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Storia medievale

Storia medievale (Università degli Studi di Napoli Federico II)

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TEORIE SULLA FINE DELL’IMPERO ROMANO OCCIDENTALE: Nel XVII sec lo storico
Gibbon scrive una prefazione sulla storia della decadenza romana e indica il periodo
tra il II e il V sec DC come l’inizio del declino dell’impero occidentale. Nel ‘900
Walbank teorizza l’evento come l’inizio di una tremenda rivoluzione, ma la sua
analisi risente fortemente della crisi dell’impero zarista a lui contemporanea. Questo
a indicare che molti storici sono influenzati, quando parlano di momenti storici, dalla
esperienza personale. Momigliano vede alla decadenza romana come all’archetipo
della decadenza, modello di comparazione per le crisi contemporanee.
476: Convenzionalmente è indicato come l’inizio del medioevo, nel 1492 Bernardo
Giustiniani scrive “le storie dei Veneti”, dove viene indicata per la prima volta la
suddetta data come tale. Nel XIX sec viene canonizzato il 476 da Gregororius, grande
storico romano, come fine di un’epoca; lo stesso affermò che la crisi romana aprì ai
principi di libertà portati avanti dai popoli germanici e diffusi poi in tutta Europa,
determinanti per la formazione degli stati nazionali. Momigliano scrive “la caduta
senza rumore”, dove pone l’attenzione sul fatto che nelle fonti antiche la
deposizione di Romolo Augustolo non venne avvertito come un atto epocale,
almeno nell’immediato; soltanto col tentativo di riconquista dell’occidente da parte
di Giustiniano (guerra greco-gotica), più di 50 anni dopo, ci si rende effettivamente
conto dell’importanza del 476. E’ un crollo che riguarda solo l’occidente, l’impero
continua a esistere a Bisanzio fino al 1452. Il Cristianesimo contribuisce
all’edificazione del mito della decadenza romana (specialmente per quanto
concerne l’esperienza imperiale costantiniana), ponendolo su un piano
provvidenzialistico.
SACCO DI ROMA: Rispetto al 476, il sacco di Roma del 410 è avvertita con molta più
gravità dalle fonti contemporanee: San Girolamo, Sant’Agostino, Paolo Orosio,
personaggi connessi agli enti ecclesiastici e quindi autori di descrizioni filtrate dalla
lezione cristiana, elemento che bisogna ricordare. Paolo Orosio, ad esempio,
raccoglie tutte le informazioni sui disastri analoghi compiuti da Roma stessa, a
dimostrazione che, al contrario di come affermavano i pagani, non si trattò di un
evento da collegare all’ira degli dei per l’abbandono del paganesimo a favore del
cristianesimo.
STORICI CONTEMPORANEI: Una serie di storici vissuti tra la 2 metà dell’800 e la 1 del
‘900 riteneva inaffidabili gran parte delle fonti narrative dell’antichità, in quanto
soggettive, soffermandosi perlopiù sulla storia politica; più si allarga l’idea di storia,
comprendendo anche gli elementi culturali e sociali, più saranno le fonti consultabili
e confrontabili: è un concetto, che si sviluppa nel corso di tutto il ‘900, molto
differente da quello portato avanti dalla scuola di storici sopra citati, che erano soliti

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“tagliare” tutte le informazioni che non comprendevano aspetti storico-politici.


Difatti, prima veniva utilizzato il termine “crollo” o “tramonto” per intendere il 476,
adesso è frequente l’uso di “processo” e “trasformazione”, proprio alla luce di un
nuovo interesse verso gli aspetti culturali del periodo.
TARDO ANTICO: Termine dato a fine ‘800 da Jacob Burckhardt per intendere il
periodo tra antichità e medioevo; successivamente, lo storico dell’arte Alois Riegl
riprende il termine coniato da Burckhardt. Epoca di lente trasformazioni che può
dividersi a sua volta in 3 periodi: un primo momento dove persistono elementi legati
maggiormente all’antichità, una fase centrale di equilibrio, e un’ultima fase dalle
connotazioni medievali ormai ben marcate. Nel primo periodo assistiamo
all’assorbimento del cristianesimo nel mondo romano, alla militarizzazione
dell’impero e all’irrigidimento delle gerarchie sociali (220-280); nel terzo periodo
assistiamo alla peste, al tentativo (fallito) di restauro da parte di Giustiniano, e
all’espansione dell’Islam (550-640). Si passa dal tardoantico al medioevo
grossomodo attorno al VII-VIII sec (periodo di Maometto e di Carlo Magno).
CRISTIANESIMO: Si diffonde nel contesto urbano dell’impero (l’élite cittadina) dai
concetti filosofici filo-ellenistici, il successo venne consolidato dalla provenienza
sociale comune dei vescovi cristiani e degli amministratori urbani (entrambi di
estradizione aristocratica). Dopo le persecuzioni di Diocleziano si crea un assetto
organizzativo che attribuiva un ruolo di preminenza al vescovo della chiesa
metropolitica, formatasi nella metropoli della provincia; le sedi vescovili più
importanti presero il nome di patriarcati ed erano Roma, Alessandria, Antiochia,
Gerusalemme (tutte di origine apostolica, fondate da apostoli), e poi Costantinopoli.
Si dovette istituire anche un preciso corpus dottrinale, vengono “ammorbiditi”, nel
corso di questo processo, gli elementi di rigidità della dottrina cristiana (come il
donatismo). Le critiche rivolte al cristianesimo riguardarono soprattutto la figura del
Cristo, che rendeva la religione monoteista una sorta di “politeismo mascherato”;
per Ario di Alessandria, Gesù non aveva perciò lo stesso grado di divinità del padre.
Il concilio di Nicia (325) sancisce la trinità, ma questa scelta creerà a sua volta altre
discussioni tra gli intellettuali credenti, si delineano due scuole: quella di Antiochia
spinge sull’umanità del Cristo, quella di Alessandria difende la sua sacralità; un altro
concilio, questa volta ad Efeso, darà ragione alla seconda scuola di pensiero. La
pericolosità dei movimenti di contestazione religiosa è perlopiù sociale: ad esempio
il donatismo, che si propagò nelle campagne diventando un sorta di copertura
ideologica per rivolte delle popolazioni indigene contro il fiscalismo dell’impero.
MONACHESIMO: La diffusione del cristianesimo nelle zone non urbanizzate è un
processo lento e complesso, grande apporto a riguardo fu dato dal movimento del

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monachesimo, nato in oriente come forma di vita cristiana che prevedeva il distacco
dalla società, e che si rivelerà una delle forze più vive nel medioevo. Quello cristiano
si sviluppò in Egitto nel III secolo, ma una forma ascetismo “moderato” si vide con la
nascita del cenobitismo ad opera di Pacomio, che portò alla formazione dei
monasteri, promossi anche da Basilio, vescovo di Cesarea ai quali indirizzò le sue
Regole, serie di indicazioni per cristiani che vivevano in comunità. Grande apporto
per la diffusione occidentale fu dato da Gerolamo, esponente di nobile famiglia che
visse da eremita nel deserto di Calcide e, tornato a Roma, fu punto di riferimento di
vari gruppi cristiani prima di esser costretto ad abbandonare la città; in Gallia l’isola
di Lérins, nella quale (410) venne fondato un monastero dove i più giovani vivevano
assieme e gli anziani erano isolati nelle loro celle, ebbe notevole risonanza. Poco si
sa dello sviluppo del monachesimo in Irlanda; certamente la mancanza in Bretagna
di città rese difficile la creazione di una rete di vescovadi, per cui furono gli abati a
fare le loro veci e ad assumere la direzione delle chiese locali. Il monachesimo
benedettino è stato, per molti secoli, ritenuto il padre di tutti i monachesimi; da
studi storiografici sappiamo però che la sua “Regola” (scritta tra il 530 e il 560) trae
forte ispirazione dalla “regola del maestro” (scritta attorno al 500-530) e non il
contrario come si credeva; ciò non elimina i demeriti di un’opera che avrà
ampissima diffusione nell’VIII sec e che insegnerà ai monaci un più equilibrato
rapporto tra vita attiva e contemplativa (ora et labora).
BARBARO: Termine col quale i romani intendevano popolazioni dalla lingua
incomprensibile, nel tempo ha assunto connotazioni negative, e tuttora le possiede.
E’ utilizzato dalla stragrande maggioranza degli storiografi europei per parlare di
coloro che causarono le invasioni barbariche, che gli storiografi tedeschi prediligono
invece chiamare “migrazione di popoli”. Felix Dahn, esperto di storia degli ostrogoti,
scrive il romanzo “una notte per Roma”, nel quale narra dello scontro tra germanici
(ostrogoti) e latini (romani), e si conclude col salvataggio degli ostrogoti
sopravvissuti da parte dei vichinghi; il libro è pregno di convinzioni ideologiche che
Dahn esprime in qualità di romanziere, non potendo permetterselo quando doveva
svolgere il ruolo di storico. L’opera, infine, esprime la previsione del ritorno di questi
popoli nel suolo.
CESARE E TACITO: Cesare distingue i galli, i quali territori aveva sottomesso, dai
germani nel suo “De bello gallico”: dalle sponde orientali del Reno in poi per il
generale era terra germanica, ma non dà dei confini precisi, che restano quindi
vaghi, non delineabili. Tuttavia, l’opera di Cesare ci permette di delineare alcune
caratteristiche celebri dei barbari: costumi semplici, stile di vita guerresco. Tacito (98
DC) dedica un’opera (“L’origine e la collocazione dei germani”) alla popolazione,

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osservandoli positivamente e paragonandoli agli abitanti della Roma arcaica, lontani


dalla corruzione a lui contemporanea, che influirono notevolmente per le fortune
future della città. Rispetto a Cesare, Tacito dimostra di avere una cognizione degli
spazi abitati dai germani più chiara.
UTILIZZO DEL MITO: Richiamandosi all’oratore romano, Montesquieu esalta i
costumi semplici dei barbari, oltre che il loro amore per la libertà e lo spirito
guerresco, ritenendoli i portatori degli ideali di libertà e moderazione in Europa
dopo la dispotica esperienza imperiale romana; il pensiero del filosofo francese
verrà ripreso nell’età del romanticismo in Germania, utile a costruire un’identità
comune nell’ambito della formazione della nazione (anni 20 dell’800). Dopo, a fine
‘800 vengono posti come esempio positivo in chiave antimoderna e militarista.
Infine, il nazismo li utilizza come modello di superiorità razziale; d’altronde dal ‘400
si diffuse l’idea che coloro nati in Germania derivassero dai primi germani,
alimentando il mito della razza pura proveniente dal nord Europa. Si è dimostrato
che la “galassia barbarica” è frutto di stirpi dalle culture e provenienze varie e
differenti, inclini a contaminazioni continue con altre comunità: la questione razziale
è piuttosto una costruzione identitaria di metà ‘800.
DIVERSITA’ E RAPPORTO COI ROMANI: Grazie all’apporto archeologico e alla
collaborazione con le scienze sociali sappiamo che le popolazioni germaniche
avevano lingue e culture diverse tra loro, delineate da criteri oggettivi; la loro
identità comune è piuttosto una costruzione successiva, cementata da miti di origine
che riunivano varie etnie e avevano lo scopo di costituire una tradizione comune a
una pluralità di gruppi umani. L’archeologia ha anche smentito una serie di credenze
sui germani: ad esempio, il limes non rappresentava la linea tra civiltà e inciviltà né
delineava la sfera d’influenza culturale romana rispetto alle aree con presenza
barbarica; non era altro che un simbolo di confine militare-civile imperiale, mentre
lo scambio culturale Roma-barbari oltre lo stesso limes era incessante. Le influenze
romane hanno creato disuguaglianze sociali nei barbari, che, abbandonando i loro
mestieri tradizionali, ambivano a seguire il modello del soldato imperiale. Si è
sempre osservato con distacco al rapporto tra romani e barbari, considerati agli
antipodi; ma da Wenskus (1961), Pohl e Geary il rapporto è ritenuto talmente intimo
da aver generato un’evoluzione congiunta tra le due civiltà.
FEDERATI E REGNI POST-ROMANI, POPOLI BARBARICI: A partire dal II secolo i romani
avevano favorito l’arruolamento di mercenari, i cosiddetti “federati”, ossia
popolazioni che stanziavano, col beneplacito dell’impero, in territori di egemonia
romana (spesso di confine); ai federatisi applicava un particolare sistema giuridico:
erano considerati alleati con una certa autonomia, ma obbligati a fornire truppe ai

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romani. Walter Pohl sostiene che sia più corretto parlare di regni post-romani più
che di regni romano-barbarici, in quanto le istituzioni che si costituiranno lo faranno
nel pieno rispetto dell’ordinamento giuridico romano; persino il sistema fiscale
rappresenterebbe un elemento di continuità degli usi dell’impero tardoromano. A
poco a poco si è perciò affermata nella storiografia la consuetudine di parlare di
popoli “barbarici” e non germanici, per il ruolo di Roma nell’offrire loro mezzi di
sostentamento, ricchezze, simboli di status, modelli culturali e religiosi; per la
determinante presenza al loro interno di provinciali romani e di nomadi dell’est.
CONTINUITA’ COI ROMANI: Gallia, in Iberia e in Africa, nel V e nel VI secolo, le città
conservarono il loro ruolo di centri ordinatori delle realtà territoriali locali. Anche
le élites sociali continuarono a essere costituite, in buona parte, da famiglie di
origine romana. Significativamente, fino al 570-580, i re barbari non batterono
moneta aurea a proprio nome, ma a nome degli imperatori di Bisanzio. Anche la
produzione legislativa fu all’insegna della continuità, come dimostra la Lex Romana
Visigothorum, promulgata da Alarico II nel 506 – nell’alto medioevo, uno dei testi
fondamentali per la trasmissione della cultura giuridica romana. Analoga ispirazione
ebbe anche la Lex Romana Burgundiorum, emanata dal re Gundobado (467-516). Gli
storici discutono se tali leggi avessero carattere territoriale oppure personale. Nel
primo caso, esse riguarderebbero tutti gli uomini residenti in un determinato
territorio; nel secondo, solo coloro che appartenevano alle genti che le avevano
promulgate (Visigoti, Burgundi ecc.), mentre i Romani sarebbero rimasti sottoposti
alle proprie leggi. A partire dagli studi pioneristici di Alfonso García-Gallo sui Visigoti
(1941), la tradizionale interpretazione del diritto barbarico in termini di personalità
del diritto ha progressivamente perso terreno rispetto a una sua lettura in chiave
territoriale.
OSTROGOTI: Teodorico mosse dalla Moesia inferior (odierna Bulgaria) alla conquista
dell’Italia nell’autunno del 488, incoraggiato dall’imperatore d’Oriente Zenone, che
gli conferì il titolo di patricius, cioè di difensore della città di Roma e di governatore
dell’Italia e della Dalmazia. Vinto e ucciso Odoacre (493), pose la sua residenza a
Ravenna, dove si fece proclamare rex del suo esercito. Per poter governare anche i
Romani chiese e ottenne (498) da Costantinopoli la vestis regia. Teoderico, che
aveva soggiornato a lungo a Costantinopoli, collocava quindi il proprio rapporto con
l’impero nel quadro di un sistema di valori e di prerogative condivise. Gli Ostrogoti si
distribuirono sul territorio italico, in modo ineguale, concentrandosi soprattutto
nelle regioni settentrionali, a difesa della frontiera alpina. L’insediamento avvenne
secondo il principio della hospitalitas, vale a dire dell’acquartieramento militare,
tradizionalmente applicato dall’impero ai propri foederati, che prevedeva la
concessione di un terzo delle terre per il servizio prestato. Secondo Walter Goffart,

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in realtà agli Ostrogoti non sarebbero state cedute terre, ma sarebbe stata concessa
solo una quota dell’imposta fondiaria, la tertia, già versata dai possessores
all’impero. I domini ostrogoti comprendevano l’Italia e la Sicilia, le province retiche e
noriche, la Pannonia, la Dalmazia e, dal 508, la Provenza. Gli Ostrogoti, non
diversamente da Odoacre, scelsero la strada della convivenza tra l’elemento
barbaro, che si riservava il diritto di detenere in forma esclusiva la forza militare, e i
quadri eminenti della società romano-italica, nelle cui mani, almeno inizialmente,
restava il potere economico e politico-amministrativo.
Tale coesistenza riguardò anche:
 il diritto: imperiale per i romani, le antiche consuetudini nazionali orali
(bilagines) per i goti;
 il credo religioso: cattolico per i romani, ariano per i barbari.
Teoderico osservò massimo rispetto per il Senato romano e accolse nel consiglio del
re, accanto ai capi militari ostrogoti, numerosi esponenti dell’aristocrazia senatoria:
Boezio, Cassiodoro, Simmaco.
FINE REGNO E PROVENIENZA: 50 anni dopo Romolo Augustolo, quindi, gli assetti
territoriali, sociali, e politici erano all’insegna della continuità, in occidente.
Successivamente, si assiste a una lenta regionalizzazione del territorio dell’ex impero
occidentale: durante gli ultimi anni di Teodorico, l’aggressività dell’impero orientale
in occidente e la conseguente loro persecuzione agli ariani spinse il re goto a
perseguitare a sua volta i cristiani, rei di collusione con l’impero orientale. Alla morte
di Teoderico (526), si aprì uno scontro interno al ceto dirigente ostrogoto, che
provocò l’intervento di Giustiniano (535) in Italia e la fine del regno, dopo una
devastante guerra. Gli ostrogoti vengono rappresentati e descritti, tra ‘800 e ‘900,
come germani; le fonti antiche greche e latine sottolineavano invece sulle loro
connotazioni orientali. La lingua da loro parlata venne individuata come
protogermanica, e la conosciamo grazie alla traduzione della bibbia da parte del
vescovo Ulfila (IV sec).
FRANCHI: costruirono la propria dominazione nella provincia gallo-romana, tra le
regioni più fortemente romanizzate dell’impero. Al momento delle grandi invasioni
del V secolo erano già stanziati, come foederati, nei territori lungo le due sponde del
Meno e il corso settentrionale del Reno. A dare unità politica all’insieme eterogeneo
delle tribù franche fu tuttavia solo re Clodoveo (481-511), discendente da Meroveo,
il leggendario re eponimo della dinastia. Clodoveo riuscì a espandere notevolmente
il regno dei Franchi, ai danni del generale romano Siagrio, di Turingi, Alamanni,
Burgundi e Visigoti. Clodoveo, per governare i territori conquistati, seppe avvalersi
della collaborazione dell’aristocrazia gallo-romana, laica ed ecclesiastica. Per
rafforzare i rapporti con l’episcopato e con la chiesa di Roma, indusse i Franchi ad
abbandonare il politeismo e a convertirsi al cattolicesimo di credo niceno, avviando

