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Storia medievale
TEORIE SULLA FINE DELL’IMPERO ROMANO OCCIDENTALE: Nel XVII sec lo storico
Gibbon scrive una prefazione sulla storia della decadenza romana e indica il periodo
tra il II e il V sec DC come l’inizio del declino dell’impero occidentale. Nel ‘900
Walbank teorizza l’evento come l’inizio di una tremenda rivoluzione, ma la sua
analisi risente fortemente della crisi dell’impero zarista a lui contemporanea. Questo
a indicare che molti storici sono influenzati, quando parlano di momenti storici, dalla
esperienza personale. Momigliano vede alla decadenza romana come all’archetipo
della decadenza, modello di comparazione per le crisi contemporanee.
476: Convenzionalmente è indicato come l’inizio del medioevo, nel 1492 Bernardo
Giustiniani scrive “le storie dei Veneti”, dove viene indicata per la prima volta la
suddetta data come tale. Nel XIX sec viene canonizzato il 476 da Gregororius, grande
storico romano, come fine di un’epoca; lo stesso affermò che la crisi romana aprì ai
principi di libertà portati avanti dai popoli germanici e diffusi poi in tutta Europa,
determinanti per la formazione degli stati nazionali. Momigliano scrive “la caduta
senza rumore”, dove pone l’attenzione sul fatto che nelle fonti antiche la
deposizione di Romolo Augustolo non venne avvertito come un atto epocale,
almeno nell’immediato; soltanto col tentativo di riconquista dell’occidente da parte
di Giustiniano (guerra greco-gotica), più di 50 anni dopo, ci si rende effettivamente
conto dell’importanza del 476. E’ un crollo che riguarda solo l’occidente, l’impero
continua a esistere a Bisanzio fino al 1452. Il Cristianesimo contribuisce
all’edificazione del mito della decadenza romana (specialmente per quanto
concerne l’esperienza imperiale costantiniana), ponendolo su un piano
provvidenzialistico.
SACCO DI ROMA: Rispetto al 476, il sacco di Roma del 410 è avvertita con molta più
gravità dalle fonti contemporanee: San Girolamo, Sant’Agostino, Paolo Orosio,
personaggi connessi agli enti ecclesiastici e quindi autori di descrizioni filtrate dalla
lezione cristiana, elemento che bisogna ricordare. Paolo Orosio, ad esempio,
raccoglie tutte le informazioni sui disastri analoghi compiuti da Roma stessa, a
dimostrazione che, al contrario di come affermavano i pagani, non si trattò di un
evento da collegare all’ira degli dei per l’abbandono del paganesimo a favore del
cristianesimo.
STORICI CONTEMPORANEI: Una serie di storici vissuti tra la 2 metà dell’800 e la 1 del
‘900 riteneva inaffidabili gran parte delle fonti narrative dell’antichità, in quanto
soggettive, soffermandosi perlopiù sulla storia politica; più si allarga l’idea di storia,
comprendendo anche gli elementi culturali e sociali, più saranno le fonti consultabili
e confrontabili: è un concetto, che si sviluppa nel corso di tutto il ‘900, molto
differente da quello portato avanti dalla scuola di storici sopra citati, che erano soliti
monachesimo, nato in oriente come forma di vita cristiana che prevedeva il distacco
dalla società, e che si rivelerà una delle forze più vive nel medioevo. Quello cristiano
si sviluppò in Egitto nel III secolo, ma una forma ascetismo “moderato” si vide con la
nascita del cenobitismo ad opera di Pacomio, che portò alla formazione dei
monasteri, promossi anche da Basilio, vescovo di Cesarea ai quali indirizzò le sue
Regole, serie di indicazioni per cristiani che vivevano in comunità. Grande apporto
per la diffusione occidentale fu dato da Gerolamo, esponente di nobile famiglia che
visse da eremita nel deserto di Calcide e, tornato a Roma, fu punto di riferimento di
vari gruppi cristiani prima di esser costretto ad abbandonare la città; in Gallia l’isola
di Lérins, nella quale (410) venne fondato un monastero dove i più giovani vivevano
assieme e gli anziani erano isolati nelle loro celle, ebbe notevole risonanza. Poco si
sa dello sviluppo del monachesimo in Irlanda; certamente la mancanza in Bretagna
di città rese difficile la creazione di una rete di vescovadi, per cui furono gli abati a
fare le loro veci e ad assumere la direzione delle chiese locali. Il monachesimo
benedettino è stato, per molti secoli, ritenuto il padre di tutti i monachesimi; da
studi storiografici sappiamo però che la sua “Regola” (scritta tra il 530 e il 560) trae
forte ispirazione dalla “regola del maestro” (scritta attorno al 500-530) e non il
contrario come si credeva; ciò non elimina i demeriti di un’opera che avrà
ampissima diffusione nell’VIII sec e che insegnerà ai monaci un più equilibrato
rapporto tra vita attiva e contemplativa (ora et labora).
BARBARO: Termine col quale i romani intendevano popolazioni dalla lingua
incomprensibile, nel tempo ha assunto connotazioni negative, e tuttora le possiede.
E’ utilizzato dalla stragrande maggioranza degli storiografi europei per parlare di
coloro che causarono le invasioni barbariche, che gli storiografi tedeschi prediligono
invece chiamare “migrazione di popoli”. Felix Dahn, esperto di storia degli ostrogoti,
scrive il romanzo “una notte per Roma”, nel quale narra dello scontro tra germanici
(ostrogoti) e latini (romani), e si conclude col salvataggio degli ostrogoti
sopravvissuti da parte dei vichinghi; il libro è pregno di convinzioni ideologiche che
Dahn esprime in qualità di romanziere, non potendo permetterselo quando doveva
svolgere il ruolo di storico. L’opera, infine, esprime la previsione del ritorno di questi
popoli nel suolo.
CESARE E TACITO: Cesare distingue i galli, i quali territori aveva sottomesso, dai
germani nel suo “De bello gallico”: dalle sponde orientali del Reno in poi per il
generale era terra germanica, ma non dà dei confini precisi, che restano quindi
vaghi, non delineabili. Tuttavia, l’opera di Cesare ci permette di delineare alcune
caratteristiche celebri dei barbari: costumi semplici, stile di vita guerresco. Tacito (98
DC) dedica un’opera (“L’origine e la collocazione dei germani”) alla popolazione,
romani. Walter Pohl sostiene che sia più corretto parlare di regni post-romani più
che di regni romano-barbarici, in quanto le istituzioni che si costituiranno lo faranno
nel pieno rispetto dell’ordinamento giuridico romano; persino il sistema fiscale
rappresenterebbe un elemento di continuità degli usi dell’impero tardoromano. A
poco a poco si è perciò affermata nella storiografia la consuetudine di parlare di
popoli “barbarici” e non germanici, per il ruolo di Roma nell’offrire loro mezzi di
sostentamento, ricchezze, simboli di status, modelli culturali e religiosi; per la
determinante presenza al loro interno di provinciali romani e di nomadi dell’est.
CONTINUITA’ COI ROMANI: Gallia, in Iberia e in Africa, nel V e nel VI secolo, le città
conservarono il loro ruolo di centri ordinatori delle realtà territoriali locali. Anche
le élites sociali continuarono a essere costituite, in buona parte, da famiglie di
origine romana. Significativamente, fino al 570-580, i re barbari non batterono
moneta aurea a proprio nome, ma a nome degli imperatori di Bisanzio. Anche la
produzione legislativa fu all’insegna della continuità, come dimostra la Lex Romana
Visigothorum, promulgata da Alarico II nel 506 – nell’alto medioevo, uno dei testi
fondamentali per la trasmissione della cultura giuridica romana. Analoga ispirazione
ebbe anche la Lex Romana Burgundiorum, emanata dal re Gundobado (467-516). Gli
storici discutono se tali leggi avessero carattere territoriale oppure personale. Nel
primo caso, esse riguarderebbero tutti gli uomini residenti in un determinato
territorio; nel secondo, solo coloro che appartenevano alle genti che le avevano
promulgate (Visigoti, Burgundi ecc.), mentre i Romani sarebbero rimasti sottoposti
alle proprie leggi. A partire dagli studi pioneristici di Alfonso García-Gallo sui Visigoti
(1941), la tradizionale interpretazione del diritto barbarico in termini di personalità
del diritto ha progressivamente perso terreno rispetto a una sua lettura in chiave
territoriale.
OSTROGOTI: Teodorico mosse dalla Moesia inferior (odierna Bulgaria) alla conquista
dell’Italia nell’autunno del 488, incoraggiato dall’imperatore d’Oriente Zenone, che
gli conferì il titolo di patricius, cioè di difensore della città di Roma e di governatore
dell’Italia e della Dalmazia. Vinto e ucciso Odoacre (493), pose la sua residenza a
Ravenna, dove si fece proclamare rex del suo esercito. Per poter governare anche i
Romani chiese e ottenne (498) da Costantinopoli la vestis regia. Teoderico, che
aveva soggiornato a lungo a Costantinopoli, collocava quindi il proprio rapporto con
l’impero nel quadro di un sistema di valori e di prerogative condivise. Gli Ostrogoti si
distribuirono sul territorio italico, in modo ineguale, concentrandosi soprattutto
nelle regioni settentrionali, a difesa della frontiera alpina. L’insediamento avvenne
secondo il principio della hospitalitas, vale a dire dell’acquartieramento militare,
tradizionalmente applicato dall’impero ai propri foederati, che prevedeva la
concessione di un terzo delle terre per il servizio prestato. Secondo Walter Goffart,
in realtà agli Ostrogoti non sarebbero state cedute terre, ma sarebbe stata concessa
solo una quota dell’imposta fondiaria, la tertia, già versata dai possessores
all’impero. I domini ostrogoti comprendevano l’Italia e la Sicilia, le province retiche e
noriche, la Pannonia, la Dalmazia e, dal 508, la Provenza. Gli Ostrogoti, non
diversamente da Odoacre, scelsero la strada della convivenza tra l’elemento
barbaro, che si riservava il diritto di detenere in forma esclusiva la forza militare, e i
quadri eminenti della società romano-italica, nelle cui mani, almeno inizialmente,
restava il potere economico e politico-amministrativo.
Tale coesistenza riguardò anche:
il diritto: imperiale per i romani, le antiche consuetudini nazionali orali
(bilagines) per i goti;
il credo religioso: cattolico per i romani, ariano per i barbari.
Teoderico osservò massimo rispetto per il Senato romano e accolse nel consiglio del
re, accanto ai capi militari ostrogoti, numerosi esponenti dell’aristocrazia senatoria:
Boezio, Cassiodoro, Simmaco.
FINE REGNO E PROVENIENZA: 50 anni dopo Romolo Augustolo, quindi, gli assetti
territoriali, sociali, e politici erano all’insegna della continuità, in occidente.
Successivamente, si assiste a una lenta regionalizzazione del territorio dell’ex impero
occidentale: durante gli ultimi anni di Teodorico, l’aggressività dell’impero orientale
in occidente e la conseguente loro persecuzione agli ariani spinse il re goto a
perseguitare a sua volta i cristiani, rei di collusione con l’impero orientale. Alla morte
di Teoderico (526), si aprì uno scontro interno al ceto dirigente ostrogoto, che
provocò l’intervento di Giustiniano (535) in Italia e la fine del regno, dopo una
devastante guerra. Gli ostrogoti vengono rappresentati e descritti, tra ‘800 e ‘900,
come germani; le fonti antiche greche e latine sottolineavano invece sulle loro
connotazioni orientali. La lingua da loro parlata venne individuata come
protogermanica, e la conosciamo grazie alla traduzione della bibbia da parte del
vescovo Ulfila (IV sec).
