Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Anna Dolfi
Gli intellettuali/scrittori
ebrei e il dovere della
testimonianza
In ricordo di Giorgio Bassani
FIRENZE
UNIVERSITY
PRESS
MODERNA/COMPARATA
— 21 —
MODERNA/COMPARATA
COLLANA DIRETTA DA
Anna Dolfi – Università di Firenze
COMITATO SCIENTIFICO
Marco Ariani – Università di Roma III
Enza Biagini – Università di Firenze
Giuditta Rosowsky – Université de Paris VIII
Evanghelia Stead – Université de Versailles Saint-Quentin
Gianni Venturi – Università di Firenze
Gli intellettuali/scrittori ebrei
e il dovere della testimonianza
In ricordo di Giorgio Bassani
a cura di
Anna Dolfi
http://digital.casalini.it/9788864535623
BASSANI 1916/2016
Con il patrocinio di
La presente opera è rilasciata nei termini della licenza Creative Commons Attribution 4.0 International
(CC BY 4.0: https://creativecommons.org/licenses/by/4.0/legalcode).
EBRAISMO E MEMORIA
SEMANTICA E TESTIMONIANZA
LA RIMOZIONE 173
Laura Barile
1. Fortini, Vittorini, «Il Politecnico» 174
2. Tre storie editoriali e «Se questo è un uomo» 178
3. Saba e «Il Ponte» 181
4. L’imprescrittibile, gli intellettuali francesi, «Combat» e «Les Temps Modernes» 183
5. Amos Oz e Israele 184
6. Teatro, cinema, tv 185
UN MODO NEL MONDO: LA VITA NON È ALTROVE 189
Carlo Carlucci
INDICE 9
SCRIVERE LA MEMORIA
INTERSEZIONI AFFETTIVO-SEMANTICHE
TRA MEMORIA E TESTIMONIANZA
Francesca Nencioni
1. La «vocazione alla solitudine»: un intreccio tra carattere e destino 559
2. Semantica della memoria 562
3. Semantica della testimonianza 569
4. Semantica dell’isolamento, tra memoria e testimonianza 576
UNA LAPIDE IN VIA MAZZINI: LA VERA STORIA GEO JOSZ 581
Marcella Hannà Ravenna
1. Geo Josz, il protagonista del racconto di Bassani 581
2. Eugenio Ravenna, l’ispiratore del racconto 584
3. Gli anni della persecuzione e della deportazione 585
4. Il ritorno a Ferrara 592
DALL’ARCHIVIO DI MIO PADRE 597
Paola Bassani
Andrea Cortellessa
1
Questo intervento risulta dall’ampliamento di due recensioni: quella alla monografia di
Marco Belpoliti, Primo Levi. Di fronte e di profilo, edita da Guanda nell’agosto del 2015 (uscita
su «Tuttolibri» il 3 ottobre 2015), e quella della nuova edizione delle Opere complete di Levi, a
cura dello stesso Belpoliti, pubblicata in due volumi da Einaudi nell’ottobre del 2016 (uscita su
<http://www.alfabeta2.it> il 29 gennaio 2017).
686 ANDREA CORTELLESSA
Ha fatto la strada più lunga, Levi. E non solo al ritorno da Auschwitz, quan-
do per tornare a Torino – come racconta lui stesso nella Tregua – ci mise quasi
nove mesi, passando dall’Ucraina e dalla Romania. Fino al 1977, quando andrà
finalmente in pensione dalla professione di chimico (nella quale s’era impiega-
to all’arrivo a casa, prima alla Duco-Montecatini di Avigliana poi alla Siva di
Settimo Torinese; al mondo della fabbrica dedicherà un intero libro nel ’78, La
chiave a stella), Levi resta uno scrittore semiprofessionista – «scrittore non scrit-
tore», si definisce lui stesso in quegli anni; quasi alla lettera uno «scrittore del-
la domenica»: che solo nelle pause del suo «primo mestiere», cioè, può attende-
re alla propria scrittura. Sicché si deve essenzialmente all’edizione che delle sue
opere diede vent’anni fa una prima volta Belpoliti (nella gloriosa, perenta NUE;
di quella storica edizione, nella nuova e fastosa appena uscita, si conserva il sag-
gio introduttivo di Daniele Del Giudice ma per il resto – come dirò più avanti
– appare completamente rinnovata), se – come annota lui stesso nell’Avverten-
za del curatore – oggi Levi è considerato, invece, «uno scrittore a tutto tondo».
Dato, questo, che si può misurare proprio considerando il mutare, negli ultimi
vent’anni, della sua fortuna.