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quella fusione profonda con la popolazione gallo-romana che avrebbe assicurato al


suo popolo un posto centrale nell’Occidente latino. Clodoveo volle inoltre che la
cristianizzazione avvenisse seguendo la liturgia e la disciplina ecclesiastica del
vescovo di Roma e non dell’episcopato gallo-romano: rinunciando a creare una
propria chiesa “nazionale”, fece dei Franchi i “figli primogeniti della Chiesa romana”.
Secondo la concezione patrimoniale del regno e del potere monarchico di tradizione
franca, alla sua morte il regno venne diviso tra i quattro figli nei regni di Neustria,
Austrasia, Aquitania e Burgundia. I ripetuti conflitti dinastici e la concorrenza dei
potenti lignaggi aristocratici indebolirono irreversibilmente la dinastia merovingia,
favorendo l’ascesa dei maestri di palazzo di Austrasia, i pipinidi, che dopo aver
bloccato con Carlo Martello, a Poitiers, nel 732, l’espansione islamica, assunsero
direttamente la carica regia con Pipino il Breve, nel 751.
I VISIGOTI: Dopo il sacco di Roma (410), i Visigoti si stanziarono in Aquitania, dove
diedero vita a un ampio regno con centro politico a Tolosa. All’inizio del VI secolo,
sconfitti dai Franchi (507), si ritirarono nella penisola iberica, dove crearono un
nuovo regno, che elesse a proprio centro, con re Liovigildo (568-586), la città di
Toledo. I Visigoti si mantennero solo inizialmente separati dalla popolazione
romano-iberica, dando presto inizio a un processo di acculturazione culminato
nell’abbandono della fede ariana alla fine del VI secolo, con la conversione di re
Recaredo al cattolicesimo (589). L’episcopato e le aristocrazie laiche romano-
iberiche furono coinvolti nell’amministrazione del regno. Le deliberazioni dei concili
ecclesiastici ebbero effetti civili. L’aristocrazia gota si romanizzò nella lingua e negli
stili di vita. Il regno fu travolto dall’espansione islamica nel 711.
I VANDALI: attraversarono il Reno tra il 406 e il 409, percorsero la Gallia e si
insediarono in Galizia, Lusitania e Betica (Andalusia). In seguito, sospinti dai Visigoti,
invasero nel 429-30 l’Africa settentrionale, che dominarono per circa un secolo, fino
alla conquista di Giustiniano (533-534). Con la flotta, imposero la loro egemonia su
Corsica, Sardegna, Baleari e Sicilia, giungendo a saccheggiare Roma nel 455. La
ferma volontà di non fondersi con le preesistenti élites romane, le razzie ai danni
dell’aristocrazia latifondista, l’attaccamento alla fede ariana e la persecuzione dei
cattolici portarono all’isolamento del ceto dirigente barbarico e al crollo del regno.
ANGLI E SASSONI: Tra il V e il VI secolo si stabilirono in Britannia varie tribù di Angli,
Sassoni e Juti, provenienti dalla Germania e dalla Danimarca. Le popolazioni locali, di
cultura celtica, si concentrarono nella Cornovaglia, nel Galles e in Scozia; la loro
cristianizzazione si avviò già nel VI secolo. Nel corso del VII e VIII secolo Angli e
Sassoni fondarono numerosi regni, fortemente divisi tra loro, ma che potevano
occasionalmente riunirsi attorno a un monarca: Northumbria, Mercia, Eastarglia,
Wessex, Sussex, Essex, Kent. In una prima fase prevalse il regno del Kent (eptarchia),
poi quello di Northumbria. La Britannia era stata nel frattempo cristianizzata, grazie
soprattutto a una missione voluta da papa Gregorio Magno.

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IMPERO D’ORIENTE A INIZIO VI SEC: Le vicende dell’impero romano orientale furono


diverse dalla zona occidentale fin dalla divisione voluta da Teodosio nel 395 tra i figli
Arcadio e Onorio; alla morte del primo, gli successe il figlio Teodosio II che governò
per circa quarant’anni (408-450). L’impero d’oriente non conobbe la concentrazione
di terre da parte dell’aristocrazia, confidando quindi in un grosso ceto mercantile
che comportava anche maggiore libertà al governo imperiale; inoltre l’imperatore
assunse il ruolo di difensore della dottrina cristiana, consolidando il rapporto tra
chiesa orientale e potere. Anche l’impero orientale dovette fronteggiare i barbari,
specialmente gli unni, senza grosse perdite territoriali e dirottando i gemani orientali
a occidente, fino alla salita al trovo di Giustiniano nel 527.
LA RICONQUISTA DELL’OCCIDENTE: Obiettivo di Giustiniano era riconquistare il
mediterraneo, confidando nella debolezza dei regni romano barbarici; persistevano
anche motivazioni religiose, ossia la lotta all’eresia dell’arianesimo. Innanzitutto fu
necessaria la “pace eterna” col re persiano Cosroe I del 532, poi sconfisse la rivolta
interna, detta di Nika, e infine poté iniziare la conquista del Mediterraneo. Quattro
le guerre principali: contro i vandali in Africa settentrionale, che divisi al loro interno
e indeboliti vennero sconfitti dal generale Belisario nel 534; la rapida vittoria indusse
Giustiniano ad attaccare i goti in Italia, popolo che, anche in questo caso, viveva un
periodo di conflitto interno per la successione di Teodorico, culminato con
l’uccisione di sua moglie Amalasunta: Belisario ne approfittò per sbarcare in Italia e
conquistare il sud nel 536. Nel 540 venne presa anche Ravenna, ma il nuovo re goto,
Totila, riconquistò il sud Italia; fu Narsete a sconfiggerlo a Gualdo Tadino nel 552,
dopo dieci anni di conflitti. Infine, nel 554 c’è l’ultima campagna, contro i visigoti nel
sud della Spagna, conquistando la zona che comprende le città di Cordova e Malaga.
GOVERNO DI GIUSTINIANO: Fece costruire edifici importanti come la basilica di S.
Sofia a Costantinopoli (ora moschea) e di S. Vitale a Ravenna, e diede grande
sviluppo al commercio e alla manifattura della seta, importando i primi bachi da seta
dall’estremo oriente; inoltre cercò di reprimere gli abusi nella tassazione, che era
uno dei più grandi problemi della convivenza civile. Nel 551 presiedette al concilio di
Calcedonia, convocato per porre fine all’eresia monofisita, che affermava la natura
solo divina del Cristo. A Calcedonia il concilio ribadì che in Cristo ci sono due nature,
umana e divina, e che coesistevano. Anche dopo un altro concilio, nel 553, la
quesitone rimase però aperta. Successivamente l’imperatore si schierò dalla parte
dei monifisiti, insistenti verso la condanna delle dottrine di Nestorio, condanna che
avvenne poi nell’editto “dei tre capitoli” (543); dopo che il papa Virgilio fu costretto
ad accettare il suo punto di vista, si creò una spaccatura con l’episcopato romano
destinato a durare fino alla fine del VII sec.

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GIUSTINIANO E IL DIRITTO: Giustiniano regnò per circa quarant’anni, dal 527 al 565,
e sposò Teodora; nel 528 il nuovo imperatori costituì una commissione preseduta
dal giurista Triboniano, che dovette predisporre una raccolta di costituzioni
imperiali: nello stesso anno apparve quindi il Codex Iustinianus. Nel 533 l’imperatore
fece pubblicare il Digesto o Pandette, una raccolta degli scritti dei giureconsulti
(esperti di diritto) più illustri, e nello stesso anno apparvero anche le Istitutiones,
fondamentali principi giuridici ad uso degli studenti. L’insieme di tutte queste opere
rappresentano il Corpus Iuris Civilis, che è il tramite fondamentale attraverso cui il
diritto romano è giunto fin dalla nostra epoca; il testo originale di Giustiniano è
andato perduto, abbiamo frammenti di esso a partire dall’XI/XII secolo, ma è nel XIX
secolo che si formula l’edizione di oggi, a cura di Mommsen e Kruger.
PRAGMATICA SANCTIO: del 554 su richiesta di papa Virgilio, rappresenta
l’emanazione del corpus iulis civilis in Italia, tra l’altro l’unico territorio occidentale
nella quale ciò avviene (fuori dalla penisola, c’erano le milizie federate nelle quali
persisteva gran parte della Lex di Teodosio). Stabiliva la suddivisione del territorio
italiano in prefetture del pretorio, guidate da duchi; all’interno di esse si trovano le
diocesi, divise a loro volta in provinciae. La struttura amministrativa non coincideva
però con la nuova situazione sociale nella quale si trovava la penisola: la divisione
tra amministrazione civile e militare presente nella sanctio appariva distante dalla
realtà, in quanto l’Italia era uno stato ancora militarmente precario e il potere
militare, esercitato dai duchi, era più forte di quello civile. Anche la distinzione tra
latini e goti non aveva senso, Giustiniano voleva riconsegnare ai patrizi i loro territori
originali ma molti di questi erano scomparsi, mentre i goti si erano perfettamente
integrati nella società italica. I vescovi nelle città avevano più rilevanza politica
rispetto ai funzionari bizantini, e le scuole gestite dai vescovi e i monasteri avevano il
controllo dell’educazione dei giovani. Nelle città i vescovi avevano anche il compito
di risolvere le controversie, senza che le parti si rivolgessero al tribunale. Nello
stesso tempo si mise in piedi un apparato fiscale capillare volto a fornire all’impero i
mezzi per la sua politica espansionistica. Esso ebbe però l’effetto di generare nella
popolazione nostalgia per il passato regime politico, creando le premesse per
l’invasione longobarda.
FIGURA DI GIUSTINIANO: Nel corpus iulius civilis si definisce “legge vivente innata”:
in lui è presente l’ispirazione divina, e fonda il diritto in quanto suggerito da Dio. Si
assiste quindi a un processo di sacralizzazione dell’imperatore e non solo, anche
degli addetti alla formulazione del diritto. Due immagini chiariscono bene la
duplicità della sua figura: nell’Avorio Barberini (VI Sec), è rappresentato
nell’abbigliamento del generale vittorioso, in modo simile alle figure dell’iconografia

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classica romana, mentre nel mosaico presente nella basilica di Ravenna l’imperatore
è raffigurato nel gesto di offrire il pane da consacrare in messa, la sua presenta
occupa il centro della scena e ha la testa circondata dall’aureola, simbolo delle
persone ritenute sacre. Le due rappresentazioni sono rivelatrici delle due anime di
Giustiniano, una ispirata alla romanità classica e l’altra ai principi cristiani, entrambe
all’origine della formulazione del Corpus Iulius civilis.
CRISI IMPERIALE: Costantinopoli aveva raggiunto il mezzo milione d’abitanti, circa un
terzo era plebe che, se da un lato era tenuta a bada da distribuzione gratuita di
grano, dall’altra comportava una frequente minaccia che portò a rivolte per fame e
una congiura fallita nel 562. Gli attacchi di slavi prima e arabi poi costrinsero
l’impero a rinunciare al sogno di riunificazione con l’occidente per concentrarsi sulla
difesa dei territori orientali minacciati, mentre, dopo pochi anni dalla morte di
Giustiniano, i territori di Spagna e Italia venivano perduti.
SLAVI: Dall’origine etnica poco chiara (si rede l’attuale Polonia, Slovacchia e
Ucraina), è certo che avessero una precisa identità linguistica al loro arrivo
nell’Europa centrale, per poi affievolirsi nella divisione tra slavi occidentali (polacci,
cechi, slovacchi) e orientali (russi, ucraini); nel VI sec giunsero nei territori dei
Balcani bizantini, che, occupati contro persiani prima e arabi poi, non potettero
impedire la loro occupazione. Il successivo tentativo di riconquista bizantino nell’VII
passò anche attraverso l’opera di evangelizzazione dei popoli slavi, con la
differenziazione tra slavia ortodossa e slavia romana (convertiti da Roma).
RIORGANIZZAZIONE E GUERRA COI PERSIANI: La sopravvivenza di Bisanzio fu
possibile grazie a un’opera di riorganizzazione dell’impero da parte di Maurizio
prima (582-602) e Eraclio poi (610-641). Il primo mise le province di Africa e Italia
nelle condizioni di difendersi autonomamente, gestite da esarchi; dopo la morte di
Maurizio ad opera di Foca, questo prese il potere e ci fu un periodo di crisi culminato
con la conquista dei persiani delle città di Antiochia, Gerusalemme ed Alessandria
d’Egitto. Deposto Foca, il nuovo imperatore Eraclio divise l’Africa in “themi”, a capo
di strateghi (avverrà piu avanti anche in Italia), col compito di radicare i soldati nel
territorio, del quale erano sia colonizzatori che proprietari; attorno al 630 sconfisse i
nemici, conquistando la capitale Ctesifonte mentre Costantinopoli resisteva
all’assalto persiano, e costringendoli a un trattato di pace. Nel 638 si accordò col
patriarca di Costantinopoli per la formulazione una nuova dottrina, il monotelismo,
che venne prima accolta positivamente a Roma e poi screditata dai papi successivi.
La questione restò aperta fino al 680, anno nel quale un concilio la condannò, ma
bisogna sottolinearla perché rappresenterà il motivo per il quale i monofisiti,
confidando sulla tolleranza religiosa islamica, lasceranno passare gli arabi in Egitto.

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LONGOBARDI: Popolo germanico originario della Scandinavia che giungono in Italia


attraverso il Friuli sotto il re Alboino e occupano nord Italia e gran parte del centro
Italia (esclusa Roma, Napoli e Puglia), fino alla Basilicata. Come riferisce Paolo
Diacono (monaco longobardo) l’esercito si articolava in gruppi di guerrieri (duchi)
con antenato comune che si muovevano con una certa autonomia, e avanzavano
nelle zone ove incontravano meno resistenza; gli stessi duchi, spinti da spirito di
autonomia, si rifiutarono di darsi un nuovo re per un decennio (574-584). I confini
stabiliti dagli storici contemporanei furono formati tenendo conto delle diverse
cappelle votive: San Michele per i Longobardi, San Martino per i Bizantini. Essendo il
popolo germanico che fu meno in contatto col mondo romano, gran parte dei loro
costumi rimasero e la stessa popolazione latina dovette inserirsi nella tradizione
longobarda per avere pretese di ascesa sociale. Dopo il già citato decennio di
anarchia militare, a partire dal re Autari (584-590) si cercò di dare maggiori poteri al
re, il quale si fece cedere dai duchi metà delle loro terre e limitò il loro potere
istituendo i gastaldi, che avevano il compito di controllarli.
GREGORIO MAGNO: Il successore di Autari, Agiulfo (590-616), fu il primo a porsi in
modo non conflittuale nei confronti del papato, guidata da Gregorio Magno (590-
604). Consigliere del papa Pelagio II, al quale successe, legittimò il primato del
vescovo di Roma sulla chiesa, che fino ad allora era puramente nominale, stabilendo
un intenso rapporto epistolare coi vescovi occidentali e riorganizzando la liturgia
romana (da lui prende il nome il canto gregoriano). Si occupò anche di costituire il
gruppo di missionari che battezzò il re di Kent in Inghilterra, ma soprattutto difese
concretamente Roma dagli attacchi dei duchi di Spoleto e Benevento con le risorse
clericali, sostituendosi agli assenti bizantini. Il battesimo con rito cattolico dell’erede
al trono longobardo Adaloaldo non comportò la conversione in massa dei
Longobardi, e si successero una serie di re ad alternanza cattolici ed ariani.
LIUTPRANDO: (712-744), cattolico, senza dubbio il più grande dei re longobardi, con
lui ci fu la completa conversione al cristianesimo del popolo, il superamento della
divisione etnica tra loro e romani, attraverso l’inserimento dei secondi nella loro
tradizione giuridica. Liutprando provò a conquistare totalmente l’Italia, giungendo
alle porte di Roma ma venne convinto da papa Gregorio II a rinunciare all’impresa e
riconsegnare le terre conquistate. Tra queste (728) il castello di Sutri venne donato
alla chiesa, simbolo dell’influenza politica che man mano il papa otterrà. Tuttavia,
non si venne a creare quel legame stretto e sperato tra elemento religioso e regio,
perciò, nella 2 parte dell’VIII sec, lo stesso papa non esiterà a far crollare il regno
longobardo con la chiamata in Italia prima di Pipino il breve e poi di Carlo Magno.