FRANCHI: costruirono la propria dominazione nella provincia gallo-romana, tra le
regioni più fortemente romanizzate dell’impero. Al momento delle grandi invasioni
del V secolo erano già stanziati, come foederati, nei territori lungo le due sponde del
Meno e il corso settentrionale del Reno. A dare unità politica all’insieme eterogeneo
delle tribù franche fu tuttavia solo re Clodoveo (481-511), discendente da Meroveo,
il leggendario re eponimo della dinastia. Clodoveo riuscì a espandere notevolmente
il regno dei Franchi, ai danni del generale romano Siagrio, di Turingi, Alamanni,
Burgundi e Visigoti. Clodoveo, per governare i territori conquistati, seppe avvalersi
della collaborazione dell’aristocrazia gallo-romana, laica ed ecclesiastica. Per
rafforzare i rapporti con l’episcopato e con la chiesa di Roma, indusse i Franchi ad
abbandonare il politeismo e a convertirsi al cattolicesimo di credo niceno, avviando
GIUSTINIANO E IL DIRITTO: Giustiniano regnò per circa quarant’anni, dal 527 al 565,
e sposò Teodora; nel 528 il nuovo imperatori costituì una commissione preseduta
dal giurista Triboniano, che dovette predisporre una raccolta di costituzioni
imperiali: nello stesso anno apparve quindi il Codex Iustinianus. Nel 533 l’imperatore
fece pubblicare il Digesto o Pandette, una raccolta degli scritti dei giureconsulti
(esperti di diritto) più illustri, e nello stesso anno apparvero anche le Istitutiones,
fondamentali principi giuridici ad uso degli studenti. L’insieme di tutte queste opere
rappresentano il Corpus Iuris Civilis, che è il tramite fondamentale attraverso cui il
diritto romano è giunto fin dalla nostra epoca; il testo originale di Giustiniano è
andato perduto, abbiamo frammenti di esso a partire dall’XI/XII secolo, ma è nel XIX
secolo che si formula l’edizione di oggi, a cura di Mommsen e Kruger.
PRAGMATICA SANCTIO: del 554 su richiesta di papa Virgilio, rappresenta
l’emanazione del corpus iulis civilis in Italia, tra l’altro l’unico territorio occidentale
nella quale ciò avviene (fuori dalla penisola, c’erano le milizie federate nelle quali
persisteva gran parte della Lex di Teodosio). Stabiliva la suddivisione del territorio
italiano in prefetture del pretorio, guidate da duchi; all’interno di esse si trovano le
diocesi, divise a loro volta in provinciae. La struttura amministrativa non coincideva
però con la nuova situazione sociale nella quale si trovava la penisola: la divisione
tra amministrazione civile e militare presente nella sanctio appariva distante dalla
realtà, in quanto l’Italia era uno stato ancora militarmente precario e il potere
militare, esercitato dai duchi, era più forte di quello civile. Anche la distinzione tra
latini e goti non aveva senso, Giustiniano voleva riconsegnare ai patrizi i loro territori
originali ma molti di questi erano scomparsi, mentre i goti si erano perfettamente
integrati nella società italica. I vescovi nelle città avevano più rilevanza politica
rispetto ai funzionari bizantini, e le scuole gestite dai vescovi e i monasteri avevano il
controllo dell’educazione dei giovani. Nelle città i vescovi avevano anche il compito
di risolvere le controversie, senza che le parti si rivolgessero al tribunale. Nello
stesso tempo si mise in piedi un apparato fiscale capillare volto a fornire all’impero i
mezzi per la sua politica espansionistica. Esso ebbe però l’effetto di generare nella
popolazione nostalgia per il passato regime politico, creando le premesse per
l’invasione longobarda.
FIGURA DI GIUSTINIANO: Nel corpus iulius civilis si definisce “legge vivente innata”:
in lui è presente l’ispirazione divina, e fonda il diritto in quanto suggerito da Dio. Si
assiste quindi a un processo di sacralizzazione dell’imperatore e non solo, anche
degli addetti alla formulazione del diritto. Due immagini chiariscono bene la
duplicità della sua figura: nell’Avorio Barberini (VI Sec), è rappresentato
nell’abbigliamento del generale vittorioso, in modo simile alle figure dell’iconografia
classica romana, mentre nel mosaico presente nella basilica di Ravenna l’imperatore
è raffigurato nel gesto di offrire il pane da consacrare in messa, la sua presenta
occupa il centro della scena e ha la testa circondata dall’aureola, simbolo delle
persone ritenute sacre. Le due rappresentazioni sono rivelatrici delle due anime di
Giustiniano, una ispirata alla romanità classica e l’altra ai principi cristiani, entrambe
all’origine della formulazione del Corpus Iulius civilis.
CRISI IMPERIALE: Costantinopoli aveva raggiunto il mezzo milione d’abitanti, circa un
terzo era plebe che, se da un lato era tenuta a bada da distribuzione gratuita di
grano, dall’altra comportava una frequente minaccia che portò a rivolte per fame e
una congiura fallita nel 562. Gli attacchi di slavi prima e arabi poi costrinsero
l’impero a rinunciare al sogno di riunificazione con l’occidente per concentrarsi sulla
difesa dei territori orientali minacciati, mentre, dopo pochi anni dalla morte di
Giustiniano, i territori di Spagna e Italia venivano perduti.
SLAVI: Dall’origine etnica poco chiara (si rede l’attuale Polonia, Slovacchia e
Ucraina), è certo che avessero una precisa identità linguistica al loro arrivo
nell’Europa centrale, per poi affievolirsi nella divisione tra slavi occidentali (polacci,
cechi, slovacchi) e orientali (russi, ucraini); nel VI sec giunsero nei territori dei
Balcani bizantini, che, occupati contro persiani prima e arabi poi, non potettero
impedire la loro occupazione. Il successivo tentativo di riconquista bizantino nell’VII
passò anche attraverso l’opera di evangelizzazione dei popoli slavi, con la
differenziazione tra slavia ortodossa e slavia romana (convertiti da Roma).
RIORGANIZZAZIONE E GUERRA COI PERSIANI: La sopravvivenza di Bisanzio fu
possibile grazie a un’opera di riorganizzazione dell’impero da parte di Maurizio
prima (582-602) e Eraclio poi (610-641). Il primo mise le province di Africa e Italia
nelle condizioni di difendersi autonomamente, gestite da esarchi; dopo la morte di
Maurizio ad opera di Foca, questo prese il potere e ci fu un periodo di crisi culminato
con la conquista dei persiani delle città di Antiochia, Gerusalemme ed Alessandria
d’Egitto. Deposto Foca, il nuovo imperatore Eraclio divise l’Africa in “themi”, a capo
di strateghi (avverrà piu avanti anche in Italia), col compito di radicare i soldati nel
territorio, del quale erano sia colonizzatori che proprietari; attorno al 630 sconfisse i
nemici, conquistando la capitale Ctesifonte mentre Costantinopoli resisteva
all’assalto persiano, e costringendoli a un trattato di pace. Nel 638 si accordò col
patriarca di Costantinopoli per la formulazione una nuova dottrina, il monotelismo,
che venne prima accolta positivamente a Roma e poi screditata dai papi successivi.
La questione restò aperta fino al 680, anno nel quale un concilio la condannò, ma
bisogna sottolinearla perché rappresenterà il motivo per il quale i monofisiti,
confidando sulla tolleranza religiosa islamica, lasceranno passare gli arabi in Egitto.
collegava lo Yemen a Gaza, passando per la Mecca, che divenne tra le più importanti
città arabe del V sec, grazie alle capacità politiche dei capi della tribù Quraish: questi
ne fecero un centro commerciale e religioso, riunendo tutte le divinità arabe nella
Kaaba, santuario a forma di cubo costruito da Abramo dove si conserva la pietra
nera (un asteroide in realtà), portato dall’arcangelo Gabriele.
MAOMETTO: La famiglia di Maometto era rilevante alla Mecca, il nonno aveva il
compito di distribuire l’acqua ai pellegrini. Nel 610, secondo la tradizione
musulmana, gli apparve l’arcangelo Gabriele che gli annunciò di essere l’apostolo di
Allah; nel 613 diede inizio alla predicazione, che puntava a far riconoscere Allah
come unico vero Dio e far fare atto di sottomissione (islam) alla sua autorità. Ciò
portò alla reazione dei quraishiti, che spinse Maometto nel 622 a fuggire da la
Mecca, rifugiandosi in quella che poi prenderà il nome di Medina (“città del
profeta”). Questa fuga (égira) è considerata dai credenti come l’inizio di una nuova
era (difatti il calendario islamico comincia dal 16 luglio 622). A Medina riuscì a creare
una folta comunità convertendo gli arabi politeisti, e nel 624 sostituì La Mecca a
Gerusalemme come punto di orientamento per la preghiera, decisione che mostrava
come la nuova religione mirasse a consolidarsi nella tradizione araba;
contemporaneamente, istituì il digiuno nel mese di ramadan in ricordo della
rivelazione, che egli ebbe in quel mese. Gli attacchi del suo gruppo alle carovane che
si muovevano tra la Mecca e l’Egitto costituivano una costante minaccia per i
quaraishiti che furono costretti a convertirsi aprendo a Maometto le porte della città
nel 630. Il pensiero del profeta fu fissato nel Corano una ventina d’anni dopo la sua
morte (avvenuta nel 632); secondo i fedeli, il Corano dovrebbe dare una risposta ad
ogni interrogativo umano, ma fu presto chiaro che ciò non era possibile, si fece
ricorso perciò alla sunna, ossia la tradizione relativa al comportamento di Maometto
in vari frangenti, raccolta dai suoi più diretti discepoli.
POST-MAOMETTO: Alla morte del profeta insorsero contrasti tra i fedeli per la
designazione di un “sostituto” (khalifa, califfo); la scelta cadde su Abu Bakr, tra i
primi seguaci nonché suo suocero. Alcune tribù beduine non riconobbero la sua
autorità, la risposta del califfo non si lasciò attendere, riprendendo in fretta il
controllo totale della penisola e lanciando le sue truppe in direzione di Iraq e Siria
nel 633 e 634, quest’ultimo anno della sua morte, che riaprì la questione della
successione, resa difficile dalla violenza che portarono all’assassinio dei 3 successivi
califfi. La tensione culminò in rottura con l’ascesa al califfato di Ali, genero di
Maometto il quale stabilì la sede a Kufa, Iraq; deposto sulla base di una sentenza che
lo ritenne colpevole dell’omicidio del suo predecessore, si mantenne in armi coi suoi
seguaci, detti sciiti (da shia, partito), in contrapposizione al resto dei musulmani,
detti sunniti in quanto rispettosi del Corano. La morte di Ali nel 661 segnò l’adozione
di una forma organizzativa più complessa nel sistema islamico. L’uguaglianza
prevista dal libro sacro tra i musulmani era teorica, in quanto acquisirono egemonia
in poco tempo i primi compagni di Maometto, e alla morte di quest’ultimo i clan
familiari, la quale influenza il profeta era riuscito a ridimensionare in nome della
comunanza di fede. Inoltre, i non arabi convertiti all’islamismo si trovarono in un
piano di inferiorità, in quanto soggetti (mawali, clienti) alla protezione di un capo
tribù, ed ebbero il divieto di reclutamento nell’esercito fino all’VIII sec. I cristiani ed
ebrei (detti dhimmi) conservarono la loro religione in cambio di una serie di imposte
non elevate, per cui la dominazione araba veniva talvolta accolta addirittura di buon
grado. A capo di ogni provincia fu posto un governatore (amir, emiro), assistito da
un corpo di guardie e da un responsabile del diwan, l’apparato finanziario.
