario, come il principato da Augu- sto in poi, bensí totalitario, centralizzato e esente da qualsiasi condizione o restrizione. Ad ogni modo, nono- stante le sue imperfezioni, il termine di Rinascimento è passato alla storiografia definitivamente, grazie agli evi- denti pregi e meriti che esso presenta ai fini della ricer- ca empirica; anche se, come tutti i battesimi adottati per convenzione, esso presenta il rischio di semplifica- re la realtà che è sempre composta di innumerevoli aspetti, persino contrastanti, e che spesso non riescono ad inserirsi entro il profilo del vocabolo storiografico. Il pericolo di trasformare quest’ultimo in un’entità provvista di vita soggettiva contrapponendogli, a mo’ di reazione, tutto quel che, sul piano sincronico, avven- ne e fu, ma che non rientra nei nostri schemi mentali, è un pericolo sempre in agguato; esso va combattuto tenendo ben presenti le innumerevoli parcellizzazioni territoriali, le infinite tradizioni di cultura, le varietà di esperienze religiose, le diversità di situazioni economi- che, gli apporti degli insediamenti barbarici, i contra- sti tra situazioni politiche, gli avanzi figurativi del pas- sato, da cui era caratterizzata l’Europa occidentale quando, trascorso il primo millennio, la piattaforma portante dell’economia si era spostata dalla campagna alla città. Si può infatti affermare che il Rinascimento è il portato della resurrezione dell’economia urbana, che riprese, secondo modi e tempi molto diversi nelle sin- gole aree, emergendo in nuclei distinti dalle mille scheg-
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ge di autosufficienti microrganismi agricoli in cui si era
spezzato il blocco monolitico del Tardo Impero. A una concezione semplicistica e rigida di una realtà cosí varia e articolata va fatta risalire l’abusiva, inaccet- tabile contrapposizione tra Rinascimento e Anti-Rinasci- mento; ma, evitata questa secca, si presenta lo scoglio piú grave, come è quello dei limiti cronologici entro cui fis- sare il periodo rinascimentale e, all’interno di essi, il luogo e il significato da attribuire all’aggettivo rinasci- mentale riferito ai fatti artistici. Grazie all’acume di Erwin Panofsky, che ne ha chiarito posizione e signifi- cato, l’argomento non include piú le varie Rinascenze, effimere e senza seguito, che si susseguirono a partire da Carlo Magno, piú per deliberato disegno politico-propa- gandistico che per spontanea vivacità di urgenza cultu- rale; esse mancarono della continuità di svolgimento e dell’articolazione che caratterizza invece l’autentico Rinascimento, il cui avvio, strettamente legato all’attività degli Umanisti, può venir fissato nella prima metà del secolo xiv, se non persino all’epoca (per ciò che concer- ne l’Italia) di Federico II, cioè ancor prima del 1250. Ma non interessa qui discutere su questioni di data; impor- ta invece chiarire l’impossibilità di far coincidere la perio- dizzazione storiografica con la terminologia storico-arti- stica, a meno di non voler collocare sul medesimo piano fatti figurativi della piú diversa estrazione. Se con Rina- scimento si intende la ripresa della tematica dell’antichità classica (ciò che in arte vuol dire, tutto sommato, un inte- resse volto alla rappresentazione della realtà fisica piut- tosto che di quella metafisica) ne consegue che, sotto la generica etichetta, fatti cosí eterogenei, come Jan van Eyck e Pol de Limbourg, Andrea Bonaiuti e Antonello da Messina, Ambrogio Lorenzetti e Nuño Gonzalvez (per non citare che pochi esempi di una varietà formale senza confini) dovrebbero, se si accetta la coincidenza della convenzione storiografica con il fatto artistico,
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venir posti sotto l’insegna di un unico e comune deno-
minatore. È quindi indispensabile stabilire se esista uno stile rinascimentale, e, nel caso, quali siano i suoi carat- teri e i limiti della sua parabola storica. A tale quesito si può rispondere positivamente; senza allargare i termini della questione all’intera Europa (il che comporterebbe non poche difficoltà e complicazioni) è lecito affermare che, in Italia, uno stile rinascimentale, univoco e ine- quivocabile, nacque a Firenze nel primo quarto del seco- lo xv. Esso nacque quando le ricerche spaziali (cioè di rappresentazione tridimensionale) già presenti in Giotto e nei suoi seguaci (specie Taddeo Gaddi e Maso di Banco) passarono dalla sperimentazione intuitiva e per- sonale alla sistematizzazione scientifica, grazie a Filippo Brunelleschi. Corollario essenziale di tale ricerca dello spazio figurativo è lo studio del corpo umano nella sua struttura interna, dell’espressione dei sentimenti e dei moti psicologici in quanto riflessi di un autentico stato d’animo e non di norme dettate da mode o da abitudini di comportamento sociale. Altro corollario di tale situa- zione mentale è l’assenza di ornamenti pletorici, di cal- ligrafismi, di cifre esornative; l’ornato, quando esiste, è in sottordine e limitato all’essenziale. È ovvio che uno stile caratterizzato da connotati siffatti non coincide con il Rinascimento inteso come periodo storico; al contra- rio, esso fu assai limitato, svolgendosi tra le continue riprese di modi e di stilemi formali ad esso opposti, e che spesso ne deviarono l’essenza e l’intimo significato. Al fine di accertare quali siano stati gli aspetti piú palesi di tale stile, è bene esemplificarlo con una scelta di imma- gini, anche per stabilire i termini di confronto con quel- le che furono le molte e varie manifestazioni visive non di un Anti-Rinascimento, ma piuttosto di uno Pseudo- Rinascimento, o di un Rinascimento umbràtile se si vuole accettare il termine, d’altronde molto felice, coniato da Roberto Longhi.
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Un dettaglio della testa di Cristo dalla Incoronazione
della Vergine di Gentile da Fabriano posto accanto a un particolare dei Santi Gerolamo e Giovanni Battista di Masaccio, e di una testa dei Santi Quattro Coronati di Nanni di Banco, mette a fuoco due diversi modi di apprendere (e di descrivere) la realtà oggettiva, due diversi sistemi mentali, da cui derivano due ben distin- te civiltà non soltanto figurative, nonostante le date di nascita delle rispettive tre opere, che non oltrepassano un quindicennio tutte insieme. Il marmo di Nanni di Banco risale infatti al 1413 circa, la tavola di Gentile è con ogni probabilità nata verso il 1420, mentre la tem- pera di Masaccio è parte del polittico da lui eseguito assieme a Masolino e ad altri per la Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma nel 1428. In Gentile, la strut- tura della testa è suggerita solo in un secondo tempo da una descrizione della superficie, in cui tutti gli elemen- ti (minutamente osservati) sono situati su un medesimo piano analitico, senza alcun rapporto gerarchico che li subordini l’uno all’altro. È ben vero che, nella defini- zione plastica, interviene il chiaroscuro, ma questo è rile- vato da una vaga luminosità piú che da una luce scatu- rita da una precisa fonte; cosí come l’espressione psico- logica del Redentore risponde a generica e benevolente cortesia di modi sociali, sollecitata cioè piú da rapporti esterni che non da un intimo riflesso della subordina- zione del corpo alla mente, del riflesso cioè di una legge autenticamente morale. La riproduzione, poi, impedisce di chiarire l’aspetto tecnico di tale diversità. Quel che in Gentile è il portato di una assai complicata e consu- mata padronanza di mestiere (nella stesura del colore a punta di pennello, negli elaborati percorsi dei punzoni, e soprattutto nell’uso di velature e di lacche distese in trasparenza sull’oro) ha a riscontro, in Masaccio, un uso dei mezzi tecnici altrettanto sapiente, ma volto unica- mente a definire la forma plastica, descritta con medi-
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tata economia, sí da ridursi soltanto all’essenziale. A ciò
contribuisce anche l’oro del fondo, che (adottato per vetusta consuetudine tradizionale) accentua lo spicco della massa corporea, su cui la luce, modulata a partire da un’unica e ben definita fonte, declina col chiaroscu- ro la superficie esterna di una struttura di cui l’impal- catura interna è nota al pittore nei suoi nessi e nei suoi riflessi. A quel tanto di estroverso che denota l’espres- sione psicologica della figura di Gentile corrisponde in Masaccio un ripiegarsi introverso, dettato dalla forza di una norma morale chiusa in se stessa con accentuazioni di ascetismo solenne, quasi incomunicabile, e che in altri comprimari del Rinascimento stilistico (si veda Donatello o Nanni di Banco) tocca spesso apici di rare- fatta sublimità, quasi eroica. Nude e senza ornato, que- ste figure (che ignorano finzioni, vezzi o cadenze di mode transitorie) sono provviste di un peso corporeo, per cui poggiano a terra in modo stabile e ben piantato; e allorché le esigenze tematiche del racconto impongo- no architetture di fondo o di contorno, queste vengono descritte secondo una rigorosa scelta, limitata all’essen- ziale: negli affreschi della Cappella Brancacci al Carmi- ne di Firenze, Masaccio è il primo e piú antico scopri- tore del paesaggio urbano, anche nei suoi aspetti piú squallidi e deprimenti. Che nel campo pittorico e scultoreo questo Rinasci- mento in prima persona si riallacci allo studio del mondo classico (sugli avanzi che di esso restavano ben piú numerosi che al giorno d’oggi) è un fatto talvolta certo, altrove (come in Masaccio) molto probabile. Ad ogni modo, da una delle principali regole del racconto (lette- rario o figurativo) del mondo antico proviene il princi- pio della conclusione, per cui debbono esistere, nel descrivere un evento, un inizio, uno svolgimento e una chiusura. Quanto alla figura umana, costruita a partire dall’interno, lo studio delle strutture ossee e dell’anato-
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mia è il portato di un nuovo sguardo rivolto ai numero-
sissimi reperti marmorei (diffusi un po’ ovunque nell’I- talia del primo Quattrocento) di epoca romana impe- riale; un nuovo sguardo, perché citazioni di marmi anti- chi sono presenti anche in molti artisti del primo Tre- cento, ma senza che tali conoscenze sollecitino in essi la definizione di norme scientifiche, di validità universa- le, una prassi di matematico rigore. Ancora, la profon- da moralità quasi sfiorante l’abnegazione di se stessi nell’impegno rinnovatore, va fatta risalire alla lettura (o rilettura) di testi stoici o dei divulgatori dello Stoicismo a Roma e a quella dei Vangeli (effettuata direttamente e senza l’apparato esegetico postcostantiniano). Come appare evidente, con il Rinascimento stilistico sorge un moto di razionalizzazione di spunti e di temi che già erano presenti sin da un secolo addietro, dai tempi cioè in cui si suol porre l’inizio del Rinascimento inteso come periodizzazione storica. Ciò è assai palese in quello che è l’asse portante del Rinascimento vero e proprio, la ricerca della prospettiva tridimensionale e lo stabilirsi di norme scientifiche relative all’ottica (come la prospetti- va era denominata nel periodo in questione). Sotto lo sti- molo di pitture parietali e di intarsi marmorei di età romana (fondamentali in proposito gli opus sectile della Basilica di Giunio Basso, trasformata nella Chiesa di Sant’Andrea Catabarbara, sull’Esquilino a Roma) ricer- che prospettiche, volte a definire la terza dimensione in pittura si erano risvegliate sin dal secolo xiii negli arti- sti romani (soprattutto nella definizione di cornici, archetti pensili, e altri elementi decorativi). Ma è soprat- tutto in Giotto e nei suoi primi allievi (Taddeo Gaddi, Maso di Banco, Puccio Capanna) che tale impegno tocca risultati persino sorprendenti per la loro precocità. In Giotto, la definizione tridimensionale rasenta, in talu- ni passi della sua produzione, la normativa scientifica: basti citare i due Vani con gabbie affrescati sulla pare-
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te dell’arcone nella Cappella degli Scrovegni a Padova.