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BIZANTINI POST-LONGOBARDI E CHIESA: L’organizzazione sociale rimase la stessa,


ma ci sono diverse trasformazioni, anzitutto il problema della difesa, la quale
l’aristocrazia doveva provvedere personalmente vista l’assenza dell’organo centrale;
inoltre, la frammentazione dei possedimenti bizantini provocò forti sentimenti
regionali, che coinvolsero anche i funzionari provenienti da Bisanzio che formarono
così assieme al vecchio ceto locale una nuova classe di proprietari. A ciò si aggiunse
l’influenza sempre più forte della chiesa, che concedeva a questi parte dei loro
patrimoni terrieri sotto forma di enfiteusi, contratti a lungo termine. Questa
gestione di grossi possedimenti permise, ad esempio, all’arcivescovo di Ravenna nel
666 l’indipendenza disciplinare verso il papa (autocefalia), e soprattutto permise il
controllo politico pontificio di Roma, dove il duca bizantino rappresentava una figura
di supplenza del papa, prima della soppressione totale della carica nel 754, quando a
Pipino il breve venne conferita semplicemente la carica di patrizio dei Romani.
TESI DI PIRENNE: Pirenne nella sua opera “Maometto e Carlo Magno” afferma che
prima di Maometto la struttura degli scambi economici era immutata nel
Mediterraneo anche dopo il crollo dell’impero romano d’occidente, ergo i contatti
con la zona orientale del mare erano rimasti vivi; l’Islam rompe questo schema, e
per l’autore ciò influenzò l’unificazione “europea” sotto al figura di Carlo Magno e
del suo impero, che rappresenta perciò il contraccolpo del vecchio continente
rispetto all’egemonia mercantile-commerciale islamica nell’oriente del
Mediterraneo.
ARABIA: In base alle notizie più antiche (fornite dalla bibbia) la parte centro-
settentrionale dell’Arabia era abitata inizialmente da tribù di nomadi beduini e di
sedentari (fellahin); la zona meridionale è caratterizzata da stirpi di lingua diversa e
un livello più alto di civiltà. Qui si susseguirono vari regni, tra i quali ricordiamo
quello degli Himyariti, che dal I sec AC al V sec DC fecero del sud Arabia uno stato
prospero e in legami commerciali con Roma prima e Bisanzio poi, finendo poi sotto
la dominazione degli Etiopi. Seppur in maniera più lenta, anche nella parte
settentrionale si formarono centri politici maggiormente sviluppati, come il regno
dei Nabatei o di Palmira, distrutto dai romani nel 3 sec; con la loro scomparsa, il
territorio arabo conobbe un periodo di regresso culturale. La grande maggioranza
della popolazione era composta da beduini, che talvolta formavano aggregazioni di
carattere intertribale, ma conservavano autonomia attraverso un capo elettivo,
assistito da un consiglio e da un giudice; dal punto di vista religioso predominava il
politeismo (al Nord, però, le divinità erano sottomesse a una figura superiore, Allah).
La penisola, infine, era luogo di transito di merci provenienti dall’Africa e dall’India e
dirette verso il Mediterraneo; la circolazione avveniva lungo un itinerario che

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collegava lo Yemen a Gaza, passando per la Mecca, che divenne tra le più importanti
città arabe del V sec, grazie alle capacità politiche dei capi della tribù Quraish: questi
ne fecero un centro commerciale e religioso, riunendo tutte le divinità arabe nella
Kaaba, santuario a forma di cubo costruito da Abramo dove si conserva la pietra
nera (un asteroide in realtà), portato dall’arcangelo Gabriele.
MAOMETTO: La famiglia di Maometto era rilevante alla Mecca, il nonno aveva il
compito di distribuire l’acqua ai pellegrini. Nel 610, secondo la tradizione
musulmana, gli apparve l’arcangelo Gabriele che gli annunciò di essere l’apostolo di
Allah; nel 613 diede inizio alla predicazione, che puntava a far riconoscere Allah
come unico vero Dio e far fare atto di sottomissione (islam) alla sua autorità. Ciò
portò alla reazione dei quraishiti, che spinse Maometto nel 622 a fuggire da la
Mecca, rifugiandosi in quella che poi prenderà il nome di Medina (“città del
profeta”). Questa fuga (égira) è considerata dai credenti come l’inizio di una nuova
era (difatti il calendario islamico comincia dal 16 luglio 622). A Medina riuscì a creare
una folta comunità convertendo gli arabi politeisti, e nel 624 sostituì La Mecca a
Gerusalemme come punto di orientamento per la preghiera, decisione che mostrava
come la nuova religione mirasse a consolidarsi nella tradizione araba;
contemporaneamente, istituì il digiuno nel mese di ramadan in ricordo della
rivelazione, che egli ebbe in quel mese. Gli attacchi del suo gruppo alle carovane che
si muovevano tra la Mecca e l’Egitto costituivano una costante minaccia per i
quaraishiti che furono costretti a convertirsi aprendo a Maometto le porte della città
nel 630. Il pensiero del profeta fu fissato nel Corano una ventina d’anni dopo la sua
morte (avvenuta nel 632); secondo i fedeli, il Corano dovrebbe dare una risposta ad
ogni interrogativo umano, ma fu presto chiaro che ciò non era possibile, si fece
ricorso perciò alla sunna, ossia la tradizione relativa al comportamento di Maometto
in vari frangenti, raccolta dai suoi più diretti discepoli.
POST-MAOMETTO: Alla morte del profeta insorsero contrasti tra i fedeli per la
designazione di un “sostituto” (khalifa, califfo); la scelta cadde su Abu Bakr, tra i
primi seguaci nonché suo suocero. Alcune tribù beduine non riconobbero la sua
autorità, la risposta del califfo non si lasciò attendere, riprendendo in fretta il
controllo totale della penisola e lanciando le sue truppe in direzione di Iraq e Siria
nel 633 e 634, quest’ultimo anno della sua morte, che riaprì la questione della
successione, resa difficile dalla violenza che portarono all’assassinio dei 3 successivi
califfi. La tensione culminò in rottura con l’ascesa al califfato di Ali, genero di
Maometto il quale stabilì la sede a Kufa, Iraq; deposto sulla base di una sentenza che
lo ritenne colpevole dell’omicidio del suo predecessore, si mantenne in armi coi suoi
seguaci, detti sciiti (da shia, partito), in contrapposizione al resto dei musulmani,

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detti sunniti in quanto rispettosi del Corano. La morte di Ali nel 661 segnò l’adozione
di una forma organizzativa più complessa nel sistema islamico. L’uguaglianza
prevista dal libro sacro tra i musulmani era teorica, in quanto acquisirono egemonia
in poco tempo i primi compagni di Maometto, e alla morte di quest’ultimo i clan
familiari, la quale influenza il profeta era riuscito a ridimensionare in nome della
comunanza di fede. Inoltre, i non arabi convertiti all’islamismo si trovarono in un
piano di inferiorità, in quanto soggetti (mawali, clienti) alla protezione di un capo
tribù, ed ebbero il divieto di reclutamento nell’esercito fino all’VIII sec. I cristiani ed
ebrei (detti dhimmi) conservarono la loro religione in cambio di una serie di imposte
non elevate, per cui la dominazione araba veniva talvolta accolta addirittura di buon
grado. A capo di ogni provincia fu posto un governatore (amir, emiro), assistito da
un corpo di guardie e da un responsabile del diwan, l’apparato finanziario.
DINASTIA OMAYYADE: La gestione di territori così estesi comportò il rafforzamento
del ruolo del califfo, che, a partire dalla dinastia Omayyade (660-750) divenne
ereditaria; la stabilizzazione del potere su base dinastica coincise con la ripresa
espansionistica: la capitale divenne Damasco (Siria), mentre gli sciiti si mantennero
in armi in Iraq, ciò non limitò l’avanzata militare, che si mosse inizialmente verso
Costantinopoli, senza riuscire a prenderla (ultimo attacco 718), a quel punto si puntò
alle isole di Cipro, Creta e Rodi, conquistandole e diventando padroni del
mediterraneo occidentale. Nel frattempo, in meno di 50 anni venne conquistata
l’Africa settentrionale, nonostante la resistenza dei Berberi, guidati da una
profetessa, la Kahina. Sconfitti e convertiti, manterranno spirito di autonomia,
aderendo al movimento dei Kharigiti per uguaglianza tra i musulmani. Nel 711
giunsero in Gibilterra (“Gebel”, Monte ed “El Tarik”, nome del comandante arabo), e
conquistarono la Spagna in 5 anni, passando poi in Gallia, dove persero a Poitiers nel
732. Nonostante ciò mantennero il controllo di Provenza e Linguadoca prima di
ritirarsi in Spagna, mentre i califfi omayyadi raggiungevano nel 714 il bacino
dell’Indo. Anche in queste terre la conversione fu rapida, ma la convivenza si rivelò
più difficile, per la concentrazione delle terre nelle sole mani dei dominatori arabi.
DINASTIA ABBASSIDE: La situazione mutò nel 747 in seguito a un’insurrezione degli
Abbassidi, pretendenti del califfato in quanto discendenti diretti di al-Abbas, zio di
Maometto. Impadronitisi del potere, spostarono la capitare in Iraq, dove nel 762
venne fondata Baghdad, e nello stesso tempo riorganizzarono la figura del califfo,
considerato rappresentante di Dio in terra e quindi al di sopra dei comuni mortali. Il
potere effettivo si andò concentrando negli alti funzionari, tra questi il visir, al quale
faceva capo l’amministrazione centrale statale; novità si presentarono anche nel
reclutamento, che passò sotto il controllo non più delle tribù ma di capi militari

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(amir), che spesso si mettevano alla testa di movimenti secessionistici, per questo
motivo fu istituito un capo supremo dell’esercito, al di sopra anche del visir. Tutto
ciò si ricollegava a un processo tendente ad affermare l’uguaglianza di tutti i
musulmani, riducendo l’influenza dei clan familiari e degli arabi. Forte mezzo di
unità culturale fu la lingua araba, che venne utilizzata per sviluppare anche le arti e
le scienze, con l’apporto fondamentale che essa diede nel campo della matematica e
della geografia. Dal punto di vista economico, grande sviluppo ebbe il settore
agricolo, anche se la civiltà araba è da considerare civiltà urbana, visto l’incredibile
incremento demografico che ebbero le loro città. Infine, da ricordare il ruolo
egemone che acquisirono i commercianti, che resero luoghi come Baghdad e
Alessandria d’Egitto grandi centri di consumo e di scambi.
DEBOLEZZE ARABE: Elementi di debolezza si manifestavano negli squilibri sociali
sempre più schiaccianti: la concentrazione di terre nelle mani degli alti funzionari
statali comportava privilegi fiscali per loro, ma ai danni di piccoli proprietari, che
erano costretti a vendere loro le terre, comportando lo spopolamento delle
campagne e la formazione di gruppi sempre più consistenti di miserabili nelle città.
Ma ciò che mise realmente in crisi l’impero furono le varie spinte autonomistiche,
nel corso del tempo sempre più incontrollabili, così già nel X secolo il califfo fu
rivendicato sia dalla dinastia dei Fatimiti (che controllavano Africa del Nord, Siria e
Palestina) sia dall’emiro di Cordova, discendente dell’unico superstite omayyade
sfuggito al massacro operato dagli Abbassidi, che si era rifugiato in Spagna e lì
proclamato emiro dalle truppe fedeli alla sua famiglia.
CALO DEMOGRAFICO EUROPEO: Fenomeno difficilmente quantificabile, per via degli
scarsi dati in possesso, tuttavia tutti questi convergono nel descrivere i secoli V-VIII
nostrani come periodo di grandi spazi vuoti tra un insediamento e l’altro. A ciò si è
arrivati attraverso un processo lungo cominciato dal II-III sec, e le popolazioni
germaniche non favorirono il ripopolamento in quanto giunsero in numero limitato
(gli ostrogoti che si insediarono in Italia sono valutati attorno alle 100.000 unità,
idem i longobardi); alle guerre si aggiunsero peste ed epidemie varie (come la
malaria, endemica nelle zone paludose), e le devastazioni longobarde a partire dal
568-569 peggiorarono una stima demografica che raggiunse i 2 milioni e mezzo di
abitanti nel VII sec, un terzo della popolazione del I sec.
CAMPAGNA: Con le città scomparse o quasi, gli abitanti provvedevano ai loro bisogni
alimentari mediante terre coltivate. La produttività era bassa, per via di una perdita
delle conoscenze tecniche accumulate in età romana; d’altra parte la scarsa
disponibilità di denaro da parte dei contadini li costringeva a produrre da sé quegli
utensili che non potevano permettersi di comprare al mercato, da qui anche una

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tendenza all’autoconsumo e, di conseguenza, alla diversificazione della produzione.


Il sistema più usato era il maggese, col terreno diviso in due parti, una lasciata a
riposo per un anno, l’altra coltivata (rotazione biennale). Il contadino spesso non era
proprietario della terra di coltivava, o nemmeno di se stesso, in quanto schiavo; il
signore chiedeva a questo parte del raccolto e un numero di giornate lavorative,
mentre al coltivatore libero assunto proponeva lo stesso ma in misura minore. A
questi vennero affiancandosi i piccoli proprietari delle aree circostanti che, non
trovando protezione nei funzionari pubblici, finirono per chiederla ai proprietari
fondiari della zona, preferendo cedere a loro le terre per poi riprenderle in affitto, in
modo da assicurarsi la loro protezione. Il risultato di tale processo fu che le grandi
proprietà si vennero articolando in terre date in concessione a coloni liberi (il
massaricio), e terre gestite dal proprietario attraverso amministratori di sua fiducia
(riserva padronale); l’insieme delle due parti formava la curtis.
SIGNORIE, ECONOMIA: L’evoluzione da proprietario a signore è frutto di un secolare
percorso, che vede un punto di svolta man mano che i funzionari pubblici
cominciavano a configurarsi come oppressori o a non garantire la protezione
necessaria, in modo da spingere piccoli proprietari e uomini liberi ma senza terre a
chiederla ai proprietari fondiari. A onor del vero già nell’VIII sec era comune la
pratica del commendatio, nella quale per iscritto si riconosceva l’autorità del signore
in cambio della sua promessa di protezione verso chi firmava il documento. E’ solito
credere che si trattasse di un periodo caratterizzato da una circolazione monetaria
limitata (ne era d’accordo anche Pirenne, che attribuiva all’espansione araba la
ruralizzazione dell’Europa). Si trattava di un commercio che riguardava pochi tipi di
beni, di valore modesto: l’oro vergeva verso oriente, dove si riuscivano ad esportare
soprattutto schiavi (termine che deriva da slavo). Rare eccezioni di un’economia
florida nell’alto medioevo sono quelle dell’Italia meridionale, Ravenna e Venezia,
che già nel IX sec presentava una flotta commerciale di notevole importanza.
REGNO/IMPERO CAROLINGIO: Rappresentò la realtà politica più ampia del
medioevo occidentale, nonché il contesto nel quale si concepì la più altra simbiosi
tra potere regio e sacerdotale, in quanto questi convergevano verso un doppio fine,
la giustizia in terra e la salvezza oltre la morte. Tra 7 e 8 sec ci fu l’affermazione tra i
franchi di un nuovo gruppo parentale, i Pipinidi, che seppero costruire egemonia nel
regno grazie a 3 elementi: iniziativa militare, forte rete clientelare nell’aristocrazia
d’Austrasia, e protezione al monaco Wynfrith, in missione in Germania per conto del
papato. Data chiave è il 751, quando Pipino III depose il re Childerico III e assunse il
trono. Secondo “gli annali del regno dei Franchi” (prodotti da ambienti vicini ai
Pipinidi) i grandi del regno avrebbero mandato ambasciatori dal papa Zaccaria per

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“legittimare” Pipino, in quanto, si legge, i re merovingi non avevano alcun potere


effettivo. La narrazione pone l’intervento papale prima dell’incoronazione, ma nella
deposizione di Childerico l’effettivo ruolo della chiesa di Roma fu minimo. Il colpo di
Stato si attuò rinchiudendo il re in monastero, tagliandogli la barba (simbolo di
forza) e procedendo al rito dell’unzione del pipinide da parte del monaco Wynfrith;
soltanto dopo ci fu l’intervento di Zaccaria. Nel 754, il nuovo papa Stefano II,
prendendo atto dell’assenza bizantina, incontrò Pipino a Sant-Denis, dove ripeté il
rito dell’unzione per lui e per i figli e lo insegnò della carica di patricius di Roma in
cambio di protezione contro la minaccia longobarda.
ESPANSIONE TERRITORIALE: La più immediata conseguenza dell’incontro del 754 fu
la spedizione di Pipino in Italia, contro i Longobardi di Re Astolfo, che fu sconfitto e
costretto a restituire al papato le terre conquistate; alla morte del re franco si avviò
una politica volta a creare una rete di legami coi Longobardi, e pare che le figlie del
re Desiderio furono date in sposa ai figli del defunto Pipino, Carlo e Carlomanno; ma
alla morte di quest’ultimo (771), Carlo ruppe i legami e avviò una campagna
d’espansione territoriale che cominciò dall’Italia, conquistata dopo un lungo assedio
della capitale longobarda, Pavia; rimasero estranee al dominio franco le terre
bizantine e papali, e il ducato di Benevento (che rimase longobardo). Carlo operò
per conservare alcuni elementi della cultura dei dominati, intitolandosi re dei franchi
e dei longobardi e mantenendo la capitale a Pavia. Conquiste avvennero anche in
Spagna (con la costruzione della marca hispanica, a sud dei Pirenei, 795) e
soprattutto in Germania settentrionale, dove incorporò con successo la Sassonia,
puntando anche all’elemento religioso (erano pagani, favorì la fondazioni di varie
diocesi nella zona); anche qui venne costruita una circoscrizione militare, detta
marca orientale (nucleo iniziale l’attuale Austria, fine 8 sec), la marca era un luogo di
difesa e scambio con le popolazioni fuori dall’Impero. Dinamiche simili si
verificarono coi danesi, attraverso la costruzione del Danewirke, lungo terrapieno.
DA REGNO A IMPERO: Papa Leone III, fuggito da Roma per scampare ai suoi
oppositori, fu riportato nell’Urbe e, riottenuta la pienezza dei poteri, incoronò Carlo
imperatore la notte di Natale dell’800. Fu un gesto dovuto alle difficoltà del papato
di difendere singolarmente i propri possedimenti, impegnando così stabilmente i
franchi a proteggere la sede papale; ciò comportò tensioni ideologiche con Bisanzio,
che si poneva come diretta discendente della Roma imperiale, tuttavia le debolezze
della forza orientale in quel periodo fece sì che la situazione non sfociò in scontro
militare. D’altronde, la concorrenza coi bizantini era poco inutile anche alla politica
carolingia, e non è un caso che, al momento dell’incoronazione del figlio Ludovico il
Pio (813) Carlo procedette secondo modalità franche, ad Aquisgrana. La costruzione

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di un impero così vasto rece necessario un sistema di deleghe, e la funzione chiave


era quella dei conti, incaricati di governare a nome del re un territorio (comitato);
alcune aree erano organizzate in circoscrizioni più grandi, le marche, affidate ai
marchesi; erano incarichi affidati a esponenti di grandi gruppi parentali, ma erano
assunti in aree lontani dalle loro regioni di provenienza, per far sì che la potenza
derivasse dalla delega e non dalla ricchezza personale. Inoltre, erano incarichi
temporanei (almeno fino al IX sec, quando divennero vitalizie ed ereditarie). Figura
differente quella dei missi regis, inviati del re dalle funzioni poco chiari, certamente
avevano il compito di controllare e talvolta sostituire il lavoro dei conti. Il sistema
clientelare costruito dai pipinidi assunse grande rilievo dalla seconda metà dell’8
sec, sotto il nome di vassallaggio: il vassallo era un uomo che giurava fedeltà militare
a un potente, impegnandosi a combattere per lui in cambio di protezione e sostegno
economico (spesso terre, dette beneficium); sempre grazie agli “annali del regno dei
franchi” abbiamo testimonianza del rito del giuramento, per la precisione del
legame che unì il duca di Baviera Tassilone a Pipino, col primo che mise le proprie
mani nelle mani del re (immixtio manuum) giurando fedeltà eterna. La forza
carolingia fu proprio nel costituire una vasta rete clientelare che si traduceva in forza
militare attraverso il vassallaggio.
CHIESA E CULTURA DI CORTE: I chierici non potevano combattere, quindi il legame
tra re e vescovi non assunse mai forme di vassallaggio, né i vescovi divennero conti
(spesso erano però missi regi); era proprio il ruolo di vescovo ad essere utile per il
regno/impero, in quanto consideravano connaturato alla propria funzione aiutare il
potere reale, attraverso strumenti come la capacità di orientale i fedeli verso
l’obbedienza al re. Così anche gli abati: i monasteri erano centri di preghiera ma
anche di elaborazione culturale, ciò va considerato per comprendere l’impegno
regio nel tutelare i centri monastici con la riforma promossa da Ludovico il Pio, che
impose la Regola di Benedetto come unico testo di riferimento. Inoltre, spesso alle
chiese erano concesse i diplomi di immunità, ossia il divieto ai funzionari di entrare
nelle terre dei beneficiari per riscuotere tasse. Il potere ecclesiastico contribuì quindi
assieme alla cultura di corte alla costruzione della memoria del popolo franco,
attraverso alcune scelte ideologico-narrative precise, basti pensare all’esaltazione
per la battaglia di Poitiers, alla creazione della leggenda dei “re fannulloni”, ultimi re
merovingi, o alla legittimazione papale del colpo di stato di Pipino III. Lingua dello
scritto è il latino, anche se nel 9 sec vediamo emergere le lingue volgari ed è del 10
sec la prima testimonianza scritta di volgare italico che ci è arrivata, i placiti capuani.
DALL’IMPERO AI REGNI: Da Pipino III a Ludovico il Pio (751-840) c’è la presenza di un
solo re, per via di varie vicissitudini, ma la tradizione franca vuole che il regno venga