DINASTIA OMAYYADE: La gestione di territori così estesi comportò il rafforzamento
del ruolo del califfo, che, a partire dalla dinastia Omayyade (660-750) divenne
ereditaria; la stabilizzazione del potere su base dinastica coincise con la ripresa
espansionistica: la capitale divenne Damasco (Siria), mentre gli sciiti si mantennero
in armi in Iraq, ciò non limitò l’avanzata militare, che si mosse inizialmente verso
Costantinopoli, senza riuscire a prenderla (ultimo attacco 718), a quel punto si puntò
alle isole di Cipro, Creta e Rodi, conquistandole e diventando padroni del
mediterraneo occidentale. Nel frattempo, in meno di 50 anni venne conquistata
l’Africa settentrionale, nonostante la resistenza dei Berberi, guidati da una
profetessa, la Kahina. Sconfitti e convertiti, manterranno spirito di autonomia,
aderendo al movimento dei Kharigiti per uguaglianza tra i musulmani. Nel 711
giunsero in Gibilterra (“Gebel”, Monte ed “El Tarik”, nome del comandante arabo), e
conquistarono la Spagna in 5 anni, passando poi in Gallia, dove persero a Poitiers nel
732. Nonostante ciò mantennero il controllo di Provenza e Linguadoca prima di
ritirarsi in Spagna, mentre i califfi omayyadi raggiungevano nel 714 il bacino
dell’Indo. Anche in queste terre la conversione fu rapida, ma la convivenza si rivelò
più difficile, per la concentrazione delle terre nelle sole mani dei dominatori arabi.
DINASTIA ABBASSIDE: La situazione mutò nel 747 in seguito a un’insurrezione degli
Abbassidi, pretendenti del califfato in quanto discendenti diretti di al-Abbas, zio di
Maometto. Impadronitisi del potere, spostarono la capitare in Iraq, dove nel 762
venne fondata Baghdad, e nello stesso tempo riorganizzarono la figura del califfo,
considerato rappresentante di Dio in terra e quindi al di sopra dei comuni mortali. Il
potere effettivo si andò concentrando negli alti funzionari, tra questi il visir, al quale
faceva capo l’amministrazione centrale statale; novità si presentarono anche nel
reclutamento, che passò sotto il controllo non più delle tribù ma di capi militari
(amir), che spesso si mettevano alla testa di movimenti secessionistici, per questo
motivo fu istituito un capo supremo dell’esercito, al di sopra anche del visir. Tutto
ciò si ricollegava a un processo tendente ad affermare l’uguaglianza di tutti i
musulmani, riducendo l’influenza dei clan familiari e degli arabi. Forte mezzo di
unità culturale fu la lingua araba, che venne utilizzata per sviluppare anche le arti e
le scienze, con l’apporto fondamentale che essa diede nel campo della matematica e
della geografia. Dal punto di vista economico, grande sviluppo ebbe il settore
agricolo, anche se la civiltà araba è da considerare civiltà urbana, visto l’incredibile
incremento demografico che ebbero le loro città. Infine, da ricordare il ruolo
egemone che acquisirono i commercianti, che resero luoghi come Baghdad e
Alessandria d’Egitto grandi centri di consumo e di scambi.
DEBOLEZZE ARABE: Elementi di debolezza si manifestavano negli squilibri sociali
sempre più schiaccianti: la concentrazione di terre nelle mani degli alti funzionari
statali comportava privilegi fiscali per loro, ma ai danni di piccoli proprietari, che
erano costretti a vendere loro le terre, comportando lo spopolamento delle
campagne e la formazione di gruppi sempre più consistenti di miserabili nelle città.
Ma ciò che mise realmente in crisi l’impero furono le varie spinte autonomistiche,
nel corso del tempo sempre più incontrollabili, così già nel X secolo il califfo fu
rivendicato sia dalla dinastia dei Fatimiti (che controllavano Africa del Nord, Siria e
Palestina) sia dall’emiro di Cordova, discendente dell’unico superstite omayyade
sfuggito al massacro operato dagli Abbassidi, che si era rifugiato in Spagna e lì
proclamato emiro dalle truppe fedeli alla sua famiglia.
CALO DEMOGRAFICO EUROPEO: Fenomeno difficilmente quantificabile, per via degli
scarsi dati in possesso, tuttavia tutti questi convergono nel descrivere i secoli V-VIII
nostrani come periodo di grandi spazi vuoti tra un insediamento e l’altro. A ciò si è
arrivati attraverso un processo lungo cominciato dal II-III sec, e le popolazioni
germaniche non favorirono il ripopolamento in quanto giunsero in numero limitato
(gli ostrogoti che si insediarono in Italia sono valutati attorno alle 100.000 unità,
idem i longobardi); alle guerre si aggiunsero peste ed epidemie varie (come la
malaria, endemica nelle zone paludose), e le devastazioni longobarde a partire dal
568-569 peggiorarono una stima demografica che raggiunse i 2 milioni e mezzo di
abitanti nel VII sec, un terzo della popolazione del I sec.
CAMPAGNA: Con le città scomparse o quasi, gli abitanti provvedevano ai loro bisogni
alimentari mediante terre coltivate. La produttività era bassa, per via di una perdita
delle conoscenze tecniche accumulate in età romana; d’altra parte la scarsa
disponibilità di denaro da parte dei contadini li costringeva a produrre da sé quegli
utensili che non potevano permettersi di comprare al mercato, da qui anche una
diviso tra i figli. Già Carlo Magno, con la divisio regni dell’806, aveva destinato al
figlio Carlo la parte centrale del dominio, a Pipino l’Italia, e a Ludovico l’Aquitania,
ma la morte dei primi due fece sì che alla morte del Magno (814) l’unico erede fosse
l’ultimo, che dovette subire tuttavia le pressioni di Bernardo, figlio del fratello Pipino
dal quale assunse la carica di re d’Italia. Cercò di risolvere la situazione con
l’ordinatio imperii dell’817, in cui nominò il primogenito Lotario come suo unico
erede, attribuendo agli altri due suoi figli (Pipino e Ludovico) territori minori,
scatenando l’ira di Bernardo che fu imprigionato e accecato; è importante
sottolineare la rivolta del re d’Italia perché avvenne grazie all’aiuto delle sue
clientele vassallatiche, che assumevano perciò respiro regionale e non più imperiale.
Altre tensioni si susseguirono dalla nascita di Carlo il Calvo, figlio del Pio e della
nuova moglie Judith, che orientò la politica del marito in direzioni differenti
dall’ordinatio imperii; si giunse alla battaglia di Colmar (833) dove i figli nati dal
primo matrimonio sconfissero Ludovico e lo costrinsero alla deposizione del trono,
in un concilio nel quale dovette fare penitenza dei suoi peccati, ma riuscì appena un
anno dopo a riprendere il potere. Alla sua morte (840) un conflitto aperto vide
scontrarsi Lotario, Ludovico e Carlo (Pipino era morto), tre passaggi sono importanti:
battaglia di Fonrenoy dell’841, Lotario sconfitto dai fratelli; i giuramenti di
Strasburgo dell’842 sanciscono l’alleanza tra Ludovico e Carlo, la pace di Verdun
dell’843 che pone fine alle ostilità, e nella quale i fratelli spartirono l’Impero: a Carlo
andò il regno dei Franchi occidentali (l’attuale Francia, pressappoco), a Ludovico i
Franchi orientali (Germania, pressappoco), a Lotario una fascia intermedia che va
dall’Alsazia all’Italia. Dopo questo accordo, si rinunciò a un’idea di impero come
struttura unitaria, e si costituirono forme politiche di stampo maggiormente
territoriale. Con la morte di Carlo il Grosso (888) si sancisce la fine del dominio dei
carolingi, che tornarono singolarmente al trono in alcuni casi ma mai stabilmente.
CRISI CAROLINGIA: A partire dalla metà del 9 sec le divisioni dell’impero indussero a
una trasformazione nei rapporti tra i re e l’aristocrazia, che sotto Carlo Magno
avevano assunto duplice veste, i servizi militari che i grandi garantivano al re in
cambio di una sua concessione di benefici feudali e incarichi istituzionali. Ma in
questo periodo i re non disponevano più del gran numero di terre che Carlo poteva
garantire ai suoi vassalli, ergo l’equilibrio si era spostato in favore dell’aristocrazia e i
re cedettero alle loro richieste, sintetizzate specialmente nella possibilità di
conservare a vita il proprio incarico e trasmetterlo ai propri figli. Esempio di questa
prassi che andò man mano sviluppandosi è il capitolare di Quierzy (877), nel quale si
specifica che a un’improvvisa morte del conte il successore sarebbe stato deciso tra i
parenti di questo, dato che il figlio era in spedizione con l’imperatore e al ritorno ne
avrebbe preso il posto. Dal 10 sec notiamo come l’ereditarietà delle cariche favorì la
regionalizzazione dei funzionari, che d’altronde mostravano di essere più attenti alla
gestione delle aree in cui disponevano di terre, disinteressandosi delle zone di altre
dinastie.
INCURSIONI: Da fine 9 sec alla metà del 10 ci fu un’intensa mobilità di gruppi armati
che dall’esterno dell’impero partirono per incursioni e saccheggi in Italia, Francia e
Germania, oltre ad impegnarsi in un’operazione di conquista dell’Inghilterra. Queste
bande possono essere ricondotte a tre unità etniche: i normanni (originari della
Scandinavia), gli ungari (attuale Ungheria), e saraceni. Con questi ultimi ci troviamo
di fronte a vari gruppi etnici impegnati in attività piratesche via mare, e a fine 9 sec
aumentarono la loro pericolosità con la costruzione di basi permanenti, tra le quali
la più nota era Fraxinetum (baia di Saint-Tropez) dalla quale partirono una serie di
spedizioni che cessarono nel 972, quando il conte di Arles e il marchese di Torino si
allearono per distruggere la base saracena. Gli ungari effettuarono le proprie
incursioni in Germania e Italia settentrionale, combattendo a cavallo e arrivando a
saccheggiare luoghi come Pavia e la Lorena; si riveleranno poi preziosi alleati,
quando nelle lotte di potere in Italia nel 10 sec verranno assunti dai vari aspiranti al
trono per combattere al loro servizio. Sarà Ottone I di Sassonia a sconfiggerli a
Lechfeld (955) e porre fine alle loro incursioni; nei decenni successivi si avviò la
conversione degli ungari al cristianesimo e il regno divenne alleato della Germania. I
normanni erano popoli che viaggiavano armati sia per difendersi che per effettuare
atti di pirateria; se a est prevalse da dimensione commerciale, con la creazione di
insediamenti destinati a diventare luoghi di scambio (come il principato di Kiev, in
costante rapporto coi bizantini), in occidente prevalse l’azione militare, che può
essere divisa in 3 fasi: primi decenni del 9 sec, brevi incursioni in Inghilterra e
Francia; metà 9 sec, incursioni più decise che portarono all’attacco tra le altre di
Londra e Parigi; fine 9 sec, dalle incursioni si passa agli insediamenti, in Inghilterra e
nella Francia del nord, quest’ultimo riconosciuto dal re Carlo il semplice, che nel 911
diede vita al ducato di Normandia, che portò a sua volta alla cristianizzazione dei
normanni e a un’assimilazione del ducato agli altri principati francesi.