Ma è ancora a Padova che Giotto esprime un singolare fenomeno che accomuna i suoi risultati con quelli che si notano in certa pittura muraria del i secolo, a Pompei e a Ercolano e in altre città sepolte dal Vesuvio, soprat- tutto nelle decorazioni del cosiddetto quarto stile. Ivi, esaminando i tracciati prospettici con l’aiuto di precisi grafici, la trama del digradare in profondità appare sostenuta da precise norme scientifiche, che parrebbe- ro implicare la conoscenza del punto focale, ma soltan- to nelle parti superiori delle figurazioni, che, per il resto, appaiono affidate ad un andamento approssimativo, lasciato all’intuizione e ad un generico effetto d’insieme. Un fenomeno molto simile si riscontra nei fondi architettonici di alcune scene della Cappella degli Scro- vegni; nella seconda metà del Trecento è nell’Italia set- tentrionale (e soprattutto a Padova e Verona, con Alti- chiero e con i suoi seguaci) che gli edifici di sfondo paio- no, nelle parti superiori, avvicinarsi molto spesso a rego- le prospettiche esatte e assai elaborate. In Toscana, prima del 1348, i seguaci di Giotto a Firenze e a Siena denunciano costantemente l’impegno di rendere la terza dimensione su una superficie bidimensionale: in Taddeo Gaddi, in Maso di Banco, in Pietro e Ambrogio Loren- zetti la ricerca in questo senso, affidata a mezzi speri- mentali, indica una rosa di tentativi molto varia, come, ad esempio, lo scalarsi dei fuochi secondo un asse ver- ticale, la prospettiva cioè «a spina di pesce» che si legge in Ambrogio. Ma anche altrove, nell’Italia centrale della prima metà del secolo xiv (ad esempio nelle Marche) si incontrano esempi di un vero e proprio illusionismo spa- ziale, qualche volta realizzato non già nelle scene affre- scate, bensí nelle inquadrature architettoniche da cui sono serrati, sulle pareti laterali, i riquadri agiografici, e nei quali c’è l’impegno di adeguare mensole e corni- cioni dipinti all’occhio dell’osservatore, modulando
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inclinazioni e persino l’incidenza della luce. È certo tut-
tavia che i principî scientifici della prospettiva spaziale in pittura furono individuati da Filippo Brunelleschi, nei suoi rari, e purtroppo a noi ignoti, dipinti, descritti dalle fonti. La scienza prospettica ragionata e basata su norme universali, che è il fondamento dello stile rinasci- mentale autentico, nasce dunque dalla razionalizzazione e dalla codificazione di spunti e di tendenze che circo- lavano già, in Italia, sin dai primi tempi del Rinasci- mento inteso come periodo storico e culturale. E a un analogo punto di arrivo pervennero, nello stesso giro di anni, le ricerche anatomiche (che sostengono le scultu- re in bronzo e in marmo di Dona tello) del mondo zoo- logico e di quello botanico, tutte intese nella struttura interna della realtà oggettiva. È ancora Filippo Brunelleschi come architetto a rea- lizzare, con eccezionale intelligenza, tutta una serie di soluzioni di «spazio razionalizzato», lucidamente arti- colato negli elementi che lo definiscono, e nel quale la luce (che entra nell’interno degli edifici in quantità accu- ratamente calcolata) partecipa alla chiarezza e all’evi- denza con cui il fruitore percepisce, a colpo d’occhio, la norma mentale che ha regolato la nascita della costru- zione. È indubbio che il Brunelleschi fu fortemente sti- molato dallo studio delle architetture di Roma antica; ma (a parte che le sue realizzazioni non sono mai fred- di tentativi di imitazione o romantici poemi sul tema di un’età aurea sognata e irripetibile) c’è il fatto che la ricerca delle fonti cui egli guardò è reso molto arduo, se non senza esito, dalla scomparsa (avvenuta dal Quat- trocento a oggi) di moltissime costruzioni di età impe- riale romana (specie mausolei lungo le vie consolari attor- no all’Urbe) e dalla quasi totale distruzione dei rivesti- menti in stucco e marmo di cui (all’epoca in cui Brunel- leschi li vide) erano ancora rivestiti molti avanzi oggi erosi sino alla ossatura di mattoni. Ciò non impedisce di
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individuare l’essenza prima delle architetture brunelle-
schiane nella logica concatenazione delle varie parti l’una con l’altra, tutte legate tra di loro con tale coerenza di raziocinio che, ad eliminarne una sola (o anche una sola parte) l’insieme ne viene irrimediabilmente sconvolto e annientato. A voler delineare quale sia stato il seguito di una cosí ferrea razionalità, di questo archetipo del vero Rinascimento architettonico, ci si urta con le gravi difficoltà implicite nel divario tra progetto ed esecuzio- ne, quest’ultima spesso dilazionata (per la lentezza dei lavori o per questioni finanziarie) e affidata ad architetti piú giovani, sottoposta cioè a mutamenti e revisioni. Questo è, ad esempio, l’ostacolo che impedisce l’ade- guata conoscenza di un altro «padre fondatore» del Rinascimento architettonico, Leon Battista Alberti, troppo spesso autore di edifici realizzati da altri, o alme- no senza che il suo personale intervento abbia impedito di stemperare le sue idee con quelle di altra e ben diver- sa origine. Il caso piú noto (e anche piú macroscopico) di una tale situazione è quello relativo al Tempio Mala- testiano di Rimini, dove Sigismondo Pandolfo Malate- sta volle ristrutturare, in modi «moderni» la preesi- stente Chiesa di San Francesco, trasformandola in un monumento a se stesso, a Isotta degli Atti, e, accompa- gnato da complicate fioriture astrologico-simboliche, in una sorta di mausoleo commemorativo della dinastia signorile di cui Sigismondo si trovava ad essere il rap- presentante. Un po’ per l’intervento architettonico di Matteo de’ Pasti, e anche per la decorazione plastica affidata ad Agostino di Duccio, l’edificio rinnovato risul- ta uno dei monumenti piú ricchi e piú significativi di quello Pseudo-Rinascimento che la storiografia, confon- dendo fatti di stile con la terminologia storica, continua a considerare quale capolavoro rinascimentale. Ma por- tando l’attenzione sui rari disegni architettonici del Quattrocento, si incontrano esempi di una analoga posi-
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zione culturale e mentale allo stato puro, senza inter-
venti di seconde persone e senza possibilità di effettua- re una lettura deviante. Il Trattato di Architettura di Antonio Averulino, detto il Filarete, ne è un esempio molto significativo; i vari disegni che accompagnano il testo costituiscono una raccolta, praticamente inesauri- bile, di progetti ideati da una mente radicata nella cul- tura del sentimento (che nel caso specifico è quella di varietà aulica, cortese, fiorita) rivestita di panni rina- scimentali, cioè di elementi di superficie desunti dal Brunelleschi, dall’Alberti e dallo studio, del tutto epi- dermico, dell’antichità classica. Si tratta, nel Filarete, di strutture nelle quali (come in tutti i prodotti di una posizione irrazionale e solo in apparenza logica) non esi- ste una ragione intima. Nella Torre centrale della favo- leggiata città ideale, il numero dei piani potrebbe esse- re aumentato o diminuito senza con ciò mutare qualco- sa dell’insieme. Altrove il Filarete mostra di aver visto, ma non compreso, le architetture dell’antica Roma. L’Entrata di una rocca signorile segue una struttura che, nel cilindro centrale sovrapposto ad un parallelepipedo di base, rammenta, sia pur in modo vago e sfocato, il Mausoleo di Adriano. Ma questo diviene solo un punto di partenza per lo snodarsi verticale di un’ibrida e irra- zionale sovrastruttura, composta di elementi quanto mai disparati. La torre merlata che poggia sul tamburo cir- colare deriva dall’essere il Mausoleo trasformato in rocca fortificata, l’odierno Castel Sant’Angelo, e in tale aspet- to studiato dal Filarete. Ma i connotati classicheggianti della parte inferiore (che si esauriscono nell’apposizione del tutto casuale di una serie di statue equestri agli ango- li) contrastano singolarmente con il vertice della bizzar- ra costruzione, simile al gotico campanile della Chiesa di corte di Milano, San Gottardo. In questi disegni è del tutto assente una precisa logi- ca interna; ed è questo uno dei caratteri fondamentali
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dello Pseudo-Rinascimento, che risponde a moti senti-
mentali anziché razionali, all’impulso di divagazioni del genere oggi definito letterario, anziché funzionale, allo svolgersi (interrotto ad libitum) di un qualche spunto tratto da modelli razionali (è il caso delle connotazioni archeologiche di cui è gremito il Filarete) che viene poi travisato e applicato senza un preciso obiettivo. Lo stes- so Filarete, nelle porte bronzee della Basilica di San Pietro in Vaticano, precisa altri momenti della medesi- ma posizione mentale. Nella Crocifissione di san Pietro (realizzata in perfetta coerenza con le altre scene e per- sino con i fregi che spartiscono e racchiudono i due bat- tenti) la Roma antica è presente grazie ad un accurato studio di architetture, sculture, abiti, uniformi. Come annotatore di monete, altirilievi, ornati vegetali, sarco- fagi, il Filarete merita una menzione speciale (non distante da quella che, un secolo piú tardi, spetta a Pirro Ligorio); ma nella resa oggettiva di tale erudito patri- monio, egli manca di ogni potere sintetico, col risultato che tutti i dati sono collocati l’uno accanto all’altro, privi di una qualificazione di precedenza. È in altre parole, il medesimo criterio di accumulazione indiscri- minata, di esibizione di cimeli e rarità che è la norma delle Wunderkammer, sparse allora un po’ ovunque in Europa, e ben diverse, nella loro impostazione, dai rigo- rosi criteri selettivi che, di lí a poco, saranno alla base (ad esempio) delle collezioni di Lorenzo de’ Medici. A Firenze, una tendenza del genere doveva (almeno nei circoli piú colti) apparire desueta e volgare, anche se non mancano esempi, specie nelle oreficerie, della perma- nenza di una siffatta tradizione, legata alla cultura auli- ca trecentesca. Ma la magnetica personalità di Donatel- lo, gli esperimenti del Brunelleschi, l’impulso a definire le forme secondo una nuova razionalità, si fanno senti- re anche in persone di primo piano, legate tuttavia, per educazione o per disposizione mentale, alla grammatica
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figurativa prerinascimentale. Una soluzione di compro-