Non è peraltro l’unico né il primo Levi, fra gli autori di primo piano nel
nostro Novecento letterario, ad aver dovuto alternare le «due culture», e le due
professioni a loro collegate; basti pensare a Gadda. Se dunque Levi non venne
considerato, né si considerò lui stesso, un «vero» scrittore (a differenza di quan-
to sin dall’esordio capitò a Gadda, ancorché presso i soliti happy few), dipese da
un’altra ambivalenza – di questa più sottile, e più decisiva. Nel 1981 riprende
in questi termini, Levi, la sua icona-autoritratto del «centauro»: «Italiano, ma
ebreo. Chimico, ma scrittore. Deportato, ma non tanto (o non sempre) dispo-
sto al lamento e alla querela». Lasciando l’ambivalenza più cruciale nella pen-
na: quella di scrittore ma testimone (o viceversa). Due identità che, per l’idea di
letteratura in cui si era formato, facevano a pugni (e possono ingenerare, tutto-
ra, mille equivoci). Atto mancato da manuale, nel ’66, la pubblicazione del suo
primo libro di racconti fantastici (e comunque del primo, dopo Se questo è un
uomo e La tregua, che non facesse esplicito riferimento all’esperienza del Lager)
sotto un imbarazzato pseudonimo, quello di Damiano Malabaila (per però ri-
affermare la propria identità nel risvolto di copertina e nelle interviste promo-
zionali): episodio più macroscopico di un conflitto che resta sotteso a tutta la
sua vicenda di scrittore.
Eppure era chiarissimo a lui per primo, che quei racconti (come dice in un’in-
tervista del ’72) si «prestassero a una forma moderna di allegoria». E anzi si può
parlare – per quello che Belpoliti ha definito, ricostruendolo nei dettagli, il suo
«macrotesto del Lager» – di una vera e propria chiave a stella: la stella gialla, a
sei punte, che gli ebrei erano costretti a indossare (in un’intervista tarda dice
Levi: «a mio parere un libro, o anche un racconto, ha tanto più valore quanto
più numerose sono le chiavi in cui può essere letto e quindi sono vere tutte le
interpretazioni, anzi più interpretazioni un racconto può dare, più un racconto
688 ANDREA CORTELLESSA
stano il testo dall’area del memoriale a quella piuttosto del «saggio». Ed è infatti
nella collana «Saggi» che il libro all’inizio viene collocato da Einaudi, ancorché
Calvino – probabile estensore del risvolto – lo definisca nell’occasione «un testo
d’esemplare valore della nostra letteratura»; solo nel ’63, dopo il successo della
Tregua, Se questo è un uomo verrà accolto in una collana a pieno titolo letteraria,
quella dei «Coralli». Ma la cosa più giusta l’aveva detta Franco Antonicelli (che
aveva accolto con entusiasmo Se questo è un uomo, nel ’47, presso le torinesi edi-
zioni Da Silva da lui dirette): nella quarta aveva scritto che «la sua testimonian-
za riesce ad essere nello stesso tempo quella di un uomo e di un letterato», e re-
censendo nel ’58 l’edizione Einaudi così definirà il libro sulla «Stampa»: «un ca-
polavoro anche dal punto di vista letterario, o dirò più chiaramente è un capo-
lavoro letterario proprio per l’impulso e il freno meditatissimi che la pudica ve-
rità e il profondo senso morale hanno impresso sulla nuda cronaca».
Con scelta opinabile dal punto di vista strettamente filologico, ma assai con-
vincente invece da quello letterario, la più evidente novità introdotta proprio
in apertura dalla nuova edizione è la proposta – prima dell’edizione einaudiana,
quella che tutti abbiamo letto – della princeps: quella che, rifiutata da Einaudi,
venne pubblicata appunto dalla piccola De Silva. In questo modo tutti, non solo
i filologi, possono apprezzare il lavoro ‘letterario’ fatto da Levi. A Nico Orengo,
nell’85, rilasciò un’intervista breve ma molto importante (riportata da Ernesto
Ferrero nella ricchissima Cronologia che correda i volumi einaudiani), nella qua-
le spiegò non solo i termini di quel rifiuto, a posteriori clamoroso, ma anche al-
tri aspetti decisivi: «Avevo scritto dei racconti al termine della prigionia. Li ave-
vo scritti senza rendermi conto che potessero essere un libro. I miei amici del-
la Resistenza dopo averli letti mi dissero di “arrotondarli”, di farne libro. Era il
’47, lo portai all’Einaudi. Ebbe varie letture, toccò all’amica Natalia Ginzburg
dirmi che a loro non interessava».