DIVISIONE REGNO, BORGOGNA: Dal 10 sec scomparve quasi del tutto l’attività
legislativa regia, i re intervenivano soprattutto attraverso la concessione di diplomi,
ampi poteri a un destinatario preciso (spesso chiese); in molte aree dovevano
limitarsi a constatare la forza delle aristocrazie locali, legittimandoli. In linea
generale, l’impero carolingio si divise in 4 regni: Borgogna, Italia, Germania, Francia.
La prima si affermò a fine 9 sec come territorio autonomo gestito dai Rodolfingi, in
parte della Francia e dell’attuale Svizzera francese; il dominio si estese alla Provenza,
con l’ascesa al trono del cugino Enrico II, che diede spazio a nuovi gruppi aristocratici
nelle cariche ducali.
FRANCIA: Anche per la Francia, l’888 lasciò spazio a nuove dinamiche per il possesso
della corona, che andò a Oddone di Parigi, anche se sopravvissero politicamente i
carolingi, tant’è che alcuni settori aristocratici scelsero di incoronare Carlo il
semplice, che alla morte di Oddone divenne unico re (898). Era un monarca debole,
deposto perciò dall’aristocrazia nel 922, che tuttavia evitò di far succedere il figlio
Ugo per scongiurare la creazione di una dinastia regia. Lo stesso Ugo il Grande
preferì nel far tornare dall’esilio il figlio di Carlo (Ludovico IV) e fargli assumere la
porpora (936), evitando perciò la sua incoronazione, atto che avrebbe suscitato le
ostilità degli altri principi. Ma nel frattempo l’importanza del suo ramo aristocratico
(i Robertini) crebbe e culminò con l’ascesa al trono di suo nipote, Ugo Capeto (987),
prese il via la dinastia capetingia, che conserverà la corona francese fino al 1328.
INGHILTERRA, SPAGNA: La tradizione politica inglese prevedeva un’alta
frammentazione del territorio, dal secolo 9 assistiamo alle incursioni normanne, che
portano al dominio dell’area centrale, e all’egemonia del Wessex, regno posto nella
parte occidentale dell’isola che riuscì a mantenersi autonomo dall’espansione
normanna, col culmine che si raggiunse sotto il principato di Alfredo il grande, che
arrivò a controllare tutti i regni inglesi non “normanni”, dominio che non durerà
molto, concludendosi alla morte del suo successore, il figlio Edoardo (924). Fu solo
all’inizio dell’11 sec che si costituì il regno inglese unitario, grazie al re norvegese
Knut, che nel 1016 arrivò ad affermare il controllo sul Wessex ergo su tutti i
principali regni inglesi. Knut controllava al contempo i regni di Danimarca e
Norvegia, consentendo integrazione tra i regni sul mare del Nord. Nel 1066 ad
ambire la corona inglese c’erano tre personaggi: Godwinson duca di Wessex, il re di
Norvegia Harald e il duca di Normandia Guglielmo. Fu incoronato il primo, ma subì
gli attacchi degli altri due, sconfiggendo Harald ma perdendo con Guglielmo ad
Hastings, battaglia che viene considerata momento di svolta della storia inglese. I
decenni successivi servirono all’integrazione tra aristocrazia normanna e inglese. In
Spagna la convivenza tra emiri e regni cristiani fu segnata da tensioni di fondo, ma
non diede vita a scontri militari, se non con piccole interferenze tra le diverse
dominazioni; solo alla fine del secolo 9 la reconquista assumerà forma strutturata,
organizzata dal papato, che raggiungerà risultati di rilievo a partire dal 13 secolo.
CLUNY: Nel 910 il duca Guglielmo d’Aquitania fondò l’abbazia di Cluny, rinunciando
a ogni forma di controllo su di essa (spesso chi fondava monasteri si riservava il
diritto di nominare gli abati). Pur muovendosi nella regola benedettina, i cluniacensi
ne diedero un’interpretazione personale, basata sulle preghiere (con specifica
attenzione a quelle per i defunti) che occupavano la massima parte del tempo dei
monaci e rappresentarono “merce di scambio” tra monaci e società: garantivano
benefici spirituali a quei settori aristocratici che sostenevano economicamente
l’abbazia. Nel giro di pochi decenni i cluniacensi acquisirono grande fama e già il
secondo abate fu incaricato di riformare antiche abbazie in declino; ma il connotato
più specifico dell’abbazia è la costruzione di una rete di monasteri che dovevano
tutti rispondere a Cluny: gli enti monastici che fonderanno saranno priorati, non
abbazie, differenza fondamentale in quanto secondo l’ordinamento benedettino il
vertice di un monastero era l’abate, assistito da un priore, e in questi nuovi enti
l’abate non c’era, perché l’unico era quello di Cluny. Il punto più alto dell’abazia si
raggiungerà con l’elezione del priore di Cluny, Urbano II (1088), a cui si deve la
proclamazione della prima crociata.
VESCOVI: Nello stesso secolo ci fu la formazione dei poteri vescovili nelle città,
indotti dagli ufficiali regi che si allontanarono dai centri urbani per concentrarsi sui
propri possessi fondiari nelle campagne, ma anche grazie a specifiche legittimazioni,
come il diploma concesso da Ottone I al vescovo di Parma (962), nel quale assunse
tutti i poteri spettante al conte, in quella che sembrerebbe una vera e propria
rinuncia del re ad esercitare il potere sul territorio. Tutt’altro, essa rappresentava la
reazione alla sempre più forte indipendenza che i conti stavano ottenendo, in
quest’ottica concedere poteri ai vescovi simili a quelli del conte significava limitare
l’egemonia di quest’ultimo in favore di personaggi facili da “gestire” (o quantomeno
non avevano eredi, ergo alla morte il potere concesso tornava al re). I diplomi
andavano spesso a legittimare processi avviati prima di essi, caso emblematico sono
gli arcivescovi di Milano, che nell’11 sec godevano di un’ampia clientela vassallatica,
ed esercitavano un influente potere politico, pur senza ottenere mai dall’Impero
alcun diploma che ratificasse tutto ciò. Le concessioni imperiali ai vescovi italiani si
concentrarono nell’età dei re sassoni per poi attenuarsi a metà dell’11 sec.
RIFORMA: Nome che prende il processo della chiesa cattolica romana a partire
dall’11 sec e che vide il recupero dei beni delle chiese e l’affermazione della natura
inalienabile delle cose sacre; si tratta di un programma lungo, difficile da imporre e
che causò un periodo di tensioni che culminò con lo scontro tra Enrico IV e Gregorio
VII. Spinta fondamentale fu data dai vescovi che nel secolo si impegnarono in una
serie di recuperi di terre e diritti dati in beneficio sui quali si era perso il controllo,
recupero che era condotto anche sul piano ideologico: si ribadiva la concezione
sacrale della funzione ecclesiastica, e quindi la necessità di rigore per il clero, dato
che i vescovi dovevano essere una guida per la società. Inizialmente questa riforma
era sostenuta dall’imperatore e dai vescovi del regno di Germania, soprattutto
durante Enrico III, che trovò un papato in balia dell’aristocrazia romana, tant’è che
quando scese in Italia erano stati eletti 3 papi contemporaneamente. L’imperatore
fece deporre tutti e 3 e nominò il vescovo di Bamberga, Clemente II, che sancì l’inizio
di una lunga serie di papi tedeschi, fedeli al re e convinti della necessità di una
radicale riforma della chiesa, impostata sulla lotta al nicolaismo (concubinato del
clero) e alla simonia (vendita di cose sacre e di cariche ecclesiastiche). Quest’ultima
era pratica diffusa fin dall’età carolingia, pagare per la carica era una forma di
ringraziamento per chi l’aveva assegnata, e non esistevano modelli alternativi, per
questo dovettero faticare per trasformare quella che era una pratica comune in
eresia. Un prete sposato era tollerato se accedeva al sacerdozio dopo il matrimonio,
e ancor più diffuso era il nicolaismo, che molto spesso portava i figli delle coppie ad
avere ruoli ecclesiastici garantiti.
PATARIA, SCISMA, ELEZIONE: Entrambi gli atti furono fermamente condannati
attraverso vari concili, e spesso i fedeli erano chiamati in causa nelle lotte tra
vescovi; in particolare Milano fu sede di un conflitto aspro tra i riformatori e il clero
locale, grazie ad Arialdo, chierico che riuscì a trascinare parte dei credenti in una
sollevazione violenta contro i preti indegni. La predicazione di Arialdo sosteneva la
nullità dei sacramenti impartiti dagli indegni, e i patarini tennero in scacco la chiesa
milanese anche dopo la sua uccisione. Le mediazioni fallirono e più il clima di
violenza aumentava, più venne a mancare l’appoggio pontificio, contrario alla
negazione del valore dei sacramenti dati dagli indegni, precetto che venne poi
dichiarato eretico. Nel 1053 si aprì una diatriba tra il patriarca di Costantinopoli
(Cerulario) e il papa (Leone IX): il primo invitava i vescovi occidentali ad
abbandonare pratiche da lui ritenute “giudaiche”, suscitando la reazione del
secondo che rispose prima con due lettere e poi con un’ambasciata di due cardinali,
che culminò con la scomunica del patriarca e la rottura tra le due chiese (1054).
Infatti, per il papa le altre chiese erano ridotte a serve di Roma, visione non
condivisa da Bisanzio; c’è da dire che da secoli seguivano riti e credenze diverse, e si
trattò di una divisione inevitabile. Qualche anno dopo lo scisma, si aprì la questione
dell’elezione del papa, che in assenza di procedure certe era sempre contestabile.
Ildebrando da Soana, nominato arcidiacono da Leone IX al servizio dei papi
riformatori, aveva acquisito sufficiente autorità per imporre come papa il vescovo di
Firenze, Niccolò II. Questo presentò un diverso sistema di elezione del papa, che
limitava il diritto di voto ai cardinali-vescovi (erano detti cardinali anche gli aiutanti
del papa nelle celebrazioni), riducendo l’influenza del clero romano, in favore di una
concezione dell’elezione papale maggiormente “universale”.
GREGORIO VII: Ildebrando diverrà papa nel 1074 col nome di Gregorio VII, e
proseguì nell’azione di riforma del clero, dovendo però prendere atto delle
resistenze alla sua missione: nel concilio di Elfurt del 1074 il clero locale accusò
Gregorio di essere eretico e di sostenere dogmi folli, mentre in Normandia il vescovo
che aveva provato a separare i chierici dalle donne con le quali convivevano fu preso
a sassate e dovette fuggire; l’opposizione dei vescovi tedeschi e francesi riguardava
anche l’ampiezza dei poteri che il papato rivendicava rispetto alle altre chiese.