messo appare cosí in Lorenzo Ghiberti (una figura di enorme peso nella formazione di un gran numero di scultori e di pittori fiorentini delle successive genera- zioni). In lui c’è palese la tendenza a definire lo spazio secondo precise norme scientifiche, a costruire il corpo umano seguendo (specie nelle teste e nelle figure a mezzo busto) gli universali insegnamenti dell’anatomia. Ma sono sempre impulsi che non pervengono ad annul- lare una preferenza innata, costituzionale, verso solu- zioni affidate alla cadenza, al ritmo, ottenute con la festonatura dei panneggi: tipici, in questo senso, sono i due rilievi in bronzo eseguiti dal Ghiberti tra il 1420 (pare) e il 1427 per il Battistero di Siena. In essi, l’ele- mento portante rimane la linea di contorno, il dato cioè disegnativo che ben presto avrebbe costituito, proprio a Firenze, l’avvio per una lunga tradizione di pittori e di scultori, e dal quale la sintesi plastico-prospettica di Donatello, del Brunelleschi e di Masaccio venne stem- perata e quasi annullata. Assai spesso, artisti originari di Firenze (o ivi educati) diffusero in altri centri dell’Ita- lia i segni di tale soluzione affidata al disegno, al con- torno e al ritmo: per non citare che un caso, il delicato Agostino di Duccio (la cui formazione rimane oscura e assai problematica) fu operoso a Perugia e a Rimini, contribuendo a realizzare alcuni degli esempi piú com- piuti e variegati dello Pseudo-Rinascimento. Ed è da osservare che nemmeno la conoscenza diretta di testi davvero rinascimentali stilisticamente pervenne a tra- sformare o a deviare artisti del genere. Agostino di Duc- cio vide certamente le opere di Piero della Francesca, come le vide un artista di formazione fiorentina, alla Filippo Lippi, quale il Maestro delle Tavole Barberini (non importa qui se lo si debba identificare con Gio- vanni Angelo di Antonio o, meno probabilmente, con fra Carnevale), che anche lui vide Piero, anzi, lo citò,
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ma senza alcun risultato per la sua formula di stile. In
un’opera della sua maturità, come la Tavola Barberini oggi a Boston, il levriere in primo piano è tolto di peso dall’affresco di Piero nel Tempio Malatestiano con Sigi- smondo Pandolfo Malatesta davanti a san Sigismondo. Ma si tratta di una semplice citazione estemporanea, di repertorio figurativo, che non modifica di un’unghia la formula cui è affidata la figurazione: formula disegnati- va, quasi romantica nella deformazione allungata dei corpi dei mendicanti, e nella quale il dato prospettico gioca un ruolo accessorio, quasi distaccato. Basterà acco- stare un dipinto del genere con il Festino di Erode di Donatello per misurare l’abisso non soltanto formale, sí anche morale, che separa questi due incomunicabili mondi figurativi. La base culturale del Maestro delle Tavole Barberini è, in essenza, derivata da Filippo Lippi; fu in effetti que- sto pittore ad aprire quella dicotomia da cui è segnata l’arte fiorentina del secolo xv. In una delle sue opere gio- vanili, come è la Conferma dell’Ordine Carmelitano, del 1432, nel Carmine di Firenze, egli si pone al diretto seguito di Masaccio, nel riprenderne la forza di defini- zione plastica, grazie ad un ben calcolato chiaroscuro (e anche se con una certa forzatura di resa psicologica e di definizione spaziale). Ma ben presto, il Lippi costruisce le sue immagini sul disegno di contorno, pur restando a mezza via tra impegno plastico e cadenza ritmica. Su questa via, il passo finale spetta al piú famoso allievo del Lippi, Alessandro Filipepi detto il Botticelli, uno dei sommi disegnatori di tutti i tempi, e nel quale la linea di contorno intrecciata al ritmo gioca un ruolo decisivo. Tale passo avviene in concomitanza con i soggetti dei dipinti: il Botticelli, infatti, è il fedele esecutore di temi allegorici, letterari, a volte oscuri (come il suo capola- voro, la Primavera) cari alla élite fiorentina dei Medici, e alla sua propensione per la filosofia neoplatonica, per
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l’allegoria, per la ripresa di motivi neopagani, tutti aspet-
ti che si distaccano dall’immediatezza, quasi brutale, con cui Donatello e Masaccio si erano rivolti alla comu- nità fiorentina, senza distinzioni di ceto o di estrazione culturale. Suonerà forse inaccettabile la definizione di Pseudo-Rinascimento attribuita all’arte del Botticelli; e tuttavia esiste un altro caso, forse ancor piú sconcer- tante, per il quale l’etichetta rinascimentale (intesa come fatto di stile e non di epoca) risulta improbabile, il caso cioè di Paolo Uccello, considerato uno dei Padri Fon- datori del nuovo stile, almeno nell’accezione comune. Ci si dimentica infatti che la sua fama è basata su opere, come le tre tavole della Rotta di San Romano (Uffizi, Louvre e National Gallery di Londra) che non furono eseguite prima del 1450, quando il pittore, nato nel 1397, aveva superato il mezzo secolo di vita; altri pro- dotti del suo pennello, cui è affidata la reputazione in chiave rinascimentale (come il Diluvio nel Chiostro di Santa Maria Novella) toccano anch’essi una data molto vicina al 1450. Ora, buona parte della ricerca filologica si è ostinata (e si ostina) a negare a Paolo la paternità di un nutrito gruppo di tavole, tele e affreschi che comu- nemente vanno sotto le denominazioni provvisorie di Maestro della Predella di Quarata, Maestro di Prato, Maestro di Karlsruhe, tutte costruzioni ipotetiche per le quali è stata da tempo suggerita la fusione nel corpo vivo di Paolo. C’è anzi da aggiungere che soltanto con l’am- mettere che tali raggruppamenti provvisori sono davve- ro suoi si perviene a valutare il significato delle cose piú tarde; e queste sono esempi insuperabili di una freneti- ca, ossessiva elaborazione di uno e uno solo, dai dati su cui è basata la complessa formula degli autentici Padri Fondatori del vero Rinascimento. La «dolce prospetti- va» di Paolo Uccello è il pretesto per una ricerca fine a se stessa, staccata e avulsa dal corpo, perfettamente omogeneo, di lucidità spaziale, definizione plastica e
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Federico Zeri - Rinascimento e Pseudo-Rinascimento
verità psicologica che in Masaccio o in Donatello chia-
riscono l’uomo a se stesso, aiutandolo a comprendere la sua essenza, soccorrendolo nel liberarsi da miti metafi- sici e da convenzioni sociali. Concepita come un eserci- zio matematico, esclusivo e chiuso in se stesso, la ricer- ca prospettica produce immagini di astratta irrealtà, per- sino disumanizzate. Nella Natività di Karlsruhe, la palma svetta in un impeccabile scalarsi di foglie aguzze, luci- damente definite, ma immobili e fredde, quasi fossero ritagliate nel metallo, cosí come bove e asino (e persino le vele della nave all’orizzonte), artatamente collocati in profondità suggeriscono la atona e rigida assenza di vita degli automi. Sempre nello stesso dipinto, è da rilevare come, accanto a tali puntate di impalcatura matemati- ca, la Vergine sia presentata secondo un profilo rigido, ritagliato (e con lineamenti di irreale calligrafismo): esat- tamente come in molti passi della Caccia notturna di Oxford o delle tre tavole della Rotta di San Romano i protagonisti passano indifferentemente dal ruolo di assi prospettici (studiatamente disposti al fine di suggerire la profondità della terza dimensione) a quello di tessere di un intarsio o mosaico policromo, dalle fisionomie viste di lato e contornate da un segno tagliente e caratteriz- zato. In qualche caso (quando è presumibile uno stimo- lo di fonte Donatello) Paolo descrive il volto umano alla moderna, applicandosi cioè a seguire le norme esem- plificate da Filippo, Donato e Tommaso, ma senza riu- scire a coglierne l’essenza. Tipici in questo senso (accan- to a certi brani del Diluvio nel Chiostro di Santa Maria Novella) sono i quattro cosiddetti Profeti (o piú verosi- milmente Evangelisti) che si affacciano entro oculi per- fettamente descritti ai quattro angoli del grande orolo- gio all’interno della facciata del Duomo. In quello che qui si riproduce, le intenzioni del pittore rivolte alla resa di un qualche modello donatelliano, dall’accento eroico, sono curiosamente tradite dal procedimento prospetti-
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co; questo, applicato secondo elementi distinti (e senza
un’intima conoscenza della struttura unitaria del cranio e dei muscoli facciali) conferisce all’insieme una singo- lare frattura di piani, che restano slegati, rammentando certe sculture del iv secolo della Roma postcostantinia- na (quando si andava perdendo la nozione e dell’anato- mia e del fatto plastico come fatto unitario), che pre- sentano due distinti piani di svolgimento, l’uno di fac- cia, l’altro di fianco. Lo Pseudo-Rinascimento di Paolo Uccello non è però un fatto isolato; esso interpreta la prospettiva con quella medesima unilateralità secondo cui altri seguaci dei Fondatori del Rinascimento travi- sarono il ricco e inscindibile tessuto formale dei loro modelli, estraendone uno solo dei dati: Arcangelo di Cola il chiaroscuro, Paolo Schiavo la monumentalità, Francesco di Antonio l’impassibilità morale, per non dire che di alcuni. Del resto, si tratta di atteggiamenti mentali sollecitati da ogni grande personalità artistica e da ogni autentico moto di innovazione. La parzialità con cui venne interpretato il primo e autentico Rinascimento a Firenze non è poi troppo dissimile da quel che avven- ne a Milano con l’arrivo di Leonardo, o dalle vicende dei seguaci immediati di Raffaello, o infine dalla ricchissi- ma rosa di episodi, tutti indistintamente monocordi e parziali, che costituiscono la diffusione del caravaggi- smo. Non è con ciò che il significato dell’autentico Rina- scimento sia andato perso a Firenze; con una straordi- naria varietà di modi (e di accrescimenti culturali e for- mali) esso continua nel Beato Angelico, nella scultura di Luca della Robbia, nella ripresa donatelliana di Andrea del Castagno, in Domenico Veneziano (altra persona la cui formazione rimane molto oscura) e in Piero della Francesca. Nella definizione della prospettiva ha ora un ruolo il colore modulato dalla luce; e resta da stabilire quanto vi abbia giocato la conoscenza di testi pittorici fiamminghi, soprattutto di Jan van Eyck e di Petrus
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Christus. Ma su questo punto troppe sono le lacune e