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diviso tra i figli. Già Carlo Magno, con la divisio regni dell’806, aveva destinato al
figlio Carlo la parte centrale del dominio, a Pipino l’Italia, e a Ludovico l’Aquitania,
ma la morte dei primi due fece sì che alla morte del Magno (814) l’unico erede fosse
l’ultimo, che dovette subire tuttavia le pressioni di Bernardo, figlio del fratello Pipino
dal quale assunse la carica di re d’Italia. Cercò di risolvere la situazione con
l’ordinatio imperii dell’817, in cui nominò il primogenito Lotario come suo unico
erede, attribuendo agli altri due suoi figli (Pipino e Ludovico) territori minori,
scatenando l’ira di Bernardo che fu imprigionato e accecato; è importante
sottolineare la rivolta del re d’Italia perché avvenne grazie all’aiuto delle sue
clientele vassallatiche, che assumevano perciò respiro regionale e non più imperiale.
Altre tensioni si susseguirono dalla nascita di Carlo il Calvo, figlio del Pio e della
nuova moglie Judith, che orientò la politica del marito in direzioni differenti
dall’ordinatio imperii; si giunse alla battaglia di Colmar (833) dove i figli nati dal
primo matrimonio sconfissero Ludovico e lo costrinsero alla deposizione del trono,
in un concilio nel quale dovette fare penitenza dei suoi peccati, ma riuscì appena un
anno dopo a riprendere il potere. Alla sua morte (840) un conflitto aperto vide
scontrarsi Lotario, Ludovico e Carlo (Pipino era morto), tre passaggi sono importanti:
battaglia di Fonrenoy dell’841, Lotario sconfitto dai fratelli; i giuramenti di
Strasburgo dell’842 sanciscono l’alleanza tra Ludovico e Carlo, la pace di Verdun
dell’843 che pone fine alle ostilità, e nella quale i fratelli spartirono l’Impero: a Carlo
andò il regno dei Franchi occidentali (l’attuale Francia, pressappoco), a Ludovico i
Franchi orientali (Germania, pressappoco), a Lotario una fascia intermedia che va
dall’Alsazia all’Italia. Dopo questo accordo, si rinunciò a un’idea di impero come
struttura unitaria, e si costituirono forme politiche di stampo maggiormente
territoriale. Con la morte di Carlo il Grosso (888) si sancisce la fine del dominio dei
carolingi, che tornarono singolarmente al trono in alcuni casi ma mai stabilmente.
CRISI CAROLINGIA: A partire dalla metà del 9 sec le divisioni dell’impero indussero a
una trasformazione nei rapporti tra i re e l’aristocrazia, che sotto Carlo Magno
avevano assunto duplice veste, i servizi militari che i grandi garantivano al re in
cambio di una sua concessione di benefici feudali e incarichi istituzionali. Ma in
questo periodo i re non disponevano più del gran numero di terre che Carlo poteva
garantire ai suoi vassalli, ergo l’equilibrio si era spostato in favore dell’aristocrazia e i
re cedettero alle loro richieste, sintetizzate specialmente nella possibilità di
conservare a vita il proprio incarico e trasmetterlo ai propri figli. Esempio di questa
prassi che andò man mano sviluppandosi è il capitolare di Quierzy (877), nel quale si
specifica che a un’improvvisa morte del conte il successore sarebbe stato deciso tra i
parenti di questo, dato che il figlio era in spedizione con l’imperatore e al ritorno ne
avrebbe preso il posto. Dal 10 sec notiamo come l’ereditarietà delle cariche favorì la

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regionalizzazione dei funzionari, che d’altronde mostravano di essere più attenti alla
gestione delle aree in cui disponevano di terre, disinteressandosi delle zone di altre
dinastie.
INCURSIONI: Da fine 9 sec alla metà del 10 ci fu un’intensa mobilità di gruppi armati
che dall’esterno dell’impero partirono per incursioni e saccheggi in Italia, Francia e
Germania, oltre ad impegnarsi in un’operazione di conquista dell’Inghilterra. Queste
bande possono essere ricondotte a tre unità etniche: i normanni (originari della
Scandinavia), gli ungari (attuale Ungheria), e saraceni. Con questi ultimi ci troviamo
di fronte a vari gruppi etnici impegnati in attività piratesche via mare, e a fine 9 sec
aumentarono la loro pericolosità con la costruzione di basi permanenti, tra le quali
la più nota era Fraxinetum (baia di Saint-Tropez) dalla quale partirono una serie di
spedizioni che cessarono nel 972, quando il conte di Arles e il marchese di Torino si
allearono per distruggere la base saracena. Gli ungari effettuarono le proprie
incursioni in Germania e Italia settentrionale, combattendo a cavallo e arrivando a
saccheggiare luoghi come Pavia e la Lorena; si riveleranno poi preziosi alleati,
quando nelle lotte di potere in Italia nel 10 sec verranno assunti dai vari aspiranti al
trono per combattere al loro servizio. Sarà Ottone I di Sassonia a sconfiggerli a
Lechfeld (955) e porre fine alle loro incursioni; nei decenni successivi si avviò la
conversione degli ungari al cristianesimo e il regno divenne alleato della Germania. I
normanni erano popoli che viaggiavano armati sia per difendersi che per effettuare
atti di pirateria; se a est prevalse da dimensione commerciale, con la creazione di
insediamenti destinati a diventare luoghi di scambio (come il principato di Kiev, in
costante rapporto coi bizantini), in occidente prevalse l’azione militare, che può
essere divisa in 3 fasi: primi decenni del 9 sec, brevi incursioni in Inghilterra e
Francia; metà 9 sec, incursioni più decise che portarono all’attacco tra le altre di
Londra e Parigi; fine 9 sec, dalle incursioni si passa agli insediamenti, in Inghilterra e
nella Francia del nord, quest’ultimo riconosciuto dal re Carlo il semplice, che nel 911
diede vita al ducato di Normandia, che portò a sua volta alla cristianizzazione dei
normanni e a un’assimilazione del ducato agli altri principati francesi.
DIVISIONE REGNO, BORGOGNA: Dal 10 sec scomparve quasi del tutto l’attività
legislativa regia, i re intervenivano soprattutto attraverso la concessione di diplomi,
ampi poteri a un destinatario preciso (spesso chiese); in molte aree dovevano
limitarsi a constatare la forza delle aristocrazie locali, legittimandoli. In linea
generale, l’impero carolingio si divise in 4 regni: Borgogna, Italia, Germania, Francia.
La prima si affermò a fine 9 sec come territorio autonomo gestito dai Rodolfingi, in
parte della Francia e dell’attuale Svizzera francese; il dominio si estese alla Provenza,

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ma la crisi dinastica iniziata alla morte di Rodolfo II consentì ai re di Germania il


controllo sulla Borgogna, fino all’annessione totale del territorio nel 1034.
ITALIA: Dal’888 (morte di Carlo il Calvo) fino al 961 l’Italia fu segnata da conflitti
dinastici: la fine della dinastia carolingia lasciò campo a una serie di pretendenti al
trono, nessuno dei quali poteva vantare ascendenza carolingia per via maschile;
Berengario del Friuli fu proclamato nell’888, ma sconfitto da Guido di Spoleto l’anno
dopo, che venne prima incoronato re e poi imperatore, per poi morire nel 894, anno
nel quale riprese il potere Berengario che regnò per 30 anni, periodo nel quale
dovette affrontare prima il figlio di Guido (Lamberto, sconfitto e ucciso) e poi
Ludovico di Provenza (sconfitto e accecato). A quel punto parte dell’aristocrazia
italiana offrì il trono a Rodolfo di Borgogna, che riuscì ad uccidere il re ma perse con
Ugo di Provenza (926); Ugo regnò vent’anni, per poi lasciare la corona al figlio
Lotario, al quale succedette Berengario d’Ivrea, prima dell’unione dei regni di
Germania e Italia da parte di Ottone I (961).
GERMANIA: Ultimo re carolingio a controllare la Germania fu Ludovico il fanciullo,
(911) da allora i duchi a sceglievano insieme il re, principio non sempre rispettato:
nelle fasi di forza il re era in grado di imporre il figlio come successore, in quelli di
debolezza doveva sottostare alla scelta dei duchi. Nel 911 venne scelto Corrado di
Franconia, ma alcuni aristocratici non lo ritenevano re legittimo, e subì le ostilità di
Enrico di Sassonia, col quale si giunse a un accordo di non ingerenza del monarca nei
domini del duca. Fu la premessa per l’ascesa di Enrico al trono nel 919: dal allora,
fino al 1024, i re saranno tutti sassoni (e tutti da padre in figlio, tranne Enrico II).
Enrico sottomise la Lotaringia, ma l’ampliamento più rilevante fu effettuato dal figlio
Ottone I, che unì il suo regno a quello italiano, “legittimandosi” attraverso il
matrimonio con la vedova di Lotario, sconfiggendo il primogenito Liutdolfo (che
ambiva al potere personale sull’Italia) e (dopo aver interrotto le incursioni normanne
a Lechfeld nel 955), scendendo nella penisola per ottenere a Roma la corona
imperiale (961). La forza degli Ottone risiedeva nell’assegnare cariche ducali a
membri del ramo familiare, che garantivano fedeltà al re. Ottone III pose al centro
della propria ideologia il rinnovamento dell’impero romano, attraverso l’inserimento
di elementi che si rifacevano all’età romana nel cerimoniale imperiale. Inoltre
impose l’elezione a papa del cugino, che divenne Gregorio V (996), scatenando la
ribellione dell’aristocrazia romana, che costrinse lo stesso Ottone a intervenire
militarmente per deporre il papa da loro eletto e reinsediare Gregorio, al quale seguì
Silvestro II, intellettuale della sua corte; queste nomine indicavano anche la volontà
di elevare il livello culturale del pontificato, ma la prassi dei papi d’Oltralpe non ebbe
seguito. La morte di Ottone III nel 1002 aprì una breve crisi dinastica che si risolse

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con l’ascesa al trono del cugino Enrico II, che diede spazio a nuovi gruppi aristocratici
nelle cariche ducali.
FRANCIA: Anche per la Francia, l’888 lasciò spazio a nuove dinamiche per il possesso
della corona, che andò a Oddone di Parigi, anche se sopravvissero politicamente i
carolingi, tant’è che alcuni settori aristocratici scelsero di incoronare Carlo il
semplice, che alla morte di Oddone divenne unico re (898). Era un monarca debole,
deposto perciò dall’aristocrazia nel 922, che tuttavia evitò di far succedere il figlio
Ugo per scongiurare la creazione di una dinastia regia. Lo stesso Ugo il Grande
preferì nel far tornare dall’esilio il figlio di Carlo (Ludovico IV) e fargli assumere la
porpora (936), evitando perciò la sua incoronazione, atto che avrebbe suscitato le
ostilità degli altri principi. Ma nel frattempo l’importanza del suo ramo aristocratico
(i Robertini) crebbe e culminò con l’ascesa al trono di suo nipote, Ugo Capeto (987),
prese il via la dinastia capetingia, che conserverà la corona francese fino al 1328.
INGHILTERRA, SPAGNA: La tradizione politica inglese prevedeva un’alta
frammentazione del territorio, dal secolo 9 assistiamo alle incursioni normanne, che
portano al dominio dell’area centrale, e all’egemonia del Wessex, regno posto nella
parte occidentale dell’isola che riuscì a mantenersi autonomo dall’espansione
normanna, col culmine che si raggiunse sotto il principato di Alfredo il grande, che
arrivò a controllare tutti i regni inglesi non “normanni”, dominio che non durerà
molto, concludendosi alla morte del suo successore, il figlio Edoardo (924). Fu solo
all’inizio dell’11 sec che si costituì il regno inglese unitario, grazie al re norvegese
Knut, che nel 1016 arrivò ad affermare il controllo sul Wessex ergo su tutti i
principali regni inglesi. Knut controllava al contempo i regni di Danimarca e
Norvegia, consentendo integrazione tra i regni sul mare del Nord. Nel 1066 ad
ambire la corona inglese c’erano tre personaggi: Godwinson duca di Wessex, il re di
Norvegia Harald e il duca di Normandia Guglielmo. Fu incoronato il primo, ma subì
gli attacchi degli altri due, sconfiggendo Harald ma perdendo con Guglielmo ad
Hastings, battaglia che viene considerata momento di svolta della storia inglese. I
decenni successivi servirono all’integrazione tra aristocrazia normanna e inglese. In
Spagna la convivenza tra emiri e regni cristiani fu segnata da tensioni di fondo, ma
non diede vita a scontri militari, se non con piccole interferenze tra le diverse
dominazioni; solo alla fine del secolo 9 la reconquista assumerà forma strutturata,
organizzata dal papato, che raggiungerà risultati di rilievo a partire dal 13 secolo.
CLUNY: Nel 910 il duca Guglielmo d’Aquitania fondò l’abbazia di Cluny, rinunciando
a ogni forma di controllo su di essa (spesso chi fondava monasteri si riservava il
diritto di nominare gli abati). Pur muovendosi nella regola benedettina, i cluniacensi
ne diedero un’interpretazione personale, basata sulle preghiere (con specifica

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attenzione a quelle per i defunti) che occupavano la massima parte del tempo dei
monaci e rappresentarono “merce di scambio” tra monaci e società: garantivano
benefici spirituali a quei settori aristocratici che sostenevano economicamente
l’abbazia. Nel giro di pochi decenni i cluniacensi acquisirono grande fama e già il
secondo abate fu incaricato di riformare antiche abbazie in declino; ma il connotato
più specifico dell’abbazia è la costruzione di una rete di monasteri che dovevano
tutti rispondere a Cluny: gli enti monastici che fonderanno saranno priorati, non
abbazie, differenza fondamentale in quanto secondo l’ordinamento benedettino il
vertice di un monastero era l’abate, assistito da un priore, e in questi nuovi enti
l’abate non c’era, perché l’unico era quello di Cluny. Il punto più alto dell’abazia si
raggiungerà con l’elezione del priore di Cluny, Urbano II (1088), a cui si deve la
proclamazione della prima crociata.
VESCOVI: Nello stesso secolo ci fu la formazione dei poteri vescovili nelle città,
indotti dagli ufficiali regi che si allontanarono dai centri urbani per concentrarsi sui
propri possessi fondiari nelle campagne, ma anche grazie a specifiche legittimazioni,
come il diploma concesso da Ottone I al vescovo di Parma (962), nel quale assunse
tutti i poteri spettante al conte, in quella che sembrerebbe una vera e propria
rinuncia del re ad esercitare il potere sul territorio. Tutt’altro, essa rappresentava la
reazione alla sempre più forte indipendenza che i conti stavano ottenendo, in
quest’ottica concedere poteri ai vescovi simili a quelli del conte significava limitare
l’egemonia di quest’ultimo in favore di personaggi facili da “gestire” (o quantomeno
non avevano eredi, ergo alla morte il potere concesso tornava al re). I diplomi
andavano spesso a legittimare processi avviati prima di essi, caso emblematico sono
gli arcivescovi di Milano, che nell’11 sec godevano di un’ampia clientela vassallatica,
ed esercitavano un influente potere politico, pur senza ottenere mai dall’Impero
alcun diploma che ratificasse tutto ciò. Le concessioni imperiali ai vescovi italiani si
concentrarono nell’età dei re sassoni per poi attenuarsi a metà dell’11 sec.
RIFORMA: Nome che prende il processo della chiesa cattolica romana a partire
dall’11 sec e che vide il recupero dei beni delle chiese e l’affermazione della natura
inalienabile delle cose sacre; si tratta di un programma lungo, difficile da imporre e
che causò un periodo di tensioni che culminò con lo scontro tra Enrico IV e Gregorio
VII. Spinta fondamentale fu data dai vescovi che nel secolo si impegnarono in una
serie di recuperi di terre e diritti dati in beneficio sui quali si era perso il controllo,
recupero che era condotto anche sul piano ideologico: si ribadiva la concezione
sacrale della funzione ecclesiastica, e quindi la necessità di rigore per il clero, dato
che i vescovi dovevano essere una guida per la società. Inizialmente questa riforma
era sostenuta dall’imperatore e dai vescovi del regno di Germania, soprattutto

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durante Enrico III, che trovò un papato in balia dell’aristocrazia romana, tant’è che
quando scese in Italia erano stati eletti 3 papi contemporaneamente. L’imperatore
fece deporre tutti e 3 e nominò il vescovo di Bamberga, Clemente II, che sancì l’inizio
di una lunga serie di papi tedeschi, fedeli al re e convinti della necessità di una
radicale riforma della chiesa, impostata sulla lotta al nicolaismo (concubinato del
clero) e alla simonia (vendita di cose sacre e di cariche ecclesiastiche). Quest’ultima
era pratica diffusa fin dall’età carolingia, pagare per la carica era una forma di
ringraziamento per chi l’aveva assegnata, e non esistevano modelli alternativi, per
questo dovettero faticare per trasformare quella che era una pratica comune in
eresia. Un prete sposato era tollerato se accedeva al sacerdozio dopo il matrimonio,
e ancor più diffuso era il nicolaismo, che molto spesso portava i figli delle coppie ad
avere ruoli ecclesiastici garantiti.
PATARIA, SCISMA, ELEZIONE: Entrambi gli atti furono fermamente condannati
attraverso vari concili, e spesso i fedeli erano chiamati in causa nelle lotte tra
vescovi; in particolare Milano fu sede di un conflitto aspro tra i riformatori e il clero
locale, grazie ad Arialdo, chierico che riuscì a trascinare parte dei credenti in una
sollevazione violenta contro i preti indegni. La predicazione di Arialdo sosteneva la
nullità dei sacramenti impartiti dagli indegni, e i patarini tennero in scacco la chiesa
milanese anche dopo la sua uccisione. Le mediazioni fallirono e più il clima di
violenza aumentava, più venne a mancare l’appoggio pontificio, contrario alla
negazione del valore dei sacramenti dati dagli indegni, precetto che venne poi
dichiarato eretico. Nel 1053 si aprì una diatriba tra il patriarca di Costantinopoli
(Cerulario) e il papa (Leone IX): il primo invitava i vescovi occidentali ad
abbandonare pratiche da lui ritenute “giudaiche”, suscitando la reazione del
secondo che rispose prima con due lettere e poi con un’ambasciata di due cardinali,
che culminò con la scomunica del patriarca e la rottura tra le due chiese (1054).
Infatti, per il papa le altre chiese erano ridotte a serve di Roma, visione non
condivisa da Bisanzio; c’è da dire che da secoli seguivano riti e credenze diverse, e si
trattò di una divisione inevitabile. Qualche anno dopo lo scisma, si aprì la questione
dell’elezione del papa, che in assenza di procedure certe era sempre contestabile.
Ildebrando da Soana, nominato arcidiacono da Leone IX al servizio dei papi
riformatori, aveva acquisito sufficiente autorità per imporre come papa il vescovo di
Firenze, Niccolò II. Questo presentò un diverso sistema di elezione del papa, che
limitava il diritto di voto ai cardinali-vescovi (erano detti cardinali anche gli aiutanti
del papa nelle celebrazioni), riducendo l’influenza del clero romano, in favore di una
concezione dell’elezione papale maggiormente “universale”.