Davanti a queste ostilità Gregorio rispose attaccando, nel concilio di Roma del 1075,
l’investitura imperiale dei vescovi (pratica utilizzata fin dall’età carolingia),
condannando l’intervento laico come indebita intromissione nelle cose sacre.
Gregorio rivendicò per la chiesa romana un’onnipotenza senza rivali, lo mostra bene
il Dictatus papae, lista di 27 tesi che elencavano i poteri esclusivi del papa, come
deporre i vescovi e addirittura gli imperatori; inoltre, nessuno poteva giudicarlo, in
quanto privo di imperfezioni. Dopo la deposizione del vescovo milanese, Gregorio
aveva nominato Attone come successore, ma Enrico IV nominò invece Tedaldo,
aprendo un contenzioso di lunga durata, che portò alla deposizione del papa nel
concilio di Worms (1076), e dell’imperatore nel sinodo romano dello stesso anno.
Una serie di concili portarono alla nomina di un nuovo papa da parte di Enrico,
Guiberto, e, dopo una tregua, a una nuova deposizione di Gregorio, che spinse
l’imperatore a scendere a Roma insediando Guiberto e costringendo alla fuga
Gregorio, salvato dai normanni e morto in esilio a Salerno.
FINE LOTTA INVESTITURE: I papi seguenti continuarono a sostenere la visione di
Gregorio, rinnovando il divieto di ricevere investiture laiche; papa Pasquale II aveva
raggiunto un accordo coi re di Francia e Inghilterra, che rinunciarono a eleggere i
vescovi, ma ciò non avvenne in Germania, dove Enrico V aveva prima accettato e poi
sconfessato il patto per la protesta dei vescovi tedeschi e italiani. Pasquale sospese
allora l’incoronazione imperiale, ma fu arrestato e costretto a riconoscere il diritto
dell’imperatore a investire di cariche ecclesiastiche. Tutto ciò porto agli accordi di
Worms (1022) tra Enrico e il nuovo papa, Callisto II, nei quali si specificò che, solo in
Germania, al pontefice spettava l’investitura spirituale, al re (che poteva presiedere
all’elezione vescovile) l’investitura dei diritti feudali (laici).
CHIESA E DIRITTO: La produzione normativa della chiesa nei decenni della riforma
era figlia dei numerosi concili che venivano eletti in quel periodo. Per mettere ordine
un maestro di nome Graziano intorno al 1140 mise insieme una raccolta di canoni
chiamata Decreto, opera che riuniva concili, lettere papali, e passi biblici riguardanti
il diritto ecclesiastico; il decreto rimase la principale compilazione del diritto
ecclesiastico studiata dai giuristi di chiesa, detti decretisti. Questi giudicavano su
tutto, partendo dal caso concreto ed agendo secondo equità: la decisione finale era
a discrezione del giudice. Alla fine del 12 sec si afferma l’inchiesta d’ufficio, che
partiva dalla “fama”, una voce su un delitto grave commesso dal prete e del quale
molti fedeli erano a conoscenza; questo delitto provocava l’allontanamento dei
credenti dalla chiesa e per questo l’ecclesiastico andava processato. Con la
procedura inquisitoria si potevano accusare tutti i gradi della gerarchia, anche i
vescovi, cosa che avvenne soprattutto sotto papa Innocenzo III (12-13 sec).
ORGANIZZAZIONE CHIESE, MONASTERI: Attorno alle cattedrali si costituirono i
capitoli, assemblee formate dai canonici (chierici al servizio della cattedrale) del
vescovo, che assunsero importanza politica rilevante. Simili erano le collegiate,
assemblee dei canonici delle chiese importanti (non cattedrali). Entrambe avevano
personalità giuridica autonoma e si posero alla guida della vita religiosa cittadina. La
riforma coinvolse anche organizzazioni monastiche, con la nascita di nuovi
movimenti, tra i quali ricordiamo i cistercensi (che prendono il nome del primo
gruppo, nato a Citeaux), fondato da Roberto a fine 11 sec, che predicava un ritorno a
una vita fatta di preghiera e duro lavoro, spostando la sua comunità in luoghi isolati,
per non essere disturbati nella meditazione. L’esperimento trovò l’appoggio dei
potenti locali e sotto l’abate Stefano Harding sorsero in Francia 4 nove abbazie figlie
di Citeaux; lo stesso Harding scrisse la carta di carità, nuova regola approvata anche
dal papa. A metà 12 sec il moltiplicarsi delle abbazie portò al principio che un
capitolo da tenere una volta l’anno a Citaux avrebbe preso decisioni valide per tutti i
monasteri. L’ordine cistercense, nato per abitare in luoghi deserti, divenne punto di
riferimento per l’intera cristianità e produsse vescovi e papi. I certosini, nati a fine 11
sec da Bruno di Colonia, cercavano isolamento dal mondo, tant’è che la prima
abbazia nacque sul massiccio della Chartreuse, ed era formato da celle isolate l’una
dall’altra. Erano escluse attività manuali e contatti esterni e c’era un limite di monaci
(12); il modello di vita da seguire fu indicato da Guigo I, quando nella prima metà 12
sec mise insieme una raccolta di consuetudini da rispettare. Anche i certosini
scelsero di assegnare al capitolo generale il potere di indicare decisioni a tutti i
monaci. Lo spazio ideale per la meditazione era indicato da confini concreti, spesso
inglobando possessi di altri soggetti, questo portava a scontri spesso risolti a favore
dei monaci grazie all’appoggio dell’episcopato (che appoggiava pure i cistercensi).
ERETICI: Erano tutti coloro che rifiutavano la mediazione della chiesa, rivendicando
un rapporto diretto con Dio, come i laici che leggevano direttamente il vangelo, ma
anche chi rifiutava di obbedire ai precetti della chiesa. Ne è un esempio Valdo,
mercante al servizio del vescovo di Lione che aveva fondato una comunità dove
leggeva i libri sacri in volgare; Alessandro III glielo vietò, e al rifiuto dell’ordine fu
disobbedienza, che portava a numerosi conflitti armati. Più diffuso il ricorso al feudo
ligio, una fedeltà privilegiata a un signore particolare, col divieto quindi di legarsi in
altri rapporti vassallatici. In genere, ogni rapporto di fedeltà era regolato secondo
contrattazione, senza schemi stabili e fissi.
IDEALE CAVALLERESCO: Per diventare cavaliere c’erano una serie di riti, il più
famoso quello dell’addobbamento, dove gli si riconosceva il diritto di rivendicare
con le armi un suo possesso: un rituale che segnava la sua legittimità come erede di
un territorio e scatenava la reazione negativa dei parenti, e quindi lo scoppio di
numerose guerre. Per questo durante l’addobbamento partecipavano anche principi
locali, che servivano a indicare l’entrata del giovane in una rete di potenti alleati. I
romanzi cavallereschi propagandarono un’idea del cavaliere che viaggiava verso
terre sconosciute per scontrarsi coi prepotenti e i persecutori dei deboli; in realtà
c’era poco di eroico nelle guerre feudali, fatte di assedi e saccheggi. Come rimedio a
ciò, si svilupparono combattimenti ristretti a pochi campioni, in una versione
ritualizzata della battaglia, i tornei. Il ceto cavalleresco era diviso in strato superiore
(aristocratici discendenti dall’élite carolingia) e strato inferiore (vassalli minori,
scudieri); era un ceto composito e multiforme, e le differenze di ricchezza tra i
singoli individui non si cancellavano: esistevano casi di ascese eccezionali di
“modesti” cavalieri, ma, di per sé, l’addobbamento non rappresentava un ingresso
nella componente aristocratica.
SIGNORIA: Con questo termine ci riferiamo sia alle dinastie che alle chiese, che in
questi secoli raggiunsero piena autonomia dal controllo regio, innanzitutto grazie
alla terre, che fino al 12 sec rappresentavano la maggior fonte di ricchezza (anche se
questa rilevanza è sovrarappresentata nella documentazione altomedievale, che
comprende soprattutto le transizioni fondiarie), ma la trasformazione da coltivatori
della terra per conto del proprietario a sudditi avvenne quando questo costruì
castelli e raccolse clientele armate, che aggiunse ai possedimenti territoriali una
connotazione politica. Costruiti per difendersi dalle incursioni saracene e ungare, dai
castelli dall’11 sec si avviò un processo di sottomissione della popolazione
circostante, per cui la protezione che esso garantiva si estendeva al signore e alla
sua famiglia, ai suoi vassalli, ai suoi contadini e infine ai vicini che ne necessitavano
l’aiuto, e in cambio dovevano garantire servizi legati al castello stesso. Coi cavalieri i
signori combattevano coi potenti vicini e si assicuravano l’obbedienza dei sudditi
tramite le minacce; per coordinarli si servivano dei legami vassallatici, a cui si
legavano a loro volta in qualità di vassalli coi principi per ampliare la base fondiaria
CONTI/MARCHESI SIGNORI: Furono parte del mutamento, ma se in Francia e
Germania questi formarono principati territoriali, in Italia svilupparono poteri
analoghi alle altre famiglie signorili, seppur più ampi; l’unica differenza era nei titoli,
dato che i documenti fanno riferimento ai signori con dominus e ai conti con le
funzioni dei loro antenati, un modo per aumentare la loro legittimità a esercitare
potere. Aristocratici e funzionari quindi si assimilarono fino a una forma di
imitazione reciproca: i primi si impossessarono del potere di giudicare e chiedere
imposte, i secondi assunsero la capacità di rafforzarsi attraverso terre e castelli.
Spesso sorgevano conflitti tra chi possedeva un castello in un territorio (signoria
territoriale) e chi un grosso feudo nello stesso (signoria fondiaria), che pretendevano
alla popolazione i medesimi diritti ai prelievi; questi venivano divisi (senza regola
generale) tra il signore territoriale e quello fondiario. A rendere più complessa la
situazione era l’ereditarietà di tali diritti, che portava a una grossa frammentazione
del potere, e rendeva impossibile la presenza di un solo signore del villaggio.
CHIESE PRIVATE/POTENTI: Le chiese rappresentavano punti di addensamento
fondiario: i laici donavano terre alle chiese in cambio delle preghiere di monaci e
chierici (che garantivano l’ingresso in paradiso), o quando un parente entrava nel
clero, terre che non potevano essere vendute, ma concesse per tempo limitato;
inoltre erano fiscalmente immuni e utilizzavano anche loro intimidazioni per
affermare il dominio signorile. Le pievi erano articolazioni della diocesi che si
occupavano di ampie zone e che possedevano la fonte battesimale; non dotate di
quest’ultime erano le chiese minori, che rappresentavano il luogo di frequentazione
dei religiosi locali: nascevano dall’azione dei signori, interessati a impossessarsi di
parte della decima (imposta per il clero) ma anche a ingraziarsi la società locale, alla
quale garantiva, oltre che protezione e sussistenza, anche accesso al sacro. Discorso
diverso per i monasteri privati, nella quale la funzione dei monaci era soprattutto
quella di pregare per i propri benefattori; la fondazione aveva anche importanza
materiale, in quanto all’ente poteva essere affidata parte delle proprie ricchezze
nella sicurezza di poterne avere sempre disponibilità attraverso l’elezione dell’abate
(questo secondo le intenzioni, dato che spesso il monastero utilizzava i soldi per i
propri scopi non tenendo conto della famiglia fondatrice). Infine, era un utile
strumento per definire l’ampiezza del gruppo parentale, in quanto le persone per cui
pregare erano elencate analiticamente, ciò rafforzava i legami tra loro.