troppo gravi sono le perdite (soprattutto nel campo della pittura) che ostacolano la nostra conoscenza di quel che avvenne a Firenze tra il 1430 e il 1450; ma dopo la metà del secolo due fatti sollecitano la ripresa della prassi rinascimentale, sotto nuovi aspetti. Il primo è l’impegno, felicemente riuscito, di razionalizzare la soluzione dise- gnativa di Filippo Lippi e seguaci, impegno che in Piero e Antonio del Pollaiuolo (grazie anche alla loro eccezio- nale conoscenza anatomica) estrae la linea dai limiti del calligrafismo, sostenendola, sino ad altezze spericolate, con lo svolgimento funzionale, o energetico. Il secondo aspetto è quello raggiunto nella bottega di un pittore che fu anche scultore, Andrea del Verrocchio, dalla quale uscirono alcuni tra i piú felici rielaboratori (e talvolta divulgatori) dell’autentico Rinascimento. Nel Verrocchio scultore è costante la preoccupazione di inse- rire la forma plastica nell’atmosfera circostante, grazie ad un’incessante modulazione chiaroscurale delle super- fici, individuate con un attento e scientifico studio della realtà oggettiva. Spesso, le autentiche intenzioni di un artista si svelano negli aspetti minori, o negli accessori, della sua produzione: le cornici nei pittori (quando siano loro a disegnarle) i piedistalli negli scultori, modanatu- re e trabeazioni negli architetti. Nel Verrocchio, assai limitato nel catalogo certo, un’opera decorativa, come il sepolcro di Piero e Giovanni de’ Medici nella Sagrestia Vecchia di San Lorenzo a Firenze, è quanto mai ricca di allusioni. Le zampe di leone che sorreggono il sarco- fago di porfido, le volute di acanto (di fonte romana) che ne racchiudono gli angoli, e persino i cordoni lungo gli orli e nella griglia del fondo, sono tutti resi con una verità scientificamente esatta, e animati dall’incessante declinazione del dato chiaroscurale, che circola ovunque come spirito vitale. Non è qui possibile alludere ai rap- porti del Verrocchio con altri scultori fiorentini, con
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Antonio e Bernardo Rossellino, o con Desiderio da Set-
tignano; e tuttavia, quanto grande sia stato il suo ruolo nello svolgersi del razionalismo rinascimentale lo indica Leonardo da Vinci, che si formò appunto nella sua bot- tega (di cui molti protagonisti furono, a quel che si dice, agnostici sotto l’aspetto religioso e disinibiti quanto ai rapporti sessuali). Anche per il Leonardo dell’epoca fio- rentina, un dipinto secondario e di commento è quanto mai indicativo: nel retro del Ritratto di Ginevra de’ Benci l’emblema di motivi allegorici e araldici è un autentico capolavoro di acume ottico, e di assoluta verità botani- ca e prospettica. Il rametto di ginepro, quello di alloro, la foglia di palma sono realizzati con stupefacente luci- dità razionale; quale sia la portata dell’impegno che ne condusse l’esecuzione risulta bene al confrontare l’ana- tomia della palma con quella dipinta da Paolo Uccello nella Natività di Karlsruhe. C’è anche da riconoscere al Verrocchio l’educazione di Pietro Perugino, dal quale, ricco della conoscenza dello spazio di Piero della Fran- cesca, prenderà l’avvio quella vera e propria summa del- l’Umanesimo e del Rinascimento in primissima persona che fu Raffaello Sanzio. È sempre presso il Verrocchio che si educò un altro grande artista (a torto considerato spesso come un sem- plice divulgatore): Domenico Ghirlandaio. Nella dico- tomia tra falso e vero Rinascimento questi occupa un posto molto notevole nell’area dei protagonisti raziona- li; non è a caso se presso di lui iniziò la vicenda di Michelangelo. E infine è doveroso riscontrare nel Ghir- landaio (vero e proprio punto di partenza per le vicen- de del Rinascimento maturo) una delle componenti (molto efficace sebbene misconosciuta) che è alla base di Cosimo Rosselli, pittore di second’ordine, ma dal quale sortí Piero di Cosimo, altro sommo protagonista di quel filo che tramandò sino ai primi del Cinquecen- to lo spirito autentico dei Padri Fondatori, rinnovandolo
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con accenti di vivace, profondo lirismo, riscattandolo
cioè dell’accademismo che era moneta corrente nella Firenze dal 1450 in poi. C’è anche da ricordare che, caduta la guantata signoria dei Medici, nella Repubbli- ca che morí nel 1530, il pittore autenticamente demo- cratico (spesso orientato verso una acuta ripresa che risa- le sino a Masaccio) fu Ridolfo, il figlio cioè di Domeni- co Ghirlandaio.
Sebbene gli studi sull’arte senese del Quattrocento
siano tuttora in fase di elaborazione, è lecito affermare che a Siena l’arte di quel periodo si svolse (a parte talu- ne singolari eccezioni nel campo della scultura) in quel- la zona culturale che abbiamo definita Pseudo-Rinasci- mento. In fase di decadimento economico e politico dai tempi dell’epidemia del 1348 (dalla quale non si riprese mai) la città, nei suoi esponenti figurativi, rimase fissa alle sue passate glorie. Rielaborazioni di immagini crea- te da Ambrogio Lorenzetti sono presenti in uno dei grandi artisti del primo Quattrocento locale, Pietro di Giovanni Ambrosi, mentre un altro protagonista, Gio- vanni di Paolo, esaspera la sensibilità epidermica con cui egli apprende, di seconda mano, i repertori dello Specu- lum Naturae tradizionale, specie nella versione importa- ta sul luogo dal soggiorno di Gentile da Fabriano. Il Quattrocento senese è un hortus mirabilis di sentimen- ti, di incantazioni e di brividi; una successione cioè di motivi irrazionali, affascinanti ma remotissimi dalla ragione del Rinascimento, che a volte (come in Neroc- cio di Bartolomeo, in Francesco di Giorgio Martini e in Matteo di Giovanni) si impongono come il sommo ver- tice mai toccato dalla pittura italiana nel campo delle sensazioni, degli umori e degli istinti affettivi. La Madonna di Percena di Matteo, la Pala di Rapolano di Neroccio (oggi nella National Gallery di Washington), le immagini pietrose e rutilanti di Benvenuto di Gio-
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vanni costituiscono (secondo modi assai personali e
variati) apici della comunicazione visiva affidata all’in- tuito e all’istinto meglio che alla norma e alla ragione. Non è che ai Senesi fosse ignoto il Rinascimento vero dei Fiorentini, e sin dalle piú antiche espressioni: il mas- simo artista locale del secolo xv, Stefano di Giovanni detto il Sassetta, conobbe le opere di Masaccio almeno attraverso gli affreschi della Cappella Brancacci al Car- mine, e ne trasse una precisa citazione in un frammen- to di una grande Croce eseguita nel 1433 (Siena, Colle- zione Chigi-Saracini). Ma si tratta di una semplice cita- zione, e nulla piú, il codice figurativo del Sassetta essen- do orientato verso modi opposti a quelli masacceschi. Nel capolavoro dell’artista, la Madonna delle Nevi dipin- ta tra il 1430 e il 1432 per il Duomo di Siena (Firenze, Palazzo Pitti, Donazione Contini Bonacossi) il proble- ma della terza dimensione viene affrontato con un’insi- stenza e varietà degne di Paolo Uccello; l’intera trama del grande dipinto è, a tal fine, gremita di veri e propri artifizi, nei gesti e nelle posizioni delle figure, tra le quali è indicativa quella di san Paolo, in alto a destra. La monumentale immagine è rappresentata in atto di esi- bire l’Epistola ai Romani, e munita dell’attributo ico- nografico della spada, l’una e l’altra poste in grande evi- denza, accentuando nello stesso tempo le suggestioni di profondità spaziale. Il Sassetta è ricorso, in questo brano, ad un vero e proprio tour de force figurativo, disponendo la spada in senso orizzontale, secondo una scelta che risulta unica nell’iconografia dell’Apostolo delle genti; tenuta sospesa dalla mano destra e appoggiata sul polso sinistro, la spada diviene la linea di base di un ideale parallelogramma, definito anche dall’Epistola (ortogonale rispetto alla spada) dalle braccia e dal busto del santo. Al di sotto, il san Francesco, in ginocchio, è anch’esso individuato per gesti che mirano ad accen- tuare l’effetto tridimensionale: come nel passo del libro
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aperto, che misura la distanza tra primo e secondo
piano. Nell’altro grande pittore della medesima genera- zione, Pietro di Giovanni Ambrosi, appaiono risultati analoghi, non tanto però nei dipinti piú piccoli, dove la conoscenza e lo studio dell’arte fiorentina razionale sol- lecita a volte una definizione spaziale che, pur non essendo scientifica, ruota tuttavia attorno al nodo del problema secondo raggi molto ristretti. È invece nei dipinti maggiori, e nella resa del corpo umano, che l’Am- brosi si rivela decisamente intuitivo, come nel fram- mento del Museo di Esztergom, forse avanzo di una grandiosa Maestà. L’immenso fascino di questa immagi- ne deriva appunto dall’essere priva di qualsiasi struttu- ra interna, e di un qualsiasi rapporto reale e univoco tra occhi, arcate sopraccigliari, naso, bocca e guance; lo spazio, lungi dall’essere polarizzato attorno ad un asse o a un solo centro, risulta invece frammentario, com- posto di elementi privi di un legame che non sia pura- mente allusivo, quasi simbolico. Riferimenti ai parame- tri mentali del Sassetta e dell’Ambrosi ritornano anche nella successiva generazione dei pittori senesi, ad esem- pio in Matteo di Giovanni, che nelle varie redazioni del suo Massacro degli Innocenti (Siena, Sant’Agostino e Santa Maria dei Servi; Napoli, Galleria Nazionale) denuncia un rinnovato interesse per Firenze (ora stu- diando Antonio e Piero del Pollaiuolo), ma senza deflet- tere dall’estro, o in favore della razionalità. Capitale toscana dello Pseudo-Rinascimento quattro- centesco (non è caso se, senza alcuna soluzione di con- tinuità, vi si passi direttamente al Manierismo, grazie a Domenico Beccafumi) Siena mostra anche un singolare fenomeno, molto imbarazzante per le rigide classifica- zioni storico-artistiche: quello degli artisti che sono ad un tempo razionali e irrazionali, scientifici e intuitivi, padroni della prospettiva ragionata e ignari dei suoi postulati. Ciò si verifica, per almeno due casi, in perso-
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nalità che si dedicarono nel medesimo tempo alla pittu-
ra e alla scultura, Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta e Francesco di Giorgio Martini. Nel Vecchietta pittore, spazio e anatomia sono affidati all’intuito, e le figure sono costruite con una materia duttile, disposta ad ogni compromesso estemporaneo; tutt’al contrario di ciò che si realizza nei prodotti del Vecchietta scultore, specie nei suoi potentissimi bronzi, dove la scaltrezza spaziale e anatomica è davvero sottile, consumata. Un fenomeno analogo si legge nel catalogo di Francesco di Giorgio, nei cui dipinti spazio e anatomia divengono persino il pre- testo per veri e propri excursus di sapore paradossale, come nel leggio della Annunciazione della Pinacoteca di Siena, stirato e allungato come da uno specchio defor- mante. Ma il Francesco di Giorgio scultore è tutt’altra cosa; la razionalità rinascimentale vi si esprime con impeccabile conseguenza, sia nella resa spaziale sia nel descrivere il corpo umano, con quella medesima norma, di implacabile coerenza, che si legge nel Francesco di Giorgio architetto. È un fatto, questo dei Senesi biva- lenti, che resta molto problematico; forse, la risposta al quesito che essi pongono sta nella presenza a Siena di prototipi di Donatello, e nella possibilità quindi che gli scultori locali avevano di studiarli, assorbirne i principî strutturali, la prassi scientifica, il piú intimo significa- to. Comunque, è una questione che mette in dubbio molte certezze della ricerca storico-artistica, cosí come lo studio del Rinascimento autentico in rapporto allo Pseudo-Rinascimento getta forti ombre di dubbio sulla validità di certi schemi interpretativi di fonte marxista, riguardanti committenti e artisti, e soprattutto l’estra- zione sociale dei primi rispetto al tipo di prodotti da loro sollecitati. Che la razionalità formale del Rinascimento fiorentino sia da mettersi in rapporto con la nascita e l’affermarsi di una classe mercantile borghese è fuori dubbio. Il definirsi di norme spaziali e prospettiche di