In uno dei racconti autobiografici raccolti nel ’75 nel Sistema periodico,
«Cromo», definisce Levi il suo primo libro «intricato e gremito, come un termi-
taio»: e tale in effetti si presenta, come s’è visto, la sua composizione. In un’al-
tra intervista tarda (quella, a sua volta riportata nella Cronologia, rilasciata alla
fine dello stesso ’85 a «The Literary Magazine») aggiungerà Levi: «Durante que-
sti quarant’anni ho costruito una sorta di leggenda attorno a quest’opera, affer-
mando che l’ho scritta senza alcuna pianificazione, di getto, senza meditarci so-
pra. Le altre persone con le quali ho parlato di questo libro hanno accettato la
leggenda. In realtà, la scrittura non è mai spontanea. Ora che ci penso, capisco
che questo libro è colmo di letteratura». Non solo Se questo è un uomo, come si
vede, ha «radici» lunghe e piuttosto intricate (un’altra novità importante della
nuova edizione einaudiana è la promozione a testo di Levi a pieno titolo di un
libro-chiave, è il caso di dire, come La ricerca delle radici: l’antologia persona-
le che in precedenza figurava in appendice e in corpo minore); lo stesso Levi lo
definirà – nell’opera sua ultima e testamentaria, I sommersi e i salvati – «un li-
bro di dimensioni modeste, ma [che], come un animale nomade, ormai da qua-
690 ANDREA CORTELLESSA
rant’anni si lascia dietro una traccia lunga e intricata». Nella nuova edizione ven-
gono proposte infatti, oltre come detto alle due edizioni (1947 e 1958) del te-
sto, la sua versione radiofonica – realizzata dallo stesso Levi nel ’64, per la regia
di Giorgio Bandini, beckettiano fervente –, quella teatrale del ’66 e quella per
le scuole del ’73 (corredata, come i successivi La tregua, Il sistema periodico e La
chiave a stella, di ovviamente interessantissime note redatte dallo stesso Levi).
Ma soprattutto leggiamo, in un testo come si capisce cruciale ora rivisto alla
luce delle ultime acquisizioni filologiche, quello che si presenta come l’Ur-Text
del «macrotesto del Lager» (e invece, spiega Belpoliti, tale in effetti non è: perché
già questo venne ricostruito dai suoi estensori rielaborando la loro deposizione
manoscritta, in francese, consegnata ai sovietici all’indomani della Liberazione
del 27 gennaio 1945): il Rapporto sulla organizzazione igienico-sanitaria nel cam-
po di concentramento per ebrei di Monowitz (Auschwitz-Alta Slesia) redatto da Levi
insieme al medico Leonardo De Benedetti e pubblicato dalla rivista «Minerva
Medica» nel novembre del ’46 (ma Levi si premura di depositarne subito una
copia da un lato alla comunità ebraica di Torino e, dall’altro, all’Ufficio storico
del CLN: doppia destinazione eloquente). A differenza di Se questo è un uomo –
dove Levi si fa un punto d’onore di riportare solo ciò cui ha assistito coi propri
occhi –, nel Rapporto si parla anche delle camere a gas, introdotte da un cauto
quanto preciso «ci risulta». Come dice Belpoliti, è all’opera già in questa sede
un «doppio sguardo»: quello della vittima e, insieme, quello del testimone «in-
formato dei fatti» (ci si ricorda dell’autoanalisi all’inizio della Tregua, quando
Levi confronta il proprio sguardo con quello dei soldati russi «dall’alto dei loro
destrieri»). Il giro di vite quarant’anni dopo compiuto da Levi con quello che è
il suo capolavoro, la nuova e definitiva forma-saggio I sommersi e i salvati (che
non a caso riprende il titolo a suo tempo pensato per il primo libro, e rimasto
a intitolare un suo capitolo), consiste proprio nel perfezionare e sistematizzare
quel «doppio sguardo»: integrando in un’ulteriore forma-centauro la propria te-
stimonianza personale con la massa imponente, e torturante, di quello che sulla
Shoah, in quei quarant’anni, Levi aveva letto visto e ascoltato. Ottenendo il mi-
racolo di trascendere la propria testimonianza e, insieme, di inverarla su un pia-
no non più soggettivo ma universale e, diciamo con termine spesso abusato ma
in questo caso credo legittimo, filosofico: riuscendo così uno dei testi maggiori
del nostro Novecento letterario e insieme in assoluto, forse, il maggiore che sia
mai stato scritto sull’evento più importante della storia umana.