PRODUZIONE E PRELIEVO: La pressione fiscale signorile rispondeva alla logica di
un’economia che era prettamente di spesa: i grandi laici spendevano per rafforzare
la loro capacità militare e politica, e donare era un dovere sociale. Per questi costi si
accentuavano le richieste economiche ai sudditi, traendo vantaggio dalla crescita
demografica ed economica che investì l’Europa dall’11 a 13 sec; questa crescita
permise ai contadini di mantenere un nucleo familiare più ampio che allargò i confini
delle terre, coltivate tra l’altro meglio grazie all’aumento di qualità degli strumenti a
disposizione. L’investimento signorile sull’agricoltura fu quindi redditizio, e portò
ovviamente a un aumento dei prelievi in denaro e in natura.
AZIONE CONTADINA: Il ceto rurale era ampio, e andava dal bracciante senza
proprietà che viveva grazie al servizio prestato, al medio proprietario terriero che
sfruttava le sue terre in parte facendole coltivare ai braccianti in parte facendole
affittare. Quest’ultima categoria fu in grado di assumere connotati politici grazie ai
legami che riuscivano a stringere con chiese (alle quali donavano terre in cambio di
salvezza divina) e signorie (per i quali svolgevano piccoli incarichi), e furono i
principali artefici della nascita dei comuni rurali, un assetto istituzionale del villaggio
volto a limitare lo stradominio signorile. I testi che meglio mostrano le funzioni dei
comuni sono le franchigie, atti in cui signori e sudditi si accordavano su diritti e
doveri reciproci, come l’accordo del 1058 tra l’abbazia di S. Silvestro e gli abitanti del
villaggio nei pressi della chiesa: questi si impegnavano a costruire tre lati delle mura
del castello in cambio dell’uso degli incolti (selve, boschi, ecc) e garanzie sul libero
possesso delle loro terre; le rivolte contadine non puntavano perciò alla cacciata del
signore, ma al rispetto da parte sua di norme fondamentali. A partire dal 12 sec,
esigenze di ripopolamento spinsero i signori a creare condizioni favorevoli per
attrarre abitanti, attenuando le tasse e concedendo insediamenti in proprietà agli
abitanti, come le sauvetés in Francia (poste sotto la protezione della chiesa) o le
villefranche in Italia, entrambe dovevano pagare solo un canone.
CITTA’: L’exploit demografico già citato portò a un aumento delle migrazioni verso i
nuovi centri urbani, i cui legami col territorio erano intensi, necessitando da esso
prodotti agricoli e materie prime. Nel nucleo originario delle città, gli abitanti si
addensavano a ridosso della residenza signorile o nei borghi circostanti, a
dimostrazione di un legame forte tra le due componenti; spesso il suolo dove si
costruivano le case era proprietà del signore al quale si pagava un censo. Dal 12 sec
si venne a formare un insieme sociale nuovo, che aspirava all’autonomia delle
proprie attività economiche e a uno statuto giuridico condiviso da tutto il gruppo. In
alcuni casi i signori collaborarono al processo, come i duchi normanni che
sostennero la fondazione di Caen e quelli della Fiandra con le città di Lille e Bruges,
grosse sedi mercantili; in queste città gli abitanti acquistarono i suoli abitativi che
erano di proprietà signorile, diventando indipendenti dagli oneri del censo. Invece a
Lubecca, fondata con l’aiuto di Enrico il leone duca di Sassonia, questo si impegnò
nello sviluppo commerciale della città, per poter usufruire delle ricchezze attraverso
le imposte. In altre città (Le Mans, Cambrai) l’autonomia fu osteggiata dai poteri
earls, sotto gli shires esistevano circoscrizioni minori, le centene, che godevano di
ampia autonomia organizzativa. Le assemblee di centene discutevano di questioni
fiscali e giudiziarie, e i processi, applicavano il “folkright” (diritto della gente),
tuttavia la pace era compito del re. La situazione era delicata: da un lato i duchi
normanni esigevano terre e autonomia, dall’altro il re voleva continuare a fondarsi
sul popolo, conservando la liberta del possessori. In primo luogo, Guglielmo (che
restava duca di Normandia) nominò un suo rappresentante nell’isola, detto
giustiziere, e nominò gli sceriffi, ufficiali pubblici incaricati di amministrare la
giustizia e controllare le finanze. Con l’obiettivo di inquadrare le terre distribuite ai
baroni normanni ricorse al sistema feudale, ergo chi aveva ricevuto terra era tenuto,
in quanto feudatario, a partecipare all’esercito. Fu l’origine del domesday book,
grosso censimento di uomini, terre e disponibilità economiche. Il successore di
Guglielmo, Enrico (1110-1135) emanò una carta delle libertà, nelle quali precisò che
le terre feudali, prima di passare agli eredi, dovevano ritornare al re, limitando il
dominio dei baroni, che da allora potevano anche essere giudicati (prima godevano
di immunità). Seguì Stefano di Blois (1135-1154), nipote di Enrico che dovette
battere la figlia di quest’ultimo, Matilde, scontri che portarono a un rafforzamento
dei baroni, che si impossessarono delle maggiori cariche e le resero ereditarie.
ENRICO II:(1154-1189, nipote di Enrico I) sposò Eleonora d’Aquitania unendo in solo
potere Inghilterra, Normandia e Aquitania; a partire da lui annualmente il
giustiziere, la curia regia (formata dai grandi del regno, che dovevano esprimere il
loro consenso alle decisioni del re), e lo scacchiere (nuova figura, responsabile delle
finanze pubbliche) dovevano fare rendiconto del loro operato. Introdusse dei giudici
itineranti che amministravano l’alta giustizia per conto del re nelle contee; una
giuria di dodici saggi erano incaricati di giudicare i colpevoli fino all’arrivo dei giudici
regi. Ordinò poi a tutti i possessori di partecipare all’esercito con un armamento in
proporzione al reddito, e al fine di definire il livello d’armamento incaricò una
commissione di verificare i redditi dei residenti. Altro elenco che fece redigere
quello dei feudatari che non avevano prestato giuramento ligio, per distinguere i
baroni fedeli dagli infedeli. Enrico tuttavia scaricava soprattutto sul popolo inglese il
fardello fiscale dei costi di mantenimento di 3 regni. Le crisi del regno si
accentuarono nella lotta dinastica tra i figli di Enrico, Riccardo e Giovanni Senzaterra
(1199-1216). Sotto il regno di quest’ultimo, i rapporti con chiesa e baroni si
deteriorarono e dopo la sconfitta a Bouvines (1214) fu costretto a firmare la Magna
carta, un patto di limitazione dei prelievi fiscali regi, nonché il diritto di ereditarietà
dei feudi per i baroni.
FRANCIA 12 SEC: I re avevano deboli privilegi sui principati vicini Parigi ma nulla più,
e di questa situazione ne erano consapevoli da tempo: già dall’11 sec redigevano
diplomi solo agli enti religiosi raccolti attorno all’Ile de France, unica zona di loro
controllo; d’altra parte per decenni i principi dei ducati più estesi si rifiutarono di
prestare omaggio al re. Luigi VI (1108-1137) si concentrò su due punti: disciplinare i
castellani ribelli nel suo dominio e frenare l’espansione del re inglese. Luigi si lanciò
in battaglie punitive contro i potenti locali, guerre individuali provocate
dall’intemperanza dei cavalieri; il fronte interno poteva godere dei consigli di
Sugerio, abate di Saint Denis, il quale, anche nella sua opera “vita di Luigi VI”,
sostenne come tutti i principi fossero vassalli del re. Quest’ultimo, rispondendo alla
richiesta d’aiuto del vescovo di Clermont, giunse in Normandia dove guadagnò l’atto
di sottomissione del duca. C’è da sottolineare (e lo fa anche Surgerio) come Luigi
intervenisse contro i castellani solo quando questi attaccavano le chiese, imponendo
la pace del re dove prima si stipulavano paci di Dio. Politica condivisa dal figlio, Luigi
VII (1137-1180), che nel 1155 proclamò la pace per tutto il regno. Il re sposò e poi
divorziò con Eleonora di Aquitania, che poi si unì Enrico, futuro re d’Inghilterra e
duca di Normandia. Portò allo scoppio di un conflitto che si promulgherà fino alla
morte del re francese senza grosse conseguenze.
FILIPPO AUGUSTO: (1180-1223), figlio di Luigi VII, costrinse (visto il suo matrimonio
con la nipote) Filippo D’Alsazia a cedergli due grosse contee, il Vermandois e l’Artois.
Si trovò ad affrontare Giovanni senzaterra, re inglese privo di supporto tra i suoi
vassalli; con un’azione militare prese il controllo della Normandia (1204), alleandosi
coi baroni normanni. Nella battaglia di Bouvine (1214) sconfisse tutti i suoi più
grandi nemici: Giovanni, l’imperatore tedesco Ottone IV, il duca di Brabante e il
conte di Fiandra, nella contea di quest’ultimo riuscirà poi ad espandersi. Una vittoria
così prestigiosa lo spinse una politica espansiva più aggressiva, coi tentativi (falliti) di
invadere l’Inghilterra. La crociata albigese rappresentò il pretesto per arrivare ai
principati del sud: il conte di Tolosa era stato accusato di eresia dal papa e gli eretici
potevano essere privati dei beni; poté così rivendicare la spedizione come atto in
difesa della fede. Ebbe grande abilità nello gestire territori diversi, in Normandia
istituì un gestore delle finanze, lo scacchiere, e una rete di ufficiali locali presi dalla
classe media e con incarico a tempo chiamati balivi. Sostenere uno stato di guerra
continuo richiedeva grandi risorse economiche, che lui riusciva a ottenere dalle
rendite agricole, dalle tasse cittadine ma soprattutto da quelle feudali: richiedeva
infatti somme enormi per riassegnare i grandi feudi.
SPAGNA 12 SEC: Era divisa in varie contee con aspirazioni monarchiche, ma il grosso
era dominio musulmano. Dei regni spagnoli-cristiani sarebbero continuati a esistere
a nord per poi risvegliarsi nell’11 sec e iniziare una riconquista verso sud, legati
dall’ideologia della purezza di sangue assicurata dalla discendenza dai visigoti,
falsità, dato che la permanenza araba aveva creato un popolo nuovo, ispanico. E’
vero però che la guerra all’infedele rappresentò motivo ricorrente nella propaganda
dei regni, difatti i re di Castiglia e di Aragona/Catalogna si legittimarono sovrani in
quanto liberatori. Le guerre del secolo 12 furono poco decisive sul piano territoriale,
fino al 1120 gli almoravidi prevalsero, poi ci fu qualche vittoria cristiana, ma erano
soprattutto razzie. La possibilità di un cambio di rotta si aprì con la crisi almoravida,
la cui pressione fiscale in Andalusia era forte e ad approfittare del dissenso furono gli
Almohadi, setta araba dal Marocco che conquistò la regione. Nel 1195 l’esercito
musulmano sconfisse Alfonso VIII di Castiglia ad Alarcos. La reazione cominciò con
l’annuncio di una crociata antimusulmana da parte di papa Innocenzo III (1211), con
conseguente vittoria del re castigliano a Las Navas di Tolosa (1212). Da questa data
la riconquista si velocizzò, e nel 1240 i territori cristiani erano raddoppiati. Con la
stabilizzazione delle conquiste le popolazioni arabe vennero emarginate in quartieri
etnici; la Spagna si delineò come insieme di regni che si riunivano in assemblee
(curie generali) per discutere sui grandi temi della politica regia.