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validità universale, la ricerca dei nessi che legano le
diverse parti del corpo umano e ne determinano le pro- porzioni, soprattutto infine il problema di stabilire con precisa esattezza i parametri dei rapporti tra individuo e ambiente: sono tutti quesiti che non possono appar- tenere che allo stesso momento in cui la casistica relati- va all’economia viene affrontata razionalmente, o, per dirla in breve, quando all’economia basata sulle uscite viene sostituita quella basata sulle entrate. Ma è del tutto abusivo, e negato dall’evidenza dei fatti, il passa- re da tali punti fissi ad un rigido determinismo dei rap- porti tra committenti e artisti, nel nesso tra stile (di qual- siasi tipo esso fosse) e fruitori e committenti. In realtà questi ultimi non facevano gran differenza tra approc- cio formale ragionato o no, tra Rinascimento autentico o umbràtile, tra scienza e intuizione; semplicemente essi si rivolgevano a quel che era disponibile sul momento. Sigismondo Pandolfo Malatesta, nell’impresa, per quei tempi gigantesca, di ristrutturare la Chiesa di San Fran- cesco a Rimini trasformandola nel Tempio Malatestia- no, impiegò indifferentemente Piero della Francesca e Agostino di Duccio; per la parte pittorica, nel 1454 aveva commissionato a fra Filippo Lippi una tavola rap- presentante San Girolamo con ogni probabilità destina- ta alla Cappella che, nel Tempio, è dedicata a questo santo. E ancora, Federico da Montefeltro, patrono di due vertici del razionalismo rinascimentale come Luciano Laurana in architettura e Piero della Francesca in pit- tura, non esitava poi a servirsi (e anche per ambienti maggiori della sua dimora) di un Giovanni Boccatis o del Maestro delle Tavole Barberini, due pittori quanto mai remoti dalla ragione rinascimentale: casi del genere sono di norma, e lo studio archivistico della classe borghese di Firenze ne porterebbe alla luce non pochi. Si può, tutt’al piú, affermare che l’autentica cultura figurativa
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del Rinascimento fiorentino stentò a penetrare (o vi
penetrò in modi discontinui) nei centri minori domina- ti dalle locali Signorie, dove la cultura era ancora lega- ta a fatti di corte o di potere elitario, mancandovi, tra Signore e popolo, lo strato intermedio, apportatore di nuovi interessi culturali e dal quale i nessi tradizionali di potere avrebbero potuto venire erosi e sostituiti. Nei centri dell’Umbria e delle Marche situazioni simili hanno dato luogo ad una eccezionale varietà di soluzio- ni figurative, a nessuna delle quali il termine di Rina- scimento può venire applicato oltre il senso puramente cronologico. A Perugia, Domenico Veneziano, e poi Piero della Francesca, passarono come meteore, senza un seguito effettivo; gli artisti locali li leggono come fatti di moda e di tipologia superficiale, dopo che il loro atteggiamento non era stato punto scosso dalla presen- za di un solenne capolavoro della razionalità nuova, come il polittico del Beato Angelico (eseguito nel 1437 per la locale chiesa di San Domenico). Piú singolari sono invece le vicende quattrocentesche di un altro centro dell’Umbria, Foligno, dove non giunsero testi maggiori da Firenze, e dove la conoscenza del razionalismo figu- rativo avvenne per seconda o terza mano. Il genius loci, che determina il clima delle espressioni figurative, è Bartolomeo di Tommaso, pittore dalla cultura molto variegata, oscillante tra la conoscenza del primo Quat- trocento emiliano, quello locale, e, nell’età matura, del doppio polittico lasciato dal senese Sassetta nella Chie- sa di San Francesco a Borgo San Sepolcro, anche se non è da escludere una o piú puntate verso Firenze. Tra le molteplici qualifiche che è lecito riferire agli affreschi eseguiti da Bartolomeo di Tommaso nella Chiesa di San Francesco a Terni (non lungi dal 1450) in nessun modo può rientrare quella di rinascimentale; è difficile citare in tutta la pittura del secolo, un altro analogo caso di ossessiva indocilità fantastica e di irreale caratterizza-
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zione grafica come questa. Nei vari scomparti, di cui
sono ricoperte le pareti della Cappella Paradisi, non mancano accenni e spunti che alludono alla massa pla- stica, al chiaroscuro, all’anatomia; ma tutto è fuso in un magma fantastico che dilata, allunga, accresce a dismi- sura, mostrandosi soltanto docile, in qualche passo, alla cadenza ritmica e al puntiglio calligrafico. C’è da sospet- tare che una simile fiammata irrealistica, entro cui sono dissolti i temi formali (in verità assai remoti e sfocati) dell’autentico Rinascimento, dipenda dall’essere questi noti al pittore per via mediata, tramite cioè il Sassetta, a sua volta rielaboratore di quei temi in chiave non sistematica. Bartolomeo di Tommaso va poi anche cita- to per essere uno dei pittori chiamati da Niccolò V a decorare gli appartamenti pontifici in Vaticano, lo stes- so Pontefice cioè che patronizzò il Beato Angelico nel medesimo edificio: ed è questa un’altra prova della nes- suna connessione tra stile e committenza, tra stato socia- le e linguaggio figurativo. In una città, poi, come Foli- gno, centro di un territorio prevalentemente sorretto dall’agricoltura e privo di grandi imprese commerciali o bancarie, accade che i tipi stilistici espressi a livello di potere politico o di fascia colta passino al contado senza mediazioni e senza capitoli intermedi; anche se modifi- cata da apporti vari (che vanno dal fiorentino Benozzo Gozzoli alle incisioni tedesche) la forma di Bartolomeo, ridotta e sfrondata, è quella che appare in Matteo da Gualdo. In questa sorta di lontano antenato campagno- lo di Modigliani (grottesco anziché patetico, e rustica- mente monocorde) le strutture anatomiche, realizzate solo per via disegnativa, vengono sottoposte a fratture e distorsioni, sí che le immagini si riducono ad una spe- cie di stenografismo allusivo. Un atteggiamento affine si riscontra anche nell’area marchigiana, ad esempio in Ludovico Urbani da Sanseverino; in altri centri delle Marche la presenza di testi figurativi autenticamente
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rinascimentali può anche essersi verificata, ma senza
sortire alcun seguito, come ad esempio a Camerino, sede di una cerchia di pittori (in parte toccati anche da modi padovani) per i quali sarebbe vano parlare di prospetti- va ragionata, anatomia scientifica, norme di etica stoi- ca o evangelica. In un clima culturale e mentale del genere (che ricopre un’area vastissima, da Atri a Terni, da Fabriano a Cesena) non sorprende se modi figurati- vi arcaici, desueti, abbiano sortito una tardiva quanto inattesa fortuna, grazie ad una sorta di vero e proprio revival. In questo senso, il caso piú sintomatico spetta ad una tavola del fabrianese Francesco di Gentile, che con ogni probabilità tocca all’ultimo decennio del seco- lo (come indicano i simbolici frutti e ortaggi appesi in alto, derivato da Carlo Crivelli). Scostandosi, una volta tanto, dalla sua abituale prassi di interprete svagato e disossato del repertorio figurativo moderno (quale gli poteva essere noto per vie mediate e non certo dirette) il pittore si riallaccia a Gentile da Fabriano (nell’albero gremito di rossi angioletti) e forse anche al Pisanello, nel brano a destra con scimmie e cervi, osservati secondo la zoografia cortigiana di un taccuino tardo-trecentesco. Tutto è reso con una materia pittorica cerea, diafana, malleabile, inconsistente, dove si accendono i contrasti tra lacche rosse e oro brunito. Ma per tornare a Foligno, la norma di Bartolomeo di Tommaso, o meglio, la sua mancanza di una autentica norma figurativa, si specifi- ca in altri aspetti nell’artista-guida locale della genera- zione seguente. Niccolò di Liberatore, detto l’Alunno, si formò sulle opere lasciate in Umbria (specie a Mon- tefalco) da Benozzo Gozzoli, divulgatore, non sciocco, del repertorio del Beato Angelico; e in lui l’amalgama di realismo (per cosí dire) fiorentino e di espressionismo fulignate si trasforma in contorsionismo. Le figure di Niccolò si agitano e gridano sollecitate da sentimenti incontrollati, come le comparse di una sacra rappresen-
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tazione; spesso sono definite con un’esattezza ottica
sorprendente quanto epidermica, aiutata da espedienti tecnici che anticipano di secoli i falsari e gli imitatori dell’Otto e Novecento. Nonostante la sua non comune intelligenza, l’Alunno rimane un artista che recita e che non partecipa direttamente a quel che narra o che vuol far credere: rimane cioè in quel limbo, in quel make it believe estranei e all’opposto del Rinascimento in prima persona, sempre documento di una diretta partecipa- zione dell’artista al suo mondo figurativo, vissuto e sof- ferto. A Roma, dove la situazione culturale è, dopo il 1450, variegata e persino contrastante per l’arrivo e l’attività di artisti tra i piú svariati, il Rinascimento autentico sortisce un protagonista in Antoniazzo, gran- de, nobile pittore purtroppo diminuito dal diluvio delle commissioni, per le quali dovette ricorrere ad una pleia- de di aiuti e di allievi, che ne offuscano l’alta qualità del catalogo autentico. Fra moltissimi episodi che, nella seconda metà del ’400 segnano ciascuno a suo modo la diffusione e anche il travisamento (seppure geniale) di quel che avevano insegnato i Fiorentini dei primi tre decenni, un posto a parte spetta ad un minuto quanto provinciale pittore attivo per molti piccoli centri dell’area umbro-marchi- giana, Bernardino di Mariotto da Perugia. Anatomiz- zando la sua cultura, questa si rivela assai vasta, pas- sando dai perugini ai sanseverinati da Luca Signorelli a Carlo Crivelli; tutto questo repertorio di annotazioni temi e spunti viene reso secondo una scrittura iper- caratterizzata che si adopera a far passare, per autenti- ci, moti sentimentali, accorati e patetici, recitati da per- sonaggi fragili, provvisti dell’eleganza esagerata che è propria alle culture provinciali. L’accordo tra disegno, piegato alle esigenze del tono emotivo e passionale (anche se delicatamente affettuoso), e registro figurati- vo rigidamente caratterizzato (secondo un vocabolario
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assai ristretto), portano Bernardino ad anticipare di piú
di quattro secoli gli aspetti primari della comic strip, dei cartoons di Walt Disney, e della produzione di massa che i nostri tempi hanno visto fiorire nel campo delle imma- gini visive.