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GREGORIO VII: Ildebrando diverrà papa nel 1074 col nome di Gregorio VII, e
proseguì nell’azione di riforma del clero, dovendo però prendere atto delle
resistenze alla sua missione: nel concilio di Elfurt del 1074 il clero locale accusò
Gregorio di essere eretico e di sostenere dogmi folli, mentre in Normandia il vescovo
che aveva provato a separare i chierici dalle donne con le quali convivevano fu preso
a sassate e dovette fuggire; l’opposizione dei vescovi tedeschi e francesi riguardava
anche l’ampiezza dei poteri che il papato rivendicava rispetto alle altre chiese.
Davanti a queste ostilità Gregorio rispose attaccando, nel concilio di Roma del 1075,
l’investitura imperiale dei vescovi (pratica utilizzata fin dall’età carolingia),
condannando l’intervento laico come indebita intromissione nelle cose sacre.
Gregorio rivendicò per la chiesa romana un’onnipotenza senza rivali, lo mostra bene
il Dictatus papae, lista di 27 tesi che elencavano i poteri esclusivi del papa, come
deporre i vescovi e addirittura gli imperatori; inoltre, nessuno poteva giudicarlo, in
quanto privo di imperfezioni. Dopo la deposizione del vescovo milanese, Gregorio
aveva nominato Attone come successore, ma Enrico IV nominò invece Tedaldo,
aprendo un contenzioso di lunga durata, che portò alla deposizione del papa nel
concilio di Worms (1076), e dell’imperatore nel sinodo romano dello stesso anno.
Una serie di concili portarono alla nomina di un nuovo papa da parte di Enrico,
Guiberto, e, dopo una tregua, a una nuova deposizione di Gregorio, che spinse
l’imperatore a scendere a Roma insediando Guiberto e costringendo alla fuga
Gregorio, salvato dai normanni e morto in esilio a Salerno.
FINE LOTTA INVESTITURE: I papi seguenti continuarono a sostenere la visione di
Gregorio, rinnovando il divieto di ricevere investiture laiche; papa Pasquale II aveva
raggiunto un accordo coi re di Francia e Inghilterra, che rinunciarono a eleggere i
vescovi, ma ciò non avvenne in Germania, dove Enrico V aveva prima accettato e poi
sconfessato il patto per la protesta dei vescovi tedeschi e italiani. Pasquale sospese
allora l’incoronazione imperiale, ma fu arrestato e costretto a riconoscere il diritto
dell’imperatore a investire di cariche ecclesiastiche. Tutto ciò porto agli accordi di
Worms (1022) tra Enrico e il nuovo papa, Callisto II, nei quali si specificò che, solo in
Germania, al pontefice spettava l’investitura spirituale, al re (che poteva presiedere
all’elezione vescovile) l’investitura dei diritti feudali (laici).
CHIESA E DIRITTO: La produzione normativa della chiesa nei decenni della riforma
era figlia dei numerosi concili che venivano eletti in quel periodo. Per mettere ordine
un maestro di nome Graziano intorno al 1140 mise insieme una raccolta di canoni
chiamata Decreto, opera che riuniva concili, lettere papali, e passi biblici riguardanti
il diritto ecclesiastico; il decreto rimase la principale compilazione del diritto
ecclesiastico studiata dai giuristi di chiesa, detti decretisti. Questi giudicavano su

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tutto, partendo dal caso concreto ed agendo secondo equità: la decisione finale era
a discrezione del giudice. Alla fine del 12 sec si afferma l’inchiesta d’ufficio, che
partiva dalla “fama”, una voce su un delitto grave commesso dal prete e del quale
molti fedeli erano a conoscenza; questo delitto provocava l’allontanamento dei
credenti dalla chiesa e per questo l’ecclesiastico andava processato. Con la
procedura inquisitoria si potevano accusare tutti i gradi della gerarchia, anche i
vescovi, cosa che avvenne soprattutto sotto papa Innocenzo III (12-13 sec).
ORGANIZZAZIONE CHIESE, MONASTERI: Attorno alle cattedrali si costituirono i
capitoli, assemblee formate dai canonici (chierici al servizio della cattedrale) del
vescovo, che assunsero importanza politica rilevante. Simili erano le collegiate,
assemblee dei canonici delle chiese importanti (non cattedrali). Entrambe avevano
personalità giuridica autonoma e si posero alla guida della vita religiosa cittadina. La
riforma coinvolse anche organizzazioni monastiche, con la nascita di nuovi
movimenti, tra i quali ricordiamo i cistercensi (che prendono il nome del primo
gruppo, nato a Citeaux), fondato da Roberto a fine 11 sec, che predicava un ritorno a
una vita fatta di preghiera e duro lavoro, spostando la sua comunità in luoghi isolati,
per non essere disturbati nella meditazione. L’esperimento trovò l’appoggio dei
potenti locali e sotto l’abate Stefano Harding sorsero in Francia 4 nove abbazie figlie
di Citeaux; lo stesso Harding scrisse la carta di carità, nuova regola approvata anche
dal papa. A metà 12 sec il moltiplicarsi delle abbazie portò al principio che un
capitolo da tenere una volta l’anno a Citaux avrebbe preso decisioni valide per tutti i
monasteri. L’ordine cistercense, nato per abitare in luoghi deserti, divenne punto di
riferimento per l’intera cristianità e produsse vescovi e papi. I certosini, nati a fine 11
sec da Bruno di Colonia, cercavano isolamento dal mondo, tant’è che la prima
abbazia nacque sul massiccio della Chartreuse, ed era formato da celle isolate l’una
dall’altra. Erano escluse attività manuali e contatti esterni e c’era un limite di monaci
(12); il modello di vita da seguire fu indicato da Guigo I, quando nella prima metà 12
sec mise insieme una raccolta di consuetudini da rispettare. Anche i certosini
scelsero di assegnare al capitolo generale il potere di indicare decisioni a tutti i
monaci. Lo spazio ideale per la meditazione era indicato da confini concreti, spesso
inglobando possessi di altri soggetti, questo portava a scontri spesso risolti a favore
dei monaci grazie all’appoggio dell’episcopato (che appoggiava pure i cistercensi).
ERETICI: Erano tutti coloro che rifiutavano la mediazione della chiesa, rivendicando
un rapporto diretto con Dio, come i laici che leggevano direttamente il vangelo, ma
anche chi rifiutava di obbedire ai precetti della chiesa. Ne è un esempio Valdo,
mercante al servizio del vescovo di Lione che aveva fondato una comunità dove
leggeva i libri sacri in volgare; Alessandro III glielo vietò, e al rifiuto dell’ordine fu

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scomunicato come eretico (1184): si trattava ormai di “eresia dell’obbedienza”.


Diverso si presenta il caso dei catari, scoperti nella 2 metà 12 sec in Germania,
Francia e Italia; a loro si attribuiva una dottrina basata su un dualismo tra bene e
male in conflitto tra loro. In alcune fonti si ricorda l’esistenza di un papa cataro,
venuto da oriente per coordinare le chiese, ciò non faceva che aumentare la
dimensione minacciosa dell’antichiesa. La diffusione del credo è stata intensa nei
ceti urbani, secondo i testi inquisitori, che però non trovano riscontro da nessuna
altra parte: non è stato trovato alcun testo riconducibile al gruppo cataro. La
repressione fu violenta, grazie anche alla decretale di Lucio III (1184), nella quale si
specificava che contro gli eretici non c’erano bisogno di prove, bastava il sospetto
per portarli davanti al vescovo, e in caso di colpevolezza erano le autorità laiche a
doverli punire. Pochi anni dopo un’altra bolla papale equiparerà l’eresia al reato di
lesa maestà, punibile perciò con la morte; la “violenza giusta” era perciò legittimata.
GUERRA E VIOLENZA PER LA CHIESA: Nelle cronache dei secoli 10 e 11, redatte da
religiosi, il tema della violenza gratuita è centrale. Dietro queste narrazioni si cela
l’esigenza di ordine, diverso da quello assolutistico-carolingio e più regionale;
esempio sono le “paci di Dio”, diffuse nel sud Francia e che consistevano in riunioni
indette da vescovi dove partecipavano anche i laici, invitati alla sospensione delle
attività belliche la domenica o nei periodi festivi. Era lecito però combattere una
guerra giusta, sotto un’autorità legittima e il beneplacito ecclesiastico, componente
figlia di un processo di inserimento della guerra nella dimensione religiosa. Insieme
alla riforma si sviluppò dopo la metà dell’11 sec un’intensa attività bellica per
liberare le regioni europee dagli eretici, ossia tutte le forze locali che si opponevano
in qualche modo alla chiesa di Roma. I papi approvarono queste guerre, concedendo
ai cavalieri lo statuto di “combattenti di Cristo”, mentre ai morti in battaglia in difesa
della religione fu assicurato l’ingresso in paradiso.
CROCIATE: I pellegrinaggi ebbero grande successo nell’11 sec, assieme al mercato di
reliquie che si generò attorno ad essi. Gerusalemme era però pericolosa da
raggiungere, per via delle incursioni continue dei musulmani; per questo assieme ai
fedeli partivano aristocratici che garantivano la loro protezione armata, approvata
dalla chiesa. Papa Urbano II a Clermont nel 1095 offrì indulgenza plenaria a tutti i
pellegrini intenzionati a partire, il primo atto ufficiale di quelle che verranno dette
crociate (nelle fonti del sec 11 il termine non esiste). Ci furono una serie di
spedizioni militari alla volta della città santa: una prima, formata da laici impreparati,
si disperse presto; una seconda, più militarmente rilevante, comprendeva quattro
gruppi (i lorenesi, i cavalieri della Francia meridionale, i fedeli del duca di Normandia
e i Normanni del sud Italia) intenzionati a riaprire il pellegrinaggio verso il santo

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sepolcro, reso difficile dall’avanzata turca, ma le cose andarono diversamente, dato


che l’esercito riuscì a conquistare numerose città importanti (Nicea, Antiochia,
Edessa), e solo un gruppo di esso decise di proseguire verso Gerusalemme, che
venne assediata e conquistata (1099); i territori conquistati vennero organizzati in
principati autonomi. Le successive spedizioni non ebbero lo stesso successo: con
l’appoggio papale, Luigi VII di Francia organizzò una seconda crociata (1144) che non
portò alcun risultato, peggio accadde nella successiva dove Saladino (visir che
controllava un territorio tra Egitto e Siria) sconfisse i latini ad Hattin (1187); la
vittoria gli aprì le porte per la Palestina, dove conquistò i territori cristiani. La
successiva, e ultima, crociata fu un’ecatombe: morì l’imperatore Federico I,
un’epidemia decimò i crociati e si dovette scendere a patti col re Saladino che
concesse magnanimamente il permesso di fare pellegrinaggio in terra santa.
MONACI/MILITARI: Nel corso delle crociate nacquero alcuni ordini monastici di
natura militare. Il primo gruppo pare sia quello degli ospedalieri di San Giovanni, con
compiti iniziali di soccorso e difesa dei pellegrini ma che nel 12 sec iniziò ad
accogliere cavalieri per impegnarli in campagne militari coi musulmani. I templari
invece ebbero subito connotazione militare, in principio erano 8 cavalieri giunti
dinnanzi al patriarca di Gerusalemme per assumere i voti monastici pur esercitando
l’arte della guerra; ebbero grande successo in occidente, e si incaricarono di gestire
il denaro destinato alle crociate, ciò li rese ricchi principi e consiglieri dei re. Molti
ordini militari si formarono sotto la spinta dei monaci cistercensi: come nella Spagna
musulmana, dove nacque nel 1158 l’ordine militare di Calatrava, che colonizzò per
anni i territori di frontiera, o la milizia di Cristo di Lavonia, nata nel 1202 in Germania
ma attiva nei paesi baltici, dove la difesa dei cristiani era accompagnata da una
conversione violenza dei pagani e dalla loro sottomissione militare.
CRISI VASSALLI: Mai come nel tardo secolo 11 si rivelava l’urgenza di poter confidare
su milizie militari stabili per i continui conflitti interni (ribellioni) ed esterni (guerre),
2 furono le vie per inquadrare il ceto militare in un ordine fisso: inserire i membri
della milizia in una rete di fedeltà gerarchica, e imporre un modello di etica
cavalleresca. Ciò portò a una lunga crisi, poiché la fedeltà militare era messa in
disparte rispetto all’affermazione personale dei cavalieri, il servizio era valutato in
relazione all’importanza del feudo ricevuto e la fedeltà poteva essere concessa a più
signori. Contando anche le “riserve” (eccezioni all’attacco contro alcuni signori) e la
durata dell’aiuto militare (40 giorni), era complesso formare un esercito di cavalieri.
Inoltre, il feudo era sentito dai vassalli come un bene trasmettibile ai figli, e nel
tempo si diffuse anche la tendenza a venderlo. Per contrastare la dispersione delle
fedeltà furono inventate clausole come la commise, il sequestro del feudo in caso di

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disobbedienza, che portava a numerosi conflitti armati. Più diffuso il ricorso al feudo
ligio, una fedeltà privilegiata a un signore particolare, col divieto quindi di legarsi in
altri rapporti vassallatici. In genere, ogni rapporto di fedeltà era regolato secondo
contrattazione, senza schemi stabili e fissi.
IDEALE CAVALLERESCO: Per diventare cavaliere c’erano una serie di riti, il più
famoso quello dell’addobbamento, dove gli si riconosceva il diritto di rivendicare
con le armi un suo possesso: un rituale che segnava la sua legittimità come erede di
un territorio e scatenava la reazione negativa dei parenti, e quindi lo scoppio di
numerose guerre. Per questo durante l’addobbamento partecipavano anche principi
locali, che servivano a indicare l’entrata del giovane in una rete di potenti alleati. I
romanzi cavallereschi propagandarono un’idea del cavaliere che viaggiava verso
terre sconosciute per scontrarsi coi prepotenti e i persecutori dei deboli; in realtà
c’era poco di eroico nelle guerre feudali, fatte di assedi e saccheggi. Come rimedio a
ciò, si svilupparono combattimenti ristretti a pochi campioni, in una versione
ritualizzata della battaglia, i tornei. Il ceto cavalleresco era diviso in strato superiore
(aristocratici discendenti dall’élite carolingia) e strato inferiore (vassalli minori,
scudieri); era un ceto composito e multiforme, e le differenze di ricchezza tra i
singoli individui non si cancellavano: esistevano casi di ascese eccezionali di
“modesti” cavalieri, ma, di per sé, l’addobbamento non rappresentava un ingresso
nella componente aristocratica.
SIGNORIA: Con questo termine ci riferiamo sia alle dinastie che alle chiese, che in
questi secoli raggiunsero piena autonomia dal controllo regio, innanzitutto grazie
alla terre, che fino al 12 sec rappresentavano la maggior fonte di ricchezza (anche se
questa rilevanza è sovrarappresentata nella documentazione altomedievale, che
comprende soprattutto le transizioni fondiarie), ma la trasformazione da coltivatori
della terra per conto del proprietario a sudditi avvenne quando questo costruì
castelli e raccolse clientele armate, che aggiunse ai possedimenti territoriali una
connotazione politica. Costruiti per difendersi dalle incursioni saracene e ungare, dai
castelli dall’11 sec si avviò un processo di sottomissione della popolazione
circostante, per cui la protezione che esso garantiva si estendeva al signore e alla
sua famiglia, ai suoi vassalli, ai suoi contadini e infine ai vicini che ne necessitavano
l’aiuto, e in cambio dovevano garantire servizi legati al castello stesso. Coi cavalieri i
signori combattevano coi potenti vicini e si assicuravano l’obbedienza dei sudditi
tramite le minacce; per coordinarli si servivano dei legami vassallatici, a cui si
legavano a loro volta in qualità di vassalli coi principi per ampliare la base fondiaria
CONTI/MARCHESI SIGNORI: Furono parte del mutamento, ma se in Francia e
Germania questi formarono principati territoriali, in Italia svilupparono poteri