GERMANIA 12 SEC: I quattro ducati tradizionali (Franconia, Sassonia, Baviera, Svevia)
erano saldi nelle mani della grande aristocrazia. I dati dimostrano un grosso plus
demografico che alimentò il flusso migratorio verso est, dove i principi tedeschi
chiamavano coloni per popolare i propri dominati, costringendo all’emarginazione i
residenti slavi. Per tradizione, il re aveva la Franconia, una base cospicua ma non
tale da aspirare a un dominio sugli altri grandi principi; d’altronde il potere ducale
era basato su una base terriera di loro proprietà, che li rendeva indipendenti dalle
concessioni feudali regie, e la tendenza all’ereditarietà delle cariche aumentava lo
slegamento col re. In questo contesto di debolezza iniziò il regno di Federico I di
Svevia (1152-1190) detto Barbarossa. Come Luigi VII in Francia fece propria la
funzione di pacificatore del regno, ordinando la pace generale. In secondo luogo
fece ricorso al diritto feudale per confiscare terre ai principi ribelli, come a Enrico il
Leone; ogni volta che entrava in possesso di un ducato lo divideva in 2 per limitare
l’ambizione dei principi, rafforzando nel durante attraverso un’opera di passaggi
feudali i suoi possedimenti in Franconia. Nella dieta di Roncaglia (1158) ordinò che
tutti i poteri pubblici dovevano provenire dal re, permettendo la “restituzione” dei
diritti regi divenuti privati; nella stessa dieta rinnovò il divieto di vendere i feudi e di
giurare fedeltà a più signori. Il figlio Enrico VI tentò di imporre la successione
dinastica dell’imperatore in cambio dell’ereditarietà feudale per i duchi; proposta
prima accettata e poi rifiutata da questi ultimi. Il re aveva sposato Costanza
d’Altavilla, ottenendo il regno di Sicilia, che passerà poi al figlio Federico II.
erano rifugiati da tempo nei castelli nel contado, disinteressandosi della vita
cittadina. Il vescovo era la figura di maggior rilievo, mediava i conflitti e ricevette
dagli imperatori privilegi pubblici, ma mai la carica di conte; era al contempo un
signore feudale, e le famiglie a lui legate non di rado approfittavano dell’assenza
regia per usurpazioni di terreni vescovili: il conflitto interno era prassi. Si istituì in
molte città un ceto di cittadini distinti secondo livelli di ricchezza, la cui parte alta era
occupata da mercanti, avvocati, notai, giudici (questi ultimi erano necessari per
fornire regole di funzionamento e assistenza alle questioni giudiziarie); al di sotto,
tutti gli abitanti senza qualifiche, ma capaci di farsi sentire nelle assemblee
pubbliche. Nei momenti di conflitto, era il vescovo a mediare spesso con un
giuramento collettivo di pace che, se rotto, portava alla cacciata dalla città. Il sistema
funzionava, le città aumentavano di abitanti e disponibilità economiche, ciò spinse
vescovi ed élite urbana all’istituzione a inizio 12 sec dei consoli, di numero variabile,
che si riunivano nel palazzo vescovile e provenivano dalle famiglie dei suoi vassalli,
un origine sociale che condizionò le scelte di governo, a difesa delle classi alte; la
carica era annuale ed erano eletti dall’assemblea dei cives, detta concio. Si creò un
consiglio cittadino formato da 100 persone che affiancava i consoli, i quali
necessitavano della loro maggioranza per l’approvazione di una decisione. Infine, un
patto di natura pubblica detto breve legittimava formalmente i magistrati ad agire
come rappresentanti della città.
FUNZIONI DI GOVERNO: Con l’aiuto di giudici e notai si instaurarono le corti
comunali, aperte a tutti. Si occupavano di risolvere la conflittualità su beni e terreni,
spesso oggetto di lite; anche se non sempre si arrivava a una sentenza, era utile a
stroncare sul nascere la violenza (gli atti di vendetta furono considerati reato grave).
Il comune aveva bisogno di entrate continue, che dovevano derivare dai cives
tramite imposte straordinarie volte a finanziarie strade, edifici pubblici e soprattutto
mura, che assorbivano gran parte delle risorse; chi non pagava perdeva lo status di
civis e la protezione pubblica. Il legame tra città e contado (grazie anche al vescovo,
da cui dipendevano i sacerdoti sparsi nelle diocesi) portò la prima ad aspirare a
un’influenza politica nel territorio circostante; era importante disporre di centri
strategici per proteggersi dai nemici esterni e imporre tasse ai contadini, che non
erano d’accordo. Coi signori si raggiunsero compromessi: molti divennero cittadini e
diventarono esponenti di spicco del comune, o in alcuni casi gli stessi, una volta
donato il castello, lo ricevevano in feudo, o ancora i castelli venivano acquistati.
CITTA’ VS IMPERO: A inizio 13 sec la rilevanza politica/economica dei comuni era in
ascesa: Genova e Pisa crearono colonie dalle coste nordafricane alla Sicilia,
affrontandosi per il controllo di Sardegna e Corsica, Venezia costruì ampio dominio
sui porti d’Oriente, Milano divenne il terminale dei traffici tra Italia e Germania, le
città emiliane giovavano dei commerci lungo il Po e quelle toscane erano in lotta tra
loro per territori da definire, quelle umbre/marchigiane erano di dimensione ridotta
e basate su un’economia agraria. Nonostante le differenze, condividevano le stesse
forme di governo, istituite per la necessità comune di fronteggiare l’imperatore
Federico I. Il Barbarossa vide arrivare durante una riunione a Costanza (1153) due
ambasciatori di Lodi che lamentavano la distruzione della città da parte di Milano;
Federico impose ai milanesi di presentarsi e riparare l’offesa, ma questi cercarono di
comprare il permesso dell’imperatore di mantenere il dominio su Lodi. Scoppiò la
guerra, cominciata col saccheggio di Milano (1158), nello stesso anno nella dieta di
Roncaglia Federico si affidò il diritto di eleggere i consoli, e impose nelle città ribelli
dei podestà imperiali, celebri per le alte tasse che richiedevano. Dopo un secondo
attacco a Milano le città lombarde formarono la Lega Lombarda (1168), governata
da rettori elette da tutte le città che coordinavano le azioni militari; la lega diffuse
soprattutto un modello unico di città comunale con dei confini precisi e inattaccabili
dagli altri comuni. L’alleanza con papa Alessandro III rafforzò la natura ideologica
delle campagne militari, che riguardavano perlopiù azioni di disturbo che si
rivelarono però efficaci, fino allo scontro di Legnano (1176), con la vittoria delle città
importante specie sul piano propagandistico, che portò alla pace di Costanza (1183).
CITTA’ POST GUERRA: La pace fu intesa dai comuni come un riconoscimento delle
loro istituzioni e la loro legittimazione, ma gli anni delle guerra avevano richiesto
grandi sforzi economici e di impiego personale; il grosso degli eserciti erano i
pedites, cittadini che lasciavano le attività per combattere al comando dei cavalieri
aristocratici, e che adesso chiedevano maggior rilevanza politica. A inizio 12 sec
scoppiarono ovunque rivolte riguardo all’iniqua ripartizione delle tasse e alla
ristrettezza del ceto dirigente, che portarono all’organizzazione delle societates, di
varia natura: le società rionali radunava gli abitanti di una parrocchia con compiti di
autogoverno locale, le società di mestiere erano formate da artigiani e mercanti.
Istituite per scopi di protezione militare, le società si unirono poi sotto un organismo
chiamato “Popolo”, avanzando richieste politiche come una quota di posti in
consiglio, il pagamento delle tasse secondo le proprie ricchezze, l’abolizione dei
privilegi ai nobili (che non pagavano tasse). Un compromesso fu la sostituzione dei
consoli con il podestà, un rettore unico con ampi poteri proveniente dall’esterno
della città e aveva carica annuale, connotati che garantivano imparzialità; aveva il
compito di sanare le discordie, difendere il comune, amministrare la giustizia e
guidare le discissioni del consiglio, che venne rafforzato (1000 membri) e poteva
eleggere i podestà.
infallibilità, che si basava sul potere di definire i dubbi, le cose in sospeso. In primo
luogo vennero rafforzati i legati pontifici, definiti “un altro papa”, ergo sanciti come
superiori rispetto ai vescovi. La tensione tra questi ultimi e il papa diede vita alla
corrente del conciliarismo, che affermava la superiorità del concilio sul papa,
rispetto alla chi pensava che le decisioni conciliari dovevano prima essere approvate
dal vescovo di Roma per avere validità.
DIRITTO DELLA CHIESA: rinnovato nel duecento, alla base c’erano le lettere dei papi,
dette decretali, scritte in risposta a questioni processuali poste da vescovi e abati,
furono raccolti in 5 volumi e divennero punto di riferimento per le chiese; la
creazione di un codice unico, il Liber Extra, che comprendesse i più importanti
decretali a tema giuridico fu un passo fondamentale, tant’è che rimase il testo
normativo di riferimento fino al 20 sec. La curia romana articolò meglio le funzioni
del papato, che si muoveva in ambito europeo su due settori, quello finanziario (con
l’afflusso delle decime) e quello giudiziario: il diritto d’appello stabilito da Alessandro
III aveva favorito la formazione di una giurisdizione piramidale che culminava col
papa; i cappellani del papa (che prima si occupavano del ramo giudiziario) furono
sostituiti dagli auditori, che si spartivano i processi coi cardinali; la curia romana
divenne la più importante sede giudiziaria del basso medioevo. Il controllo sul ceto
episcopale divenne più forte quando si precisarono i peccati dei quali solo il papa
poteva assolvere, nonché il suo potere esclusivo di concedere dispense su norme
canoniche; fu istituita la penitenzieria, a capo di un esponente dei mendicanti.
ORDINI MENDICANTI: La rinascita delle città portò a una moltiplicazione di nuovi
movimenti di interpretazione laica del messaggio cristiano; in questo quadro di
conflitto presero forma due movimenti religiosi importanti: i predicatori fondati da
Domenico e i minori fondati da Francesco d’Assisi, detti entrambi ordini mendicanti.
Proponevano un modello fondato sulla rinuncia dei beni, sul lavoro, sulla carità nelle
piazze. Grazie alla capacità di farsi seguire dai ceti urbani svolsero un importante
ruolo di mediazione tra chiesa e laici, e a loro fu affidata l’inquisizione. I predicatori
nacquero nella Francia meridionale a inizio 13 sec da un canonico spagnolo,
Domenico, il quale si rese conto che la predicazione cistercense era inefficace,
perché l’eresia che combattevano (il catarismo) criticava la piega signorile che la
chiesa stava prendendo; ebbe quindi l’intuizione di unire predicazione esemplare e
preparazione dottrinale in grado di rispondere alle teorie eretiche. “Esemplare”
significava fare propri quegli ideali di povertà che la popolazione ammirava, quindi
Domenico scelse di presentarsi vestito umilmente e di accettare il confronto con
tutti. Sostenuto dal vescovo di Tolosa, organizzò un gruppo di seguaci che aumentò
notevolmente in poco tempo, fino a essere approvato da papa Onorio III; qualche
anno dopo furono redatte le costituzioni, che definivano lo stile di vita domenicano.