Quella che oggi chiamiamo Arte Lombarda del Quat-
trocento è in realtà l’espressione figurativa di molti e diversi centri culturali, Cremona, Pavia, Lodi, alcune delle Valli prealpine, e, soprattutto, Milano. L’attuale conoscenza e la sistemazione filologica di tale area sono molto lacunose; resta però accertato che i fatti fonda- mentali accaddero nella capitale del Ducato di Lombar- dia, Milano, anche se l’inventore della formula che caratterizza la pittura lombarda dalla metà del secolo in poi (e che costituisce la sua essenza vitale) spetta ad un pittore di origine pavese attivo a Genova, Donato de’ Bardi; dopo un esordio legato a modi di tardo Trecen- to, la sua pittura viene modificata soprattutto dalla conoscenza dell’arte fiamminga. È oramai un luogo comune riaffermare che la luce, osservata e descritta razionalmente fu, per i Fiamminghi della prima genera- zione rinascimentale, quel che la prospettiva fu per i Fio- rentini. Donato de’ Bardi mostra di essersi rivolto a Jan van Eyck, anche se alcuni dei suoi rari dipinti indicano la conoscenza di altri comprimari delle Fiandre quat- trocentesche. La Madonna del Museo Poldi-Pezzoli, che gli spetta senza ombra di dubbio, è in pratica un’inter- pretazione all’italiana di un modulo alla Rogier van der Weyden: la forma vi è definita dall’incidenza della luce, secondo un partito che passa a Vincenzo Foppa. È anco- ra troppo presto per stabilire modi e tempi del rappor- to tra Donato e il Foppa; ma è indubbio che questi, in precedenza, aveva dovuto conoscere un ambiente non lombardo, con ogni verosimiglianza padovano, accor- dando la solenne normativa umanistica di Andrea Man- tegna con il rapporto forma-luce di Donato. Piú tardi,
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il Foppa fu tra i piú intelligenti osservatori di Donato
Bramante (giunto in Lombardia negli anni ’70 avanza- ti), innestando sul ceppo lombardo il ferreo razionalismo prospettico-spaziale di Piero della Francesca, che Bra- mante aveva assorbito nel luogo di nascita e di educa- zione, Urbino. Con Vincenzo Foppa viene cosí a oggettivarsi un nuovo ramo della ragione rinascimentale che, attraver- so i pittori bresciani e il Caravaggio, sortirà un ruolo determinante per la pittura italiana ed europea; nuovo, perché in esso forma e luce non sono piú separate dal diaframma del disegno o della plasticità, la luce essen- do assorbita dalla forma, ed esprimendola come fosse brace ardente. Non è certo che a Milano un approccio razionale al problema dello spazio e della tridimensio- nalità restasse senza contropartita; l’opera di Bernardi- no Butinone è sostenuta da un luminismo caratterizza- to, che batte dall’esterno su forme anch’esse interpre- tate secondo una formula individuale e non valida scien- tificamente. Resta però certo che, quanto alla prospet- tiva, a Milano essa venne coltivata con un impegno privo di deviazioni. Accostando un disegno del Fogg Art Museum (talvolta attribuito ipoteticamente allo stesso Foppa e in cui la scena della Flagellazione di Cristo è ridotta ai minimi termini, nel fondo estremo) con un foglio di Jacopo Bellini (il pittore veneziano fondatore della famosa dinastia e morto nel 1470) bene risulta l’a- bisso che separa l’autentico razionalismo rinascimenta- le dalle visioni favoleggiate e capricciose di un approc- cio, del tutto estetizzante e superficiale, verso quel medesimo razionalismo. Quanto alla luce lombarda, chi ne comprese il valore e le possibilità, fu Leonardo da Vinci; giunto a Milano nel 1482-83 ed entrato al servi- zio del Duca Ludovico, le opere pittoriche che gli riuscí di portare a termine (e che sono giunte sino a noi senza devastazioni) sono autentici miracoli di un equilibrio tra
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Federico Zeri - Rinascimento e Pseudo-Rinascimento
forma fiorentina e forma lombarda, tra disegno, massa
e luce, tra verità ottica e verità stilistica. La Belle ferro- nière (Louvre) e la Dama con l’ermellino (Cracovia) ancor piú delle due redazioni della Vergine delle rocce (Louvre e National Gallery di Londra) stanno al vertice del razio- nalismo rinascimentale, prima dei prodotti della matu- rità di Raffaello o della Volta della Sistina, gli uni e l’al- tra però non sostenuti da una formula di cultura cosí ricca e variegata come nel Leonardo milanese. Sui pit- tori locali che rimasero attirati da questa formula, l’ef- fetto fu disastroso; è difficile citare altro esempio di un’analoga riconversione in senso parziale, unilaterale e di povera frammentazione, come quella che i modelli leonardeschi subirono ad opera di Ambrogio de’ Predis, Bernardino de’ Conti, Marco d’Oggiono, Francesco Napolitano e compagni, tutti campioni di una riduzio- ne in chiave sregolata di prototipi nei quali l’autocon- trollo, lucido e senza deflessioni, è costante. Dalla ten- denza a interpretare Leonardo affidandosi all’intuizio- ne estemporanea, si salvarono coloro che rimasero lega- ti all’autentica formula di estrazione luministica del Foppa, rielaborandola secondo modi assai originali: il grande Boltraffio, Bernardino Luini (a modo suo) e Ber- nardino Zenale. Del tutto immuni dal riflesso leonar- desco restarono invece lo stesso Foppa (morto tra il 1515 e il 1516), il Bergognone, e soprattutto uno dei massimi rappresentanti del vero Rinascimento, Barto- lomeo Suardi detto il Bramantino. Architetto e pittore nello stesso tempo, il Suardi non sembra essersi neppu- re accorto del passaggio di Leonardo; egli si è rivolto a Bramante appropriandosi della sua scienza architettoni- ca e prospettica, e declinandola secondo modi di origi- nalità unica, quasi fuori del suo tempo. Il vero Rinasci- mento si chiuse in Lombardia con le enigmatiche visio- ni del Bramantino, dai personaggi interpretati come architetture viventi, mentre nei fondi le architetture
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reali (che anticipano spesso di molti decenni quelle del
locale Cinquecento maturo) sostengono un ruolo di sug- gestione persino metafisica.