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analoghi alle altre famiglie signorili, seppur più ampi; l’unica differenza era nei titoli,
dato che i documenti fanno riferimento ai signori con dominus e ai conti con le
funzioni dei loro antenati, un modo per aumentare la loro legittimità a esercitare
potere. Aristocratici e funzionari quindi si assimilarono fino a una forma di
imitazione reciproca: i primi si impossessarono del potere di giudicare e chiedere
imposte, i secondi assunsero la capacità di rafforzarsi attraverso terre e castelli.
Spesso sorgevano conflitti tra chi possedeva un castello in un territorio (signoria
territoriale) e chi un grosso feudo nello stesso (signoria fondiaria), che pretendevano
alla popolazione i medesimi diritti ai prelievi; questi venivano divisi (senza regola
generale) tra il signore territoriale e quello fondiario. A rendere più complessa la
situazione era l’ereditarietà di tali diritti, che portava a una grossa frammentazione
del potere, e rendeva impossibile la presenza di un solo signore del villaggio.
CHIESE PRIVATE/POTENTI: Le chiese rappresentavano punti di addensamento
fondiario: i laici donavano terre alle chiese in cambio delle preghiere di monaci e
chierici (che garantivano l’ingresso in paradiso), o quando un parente entrava nel
clero, terre che non potevano essere vendute, ma concesse per tempo limitato;
inoltre erano fiscalmente immuni e utilizzavano anche loro intimidazioni per
affermare il dominio signorile. Le pievi erano articolazioni della diocesi che si
occupavano di ampie zone e che possedevano la fonte battesimale; non dotate di
quest’ultime erano le chiese minori, che rappresentavano il luogo di frequentazione
dei religiosi locali: nascevano dall’azione dei signori, interessati a impossessarsi di
parte della decima (imposta per il clero) ma anche a ingraziarsi la società locale, alla
quale garantiva, oltre che protezione e sussistenza, anche accesso al sacro. Discorso
diverso per i monasteri privati, nella quale la funzione dei monaci era soprattutto
quella di pregare per i propri benefattori; la fondazione aveva anche importanza
materiale, in quanto all’ente poteva essere affidata parte delle proprie ricchezze
nella sicurezza di poterne avere sempre disponibilità attraverso l’elezione dell’abate
(questo secondo le intenzioni, dato che spesso il monastero utilizzava i soldi per i
propri scopi non tenendo conto della famiglia fondatrice). Infine, era un utile
strumento per definire l’ampiezza del gruppo parentale, in quanto le persone per cui
pregare erano elencate analiticamente, ciò rafforzava i legami tra loro.
PRODUZIONE E PRELIEVO: La pressione fiscale signorile rispondeva alla logica di
un’economia che era prettamente di spesa: i grandi laici spendevano per rafforzare
la loro capacità militare e politica, e donare era un dovere sociale. Per questi costi si
accentuavano le richieste economiche ai sudditi, traendo vantaggio dalla crescita
demografica ed economica che investì l’Europa dall’11 a 13 sec; questa crescita
permise ai contadini di mantenere un nucleo familiare più ampio che allargò i confini

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delle terre, coltivate tra l’altro meglio grazie all’aumento di qualità degli strumenti a
disposizione. L’investimento signorile sull’agricoltura fu quindi redditizio, e portò
ovviamente a un aumento dei prelievi in denaro e in natura.
AZIONE CONTADINA: Il ceto rurale era ampio, e andava dal bracciante senza
proprietà che viveva grazie al servizio prestato, al medio proprietario terriero che
sfruttava le sue terre in parte facendole coltivare ai braccianti in parte facendole
affittare. Quest’ultima categoria fu in grado di assumere connotati politici grazie ai
legami che riuscivano a stringere con chiese (alle quali donavano terre in cambio di
salvezza divina) e signorie (per i quali svolgevano piccoli incarichi), e furono i
principali artefici della nascita dei comuni rurali, un assetto istituzionale del villaggio
volto a limitare lo stradominio signorile. I testi che meglio mostrano le funzioni dei
comuni sono le franchigie, atti in cui signori e sudditi si accordavano su diritti e
doveri reciproci, come l’accordo del 1058 tra l’abbazia di S. Silvestro e gli abitanti del
villaggio nei pressi della chiesa: questi si impegnavano a costruire tre lati delle mura
del castello in cambio dell’uso degli incolti (selve, boschi, ecc) e garanzie sul libero
possesso delle loro terre; le rivolte contadine non puntavano perciò alla cacciata del
signore, ma al rispetto da parte sua di norme fondamentali. A partire dal 12 sec,
esigenze di ripopolamento spinsero i signori a creare condizioni favorevoli per
attrarre abitanti, attenuando le tasse e concedendo insediamenti in proprietà agli
abitanti, come le sauvetés in Francia (poste sotto la protezione della chiesa) o le
villefranche in Italia, entrambe dovevano pagare solo un canone.
CITTA’: L’exploit demografico già citato portò a un aumento delle migrazioni verso i
nuovi centri urbani, i cui legami col territorio erano intensi, necessitando da esso
prodotti agricoli e materie prime. Nel nucleo originario delle città, gli abitanti si
addensavano a ridosso della residenza signorile o nei borghi circostanti, a
dimostrazione di un legame forte tra le due componenti; spesso il suolo dove si
costruivano le case era proprietà del signore al quale si pagava un censo. Dal 12 sec
si venne a formare un insieme sociale nuovo, che aspirava all’autonomia delle
proprie attività economiche e a uno statuto giuridico condiviso da tutto il gruppo. In
alcuni casi i signori collaborarono al processo, come i duchi normanni che
sostennero la fondazione di Caen e quelli della Fiandra con le città di Lille e Bruges,
grosse sedi mercantili; in queste città gli abitanti acquistarono i suoli abitativi che
erano di proprietà signorile, diventando indipendenti dagli oneri del censo. Invece a
Lubecca, fondata con l’aiuto di Enrico il leone duca di Sassonia, questo si impegnò
nello sviluppo commerciale della città, per poter usufruire delle ricchezze attraverso
le imposte. In altre città (Le Mans, Cambrai) l’autonomia fu osteggiata dai poteri

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signorili, soprattutto in quelle dominate dalle autorità ecclesiastiche, che avevano


più da perdere in questi casi.
CITTA’ CONSOLARI: Se nel nord le città erano rette da un rappresentante signorile,
nel sud Francia l’autonomia era maggiore, e si elessero magistrati detti consoli, eletti
da un élite urbana che si passava le cariche da padre in figlio. I consoli si occupavano
della giustizia civile e penale, ma non potevano giudicare gli arcivescovi, che
influenzavano la stessa elezione consolare, in una sorta di indipendenza
“contrattata”. Del resto i residenti non contestavano il dominio dei signori, che a
loro volta dovevano garantire l’autonomia organizzativa della città; quando questo
patto resse, le reti urbane si svilupparono in maniera esponenziale.
CITTA’ POST 12 SEC: Dalla metà del sec furono circondate da nuove mura,
intervallate da torri di guardia; divennero simbolo della città e segnarono un confine
netto col territorio esterno: starci dentro indicava una condizione sociale. La
concessione di carte di franchigia o di comune era prassi, carte nelle quali si sanciva
per iscritto l’indipendenza organizzativa. Il ceto dirigente del primo nucleo urbano
dovette integrare nella cerchia nuove famiglie di borghesi che avevano fatto fortuna
coi commerci; infatti l’accumulo di denaro liquido fu rapido e i mercanti presero il
potere delle città nel duecento. Esisteva anche un ceto artigianale che aspirava alla
presenza politica, ma potevano ottenerla soltanto i maestri in possesso dei mezzi
tecnici più costosi; il salariato urbano scivolava invece verso la condizione di
“infame”, termine tecnico che indicava persone senza diritti, escluse dai tribunali e
prive di rappresentazione politica.
RE 12 SEC: Fino a quel sec il loro potere aveva limiti precisi, in una condizione di
debolezza rispetto alle realtà territoriali. Le dinastie si fondavano ancora su alleanze
matrimoniali tra le grandi aristocrazie in un sistema fragile e mobile: si poteva
divenire re di una terra anche molto lontana sposandone l’erede e perdere la stessa
al primo mutare delle alleanze tra famiglie; anche per questo è difficile tracciare una
geografia dei regni nei secoli 11 e 12 (eccezione l’Inghilterra). C’era poi la difficoltà
oggettiva di coordinare una miriade di signorie, non tutte a capo del re: si aveva il
controllo sui propri vassalli, ma non sui vassalli di questi ultimi; sfuggivano quindi
tutte le reti di fedeltà locali. Ultimo limite da ricordare è l’assenza di funzionari
pubblici, o almeno, il loro intervento era limitato al piano politico-culturale ma non
esercitavano influenza sul governo dei singoli territori.
INGHILTERRA 12 SEC: Guglielmo il Conquistatore (1066-1087) dopo Hastings attuò
un processo di sostituzione dell’élite aristocratica anglosassone coi baroni normanni;
tuttavia il regno mantenne molte delle antiche consuetudini, un modo per costruire
un consenso più ampio nell’isola. Il regno si divideva in shires, affidate a ufficiali detti

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earls, sotto gli shires esistevano circoscrizioni minori, le centene, che godevano di
ampia autonomia organizzativa. Le assemblee di centene discutevano di questioni
fiscali e giudiziarie, e i processi, applicavano il “folkright” (diritto della gente),
tuttavia la pace era compito del re. La situazione era delicata: da un lato i duchi
normanni esigevano terre e autonomia, dall’altro il re voleva continuare a fondarsi
sul popolo, conservando la liberta del possessori. In primo luogo, Guglielmo (che
restava duca di Normandia) nominò un suo rappresentante nell’isola, detto
giustiziere, e nominò gli sceriffi, ufficiali pubblici incaricati di amministrare la
giustizia e controllare le finanze. Con l’obiettivo di inquadrare le terre distribuite ai
baroni normanni ricorse al sistema feudale, ergo chi aveva ricevuto terra era tenuto,
in quanto feudatario, a partecipare all’esercito. Fu l’origine del domesday book,
grosso censimento di uomini, terre e disponibilità economiche. Il successore di
Guglielmo, Enrico (1110-1135) emanò una carta delle libertà, nelle quali precisò che
le terre feudali, prima di passare agli eredi, dovevano ritornare al re, limitando il
dominio dei baroni, che da allora potevano anche essere giudicati (prima godevano
di immunità). Seguì Stefano di Blois (1135-1154), nipote di Enrico che dovette
battere la figlia di quest’ultimo, Matilde, scontri che portarono a un rafforzamento
dei baroni, che si impossessarono delle maggiori cariche e le resero ereditarie.
ENRICO II:(1154-1189, nipote di Enrico I) sposò Eleonora d’Aquitania unendo in solo
potere Inghilterra, Normandia e Aquitania; a partire da lui annualmente il
giustiziere, la curia regia (formata dai grandi del regno, che dovevano esprimere il
loro consenso alle decisioni del re), e lo scacchiere (nuova figura, responsabile delle
finanze pubbliche) dovevano fare rendiconto del loro operato. Introdusse dei giudici
itineranti che amministravano l’alta giustizia per conto del re nelle contee; una
giuria di dodici saggi erano incaricati di giudicare i colpevoli fino all’arrivo dei giudici
regi. Ordinò poi a tutti i possessori di partecipare all’esercito con un armamento in
proporzione al reddito, e al fine di definire il livello d’armamento incaricò una
commissione di verificare i redditi dei residenti. Altro elenco che fece redigere
quello dei feudatari che non avevano prestato giuramento ligio, per distinguere i
baroni fedeli dagli infedeli. Enrico tuttavia scaricava soprattutto sul popolo inglese il
fardello fiscale dei costi di mantenimento di 3 regni. Le crisi del regno si
accentuarono nella lotta dinastica tra i figli di Enrico, Riccardo e Giovanni Senzaterra
(1199-1216). Sotto il regno di quest’ultimo, i rapporti con chiesa e baroni si
deteriorarono e dopo la sconfitta a Bouvines (1214) fu costretto a firmare la Magna
carta, un patto di limitazione dei prelievi fiscali regi, nonché il diritto di ereditarietà
dei feudi per i baroni.

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FRANCIA 12 SEC: I re avevano deboli privilegi sui principati vicini Parigi ma nulla più,
e di questa situazione ne erano consapevoli da tempo: già dall’11 sec redigevano
diplomi solo agli enti religiosi raccolti attorno all’Ile de France, unica zona di loro
controllo; d’altra parte per decenni i principi dei ducati più estesi si rifiutarono di
prestare omaggio al re. Luigi VI (1108-1137) si concentrò su due punti: disciplinare i
castellani ribelli nel suo dominio e frenare l’espansione del re inglese. Luigi si lanciò
in battaglie punitive contro i potenti locali, guerre individuali provocate
dall’intemperanza dei cavalieri; il fronte interno poteva godere dei consigli di
Sugerio, abate di Saint Denis, il quale, anche nella sua opera “vita di Luigi VI”,
sostenne come tutti i principi fossero vassalli del re. Quest’ultimo, rispondendo alla
richiesta d’aiuto del vescovo di Clermont, giunse in Normandia dove guadagnò l’atto
di sottomissione del duca. C’è da sottolineare (e lo fa anche Surgerio) come Luigi
intervenisse contro i castellani solo quando questi attaccavano le chiese, imponendo
la pace del re dove prima si stipulavano paci di Dio. Politica condivisa dal figlio, Luigi
VII (1137-1180), che nel 1155 proclamò la pace per tutto il regno. Il re sposò e poi
divorziò con Eleonora di Aquitania, che poi si unì Enrico, futuro re d’Inghilterra e
duca di Normandia. Portò allo scoppio di un conflitto che si promulgherà fino alla
morte del re francese senza grosse conseguenze.
FILIPPO AUGUSTO: (1180-1223), figlio di Luigi VII, costrinse (visto il suo matrimonio
con la nipote) Filippo D’Alsazia a cedergli due grosse contee, il Vermandois e l’Artois.
Si trovò ad affrontare Giovanni senzaterra, re inglese privo di supporto tra i suoi
vassalli; con un’azione militare prese il controllo della Normandia (1204), alleandosi
coi baroni normanni. Nella battaglia di Bouvine (1214) sconfisse tutti i suoi più
grandi nemici: Giovanni, l’imperatore tedesco Ottone IV, il duca di Brabante e il
conte di Fiandra, nella contea di quest’ultimo riuscirà poi ad espandersi. Una vittoria
così prestigiosa lo spinse una politica espansiva più aggressiva, coi tentativi (falliti) di
invadere l’Inghilterra. La crociata albigese rappresentò il pretesto per arrivare ai
principati del sud: il conte di Tolosa era stato accusato di eresia dal papa e gli eretici
potevano essere privati dei beni; poté così rivendicare la spedizione come atto in
difesa della fede. Ebbe grande abilità nello gestire territori diversi, in Normandia
istituì un gestore delle finanze, lo scacchiere, e una rete di ufficiali locali presi dalla
classe media e con incarico a tempo chiamati balivi. Sostenere uno stato di guerra
continuo richiedeva grandi risorse economiche, che lui riusciva a ottenere dalle
rendite agricole, dalle tasse cittadine ma soprattutto da quelle feudali: richiedeva
infatti somme enormi per riassegnare i grandi feudi.
SPAGNA 12 SEC: Era divisa in varie contee con aspirazioni monarchiche, ma il grosso
era dominio musulmano. Dei regni spagnoli-cristiani sarebbero continuati a esistere

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a nord per poi risvegliarsi nell’11 sec e iniziare una riconquista verso sud, legati
dall’ideologia della purezza di sangue assicurata dalla discendenza dai visigoti,
falsità, dato che la permanenza araba aveva creato un popolo nuovo, ispanico. E’
vero però che la guerra all’infedele rappresentò motivo ricorrente nella propaganda
dei regni, difatti i re di Castiglia e di Aragona/Catalogna si legittimarono sovrani in
quanto liberatori. Le guerre del secolo 12 furono poco decisive sul piano territoriale,
fino al 1120 gli almoravidi prevalsero, poi ci fu qualche vittoria cristiana, ma erano
soprattutto razzie. La possibilità di un cambio di rotta si aprì con la crisi almoravida,
la cui pressione fiscale in Andalusia era forte e ad approfittare del dissenso furono gli
Almohadi, setta araba dal Marocco che conquistò la regione. Nel 1195 l’esercito
musulmano sconfisse Alfonso VIII di Castiglia ad Alarcos. La reazione cominciò con
l’annuncio di una crociata antimusulmana da parte di papa Innocenzo III (1211), con
conseguente vittoria del re castigliano a Las Navas di Tolosa (1212). Da questa data
la riconquista si velocizzò, e nel 1240 i territori cristiani erano raddoppiati. Con la
stabilizzazione delle conquiste le popolazioni arabe vennero emarginate in quartieri
etnici; la Spagna si delineò come insieme di regni che si riunivano in assemblee
(curie generali) per discutere sui grandi temi della politica regia.
GERMANIA 12 SEC: I quattro ducati tradizionali (Franconia, Sassonia, Baviera, Svevia)
erano saldi nelle mani della grande aristocrazia. I dati dimostrano un grosso plus
demografico che alimentò il flusso migratorio verso est, dove i principi tedeschi
chiamavano coloni per popolare i propri dominati, costringendo all’emarginazione i
residenti slavi. Per tradizione, il re aveva la Franconia, una base cospicua ma non
tale da aspirare a un dominio sugli altri grandi principi; d’altronde il potere ducale
era basato su una base terriera di loro proprietà, che li rendeva indipendenti dalle
concessioni feudali regie, e la tendenza all’ereditarietà delle cariche aumentava lo
slegamento col re. In questo contesto di debolezza iniziò il regno di Federico I di
Svevia (1152-1190) detto Barbarossa. Come Luigi VII in Francia fece propria la
funzione di pacificatore del regno, ordinando la pace generale. In secondo luogo
fece ricorso al diritto feudale per confiscare terre ai principi ribelli, come a Enrico il
Leone; ogni volta che entrava in possesso di un ducato lo divideva in 2 per limitare
l’ambizione dei principi, rafforzando nel durante attraverso un’opera di passaggi
feudali i suoi possedimenti in Franconia. Nella dieta di Roncaglia (1158) ordinò che
tutti i poteri pubblici dovevano provenire dal re, permettendo la “restituzione” dei
diritti regi divenuti privati; nella stessa dieta rinnovò il divieto di vendere i feudi e di
giurare fedeltà a più signori. Il figlio Enrico VI tentò di imporre la successione
dinastica dell’imperatore in cambio dell’ereditarietà feudale per i duchi; proposta
prima accettata e poi rifiutata da questi ultimi. Il re aveva sposato Costanza
d’Altavilla, ottenendo il regno di Sicilia, che passerà poi al figlio Federico II.