Caratteristica principale fu la formazione culturale richiesta ai frati, necessaria per
contrastare le teorie eretiche, e nei conventi doveva esserci un insegnante di
teologia per i giovani monaci.
MINORI: Ordine legato a Francesco d’Assisi, figlio di mercante convertito alla vita
religiosa dopo un incontro coi lebbrosi, che dopo un primo rifiuto imparò ad amare.
Dopo questo incontro iniziò la predicazione coi primi fratelli; sappiamo poco di
questo periodo, ma nel Testamento (suoi scritti negli ultimi anni della sua vita)
accenna a una scrittura, una proto-regola approvata oralmente da Innocenzo III ma
il quale testo non ci è arrivato. Maggiori indicazioni fornisce la regola non bollata
(priva dell’approvazione formale papale) dove si presentano punti fissi dell’ordine
come la rinuncia ai beni (donati ai poveri), il vestiario semplice e il divieto di
possedere beni e di maneggiare soldi. In questo modo Francesco obbligava i frati a
scoprire il valore delle persone, coi quali si poteva ricorrere allo scambio gratuito a
seconda delle necessità. La povertà per lui aveva una doppia dimensione: esterna
(rinuncia ai beni materiali) e interna (rinuncia al proprio io per consentire l’ingresso
di Dio nell’animo), e predicava penitenza ed eucarestia come punti cardine del
percorso di salvezza. Nel 1220 Francesco rinunciò a guidare i minori e a sostituirlo fu
Ugolino d’Ostia, col quale scrisse una seconda regola, approvata dal papa (per
questo detta bollata) che prevedeva un’organizzazione interna più chiara. Si ritirò sul
monte Verna e lì ricevette le stigmate, fatto riportato da lui nel Testamento.
POST FRANCESCO: Il suo culto cominciò a poco dalla sua morte, ma i suoi ideali
divennero campo di battaglia religioso: papa Gregorio IX tolse valore giuridico al
Testamento e riservò l’ingresso nell’ordine a chi era già chierico. Bonaventura da
Bagnoregio scrisse una nuova storia di Francesco, la legenda maior, imponendo la
figura del santo come “altro Cristo”, esempio inimitabile di santità; la nuova
immagine di Francesco serviva a rendere i minori la “colonna” della Chiesa. L’ordine
tornò a spaccarsi per la formazione di un nucleo al suo interno di rigoristi della
povertà detti spirituali, i quali ritenevano che l’ordine non doveva possedere nulla, a
imitazione di Cristo. Il papato reagì prima isolandoli e poi bollandoli come eretici.
FUNZIONI MENDICANTI: Entrambi gli ordini ricevettero il diritto a predicare e
confessare, in concorrenza col clero ordinario. Il successo fu enorme verso i fedeli
del ceto urbano, grazie a una conoscenza diretta dei loro problemi che aiutò a
impostare una nuova predicazione, fatta sugli esempi e su un linguaggio concreto (e
in volgare); si insisteva contro le tentazioni della superbia, ossia l’accumulo di beni e
la presunzione di decidere il proprio destino, che è nelle mani di Dio. Si
classificavano i peccati secondo i casi, ogni categoria sociale aveva le proprie
debolezze ed era il prete a decidere la gravità del peccato. I laici premevano per una
maggiore partecipazione alla vita religiosa, così molte associazioni laicali furono
approvate dalla chiesa; molte di queste predicavano uno stile di vita moderato, che
li rendeva distinti dal resto dei fedeli, un esempio per gli altri. Lo sviluppo di queste
confraternite (che dovevano essere approvate dalla chiesa e dotarsi di statuto) fu
però incontrollato, motivo per il quale papa Niccolò IV istituì il terz’ordine
francescano, ordine laicale dipendete dai minori; tutti gli ordini mendicanti si
munirono di terzi ordini e in questi i movimenti laicali furono ricondotti.
INQUISIZIONE: Fu affidata ai mendicanti da Innocenzo IV, dividendo l’Italia in due
province. Il capo di imputazione spesso riguardava la frequentazione di un gruppo
sospetto; negli interrogatori le domande erano dirette a scoprire quali persone
erano in contatto con gli eretici, accusare qualcuno di eresia era uno stratagemma
per sottrarsi a quello stesso processo; l’accusa fu usata anche come strumento di
vendetta nei conflitti di fazione. Quando arrivavano in un paese dichiaravano un
periodo di grazia nel quale veniva ascoltato chi aveva da dire, anche se peccatori.
Dopo questo periodo, iniziava il processo contro i sospetti, che potevano riguardare
anche interi villaggi. Le presunte persone eretiche venivano interrogate
singolarmente, e attraverso la tortura si otteneva la confessione. Una volta
capitolato, l’imputato poteva pentirsi (e sfilare in processioni nel paese confessando
le loro colpe) o mantenere la propria fede (ed essere condannati a morte).
USO DELL’ERESIA: Federico II aveva introdotto l’eresia nella sfera politica,
equiparandola al reato di lesa maestà; quando ruppe col papato e venne
scomunicato, venne additato come eretico. La lotta del papato contro l’imperatore si
trasformò in una crociata per la difesa della fede, che proseguì anche contro gli eredi
di Federico e i suoi seguaci; rimanevano in Italia i fedeli degli svevi, come Ezzelino da
Romano, potente nobile che aveva creato un potentato tra Padova e Verona; Ezzelino
aveva instaurato un dominio tirannico violento, e nei documenti papali venne
descritto un agente del demonio, si richiedeva perciò una guerra contro di lui nel
nome di Dio. Un richiamo propagandistico ma che funzionava, perché ormai la fedeltà
politica doveva andare di pari passo con la fedeltà ai dogmi, e l’eresia era un
problema che doveva coinvolgere anche i re.
FILIPPO VI IL BELLO: re di Francia, ebbe un conflitto con Bonifacio VIII che verteva
sull’imposta verso il clero francese (la chiesa era immune dal fisco); il papa minacciò il
re di scomunica e riaffermò il potere del papa su tutti i laici. Bonifacio era un papa
carismatico ma con molti rivali: i Colonna, avversari della sua famiglia, che aveva
scomunicato per eresia sequestrando tutti i beni, e un gruppo corposo di vescovi in
tutta Europa. Filippo accusò Bonifacio di essere un papa eletto illegalmente e mandò
perse più volte (1356-Poiters, re Giovanni il Buono preso prigioniero). Nella seconda
fase si registrò una spaccatura dell’aristocrazia francese, cominciata nel 1392 dallo
scontro di due membri della corte che tentavano di influenzare le azioni di re Carlo
VI, il duca di Borgogna Giovanni senza paura e il fratello del re, Luigi duca d’Orléans,
scontro nato quando quest’ultimo impose senza l’approvazione della corte una
nuova tassa. Presero forma due partiti, gli armagnacchi (fedeli a Luigi, sostenitori di
un apparato centralizzato e un sistema fiscale pesante) e i borgognoni (fedeli al
duca, sostenitori di un’autonomia dei territori e di un sistema fiscale meno
opprimente), questi ultimi presero il controllo della Francia settentrionale, mentre i
primi crearono un regno itinerante nelle regioni centrali (detto regno di Bourges).
FINE GUERRA 100 ANNI: La situazione mutò ancora quando in seguito al trattato di
Troyes il re inglese Enrico V sposò la figlia di Carlo VI, che elesse come suo
successore Enrico. Alla morte dei due, l’erede inglese Enrico VI richiedeva il trono
francese (appoggiato dai borgononi) ma dovette scontrarsi con Carlo VII (figlio del
precedente re, appoggiato dagli armagnacchi); in questi anni si svolsero le imprese
di Giovanna d’Arco (1428-1431), condottiera ispirata dalle voci divine che gli
indicarono Carlo VII come legittimo re, e, autorizzata da questo a combattere, fu
protagonista di varie imprese (difesa di Orlèans dall’assedio inglese, riconquiste di
città), e messa al servizio della propaganda regia, anche dopo la sua morte per
stregoneria (eseguita da un vescovo vicino ai borgognoni). Nell’ultimo ventennio la
guerra si risolse pro-Francia, con una serie di campagne vittoriose che permisero a
Carlo VII di riconquistare ampi territori in mano agli inglesi. Luigi XI provò a
riaffermare la sua sovranità sui principati, ma gli si contrappose un fronte vasto, che
andava da suo fratello Carlo ai signori di Armagnac; contro questi ultimi mise in atto
una repressione giudiziaria una volta accusati di lesa maestà. Puntava, insomma, a
sancire la sua superiorità con la forza. Ma il rafforzamento dello stato si ebbe
specialmente con le morti senza eredi dei principi vassalli, i quali territori venivano
consegnati al re di Francia, ultima annessione la Bretagna, grazie al matrimonio con
la principessa ereditaria (1498).
INGHILTERRA 14-15 SEC: Nel quattrocento persisteva un vuoto di potere regale
dovuto a una striscia di re deposti o uccisi che alimentò l’importanza del
parlamento, che assunse un ruolo di controllo della politica regia ma non risolse il
problema della stabilità, perché i baroni erano anche potenti signori locali che
favorirono un frazionamento del regno in ducati semi-indipendenti. La corona era
contesa tra la casa di Lancaster e quella di York, e la guerra che scoppiò (delle due
rose) terminò con l’ascesa al trono dei Tudor (1485).
del monte delle prestanze, istituto che stabilizzava il debito pubblico: la città aveva
chiesto prestiti ai cittadini, restituendo però solo gli interessi, spingendo a comprare
delle cedole del debito pubblico, che potevano essere vendute e usate come denaro
cartaceo; il metodo ebbe successo e la repubblica ottenne grosse quantità di soldi.
Questo sistema fu utilizzato anche a Genova e Venezia, che avevano costruito vasti
domini coloniali, e la seconda riuscì a sottomettere anche parte della costa della
Dalmazia. I sistemi istituzionali veneti riconobbero la necessità di un capo supremo
(doge), contornato da una serie di consigli che bilanciassero i poteri nell’aristocrazia
urbana. Questo bilanciamento permise a tutta l’aristocrazia di partecipare alla vita
politica, ma si trattava di una società bloccata: dal 1297 il Maggior Consiglio segnò le
famiglie che potevano partecipare al governo.
COMPETIZIONI: Firenze contrastò il tentativo egemonico dei Visconti nell’Italia
centrale, con Venezia prima alleata e poi nemica di Milano; la pace di Lodi (1454) tra
le ultime due città citate (garantita da una lega italica tra i maggiori stati) non evitò
le invasioni straniere di fine quattrocento (Carlo VIII nel 1494 e Luigi XII nel 1499) e
l’inglobamento del ducato milanese nel regno di Francia sancì una rottura negli stati
principeschi italiani; la struttura regionale resistette ma le signorie contarono
sempre meno. Durarono di più Firenze, Venezia e stato della Chiesa ma dovevano
fare i conti con monarchie le europee che dominavano la penisola a nord e a sud.