Già nel 2015 Fabio Levi e Domenico Scarpa, nel volume Così fu Auschwitz
pure pubblicato da Einaudi, hanno affiancato questo documento fondamentale
ad altre testimonianze giurate (una prima volta raccolte nel volume Da una tre-
gua all’altra. Auschwitz-Torino sessant’anni dopo, Chiarelettere 2010) che a Levi
vennero più avanti richieste dai tribunali impegnati a processare i responsabi-
li dei Campi nei quali era stato recluso (da Friedrich Bosshammer, re di quel-
lo di Fossoli in Emilia, sino ai più famigerati Höss, Mengele, Eichmann): ri-
prodotti con la massima fedeltà, questi testi pongono una quantità di questio-
PRIMO LEVI, IL DOPPIO LEGAME 691
ni cruciali (si pensi solo al dibattito tra storici e giuristi sulla nozione di prova),
ma soprattutto consentono ora di apprezzare la differenza sostanziale fra testi,
come questi, di natura esclusivamente testimoniale (tale anche in senso «tecni-
co», forense: condannato all’ergastolo anche in seguito alla deposizione di Levi,
Bosshammer morirà in carcere due anni dopo) e testi, come Se questo è un uomo,
che a tale natura affiancano – alla maniera, una volta di più, del centauro – quel-
la appunto letteraria.
Un altro episodio eloquente – sul quale s’incentra quello che è il capitolo-
chiave della monografia di Belpoliti – è quello del racconto «Vanadio», compre-
so nel Sistema periodico, in cui Levi narra dell’incontro con un collega chimico
tedesco, Ferdinand Meyer (ribattezzato nel racconto «dottor Müller», colui che
«non si rende conto»), addetto all’I.G. Farben: l’azienda cioè che produceva lo
Zyklon B, il gas usato ad Auschwitz. A fare da tramite era stata Hety Schmitt-
Maass (rappresentante politica comunale di Wiesbaden a sua volta sposata con
un chimico della I.G. Farben, ma figlia di un pedagogista socialista deportato
a Dachau: il carteggio di Levi con lei, ampiamente citato da Belpoliti, si rive-
la una testimonianza chiave). Attraverso il confronto con le autentiche lettere
che Levi si scambiò nel ’67 con Meyer – che alla fine della stremante contesa,
come il comandante di Treblinka Franz Stangl nel gran libro di Gitta Sereny, In
quelle tenebre, rimase vittima di un infarto – è possibile capire le strategie reto-
riche, nonché l’impianto morale, della scrittura di Levi: il quale ‘arrotonda’ l’e-
pisodio in diverse maniere, anzitutto censurandone il traumatico finale (a Hety
confesserà di «aver seguito i tentativi del chimico tedesco di esorcizzare il pas-
sato con una sorta di impazienza, “senza la reale volontà di essergli di aiuto”»),
e che avrà modo di commentare: «se questa storia fosse inventata, avrei potuto
introdurre solo due tipi di lettera; una lettera umile, calda, cristiana, di tedesco
redento; una ribalda, superba, glaciale da nazista pervicace». Ma «poiché que-
sta storia non è inventata», la realtà «risulta sempre più complessa dell’invenzio-
ne: meno pettinata, più ruvida, meno rotonda. È raro che giaccia su un piano».
Ha scritto Mario Barenghi (nella «Lezione Primo Levi» pubblicata nel 2013
da Einaudi col titolo Perché crediamo a Primo Levi?) che se oggi i testi di Levi
sono divenuti, a livello internazionale, le testimonianze per eccellenza sulla
Shoah – quelle che tutti ricordiamo, cioè, a differenza dei numerosi documenti
che si affollarono in libreria al ritorno dai Campi (e la cui mole, stando a Natalia
Ginzburg, nel ’47 fece propendere Cesare Pavese a rinunciare a quello di Levi)
– è proprio per la loro natura letteraria. È precisamente l’opera di formalizzazio-
ne – l’‘arrotondamento’ della testimonianza nuda e cruda, al quale Levi attese
prima e dopo la prima pubblicazione di Se questo è un uomo – che ha reso quel-
la sua testimonianza memorabile: e dunque utile: e dunque credibile.
Se oggi il lungo viaggio di Levi verso la dimensione di scrittore ‘vero’ appare
giunto al suo approdo definitivo lo si deve anche, se non soprattutto, a un mu-
tamento di prospettiva prodottosi, prima che da noi, in una cultura dalla no-
stra letterariamente molto distante come quella statunitense. Non solo perché
692 ANDREA CORTELLESSA