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SICILIA 12 SEC: I cavalieri normanni sbarcarono in Italia meridionale a inizio 11 sec;


inizialmente al servizio dei principi longobardi, un primo gruppo poi riuscì a stabilirsi
ad Aversa e Capua. Fu un processo lungo, ma lentamente l’aristocrazia campana e
pugliese fu sostituita dai baroni normanni, coi quali dovette unirsi attraverso
alleanze e matrimoni. Si trattava di un gruppo privo di ordinamento gerarchico, ergo
una dinastia di comandanti sovraregionali faticò ad affermarsi, solo attorno al 1070
si imposero gli Altavilla, formando alleanze sia col papa che con l’imperatore, dal
quale Drogone ottenne il titolo di duca di Puglia, titolo ripreso alla morte dal fratello
Umfredo prima, e da Roberto il Guiscardo poi. Quest’ultimo assieme al fratello
Ruggiero operò su più fronti, in puglia occupò Bari, ultimo avamposto bizantino in
Italia meridionale, mentre in Sicilia una campagna anti musulmana portò alla
conquista di Palermo (1072); l’appoggio papale permise a Ruggiero di eleggere i
vescovi e controllare le finanze della chiesa nell’isola. Suo figlio Ruggiero II aveva in
mente un ambizioso progetto regio, concretizzatosi con l’incoronazione a re di Sicilia
da parte dell’antipapa Anacleto II, poi confermata da papa Innocenzo II (1138);
tuttavia quando provò a esportare il controllo sulla penisola aumentarono le
congiure dei baroni, che non avevano con lui un rapporto feudale ma avevano
acquistato i propri territori durante la conquista delle regioni meridionali. Quindi il
catalogo dei baroni (1142) è un censimento dei cavalieri normanni e del potenziale
militare che erano tenuti a concedere al re in caso di guerra, e non il suo elenco di
feudatari. I re normanni sfruttarono quindi soprattutto le terre demaniali, gestiti da
nuovi ufficiali regi più fedeli ed affidabili; inoltre limitarono la crescita territoriale dei
cavalieri attraverso il controllo dei matrimoni dei baroni e l’istituzione di giustizieri
regi che avocavano a se le cause maggiori.
FEDERICO II: Ereditò da subito il regno siciliano, l’impero tedesco invece vide
contrapposti i duchi di Svevia e Sassonia; arbitro della competizione papa Innocenzo
III che si schierò a favore del duca sassone salvo poi appoggiare Federico che fu
consacrato imperatore (1220) da papa Onorio III. Inizialmente agì nel recupero dei
beni della sua casata, nel 1220 emanò un atto rivolto ai principi ecclesiastici della
Germania in cui si concedevano ampie autonomie giurisdizionali, un precedente
pericoloso in quanto un decennio dopo il figlio Enrico per domare una ribellione
tedesca dovette concedere privilegi simili ai principi laici. L’opera di recupero dei
beni avvenne anche in Sicilia, sempre nel 2020 in un’assise a Capua richiese ai
possessori demaniali di presentare i privilegi emanati dal padre o dalla madre, con la
perdita dei diritti per chi non li presentava o li falsificava.
COMUNE: A metà 11 sec le città si presentavano come una collettività senza capo,
capace di autogovernarsi; il conte carolingio non esisteva più, i suoi discendenti

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erano rifugiati da tempo nei castelli nel contado, disinteressandosi della vita
cittadina. Il vescovo era la figura di maggior rilievo, mediava i conflitti e ricevette
dagli imperatori privilegi pubblici, ma mai la carica di conte; era al contempo un
signore feudale, e le famiglie a lui legate non di rado approfittavano dell’assenza
regia per usurpazioni di terreni vescovili: il conflitto interno era prassi. Si istituì in
molte città un ceto di cittadini distinti secondo livelli di ricchezza, la cui parte alta era
occupata da mercanti, avvocati, notai, giudici (questi ultimi erano necessari per
fornire regole di funzionamento e assistenza alle questioni giudiziarie); al di sotto,
tutti gli abitanti senza qualifiche, ma capaci di farsi sentire nelle assemblee
pubbliche. Nei momenti di conflitto, era il vescovo a mediare spesso con un
giuramento collettivo di pace che, se rotto, portava alla cacciata dalla città. Il sistema
funzionava, le città aumentavano di abitanti e disponibilità economiche, ciò spinse
vescovi ed élite urbana all’istituzione a inizio 12 sec dei consoli, di numero variabile,
che si riunivano nel palazzo vescovile e provenivano dalle famiglie dei suoi vassalli,
un origine sociale che condizionò le scelte di governo, a difesa delle classi alte; la
carica era annuale ed erano eletti dall’assemblea dei cives, detta concio. Si creò un
consiglio cittadino formato da 100 persone che affiancava i consoli, i quali
necessitavano della loro maggioranza per l’approvazione di una decisione. Infine, un
patto di natura pubblica detto breve legittimava formalmente i magistrati ad agire
come rappresentanti della città.
FUNZIONI DI GOVERNO: Con l’aiuto di giudici e notai si instaurarono le corti
comunali, aperte a tutti. Si occupavano di risolvere la conflittualità su beni e terreni,
spesso oggetto di lite; anche se non sempre si arrivava a una sentenza, era utile a
stroncare sul nascere la violenza (gli atti di vendetta furono considerati reato grave).
Il comune aveva bisogno di entrate continue, che dovevano derivare dai cives
tramite imposte straordinarie volte a finanziarie strade, edifici pubblici e soprattutto
mura, che assorbivano gran parte delle risorse; chi non pagava perdeva lo status di
civis e la protezione pubblica. Il legame tra città e contado (grazie anche al vescovo,
da cui dipendevano i sacerdoti sparsi nelle diocesi) portò la prima ad aspirare a
un’influenza politica nel territorio circostante; era importante disporre di centri
strategici per proteggersi dai nemici esterni e imporre tasse ai contadini, che non
erano d’accordo. Coi signori si raggiunsero compromessi: molti divennero cittadini e
diventarono esponenti di spicco del comune, o in alcuni casi gli stessi, una volta
donato il castello, lo ricevevano in feudo, o ancora i castelli venivano acquistati.
CITTA’ VS IMPERO: A inizio 13 sec la rilevanza politica/economica dei comuni era in
ascesa: Genova e Pisa crearono colonie dalle coste nordafricane alla Sicilia,
affrontandosi per il controllo di Sardegna e Corsica, Venezia costruì ampio dominio

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sui porti d’Oriente, Milano divenne il terminale dei traffici tra Italia e Germania, le
città emiliane giovavano dei commerci lungo il Po e quelle toscane erano in lotta tra
loro per territori da definire, quelle umbre/marchigiane erano di dimensione ridotta
e basate su un’economia agraria. Nonostante le differenze, condividevano le stesse
forme di governo, istituite per la necessità comune di fronteggiare l’imperatore
Federico I. Il Barbarossa vide arrivare durante una riunione a Costanza (1153) due
ambasciatori di Lodi che lamentavano la distruzione della città da parte di Milano;
Federico impose ai milanesi di presentarsi e riparare l’offesa, ma questi cercarono di
comprare il permesso dell’imperatore di mantenere il dominio su Lodi. Scoppiò la
guerra, cominciata col saccheggio di Milano (1158), nello stesso anno nella dieta di
Roncaglia Federico si affidò il diritto di eleggere i consoli, e impose nelle città ribelli
dei podestà imperiali, celebri per le alte tasse che richiedevano. Dopo un secondo
attacco a Milano le città lombarde formarono la Lega Lombarda (1168), governata
da rettori elette da tutte le città che coordinavano le azioni militari; la lega diffuse
soprattutto un modello unico di città comunale con dei confini precisi e inattaccabili
dagli altri comuni. L’alleanza con papa Alessandro III rafforzò la natura ideologica
delle campagne militari, che riguardavano perlopiù azioni di disturbo che si
rivelarono però efficaci, fino allo scontro di Legnano (1176), con la vittoria delle città
importante specie sul piano propagandistico, che portò alla pace di Costanza (1183).
CITTA’ POST GUERRA: La pace fu intesa dai comuni come un riconoscimento delle
loro istituzioni e la loro legittimazione, ma gli anni delle guerra avevano richiesto
grandi sforzi economici e di impiego personale; il grosso degli eserciti erano i
pedites, cittadini che lasciavano le attività per combattere al comando dei cavalieri
aristocratici, e che adesso chiedevano maggior rilevanza politica. A inizio 12 sec
scoppiarono ovunque rivolte riguardo all’iniqua ripartizione delle tasse e alla
ristrettezza del ceto dirigente, che portarono all’organizzazione delle societates, di
varia natura: le società rionali radunava gli abitanti di una parrocchia con compiti di
autogoverno locale, le società di mestiere erano formate da artigiani e mercanti.
Istituite per scopi di protezione militare, le società si unirono poi sotto un organismo
chiamato “Popolo”, avanzando richieste politiche come una quota di posti in
consiglio, il pagamento delle tasse secondo le proprie ricchezze, l’abolizione dei
privilegi ai nobili (che non pagavano tasse). Un compromesso fu la sostituzione dei
consoli con il podestà, un rettore unico con ampi poteri proveniente dall’esterno
della città e aveva carica annuale, connotati che garantivano imparzialità; aveva il
compito di sanare le discordie, difendere il comune, amministrare la giustizia e
guidare le discissioni del consiglio, che venne rafforzato (1000 membri) e poteva
eleggere i podestà.

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POPOLO: Da metà 13 sec si candidò al governo cittadino, duplicando in un primo


momento le istituzioni, affiancando al podestà un loro magistrato, il Capitano del
popolo, che guidava il consiglio del popolo; poi instaurando un governo collegiale
formato dal podestà, dal capitano, e dai due consigli. Si censirono i residenti (con
elenchi di cittadini divisi per parrocchie), da lì i contribuenti, distribuiti in soggetti al
fodro (antica tassa regia), poi in estimi (alla somma dei beni di ogni contribuente
veniva dato un valore, da qui si calcolava la cifra di estimo). Fu un’opera che in
teoria portava a pagare le tasse in proporzione alla ricchezza reale, ma in pratica
sfuggivano all’estimo i capitali mobili e non di rado erano concessi sconti. La giustizia
divenne più severa, specie con le speculazioni dei grossi proprietari, ai quali fu dato
un limite ai prezzi per l’affitto delle case e il divieto di esportare il grano fuori dal
contado. Quest’ultimo fu oggetto a una riforma che lo divise in zone corrispondenti
a promulgamenti dei quartieri urbani, che a loro volta erano divise in aree minori
affidate a vicari; ai contadini venne imposto, oltre la quota di grano, di pagare
l’estimo, cioè una quota fissa per i singoli villaggi in base a un conteggio degli
abitanti che però non dava conto dei processi di migrazione, costringendoli a pagare
la stessa cifra anche se contavano ormai un numero inferiore di residenti.
LOTTE DI FAZIONE: La divisione in fazioni, gruppi di famiglie alleate contro una parte
avversa, si era diffuso durante la guerra contro Federico II (1 metà 13 sec); in quel
periodo lo scontro era tra guelfi (alleati del papa) e ghibellini (alleati dell’imperatore)
e spesso le parti divennero un’istituzione, con propri consigli e podestà. Il popolo
cercò di combattere la violenza delle forze facendo della pace l’ideale cittadino,
nonché il pretesto per provvedimenti di emergenza, come gli ordinamenti di
giustizia, atti speciali volti a combattere i magnati, ossia tutti quei grandi che si
opponevano al comune. A queste persone fu vietato di assumere cariche, la loro
pena per reati violenti era raddoppiata, e si poteva arrivare all’esilio dalla città. I
conflitti provocarono una reazione di rigetto per le istituzioni comunali e il potere fu
assunto da dominus provenienti da famiglie nobiliari, che si sostituivano al Popolo
(anche se in alcuni casi, come in Lombardia, ci furono alleanze ibride tra Popolo e
dominus). In questa fase scomparve la figura del podestà forestiero.
CONCILIO IV: Riassumeva una stagione di riforme della chiesa sotto la guida di
Innocenzo III, che approvò la procedura inquisitoria e precisò che i fedeli dovevano
almeno una volta l’anno confessarsi e ricevere l’eucarestia a Pasqua; chi si rifiutava
non poteva entrare in chiesa. Ogni posizione eterodossa era condannata con la
scomunica, l’espulsione dalla comunità, il sequestro dei beni e il divieto per i figli di
ereditarli. Con questo papa ci fu il cambio di titolazione da “vicario di Pietro” a
“vicario di Cristo”, a sottolineare l’origine divina delle decisioni papali e la sua

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infallibilità, che si basava sul potere di definire i dubbi, le cose in sospeso. In primo
luogo vennero rafforzati i legati pontifici, definiti “un altro papa”, ergo sanciti come
superiori rispetto ai vescovi. La tensione tra questi ultimi e il papa diede vita alla
corrente del conciliarismo, che affermava la superiorità del concilio sul papa,
rispetto alla chi pensava che le decisioni conciliari dovevano prima essere approvate
dal vescovo di Roma per avere validità.
DIRITTO DELLA CHIESA: rinnovato nel duecento, alla base c’erano le lettere dei papi,
dette decretali, scritte in risposta a questioni processuali poste da vescovi e abati,
furono raccolti in 5 volumi e divennero punto di riferimento per le chiese; la
creazione di un codice unico, il Liber Extra, che comprendesse i più importanti
decretali a tema giuridico fu un passo fondamentale, tant’è che rimase il testo
normativo di riferimento fino al 20 sec. La curia romana articolò meglio le funzioni
del papato, che si muoveva in ambito europeo su due settori, quello finanziario (con
l’afflusso delle decime) e quello giudiziario: il diritto d’appello stabilito da Alessandro
III aveva favorito la formazione di una giurisdizione piramidale che culminava col
papa; i cappellani del papa (che prima si occupavano del ramo giudiziario) furono
sostituiti dagli auditori, che si spartivano i processi coi cardinali; la curia romana
divenne la più importante sede giudiziaria del basso medioevo. Il controllo sul ceto
episcopale divenne più forte quando si precisarono i peccati dei quali solo il papa
poteva assolvere, nonché il suo potere esclusivo di concedere dispense su norme
canoniche; fu istituita la penitenzieria, a capo di un esponente dei mendicanti.
ORDINI MENDICANTI: La rinascita delle città portò a una moltiplicazione di nuovi
movimenti di interpretazione laica del messaggio cristiano; in questo quadro di
conflitto presero forma due movimenti religiosi importanti: i predicatori fondati da
Domenico e i minori fondati da Francesco d’Assisi, detti entrambi ordini mendicanti.
Proponevano un modello fondato sulla rinuncia dei beni, sul lavoro, sulla carità nelle
piazze. Grazie alla capacità di farsi seguire dai ceti urbani svolsero un importante
ruolo di mediazione tra chiesa e laici, e a loro fu affidata l’inquisizione. I predicatori
nacquero nella Francia meridionale a inizio 13 sec da un canonico spagnolo,
Domenico, il quale si rese conto che la predicazione cistercense era inefficace,
perché l’eresia che combattevano (il catarismo) criticava la piega signorile che la
chiesa stava prendendo; ebbe quindi l’intuizione di unire predicazione esemplare e
preparazione dottrinale in grado di rispondere alle teorie eretiche. “Esemplare”
significava fare propri quegli ideali di povertà che la popolazione ammirava, quindi
Domenico scelse di presentarsi vestito umilmente e di accettare il confronto con
tutti. Sostenuto dal vescovo di Tolosa, organizzò un gruppo di seguaci che aumentò
notevolmente in poco tempo, fino a essere approvato da papa Onorio III; qualche

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anno dopo furono redatte le costituzioni, che definivano lo stile di vita domenicano.
Caratteristica principale fu la formazione culturale richiesta ai frati, necessaria per
contrastare le teorie eretiche, e nei conventi doveva esserci un insegnante di
teologia per i giovani monaci.
MINORI: Ordine legato a Francesco d’Assisi, figlio di mercante convertito alla vita
religiosa dopo un incontro coi lebbrosi, che dopo un primo rifiuto imparò ad amare.
Dopo questo incontro iniziò la predicazione coi primi fratelli; sappiamo poco di
questo periodo, ma nel Testamento (suoi scritti negli ultimi anni della sua vita)
accenna a una scrittura, una proto-regola approvata oralmente da Innocenzo III ma
il quale testo non ci è arrivato. Maggiori indicazioni fornisce la regola non bollata
(priva dell’approvazione formale papale) dove si presentano punti fissi dell’ordine
come la rinuncia ai beni (donati ai poveri), il vestiario semplice e il divieto di
possedere beni e di maneggiare soldi. In questo modo Francesco obbligava i frati a
scoprire il valore delle persone, coi quali si poteva ricorrere allo scambio gratuito a
seconda delle necessità. La povertà per lui aveva una doppia dimensione: esterna
(rinuncia ai beni materiali) e interna (rinuncia al proprio io per consentire l’ingresso
di Dio nell’animo), e predicava penitenza ed eucarestia come punti cardine del
percorso di salvezza. Nel 1220 Francesco rinunciò a guidare i minori e a sostituirlo fu
Ugolino d’Ostia, col quale scrisse una seconda regola, approvata dal papa (per
questo detta bollata) che prevedeva un’organizzazione interna più chiara. Si ritirò sul
monte Verna e lì ricevette le stigmate, fatto riportato da lui nel Testamento.
POST FRANCESCO: Il suo culto cominciò a poco dalla sua morte, ma i suoi ideali
divennero campo di battaglia religioso: papa Gregorio IX tolse valore giuridico al
Testamento e riservò l’ingresso nell’ordine a chi era già chierico. Bonaventura da
Bagnoregio scrisse una nuova storia di Francesco, la legenda maior, imponendo la
figura del santo come “altro Cristo”, esempio inimitabile di santità; la nuova
immagine di Francesco serviva a rendere i minori la “colonna” della Chiesa. L’ordine
tornò a spaccarsi per la formazione di un nucleo al suo interno di rigoristi della
povertà detti spirituali, i quali ritenevano che l’ordine non doveva possedere nulla, a
imitazione di Cristo. Il papato reagì prima isolandoli e poi bollandoli come eretici.
FUNZIONI MENDICANTI: Entrambi gli ordini ricevettero il diritto a predicare e
confessare, in concorrenza col clero ordinario. Il successo fu enorme verso i fedeli
del ceto urbano, grazie a una conoscenza diretta dei loro problemi che aiutò a
impostare una nuova predicazione, fatta sugli esempi e su un linguaggio concreto (e
in volgare); si insisteva contro le tentazioni della superbia, ossia l’accumulo di beni e
la presunzione di decidere il proprio destino, che è nelle mani di Dio. Si
classificavano i peccati secondo i casi, ogni categoria sociale aveva le proprie