La dicotomia che caratterizza l’arte del Quattrocen-
to Italiano (nel contrasto fra stile ragionato e stile fan- tastico, tra prospettiva scientifica e prospettiva intuita, tra Rinascimento e Pseudo-Rinascimento, si è realizza- ta, con insolita evidenza, nell’ambiente padovano, gra- zie ad una singolare concomitanza di arrivi dall’esterno, soprattutto da Firenze, e di interpreti locali. Padova fu la sede prescelta da Cosimo de’ Medici e da Palla Stroz- zi durante i loro esili (il primo tra il 1433 e il 1434, il secondo dal 1434 alla morte nel 1462), e tale preferen- za denuncia i forti legami che intercorrevano tra la città veneta e il centro culturale ed economico della Tosca- na. Da Firenze giunsero a Padova Donatello (che vi si trasferí per dieci anni dal 1443 in poi, lasciandovi il suo capolavoro, l’Altare del Santo) dopo che erano passati Filippo Lippi (nel 1434) e Paolo Uccello (forse nel 1445). Lo stile rinascimentale fu dunque noto a Padova, con Donatello, nell’aspetto piú autentico e completo; nella soluzione disegnativa (che in Filippo Lippi, al momen- to della sua presenza in loco si andava precisando); e, con Paolo Uccello, secondo l’interpretazione fantastica e unilaterale della prospettiva intesa come dato esclusi- vo. C’è poi da aggiungere che a Padova (centro fioren- te di studi umanistici) il culto delle antichità romane era stato sempre vivo, anche in opposizione alla cultura costantinopolitana di Venezia, il cui dominio era male sopportato; la presenza di Palla Strozzi arricchí in senso ellenico una vera e propria venerazione dell’antichità classica. Da tali premesse nascono a Padova due capito- li figurativi diametralmente opposti, che si identificano in Andrea Mantegna e in quella varietà stilistica che, dal nome di Francesco Squarcione, si suol chiamare «squar-
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cionismo» . Con il Mantegna, il mondo che gli Umani-
sti avevano vagheggiato, sulla scorta dei testi soprav- vissuti al diluvio del vii e dell’viii secolo, entra nella pit- tura in prima persona, e munito di tutti gli aspetti e di tutti gli schemi primari del Rinascimento autentico. Ne è ammirevole esempio il Cristo sul sarcofago del Museo di Copenaghen, un’opera del tempo maturo dell’artista: esemplificato su di un marmo romano, e realizzato con un’ineccepibile conoscenza dell’anatomia e della pro- spettiva, il Redentore allarga le braccia con il gesto del- l’Hercules di Seneca: in effetti, con questo dipinto siamo davanti alla visualizzazione dell’identità tra Ercole e Cristo, piuttosto che ad un Giove cristiano. Come sempre nell’autentico Rinascimento, non è da sottovalutare il dato tecnico: nitida e paziente, la mate- ria pittorica del Mantegna non la cede, in quanto a descrizione minuta e specificata ai contemporanei fiam- minghi, sia nelle figure sia nel paese o nel cielo di tra- monto, che partecipa all’unisono al dramma del Reden- tore. Già da giovane, il Mantegna aveva mostrato un impegno senza confronti nello studio dell’antichità clas- sica. Nei perduti affreschi della Cappella Ovetari agli Eremitani di Padova (eseguiti tra il 1448 e il 1457) la conoscenza dei reperti del mondo antico è stupefacen- te; il pittore vi si mostra profondo indagatore di armi, costumi, architetture, e, quanto alle epigrafi, la sua applicazione è tale da giustificare la dedica che nel 1463 gli offerse Felice Feliciano riguardo alla raccolta di iscri- zioni antiche oggi nella Biblioteca Capitolare di Vero- na. Di suprema razionalità, e sorretto da un classicismo amato e vissuto, cioè autentico e inteso non solo come connotato di erudizione, lo stile del Mantegna sortí un’eco determinante non a Padova, ma altrove: soprat- tutto esso è la chiave per spiegare la conversione dei pit- tori di Verona, che (alla luce della pala di San Zeno, pubblicata nel 1459) passano da modi di Rinascimento
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umbràtile a modi di una razionalità assoluta, di respiro
vastissimo, che sollecita la realizzazione di alcuni tra i piú alti capolavori del Rinascimento in prima persona. I cataloghi di Francesco Morone e di Gerolamo dai Libri (due artisti molto sottovalutati nella stima odier- na) presentano spesso momenti di ammirevole equili- brio, dove la intima ragione con cui viene affrontato il mondo oggettivo non esclude un commosso lirismo, che dal timbro elegiaco sale sino ad aperture universali, quasi cosmiche. Passare da immagini di tal genere verso quelle realizzate dall’altra corrente padovana, lo squar- cionismo significa varcare gli abissi che separano due mondi mentali totalmente diversi, incomunicabili. È molto arduo definire la reale personalità dello Squar- cione, e resta incerto se si debba individuare in lui un vero e proprio artista o piuttosto un impresario (spesso senza scrupoli) che si serviva degli allievi, sfruttandoli e appropriandosi delle loro fatiche a proprio favore; altret- tanto dubbia è la coerenza del suo svolgimento stilisti- co, che è discontinuo nelle due opere su tavola soprav- vissute, il polittico De Lazzara (Padova, Museo) e la fir- mata Madonna nella Galleria di Berlino Dahlem. In que- sta, l’applicazione su modelli donatelliani appare evi- dente, diretta, specificandosi nello studio di una plac- chetta del grande scultore: ne risulta una traduzione affidata alla linea di contorno, e che, tutto sommato, non è molto distante da quanto appare in Filippo Lippi prima del 1445. Ma l’aspetto piú singolare dello Squar- cione riguarda i suoi allievi, tra i quali si incontra da un lato il figlio adottivo Andrea Mantegna, campione del piú inflessibile razionalismo di autentico significato rina- scimentale, e, dall’altro lato, una serie di personalità che si affidano alla fantasia, alla cifra personale, ad una varietà di espressionismo disegnativo e materico. La dicotomia tra Rinascimento in essenza e Rinascimento in superficie si realizza dunque negli allievi dello Squarcio-
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ne, secondo modi che suggeriscono, quale spinta deter-
minante, la individuale forma mentis piuttosto che la cul- tura, l’educazione o l’estrazione sociale. A confronto con la severa norma classicheggiante del Mantegna e della suprema dignità imperiale dei suoi personaggi, il mondo figurativo di Marco Zoppo da Bologna (che fu presso lo Squarcione tra il 1452 e il 1455) sembra appartenere ad altre epoche, a una civiltà diversa. Le sue forme si sno- dano in un incessante susseguirsi di spezzature, di ripre- se, di ondeggiamenti; grazie al pigmento cromatico tra- slucido e di irreale splendore, i suoi dipinti evocano metalli sbalzati e martellati, con i personaggi sacri sor- retti dal tormento di una linea di contorno che nei vege- tali, quando appaiono (nei disegni a penna) si innalzano secchi e riarsi, contorti come vene malate. In un altro grande pittore che dovette formarsi presso lo Squarcio- ne, il ferrarese Cosmé Tura, un analogo, perenne assil- lo si spinge sino ad assumere i connotati di vere e pro- prie sigle, irte e taglienti, evocando le mitologie araldi- che e cavalleresche care alla corte ducale di Ferrara, dove il Tura fu l’artista prescelto. La cultura figurativa di Ferrara (dove fu operoso anche Piero della Francesca) si sarebbe poi convertita ai modi del vero Rinascimen- to (pur conservando caratteri singolari e assai tipici) con Francesco del Cossa e soprattutto con Ercole de’ Rober- ti, in una eccezionale varietà di apporti esterni, tra cui quello di Andrea Mantegna. Un altro pittore formato dallo Squarcione (presso il quale i documenti lo citano tra il 1441 e il 1444) è Giovanni Francesco da Rimini. In lui, non vi è nulla dell’irrealismo materico di altri squarcioneschi, e il dato determinante rimane lo studio delle opere lasciate a Padova da Filippo Lippi, accre- sciuto in seguito dalla conoscenza delle tavole e degli affreschi eseguiti da Benozzo Gozzoli in Umbria, regio- ne in cui Giovanni Francesco fu a lungo operoso. For- temente caratterizzati, di impianto rigido e anchilosato
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come sculture in legno rivestite di colori, i suoi perso-
naggi sono una propaggine padovana in territorio umbro-marchigiano; o, se si vuole realizzare la con- giunzione, del tutto effimera ed epidermica, tra livello culturale rusticano e modi di alta cultura. È qui impossibile, per ragioni di spazio, descrivere singolarmente gli aspetti che lo Pseudo-Rinascimento assunse nelle varie regioni della Penisola, le molte com- binazioni locali, le formule dipendenti da consuetudini, apporti culturali, situazioni economiche e politiche. Un autentico razionalismo formale è assente dalla Liguria dopo il 1450, dal Piemonte, da gran parte del Regno di Napoli. A volte, l’irrealismo si esprime con forza ecce- zionale, e a livelli di qualità assai alti, come nella tavo- la datata 1472 del Duomo di Viterbo, per la quale va riaffermata la paternità di Gerolamo da Cremona: un miniatore e pittore dalla vicenda assai intricata, e che sembra riconvertire i modi di Andrea Mantegna ricon- ducendoli verso valori trasfigurati e trasognati, non molto dissimili da quelli di Marco Zoppo e dei Ferrare- si. Ma nella vicenda del Rinascimento inventato un capi- tolo speciale tocca ad un’area di cultura che sinora non è stata mai individuata e tanto meno studiata nel suo percorso; ed è l’area che conviene chiamare «adriatica», ben distinta da quella veneziana e da quella delle Mar- che. I suoi confini geografici partono a nord dall’isola di Arbe, giungendo a sud sino alle isole Tremiti, men- tre ad est i suoi centri di fioritura sono Zara, Sebenico, Traú e altre località della Dalmazia, e ad ovest tocca Ancona. È certo che la radice prima ne va localizzata a Padova, ed è altrettanto certo che alla sua definizione partecipò (almeno in qualche misura) lo Squarcione; ad ogni modo, l’altare padovano di Donatello è il testo fondamentale per la formula di stile adriatica: alla sua esecuzione collaborò uno dei protagonisti, lo scultore Niccolò di Giovanni, detto Niccolò Fiorentino. Altre
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personalità che partecipano a questo nodo (come gli