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debolezze ed era il prete a decidere la gravità del peccato. I laici premevano per una
maggiore partecipazione alla vita religiosa, così molte associazioni laicali furono
approvate dalla chiesa; molte di queste predicavano uno stile di vita moderato, che
li rendeva distinti dal resto dei fedeli, un esempio per gli altri. Lo sviluppo di queste
confraternite (che dovevano essere approvate dalla chiesa e dotarsi di statuto) fu
però incontrollato, motivo per il quale papa Niccolò IV istituì il terz’ordine
francescano, ordine laicale dipendete dai minori; tutti gli ordini mendicanti si
munirono di terzi ordini e in questi i movimenti laicali furono ricondotti.
INQUISIZIONE: Fu affidata ai mendicanti da Innocenzo IV, dividendo l’Italia in due
province. Il capo di imputazione spesso riguardava la frequentazione di un gruppo
sospetto; negli interrogatori le domande erano dirette a scoprire quali persone
erano in contatto con gli eretici, accusare qualcuno di eresia era uno stratagemma
per sottrarsi a quello stesso processo; l’accusa fu usata anche come strumento di
vendetta nei conflitti di fazione. Quando arrivavano in un paese dichiaravano un
periodo di grazia nel quale veniva ascoltato chi aveva da dire, anche se peccatori.
Dopo questo periodo, iniziava il processo contro i sospetti, che potevano riguardare
anche interi villaggi. Le presunte persone eretiche venivano interrogate
singolarmente, e attraverso la tortura si otteneva la confessione. Una volta
capitolato, l’imputato poteva pentirsi (e sfilare in processioni nel paese confessando
le loro colpe) o mantenere la propria fede (ed essere condannati a morte).
USO DELL’ERESIA: Federico II aveva introdotto l’eresia nella sfera politica,
equiparandola al reato di lesa maestà; quando ruppe col papato e venne
scomunicato, venne additato come eretico. La lotta del papato contro l’imperatore si
trasformò in una crociata per la difesa della fede, che proseguì anche contro gli eredi
di Federico e i suoi seguaci; rimanevano in Italia i fedeli degli svevi, come Ezzelino da
Romano, potente nobile che aveva creato un potentato tra Padova e Verona; Ezzelino
aveva instaurato un dominio tirannico violento, e nei documenti papali venne
descritto un agente del demonio, si richiedeva perciò una guerra contro di lui nel
nome di Dio. Un richiamo propagandistico ma che funzionava, perché ormai la fedeltà
politica doveva andare di pari passo con la fedeltà ai dogmi, e l’eresia era un
problema che doveva coinvolgere anche i re.
FILIPPO VI IL BELLO: re di Francia, ebbe un conflitto con Bonifacio VIII che verteva
sull’imposta verso il clero francese (la chiesa era immune dal fisco); il papa minacciò il
re di scomunica e riaffermò il potere del papa su tutti i laici. Bonifacio era un papa
carismatico ma con molti rivali: i Colonna, avversari della sua famiglia, che aveva
scomunicato per eresia sequestrando tutti i beni, e un gruppo corposo di vescovi in
tutta Europa. Filippo accusò Bonifacio di essere un papa eletto illegalmente e mandò

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in Italia il suo cancelliere, che lo fece prigioniero costringendolo a non pubblicare la


bolla di scomunica contro il re; morì un mese dopo. Si aprì il processo contro il papa
defunto, al quale si imputavano eresia e varie nefandezze, processo che si intrecciava
con un’altra causa intentata dal bello nei confronti dei templari francesi, colpiti
probabilmente perché non concessero denaro in prestito al re, che ne necessitava
fortemente. Anche in questo caso, i generali templari furono accusati di eresia e
condotte sessuali illecite. In pochi anni il reato di stregoneria divenne un’accusa usata
spesso per sedare l’opposizione politica.
CHIESA 14 SEC: Giovanni XXII mise sotto accusa alcuni suoi nemici, nonché i principi
ghibellini dell’Italia centro settentrionale; nel corso dei processi furono trovate
statuette di cera con l’immagine del papa, battezzate e usate per colpirlo a morte,
prova che l’evocazione del demonio si avvaleva di strumenti materiali. I processi
lanciati da Giovanni XXII a inizio 14 sec erano segni di un papato sotto attacco,
confinato ad Avignone, e sotto l’influenza diretta del re francese, eppure il
settantennio avignonese rappresentò una fase di sviluppo delle pratiche di gestione
dei beni. Il ritorno a Roma (1378) non pacificò il rapporto con l’episcopato francese,
l’elezione di Urbano VI fu contestata dai vescovi d’oltralpe che elessero a loro volta
un altro papa, Clemente VII, insediato ad Avignone. La crisi portò all’exploit di un
movimento che vedeva la chiesa come un organo fondato sulla collegialità del
concilio; il concilio di Basilea elaborò una teoria ultra-democratica, che portò
all’abbandono dei poteri laici che avevano sostenuto il movimento riformatore, e del
programma elaborato rimase solo il diritto di deporre un papa eretico.
FRANCIA 14-15 SEC: Nel 13-14 sec ci furono i regni di Luigi IX (con lui il territorio si
estese fino alle regioni della Linguadoca, e si tornò a legiferare specialmente contro
gli ufficiali regi e i loro abusi, simbolo di vicinanza i propri sudditi) e Filippo il Bello
(aumento del carico fiscale, scontro col papa, speculazioni finanziarie attuate col
cambio sistematico del valore della moneta, con risultati disastrosi), poi Luigi X, che
dovette affrontare una rivolta dei baroni che lo costrinse a concedere ampia
autonomia ai paesi ribelli, atto importante perché le carte di libertà presentate dai
principati miravano al controllo su giustizia e fiscalità, minando la stabilità regia. Col
passaggio del regno ai Valois si riaccese lo scontro con gli inglesi che avanzavano
pretese dinastiche sul trono francese (Edoardo III era imparentato coi capetingi,
precedente famiglia reale). Fu una guerra lunga (detta dei cent’anni) e mise in luce
le debolezze del regno francese: esercito lento, sistema fiscale imperfetto e
conseguente incapacità di finanziare conflitti duraturi, frammentazione delle zone.
La Borgogna si rivoltò, le regioni del sud furono assorbite dai regni spagnoli, il regno
si riscoprì ridotto e accerchiato. Nella prima fase della guerra l’esercito francese

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perse più volte (1356-Poiters, re Giovanni il Buono preso prigioniero). Nella seconda
fase si registrò una spaccatura dell’aristocrazia francese, cominciata nel 1392 dallo
scontro di due membri della corte che tentavano di influenzare le azioni di re Carlo
VI, il duca di Borgogna Giovanni senza paura e il fratello del re, Luigi duca d’Orléans,
scontro nato quando quest’ultimo impose senza l’approvazione della corte una
nuova tassa. Presero forma due partiti, gli armagnacchi (fedeli a Luigi, sostenitori di
un apparato centralizzato e un sistema fiscale pesante) e i borgognoni (fedeli al
duca, sostenitori di un’autonomia dei territori e di un sistema fiscale meno
opprimente), questi ultimi presero il controllo della Francia settentrionale, mentre i
primi crearono un regno itinerante nelle regioni centrali (detto regno di Bourges).
FINE GUERRA 100 ANNI: La situazione mutò ancora quando in seguito al trattato di
Troyes il re inglese Enrico V sposò la figlia di Carlo VI, che elesse come suo
successore Enrico. Alla morte dei due, l’erede inglese Enrico VI richiedeva il trono
francese (appoggiato dai borgononi) ma dovette scontrarsi con Carlo VII (figlio del
precedente re, appoggiato dagli armagnacchi); in questi anni si svolsero le imprese
di Giovanna d’Arco (1428-1431), condottiera ispirata dalle voci divine che gli
indicarono Carlo VII come legittimo re, e, autorizzata da questo a combattere, fu
protagonista di varie imprese (difesa di Orlèans dall’assedio inglese, riconquiste di
città), e messa al servizio della propaganda regia, anche dopo la sua morte per
stregoneria (eseguita da un vescovo vicino ai borgognoni). Nell’ultimo ventennio la
guerra si risolse pro-Francia, con una serie di campagne vittoriose che permisero a
Carlo VII di riconquistare ampi territori in mano agli inglesi. Luigi XI provò a
riaffermare la sua sovranità sui principati, ma gli si contrappose un fronte vasto, che
andava da suo fratello Carlo ai signori di Armagnac; contro questi ultimi mise in atto
una repressione giudiziaria una volta accusati di lesa maestà. Puntava, insomma, a
sancire la sua superiorità con la forza. Ma il rafforzamento dello stato si ebbe
specialmente con le morti senza eredi dei principi vassalli, i quali territori venivano
consegnati al re di Francia, ultima annessione la Bretagna, grazie al matrimonio con
la principessa ereditaria (1498).
INGHILTERRA 14-15 SEC: Nel quattrocento persisteva un vuoto di potere regale
dovuto a una striscia di re deposti o uccisi che alimentò l’importanza del
parlamento, che assunse un ruolo di controllo della politica regia ma non risolse il
problema della stabilità, perché i baroni erano anche potenti signori locali che
favorirono un frazionamento del regno in ducati semi-indipendenti. La corona era
contesa tra la casa di Lancaster e quella di York, e la guerra che scoppiò (delle due
rose) terminò con l’ascesa al trono dei Tudor (1485).

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SPAGNA 14-15 SEC: Le lotte intestine per la corona determinarono cambiamenti a


catena delle dinastie. Le vicende dei regni rimasero legate tra loro, a partire dal
tessuto di relazioni parentali tra i diversi re. La struttura interna dei regni era
diversificata tra loro: se in tutti i re dovevano confrontarsi con assemblee (le cortes),
il ruolo di queste variava da caso in caso. In Castiglia non comprendevano nobili ed
erano formate da rappresentanti delle città (i letrados) che trovarono nel rapporto
col re un sistema d’ascesa sociale e divennero i più grandi difensori della monarchia
assoluta e del suo potere di imporre le tasse. In Catalogna e Aragona (dove le cortes
includevano chiesa, nobiltà e città) ebbero ampi poteri su finanze e legislazione. Le
cortes crearono istituzioni permanenti, le deputazioni, che riscuotevano una tassa
sulle produzioni tessili e stipendiavano una loro milizia; questa struttura pose un
freno alla formazione di una monarchia centralizzata. Un matrimonio portò
all’unione delle corone di Castiglia e Aragona, ma l’unificazione si ebbe con la caduta
dell’ultima enclave musulmana a Granada e l’assorbimento del regno di Navarra
(1512).
GERMANIA 14-15 SEC: Fra duecento e quattrocento l’impero perse l’unione dei
regno di Borgogna, Germania e Italia. La prima era divisa fra il ducato (francese) e la
contea (imperiale); la terza (anche se formalmente sotto l’impero) era divenuta
autonoma, l’ultimo re che provò a includerla fu Enrico VII, gli imperatori successivi si
concentrarono su Germania e regni dell’est. Ma il loro potere era limitato, perché la
bolla d’oro del 1356 concessa da Carlo IV conferiva ai principi elettori autonomia
giurisdizionale nei loro territori, elettori che si impadronirono anche del potere di
deporre il re. Tra i principi non elettori gli Asburgo rivendicavano l’autonomia del
ducato austriaco, Rodolfo IV infatti rese pubblico il privilegio grande, un diploma
falso che concedeva all’Austria indipendenza dall’impero, con una propria
cancelleria e l’incoronazione del duca; ciò non impedì i suoi successori di accedere al
titolo imperiale e di mantenerlo fino al 19 sec. I tentativi dei re di legiferare per
conto di tutto il regno furono di scarso successo: nella dieta di Worms del 1495
Massimiliano d’Asburgo cercò di imporre una tassa per tutti i territori del regno ma,
trovando numerose resistenze, essa non venne applicata. L’espansione verso est e la
difesa dei confini da pagani e turchi divennero i compiti principali della nuova
struttura del sacro romano impero.
REGNI DELL’EST: I regni di Boemia (legato alle sorti imperiali, dato che il re era uno
dei 7 principi elettori), Ungheria e Polonia erano regni di “frontiera”, difensori dei
confini della cristianità, e i loro destini legati da parentele coi principi europei e tra le
famiglie dei regni stessi, che in periodi diversi si unirono a due o a tre; queste unioni
furono possibili perché le aristocrazie decisero di delegare parte del potere a una

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persona esterna ai regni, al quale veniva riconosciuto un coordinamento della


politica sovralocale. Tutti e tre avevano istituzioni forti, consistenti in una Dieta o in
Stati generali, sottoposti a una forte nobiltà bipartita in due livelli: un livello alto, di
magnati (Ungheria) e cavalieri (Boemia), e un livello inferiore, formata dalla piccola e
media nobiltà (Polonia).
STATO OTTOMANO: Ha avuto una storia lunga e le conquiste dell’Anatolia e delle
regioni bizantine furono il risultato dell’unificazione politica dell’élite delle tribù
turcomanne. Forte la spinta ideologica della guerra santa nelle loro campagne, una
componente che permise di inglobare civiltà diverse sotto al stessa struttura
sovralocale in nome della missione spirituale. Da metà trecento l’espansione
ottomana fu inarrestabile, assoggettando Macedonia, Bulgaria, Albania e parte
dell’Ungheria. La presa di Bisanzio del 1453 sotto Maometto II segnò la fine del
dominio bizantino e l’inizio del processo di unificazione della regione. L’impero
ottomano rappresentò un nemico che alimentava le ideologie religiose occidentali
che spinsero verso una serie di crociate di nessun successo, ma che mostrarono la
duplicità dei regni europei, spesso alleate economiche e politiche del sultano.
ITALIA 14-15 SEC: Nei primi anni del trecento il territorio era diviso in piccoli stati
autonomi che univano più dominazioni cittadine in compagine nuove, di origini
differenti. La prima generazione di signorie cittadine erano dominazioni bisognose di
legittimazioni, come deleghe, o prolungamenti della durata della carica di podestà o
capitano da parte dei consigli comunali. Processo che dovettero seguire anche i
Visconti di Milano, che con l’uso della forza o di una pattuizione concordata
sottomisero le maggiori città lombarde e piemontesi. I Visconti si presentavano
come restauratori dei centri urbani dilaniati dalle lotte civili, con pretese verso la
città e i loro statuti di natura quasi regia, pretese poco fondate, come riuscì a
dimostrare il giurista Bartolo da Sassoferrato, sostenendo che il conferimento della
podestà ai Visconti era condizionata dalla presenza dei loro signori armati nelle
assemblee, per questo per il giurista erano tuttalpiù tiranni.
STATI SIGNORILI: Sul piano politico, la costruzione dello stato regionale procedette
con l’acquisizione in blocchi separati dei territori che patteggiavano col signore modi
e forme dell’ingresso nel dominio. Il ducato sabaudo riuscì ad unire nel 1418 il
principato d’Acaia (che comprendeva Torino e il Piemonte) con la Savoia, oltre le
Alpi; le pretese del papato per i territori dello stato della Chiesa rimasero a lungo
disconosciute dai signori, le ribellioni furono costanti, e la cattività avignonese
accelerò la formazione di signorie autonome dal carattere statale; il ducato venero
estendeva la dominazione a sistemi cittadini preesistenti (Padova, Treviso, Verona),
rispettando la struttura comunale della città, quindi l’ordine locale era affidato alle

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aristocrazie cittadine, dietro un controllo di un rettore veneziano residente in città;


lo stato fiorentino fu improntato in un’opera di ridefinizione dei contadi, affidati a
governatori provenienti da Firenze, affidamento che significò un distacco dal
territorio per le città soggette. La chiave di volta degli stati signorili fu la capacità di
assicurare un rapporto diretto tra centro e singole comunità del dominio,
garantendo a queste ampia autonomia ma allo stesso tempo assicurandosi il
controllo sulle scelte politiche attraverso magistrati esterni affiancati ai collegi
cittadini. Forti scontri si ebbero invece con le signorie locali, insediati nei castelli che
costellavano i contadi e che rivendicavano autonomia politica del territorio. I principi
riconobbero le signorie locali con un’investitura feudale che cambiava di significato:
da fedeltà militare a soggezione politica. Gli stati signorili avevano le loro falle nella
già citata questione di legittimità e nell’incapacità di concepire la successione come
elemento ordinario dello Stato: alla morte del principe scoppiavano continue lotte
dinastiche per il titolo o per parti del principato, che veniva così smembrato.
REGNI D’ITALIA: Nel 1282 il passaggio della Sicilia del re d’Aragona dopo una rivolta
popolare a Palermo (i vespri siciliani) contro gli angioini. Il regno investì di compiti di
autogoverno l’aristocrazia isolana e concesse ai cavalieri di trasmettere in eredità i
propri feudi. Punto di debolezza la vendita di beni demaniali per aumentare le
entrate, il che rafforzò i poteri baronali a metà del trecento; una fase di instabilità
portò a un governo (poco documentato) condiviso da quattro vicari che si spartirono
l’isola, e poi alla nascita di centri che non riconoscevano il re. Crisi simile si ebbe col
regno di Napoli, quando la successione fu contesa da due rami della stessa famiglia, i
d’Angiò di Provenza e gli Angiò d’Ungheria; le due corti si scontrarono in una lunga
guerra nella quale si inserì il re d’Aragona Alfonso il Magnanimo, che nel 1442
conquistò il regno. Lo stesso confermò a molti feudatari l’alta giustizia ed esenzioni
fiscali, ne approfittò il principe di Taranto, Orsini, il quale costruì un dominato che
andava dalla Puglia alla Basilicata, e aveva aspirazioni regali. Nonostante il privilegio
di non prestare omaggio feudale al re, nel 1463, dopo la sua morte, il principato
venne smantellato dal re Ferrante d’Aragona. Nella mente dei re, le concessioni
erano revocabili e le competenze (anche ampie) date ai sudditi erano in funzione del
governo regio. La riforma fiscale promossa dal Magnanimo aveva portato alla
redazione di catasti per censire le proprietà dei sudditi e tassarli in proporzione ai
loro beni. In definitiva, la compartecipazione all’amministrazione statale dei baroni
(per la giustizia) e della città (per il fisco) rese la monarchia aragonese solida.
FIRENZE, VENEZIA: La prima era rimasta una repubblica, con istituzioni consiliari e
aperte, ma nel trecento si affermò un élite che rivendicava un governo oligarchico
che prendeva le decisioni più importanti; strumento fondamentale fu la costruzione

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del monte delle prestanze, istituto che stabilizzava il debito pubblico: la città aveva
chiesto prestiti ai cittadini, restituendo però solo gli interessi, spingendo a comprare
delle cedole del debito pubblico, che potevano essere vendute e usate come denaro
cartaceo; il metodo ebbe successo e la repubblica ottenne grosse quantità di soldi.
Questo sistema fu utilizzato anche a Genova e Venezia, che avevano costruito vasti
domini coloniali, e la seconda riuscì a sottomettere anche parte della costa della
Dalmazia. I sistemi istituzionali veneti riconobbero la necessità di un capo supremo
(doge), contornato da una serie di consigli che bilanciassero i poteri nell’aristocrazia
urbana. Questo bilanciamento permise a tutta l’aristocrazia di partecipare alla vita
politica, ma si trattava di una società bloccata: dal 1297 il Maggior Consiglio segnò le
famiglie che potevano partecipare al governo.
COMPETIZIONI: Firenze contrastò il tentativo egemonico dei Visconti nell’Italia
centrale, con Venezia prima alleata e poi nemica di Milano; la pace di Lodi (1454) tra
le ultime due città citate (garantita da una lega italica tra i maggiori stati) non evitò
le invasioni straniere di fine quattrocento (Carlo VIII nel 1494 e Luigi XII nel 1499) e
l’inglobamento del ducato milanese nel regno di Francia sancì una rottura negli stati
principeschi italiani; la struttura regionale resistette ma le signorie contarono
sempre meno. Durarono di più Firenze, Venezia e stato della Chiesa ma dovevano
fare i conti con monarchie le europee che dominavano la penisola a nord e a sud.

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