scultori Giorgio da Sebenico e l’albanese Andrea Ales- si) non sono stati oggetto, negli ultimi decenni, di accu- rate ricerche filologiche; piú note sono invece le perso- nalità del pittore dalmata Giorgio Chiulinovich, detto Schiavone (che era il genero di Giorgio da Sebenico) e, soprattutto, quella del veneziano Carlo Crivelli, che nel 1465 era a Zara. Accanto a lui, la formula di stile «adria- tica» è rappresentata dall’anconitano Nicola di Antonio, mentre Giovanni da Traú, detto Giovanni Dalmata, ne diffuse certi aspetti in area centro-italiana, specie a Roma, dopo aver lavorato nel 1481 in Ungheria, al soldo di re Mattia Corvino. È incerto se i risultati piú significativi di tale formu- la di stile appartengano al campo della scultura o a quel- lo della pittura; lo studio di quel che ne esiste in Dal- mazia (come lo splendido insieme della Cappella Orsini nel Duomo di Traú) è ostacolato dalla mancanza di ade- guate documentazioni fotografiche mentre di altri testi (come le opere lasciate dall’Alessi nelle isole Tremiti) si attende ancora una accurata ricognizione. Anche i tempi della fioritura di questo straordinario capitolo restano incerti, ma il momento piú intenso ne sembra cadere tra il 1460 (che è l’anno del portale eseguito da Giorgio da Sebenico per Sant’Agostino in Ancona) e il 1475 quan- do Giorgio muore. In Carlo Crivelli, che tornato in Ita- lia dalla Dalmazia aveva pubblicato capolavori come il polittico di Massa Fermana (1468) o quello oggi disper- so già in Porto San Giorgio, la conversione verso modi meno intensi e meno pungenti si legge a partire dal polittico ex Fesch del 1472 (oggi smembrato), che già mostra un’aggressività di segno stemperata, rispetto all’altro grande complesso, diviso oggi tra Montefiore dell’Aso, il Museo di Bruxelles e la National Gallery di Londra, che forse tocca al 1470-71, e dove il rovello fan- tastico e disegnativo è supremo. Anche in Nicola di
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Antonio la parabola giunge al sommo nel 1472, con la
pala oggi a Pittsburgh e già in Ancona, nella Chiesa di San Francesco delle Scale. Nicola si pone all’incrocio tra il Chiulinovich (che fu presso lo Squarcione tra il 1456 e forse il 1459) e il folignate Bartolomeo di Tommaso, e i suoi dipinti costituiscono l’aspetto piú stravagante ed eccezionale del donatellismo esasperato e violento, pun- tiglioso e aristocratico come è questo coltivato dall’area adriatica: una fiammata che si spegne poi senza lasciar alcun seguito. Di Rinascimento si parla, per Venezia, anche nel caso di Jacopo Bellini e dei Vivarini. In realtà le strutture ottiche e mentali di Jacopo restano sempre quelle di chi si era formato accanto a Gentile da Fabriano, pur appli- candosi ad appropriarsi della prospettiva ragionata, che (come indicano molti dei suoi disegni) veniva da lui avulsa dal contesto etico e naturalistico, trasformando- si in pretesto per fioriture senza norma. La prospettiva favoleggiata (che a volte fa sembrare Jacopo Bellini una sorta di Paolo Uccello veneziano) si svolge in perfetta coerenza con le indagini archeologico-umanistiche, per cui, nonostante lo studio attento dei caratteri epigrafi- ci, cippi e are romane si trasformano in rare curiosità, proprio come l’antico entra nel campo delle mirabilia nei disegni (rozzissimi ma evocativi) di Ciriaco d’Ancona. Il primo dei tre Vivarini appartiene anche lui a tale fascia di gravitazione rinascimentale, senza entrare mai nel vivo della problematica razionalistica. Che spettino a lui, o al cognato Giovanni d’Alemagna, le quattro Sto- rie di sant’Apollonia (Bergamo, Bassano e Washington), esse si svolgono entro uno scenario dalle architetture fio- rite, piú affini a quelle del Filarete, di Matteo de’ Pasti o di Jacopo Bellini, che non alle realizzazioni di Filippo Brunelleschi o di Leon Battista Alberti. Ma il mondo figurativo di Antonio Vivarini si svolge, come si direb- be in linguaggio cinematografico, al rallentatore, con le
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comparse capaci di pochi movimenti, quasi frenate nei
gesti e negli affetti, secondo cadenze molto semplici; quando la narrazione ne consente la presenza, il dato meraviglioso, stupefacente, prende il sopravvento, come nella bellissima Storia di san Pietro da Verona che appar- tenne alla Collezione Lafontaine di Parigi. Un piccolo pittore, che si svolse accanto ad Antonio (e che, nono- stante i limiti delle sue capacità mentali ed espressive, è spesso piú vivace e piú svincolato) aiuta ad individua- re con una certa qual sincerità, intenzioni e preferenze dell’ambiente vivarinesco in questa fase, verso il 1450. È l’autore di svariati dipinti su tavola, di cui i maggio- ri, con la Storia di Elena si trovano nella Walters Art Gallery di Baltimora. Tra essi, quello con il Ratto di Elena mostra un Tempio di Venere il cui altare (esem- plificato su un modello affine a certi disegni di Jacopo Bellini) è collocato all’interno di una curiosa struttura, con la facciata aperta da un arco sorretto da colonne pseudocorinzie e serrata da due lesene classiche e con la parete di fondo non dissimile da quella di una chiesa o di una cappella del primo Quattrocento. Nessun rap- porto esiste tra l’altare cilindrico e il pavimento accura- tamente descritto nella fuga prospettica; le figure, nono- stante gli atteggiamenti vivaci (si veda la dama a destra, con il braccio piegato e con il gomito sporgente) sono comparse senza una struttura interna, elementi cioè di un décor accuratamente descritto specialmente nelle fogge e nelle acconciature. Tralasciando il secondo dei Vivarini, Bartolomeo (che appartiene ad una varietà minore dello squarcionismo, come fu la cerchia di Mura- no), ci sarebbe da sottolineare la straordinaria varietà con cui il Rinascimento umbràtile si realizzò nell’area veneta, in quella friulana, in Istria e in Dalmazia, gra- zie ad una molteplice serie di formule (a volte sofistica- te, molto spesso povere e monocordi) tutte in rapporto a specifiche congiunzioni tra cultura figurativa, condi-
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zioni politiche e momento economico. Mai, in tali epi-
sodi (che possiamo definire di color locale) si avverte quella speciale inclinazione di nessi mentali grazie ai quali è lecito fare il grande passo, che conduce dalla fan- tasia alla ragione, dal frammento all’unità, o, se si vuole, dal sogno all’autocoscienza. A Venezia, tale passaggio avvenne in Giovanni Bellini; è verosimile, ma non certo, che a rivelargli la prospettiva ragionata fosse Piero della Francesca, certo invece che (dopo aver esordito con forme pararinascimentali, come nel San Girolamo di Bir- mingham) il Bellini assorbí i dati essenziali dell’arte di Donatello e di Andrea Mantegna. E infine, fu l’arrivo di Antonello da Messina a Venezia, nel 1475, a defini- re le leggi di una equazione tra prospettiva, struttura anatomica e luce grazie alla quale la pittura veneta assun- se un ruolo determinante nel contesto della percezione visiva in Italia e in Europa. Il quesito essenziale che con- cerne Antonello è il suo rapporto con la pittura fiam- minga; luogo e date di tale incontro appartengono anco- ra al novero dei problemi, sebbene appaia oggi verosi- mile che il pittore messinese abbia avuto modo di vede- re dipinti del nord Europa in due diverse occasioni, di cui la seconda lo pose davanti alle tavole di Petrus Chri- stus; e, nei rispetti di quest’ultimo, le somiglianze sono tali da porre in forse (almeno in certi casi, come per la tavola ex Holford oggi nel Los Angeles County Museum) la decisione in pro di Christus o di Antonel- lo, lo spostarsi dell’ago attributivo verso le Fiandre o verso l’Italia. Fu Antonello, supremo rappresentante del razionalismo figurativo nel Quattrocento, ad allar- gare il respiro della pittura veneziana: nel suo principa- le seguace a Venezia, Jacometto, la specificazione fisio- nomica, il rapporto forma-luce, l’indagine della struttu- ra interna del soggetto raffigurato, sono tutti elementi che alludono in senso nordico, verso il creatore della pit- tura nelle Fiandre, Jan van Eyck. È dal Giovanni Belli-
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ni «antonellesco» (o, se si vuole, anche «pierfrancesca-
no») che sorge, nell’ultimo decennio del secolo, quel fenomeno unico che è Giorgione: pittore tra i piú sin- golari, anche per aver saputo sposare forme descritte razionalmente con temi desunti da un Umanesimo pro- penso all’occulto, al misteriosofico, al logogrifo. Ma il razionalismo visivo, pittorico, era pervenuto a tal punto di ricchezza tecnica e di mestiere da potersi permettere di accogliere, nella sua tematica, spunti culturali e men- tali di qualsiasi genere, senza, con ciò, deviare.
Mi auguro che da questo breve e necessariamente
mutilo excursus risulti la difficile strada percorsa dal razionalismo rinascimentale; e risulti anche l’area ristret- ta in cui fiorí, tra deviazioni e traduzioni rovesciate, in mezzo ad un humus mentale e culturale che poco era disposto a comprenderne il vero senso. Avrei potuto sot- tolineare che Rinascimento umbràtile o Pseudo-Rinasci- mento, potrebbe anche essere definito come un innesto di aspetti rinascimentali su di un tronco gotico. In un certo senso, ciò è vero; ma è anche vero che l’aggettivo gotico dice troppo o troppo poco. Esso è valido soltan- to come Gotico Internazionale, cioè come denominazio- ne di quello stile cosmopolita che tenne campo nell’Eu- ropa occidentale tra la fine del Tre e i primi decenni del Quattrocento (con una durata di vita che variò da luogo a luogo e da regione a regione). Di nessun significato è invece il gotico inteso come modo di esprimersi nelle arti figurative nel periodo anteriore al Rinascimento (anche questo inteso in modo assai vago e generico). In realtà, il cosiddetto Gotico è l’etichetta generica applicata ad una miriade di formule artistiche, di situa- zioni culturali, di tradizioni figurative, formule che rispecchiano la frammentazione secondo cui l’area del- l’Impero Romano di Occidente (e le zone del centro e nord Europa acculturate con la conversione al Cristia-
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nesimo) erano giunte alle soglie dell’età moderna. Son
tutte formule basate su un’interpretazione fantastica della realtà oggettiva e sulla sua resa nel campo figura- tivo; il loro percorso è imprevedibile e molto spesso tor- tuoso. Al contrario, la linea del razionalismo artistico rinascimentale segue un itinerario coerente, anche nei suoi epigoni. I Fiorentini, attraverso Piero della Fran- cesca e Raffaello, sono all’origine del Classicismo, che (nonostante temporanee eclissi) non è ancora defunto; dai Lombardi, per via della Scuola di Brescia e del Cara- vaggio, ha avuto origine il Realismo; e dai Veneti, con Tiziano, ha preso l’avvio la pittura intesa come materia e come colore, il percorso cioè che conduce a Goya, agli Impressionisti e alla dissoluzione della forma chiusa. Gli episodi, anche se ricchi e numerosi, dello Pseudo- Rinascimento, sono rimasti allo stadio di meteore, che non hanno avuto alcun seguito (salvo, in alcuni casi, come antefatti piú mentali che formali del Manierismo).
Luca Siracusano, “Egli supererà ogni aspettatione”. Il giovane Girolamo Campagna fra il collezionismo d'oltralpe e la basilica del Santo, in “Nuovi Studi”, XVIII, 2013 (2014), 19, pp. 123-144
Luca Siracusano, 9. “Cose tutte piene d’invenzioni, capricci e varietà”. Proposte per Tiziano Minio a Padova e altrove, in “Nuovi Studi”, XVI, 2011 (2012), 17, pp. 79-97